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Biblioteca EcletticaE
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Collana: EcletticaE-book
Giovanna Mulas
Lughe de Chelu
(e Jenna de Bentu)
Gruppo Officinae. net 2003
Giovanna Mulas nasce a Nuoro il 6 maggio del 1969
da Paolo Mulas, impiegato alle poste e Paola Abis,
infermiera. Ha un fratello, Antonio, minore di lei di
quattro anni.
Cresce nel “Monte Gurtei”, zona difficile della città,
compie gli studi ad indirizzo tecnico-psicologico, si
specializza come stilista di moda e figurinista, dipinge,
scrive in sordina come ha sempre fatto dall’età di dieci
anni. La psicolabilità della madre, già cagionevole in
salute, si accentua. Vince una borsa di studio che la
porta a Roma a lavorare per i laboratori stilistico
sartoriali Moschino. L’ambiente lavorativo settoriale
non la soddisfa, decide di tornare in Sardegna. Impiego
nel commercio. Conosce G. Antonio Collari, lo sposa.
E’ il 1991. Dall’unione nascono Fabio, Noemi, Roberto
ed Emanuele. E’ il momento in cui la passione per la
pittura cresce, nascono “paesaggi marini sardi”, “Autoritratto”, “Studio di bambina al
gioco”. Occupazioni nel settore commerciale ed assicurativo, nel frattempo la Mulas
continua a scrivere, vince il primo Premio letterario internazionale (ne seguiranno altri
cinquantuno) che apre le porte per la pubblicazione a “Passaggi per L’Anima” nel 1994. Il
libro è accolto tiepidamente dal pubblico, la critica è benevola, il saggista inglese S. Wood
definisce la Mulas “Talento allo stato puro”. Harald Kahnemann dell’agenzia letteraria
Eulama le propone una scrittura per la traduzione delle opere all’estero, la scrittrice
stringe col Kahnemann un’amicizia che si protrae negli anni. Vengono pubblicati “La
Musa” e “Barchette di Carta”, il saggio “Le lettere e le Arti”. Dipinge “Fiore Donna” e
“Dentro”. Si dedica alla critica letteraria, al giornalismo specializzato. E’ il 1999, diviene
pluriaccademica al merito, socio, delegato, presidente onorario di Associazioni della
cultura nazionali ed estere. Suoi racconti vengono tradotti in Francia, Germania, Spagna.
Conosce Peter Irwin Russell e nasce un intensa amicizia. La scrittrice si batterà a lungo
per fargli ottenere la cittadinanza italiana e relativi favoritismi socio economici che la legge
comporta. Il forte rapporto epistolare dura fino alla morte del poeta. La Mulas pubblica le
sillogi poetiche “Come le foglie”, “Canticum Praesagum” e “Dei Versi”, il romanzo “La
stanza degli specchi”. Di seguito “Il tempo di un’estate”. Nel 2001 la separazione dal
marito e, da questo, tre tentativi di omicidio. L’ultimo, per strangolamento ed
accoltellamento la vede viva ma debilitata nel fisico e lo spirito. E’ il periodo che l’ Autrice
definirà “del buio”, della profonda depressione, della crisi artistica e intima. Si lega allo
scrittore Gavino Ledda; l’unione durerà fino al 2003. Nomination al Nobel per la
letteratura. Schiva e riservata (- Dev’essere il libro, a parlare, non l’autore -), comincia a
lavorare a sceneggiature destinate alla fiction tedesca. La rivista milanese “Luna” rientra
l’Autrice tra le 3000 “Beatrici”, donne più potenti d’Italia. La scrittrice pubblica “Lughe de
Chelu (e Jenna de bentu), ed è la ‘luce’; lo stile è nuovo, potente e sofferto, maturo. E’
opera, come la stessa autrice dichiarerà, parzialmente autobiografica. Viaggi (- …Fin
quanto è possibile viaggiare, con quattro bambini da crescere-), frequentazioni nei salotti
letterari nazionali ed esteri. Scrive, per sostenerne la causa, le prefazioni dei tre libriverità di Evelino Loi, ex detenuto e presidente dell’associazione nazionale detenuti non
violenti. Pubblica la raccolta di racconti “Il rumore degli alberi”, contemporaneamente
termina la sceneggiatura omonima. Termina la stesura di “Mater Doloris”, poi riveduto
come Mater Doloris-mama de sa suferentzia, in sardo/italiano. MAG- The Muse
Apprentice Guild, organo d’informazione libraria statunitense, pubblica i racconti “In the
Highest part of the sky”, (nella parte più alta del cielo), “The Phoenix” (La fenice),
“Seminatori di stelle” versione originale e, a puntate, la prima versione di “Mater Doloris”.
IL PALAVREIROS brasiliano pubblica le poesie. Lo spagnolo DOS ISLAS DOS MARES
pubblica “Lughe de Chelu” in versione originale. TRANSFERENCE del Regno Unito
pubblica della Mulas in the Student’S Corner ‘La Condizione Femminile nella Grecia di
Pericle’. “Nuove Lettere”, fondato da Dario Bellezza e redatto da Alberto Bevilacqua,
Constantin Frosin, Maria Luisa Speziali premia “Seminatori di stelle” col Primo Premio
Narrativa Inedita 2004.
L’AGEBOOK, Casa Editrice Digitale, pubblica, in ristampa, La Musa.
Juan Fernando Cobo A, Director de LA RIVISTA CULTURAL LATINOAMERICANA da
Identidad y Engrandece a los pueblos Gente di Talento, Colombia, pubblica della Mulas le
opere in lingua originale. L’ACADEMIA BRASILEIRA DE LETRAS, Brasile, pubblica I
migliori racconti nominando l’Autrice membro onorario, l’Editrice EL TALLER DEL
POETA, Espana, pubblica la silloge A Silent Refuge - su locu mudu -, Poems. L’Editrice
Universitaria UNIService pubblica Mater Doloris — mama de sa suferentzia.
Attualmente l’Autrice lavora alla biografia del Tenente Generale Angelino Usai, primo
storiografo d’Ogliastra e al saggio “Penelope che parlava alle pietre”, ampliamento del già
discusso “Al di là del bene e del male”.
Stefania Ariu
Alcuni giudizi critici su Giovanna Mulas
“Non a caso, e finalmente, candidata italiana al Nobel per la letteratura. ‘Lughe De Chelu
(e Jenna de bentu)’ è il libro della maturità stilistica raggiunta, della luce personale
scoperta, o forse solo ritrovata nella Sardegna Madre.”
(H. Maensfield)
“Fascino un po' gotico, effetti di suspense e sorpresa ben studiati. Piacere della lettura
garantito. E forse anche qualcosa di più.”
(L.Dobrilovic)
“E’ l’architettura narrativa il pregio più evidente del romanzo di Giovanna Mulas (Lughe De
Chelu e jenna de bentu, n.d.r.). Il tempo che vi scorre, annodando la vita di tanti
personaggi, è un fiume nelle cui acque passato presente e futuro si confondono, secondo
la già collaudata teoria del flusso di coscienza bergsoniana. (…) Il dialetto come radice,
integrità dell’io, affetto fondante. La sua cantilena è il ritmo della primordialità, visto che
canta sulla bocca di streghe, così solidamente rievocate, che afferrano i segni del destino
e li addomesticano dentro il sopore della formula e del rito oralmente tramandato.”
(F. Alaimo)
“(…) La qualità di scrittura della Mulas: moderna, disinibita, ricca d’invenzioni verbali, con
pagine descrittive splendide. Rivive il fascino della Sardegna, natura e umanità, anche
attraverso la parlata del luogo (Lughe De chelu, n.d.r.), e insieme lo scavo psicologico; in
tal modo lo stile plasma la materia linguistica con nuove soluzioni in un lessico oltremodo
personale.”
(L. Nanni)
“(…)E ora un’intuizione, non un’interpretazione: con questo libro (‘Lughe de Chelu e jenna
de Bentu’ n.d.r.) la Mulas tocca vette alte, coraggiose. Affronta un rischio; quello di
svelare interamente il sé.
Ma che altro è, la letteratura, se non affrontare i rischi della propria storia, della propria
terra, del proprio linguaggio?”
(M. Ramirez)
“E’ talento. Talento allo stato puro.”.
(U. Laversa - S. Wood)
“(…) S’impone fin dalle prime pagine con un testo dai forti contenuti emotivi, in cui viene
privilegiato il lavoro di scavo e di analisi della personalità, sia pure mediato e reso
narrativamente efficace da una costruzione romanzesca di grande effetto abilmente
sorretta da dialoghi di notevole intensità”
(M. Attento)
“Se scrivere è regalare emozione Giovanna Mulas, con la potenza di scrittura che le è
propria, ha vinto. C’inchiniamo davanti a lei, maestra di sensi. ”.
(A. Aletti)
“(…) Uno stile secco, nervoso, a tratti scarno scandisce la distanza tra finzione e realtà,
talvolta sovrapponendosi a sensazioni vaghe altre volte, le più riuscite, creando
un’intercapedine ideale per meglio avvolgersi e lasciarsi cullare da una sottile, palpabile
malinconia… .”
(V.Crociani Pedrino)
(VI.
“(…) Ma chi è, in realtà, questa Giona Demura (‘Lughe de Chelu’, n.d.r.); coraggiosa, vera,
maledetta madre e femmina sarda, se non l’essenza e la fisicità dell’autrice stessa?”
(G. Highland)
“(…)Lontana dagli eccessi della narrativa italiana più giovane, conoscitrice di stili nordici e
occidentali resi con personale grazia e autonomia;(…) apre uno spaccato avvincente di vita
e contemporaneità.”
(G. Luongo Bartolini)
“(…)il nostro mondo iperconsumistico scoraggia la fantasia. Ma ancora, e per fortuna,
esistono donne capaci non solo di leggere fiabe, ma anche d’inventarle.”.
(M. R. Cutrufelli).
“(…) La Mulas, lo si capisce in fretta, non è alle prime armi. Ha un vero talento per
l’invenzione narrativa, ama farsi prendere al laccio dai personaggi, adora creare dialoghi
(punti di forza dei suoi libri) reali, diretti, in cui si sentono vibrare gli accenti di vere
emozioni”
(B. Cerulli)
Nomination at The Nobel Committee
of The Swedish Academy Stockholm per la Letteratura
Romanzo
Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D’ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, località e avvenimenti sono
immaginari o usati dall’ Autrice in chiave fittizia e qualsiasi eventuale riferimento a
persone, vive o morte, a fatti o a luoghi realmente esistenti è puramente casuale.
Questo romanzo è stato cominciato a Nuoro
il 13 ottobre 2002 alle h. 23.16
E terminato a Nuoro
il 27 gennaio 2003 alle h. 16.20
Nota dell’autrice
Questo libro è dedicato alle mie Luci di Cielo:
Fabio, timido e creativo di undici anni
Noemi, sensibile e impegnato fiore, di nove anni
Roberto Paciughino l’irruente, di quattro anni
Dolce “LeLe” Emanuele, di tre anni
I have a dream”, ragazzi.
A giochi fatti penso che Passaggi Per L’Anima, datato 1998, altro non sia che
l’inconsapevole antesignano di Lughe De Chelu e Jenna De Bentu; nato, questo, in un
momento estremamente complesso della mia esistenza, senz’altro il più difficile. E’ la
storia di un viaggio; sgocciolato da una mente ad un foglio, da un corpo di donna ferita
nell’intimo e, per questo, autentica. E’ sin troppo facile precipitare nelle profondità della
propria psiche; impresa ardua è risalirne sani, l’ uscirne indenni.
Avverto dunque Lughe De Chelu più mio di qualunque altra mia creatura da biblioteca e
per il quale ho scomodato un’anomala miscellanea di dialetti radicati alla terra che porto
nel sangue e nel fuoco; la Sardegna. Volevo che tutta fosse presente in questo scritto,
anche se solo in una parola, in una nenja, una citazione distratta.
Ringrazio, di cuore, chi più mi è rimasto vicino nel buio e, nella luce, non è scomparso. E
credo in quel Nigredo, a giochi fatti e nonostante tutto, rivelatosi necessario ad una donna
tra le donne.
Come sempre grazie anche a Te, Lettore.
G. M., 25 maggio 2003, Nuoro.
“Innalzate le vele, senza paura.
E assecondate l’innata voglia di vento”
Ann Meredith, 1998
“Sono tornata.”
Giona Demura, 2003
SIC LUCEAT LUX
“Oh, dunque, anima più bella di tutte le creature,
tanto ansiosa di conoscere la dimora del tuo Amato
che sei capace di andare alla Sua ricerca per unirti a Lui,
ora ti stiamo dicendo che tu stessa sei la Sua dimora…
La sua camera segreta e il suo nascondiglio.”
(San Giovanni della Croce, CANTICO SPIRITUALE)
***
Quell’insenatura; bocca di leone estesa dalle pendici rocciose digradanti ad est ed i voli di
sommi gabbiani ciondolanti e pigri, rollanti su nuvolepietre, fichi d’india svettanti tra i
ciuffi di mirto ed il canto continuo di cicale in amore. L’odore era dolceamaro,
inconfondibile ed indimenticabile, tale da saggiarlo con l’olfatto e portartelo appresso,
chiuso nella mente pure lontano e comunque e sempre così da sentirlo accanto e solo tuo
ad ogni soffio di maestrale. Le barche come gusci alzavano le vele prima dell’ affacciarsi
del sole, salutavano i voli sparsi e il guizzo dei pesci scivolando costanti e meste per una
bella distanza dalla riva, non so dirvi a quanto, e urlavano con l’ululare dei pescatori che
gettavano le reti. Noi bambini, spesso, scrutavamo affascinati le partenze degli Ulisse ed
avevamo un rito per augurare loro una buona pesca; tutti, in cerchio, giravamo fino a che
le barche scomparivano all’orizzonte e giravamo con le braccia alzate al cielo, verso Dio, i
visi ancora pieni di sonno ma bruciati dal sole, sillabando frasi senza capo né coda. Alla
fine, mentre le ultime lucciole coraggiose ma già in affanno spengevano le proprie luci in
omaggio a quella dell’aurora, madre, colta nel suo apogeo; saltavamo tutti assieme per
crollare sulla sabbia all’indietro, sussultando dalle risa. Ho sempre pensato che un pezzo
di vita, un alito d’anima d’ ogni pescatore si staccasse da lui, quando la sua barca per un
qualunque motivo andava distrutta.
Era come maciullare una gamba, o tagliare un braccio al cristiano di turno; la sua stessa
ragione era chiusa in quel guscio, nelle vele dapprima meste eppoi erette forti, vigorose,
possenti, gravide di Eolo. Perdere la propria barca, per quei poveri Cristi d’acqua salata,
voleva dire perdere la dignità, cognizione dell’esistenza. E chi non capiva questo non
avrebbe mai potuto comprendere il mare sardo e quel fascino pagano, sentirlo
orgogliosamente palpitare e vibrare nella propria fibra. Partiva dal golfo strabico,
rammento, il mio mare per adagiarsi in amplessi lenti di spume colla rena che placcava,
invadeva, empiva. Giuseppe sfidava il vento in silenzio, ed i silenzi infiniti e pieni di muti
segreti del mater pelago amante e figlio e padrone; accalcato come un lupo tra gli scogli
assaporava i tormenti ed i sali, i soleluna, le voci. Perché il mare ha le voci sapete; perché,
anche se non tutti lo sentono; il mare a volte grida e ti chiama a sé, forse perché si sente
solo o forse semplicemente perché, nella sua grandezza, vuole apparire ancora più grande
e potente ed allora, di tanto in tanto, s’inghiotte un agnello di passaggio. E’ il suo modus
vivendi. Una volta rischiò anche Giuseppe di venirne ingollato ma qualcuno lo impedì; un
bue marino chissà di dove e pronto comunque a staccarlo da un Nettuno Nessuno
affamato. Per infinite notti Giuseppe rammentò la presa vigorosa dell’uomo ai suoi capelli,
lo strattonare nelle acque agitate a mulinello, il buio eppoi il riaffiorare alla vita ed alla
flebile luce della notte, quel faccione giallo e immenso ch’era la luna lì, stampato sul
firmamento ed il cuore e ancora la voce del mare e il suo bisbiglio: “stavolta non ci sono
riuscito, ad acchiapparti, ma domani…”.
Le quattro mura della nostra spelonca avevano due finestre in tutto, alleggerite da vasi di
gerani rossi rigogliosi d’iodio. E di quelle due una si trovava nella mia camera; mio padre
mi chiamava sa pizzinna sua istimada* perché la luna e le stelle tutti i santissimi giorni mi
davano la buonanotte “…e chi è salutato dalle stelle, cara Giona mia, sarà stella grande. E
non importa se non sarai una donna famosa e ricca, …”, perché la vera femmina, un
maschio vero si riconoscono dalla libertà di regalare libertà agli altri. Io allora non capivo;
sapevo solo che non tutto ciò che non si capisce semplicemente poiché non è alla portata
dell’umana comprensione; è impossibile. Quindi l’accettavo e senza ribattere. Accettavo,
spiandole curiosa, le prèfiche del paese che, ben retribuite; onoravano la salma dello
sfortunato di turno urlando, piangendo e gettandosi in terra strappandosi capelli e vesti
per lui, senza neppure averlo conosciuto. Accettavo che su, nel cielo, pascolassero i vitelli
iracondi del sole che quando litigavano — e capitava spesso —, caricavano e si
scornavano; dalla terra o dal mare era possibile vedere i fulmini silenziosi, quelle
increspature striature irreali che spaccavano nuvole e aria provocando con la loro
elettricità ai vecchi e ai bambini, alle donne marcate* (e quindi già impossibilitate, per
questo, a toccare le piante per non provocarne la morte, ad entrare in mare per non
portare sfortuna, col loro sangue; ai pescatori in partenza e in arrivo); emicranie
insopportabili. Non sofistica accettavo pure che, nelle loro Domus terrene, l’ Janas, le fate
alte come il pollice di un bambino di nove anni compiuti; vestissero di rosso con sul capo
minuscoli fazzoletti fioriti, attorno al collo diademi d’oro e di bacche di rosa e
conservassero assieme ai segreti dell’arte della tessitura più preziosa, dei guerrieri e dei
nuraghi anche inenarrabili tesori vergini. “Il Gianas bivianta no meda addéi de Aritzu, in
certos istàmpos in mesu de certas orroccas. Issa fiant altas non prul de bintigincu
centimetrol de statura. Misera fudi sa vida chi custa passaìanta, poite fianta timerosal
meda e bestìanta ‘e peddes crùas e fuìant is omines altos…”.*
“Ho conosciuto Conti e Marchesi”, diceva mio padre e con mani callose ricuciva la rete per
il giorno appresso. Noi piccoli ci domandavamo dove mai potessero vivere, laggiù, i Conti
ed i Marchesi. Poi, sola, conclusi che un pezzo di mare e sicuramente il pezzo più grosso
ed “ufficioso”, doveva essere per forza loro e che magari, in un maniero sotto le acque tra
uno scoglio, una sirena e l’altra e oro senza pari; c’erano, nascosti chissà per quale oscuro
motivo, i Conti ed i Marchesi che riaffioravano la notte affinché nessuno, se non il mare
stesso, potesse gioire della loro nobile presenza. Ma poi, cosa ancora più importante e
misteriosa, che ci aveva a che fare mio padre coi Conti ed i Marchesi del mare?
Raccoglievo le mie ventuno conchiglie magiche (e magiche erano per forza visto che erano
state donatemi da Severina, la strega del paese che puzzava di pesce come che ci dormisse
in mezzo ai pesci, e forse era così; con la raccomandazione di non perderne nemmeno una.
“Questa è per regalarti la bellezza chè in una femmina non guasta mai. Questa è per
l’intelligenza, la dote più grande, una è per il terzo occhio; la conoscenza, l’altra per usare
le tue mani come userai la testa, quella e quelle a destra sono lì a proteggere il tuo
cammino nella vita, a sinistra ci sono il coraggio, le tue ali e la forza di cambiare, accanto la
pace dopo le tribolazioni e infine…” e tastava l’acetàbolo della bivalve operculata;
“l’amore. Che tu possa riconoscerlo quando verrà a cercarti e che lui riconosca te. ”
Balzellava, Severina, su di una gamba sola, saltava gracchiando tre volte e girava una volta
su sé stessa, sul bastone, scompariva dietro la fila colorata dei panni stesi ad asciugare,
s’inginocchiava davanti al sole che volgeva al mezzogiorno. Infine tracciava nell’aria il
segno di una croce che andava a coprire, unire, tutte le conchiglie: “ E così sia.”, rantolava).
...............................
sa pizzinna…*
Marcate*
L’ gianas…*
la sua ragazzina tanto stimata, amata
col mestruo
Le Gianas si trovavano non molto lontano di Aritzo, all’interno di grotte
scavate nelle rocce. Erano alte non più di venticinque centimetri. Misera
era la vita che conducevano;poiché erano molto timorose e vestivano di
pelli fuggendo gli uomini…”
Con uno schiocco dei denti mio padre spezzava il filo, separandolo dalla rete. “ …Ho
conosciuto Conti e Marchesi, ma tutti marci dentro. E che affondi con la mia barca domani
all’alba se ne ho incontrato uno che meritasse davvero il titolo di Conte o di Marchese.
Quando tua madre era giovane figliola, era la più bella ragazza del paese e di tutta la
costa, credi a me! Eeeeh, desiderava tanto una femmina, la mia Gigliola, la mia Nugoresa!
La voleva che avesse i suoi capelli scuri e ricci, le labbra rosse ed il suo fuoco. E così sei
venuta tu, la pelle scura come quella del diavolo ed i capelli biondi e lisci che non t’ho più
visto;come che pure i peli d’angelo avessero timore a starti in sulla testa. Siete nati in tre e
lei v’ha accolti con tutto l’amore del quale era capace ma sapessi quanto ho dovuto faticare
io per tenere lontano da casa nostra quel vecchio maiale del Vescovo Sanna Maria; un
“Conte” buon predicatore e razzolatore di malaffare che aveva perso la testa per lei,
arrivato in paese con la diligenza postale era. Dicevano che i diavoli fossero i suoi servitori
e che lui sapesse comandarli a suo piacere. Dicevano che i suoi tesori li avesse fatti così, il
Sanna Maria, schioccando le dita e prendendo a calci sul culo i satanassi. Aveva un libro
antichissimo, sottratto alle biblioteche vaticane, dicevano. Un libro nero, voluminoso ma
dove erano scritte pagina dopo pagina solo due parole: Demones e Diaulos. E lui quando
voleva un favore particolare gli bastava leggere per un’ora di fila le due parole e i
satanassi apparivano a servirlo. Una notte riunì una combriccola di ricercati attorno al
fuoco, si dice. Gentaglia senza pane né onore.”io vi faccio diventare ricchi tutti”, disse
superbo il vescovo Sanna Maria.
Avevano scavato in terra una fossa, l’avevano pulita e su di un letto di rami e foglie
c’avevano messo un porcetto rubato dalla tanca di un ierzese*, cottu a carrargu e pappau*.
Dopo cena sedettero tutti attorno al falò ancora crepitante; i cavalli lasciati liberi di
pascolare attorno. La nebbia cominciava a calare sulle cime dei monti colore del ferro, si
faceva bassa, più bassa e densa, un unico orizzonte con la terra fino a poche ore prima
bruciata dal sole di fine luglio. Non c’era luna quella notte né panas*vicino al ruscello, né
stelle, né una cicala friniva, né una civetta cantava, né una foglia stormiva.
— State uniti e all’erta —, intimò il Sanna Maria ai delinquenti amici suoi — E non abbiate
paura, chè i tre diavoli odorano la vostra paura prima che voi stessi l’odoriate. Qualunque
cosa accada non abbiate paura; loro non potranno farvi niente fin quando siete con me. I
denari ci usciranno fuori delle orecchie. —.
Un brivido percorse i banditi che si fissarono sgomenti, nessuno osò pronunziare verbo.
Con un bastone di ferula tracciò un grosso cerchio sulla terra, il Sanna Maria, ed una stella
a cinque punte dentro il cerchio. Sedette al centro.
— Ognuno di voi sieda in una punta di stella — ordinò.
Cinque erano e cinque sedettero.
— Demones e diaulos…— cominciò a mugugnare ad occhi chiusi il vescovo.
— Demones e diaulos, demones e diaulos, demones e diaulos…—, così, per un’ora di fila e
la stanchezza l’assaliva, il sudore gli grondava sulla fronte e le tempie. — Demones e
diaulos, demones e diaulos, demones e diaulos…—. Ebbe un sussulto. Aprì gli occhi.
E i diavoli apparvero nel buio
Uno aveva le corna di bue e i piedi di gallina, grosso e rosso come il fuoco, dicono che era.
I latitanti non si mossero dal loro posto
L’altro camminava zoppo ma non si capisce come facesse a camminare, visto che non
c’aveva gambe ma tentacoli lunghi di polpo e sonagli di serpente e mille occhi mille sul
resto del corpo
I latitanti non si mossero dal loro posto
I diavoli portavano sulle spalle alate sacchi di marenghi d’oro
Il Sanna Maria ordinò che il denaro venisse lasciato davanti ai suoi piedi (demones e
diaulos, demones e diaulos…)
E, soffiando e ringhiando verso i briganti i diavoli obbedirono.
Ma mancava ancora un diavolo all’appello.
E quello apparve come un cristiano qualunque a cavallo, nella foschia, con berritta e giacca
di pelle di pecora e stivali lucidi di pelle nera. Apparve accompagnato da due carabinieri a
cavallo, uno ad un fianco, uno all’altro.
— OHI! — gridò uno dei latitanti dalla sua punta di stella, — CROSSAU M’ANTA*!! —
e prima che il Sanna Maria potesse dire o fare qualcosa, quello, che era l’unico arrivato in
groppa ad un mulo; ci saltò sopra e via come il vento, a fondersi col bosco fitto e vergine di
querce e castagni
E il terzo diavolo scoppiò a ridere e i carabinieri scomparvero, e quella risata s’amplificò e
divennero tre e poi cento, mille urla e singhiozzi isterici di dannati e la terra ed il cielo
attorno tremarono aprendosi e il fuoco ebbe un guizzo e il bandito in groppa al suo mulo
giù, in mezzo al bosco, stramazzò sulla terra nuda per schiattare dalla paura;lui e il suo
mulo che fu trovato con le zampe anteriori flesse in avanti, occhi spalancati e bava alla
bocca e cuore scoppiato
E sparirono i diavoli col loro tesoro, con in più le anime di un bandito e un mulo.
Eh, si.
Aveva messo gli occhi sulla mia Gigliola, il Sanna Maria. Fino a che s’isposa mea*, una
mattina che pioveva (e la pioggia, Giona mia, è la manna di Dio, per noi. Se non piove non
si pesca; la siccità pure i pesci dai fondali fa scappare!)…dicevo del vescovo…mmmh, già.
Lei l’affronta tra gli scogli rossi, mani sui fianchi, Annetto e Giuseppe attaccati alle gonne e
te di quattro mesi appena, infagottata e legata al seno. “QUESTI SONO I MIEI FIGLI, LI
VEDI ANIMALE?”. Severina spiò nascosta dietro un cespuglio di corbezzolo. Il porco a
cavallo s’arrestò per un attimo, chiotto chiotto e in attesa. “FIGLI MIEI E DI GIANNETTO
DEMURA. SOLO NOSTRI SONO E MAI DI NESSUN ALTRO COME PURE IO!!!”. S’era
affacciata dal dirupo, lì per buttarsi in mare con voi zavorrati al seno. Severina raccontò al
paese che il Vescovo Sanna Maria strabuzzò gli occhi e, nonostante la mole, caracollò giù
dalla sella in un lampo: “Non fatelo, donna!” gridò disperato.
Lei disse “Andate via. E che non abbia più a vedervi qui attorno o non avrete nemmeno
più il ricordo della mia bellezza per le vostre notti di anima perduta, ogni sera aspetterete
la visita mia e delle mie creature a disturbarvi il sonno!”. Così giurò la mia Gigliola, sputò
con odio sopra la promessa e baciò il crocifisso che portava al collo dal giorno della nostra
unione. Il vescovo Sanna Maria fu trovato quindici giorni dopo ammazzato, vicino al
bosco di pini e larici. Il cavallo gli pascolava vicino e lui fu trovato a testa in giù, incastrato
sulla terra con la calotta cranica fracassata ma integro nel resto del corpo, come che
qualcuno l’avesse raccolto da cavallo, rovesciato e sbattuto direttamente per la testa…
dicono che siano stati i suoi diavoli…è tutto qui. Tutto e nulla.
Nudda.
…Rosinande lagrimat subra fogos sìncheros.
Nues arbas, lughentes bisiones! Bentu forte alenat in sa nébida chircande terras noas.
Dae istérridas colore de chelu brotan tretos mudos e variados de forma, prenos
De frora e fauna, carìssian làdinas abbas inue, a sa fine Istérridu Mirabat.
Ma galu, perda chene forma, perda de granitu, dae su mare Lu mutiat.
Cosinzos de fogu Isse poniat, forma Divina li daiat a icudda perda
Irmentigada chi como paret siat fadada, che a isprigu inue,
criadu in minuyu in Su rastu s’isprigabat.
Sinche lìeran sonos e dae bisos benideros unu conzertu de colores istumbat.
— Caminande peri su mundu materias e sonos collide! —
— Anghelos, bolade subra su criadu —
— Subra sa perda galu nuda unu mosaicu azes a fàghere.
Dae totue in sa terra una calidade bili dazes. Sabores, fragos, sonos
E colores in donz’angrone an a mudare. Ogros de òmines, ischidados,
una die s’at a isprigare in su rastu Meu ammalladiadu e in su mare
ingalenadu ch’isetat su momentu de s’ischidare dae cussos chi bi an a passare.
Sos chi pro neghe de s’àura an coffundidu sa realidade lassande intèndere
Chi s’Amore pezzi poten agitare isprighéndesi in cudda terra
Chi est sa màzide de Deus — …”*
Suor M. dell’Eucarestia 12 dicembre, h. 15.50.
I tratti erano affilati, gli zigomi alti come pure la fronte, l’incarnato olivastro e le labbra
rosacee e carnose e materne; umide, rugate e sòcchiuse in un broncio ribelle che ne tradiva
indomite origini. Aveva gli occhi di cerva all’erta, mobilissimi, liquidi e languidi del colore
stesso della terra bruciata, i seni forti ed i fianchi larghi, castrati. I capelli, quando
s’accomodava malinconica, a capo chino il rondineo manto; tradivano, gl’irti, l’accenno
castaneo degradante al rosso e, pel tempo amico; neppure un filo bianco li chiazzava. Mani
dalle dita come fusi avevano salutato cinquantanove anni nervose; afferravano a scatti
disordinati i grani di un rosario di legno di cedro chè non serviva per rendere omaggio al
Signore, quel rosario ma per domandarne il perdono, solo per domandare perdono a
qualcuno. Ed ogni grano graffiato era una richiesta disperata, affranta, obliosa, senza più
lacrima o auspicio. Giona sfiorò col ciglio le colline degradanti, veloci dietro i vetri della
vecchia corriera, e gli occhi suoi passavano ora tra le rocce muschiate, gli abeti e i fiumi
magri, ora sulle pagine del breviario che poggiava sul grembo ma poi, ancora, fulminei
correvano tra le ripidità scoscese e selvagge della terra natìa, in mezzo al brulicare calmo
di un’èbba* dal manto candido coi puledri accanto ed un pastore laggiù, immerso nel
fustagno e perso fra mirti e sugheri spanneggiati, attento a punire i cespi più ribelli.
......................................
ierzese*
Panas*
Cottu…*
Pappau*
Crossau m’anta!*
S’isposa mea*
Rosinande…*
di Ierzu
donne morte di parto
carne arrostita secondo una tecnica primitiva, in un forno a fossa
(carrargu), ricoperta di terra, data al fuoco e cotta per ore
mangiato
mi hanno beccato!
la mia sposa
Piovigginando Lacrima sopra fuochi solidi. Bianche nuvole,
splendenti visioni!
Vento forte Respira nella nebbia cercando terre nuove.
Dalle azzurre distese affiorano silenti spazi multiformi brulicanti di flora e fauna,
carezzano cristalline acque in cui, alla fine, Disteso Rimirava.
Ma ancora roccia informe granitica dal mare Lo chiamava.
Sandali di fuoco Lui calzava, forma divina Le donava a quella roccia
Abbandonata che ora pare sia fatata, come uno specchio in cui
Creato in miniatura, nella Sua orma si specchiava.
Si sprigiona melodia dall’immagine futura, un concerto di colori risuona
Già: — Andando per il mondo, angeli miei, materie e suoni raccogliete —
— Angeli volate sul creato —
— Sopra la pietra ancora nuda un mosaico formerete.
Da ogni luogo della terra una qualità le sia donata. Sapori,
odori, suoni e colori ad ogni angolo muteranno.
Gli occhi degli uomini, risvegliati, un giorno si rispecchieranno nell’impronta
Mia incantata, nel mare assopita che attende di essere risvegliata da quelli
Che vi passeranno. A cui un vento sferzante ha confuso la realtà non facendo
Più capire che l’Amore solo possono incontrare rispecchiandosi in quella terra
Che è l’immagine Divina…”.
(ROSINANDE, piovigginando, canto della tradizione popolare sarda)
***
Depose il vaso di vetro incastonandolo tra una roccia e l’altra, gli avannotti e i girini
all’interno quelli acchiappati con le mani nella pozzanghera vicino alla parrocchia del
Sacro Cuore del Gesù dondolarono con l’acqua.
Poi, con una canna, il Capo tracciò sulla sabbia:
che tutti ridacchiando tracciarono dopo di lui, più o meno bislaccamente.
Giù in fondo, in un terrapieno sconnesso e isolato, erto tra spiaggia, scogli e casupole;
lavoravano sei, forse sette scaricatori di porto colle facce nere dalla polvere e l’avorio
dell’alone attorno agli occhi arrossati; tutti nervi e muscoli erano, secchi secchi e mangiati
dal sole. Ognuno col suo badile riempiva gerle di pietrame e carbone, le loro donne
accanto, scalze a cantare ninnie per dimenticare la fatica, le mani sui fianchi generosi e
bardati dalle lunghe gonne scure e i fazzoletti sul capo e legati sotto il mento, a nascondere
i capelli. Caricavano i canestri sulla testa e, una mano a reggere quello, l’altra sul fianco a
bilanciare il peso; si disponevano di volta in volta a scaricare sulla stiva del bastimento in
attesa.
— Avete firmato tutti? Allora siamo d’accordo…unite le mani, su! Io giuro e che ci
sforbicino le coglie a tottos cantos, si no est gai! —
— Io giuro…—
— Io giuro…—
— GIURO ANCH’IO! —
— No, Peppe! — sbottò Annetto con disappunto subliminale, — Devi dire “io giuro”. La
formula è questa —
— Evvabbè, lo giuro. Iiiiiio giuro!!! —
— Mmmmh! — giurò a suo modo Simon detto Mutino, che non parlava mai. Giurò con
mano paffuta sul cuore. Sporgendosi il tanto che bastava, accostò la faccia al vaso degli
avannotti. Ci spalmò la lingua sopra e sparò una boccaccia agl’inquilini.
Dei gabbiani sottolinearono morbidamente l’orizzonte, i bambini gridarono all’unisono.
— IO GIURO DI CREDERE ALLA SIRENA. —
— Ma che razza di giuramento è questo? —, domandò Matteo Montixi di punto in bianco,
già pentito d’aver dato la sua parola; scavandosi una caccola dal naso. Annetto,
maureddino leader e prepotente, lo scrutò disgustato; dall’alto verso il basso, lo stesso fece
Simon Mutino.
— Perché qui, fino a prova contraria, il capo sono io e perché Don Porcu all’oratorio dice
che dobbiamo sempre credere a un sogno, che l’uomo ha bisogno di credere nei sogni. IO e
solo IO ho deciso che il nostro sogno è la sirena e vi deve andare bene pure a voi… siamo
amici, no?
I veri amici lo sono per sempre —, sentenziò, — gai narada don Porcu. —
Erano in cinque ed in cinque annuirono; uno ad uno. Annuì persino Mollica, il bastardino
di Giona ch’era in realtà il meno convinto di tutti. Spalancò le fauci per sbadigliare e i
ragazzetti sedettero sulla rena tiepida come tanti piccoli capo indiani.
— Sentite —, esordì Annetto, calando la voce di un tono, — …potete pure non credermi
ma io l’ho vista davvero la sirena. Lì, sullo scoglio rosso ad est, quello a forma d’elefante
senza la proboscide, tra le risacche notturne…—.I monelli saltarono con occhi titubanti
sullo scoglio a meno di quaranta passi da loro.
— Bellu! —, dichiarò Peppino.
— Ho letto che le sirene sono mooolto cattive —, disse Giona; il vicecapo.
— Che vuoi dire? — mormorò Matteo in apprensione, arrotolando la sua preziosa caccola.
La guardò e giudicandola persino più grande e bella delle precedenti (quelle costruite con
l’influenza della Cina e l’allergia al polline) e di conseguenza una
SUPERSUPERCaccolaEXTRALARGE, come le chiamava lui, e inspiegabilmente
somigliante a quelle amebe studiate durante la lezione di scienze. Dai calzoni tirò una
scatolina di latta decorata con la bandiera americana Made in Japan, sollevò il coperchio e,
fra una decina di Super Caccole mollò la SUPERSUPEREXTRALARGE, infine ripose il suo
tesoro nella tasca interna dei calzoni.
Giona scoppiò a ridere disgustata e atteggiò le dita ad artigli, spalancando la bocca in una
smorfia grottesca e dilatando le narici: — …CHE SBRANANO I CICCIONI CACCOLOSI
COME TE!!! AAAAAGNAAAAMM!!! —
— aaaAAAAAAHHHH! NO!! NO!!! —.
Peppino bentana*, così chiamato per i due incisivi mancanti che parevano essersi scordati
di ricrescere, rise con la mano davanti la bocca per coprire la vergogna.
Annetto non rise.
— Quando sarò grande dipingerò quello che ho visto. E allora mi crederete —
— Diventerai un pittoresco famoso, Annetteddu —, fece Peppe, grattandogli quei grovigli
d’alga che aveva per capelli.
— mpffh.
Chi c’ha la gomma? —. Gli occhi si puntarono su Matteo. Quello fece spallucce, sbuffando,
il Mutino gli allungò un calcio sul didietro
— Ma dài, …non l’ho ciucciata neppure per mezza giornata! —
— E’ già troppo. Il giro devono farlo pure gli altri, aiò caccola! —, ringhiò Annetto e
rovesciò l’amico di lato allungandogli pizzicotti, gli si buttò addosso frugandogli le tasche
del giubbetto consunto e che gli otto figli, maschi e femmine (nati uno appresso all’altro e
“ognuno dopo una sbronza di acquavite da buttarmi sul letto per una settimana”, andava
vantandosi coi compari di bevuta il padre) dei coniugi Montixi;avevano indossato prima
di lui. — Dov’è la gomma?
Dove l’hai nascosta, eh? —.
Finalmente si rialzò col trofeo plurimasticato chiuso nel pugno.
— Adesso è mia fino a domani mattina! —, sbottò seccato e cominciò a biasciare
guardingo. “Guai a chi me la tocca” diceva il suo sguardo, “non ci ha neppure più
zucchero grazie al caccoloso che non è altro! Ah, ma la prossima volta che si rubano le
gomme all’emporio…accidenti, se non sono
io il primo a ciucciarle!!!”, pareva dire e ruminava come un vitello. Giona stappò una Cola
con la leppa* del padre, ne bevve un sorso, la passò al resto del branco.
— ALLA SIRENA! —
— ALLA SIRENA SIII!!! —.
Il Mutino, rannicchiato sul suo quadrato di sabbia, annuì.
***
Storia di Mutino
Uno stormo di uccelli talmente numerosi da coprire il sole s’alzò in volo dagl’olmi
carezzati dalla brezza marina. Camminava a zig zag, saltando un sasso e l’altro e
trotterellando in bilico tra sabbia e l’onda che, prosseneta, ghindava nella sua cresta di
spuma candida per poi cedere, sciogliersi, prostrarsi in stille ai piedi scalzi. Simon tolse i
piedi dalla sabbia e i minuscoli granelli di polvere bianco — argentea caddero dalla pelle
rosea lasciandola morbidamente calda, umida e languida. Da quando la mamma era
paralizzata nulla era stato più lo stesso. Il nonno invecchiato di vent’anni con continue
crisi di memoria e il patrigno eternamente ubriaco alla fine delle giornate di lavoro in
barca. E il mutismo di Simon, irriverente ad ogni cura o consiglio medico (la sua stanza
segreta), ad ogni sollecitazione esterna. Volse le spalle al mare per infilarsi le ciabatte e
guardandosi attorno, fissò la sua casa affondata in lontananza, nell’intrico di siepi e canne
recise. Aveva già pensato, Simon, di girare la visiera al berretto da baseball nella sua “fase
di riposo” quando lo vide, ritto e fiero col grosso petto cinerino e alto, il becco curvo e
robusto e le zampe palmate d’un rosso straordinariamente brillante. Il gabbiano emise un
grido stridulo e agitando le lunghe ali mosse due passi verso il bambino. Era intelligibile;
Simon non aveva mai visto un uccello tanto grande e bello. Decisamente uno splendido
esemplare di gabbiano reale. (Lasciami in pace) pensò Simon nella stanza segreta, rivolto
al gabbiano. L’animale lo fissò intensamente con occhietti smeraldo. E spiccò il volo. Planò
sulla superficie increspata del mare, ficcò lesto il capo nell’acqua e riemerse in un attimo
con la sua preda ancora calda e guizzante stretta nel becco. Il gabbiano strattonò la testa da
destra verso sinistra facendosi pioggia salmastra attorno e di nuovo agitò le ali
spalancandole, volò senza tentennare spiegando e sfarfallando. Veleggiò in circolo sullo
spiazzo di sabbia sovra Simon poi aliò su, sempre più su finché la costa divenne un
puntino dorato agli occhi del gabbiano, fino a che il mare divenne un acquerello sbiadito e
per Simon con la testa rossa inclinata di lato, quel puntino alto fu una cosa imprecisa e
alata tra ammassi imprecisi e alati di cotone sparso. Di tanto in tanto un altro gabbiano o
due flettevano le ali talmente vicini da poterli toccare e Simon sempre puntava gli occhi
nei prossimi, muti e neri con chissà quanti segreti nascosti nelle profondità acquose,
pazienti. Il bambino, avvisandosi sfidato, girava la visiera del suo berretto da baseball
d’ottanta gradi esatti portandola diritta alla nuca come faceva tutte le volte che stava per
combinarne “una delle sue”, come diceva nonno Giacomo, e pugnetti chiusi e sguardo
torvo partiva in quarta contro gl’uccelli che avevano osato attraversare la sua strada.
Erano agitare di braccia convulse o salti o gestacci di mano o chissà cos’altro fino a che
anche l’ultimo gabbiano, il povero, più stordito che davvero spaventato; con uno stridìo
acuto prendeva il largo. Simon sorrideva sputando saliva nel ponte che gli si era creato tra
un canino e l’altro (era una tecnica speciale che aveva affinato dopo prove di quasi due
mesi interi. Fra i suoi amici poteva vantarsi di essere l’unico a saper sputare ad un metro,
sinistra o destra solo attraverso il ponticello, pure Bentana Grande Capo superava) e
sedeva ficcando le dita dei piedi nella rena chè gli piaceva parecchio avvertire i minuscoli
sassetti scivolare tra quelle, sentirsi anche lui in qualche modo parte del mare. Era senza
fine, il mare. Nonno Giacomo che, da vero capitano aveva passato la vita, sul mare; diceva
che è così, o bianco o nero cioè. Simon biascicò una gomma. O bianco o nero;puoi amarlo o
odiarlo, scegli tu, Simon. Ma se lo amerai lui farà lo stesso con te. Per sempre. E te lo
dimostrerà.
— Te lo dimostrerà prima o poi, Simon mio. E adesso portami una lattina di birra, che
questa vecchia gola ha bisogno di un’oliata…e che sia fresca, mi raccomando! —. Così
diceva nonno Giacomo col faccione cotto dal sole e Simon sgattaiolava in cucina, in
silenzio, apriva il frigo con fare circospetto (colui che chiamava padre, completamente
ubriaco come al solito, russava nella stanza accanto. Simon vedeva l’ombra della sua
pancia alzarsi e riabbassare oltre la tela della tenda logora a minuscoli lillà che fluttuavano
mossi da quel venticello torrido d’inizio estate. E le zanzare. Simon non si ricordava
un’annata peggiore di quella, per le zanzare. Era un po’ come la trama di quel film visto
alla proiezione mensile dei salesiani, mangiando pane carasatu, sartizza e uno dei cachi
rubati a casse all’orto del dottor Corona sposato con una continentale e che veniva giù in
paese solo due volte l’anno, per aprire e chiudere le finestre di casa. Si guardava il film dei
salesiani sbirciando oltre l’orlo del vestito verde di Susanna Frailis, seduta nella fila
davanti; Simon non rammentava il titolo della pellicola ma solo che era un’americanata
che trattava di un enorme nugolo di api assassine, ad ogni puntura il fazzoletto che
Susanna portava sul capo, rigorosamente in tinta col vestito; ciondolava a destra e manca,
sussultava e trasaliva facendo ciondolare, sussultare e trasalire in contemporanea i
quattro-cinque impavidi della fila dietro la sua.
— Queste api sono proprio incazzate! — aveva mormorato rabbrividendo Caccola che, a
sottolineare quell’incazzate aveva mollato un rutto cavernoso. — Siete proprio dei gretti
incivili! —, aveva cincischiato Susanna senza neppure voltarsi ma sollevando in aria il dito
indice della mano destra. Caccola si era chiesto, grattandosi i pidocchi, che significasse
gretti e mentre cercava una risposta valida ne aveva mollato un altro più concentrato del
primo. Poco ci era mancato che Simon, dalle risate, non gli avesse vomitato addosso
carasatu, sartizza, cachi e cena del giorno prima. Ecco: Api e Zanzare. Punture. E se si
fossero incazzate pure le zanzare, quell’anno?E se il vederle così numerose potesse
significare un loro imminente attacco a terra e terrestri?.
L’ombra del patrigno nella stanza attigua si mosse, voltandosi goffamente dalla parte
opposta alla mamma, eternamente ferma bloccata nella solita posizione diritta, gli occhi
fissi al suo cielo senza nuvole. Simon pure non si mosse, i capelli ritti sul cranio e la lattina
di birra gocciolante stretta in mano. Passò la lingua sulle labbra arse trattenendo il respiro.
Svegliare il patrigno in quel momento, a quell’ora, con quel caldo e tutte quelle maledette
zanzare in giro per la casa significava cercarsele di santa ragione. Il livido sulla spalla
destra prese a pulsare, Simon poggiò delicatamente la lattina ghiacciata sulla tumefazione
avvertendone subito sollievo.
(— Ancora questi voti? OSI ANCORA PORTARMI QUESTI VOTI A CASA, FIGLIO
D’UNA GRAN BALDRACCA? E IO CHE MI SPEZZO LA SCHIENA
TUTTISANTIGIORNI, PER FARTI ANDARE A SCUOLA!!!EEEEHH, SI CARO. TE LE
STAI CERCANDO DI SANTA RAGIONE…TE LE SEI PROPRIO CERCATE DI SANTA
RAGIONE! —.
Franco Mariani aveva raccolto un bastone dalla catasta di legna abbandonata in attesa
dell’inverno su un fianco della casa festonata di ragnatele, con sogghignante sarcasmo e
tenendolo fermo per il polso — Simon era convinto che glielo avrebbe rotto. Si. Gli
avrebbe rotto il polso e lui sarebbe stato costretto ad andare in giro senza polso e tutti
avrebbero riso e gli avrebbero chiesto “dov’è finito il tuo polso, Simon?”e lui avrebbe
risposto che suo padre l’aveva rotto per farcisi un portachiavi come quello di Peppino
Demura, con la zampa di coniglio. Un polso portafortuna, già. — gliele aveva date di santa
ragione. Ma Simon non aveva gridato, oh no. Dalla bocca di Simon non era scaturito
nessun suono, come quattro anni a questa parte. Nessun suono. Dentro di sé, nella sua
‘stanza segreta’ dove Simon poteva rifugiarsi tutte le volte che voleva trovando la porta
sempre aperta, s’era domandato cosa potesse essere in effetti una GRAN BALDRACCA.
Ma da solo non era giunto ad alcuna conclusione. L’illuminazione l’aveva avuta una notte,
in circolo davanti davanti ad un falò sulla spiaggia col suo solito gruppo d’amici; Annetto,
Peppino, Matteo e Giona.
— Fa un tiro, Mutino —, aveva bofonchiato Bentana porgendo al ragazzetto smilzo e
pallido un avanzo di cicca. Quello aveva obbedito e passato agli altri, reprimendo la tosse.
— siamo sicuri che non mi farà male come l’altra volta? — abbozzò timidamente Giona, —
…mia madre…—
— Bhàààà…femmine, siete — trillò Annetto
— La cicca è cosa da uomini — sentenziò Peppino convinto
— Perché? — mormorò Giona, — uno diventa uomo fumando? —
Matteo Montixi annuì. — Ha ragione lui. Mio fratello Gianni lo dice sempre:nella vita non
c’è niente di meglio di fumo, baldracche e Rock and Roll. E se lo dice lui puoi scommetterci
la tua collezione di biglioni che è davvero così —
— Fumo baldracche e rock and roll — ripeté Giona soprappensiero e in imbarazzo
crescente e se a furia di stare coi maschi divento un maschio pure io che succede?.
Maschio. maschio rischio, come dice Zisca. Gli uomini sono una maledizione per le
femmine, ricordatelo bene Giona mia, lo dicono nonna e mamma. Si sentì le gambe molli.
— Già già. Il fumo e il rock ce li abbiamo pure noi. Ci manca una baldracca — continuò
Caccola
— Che cos’è una baldracca? — domandò Giona, facendo un altro tiro più profondo.
Questa volta riuscì a non tossire.
— Oh!Ma vi si deve dire tutto!La baldracca è una signora con molti mariti, uomini di tutte
le età. E’ “cosmopolita”— fece Bentana convinto
— E che vuol dire? —
— questo non l’ho capito. Però ci ha tanti mariti, ecco. Si dice che per essere felici bisogna
sposarsi una baldracca e si dice che in paese ce ne sono tante —
— ah. Allora avete l’imbarazzo della scelta. —, fece Giona soddisfatta
— E me ne lavo le mani — sentenziò Caccola che ultimamente finiva tutti i discorsi col me
ne lavo le mani sentito al catechismo e mai più dimenticato.
Simon annuì solennemente e lo stesso fece Annetto, — Lo terrò presente —, e l’argomento
si chiuse lì.
Oltre la tenda il russare ridivenne ritmico e regolare, l’ombra restò ferma. Simon sospirò
di sollievo. Lasciò la cucina, uscì in veranda dove il nonno aveva allungato le robuste
gambe abbandonando i piedi sul parapetto, il vecchio cappello di paglia a falde larghe
chinato sugl’occhi e la camicia a grossi quadri blu e neri sbottonata fino alla cintola. Simon
sorrise alla vista dei rotoli di grasso peloso sulla pancia, ballonzolanti ad ogni movimento.
Il gatto fulvo Beniamino scrutò di sottècchi il ragazzetto, stiracchiò le zampe ficcando gli
artigli affilati sul legno tarlato fungeva da pavimento. Sbadigliò e richiuse gli occhi.
— Era ora che arrivassi, pizzinnè — borbottò nonno Giacomo, — vieni qui, siedi vicino a
me —. Simon obbedì compunto. L’uomo aprì la lattina, bevve gorgogliando e il vistoso
crocefisso d’oro sul petto e la sua catena si mossero, vibrarono all’ondeggio della
giugulare.
— Vuoi? —, disse finalmente e ruttò. Simon fece cenno di no con la testa.
— Aaaah, il mare. Lo vedi laggiù com’è grande e pare ti chiami, lo vedi Simon? —
accese un’altra sigaretta dalla brace della precedente. Un volo basso di gabbiani squarciò il
cielo. Si massaggiò le tempie con le dita.
— Quante illusioni, ragazzo mio. Quanti sogni avevo legati al mare il giorno in cui misi
piede la prima volta in una nave. “Se ti piace sbucciare le patate col vomito che ti sale e ti
attorciglia le budella, Giacomo, il mare è tuo, mi disse il capitano della Victoria a
Terranova, masticando tabacco. — “Mi piace l’avventura, signore”, risposi io facendolo
ridere a crepapelle. “Ah, se è per questo di avventure ne avrai quante ne vorrai” mi disse
facendo l’occhiolino. ”Le balere inglesi sono lì che aspettano di svezzare le verginelle come
te”. Andrea Loggiani, il capitano, morì d’infarto due anni dopo, tra le braccia di una
ragazzina indiana di neppure diciassette anni. Eh, si. Il mare ti dà e ti toglie. Ti toglie
l’anima, ragazzo. E tu devi solo amarlo perché lui ti chiede questo:di essere amato, punto e
basta. —. Ingollò altra birra, gettò la lattina vuota oltre il parapetto, tra i cespugli incolti.
S’alzò un nugolo ronzante di moscerini e Simon lo fissò, suo malgrado pensò che forse
quell’anno pure i moscerini si erano coalizzati per il definitivo attacco alla terra.
— Già — sussurrò il nonno. — Neppure mia moglie ho amato come il mare eh si che la
buonanima di Elvira era ai suoi tempi un bel pezzo di figliola…aveva certi seni ragazzo
mio da far girare la testa ad un morto e i fianchi!Oh Gesù!Messi lì per fare figli. Ho
ringraziato il Signore — sempre che il Signore s’abbassi ad ascoltare anche uno come me
— per tutta quella grazia. Era una sposa fedele, la mia Elvira. quando tornavo dai miei
viaggi — e devo dirti che potevano essere anche tre, quattro mesi di lontananza — lei era
sempre lì che mi aspettava. ”Quanti fratelli ci hai dato ai tuoi figli, stavolta?”, diceva
ridendo. Io sapevo che sapeva che…insomma, che si, qualcosa avevo combinato ma per
Dio…un uomo, giovane, tanto tempo fuori casa e Gesù…sbarcavamo e le vedevamo lì,
belle e pronte per noi. Tu potresti dire:”e allora perché ti sei sposato, nonno?”…lo dici,
Simon? —
— Mmmmh —
— Bhè, solo il pensiero di avere un punto d’appoggio, un porto sicuro, mi faceva sentire
meglio, ecco. Sarà egoista, mah, non so che dirti ragazzo mio. Eppoi cosa dovevo fare,
secondo te?Lei, Elvira intendo, non mi rinfacciò mai nulla. “ti ho sposato così e così ti devo
tenere”, diceva. Santa donna. Lei restò sempre fedele. Cinquant’anni di fedeltà assoluta,
prima che quel maledetto cancro ai polmoni me la portasse via. Allora pensai che chi
meritava di crepare ero io e non lei ma sai, poi ci si consola pensando che il Creatore vuole
al suo fianco solamente i migliori. Ed Elvira lo era, bontà sua, se lo era. Poi pensai che
anche il Creatore non mi avesse giudicato degno d’averla ancora accanto. si. —
Un sospiro. — Si sta alzando il vento, figliolo.
Quando va in cielo una persona che ami cerchi di pensare tante cose, di giustificare tutto,
perfino ciò che potevi fare con lei quando era in vita e non l’hai fatto…ma la realtà è
un’altra. La realtà è che siamo completamente impotenti di fronte alla morte e agli eventi.
Joshua, un vecchio mozzo che conobbi durante i primi anni di navigazione — beveva così
tanto, Gesù!”Bisogno spasmodico di attaccarsi al collo di una bottiglia”, diceva e nel
frattempo, tra un collo e l’altro, il fegato completamente spappolato dal whisky, accidenti
a lui! — andava ripetendo, e l’ha ripetuto fino a che non è schiattato pure lui. Dimenandosi
dalle convulsioni come una farfalla su uno spillo. E da come mi fissò poco prima di morire
pareva dirmi con gli occhi:”avevi ragione tu, figliolo…porcaccidenti ladro, se avevi
ragione!”, bhè, quella vecchia canaglia muffita ripeteva che noi siamo i veri fautori del
nostro destino. Noi e nessun altro. “e con le teorie maomettane, buddiste e quant’altro mi
pulisco il culo!”, diceva. Nella sua cabina c’era una libreria scorrevole che si era fatta fare
apposta. Non ho mai visto una libreria scorrevole in una cabina di mercantile. Io sul
destino ribattevo che non è sempre così; “come te lo spieghi sennò” gli dicevo, “che ho
studiato e lavorato con mille sacrifici per diventare dottore, per far si che i miei vecchi non
si vergognassero di me e avessero vitella a pranzo tutte le domeniche?” Poi per caso ho
passato una notte sul molo. E ho sentito il richiamo del mare. Non sono io che l’ho cercato.
E’ lui che ha trovato me, dicevo. Il vecchio Joshua faceva spallucce. ”Sarà. Ma tu sei
dottore anche qui, figliolo. Curi le onde e i pesci. Soprattutto il tuo cuore, curi.”. Io ero
convinto d’aver ragione, e lo sono ancora. L’uomo è impotente, di fronte al proprio
destino. Completamente, maledettamente impotente oooh, si. Scegli un sentiero e lo
percorri, cercando di percorrerlo al meglio. Ma non ne conosci le diramazioni, tutto qui.
Non sai che ci sarà DOPO, una volta presa una diramazione anziché un’altra. E allora,
DOPO ti penti perché il pentimento è il sentimento più merdoso che il Creatore poteva
ficcare nel cuore di un uomo. Ti penti e dici che hai sbagliato strada, porcaccia. Dovevi
prendere l’altro, di sentiero e avresti evitato tante di quelle rogne che te le raccomando ma
tant’è. E’ la vita, Simon mio. E bella o brutta che sia non sputarci mai sopra. Joshua mi
schiattò tra le braccia mentre lo fottevo con una Scala Reale in una bettola di Bangkok col
fumo, l’odore di whisky e the al mandarino che alitavano l’aria. ”au revoir garçon” mi
disse quel merdoso d’un poeta travestito da mozzo.”Au revoir”. Già. E io sai cosa feci?Ci
bevvi sopra. Tutta la notte e il giorno appresso, alla sua salute. Tre giorni dopo m’imbarcai
completamente fulminato; neppure la forza di calarmi le brache per la latrina, avevo. Ma
ero sicuro che pure dov’era finito, Joshua avrebbe trovato di che filosofeggiare. E leggere,
magari. Con una bella libreria scorrevole e la collezione dei Libri Del Mese del Club degli
autori.
Quello scansafatiche del tuo patrigno dorme ancora? —
Simon annuì, sbirciando oltre la porta della cucina.
— Bene. Tutto risparmiato in salute, per noi e per lui, non so se mi spiego Simon. Non ho
mai capito cosa ci trovasse mia figlia in uno così…ma la natura a volte è strana.
Comunque, andando a grattare bene bene sotto quella sua crosta dura, un cuore ce l’ha
pure lui. Sposò tua madre che era già al settimo mese di gravidanza;aveva una pancia la
mia Angela più grande di lei. Non volle mai dirmi chi fu a metterla incinta…il tuo vero
padre, insomma. L’avrei ammazzato a calci e scusami tanto, figliolo. Abbandonare due
creature così, al momento del bisogno. Ma in fondo, seppure a modo suo, il tuo patrigno ti
vuole bene. E ne vuole pure a tua madre…tanto. Ma questo lo sai, Simon. —
Il vecchio scrutò l’espressione assorta del ragazzino.
— Franco è furioso perché…ecco, figliolo, probabilmente vorrebbe vederti parlare come
tutti i tuoi coetanei, urlare al vento come i mocciosi normali. Ma tu non ci riesci e lui se ne
fa una colpa. Forse si fa una colpa anche perché tua madre è paralizzata a letto. Ma la
colpa non ce l’ha nessuno, figliolo. Né tu, né Angela né lui. Ci è successo così e ognuno ha
la sua croce —.
E’ successo così e basta.
E Simon si tuffò nella nebbia fredda del suo quarto anno volando volando veloce e
correndo, correndo, correndo per
Per non fare tardi oppure la senti, la mamma.
Pizzinneddu de sa mamma, lo chiamava.
Pizzinneddu de sa mamma como est tempus de dormire,
Parizzos mundos abbellados in su lacu tuo isetan zai.
E anninande a tene, o amore, a bellu ti scherzo contare
Tantas paristorias chi in bisos realidade t’an a parrei. Nanna a mamma… .*.
“Cammina sempre sul lato del marciapiedi”, gli diceva ad ogni uscita, ”e non fermarti mai
con nessuno che non conosci o che ti pare un po’…strano. E se hai bisogno grida con tutto
il fiato che hai in gola”.
Pioveva ininterrottamente da tre giorni e le gocce continuavano imperterrite a
tamburellare noiose sui vetri delle casupole sul molo, cadendo sulle pozzanghere di fango
e fuliggine. Simon imboccò Viale dei Gigli a chi sarà venuto in testa di chiamarlo Viale Dei
Gigli se di gigli, qui, non c’è neppure l’ombra…avete mai visto un giglio, Signori Pescatori
miei?Oppure esiste una specie rara di PesceGiglio scollegata dal mondo e galleggiante,
esclusivamente per noi sardi, in Viale Dei Gigli
Evitando d’attraversare all’incrocio con la mulattiera da dove poteva sbucare indisturbata
l’Ape triruote carica di legna ancora un’ape di qualche contadino poco avvezzo a
destreggiarsi col traffico di carri a buoi, figuriamoci di bambini sotto la pioggia e con la
fretta di tornare a casa. L’acqua era traboccata dal tombino e scivolava in torrentelli gioiosi
lungo i bordi del marciapiede interrotto troppo spesso dai lavori ch’erano in corso da
quando Simon ne aveva memoria. Il ragazzino, scomodo ma fiero nella sua giacca di
velluto marrone (la giacca della festa, come la chiamava la mamma) inciampava, rollava,
accelerava a tratti il passo sbronzo che gli pareva davvero d’aver fatto troppo tardi questa
volta e il cielo così scuro e pregno di pioggia quasi gli avrebbe fatto paura, se non fosse
cresciuto in simbiosi con la natura e i suoi elementi. Si. Una paura dannata.
Aveva gli scarponcini di finto camoscio (che aveva pregato la mamma per sei mesi per
farseli comprare, visto che quell’anno erano di moda tra tutti i suoi compagni ed era
convinto che, se la mamma non si fosse sbrigata a comprarglieli in città, la moda sarebbe
passata prima che lui provasse il piacere estremo d’indossarli) completamente zuppi, i
capelli rossi fradici e ritti sulla testa e cominciava ad avvertire brividi che tanto
somigliavano a quelli della febbre, accidentipurealei.
— e accidenti a Tommaso Deiua e alla sua festa di compleanno —, mormorò il piccolo tra
sé. Però era stata bella. Bella davvero. C’era tutta la classe a giocare, bere e mangiare
pasticcini mignon, quelli che alla mamma piacciono tanto “ma tocca comperarli una volta
l’anno, piccolo mio. E’ roba di lusso, per noi!”, diceva la mamma. Già, roba da ricchi e a
proposito…non sapevo che Tommaso avesse quella casa così grande e persino i camerieri
c’erano, sulla villa tra i vigneti, e i cani da guardia. Veri dobermann, signori miei di Viale
dei Gigli Gigliosi, si si, eppoi c’erano i Mamhutones fatti venire appositamente dal signor
Dottor Deiua medico condotto chiamato d’urgenza a metà festa, la sua signora casteddaia*
di nascita che si lamentava che mio marito, bontà sua, lavora anche il giorno del
compleanno del primogenito e l’ erede festeggiato da Mamoiada e dintorni e i palloncini
che me ne hanno persino regalato uno (quello a forma di dirigibile assicurandomi che
sarebbe volato alto alto come gli aquiloni)ma poi me l’ha scoppiato quell’idrocefalo di
Caccola con la forcina di Susi. quanto era carina Susanna col suo vestito rosa!Però la
forcina a Caccola non gliela doveva far prendere, no. Proprio no. E ora eccomi qui senza
palloncino e fradicio e mi fa male la testa e mi scappa di farla quasi quasi la faccio qui per
strada tanto non si vede nessuno però quei pasticcini erano così…buoni!Non come i
biscotti che fà la mamma di domenica quando si sente di farli. Però ci somigliavano un
pochino, ecco. Si. E i regali!Piffero, che regali! Domani mattina a scuola gli chiederò cosa
gli ha regalato Susanna accidenti com’è tardi!.
S’inoltrò nel campo di sterpaglie passando in mezzo a due alberi abbattuti dal forte vento
della notte precedente, affondò fino all’altezza dei fianchi nella verzura per un breve
tratto, risalì la collina e dove quella, tramite una striscia d’erba si allungava verso un bosco
di pini trasformandosi, a circa cinquanta metri prima, in un groviglio di rovi; Simon
straorzò ad un avvallamento e saltò sul sentiero, ombreggiato da olmi talmente fitti e
frondosi da formare una tettoia di smeraldo. Ora, su di un poggio erboso, riaffiorava la
cima di una vecchia ciminiera arrugginita; la TITANICa, come la chiamavano Giona e gli
altri, con la “a” finale minuscola, come che il Titanic fosse affondato lì senza che nessuno
se ne fosse accorto
.................................
Pizzinneddu…*
Piccolino della mamma, adesso è ora di dormire, tanti mondi incantati
Nella tua culla aspettano già. E cullandoti mio amore, piano voglio
Raccontarti tante favole che in sogno sembreranno realtà. Nanna a
mamma.
(NANNA A MAMMA, ninna nanna della tradizione popolare sarda)
cagliaritana, di Cagliari
Casteddaia*
.................................
e la ciminiera fosse rimasta fuori, talmente più resistente della nave più resistente del
mondo che giocoforza doveva chiamarsi TITANICa. E chissà quanti fantasmi di prima,
seconda e terza classe brulicavano dentro quella ciminiera TITANICa. E chissà quanto
erano incazzati, soprattutto quelli di terza classe. Simon novello Peter Pan volò oltre,
rabbrividendo un poco al pensiero dei fantasmi TITANICi vendicativi a caccia di bambini
sardi di cinque anni quasi sei che disobbediscono alla propria mamma e tornano tardi a
casa passando per il bosco fatato?Sentiero della TITANICa. Apparve il mare e la distesa di
sabbia, case a grappolo e, giù, la veranda bislacca della sua, di casa, e si stranì parecchio di
non vederci anche la mamma affacciata al parapetto ad aspettarlo con la faccia contrita o
magari passeggiando su e giù per il cortile, tra un paio di mutande e il grembiule da
cucina stesi ad asciugare sulla corda che partiva da un ferro piantato dal nonno sulla terra
per arrivare al tronco del grande olmo, l’albero sopra il quale Simon si rifugiava dopo
averne fatta una delle sue oppure soltanto per sognare davanti alla maestosità del mare,
alle onde alte, ai gabbiani liberi. Si stranì parecchio parecchio poi quando, giunto trafelato
all’ingresso della casa, non vide il nonno. In compenso però, Beniamino era acciambellato
sulla sedia a dondolo, vicino al grande vaso di ortensie blu che iniziavano a perdere
colore. Una gallina piccola e magra razzolava tastando e smuovendo il terriccio. Simon
levò gli scarponi, annodò i lacci per le estremità e li appese sulle spalle. La logora tenda
antizanzare era tirata maldestramente su di un lato e all’interno, in cucina, poggiato
(curvo?) sul tavolo c’era (eccoti qui!) nonno Giacomo, la testa fra le mani callose e gli occhi
chiusi. Accanto a lui l’immancabile e bislacca paletta schiacciamosche in plastica rosa, il
bottiglione da due litri d’acquavite aperto, il tappo in sughero al centro del tavolo e un
piatto con sa burrida* ancora fumante.
— Ciao! — disse semplicemente, timidamente Simon e l’uomo aprì gli occhi e li sollevò,
allargò le braccia.
— Vieni, figliolo —
— E mamma? —
— C’è…c’è stato un incendio nella fabbrica…la macchina stiratrice le si è rovesciata
addosso —
— Mamma —
— E’ viva Simon, ma dovremo essere forti. Più forti di prima —
— Ho fatto tardi perché stavo giocando e non mi sono accorto dell’ora e —
— Simon—
— Non lo farò più, prometto che non lo farò più pensavo che non ci fosse nulla di male a
mangiare i pasticcini erano buoni —
— Figliolo —
— Come i biscotti che fà mamma ma non mi sono accorto dell’ora, scusa. Io…non lo farò
più, davvero —
— Oh Signore, che disgrazia — sussurrò nonno Giacomo e Simon lasciò la cucina
guardando attraverso ogni cosa ogni VentoEvento senza davvero vederla, tremante e
pallido e muto. Uscì in veranda che Beniamino ancora sonnecchiava, scese i gradini uno,
due e tre. Attraversò il cortile. Ecco il tronco del grande olmo; Simon prese a scalarlo agile
come una scimmia. Arrivò in cima e lì contemplò il mare a cavallo di un grosso ramo, si
raggomitolò su sé stesso in un nuovo silenzio per combattere il suo mondo. Sapeva che il
mondo vero non va avanti così; come gli struzzi quando nascondono la testa sotto la
sabbia. Non avrebbe potuto funzionare così. Ma era la sua unica difesa. Di mutino.
***
Calore di pelle riportò Giona alla realtà in una lenta dissolvenza. L’aveva cercata a lungo
la sua sirena fino a che non aveva compreso che la vita, e i sogni, i sogni di ogni uomo;
sono come il pino laggiù, fuori dei vetri di una corriera che passa troppo in fretta. In quella
consapevolezza aveva trovato ciò che si era proposta, dall’inizio della sua ricerca, di
trovare. Un albero nasce e cresce, e per vivere bene non ha bisogno che della sua terra, e
del suo sole, dell’acqua. E cresce da sé, da sé si alimenta. E non ha altre ambizioni, l’albero,
se non quella di vivere la propria vita come il dono più grande… quante cose potrebbero
raccontare, gli alberi, se solo potessero parlare!
Una minuscola mano strinse la sua con foga. — Ma…onna! —, chiocciò la bambina dai
ricci neri. Giona sorrise dolcemente. — Ma…onna!! —, ripeté la piccola storcendo il
musetto lentigginoso e grassoccio in segno di convinzione. — Nooo, Nannina. Non dare
fastidio.
Non è la Madonna; questa signora si chiama suora ed è… lo posso dire, vero? — La
giovane mamma di provincia, in sovrappeso e dall’ombretto d’un improbabile argento
calcato esageratamente si sarà truccata al buio?, Pensò una teen ager con la coda di cavallo
secca, mesciata e con le doppie punte, affondata nei misteri di Agata Christie ed in un
sedile, alle spalle di quello della madre e la sua bambina, che di sedile aveva oramai
poco;sfilacciato e liso, prenotato dai taglierini: “maria ama giancarlo e nessuno ci divide” e,
più sotto: “Giancarlo svegliati:Maria ama chi le capita”; arrossì spiando Giona con un
misto di pietà e soggezione. (“In passato doveva essere una donna molto bella e ora suora.
Un’infelice, sicuramente. Sono certa che è infelice come tutte le suore. Io sono sicura che
tutte le suore, come pure i preti, sono degli infelici. Chi gliel’avrà fatto fare? Fosse toccata a
me sarei morta. Arrazza de fortuna*!… Comente nonnu chi naraiada: “babbu meu est
naschidu poberu poberu. Tott’induna si le girada sa fortuna in peis, e est mortu pedinde”.
Non si può vivere senza un uomo. Io piuttosto sarei morta. Che il Signore mi perdoni ma
mi viene in mente pure thia Rosaria Caria, tanto allutta* e sinzera!Le scappò di casa la
figlia maggiore che faceva la vita a Cagliari, incinta a diciotto anni di un quarantenne già
sposato e figliato e lei non batté ciglio, ma urlando ad Oniferi* per notti intere la sentirono.
Urla e pianti da gatta macca*. E per leggerle il dolore stampato in su la faccia, nel forno
della pasticceria di famiglia; le comari facevano i salti mortali ma lei appariva come la
Madonna di Lourdes e sempre col sorriso. ”Ci ho da fare oggi e scusate; ci ho una corsa,
comare mia, che neppure te l’immagini”. Aveva sempre da fare epperò la casa era sporca,
avevano i soldi ma il marito e il figlio camminavano a testa bassa coi maglioni bucati e lei
pure girava in paese che, dicevano, odorava di sporco. Fu quando morì thiu Caria che si
spense. E si spense proprio. Babbo raccontava, Dio l’abbia in pace, che sa thia si spense
come una lampadina fulminata o del vino lasciato senza tappo e della sua spipillaggine*
non si ricordò più nessuno. Poi, inaspettatamente, si fece suora. La vocazione la regalò la
morte, a thia Rosaria Caria.”).
— E’ l’angelo della Madonna sulla terra. —, concluse la giovane e pettegola madre,
giungendo finalmente alla cima dei propri pensieri. — An…elo Ma…onna! — soffiò di
felicità la bimba e prese a saltellare tra i velluti dell’abitino e i fiocchi vezzosi, porgendo le
braccia in direzione di Giona: — Vuoi venire con me Nannina? Vieni. Lasci che venga
signora, chè non mi dà nessun fastidio; sono abituata ai bambini, anch’io un tempo…—
lì, la frase si smorzò in gola. L’altra la scrutò con curiosità golosa, umettò le labbra a cuore.
Un sudario di dolore immenso attraversò ogni fibra di Giona, paralizzandola. Poggiò un
bacio mesto sulla fronte della piccola, la restituì alla mamma con cenno dolce del capo e, di
nuovo,
Fece una preghiera.
A te, Gesù buono e caro. Ti scongiuro, fà che la mia mamma ed Annetto salgano in cielo e
ci salgano senza intoppi (e magari che Annetto ritrovi la sua sirena e possa dipingerla e
divenire il primo Pittoresco Famoso di Mare e di Cielo). Aiutali tu. E aiuta me e Peppino e
papà ad andare avanti lo stesso chè… . — Che dobbiamo essere uniti, Peppì —, bisbigliò
Giona. La bambina avviluppò le dita a quelle gelide del fratello. Il ragazzetto, infagottato
nel completino da cerimonia rigido rigido, odoroso di naftalina e le occhiaie di chi non
dorme da giorni; non riuscì a rispondere alla stretta e non ci provò nemmeno. Gli zii di
Nùgoro allungarono a turno un bacio sulla fronte imperlata di sudore ghiacciato del
ragazzino. Angela, la sorella della sfortunata Gigliola (quella ricca di città); si accinse a
esaminare con occhio clinico l’ambiente, sporse dalla bancata per sistemare un giglio
rigogliosamente Interflora nel vaso laterale all’altare, approfittarne per mostrare agli
interessati il nuovo visone, forse un po’ troppo caldo per quel periodo dell’anno, e
acquisire una visuale almeno parziale dei presenti con la coda dell’occhio. Tutti poveracci
da uovo alla coque e interrati vita natural durante nelle loro catapecchie che osavano
chiamare case. Oh si, Sant’Iddio. Neppure un tailleur. E a dei morti di fame cosa può
accadere, se non disgrazia su disgrazia. Si sa che piove sempre sul bagnato, e in questo
caso, per quanto la riguardava, aveva piovuto pure troppo. E quei poveri piccoli Cristi
orfani di madre (e Gigliola era stata una ragazza troppo ribelle, per i suoi gusti.
Anticonformista. Quella piccola selvaggia di sua figlia Giona prometteva bene anche lei.) a
quest’età. E nessuno che avesse pensato ad un sottofondo musicale;un leitmotiv
d’accompagnamento, chessò;un Fur Elise malinconico ma estremamente significativo. Se
fosse stato possibile pensare con un tono, il tono che avrebbe avuto Angela Demura in
quel momento sarebbe stato sul pedante mosso.
Aveva i nervi a fior di pelle. Il suo astio nei confronti d’un genero macho ma
insopportabilmente paria (altro che suo marito; l’avvocato più grasso, profumato,
occhialuto e In del capoluogo barbaricino) era stato gagliardo dall’inizio. E non c’era nulla
da fare; era più forte di lei il disprezzare una classe inferiore, di lei; nata e cresciuta tra
coltivatori di olive e intagliatori di sughero. Ma sposata al migliore avvocato di Nuoro e
Nobil Donna acquisita, perciò. Coi seni futuri clienti dell’immensa Silicon valley. Piove
sempre sul bagnato. ”Giornata campale davvero. E se adesso lo spirito di Gigliola sta
veleggiando — si può dire veleggiare per uno spirito? — qua attorno e sente il mio
pensiero?Mamma mia. Ma era lei quella che credeva agli spiriti, alle cose strane,
ultraterrene… diceva. Magari la cara sorellina ora mi veleggia sopra la testa ed è lì a
lanciarmi qualche anatema per i cattivi pensieri, ”makumbe” le chiama mio marito.
Viviamo in una città di lanciatori di makumbe, dice lui. E se i lanciatori di makumbe
vivono a Nuoro, figuriamoci se non riescono a campare bene a pane e pesce qui in
costa…”
— Coraggio, Peppino. Sei il capofamiglia, ora —, rincarò ad un nipote concentratissimo
con occhi chiusi e la fronte sudata; tremando al pensiero dell’ipotetico, attuale veleggiare
della sorella madre di un ragazzetto figlio di pescatore che s’era avvolto nelle reti pure il
giorno del funerale della moglie;Peppino, quasi capofamiglia di una famiglia che puzza di
pesce day by day. My God. Angela calò dunque sul viso la veletta nera del suo cappellino
Chanel affinché l’eye-liner non water resistent sciolto da qualche sporadica lacrima e
pensieri particolari non trasparissero ai lanciatori di makumbe. Poi, preoccupazione su
preoccupazione; modulò il tono della voce per limitare l’ istintivo “calcare” sulle doppie
tipicamente sardo come le aveva insegnato imposto? a fare, da anni, suo marito. (— e
attenta ai riflessivi, Angela, per cortesia. Non puoi permetterti assolutamente di errare in
merito ad un riflessivo dinanzi al tuo interlocutore. Cosa penserebbe di me? —).
..................................
Sa burrida*
arrazza*
bentana*
leppa*
Comente…*
allutta*
Thia*
Oniferi*
Macca*
Spipillaggine*
razza (pesce)
che razza di fortuna!
finestra
coltello a serramanico
come nonno che usava dire “babbo mio è nato povero povero, tutto
d’un tratto se lo gira la fortuna nei piedi ed è morto chiedendo
l’elemosina
arguta, sincera
zia
paesino del nuorese
matta
brio
..................................
Ad Angela, a parte i riflessivi, scappò comunque un bel ccappofamiglia. Ma nessuno in
chiesa se ne accorse. Peppino fissò incantato il viavai nella chiesetta gremita da corvi,
rondini, scarafaggi e pecore e le bare addormentate su stecche di ferro in mezzo ai fiori —
e i fiori?Perché i fiori? — sospese tra mosaici gibbosi di Cristi, Demoni e Madonne
medievali, lignee e policrome, impenetrabili, ancorate tra inferno e purgatorio, povertà e
miseria, e la mamma e Annetto lì - troppo fermi -, perché fermi e violacei e affogati e
(mamma e Annetto sono affogati nel Mare-Mangia-Cristiani-che-ne-lascia-una-e-neprende-due per salvare Giona dalla furia delle onde… lei, — che ama…— che ha amato il
mare più di… di ogni altra cosa al mondo, mamma che ci lasci affogare soli, adesso) babbo
che non è riuscito a venire in chiesa, ha bevuto tutta la notte lui che non beveva un goccio
di vino da quando, dicevi tu orgogliosa, ti aveva sposata e piangendo e stringendoti la
mano e chiedendoti perché, e. Il crocifisso sopra l’altare. C’era quasi da prendersela con
lui, e l’avrebbe fatto; ma prendersela coi morti è la vigliaccata più vigliaccata che si possa
fare da vivi. Un vivo vince solo perché… è vivo. Lo fissò ancora, il sedicenne Giuseppe con
un dolore pulsante alla testa. E lo sfidò a pugni chiusi, in quel momento e come avrebbe
fatto per tutta la sua vita, prima da cucciolo di pescatore tra reti e pesci poi da Guardia di
Finanza tra pistole e maiali a Roma: “ma chi sei tu, tu, tu?Tu che dài e togli e prendi e rubi
e… e… e… chi sei tu?Chi sei davvero?Per spogliare gli alberi delle foglie, muovere le
stelle e la luna, brillare il sole, innamorare e morire; chi sei se ci sei? Che tagli i fili e li
riallacci, li annodi e li mischi: chi sei TU e PERCHE’ ci sei?”.
“Chi sei TU?”, pensava Giona bambina, ruggendo dei suoi pensieri impotenti ma
avvertendone lo smarrimento;elaborandone l’immagine in parola: “ho creduto in te senza
conoscerti e ti ho pregato con amore e fede, come mi hanno insegnato a fare. Anche
quando ero stanca la sera per aver aiutato il babbo a essiccare i pesci azzurri o i nonni a
ottobre, su a Nugoro, a raccogliere le olive, tanto stanca da non bastarmi un aspirina per
stare meglio… e somiglia al dolore di questo momento, non basta un’aspirina! e stare su di
un ramo per ore, al freddo, a fare cadere quella roba e poi raccoglierla non è proprio una
cosa facile, sai, Gesù. Un po’ come te, sempre appeso a soffrire alla tua croce che guardi e
basta. Dicono che non giudichi e alla fine in fondo in fondo da bravo padre promuovi
tutti… e allora che senso ha distinguere buoni da cattivi?Raccogliere le olive pure se non
ne ho voglia. E’ un po’ come pescare anche lì; peschi i frutti della terra e peschi solo se è
stata un’annata buona. “Come Dio ce la manda”, diceva nonna, e quindi c’entravi tu o chi
per te anche in mezzo alle olive. E se ora venisse un miracolo e mamma e Annetto saltano
giù dalla bara come che nulla sia successo e tutti lì a ridere e ballare su tilli tilli con le
ghirlande intrecciate di anemoni, edera e margherite e il pane carasatu e sartizza e
malloreddos e… . Ma i miracoli non esistono. I miracoli non avvengono in contraddizione
con la natura, ma solo in contraddizione con ciò che ci è noto di essa. Lo dice don Porcu
che è uno studiato. Eppure tu ti sei portato via mamma e Annetto nostro. E non hai
nessuna intenzione di riportarceli, credo. A me perché mi hai lasciata viva?… perché farli
entrare in mare per acchiappare me attaccata ad una tavola di legno marcio e un crampo al
polpaccio, su e giù, fuori e dentro dall’acqua, luce e buio e notte e giorno, aria e acqua e le
onde alte e la spuma, la pioggia a picchiare il mare e le teste disperate di una donna e due
bambini…?!
— PIU’ DI COSI’ NON RIESCO A SPINGERMI… RESTA ATTACCATA ALLA TAVOLA
GIO’!! —
— TORNA INDIETRO ANNETTE’… BA… BASTO IO… VAI, LA PRENDO IO —
— CI…CI SONO I MULINELLI MA’… L’ACCHIAPPANO I MULINELLI SE NON LA
PIGLI SU… BITO! —
— ESSI A FORAS* ANNETTE’… ESSI COMMO!!!L’HO PRESA… L’HO PRESA! —.
L’ ebbe per un’istante, Gigliola Demura, l’illusione di avere fregato il mare con l’energia
del pensiero, delle sue bracciate vigorose ed esperte e la volontà; di avere agguantata sua
figlia per i capelli. Tese il corpo in uno sforzo finale ma un’onda la travolse e Giona col suo
galleggiante tarlato (fino a mezz’ora prima facevano assieme ad Annetto il gioco del Re
Delle Onde che col suo tappeto magico in grado di viaggiare sopra l’acqua del mare
giunge al castello della Sirena per chiederla in moglie) la vide scomparire all’improvviso
sott’acqua. Gigliola riemerse con la bocca spalancata ma senza emettere grido, singultò un
sospiro mozzo e roco, gli occhi vuoti, fissi e vitrei. Tossì vomitando, annaspando. Un’altra
onda e tornò sotto e il cervello, mentre l’acqua penetrava in gola e nelle narici, si chiuse.
Gigliola fu quasi felice di morire proprio fra le braccia di quel mare infedele del quale, per
tutta la sua vita, era stata l’amante più dolce e silente e che ora, con una forza alla quale lei,
Penelope, era incapace di resistere; la reclamava sposa a sé. Ma neppure una Regina può
conoscere tutti i segreti che cela il proprio regno, Regina. Mai del tutto. Nessuno può
conoscere il mare, Regina. Mai del tutto. In quella manciata di secondi Gigliola
raccomandò anima e figli al Signore e, finalmente, l’oscurità ebbe il sopravvento. Giona,
sui flutti, chiamò. Vide Annetto dibattendosi fra gli spruzzi salati e convulsi, poi seguire la
madre e immaginò i mulinelli del Signore Cattivo Delle Acquemangiacristiani richiudersi,
godendo, sopra la testa del fratello. Ululò e chiamò e fu tentata mille volte di lasciarsi
andare di sotto anche lei, ma l’istinto di conservazione ebbe la meglio. Allora singhiozzò
isterica per ore Giona, attaccata alla tavola magica e all’immeritato spiraglio di salvezza.
Urlò frasi sconnesse e pianse anche all’arrivo della barca del padre che, con l’aiuto dei
compari pescatori la raccolse imbambolata; lei e la sua tavola. Soltanto a notte fonda il
corpo di Gigliola venne recuperato come pure quello di Annetto; croce galleggiante in
balìa delle maree parecchi metri più a nord della riva, entrambi avvolti in un lenzuolo
d’alghe e gonfi, violacei, superbi e irreali come il mare a dicembre.
MALILLA, 12 dicembre, h. 12.50
Soffocò uno sbadiglio. Ancora una decina di chilometri in direzione ovest e si sarebbe
immessa in superstrada e via a passo spedito fino a Cagliari. Scalò di marcia con gesto
nervoso ed il maggiolino claustrofobico giallo senape ebbe un sussulto tachicardico,
decelerò rinculando. Gettò un’occhiata lesta alla fila delle auto al distributore di benzina,
ad un vivace cespuglio potato a regola d’arte ed imboccò acelerando un lungo viale
alberato e troppo ombroso. Quasi l’ una. Speriamo non piova. Ma perché poi dovrebbe
piovere il 12 di dicembre e non, magari, nevicare?Mah. Forse grazie allo stesso, identico
motivo per il quale ogni giorno sorge il sole. Quanto amava la neve, da bambina. Ne aveva
vista poca, questo sì. Ma quando le era capitato, bhè, era sempre stata una festa;un giorno
speciale. Distese e distese senza fine di cotone immacolato che veniva voglia di buttarvicisi
dentro nudi. Sì, nudi. Puro a puro. E la campagna, dopo la nevicata notturna aveva un che
di magico. Ma tutto da bambini ha un che di magico. Anche il pane carasatu di thia
Gavina. Quando il donnone infilava la pasta lievitata dentro il forno a legna, in pochi
minuti quella gonfiava e gonfiava e l’odore!. Vabbè. Qualcuno dovrebbe mettere il pane
caldo di forno in una categoria protetta, un’oasi magari. E le more. Il tempo delle more
l’aveva chiamato, il suo sesto compleanno. Con la mamma, mentre i tre fratelli maggiori
erano nel cortile della casa a giocare da maschi veri a calcio tra spintoni, galline, parate,
rigori falsi e urla; loro, le donne, avevano preparato barattoli di marmellata per mesi, tutte
sole come non era mai accaduto prima; lei e la mamma; per anni Nomination al Nobel per
la letteratura (“e siccome quest’anno sento che sarà l’anno buono, facciamo la
marmellata!”). Forse non aveva mai sentita la mamma davvero SUA come in quelle poche
ore, in quella cucina di trent’anni almeno a spadellare e impiastricciare con chili di
zucchero, mestoli, grembiuli, detersivo per piatti e pentoloni antiaderenti da sgrassare.
— Girala bene o si attacca —
— La giro, ma che senso ha usare la pentola antiaderente se —
— Stellina… faresti qualsiasi cosa pur di lavorare meno. Ricorda, e ricordalo sempre chè
—
— “… che te lo dico oggi e non te lo dico più”—, la interruppe sogghignando la figlia.
— Già —. la donna scoppiò a ridere buttando indietro la testa in quel gesto che le era tanto
caratteristico e Malilla bambina non poteva fare a meno, ogni volta che la vedeva così, di
pensare, orgogliosa, a quanto fosse bella e giovane la sua mamma, e forte, e… sua
mamma.
Una volta soltanto, davanti al caminetto scoppiettante e rossastro di legno di pioppo e la
madre che curva sulla tavola di cucina, lavorava con foga la pasta per i culurgiones* ogni
tanto fermandosi per bere caffè da una tazzina stinta — era la mattina fredda del suo
quinto Natale, fuori delle finestre la pioggia frustava il mare rabbioso e le nuvole, Malilla
lo rammentava bene, s’inseguivano accavallandosi nel maestrale prepotenti, gonfie e nere
all’orizzonte — le aveva domandato timidamente dov’era suo padre e soprattutto perché
non era lo stesso padre dei suoi fratelli. Era stato durante quel frangente che l’aveva vista
impallidire e farsi più curva. La madre, avvolta nella calda e lunga vestaglia di flanella
nera, aveva portato indietro i capelli incurante delle mani imbrattate di farina e acqua e la
bocca aveva tremato un poco, distolto lo sguardo dalla bambina con l’orsacchiotto nuovo
in una mano e un cucchiaio in plastica gocciolante nell’altra. — Fammi finire. Ora si
alzeranno i tuoi fratelli e dobbiamo preparare la colazione anche per loro; sai che se Tonio
non ha il suo tazzone di caffelatte e pistoccu muore. — aveva bisbigliato, cercando di
scherzare. Poi finalmente l’aveva fissata con dolore immenso, abbracciandola aveva
assicurato che gli somigliava molto, in ogni gesto di lei ne aveva sempre visto il padre.
L’uomo era morto prima che nascesse, era un artista che aveva girato il mondo e come il
mondo, più di ogni altra cosa al mondo, sua madre l’aveva amato. E può accadere anche
di volere molto bene ad una persona e scambiare quel gran bene per amore. Siamo uomini,
e agli uomini può accadere anche ciò che non è bene che accada. I suoi fratelli erano nati da
un bene molto, molto grande. “E da una ragazzina che credeva di essere donna. Lo è
diventata anni dopo, con il dolore e la vita e non con suo marito. Quella ragazza ha
imparato che a volte il proprio amore non basta, per spaccare il mondo ed un pezzo del
suo sogno, del suo mondo, in quel momento s’è rotto in lei per sempre”, aveva pensato la
donna, “… e Dio sa quanto non vorrei che accadesse a te, bambina”. Comunque, a Malilla,
la frase della madre era bastata per renderla felice. Da un grande amore doveva nascere
per forza qualcosa, qualcuno di speciale. Forse Malilla stessa era speciale, e quei cinghiali
dei suoi fratelli avrebbero dovuto rendersene conto; volenti o nolenti. Perciò basta con i
lombrichi nel bicchiere e gli sputi nella minestra di pistoccu e casu marzu*. Tronu a conca
chi li pighede*.
— stellina, stai girando? —
— Eia… te lo dico oggi e non te lo dico più! —
— Già —, convenne la donna, ridendo e tirando una mestolata affettuosa nel didietro
della piccola:
...................................
culurgiones*
essi a foras…*
Pistoccu…*
Casu…*
Tronu a…*
ravioli tipici ogliastrini a base di formaggio pecorino, menta, patate
tornatene fuori… torna adesso, subito
pane tipico ogliastrino
formaggio marcio
un tuono in testa che li colga
...................................
— Ricorda che se una cosa, qualunque cosa, la fai bene e con impegno (e se c’è pure
l’ingegno tanto meglio; se c’è solo l’impegno è comunque già metà strada fatta); ciò che
ottieni, anche se poco, per te sarà il massimo. Scommetti che questa sarà la marmellata più
buona che abbiamo mai mangiato? —
La bambina annuì convinta: — Mmmmh, mmmh. Si. —
— Bene. Allora gira e non fermarti fino a che non sarà la stessa marmellata a chiedertelo —
— Lo chiederà? —
— Certo che si. Nera nera e densa e schiumosa e odorosa. Senti un po’: le more, quelle
ultime… le avevi lavate? —
— Dovevo… lavarle? —
— MALILLA! —
— Scherzo mà!! —.
Malilla respinse il flashback.
Oggi c’è quel gran rompipalle di fotografo austriaco allo studio — come diavolo ha detto
che si chiama Stefy? — Van Darhen, no. Van DARHENL. Con la elle finale. Nome
impossibile… l’avessero dato a me avrei posto fine ai miei giorni da un pezzo ma… bhè…
pure Malilla forse non è il massimo e comunque Van AccidentiAlui è peggio. Trattalo
bene, non fare i soliti capricci, Maly. Van è un professionista della fotografia e farebbe
figurare bene anche uno scimpanzé in bikini su Vogue.
— Ma non accetta bizze da diva; neppure se la diva in questione è una delle top del
momento… e spegni quell’accidenti di sigaretta! Ancora devo ripeterti che la nicotina…—
— Danneggia lo smalto dei denti. Lo so, Sam, lo so. Ma tu sei il mio agente, non il mio
dentista e cristossanto, smettila di trattarmi come una bambina deficiente! —
— SE SEI ARRIVATA AI TUOI LIVELLI…—
— Lo devo anche a te. ANCHE A TE, Sam. Non SOLTANTO a te —.
Malilla allungò la mano verso lo zaino in pelle nera abbandonato sul sedile di fianco, frugò
nella tasca interna, raccolse il pacchetto di sigarette senza filtro. Armeggiando col
cartoncino dorato della confezione ne estraette una, la portò alle labbra laccate di rosso e la
tenne in bilico così, i sensi all’erta e l’odore del tabacco agre, il gusto dolceamaro. L’accese.
Tentò di respirare la nicotina con tutto l’odio e la rabbia dei quali era capace ma ottenne
soltanto un patetico tremolìo ansioso della bocca e del mento. Arrestò l’auto stridendo al
rosso di un semaforo e il suo orsacchiotto di pezza che aveva visto tempi migliori volò nel
sedile accanto. Malilla sòcchiuse gli occhi, avvicinò le lunghe dita alle labbra, raccolse la
sigaretta tra l’indice ed il medio e neppure la guardò, aprì uno spiraglio nel vetro e la gettò
fuori senza spegnerla. Aveva fatto ancora quel sogno. Già. Cosa ben strana visto che di
norma, ultimamente, andava a dormire imbottita di tranquillanti ed era sempre un sonno
pesante il suo, senza sogni; non era solita ricordare nulla della sera precedente, neppure se
avesse dormito in beata solitudine o con uno dei Blues Brothers. Le auto dietro di lei
presero a fare di clacson. Verde. Verde. Pace. Convento. Ripartì sgommando. Malilla non
era solita RICORDARE in generale; forse perché il ricordo genera nostalgia, o rimpianto,
spesso la tristezza verso ciò ch’è stato e non sarà più o non sarà mai. Non amava ricordare,
Malilla; figuriamoci i sogni. Eppure aveva fatto ancora QUEL sogno. La quinta, no, la
sesta. La sesta volta nel giro di dieci giorni. Sospirò in un soffio roco. Aprì il cruscotto,
acchiappò felina gli occhiali scuri, li adagiò vicino al beauty case e scalò di marcia, inforcò
gli occhiali. Probabilmente era il richiamo della sua “provincia segreta”, quello, il luogo
che ognuno porta dentro e in cui ha bisogno di perdercisi così, ogni tanto. Non poteva
(DOVEVA)essere altro. Sentiva senza ombra di dubbio di attraversare uno dei suoi periodi
più floridi dal punto di vista professionale. Soprattutto economico. Dopo anni di gavetta,
books, qualche tirata di coca e letti sfatti era in quel momento nel suo momento d’oro ed
avrebbe usato unghie e denti per difenderlo, se necessario. Ma difenderlo da COSA? Altro
che richiamo della provincia segreta. La piccola Malilla Smaili dalle gonne tagliate sotto il
ginocchio e le camicine col colletto inamidato al profumo di sapone di Marsiglia e
naftalina. “Non perdere mai questi profumi durante la tua vita futura, Malilla”, l’aveva
redarguita la mamma alla sua partenza per Cagliari dopo il primo vero ingaggio da
un’agenzia di modelle, “non perderli e non ti perderai. Quando ti parrà di stare per
perderli allora vorrà dire che è arrivato il momento di tornare a casa per ritrovarti.”. Ora la
prima Malilla non esisteva più, e questa è la dura legge dello show business, baby. O ti
adatti alla scena (e a venticinque anni in questa scena sei già vecchia) o sparisci dalla
ribalta e che si spengano le luci e cali il sipario. E se sparisci è come che tu non sia mai
esistita cara, poiché il mondo è pieno di adolescenti in fiore che la sanno moltomolto lunga
sulla lunghezza delle gonne;oh, si. O vendi, e allora assieme alla tua immagine vendi
anche l’anima, Dorian Gray in abito da sera, o sparisci.
Anche se sparire avrebbe significato vivere davvero, forse. Però Malilla doveva fermarsi;
aveva BISOGNO di fermarsi solo un secondo, un attimo, e che il grande austriaco attenda
pure le mie bizze. Stoppò il maggiolino nel Parking di una tavola calda caotica e
indaffarata. Poggiò la testa sul volante. — … un secondo solo, Dio. Dàmmi solo un
secondo PER ME —, bisbigliò mentre la faccia glabra di un camionista stanco la scrutò
curioso dallo specchietto retrovisore nell’ingollare un sorso avido di birra olandese da una
bottiglia d’un quarto di litro. Ticchettò nel vetro: — Tutto a posto, signorina? —, fece, con
marcato accento veneto e Maly trasalì, riaprì gli occhi — Eh? —
— Dicevo se va tutto bene —
— S… si, grazie. Un po’ di stanchezza —.
L’altro assentì visibilmente sollevato. Quell’uomo doveva aver visto parecchia gente
passare in fretta al Creatore, cogitò Malilla. Lo vide rimontare nella cabina del TIR invasa
da calendari di Playmates, mettere in moto e partire mordicchiando mezzo sfilatino con
lattuga e cotoletta. Giona Demura. Ancora la SantissimaMamma. Il mito. E Gloria in
Excelsis Deo. La grande scrittrice che al culmine del successo lascia la scena per chiudersi
negl’ infiniti silenzi, le proprie verità.
In quei rifugi mentali segreti che, di solito, una persona NORMALE (ma chi o cosa è in
diritto di stabilire ciò che è davvero normale?) riesce a tenere a bada anche di fronte
all’altra gente e non chiudendola fuori dalla propria testa, l’altra gente. Sua madre era
stata tutta la sua vita, allora. E la vita era rimasta laggiù, tra gli scogli ed il mare e la
campagna agreste e calda del tempo delle more, i cespugli di mirto e rosmarino, le
raganelle sui tralci di viti feconde e i canti di gallo. E ora, dopo anni di silenzio, la
telefonata.
(— Ho avvisato i tuoi fratelli ma ci tengo che soprattutto TU, ci sia, accanto a me. —
Una risata: — E’ una preghiera, questa, mamma? —
— Si, Maly. Stavolta lo è. Ti prego di venire. E’ giunto il momento di lasciare il passato da
una parte. Tu devi… hai diritto di… conoscere una persona —).
Frugò ancora nello zaino, estraette il portapillole placcato d’oro, l’aprì lentamente facendo
attenzione a non rovesciarne il prezioso contenuto. Intinse un dito nella polvere bianca,
aspirò strizzando gli occhi dal piacere. Ma si, sarebbe andata all’appuntamento con sua
madre; era la scusa per vederla anzi, perché sua madre e i suoi fratelli vedessero com’era
diventata grande; importante. Dal vivo e non più dalle copertine, dai pettegolezzi dei
rotocalchi. Si sentì pronta ad affrontare il pomeriggio con l’austriaco. Non c’era più tempo,
adesso, per i rifugi segreti.
ANTONIO, Arbatax, 12 dicembre, h. 10.00
Aveva i piedi posati sul banco tarlato e le dita intrecciate dietro la nuca quasi totalmente
priva di capelli. Il volto rideva e la bocca pure. Ma gli occhi no. Col tempo e con l’infanzia
il sorriso era scappato lontano per un po’ di ferie e all’arrivo delle prime cambiali da
pagare, Antonio il buonumore aveva scordato cosa fosse. Vicino alla cassa, dentro un
barattolo d’alluminio della Chupa Chups, girandole multicolore vibravano ad ogni soffio
d’aria. Antonio ci alitò sopra. Non si mossero. Levò i piedi dal banco e con l’indice
grassoccio e flaccido toccò la sezione verde di una girandola. Con mani sudaticce dette lo
start e soffiò. Quella girò. Se c’era una cosa, porco diavolo, che ad Antonio non andava
giù, normalmente la lasciava perdere. Il non andare giù significava certamente ch’era
destino che non andasse giù e quindi era inutile opporsi al destino. Scrutò la girandola,
strumento tutto sommato facile da far andare giù. Quella terminò il giro e Antonio
concentrò la propria attenzione sulla donna in piedi di fronte a lui con tra le mani un
vassoio di pabassinas* da sistemare sul banco, incerta come una canna di lago, incerta
com’è incerto il vento.
— Pare ca chistionente, custos dulcis*—, fece lei
L’uomo nicchiò. — Allora posso fidarmi di te, Anna? —
— Sono quindici anni che lo fai. Sono praticamente cresciuta lavorando in bottega, prima
quella di mio padre eppoi… questa —
A Tonio non sfuggì il tono della donna; variegato mix tra il polemico e l’ironico. Sapeva
benissimo anche lui come andavano gli affari; se affari si potevano chiamare i loro. E
sapeva pure, da mesi, che lei e Gepi Maxia, il fabbro del paese, fabbricavano assieme
qualcosa che, nel bene e nel male, col ferro forse ci aveva pure a che vedere. Ma lui del
resto, quando capitava a Nuoro, non andava a visitare con piacere la signora Rita?Ed era,
ogni volta, davvero un piacere. Ma mai si sarebbe sognato di mischiare e sporcare il suo
matrimonio con “cose così”; di poco conto insomma. La minestra si poteva scaldare e
riscaldare e mangiare senza per questo tralasciare di mangiare anche l’arrosto. In tanti lo
facevano (Oh, quanti!) e se andava bene agli altri, agli amici del bar quando non c’è niente
di bello in tv, e a Don Gino che durante le confessioni domenicali di Tonio lo assolveva
mandandolo a posto e invitandolo, con la preghiera, a non farlo più e, comunque, a non
tralasciare i doveri di padre e marito (e quando mai Tonio li aveva tralasciati?); bhè, se
andava bene agli altri andava bene pure a lui. Soltanto, forse, considerava Don Gino una
specie di doppiogiochista con l’esistenza mal contemporaneizzata, vista la condizione
religiosa; tra yng e yang; lui che, ne era convinto, assolveva Tonio e magari, dieci minuti
dopo, pure sua moglie Anna. Dello stesso peccato. E pace e bene a tutti. ”Affari di soldo”,
li chiamava comunque la procace Anna, gli affari della loro bottega e che non
comprendevano né la signora Rita né il fabbro Gepi, tantomeno Don Gino il
doppiogiochista. Invecchiata prima del tempo, Anna. Eppure, quando l’aveva incontrata la
prima volta, Tonio avrebbe scommesso tutto sul fatto che lei, una così, non avrebbe
conosciuto vecchiaia. Ma tant’è. L’amore. Cosa fa l’amore e cosa ci fa vedere. Ma era stato
davvero… amore, il loro?Forse un semplice accasarsi, un “mettere insieme le capre”
completato da una buona attrazione fisica, il che non guasta mai, in un matrimonio…
d’amore.
— Che c’è allora? — gemette, infine.
— C’è che non ti capisco, Tonio. Davvero.
sono anni che non la vedi e che non si è mai preoccupata di farsi viva con te… e tu continui
a chiamare madre una così? Poi telefona, ti chiama e tu… corri. Come nulla sia successo. —
— E’ mia madre —
— E dov’era tua madre quando ci hanno sfrattati? Dov’era quando il nostro Luca è finito
in comunità?
Dov’era Tonio?? DOV’ERA? —
Ad Anna pulsavano lo stomaco e la testa.
Fissò il marito in attesa di un commento che per lei, positivo o negativo, sarebbe servito
comunque per attaccare sulla periodica solfa del QUESTONONE’UNCOMPORTARSIDA
DONNA che, per Anna, era sinonimo di madre, necessariamente con la fede al dito da
vera signora.
Doveva…
Tonio esitò, poi lasciò che la sua mente formulasse le parole.
Doveva ritrovarsi.
Tossì e respirò, alzò lo sguardo verso la moglie — Stai calma — sussurrò, — Sai la vita
che ha scelto e —
— E’ il suo egoismo, che ha scelto. Una pazzia. Aveva tutto tua madre, potere, successo,
soldi. E che soldi! Ora, grazie ad una bizzarria, ha anche il mito. E coi soldi dei diritti dei
libri mantiene i senza famiglia. Tutto questo è ammirevole ma… NOI? Perché TU, suo
figlio, per mantenerti devi affettare salame?E io? Se non ti conoscessi bene direi che sei
impazzito pure tu. —.
L’uomo sorrise o meglio, sorrisero il volto e la bocca ma gli occhi no. Restarono glaciali.
Spostò la seggiola all’indietro allontanandosi maldestramente dal bancone, s’alzò. Infilò
una pila di buste in carta per alimenti sul terzo scaffale di un mobile interamente destinato
a “contabilità e affini” come riportava la dicitura bluette di un cartello a base nera fermato
al mobile con un unico chiodino centrale, bluette. Tolse il grembiule da lavoro, infilò un
giubbetto in camoscio. Baciò la moglie sulla fronte.
— E’ mia madre, lo capisci Anna? —.
L’altra indossò il grembiule.
— Uhpff. Potresti risparmiarmi i tuoi soliti discorsi da imbonitore.
Ti deluderà per l’ennesima volta —
— Non gliene darò l’opportunità. —.
FRANCESCO, Cagliari, 12 dicembre, h. 12.00
Ordinò alla bell'e meglio le scartoffie sulla scrivania tirando saltuariamente un’occhiata
gelida alla targa d’argento intarsiato in bella mostra sulla parete: “ No good deed ever
remains unpunished”*. Lo studio era un fervore d’attività con in sottofondo il costante
brusio dei computers, squilli di telefono e risposte, fax in ricezione. Sistemando il nodo alla
cravatta in seta, Francesco arricciò il naso aquilino al profumo del bocciolo di rosa che ogni
santa mattina la sua segretaria si ostinava a lasciare in un angolo dentro un vaso di
cristallo di Boemia, accanto al cestello per la corrispondenza. Lorena non era proprio una
bellezza anzi, a dirla tutta era una di quelle donne che ti ecciterebbe a malapena
nascondendole la faccia con un cuscino. Comunque era efficiente. E comunque altissima
quaeque fulmina minimo sono labi*. Lorena era la segretaria più efficiente che avesse mai
avuto, e pazienza se aveva le gambe da cavallerizza.
Scribacchiò un appunto su un block notes intestato in caratteri oro agli STUDI LEGALI
ASSOCIATI.
— Hai disdetto tutti gli appuntamenti, Lorena? —
— Come da suo ordine. —.
— Perfetto. Se telefona l’avvocato Revern riguardo il poker di stasera inventa qualche
scusa e… ah! Lorena —
— Si, avvocato? —
— Niente. Buon lavoro —
(devo essere impazzito devo essere impazzito devo ess…)
— Grazie, avvocato. — concluse Lorena in tono servile.
Francesco era incline a credere che l’orgoglio avesse abbandonato totalmente la sua
segretaria come tutte le segretarie e i portaborse del palazzo. Ma forse l’orgoglio aveva
abbandonato anche la professione di avvocato in genere. Si sentiva un vincitore, certo. Ma
una specie di Vincitore di Pirro seppure ultimamente, dati alla mano e mano lontana dalla
coscienza; non aveva fatto altro che vincere una causa appresso all’altra.
.................................
Altissima…*
pabassinas*
Pare ca…*
No good*…
più i fiumi son profondi, con minor rumore scorrono
tipico dolce barbaricino a base di uvetta sultanina e mandorle
questi dolci pare che parlino
non esiste buona azione che non venga punita. (proverbio inglese)
Francesco Smaili lasciò lo studio col cappotto di cammello addormentato su di una spalla.
A lunghe falcate inghiottì il corridoio interrotto nella sua austera monotonia da sale
d’aspetto, uffici, quadri di caccia alla volpe messi alle pareti solo per riempirne i vuoti. —
Come quando ti fai una puttana —, pensò l’avvocato Smaili ghignando; — per riempire i
vuoti —.
Ebbe il flash di suo padre e dei suoi schiaffi ai figli, alla moglie, ad una società colpevole di
essergli, nella mente, continuamente ostile: — Che razza di… di puttana sei? —
— E tu che uomo sei per chiamare così chi ti è rimasta accanto dieci anni dandoti tutto?
Non puoi tarpare in eterno le ali ad un’aquila, Stefano —
— Io VOGLIO TE! Non ti concederò mai il divorzio… piuttosto ti ammazzo. Mia o di
nessuno —
— Ci siamo sposati che eravamo due ragazzini, siamo cresciuti, maturati seguendo due
strade diverse. Vuoi vivere con una donna che non è in grado di amarti come vuoi?
Meritiamo di meglio tutti e due —
— CHE… CHE ACCIDENTI NE SAI TU DI QUELLO CHE MERITO IO? UNA…DONNA!
CHE NE SAI, TU? IO TI AMMAZZO… RICORDALO!E CON TE AMMAZZO LA TUA
SCRITTURA. TUTTO QUELLO CHE HAI CE L’HAI GRAZIE A ME… NON AVRESTI
AVUTO NEPPURE UNA LIRA PER SPEDIRLI, I TUOI FOTTUTI MANOSCRITTI,
SENZA DI ME!! … NON METTERMI ALLA PROVA, GIONA! —).
Francesco imboccò l’ascensore. Accese un sigaro e sorrise falsamente alla graziosa e
giovane segretaria assunta da pochi giorni dall’avvocato Ferri. Lei rispose impacciata al
sorriso, strinse al petto la pila di pratiche e cartelle, rassettò maldestramente la gonna
scura, forse eccessivamente lunga. L’ascensore si fermò, chiamato all’ottavo piano del
Grattacielo Degli Avvocati, come lo chiamavano in città; INT. STUDI LEGALI
ASSOCIATI, come figurava nell’elenco del telefono, il PalazzoDeiGrattaCulieC., come lo
chiamava Giovanni Soro, il verduraio all’angolo di via Roma che tre giorni prima, e senza
preavviso! E si che le arance tarocco le conservo sempre per quella troia di segretaria
dell’avvocato Melis. A prezzo di mercato, gliele regalo!; si era visto recapitare da parte
degli Studi Legali Associati una bella richiesta di divorzio in rappresentanza della moglie
extracomunitaria che ad ogni suo intervento vocale con le belle e giovani clienti gli faceva
cenno di tacere con la mano, lei che per quindici anni di fila ha mangiato a sbafo alla mia
tavola, lei, suocera e nonna. E io che per farmi una famiglia l’ho raccolta dal marciapiedi di
Buoncammino. Manco un figlio, m’ha dato. E la nonna ve la raccomando, signore
mie!Ogni minestrone era una scorreggia che non faceva a starci… scorreggie marocchine.
E ora dopo quindici anni di sbafo s’è stufata di mangiare verdura, porca troia!
Francesco tentò di concentrarsi sul quadrante dei tasti, scrutò la fosforescenza discreta
dell’otto. Una ragazzina con zazzera viola, top nero
 corto e slabbrato in barba alla
stagione, reggiseno a vista e piercing all’ombelico entrò trionfalmente nella cabina
dell’ascensore. La segretaria d’istinto retrocedette di un paio di passi, cercò con sguardo
interrogativo quello di un imperturbabile Francesco, senza trovarlo.
— ‘fanculo a quanto è lento questo cazzo di ascensore —, osservò polemica la ragazzina
con voce da soprano dilettante, passando il chewing gum da una guancia all’altra.
Nessuno commentò, la segretaria ravvivò i capelli aggrottando le sopracciglia pensierosa.
— Se uno viene in questo merdaio all’una di notte, ha tutto il tempo di farsi violentare
mentre aspetta l’ascensore. E’ capitato alla zia di una mia amica…una zitella che gliela
raccomando, maestra di musica in pensione, poveraccia. L’hanno violentata in quattro e
bhè, era ridotta proprio male;una faccia che io non sarei uscita in giro per tre mesi di fila —
la ragazzina ridacchiò, — il mio Silver dice che, poveraccia, brutta com’è per lei è stata una
manna. E che diavolo, e chi se la scopa una così? —
Francesco represse un sorriso homo homini lupus, la segretaria impallidì. Le porte
dell’ascensore si spalancarono. La Viola fissò Francesco:
— Piano? —
— Terra —
— Oh, io vado ai garages—.
Silenzio.
— Ai garages c’è il mio ragazzo, Silver. Silver non è il suo vero nome, sa —
— Ah—.
— Si chiama Andrea Garibaldi Filiberto Delitala. E’ di nobili origini. Ma chissà che cazzo
gli è passato in testa ai suoi quando hanno deciso di chiamarlo “Garibaldi Filiberto”. Bhò.
Ha ventiquattro anni, sa? —
— Si? —
— Si. Ma che diavolo, “Garibaldi Filiberto”. Alla mia vecchia sarebbe venuto un infarto se
qualcuno avesse suggerito di chiamarmi diversamente da Blanche — io mi chiamo Blanche
—. Ma Garibaldi Filiberto, che cazzo. Io lo chiamo Silver… piace tanto anche a lui, ci piace
l’argento, Silver dice che è un metallo nobile, come le sue origini. ”Silver” mi piace
soprattutto in certi momenti, non so se mi spiego —
la ragazzina scoccò a Francesco un sorrisino d’intesa. La segretaria tossì, indietreggiando
ulteriormente.
La Viola gonfiò un pallone di chewing gum spiando di sòttècchi la gonna plissettata e
impeccabile della segretaria.
Quinto.
Quarto.
— Silver ha avuto un incidente con la moto. — borbottò la Viola in tono lugubre, — E’
andato a finire contro un guard rail, appena fuori dal Poetto. Era completamente fatto,
poveraccio. Trauma cranico. In ospedale gli ho detto “e che cazzo, se solo ti scopro che
sbirci sotto le gonne di un’infermiera ti spacco la parte di cervello che ti è rimasta buona”.
Così gli ho detto. E lui sapete cosa mi ha risposto?Che piuttosto se lo taglia. Se lo taglia,
poveraccio —.
Terzo. Le porte si aprirono. Nessuno. La Viola gonfiò e scoppiò un altro pallone. Ravviò
un ciuffetto da sopra l’occhio destro.
— Umpf.
Silver era fatto pure ieri sera. Li riconosco dagli occhi quando sono fatti, io e in questo
merdaio di città circola tanta roba quanti sono i topi, si. La notte prima dell’incidente Silver
mi è venuto a prendere in ristorante — faccio la cameriera in una bettola di Pirri —
conciato per le feste. Con un sari indiano affittato chissà dove, cazzo. Quando l’ha visto il
mio capo, bhè, creda a me signora che ha perso tutto il giallo dalla faccia. Silver mi ha
detto —
Secondo. Le porte si aprirono. Nessuno. Si richiusero.
— Mi ha detto “fatti una doccia, stella, che puzzi di fritto lontano un miglio. Poi ti porto in
un posto di amici miei. Veri indiani di Buddha.” Allora con la sua Harley mi ha lasciata
davanti a quello schifo di casa che è casa mia. Mio fratello — che ultimamente ci ha la fissa
della magia nera e schifi vari — era con un gruppo di stronzi come lui attorno a un
tavolino del salotto. ”Che cazzo fai?”, gli ho detto. E sapete che facevano? Cercavano di
chiamare lo spirito del Conte Balsamo. ”Ma se risponde Nostradamus ci va bene lo
stesso”mi fa. Con Silver ci siamo spanciati dalle risate per tre isolati, cazzo —.
Terra. La porta scorrevole dell’ascensore si apre.
— Buongiorno —
— ciao dottore! —
— Arrivederci, avvocato Smaili —.
Il portiere dello stabile solleva gli occhi da una rivista di giardinaggio, saluta l’avvocato
piazzatosi di fronte a lui con riverenza ed espressione beota. Dal taschino interno del gilet
damascato il cellulare di Francesco prende a trillare nervosamente. L’uomo sbuffa.
— Si?
Ciao.
Concluso tutto per il profumo?
Bene.
Anch’io, quasi.
Ma no, no. No.
Ho mai perso una causa, io?
E’ per lei che ci vado. Soltanto per lei. E per me… non so se capisci, bellissima. Voglio
sputare in faccia a quel figlio di puttana, quando lo vedrò. Moribondo o meno.
Al prossimo week end, allora. Prenoto per Parigi?
Mmmmh, okay. — Francesco si guardò attorno, diede le spalle al portiere e sua moglie;
abbassò la voce di un tono. — Come sei vestita? —, bisbigliò. Scoppiò a ridere.
— Okay, okay. Ho capito. E grazie per gli auguri. Ciao bella —.
Odore di detersivo per pavimenti, caffè e alcool. La moglie del portiere parla al telefono
accanto ad un televisore mignon acceso, muto, su IT’S A WONDERFUL LIFE di Frank
Capra, altri quattro mini schermi paralleli, due dedicati agli interni del grattacielo, due per
una visione agli ingressi principali. Una radio continua a trasmettere notiziari speciali sulla
Freedom Iraq, a quanto pare i medici di Baghdad girano per i vari SaddamOspedali armati
di Kalashnikov per evitare i saccheggi dei medicinali di prima necessità. Mostrano ai
giornalisti interi container di cadaveri.
Vi assicuro che il puzzo è terribile, commenta la reporter via radio.
Il portiere sbuffa di disappunto, chiude la rivista lasciandoci la mano destra in mezzo.
Spalanca gli occhi e fissa Francesco, in attesa.
— Il mio taxi è arrivato? —
— Si, avvocato. Da cinque minuti circa —
— Grazie. —
— Di niente avvocato. Buona giornata —
— Salve —.
(— Salve —).
Posso entrare a salutare i bambini? —.
Francesco aveva tirato la madre per la gonna, lei aveva sorriso. “Facciamo entrare papà?”
aveva sussurrato al piccolo ma col terrore nel cuore perché sentiva dentro, lo sentiva che
no, non avrebbe dovuto fargli varcare quella soglia. Erano separati e lui, in preda ad un
raptus di violenza della quale Giona non avrebbe mai sospettata l’esistenza; due mesi
prima aveva tentato di strangolarla. Si era fermato in tempo lasciandola così, sospesa tra
cielo e terra, buttata sul letto piangente e semisvenuta coi bambini nella camera attigua che
urlavano terrorizzati. Comunque restò calma, pensò che se i piccoli vedevano il padre una
volta in più delle due stabilite dal giudice non avrebbe loro fatto che bene, pensò che con
gli avvertimenti, le minacce subìte dalla Polizia a suo tempo, il suo ex marito non poteva,
NON DOVEVA essere tanto pazzo da… riprovarci ancora. Mise a tacere la spiacevole
sensazione d’allerta che l’aveva colta al solo sentire la voce di lui così calma; troppo calma.
Gli aveva già detto che nonostante tutto l’aveva perdonato per quel gesto che non
ammetteva scusante alcuna ma che stava soltanto a lui accettare e capire la sua decisione
di donna, di madre che tale non può essere con accanto un uomo che le è estraneo. Diede i
due giri di chiave alla porta e l’aprì. L’uomo sorrise ed entrò nella casa riscaldata,
profumata di minestrone e lenticchie. I bambini gli corsero incontro come pettirossi, lui
non li guardò neppure.
Fissò Giona e lei capì di essere in trappola.).
— Sarà la scusa per allontanarmi da questa merda di lavoro.
Una giornata diversa, mettiamola così Franco. — pensò il rampante avvocato mentre il
taxista, fermo al semaforo, accompagnava gracchiando “Splish splash” da una
musicassetta stonata di Bobby Darin. Va bene, disse a sé stesso, va tutto bene e non hai
niente da temere. Ciò che è successo è successo. Ora è finita. E controllati.
Franco accese una sigaretta, aspirò con boccate avide, amare.
(— Allora, mi ami o no? —
— Che significa? Siamo separati legalmente, ormai. Volevi salutare i bambini…fallo. Non
ti impedirò mai di farlo —
— MI AMI O NO? —
non ha senso non ha senso non
Giona tremò in ogni fibra. Non c’era più nulla del ventenne impacciato e timido che aveva
sposato nell’uomo che le troneggiava davanti a impedirle qualsiasi possibilità di fuga,
prepotente e sferzante, conscio della propria forza. Luigi, il figlio maggiore, si parò di
fianco alla madre, scrutandola in silenzio. Lei fece cenno di no col capo, no, vai di là tesoro,
non c’è nulla di cui preoccuparti. Non accadrà nient’altro che non ti farà dormire la notte,
piuttosto… muoio io. Il bambino obbedì allo sguardo, lei puntò gli occhi sull’ex marito.
— No —, disse sicura.
— No? —
non ha senso
— No. —.
— puttana! —. E accadde. L’uomo si scagliò su di lei, l’acchiappò al collo e strinse con
quanta forza aveva in corpo, strinse buttandola all’indietro e Giona cadde battendo la testa
prima sulla credenza legnosa, poi sul pavimento. L’uomo strinse e mentre parlava (cosa
farfugliava, cos…?) e le parlava lei non capiva, solo la luce andava a spegnersi dentro e
fuori di lei ed il pensiero, in quel momento, erano i bambini… forse a sua madre in mare
era capitato così e la luce che si spegne d’un colpo e le urla che s’affievoliscono in fretta e i
secondi volano e la morte in faccia eccola qui, ha gli occhi folli dell’uomo che ti ha dato tre
figli e dice di amarti e.
Caos.
Caos della materia, Giona.
Forse la stretta si allenta, Giona boccheggiò, riuscì a divincolarsi come nella pellicola rotta
di un film che scorre troppo lenta. Giona animale ferito si muove a quattro zampe, si alza e
zoppica verso la camera da letto (perché ho tolto le chiavi dalle porte?perché i bambini
non ci si chiudessero dentro perché…), sente il sangue scorrere nel collo, forse è già morta
forse…
Lui la raggiunge alle spalle, l’afferra per i piedi e lei rovina in avanti battendo la faccia, le
mani si allungano sul pavimento e strisciano e graffiano ma è tutto liscio perché è liscio? E
lì penetra la prima coltellata, nella schiena, in basso. E il dolore le mozza il respiro. Urla
Giona e urla e la furia l’assale, l’adrenalina è a mille.
— LASCIAMIIII!!! —.
Si divincola ancora e raggiunge la specchiera, artiglia la spazzola d’argento e la batte sul
capo dell’altro che rimane a fissarla instupidito, gli occhi spalancati e assenti mentre un
rivolo rosso e caldo gli scorre sulla tempia. E’ il momento. Giona si alza, incespica e cade,
si rialza, si getta claudicando fuori della camera, attraversa il corridoio, raggiunge la porta
d’ingresso. Cerca con gli occhi i figli ed eccoli accovacciati, gli agnelli, in un angolo della
culla di Francesco dove piangono di terrore, in silenzio. Vorrebbe abbracciarli, chiuderli in
sé a bozzolo e portarli via ma non può, perderebbe secondi preziosi.
— Re… state fermi lì… mamma sta bene, chiede aiuto e torna da voi! — ordina Giona.
Cerca di rassicurarsi; non accadrà nulla di male ai bambini; a lui non interessano loro, lui
vuole LEI. Ma deve fare in fretta, essere veloce prima che lui la raggiunga alle spalle per
finirla. La chiave, gira la chiave… la porta. Esce nel pianerottolo zoppicando semisvenuta,
grida e non ha fiato, emette un sibilo roco che poco ha di umano e i vicini aprono a
rotazione, corrono fuori, chi soccorre, chi chiama la Polizia che è già arrivata perché, al
momento dell’aggressione, il piccolo grande Luigi è riuscito a comporne il numero nel
telefono, lui che mai prima, senza il permesso della madre, ci aveva giocato col telefono di
casa.
— PERDE MOLTO SANGUE, CHIAMATE UN’AMBULANZA!! —
— I… i miei bambini… voglio vedere i miei bambini… lui è pericoloso e…—
Una squadra di poliziotti irrompe in casa, i bambini stanno bene, non smettono di
piangere ma stanno bene, lui è di là, in bagno che ha tentato di tagliarsi le vene ma i piccoli
stanno bene signora, deve andare in ospedale per i controlli è ferita è pericoloso e come è
successo perché l’hai fatto entrare perché è il padre dei miei figli… è il padre dei bambini è
venuto con l’intenzione di ammazzarti; aveva il coltello nascosto nella manica del
giubbotto ricorda qualcosa può parlare sono cose che succedono e stia tranquilla è passato
tutto i miei figli, cosa hanno visto i miei figli e.
(E Giona sviene).
LUIGI, Cagliari, 12 dicembre, h. 11.30
Gli pulsavano le vene nelle tempie.
— Signorina Manzoni! —, gridò.
Attraversò la stanza dai muri crema-macchiata-di-caffè e si piazzò davanti alla ragazza col
pacchetto di cracker semivuoto in una mano. Quella, colta in flagrante, chiuse con la mano
libera il volume in brossura; lo abbandonò sul banco tra le risatine sarcastiche dell’intera
classe. L’insegnante inforcò gli occhiali, raccolse il libro con gesti misurati.
PASSAGGI PER L’ANIMA
(ma che roba legge, stà gente. Porcherie senza capo né coda incentrate su amore-sessodolore. E potere. Porcherie generazionali, colleghi miei, roba da organizzarne simposi…
per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo
e buttare via tutto, e di nuovo ricominciare e lottare e perdere eternamente. La calma è una
vigliaccheria dell’anima.
Chissà che direbbe Tolstoj dei miei studenti…)
— Farebbe bene a prepararsi il capitolo sui fenici per domani, Annichilina —
— Ma…—
— Quel cinque striminzito che si ritrova nella mia materia và rialzato prima della fine
dell’anno. Okay? —, suggerì l’uomo controllando l’ira e la ragazzina dal pallore
decisamente malsano, corporatura scimmiesca e il seno grosso, i jeans sfilacciati e le labbra
screpolate dal freddo non replicò, tenne gli occhi coraggiosamente inchiodati
supplichevoli? A quelli dell’uomo.
— senza rancore, Manzoni — rilanciò, e, rivolto agli altri:— Vita sine proposito vaga est!*
—. Si sollevò un mugugno generale nella classe di aspiranti ragionieri che di latino non
masticavano una parola. E comunque nessuno osò chiedere il significato della frase.
Luigi sembrava assolutamente ignaro del fatto che ogni suo respiro, nella classe, veniva
sondato, registrato, temuto o deriso. Sorrise accondiscendente riflettendo sul fatto che poi,
ai colloqui e negli atri c’è pure chi rompe le palle per le figlie brufolose che indossano i
primi reggiseno imbottiti col cotone, subodorano un due all’interrogazione del primo
quadrimestre (tanto c’è il tempo per rimediare), scappano di casa se non compri loro
scooter e cellulare multifunzione e poi non ne imbroccano una nella vita. E magari la colpa
è dell’insegnante che le traumatizza. Che magari poi, per una settimana di fila, ha il
piacere di trovare la propria macchina con le ruote bucate. Corrucciato sedette dietro la
cattedra, spostò una biro blu da destra a sinistra, scorse il registro e arrestò l’indice sulla
M.
Scrutò ancora la ragazza grassa e quella s’irrigidì sulla sedia.
— facciamo una cosa — disse Luigi, — Interroghiamo a numero.
Vediamo chi è il fortunato di oggi —
Fra i banchi serpeggiò un mormorio nervoso.
Luigi aprì a caso l’antologia dei poeti inglesi. Uscì Blake. William Blake. B. Numero due
della lista nera.
Luigi non batté ciglio e puntò Annichilina.
— Insomma Manzoni, oggi è la sua giornata fortunata. E’ uscita la M —.
Annichilina s’ingobbì ulteriormente sulla sedia, sospirò in modo affettato e s’alzò diretta
alla cattedra come un condannato a morte al suo patibolo.
Luigi si sentì un po’ un verme bugiardo ma tant’è; era convinto che nonostante tutto
quella ragazzina avesse buone potenzialità nella sua materia. Andava spronata. Tirata
fuori dolcemente ma fermamente dal proprio guscio.
— Per ora mi parli dell’argomento in cui si sente più preparata… Parodi!
Sputi quella gomma, Parodi. Credo l’abbia masticata abbastanza, per oggi —
Il Parodi dal primo banco, un quattrocchi BelTenebroso più sbruffone che alto obbedì,
sporgendosi e facendo canestro sul cestino un metro avanti a lui, ghignando e strizzando
l’occhio ai compagni. Alzò l’indice ed il medio in segno di vittoria. Risatine. Luigi sollevò
gli occhi al cielo, non commentò.
Con cenno incoraggiante del capo invitò Annichilina a cominciare e la ragazza,
finalmente, si distese in un sorriso sciolto.
Luigi volò col pensiero ed era un infuso inebriante, quel pensiero alla sua Sonia che in quel
momento doveva essere in piena attività, nel reparto ostetricia. La mattina al telefono gli
aveva detto che c’era la luna piena e Luigi sapeva benissimo che quando c’è la luna piena
il lavoro, in maternità, non manca mai.
— E’ straordinario come la luna influenzi il ciclo vitale della donna —, ripeteva sovente la
giovane ostetrica e poi gli parlava dei nati di quel giorno, delle difficoltà nei travagli, di
una richiesta di epidurale, di un cesareo urgente e pericoloso e della trentottenne di
Oliena, “…primipara attempata, bassa e grassa che durante tutta la fase dell’espulsione del
feto non ha fatto altro che urlare parole irripetibili al dottor Violante e al povero marito
che, accanto al lettino, le stringeva terrorizzato la mano per farle coraggio… ma ne aveva
più bisogno lui. Vedessi il bambino! Era bellissimo”. Erano fidanzati da quasi sette anni e
Sonia non desiderava figli propri in virtù del fatto che, per lei, ogni bambino che aveva
aiutato a nascere era, nei suoi confronti, come un figlio. O almeno tale lo sentiva. Luigi lo
sapeva e nonostante tutto amava di lei anche questo lato della personalità. Ma se poi, puta
caso che si cambiasse idea facendolo nascere quel figlio; fosse capitata loro un’ obesa
scaldabanco come Annichilina Manzoni?. Rabbrividì fino alle ossa e sbuffò, pregando la
sua buona stella perché non accadesse. Spiò il quadrante della sua perfetta imitazione di
Cartier. Ancora mezz’ora e, forse, sarebbe partito. Non era sicuro se farlo o meno, non era
sicuro se quella fosse la cosa giusta. Ma sapeva che DOVEVA farla. Tutto qui.
(— Pronto? —
Silenzio.
Un sospiro. — … Luigi? —
— Mamma?! —
— Come stai? —
Silenzio.
— Luigi?, mi senti? —
— Si. Ti sento bene. Sto bene.
........................
Vita sine*
la vita, senza una meta, è vagabondaggio (Seneca)
.......................
E… e tu? —
— Si. —
(Si. Si cosa? Si e basta? Sono… quindici anni che non ti fai sentire, ti isoli dal mondo ed
ora… si?Bene e male. si. Amen)
— Mi fa piacere ascoltare la tua voce, mamma —
— Sono riuscita ad ottenere un permesso per uscire e…—
— Fammi capire… hai chiesto un permesso appositamente per vedere NOI? Hai finito di
sfuggire la realtà?
Non mi sembri più tu, mamma —
— Lui… Giacomo Guidi sta morendo —
— Ah. —
Ah.
Ecco svelato il mistero. Avrei preferito non sentire più quel nome. E’ lui, LUI ed è per lui
che ha chiesto il suo fottuto permesso. Sempre lui. Che tu sia maledetto, Giacomo Guidi.
Che ti si fotta il mondo, per tutto il male che hai fatto a LEI
— Mi dispiace — mentì, — Ma io che c’entro? —
— Voglio vedervi prima di tornare in convento. Per… per l’ultima volta —
Vedere LUI e NOI, per l’ultima volta.
Amen.
E si chiudano, per l’ultima volta, le porte del convento. I cancelli fottuti del Paradiso in
terra.
— Va bene, mamma.
Dimmi quando e dove e ci sarò. —
***
Storia di Annichilina
Quando guardava pareva chiedesse scusa perché, anche lei, esisteva. E quel nome… non
aveva mai sopportato quel nome. Annichilina Manzoni.
Annichilina.
Manzoni.
“Scusate per il Manzoni” diceva con gli occhi nel presentarsi a qualcuno “… ma io sono
soltanto Annichilina”. Già da bambina era stata l’ultima della classe, l’ultima ad entrare,
l’ultima ad uscire a testa bassa, l’ultima ad alzare la mano per essere interrogata. In
compenso però Annichilina Manzoni era una gran mangiona. Golosa di tutto:Nutella,
pastasciutta (meglio se bucatini all’amatriciana, la sua passione) e pizza
tuttigustitrannechesolomozzarella chè la mozzarella, di per sé, dava già ad Annichilina
l’idea di magro ed emaciato, da qui l’inevitabile equazione:pallido=emaciato=magro=dieta.
Scacciamo la mozzarella come si scaccia il babau dall’armadio o da sotto il letto. Passo e
chiudo. Ecco un altro motivo delle prese in giro dell’intera classe, di tutto il quartiere. Ma,
scherzo del destino, la cosa che maggiormente pesava su Annichilina Manzoni era sua
sorella Elena. Elena. Già uno, sentendo quel nome, potrebbe avere fascinose rimembranze
storiche. Elena. Non Annichilina. Guardavi Annichilina e vedevi una balena, guardavi
Elena e vedevi una sirena. E il secondo scherzo del destino, più crudele del primo, era che
Annichilina ed Elena erano sorelle gemelle. Quanto Annichilina era scontrosa e timida,
Elena era spregiudicata, bella — troppo — e conscia pienamente di tutto ciò. In famiglia,
quando c’era una decisione da prendere, a tavola si spiava quasi intimoriti l’espressione di
Elena.
— Che ne pensi, cara? — chiedeva il padre, maresciallo dei carabinieri in pensione.
— Mah, non so. Io sinceramente penso che…—.
E se per caso, sinceramente, anche Annichilina alzava gli occhi dal piatto della sua doppia
porzione di tortelloni per dire la sua; — si, si! —, l’interrompeva la madre parrucchiera,
che in cuor suo si vergognava in maniera indecente di quella figlioletta insipida e grassa,
somigliante chissà a chi e sicuramente alla parte del padre. Non a lei. No. Alla raffinata
mamma parrucchiera pour dames somigliava Elena coi suoi riccioli biondo nature, Elena
con le movenze da felino.
— si si, Anny— diceva la madre e la chiamava Annì alla francese che il francese fa più chic
— … lo so. Tu sei sempre d’accordo —. E si chiudeva il discorso. Ma era quel sempre che
ad Annichilina dava fastidio. Lei di giorno era sempre d’accordo con gli altri, anche se non
lo era. Mentre la notte si consolava aprendo un vasetto nuovo di Nutella e svuotandolo,
ma non per vomitare dopo come faceva qualche sua conoscenza. No. Oh, no!Annichilina si
riempiva fino a scoppiare, quella mole gigantesca dovevano guardarla tutti, sentirla
ingombrante. Perché c’era anche lei.
Poi accadde che, a diciotto anni suonati, Annichilina Manzoni s’innamorò. Lui era un bel
ragazzo, timido come lei ma non grasso e con le lenti a contatto. Laureando in
giurisprudenza; un buon partito. Sergio e Annichilina andavano d’amore e d’accordo,
anche troppo.
“finalmente ho qualcuno che mi ama, e scusatemi per questo!” Diceva Annichilina
Manzoni con gli occhi, quando presentava con orgoglio Sergio alle amiche. In seguito
però, ebbe la malaugurata idea di presentarlo in famiglia. “Abbiamo deciso di sposarci fra
un paio di mesi!!” era esplosa Annichilina felice davanti ai genitori incerti e sorpresi ma
soddisfatti, poiché papà Manzoni fino a quel giorno era stato certo che — chissà perché —
Annichilina non era in fondo una ragazza da… maritare, ecco. Con quel carattere così
difficile, quegli occhi sempre tristi che sicuramente aveva preso dalla madre.
— Ma l’importante è che siate felici —, aveva sentenziato papà Manzoni, sorridendo da
una guancia all’altra. E s’era chiuso il discorso. Ma nonostante l’accecante felicità ad
Annichilina non era sfuggita l’occhiata d’ammirazione che lo sposo promesso aveva
gettato sulla splendida e femminilissima Elena. E la cosa peggiore era, per Annichilina, che
Elena aveva ricambiato lo sguardo d’ammirazione.
— Pensavo fosse amore…—, si scusò con lei Sergio il giorno dopo. Annichilina non
rispose, lo guardò e in quegli occhi grassi c’era scritto “Scusami se ti ho ingannato, se ti ho
fatto credere di essere io l’amore”.
— Sapevo che avresti capito, Anny. Sei una ragazza speciale —.
Sergio annunciò in famiglia il matrimonio, quello vero, con Elena, ancora più bella e
raggiante per l’occasione. Quella notte Annichilina s’ingozzò di pizza capricciosa surgelata
e Nutella così tanto da pensare che sarebbe morta d’indigestione lì, sul tavolo, esplodendo
e impiastricciando i muri di grasso, olive nere, capperi e cioccolato. Ma non poteva farlo.
Avrebbe disturbato troppo la mamma, ripulire tutto quel casino sarebbe stata un’impresa
non da poco. Venne il giorno del diploma di Annichilina. Il padre le regalò una penna
placcata d’oro (“un augurio al futuro, cara!”), la mamma un libro di cucina polacca (“non
sapevo proprio che regalarti, cara!”), Elena una minigonna di raso nero di una taglia in
meno e Sergio un buono valido per un mese di trattamento gratuito alla Weight Watchers.
E tanti auguri. La sorella le aveva stampato un bacio rosso lacca sulla guancia gonfia e
Sergio si era limitato a fingere un sorriso comprensivo, mentre Annichilina si affogava
nella sua fetta di Sacher Torte. Giunse la domenica magica, quella in cui il mancato Fermo
della prima gemella avrebbe incoronato come moglie l’autentica Lucia. La chiesa era
gremita di invitati festanti, cugini, zii e zie, signore in completo Gucci e signorine in
pantacollant D & G, uomini in tight, pupi col ciuccio in bocca e moccio al naso. Finalmente
Elena attraversò il lungo tappeto rosso come la regina delle rose tra le rose. Sergio già
l’aspettava, commosso. La mamma parrucchiera piangeva tanto da temere di sciuparsi
irrimediabilmente chignon e trucco, piangeva tanto da non accorgersi neppure che
Annichilina, l’invadente esclusa, mancava anche in quel momento. E in verità non se n’era
accorto nessuno. Il prete pronunziò la formula di rito della promessa solenne rivolto a
Sergio.
— Si! — disse lui, sicuro.
L’altro fissò la sposa con espressione annoiata anzi, tra l’annoiato e l’ammirato e ripeté la
frase. In quel, il grande portone legnoso della chiesa si aprì.
— NO! — gridò Annichilina dal fondo del sagrato, — NO!! — continuò, con l’espressione
che può avere un tavolo da biliardo con tutte le sue palle alla rinfusa.
Trecento occhi la scrutarono sgomenti.
— Annì! — disse la mamma in tono di rimprovero.
— Mammamihaifattovenireunmalditestabestialeperchènontappiquell’accidentidiboccaccia
accidentiate! — disse Annì e aprì la giacca sformata del suo tailleur arancione. Ne levò la
pistola del padre. Prese la mira verso Elena. Sparò e la bella Elena cadde come una
colomba fra i fumi dei suoi veli d’organza. Annichilina puntò l’arma su un irrigidito
Sergio. Sparò.
Sparò e sparò all’impazzata dentro la chiesa, su tutti, alla cieca. Poi gettò la pistola sul
mosaico del cristo sotto i suoi piedi. Le parve di veder scorrere i titoli di coda:Hanno
partecipato in ordine di apparizione…
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Da dietro l’altare spuntò la testa calva del prete, se
mi si consente il confronto, pallido come un cadavere. Non si capiva più se era cosciente o
meno.
— L… lei è… pazza! — cincischiò. Annichilina non se la prese affatto. Camminò a ritroso
guardandosi attorno come se avesse perso qualcosa, scoppiò a ridere e disse, con occhi
finalmente sicuri: “Perdonami se, anch’io, esisto”.
***
Grano appresso a grano, di quel rosario, lo sguardo severo e carezzevole scivolava sulle
colline al di là del finestrino unto, annuvolato dai respiri. Il moto della corriera subì un
sussulto e i viaggiatori con esso; il gregge di pecore si divise in due ali grigiastre. Fu un
decrescere della velocità ed il mezzo s’arrestò sul ciglio della strada stretta e scolorita,
sotto un antico ponte ferroso, offeso dagli elementi. Giona raccolse la borsa, indossò il
cappotto di una misura più grande e strinse al seno il rosario avvoltolato tra le dita. Sorrise
quasi scusandosi alla bambina e a sua madre, salutò.
Scese, abbandonò la strada principale e camminò celere, senza remora, lungo il sentiero
che partiva alla sua destra e che sbrogliava nella campagna agreste vestita delle prime
nevi. Un cane latrò in lontananza ed il sole prese a celarsi dietro nubi gravide di pioggia,
s’alzò più forte il vento gelido e Giona trattenne il fiato, incespicò un istante su di un tratto
di terra ghiacciata, sospirò e strinse i denti, alzò le pupille inquiete al cielo cupo e le
riabbassò soggiogate. Vide, giù davanti a sé, le prime case. Doveva arrivare prima che
facesse buio, prima che… . — Non impedirmelo Signore, ti prego. Non stavolta —,
sussurrò Giona e aumentò il ritmo del passo tenendo fermo sulla testa il velo e stretto il
rosario sul seno rabbioso che
Cresceva troppo in fretta, ultimamente.
Eppure, non appena si era accorta del cambiamento, aveva fasciato il petto con la garza;
così come le aveva consigliato Maria Francesca Manca, dei Manca de Barì* che tenevano
casa sul porto. ”Cinque, sei giri di garza. Ti aiuto io Giò; bisogna essere in due per queste
manovre da femmina e la garza la procuro anche, io… la usa pure mia sorella… gli occhi
dei maschi non ci devono andare, lì. Non sta bene”.
E così, di pomeriggio, la benda era stata messa pure a Giona. “Ecco. Il fazzoletto tienilo
sempre sui capelli così e cosà, le punte che vanno a coprir le mammelle e nessuno, se
cammini ingobbita, s’accorgerà della cosa sporca. I maschi non devono guardarci la
bellezza; Iddio…”.
(— La bellezza lui me l’ha data. E se il Signore davvero esiste non mi ha fatta bella per
vergognarmene. Io non lo reggo e non lo tengo mai, il fazzoletto sui capelli —
Maria Francesca Manca storse il naso e la bocca baffuta senza sorprendersi più di tanto.
— Tue ses macca, fizza mea*, e se sei matta così ci sarà pure una ragione —, sentenziò. Poi,
senza dire altro, accostò alla credenza la grossa mole e lì s’arresto dinanzi ma non prima
d’aver buttato un ciocco nella stufa e levata, da sovra quella, una pentola in terracotta con
fave e lardo che cominciavano a bollire troppo. Aprì un’anta e, acchiappato un piatto
fondo dell’unico servizio buono presente in casa — quello con l’effigie in oro zecchino “in
vero oro zecchino, Giona mia… tocca qui l’orlo… visto?!” acquistato addirittura a Roma
dal fratello arruolato nell’arma dei carabinieri a cavallo — l’adagiò sulla tavola. Da
un’altra anta levò una bottiglia da un litro di olio d’oliva che finì accanto al piatto. Raccattò
un cucchiaio e sorrise a Giona: — deve essere rigorosamente di ferro. Gai narada thia
Mariedda Spanu*. —.
Calcò gli occhietti obesi, scuri e accesi sul volto dell’amica:
— Sezzedi*—, ordinò.
— Pro ite?*—
— Commo biese*—
— mmmh. —. E Giona sedette.
La ragazzona, empito che ebbe il piatto d’acqua; versò dell’olio nel cucchiaio e, sempre
fissando Giona, intinse il dito indice della mano destra nell’olio una, due volte. Lasciò che
l’olio gocciolasse sull’acqua del piatto e lì lo studiò navigare. Poi spiò l’amica con occhi
spiritati.
— Mbhè? — mormorò Giona, trattenendo il riso
— Sei presa male. Ci hai il malocchio, Giona mia —
— Eh? —
— Eh si. Lo dice l’olio che ce l’hai, e se lo dice l’olio… . Ma non aver paura. Ci pensa Zisca
tua a levartelo —.
La giovane tracciò in aria con la mano una serie di croci e borbottò una formula; preghiera
comprensibile soltanto a lei e, infine e finalmente, annuì soddisfatta.
— Tottu fattu*—, disse. Si rialzò e da una tavola appesa alla parete scrostata di fronte
frugò tra boccette e bicchieri, raccolse sbuffando un’ampolla in vetro scuro.
— Questo te lo devi spalmare sul corpo tre volte al giorno per tre giorni. E’ il
cacciadiavoli*.
Tottu fattu, Giona —. e Giona, nonostante non capisse cosa era stato effettivamente fatto e
contro chi, soprattutto, era stato fatto; si sentì più tranquilla).
— Che c’hai? —.
Giona, sul suo scoglio, raccolse le ginocchia al petto poi, infastidita dall’ùggiolare giocoso
di Mollica, gli allungò un calcio sul didietro: — Pussa via, tu! —. Il bastardino pezzato
partì guaendo come un razzo in direzione delle capanne. Giona puntò gli occhi di spillo in
faccia al fratello maggiore.
— Lasciami in pace, Peppì —
— Ma che c’hai? Babbo ti cercava, s’è fatto il giro delle capanne per cercare te… fino alla
grotta di quell’ arpia di Severina, è arrivato… dovevi vederne la faccia!E’ tornato con una
mano sui capelli e l’altra a strizzarsi le coglie “Sa malaitta!”, ha naradu, “cussa malaitta
m’ha postu s’ocru malu!!!”*—
— Lasciatemi sola tutti quanti —
— E’ quasi buio, è ora che rientri e…—
— Mmpffh—
— …rientra con me, dài. — Giuseppe fissò il mare, odorò l’aria e la direzione del vento —
Stanotte ci fa marea brutta. Andiamo, bambina —
— NON SONO UNA BAMBINA! — il rossore imporporì violentemente le guance di
Giona, che cacciò le lacrime — Non… non lo sono più —.
Giuseppe aggrottò la fronte, s’accostò di un passo alla sorella. — Quei… quei panni
sporchi di… nel secchio dietro la stufa… erano i tuoi —. Giona non rispose, girò il capo
dall’altra parte. Giuseppe sorrise sereno, orgoglioso. — Perché nasconderti? Io… Va bene
bambina. Va bene così. Non dire nulla — Disegnò col piede dei cerchi sulla sabbia. — E’
bello. E’ giusto così e mamma… mamma sarebbe stata felice per te, lo dice il tuo Peppino,
lo dice. E’ la natura, Giò. La vita. Non devi vergognarti della vita. Vieni con me, torniamo
a casa —
— D’accordo. Comincia ad andare, ti seguo subito —.
L’altro aveva annuito con sorriso sereno e datole la schiena aveva fatto per andarsene, un
poco goffo e tentennante.
— Peppe?! —
— Oh?
Ite bata commo?*—
— Grazie —
— Nudda, pizzinnè*—.
Giona saltò dallo scoglio, si piazzò con gambe divaricate e braccia sui fianchi davanti al
mare, le onde dolci a carezzare le caviglie e i piedi nudi, ritmiche, fredde, flemmatiche.
Fissò sfidandola la distesa salata, sfilò la maglietta logora, srotolò dal torace la garza che
teneva fermo e piatto l’accenno prepotente di mammelle, si spogliò dei jeans, degli stracci
avvolti a mò di panno assorbente maldestri e timidi. Guardò fiera e intimorita l’estesa
macchia rossa. Ma come era possibile sanguinare tanto senza morirne? Le pareva di essere
il rubinetto della casa di nonna Giovanna, il rubinetto che gocciolava notte e giorno, notte
e giorno. E quando la notte a Giona era capitato di dormirci, nella casa di montagna
barbaricina de Jenna de Bentu*; il rubinetto, se era possibile, aveva gocciolato più del
solito. Nonna asseriva prima battendosi solennemente la mano sulla fronte — e l’asseriva
convinta a figli, nipoti e marito che fingeva di non starla ad ascoltare sia per reali problemi
d’udito sia perché, in tutta la sua vita, chiacchiericcio di femmine e galline ne aveva
ascoltato pure troppo; — poi in quel modo soltanto suo e forte, il mestolo di legno sopra il
ripiano unto de su foxile*; che ogni più piccolo problema casalingo, lì nel posto, era
certamente opera di Maschinganna*che ogni tanto scappa dal suo bosco incantato per fare
scherzi agl’incauti e
quindi, in quel caso, il rubinetto gocciolava sì, ma erano gocce di Maschinganna;gocce che
non bagnano. Il nonno a quel punto bofonchiava che, Maschinganna o non Maschinganna,
il rubinetto prima o poi si sarebbe rugginito e rotto, roba da metterci la mano sul fuoco. E
per capire quello non c’era bisogno della laurea. Poi, tanto per fare comunque onore a tutti
gli “studiati” del Gennargentu; si chinava sulle ginocchia e, facendo perno solo sul proprio
bastone da cammino; ne sparava una delle sue che doveva mettere fine ad ogni tentativo
di replica della vecchia moglie petulante: — Tò e tò. Pigàdi custa… e malasorte chi ti
pighidi!*—. Allora si tornava al gocciolìo del rubinetto. Scassato proprio, come era stato
trovato scassato, un mese prima tra le rocce, il carretto del giovane giudice Mariotti. Cosa
di femmine, avevano detto al villaggio. Cosa di donna non tua e rubata, avevano detto, al
pastore di capre Vincenzo Soro che rientrato prima del previsto aveva scoperto la bella
moglie e il dottore in mezzo al letto e, povero il cornuto; imbracciato col fucile il pezzo di
dignità che gli restava aveva sparato addosso all’infame prendendolo di striscio nelle
chiappe. L’altro, nudo com’era, aveva saltato giù dalla finestra della casa e rovinato sopra
ortiche e cardi, corso ululante e come un fulmine attraverso il villaggio e la campagna,
corso e corso fino a notte.
E il biondo giudice continentale re della “c” aspirata che amava troppo il miele delle altrui
signore, le scarpe nere lucide, il completo di perfetto taglio sartoriale e i guanti in pelle
nera anche in estate aveva cambiato luogo di villeggiatura così;da un giorno all’altro. La
stessa cosa sarebbe accaduta al rubinetto di nonna Giovanna;scassato da un giorno
all’altro. E se pure Giona, attualmente in perdita com’era, si sarebbe scassata da un giorno
all’altro così;dall’oggi al domani e magari senza preavviso?. La ragazza fece spallucce,
sorrise tra sé. Si avviò verso il mare, ci entrò fino alle natiche, la vita e su, il seno. Sciolse la
massa di capelli castani, chinò all’indietro il capo per battezzare anch’essi e così rimase,
sospesa tra cielo e acqua finalmente, il friggere inquieto e sbadato del mare nelle orecchie,
il vento sugli occhi chiusi, il naso e la bocca; ancora il vento e il cielo. Immerse totalmente
la testa, assaporando l’autentico linguaggio degli elementi, il loro tocco e il loro saluto,
dentro di sé.
...........................................
Tò…*
Foxile
Maschinganna*
Jenna De Bentu*
Tue ses macca…*
Gai narada…*
Sezzedi*
Pro ite?*
Commo biese*
Tottu fattu*
Cacciadiavoli*
tieni e tieni, prenditi questa, E che la sorte cattiva prenda te!
focolare
letteralmente “Maestro d’inganno”. Diavolo burlone della
tradizione sarda.
Porta del vento (Rif: Gennargentu)
tu sei matta, figlia mia
così dice zia Mariedda spanu
siediti
per cosa (perché?)
adesso lo vedi
tutto fatto
olio d’iperico
Attese che scendesse la notte per sgusciare umilmente fuori della sua camera attraverso la
finestra. E corse fondendosi col latrato dei cani ed il vento tiepido e salmastro di fine
maggio, corse col naso all’insù a sfidare le stelle ed un esile falce di luna ad occidente
Giona, col fiato mozzo di chi ha corso da quando ha visto la luce e la rabbia della miseria.
Giunse all’ingresso della grotta di Severina, fece per entrarvi, girò un attimo attorno a
quell’incavo tra scogli e mare e fusti nervosi di fico d’India, antro caliginoso, puzzolente,
stretto e profondo e vi si piantò davanti con le gambe larghe e le mani sui fianchi. Fu
Severina a raggiungerla fuori e alla luce incostante, tenue del carro dell’orsa minore
l’antica strega era quasi bella;lei e i suoi fili di cenere tenuti fermi da grossolane forcine
d’osso, i quattro denti d’oro tra gli altri marcescenti, neri e gialli, e gli occhi strabici.
Eppure… eppure qualcuno, fra i pescatori, ancora osava dire che Severina la megera,
”cussa bagassa eccia de Severina*”, in passato, era stata bella come Afrodite. Che aveva
amato di un amore morboso, ossessivo e malato solo un capitano di marina e per un mese
appena. ”trenta giorni. Trenta giorni in cui i loro richiami d’amore risuonavano in tutta la
costa, accidenti a loro… . Lei rimase incinta e lui partì. Diavolo, se l’amava, quel bastardo
d’un lupo di mare; nessuno la ricordò più bella che in quei trenta schifosissimi giorni. Uscì
di senno alla partenza di lui e dicono che la videro partorire la sua creatura e mozzarne il
cordone ombelicale coi denti, muta e accovacciata come una cagna sugli scogli… di quel
bambino non se ne seppe nulla. L’avrà mangiato il mare…”.
L’avrà mangiato il mare.
— Giona… ti aspettavo —
disse la strega in uno squittìo da topo e mosse
impercettibilmente gli angoli delle labbra. Era un sorriso.
— Io…—
— So perché ci sei, le voci girano in fretta per gli scogli parlanti. Hi hi hi hi hi hi!!!. E sai
quanto tua madre, povera figlia, mi fosse amica… era l’unica ad avvicinarsi alla mia grotta
senza paura, da femmina a femmina; non da femmina a bestia. S’avvicinava piano chè non
la sentissi e non la scacciassi e me la trovavo qui davanti agli occhi ed al cuore. Lei sapeva
sorridere senza farlo e capiva tutto… eeeeh, se capiva!Ciò che non capiva con l’intelligenza
la capiva col cuore; e a guardarti ti frugava l’anima, passata e presente. Come te. Tu non
sei fatta per belare con le altre pecore e Il tuo domani è già oggi bambina. Aquila sei e
sarai. Ascoltami bene —. Severina piantò gli occhi vacui sulla ragazza, la strattonò
artigliandola per la giacchetta di stoffa leggera, — D’amore si può impazzire Giona mia, lo
sai? Si muore, d’amore. Non dimenticarlo mai… ma vivilo, quello ti aspetta e ha girato il
mondo cercandoti e immaginandoti… non sa che tu ci sei già… non lo sa, lo stolto!!! Ma
sarà la vita a portarti da lui quando per lui la vita non avrà più senso e luce… Giona,
Giona… soffrirai bambina… anche tu. E lui pure soffrirà come mai ha sofferto prima. Ma
vivilo e fatti vivere e —
pazza… è pazza!
— Las… lasciami il braccio Severina… MI FAI MALE! —
— VIVILO GIONA! Presto partirai, studierai e… non scappare da me, bambina…Giona?!
GIONA! VIVILO GIONA! —.
Il mare cominciava ad agitarsi; onde coronate da creste di spuma torreggiavano,
precipitavano e si rompevano scoppiando sulle rocce.
A Giona balzò il cuore in gola. E se la sirena mangia cristiani è Severina?E se il suo
bambino l’ha… l’ha mangiato proprio lei come dice thia Magenta??E se volesse mangiare
pure me?E se… . E non si accorse, Giona, delle lacrime di dolore negl’occhi cerulei.
Strattonò la vecchia con forza e disprezzo, fuggì col vento senza voltarsi indietro, scavalcò
avvezza scogli e siepi fino a quando la voce di Severina, dietro di lei, e la propria coscienza
dentro, divennero solo un sospiro, una brezza d’inizio estate impregnata di mirto,
corbezzolo e lentischio; un sovvenio. Diede un calcio furioso ad un pezzo di arenaria
grande come un pugno facendolo rotolare due metri davanti a sé, evitò un falò acceso da
un gruppo di giovani turisti sulla rena; strimpelli di chitarra, sigarette come lucciole nel
buio, risate e canti, tintinnare di bottiglie. Rientrò in casa attraverso la finestra della sua
camera ancora socchiusa e l’odore della zuppa al pomodoro e basilico, prezzemolo, pesce
azzurro, pistoccu raffermo, olio e aglio di suo padre la confortò, la convinse che l’incontro
con quella povera pazza di Severina e la sua profezia erano stati solo un brutto sogno.
Dovevano esserlo stato e forse lo sono stati pure per noi, ora che Severina lascia
definitivamente questa storia. Giona si buttò sulla branda già più tranquilla. Portò la
coperta sin sopra la testa, come da bambina, lasciando appena lo spazio per il respiro.
.................................
Cussa…*
Èbba*
Sa malaitta…*
Barì*
quella vecchia …
Cavalla
“La maledetta!”, ha detto, “quella maledetta mi ha messo malocchio!
Barisardo (prov. Nu)
ANTONIO, h. 11. 35
Annaspò in quel caos ch’era, ultimamente, la sua mente; tossì rantolando, ficcò un
pullover crema ed un jeans stinto in una borsa di pelle, serrò la zip in uno scatto secco.
Restò per un attimo con l’orecchio teso ai rumori fuori della finestra, giù sulla strada. Era
strano, aveva passato tutta la vita a sentire rumori fuori della finestra, a guardare fuori
della finestra ma mai ad affacciarsi più di tanto. Era sempre stato più comodo, per lui,
vivere da comparsa. Veder scorrere il mondo così; a colori o in bianco e nero poco importa,
l’importante era vederlo scorrere FUORI, vederlo vivere agli altri. Per lui era off limits.
Fosse stato possibile, per Antonio, al momento stesso della nascita avrebbe sorriso
all’ostetrica di turno e bofonchiato un “vabbè, okay. Ora ci sono e non ci posso fare più
nulla. Lasciatemi qui, su questa culla ch’è il mio mondo e non disturberò nessuno.
Promessa promessa. Sono qui e ci resto perché debbo restarci ma lasciatemi soltanto
GUARDARE”. La casa, per Antonio, era stata per quarantadue anni la sua culla e quante
volte aveva supplicato Luca di fare la stessa cosa; quante volte… . Interruppe ancora il filo
dei pensieri col fiato grosso ed una membrana di fastidio puro l’avvolse. Cercò nella tasca
interna sinistra dei calzoni il suo placebo quotidiano; una boccetta di vetro col tappo a vite
che aprì, rovesciò sul palmo della mano cinque capsule di Vitamine Vecchia Erboristeria.
Le ingollò e si sentì subito meglio. Se Luca fosse stato come lui, anche soltanto un po’, si
sarebbero risparmiati tanti guai, in famiglia; tante brutte figure con la gente. E Luca,
soprattutto, sarebbe ancora. Vivo; con le sue scarpe da ginnastica perennemente slacciate,
non sotto tre metri di terra al cimitero comunale affogato in un cocktail che nulla aveva di
placebo ma parecchio di Prozac e LSD, in una tomba che non era neppure quella di
famiglia. Anche quando l’avevano ritrovato, i volontari del Niguarda, buttato alle quattro
di notte in un angolo delle gallerie della metro al duomo, su a Milano, Luca aveva le
scarpe da ginnastica slacciate. Magari, vivo e sereno, sarebbe stato come il padre lo
ricordava a sei anni, il primo giorno di scuola col grembiule lindo blu e il fiocco rosso
troppo floscio, lo zainetto del Puffo Dormiglione fresco di cartoleria, il taglio alla marines
tenuto su col Gel “se sei uno forte lo usi, eccome se lo usi!E, in abbinamento solo per
questo mese, DUE AL PREZZO DI UNO, la ForteLacca” che irrigidisce ma non sporca e il
diario delle Giovani Marmotte stretto in pugno, pronto ad entrare nella classe che, nel
bene e nel male, l’avrebbe visto cambiare da fiore a frutto.
— Mi chiamo Luca e ho sei anni —
— Se lo ripeti ancora una volta lo sapranno pure gli alberi come ti chiami e quanti anni hai
—
— Non lo capisci, babbo. Se non lo ripeto me lo dimentico e che figura ci faccio oggi? —
— Hai ragione. Scusa. —
— Mi chiamo Luca e ho sei anni mi chiamo Luca e ho sei anni mi chiamo Lu…—.
(— Papà?! —
— Ciao Antonio… quanto sei cresciuto dall’ultima volta? —
— Bhè, sono un uomo! —, dichiarò fiero il soldatino e si strinse alla gonna di Giona. Lei
sorrise incerta, levò gli occhiali da vista e ravviò un ciuffo dalla fronte in quel gesto tanto
familiare a Stefano che distolse lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.
— Disturbo?Scrivevi? —
— No, entra, non stare sulla porta. Preparavo il discorso per l’Accademia ma…non c’è
problema, finirò più tardi —. Fissò l’uomo, imbarazzata e incerta. Lui non si mosse.
— Come stai? — mormorò, pervasa da un’improvvisa, forte tristezza. Ho voglia di
fuggire via da te, caro il mio Ex … posso confessartelo?Perché hai negli occhi una luce
diversa. Ma è davvero luce oppure… voragine? Somiglia ad una voragine, già… ed è
soltanto il mio dolore (rancore?) che mi rende impotente di fronte a questo. O forse sei tu
che neghi qualunque aiuto forse… forse…
— Come si sta dopo aver soggiornato in galera. Gli altri bambini dove…? — tamburellava
con le dita sullo stipite della porta.
— Ancora a scuola. Se aspetti un’ora li saluti e pranziamo assieme… saranno felici di
vederti. Ti aspettavamo per stasera —
— No. Ho da fare… cose urgenti lasciate in sospeso. Volevo farti le mie congratulazioni
per il tuo libro —
Giona nicchiò — Veniamo noi questa sera a trovarti?Voglio che i bambini ti vedano per
una volta senza un vetro che li divide da te. Ho lavorato molto assieme agli specialisti,
affinché non provassero più paura nei tuoi confronti. Ho lavorato anche sulla mia di
paura, Stefano. E solo in nome di ciò che c’è stato fra noi. —
Ma ho fatto bene? Ho fatto…?
— Mmmmh... . —, l’uomo annuì stringendo la mascella, — Ho lette le tue lettere. Ma a me
questo non basta.
A proposito di lavoro…
i giornali raccontano che con il vecchio artista è finita. Buon pro vi faccia, ne ero sicuro. Ci
vuole forza per stare accanto ad una puledra imbizzarrita come te. Io ti conosco bene,
Giona. —
La donna avvertì un brivido d’orrore familiare serpeggiarle in corpo e nel ventre dove,
protetto, già batteva un cuore nuovo. E, a quel semplice imperativo, era inutile opporsi.
Sfidò Stefano negli occhi, in silenzio.
No. La punizione era stata dura per lui — era stata dura per TUTTi — e durante quegli
anni, anche grazie al supporto di terapie psicologiche adeguate, l’ex marito aveva capito.
DOVEVA aver capito l’errore della propria violenza, la lecita libertà di scelta di Giona. E
accettato. Quindi scacciò l’oscuro presentimento e si sforzò di sorridere.
— Che significa questo? Che oseresti chiedere in optional una notte di passione folle con la
grande scrittrice?Sai quanto ti costerebbe? — scherzò a denti stretti. La voce era ferma ma
carica di rammarico. Sentendo la tensione crescere, la mano scivolò a proteggere il ventre.
L’uomo fortunatamente non comprese il gesto e ghignò senza allegria, un lampo gli
attraversò gli occhi nel fissare la scollatura del maglione di lei, l’attaccatura del seno
procace. Giona, d’istinto, strinse ancora di più a sé il piccolo Antonio. Il lampo svanì.
— Ok—, concluse finalmente Stefano, di colpo gioviale, — Vi aspetto stasera per la cena al
mio appartamento. Tutti. Facciamo un bel minestrone di quelli che sai fare tu. Da buona ex
moglie questo me lo devi —
— Bene! — Giona si sentì sollevata;il presentimento era scomparso dinanzi all’allegria
rassicurante dell’uomo. — Bene — ripeté e sorrise, — La verdura la portiamo noi —
— Alle sette? —
— Alle sette —.
***
Il tempo non l’aveva plagiato, quel porticato claustro con una vite tenace che spuntava
colle sue radici ingorde tanto da far chiedere al viandante chi mai avesse potuto, e con
quale coraggio, piantarla proprio in quel preciso punto, essa; che diramava sull’intera
parete della casa a tre piani lasciandone scoperti, come occhi di civetta; il robusto portone
d’ingresso e due finestre, una che dava sul selciato, l’altra sul cortile interno della
proprietà; su una rugginosa e sghimbescia ruota di carro e una corda logora, stesa per
asciugare la biancheria, da un angolo all’altro. Un gatto bianco dormiva acciambellato
dall’altra parte del vetro, Giona lo vide stiracchiarsi e arcuare il dorso, leccarsi indolente le
unghie. Con un piede sfiorò inavvertitamente un piccolo vaso di felce posto tra i ciottoli
forse per alleggerirne la melanconìa e s’arrestò dinanzi al portone legnoso, rachidinoso e
smunto. Era, quello, incorniciato dal granire testardo e furioso di un ancestre caprifoglio
che ancorava il grosso fusto poco più in basso, tra un mattone e l’altro e la nicchia
composta di una Vergine dalle mani giunte, il viso pallido come le vesti nebbiate da
ragnatele e spini, il fiore in plastica d’una rosa camunia adagiato accanto al piede proprio
lì, tra la testa della serpe ed il tallone. Per guardare oltre i vetri dovevi, in quella dimora,
salire un gradino alto e troppo rubizzo, salirci sopra arrancando pei muri scrostati e unti,
uncinare uno spazio a caso o una trave sporta più del necessario e solo così, in bilico fra
terra e cielo, raggiungevi la masseria Pulina; migravi il tuo sguardo a quel punto ch’era il
mulino di Pascale Pes e frades* e oltre le falde del lago Baratz, lungo la valle prosperosa di
sugheri, ulivi, greggi e vitigni protetti dal gelo e tagliuzzata, con cicatrici senza inizio né
fine; da numerose strade, larghe o strette, ch’io non so se definire redole o tramiti ora
piane ora scoscese ora sinuose all’inverosimile. A tre-quattro chilometri a sinistra della
masseria, procedendo cautamente in tratti immersi nella selva cisposa di mirti e
biancospini e fiumi non segnati sulla carta e che facevano la voce grossa soltanto al
declinare dell’inverno; sbucavi in uno spiazzo di terra nera e brulla nascosto nei silenzi
agri, a giugno, di cicale e rosmarini, ombroso e protetto dal radicare potente di una quercia
solitaria della quale nessuno ne avrebbe saputo e potuto rammentare l’origine. Laggiù era
e laggiù sarebbe rimasta in futuro poiché laggiù era sempre stata e ai pastori, ai loro padri
e ai loro figli; questo bastava. Bastava che la quercia fosse piantata al suo posto durante le
giornate in cui nulla procedeva come avrebbe dovuto procedere per ritrovare la speranza
e pensare che la vita, dopotutto, è come una foglia; oggi ciondola attaccata felice al suo
ramo ma in autunno passisce, si stacca e cade, la vita è così; oggi va male ma domani, per
fortuna o grazie a Dio, c’è una croce diversa. Ai bambini, lì, durante le sere di festa;
bastava sedere poggiati al muschio a braccia conserte e ginocchia piegate al petto e spiare
il volo pindarico di una vespa o di un passero macro e infreddolito con un pungente,
appena appena percepibile soffio di vento invernale fra i capelli per comprendere che in
quegl’anni era essenziale capacitarsi solo del vento fra i capelli. Thiu Pittau una volta,
raccolta una fune greggia dalla sua tanca di Bonorva, annodate che ne ebbe le estremità ad
una tavola di legno; acconciò il tutto al ramo più forte della quercia.
— Da oggi avete la vostra altalena —, aveva gongolato lo zio, ballonzolando la pancia
gonfia d’aglianico e vino — Su Cannonau rosso rubino e robusto d’Ogliastra che ti fa
circolare il sangue nelle vene come Iddio comanda —, emozionato come un pretino di
campagna alla prima messa. I pastorelli lo rammentavano come fosse ieri: Adesso avete la
vostra altalena. Amen. Ed era bella, l’ altalena; bella davvero. Con una spinta improvvisa
dei piedi a rami secchi, terriccio, aghi di pino e qualche pianticella coraggiosa di larice
(erano convinti che, per far andare meglio l’altalena fosse necessario prenderla di sorpresa)
si oscillava e, mano mano che la velocità aumentava; l’attorno, su logu* ronzava in fretta
come la pellicola di un film a tinte sfocate anzi, proprio in bianco e nero, confuso, dove le
sagome ti sorridevano facendo a gara a chi sorridesse di più e nel Luogo Santo, nel
percorso della strada ferrosa e scura e tremolante; il trenino coi suoi unici due vagoni mogi
scorreva e toccava il cielo, lo attraversava fino a raggiungerti, immerso lassù nella tua
altalena sciancata, e raccogliendoti in uno dei vagoni — magari quello nelle condizioni
migliori perché verniciato di fresco — ti saliva al Paradiso. In quei giorni troppo veloci
non si sapeva esattamente che significasse “salire al Paradiso” e neppure “avvicinarsi al
Paradiso”. Qualcuno che era stato in continente a studiare per poi tornare in Sardegna con
la coda tra le gambe, la fedina penale sporca e la faccia di chi abbia visto e conquistato il
mondo intero; diceva che per salire nel vero paradiso bastava una “sniffata”. Per la plebe
ignorante, che si divertiva col vino e l’altalena di maistru Pittau, rubicondo con la sua
medaglia sacra cucita nella fodera interna dei calzoni di fustagno nero, o a scalare la
quercia più antica della zona; già l’immaginarlo, la libertà di poter immaginare il paradiso
e osare nominarlo bastava, dava l’illusione di averlo già in mano. Come pure bastava,
nelle tiepide sarde albe d’estate, spingersi in radura armati di leppa e mani per cogliere il
fico d’India che, la mattina presto, ha le spine morbide per la rugiada e la polpa compatta
ma tenera, più zuccherina, che pare invitarti.
Giona bussò dapprima timidamente poi, non ricevendo subito risposta insistette più
forte, disperata.
”E’ troppo tardi è troppo tardi è…”. Gli anelli del chiavistello ciondolarono sferragliando
ed uno spiraglio, buio sul buio, s’aprì. — Si? —. Gli occhi acquamarina scrutarono Giona
con solennità infantile; sgomenti, segnati, interrogativi. I tratti del viso acqua e sapone
della ragazza erano regolari e di una bellezza semplice, aristocratica, mai vistosa. Spalle
gracili, trentasette, trentotto anni circa. Chignon, sottili capelli biondo cenere ad accentuare
la porcellana di un incarnato straordinariamente pallido, occhiali dalla montatura classica.
— Si? —, ripeté la giovane, con spiccato accento straniero
— Sono una vecchia amica del Professor Guidi. Ho saputo dell’accaduto e vorrei di cuore,
se è possibile, salutarlo per l’ultima volta. Presto dovrò partire e… La prego —
La giovane strizzò gli occhi contraendo forte le palpebre — Noi non ci siamo mai
conosciute, vero sorella? —
— No. Non direttamente, almeno —.
L’altra aggrottò la fronte, abbozzò un sorriso di circostanza — Hmmmh. Suppongo
conosca le reali condizioni di salute di mio marito; alla stampa abbiamo taciuta la verità,
sono convinta lei comprenda —
Giona strinse i grani del suo rosario, trattenne un gemito. — So tutto —.
— Bene. Domanderò al Maestro se desidera riceverla. Credo che la visita di una persona di
fede come lei, ora, non potrà fare altro che alleviarne la sofferenza ma… è mio marito che
decide ciò ch’è giusto e ciò che non lo è, in casa —
— Capisco, grazie. Annunzi… Suor Maria. —.
— Attenda. —. Una luna diafana apparve sui tetti, Giona serrava le mani tenendole posate
sul grembo. Raffiche di vento gelido la scossero.
La porta si riaprì, spalancandosi e, stranamente, senza opporre resistenza.
Diede un’occhiata all’orologio da polso; le sette in punto. Giona trattenne Francesco per la
giacchetta di felpa azzurra mentre sul marciapiedi, giù di tre gradini marmorei, un
clochard passò rantolando con la sua bottiglia stretta in pugno tra una fila di bidoni
d’immondizia sporchi e maleodoranti. Le ombre si allungavano, un mucchietto di carta da
giornale s’alzò col vento sollevandosi a spirale per ricadere un metro avanti. Un taxi
attraversò la strada senza fermarsi allo stop. Il barbone virò gli occhi vacui verso la
giovane donna ed i tre bambini in altezza decrescente, uno dei quali si faceva rimbalzare la
scatola del Meccano che reggeva dinanzi a sé contro le ginocchia e un passante in
impermeabile grigio fumo e ventiquattrore nera si voltò a seguire la direzione del suo
sguardo. Accigliato, imboccò un vicolo alla destra saltando le pozzanghere fangose
disposte a gimcana. Il clochard accennò una smorfia sbieca da chi ha affondato i denti in
una cipolla rimanendoci incollato, tracannò un terzo del contenuto della bottiglia e assunse
un espressione afflitta, proseguì a ciondolare sul marciapiedi. Giona cogitò che comunque,
che aspettasse visite o meno; Stefano dava sempre tre giri di chiave dall’interno. Uno due
tre. E Stefano era senz’altro un buon abitudinario. Sissignore. Tre giri che in quell’istante
non furono fatti come se già fosse entrato qualcuno nell’appartamento o come che
qualcuno (Stefano?), dall’interno, avesse appositamente voluto (lasciare APERTO?
STEFANO CHE CHIUDEVA OGNI SANTA NOTTE IL GAS PERCHE’ NON CI FOSSE
QUALCHE PERDITA? STEFANO CHE AD OGNI USCITA SERALE CHIUDEVA
PUNTUALMENTE ANCHE L’ACQUA?)… non chiudere
(ma… PERCHE’?)
per far entrare qualcun altro (LORO?).
— Mamma, entra dài! — chiocciò Antonio. Luigi fissò la madre in apprensione, lei finse
noncuranza ed un sorriso, suonò ugualmente più volte il campanello e fece spallucce,
stringendo al petto il sacchetto di carta con sedani, pomidoro, aglio e i fagioli già sgranati.
E se fosse entrato un ladro?Ma un ladro le scàssina le porte eppoi nell’aria (Giona spinse di
più la porta. Buio.) c’era, penetrante e stantio, l’odore dell’acqua di colonia di Stefano;la
stessa che lei amava ed usava comprargli quando erano sposati. Odore di (sangue?)colonia
Napoleon. La sua preferita.
Entrò al buio, tastò nella parete per trovare l’interruttore, invano
— S… S… Stefano? —, balbettò come una vecchia comare isterica. Schiacciò l’interruttore,
accese la luce e chiuse la porta alle spalle, attutendo il sibilo del vento. Antonio sbuffò
abbandonando la scatola del Meccano sopra l’unico divano della camera.
— Stefano? —. Posò la busta della verdura sul tavolo in mogano, un pomodoro rotolò
fuori. La luce del bagno, in fondo al corridoio, era GIA’ accesa.
— Aspettatemi qui — intimò ai bambini.
NON FARE QUEGLI OCCHI DI GALLINA STROZZATA, GIONA. CI SARA’ LUI, E’
CHIARO. CHI ALTRI SE NO?MAGARI GLI SCAPPAVA ED E’ RIMASTO CHIUSO IN
BAGNO. HA SEMPRE DETTO CHE GLI UNICI BAGNI DI CUI SI FIDA SONO I
PROPRI;MAGARI ERA AL BAR A CHIACCHERARE CON QUALCHE AMICO
RITROVATO, HA BEVUTO PIU’ DEL SOLITO E GLI SCAPPAVA ED ECCOLO
QUI;NON HA NEMMENO CHIUSA LA PORTA, TANTO GLI SCAPPAVA…
— Stefano? —. Si accostò con cautela alla porta semichiusa (odore di colonia e) e la spinse.
E il colore le defluì dalle guance, aprì la bocca SPALANCO’ E’ LA PAROLA GIUSTA,
GIONA MIA senza emettere alcun suono e deglutì a vuoto, gli occhi zigzagarono
impazziti dalla pozza di sangue sul pavimento alla lametta buttata vicino al water closet
imbullonato alla parete di fronte ai polsi di Stefano alle vene recise al volto tumefatto e
violaceo
— S… S…— stai sproloquiando, Giona al corpo accovacciato (ma a me questo non basta)
agli occhi vuoti e spalancati (una puledrina imbizzarrita come te. Io ti conosco bene).
Giona fu assalita da un’ondata di nausea. Si sforzò di non urlare, represse un conato e
cadde come un sacco vuoto in ginocchio accanto al corpo, sollevando spruzzi di sangue.
Raccolse il capo rigido dell’uomo (è possibile?Sembrava ridesse. Le labbra erano tese in un
insolente sorriso… ma era possibile?) e lo tenne così;posato sulle cosce ritmicamente
dondolanti, spostandogli le ciocche fradicie dai lineamenti contratti, lividi.
— H… h… hai voluto punirci così… hai… hai voluto vincere così… a tutti i costi hai…
hai…— s’inceppò, non riuscì ad articolare altro. Dondolò e dondolò ancora, movendo la
testa morbida e lenta, fissando spiritata le piastrelle macchiate
— … hai —. Poi la mente di Giona fece crack. Crack atteso e preannunciato.
Un freelance della BBC la settimana scorsa mi ha chiesto del nostro matrimonio.
Ho detto: “di lui ho un ricordo dolce, nonostante tutto. ”
Già.
Un ricordo. Ma è per l’appunto solo un ricordo
Crack. Non fu un crack forte, tanto da sentirne lo scatto. Fu un crack interno, come quello
di un piatto da collezione che scivola dalla credenza dopo anni ch’era rimasto, sempre
fermo, allo stesso posto. Vuoi per il vento, una folata improvvisa e che diamine; ogni tanto
succede. Oppure vuoi per la mano di qualcuno che lo fa scivolare. crack. Il cervello di
Giona subì uno scossone e la voce stridula di un suono nuovo: CRACK. Si è rotto. Si è
rotto l’interruttore E ORA TOCCA STARE AL BUIO, GIONA CARA. Giona riaffiorò dalla
propria masturbazione mentale e lasciò il corpo in bagno. Chiuse la porta per non
disturbare perché LUI, da dentro riuscisse a dormire in pace. In silenzio. (l’ho trovato
talmente dimagrito! Ha bisogno di riposare molto perché, come dice il suo psichiatra,
anche se non mangia recupera dormendo. Come i bambini. I bambini. I)
I bambini.
Attraversò il corridoio a testa bassa. Antonio, Luigi e Francesco giocavano ad inseguirsi
attorno al tavolo.
— Mamma?! — fece Luigi incerto, voltandosi a guardare da sopra la spalla
Giona prese fiato prima di parlare — T… T… tutto bene. Papà non c’è, forse…forse ha
dimenticato il nostro lo sapeva. sapeva benissimo che noi a quest’ora saremmo arrivati. Lo
sapeva e si è fatto trovare PRONTO a…appuntamento.
A... . an… andiamo a casa —
— E il minestrone? — nicchiò Francesco
— D… do… domani… domani —.
Uscirono. I tetti a punta creavano un orizzonte col nero del cielo.
La perizia risalì la morte alle diciotto circa, minuto più minuto meno
Vene recise, lametta da barba.
Preparò il minestrone
Premeditato da tempo? Probabile.
Chiedo il silenzio stampa. (L’ha fatto per punirmi ancora e ancora e anc…?) Buio
Non è colpa di nessuno, lo so. Non scriverò più… non ci riuscirò e non DEVO, forse è
colpa mia… cos’è la mia libertà?Dove mi ha portata e a cosa?
Ad ubriacarmi per riuscire a dormire la notte ed essere stordita il giorno dopo qualcuno la
chiama Notte Oscura Dello Spirito. Mooolto romantico.
Devo reagire per i miei figli (ma che madre sono… IO?) devo reagire per crescerli e la
creatura che aspetto… OddioNonRiesco
Valium e sputa l’osso sputa l’osso sputa l’osso
E questi anni di lavoro e privazioni e sacrifici… ora ci sono riuscita, sono in cima alla mia
scala ma
Padre mi aiuti… mi sto perdendo, sto perdendo la mia strada
E non posso salvarmi, forse non lo merito. Io…
Luce, Giona. Cercare la sirena
Nel capo le pulsavano parole acri che premevano per scappare. Lentamente gli occhi si
abituavano alle tenebre. Avvertiva la bocca asciutta, ancora impastata dall’alcool, aveva
voglia di vomitare e con indosso soltanto maglietta di cotone e i pantaloni della tuta che
non cambiava da tre giorni; non sentiva freddo seppure mancasse un’ora circa all’alba di
una mattina di metà gennaio. L’erba rasa, brinata del prato all’inglese declinava dolce fino
ai bordi di una piscina a forma di ninfea, illuminata da una fila di dodici lampioni
licenziosi. Un dobermann adulto le andò incontro scodinzolando. — Sssh, buono. Buono
—, lo rassicurò Giona con una carezza distratta. Le pareva di vivere in un limbo in quei
giorni durante i quali non esistevano orari e poggiava i piedi fuori del letto come un
automa, aspettando con ingordigia la notte per rifugiarsi in un mondo che, si rendeva
conto, diventava sempre più accettabile di quello reale. Una vita parallela. E peccato che in
quella vita parallela la perseguitassero comunque i fantasmi dei ricordi. Peccato davvero,
Giona. Ma NON PENSARE, in quel momento, era la cosa più saggia da fare. Con una
mano ravvivò i capelli lunghi, mossi, trascurati e in disordine portandoli indietro. Pensò ai
suoi figli in casa dello zio, a Roma. (“Cambiare aria farà loro bene, Giona. Se permetti
voglio portarli un po’ con me in continente. Giona, mi ascolti?”. Giona sedeva assorta
davanti a due monitor ronzanti. Su uno degli schermi erano visualizzati una mappa del
sito archeologico di Jef el— Ahmar, in Siria, testi in demotico e greco antico. “Ti ascolto
sempre Giuseppe. Forse sei l’uomo che ascolto di più. E non ho nulla da obiettare. ” Fece
una pausa. “Ai bambini farà bene”, ripeté in tono troppo enfatico. Giuseppe aveva
scambiato uno sguardo d’intesa con la moglie, infermiera professionale al Fate Bene
Fratelli. Non avevano avuto figli. ”Giona noi… vorremmo che venissi anche tu”. La donna,
che per tutto il giorno aveva provato a lavorare al nuovo romanzo maledicendolo e
ottenendone cinque righe in tutto e della stessa frase soltanto espressa con parole diverse;
aveva allontanato da sé la scrivania con uno scatto nervoso della poltroncina girevole.
Scrutò il fratello con occhi cerchiati e lucidi di febbre, pallida e smagrita. “No. Ho bisogno
di stare sola. DEVO stare sola, in questo momento. Lo capisci Giuseppe?”. L’uomo l’aveva
fatta alzare dalla scrivania e le aveva raccolto il mento tra il pollice e l’indice. — Hai
bevuto anche questa notte, Giona mia… e quel bellimbusto di cronista con cui esci…—
— Sergio… mi ama —
Le veniva da ridere.
Amore… che meravigliosa parola, Giuseppe
Portò la mano alla bocca come una sonnambula e incespicò su di un risolino isterico, il
fratello corrugò la fronte
— E tu? TU lo ami, fuori dal letto? Quell’uomo ama il tuo nome Giona, e il tuo corpo. E’
una sanguisuga che si fa pubblicità alle tue spalle —
— Che… CHE DIAVOLO VUOI DA ME, GIUSEPPE? COSA ACCIDENTI VOLETE
TUTTI? —
Ho visto in faccia la mia morte.
Penso ad un albero.
Gli uomini non sono alberi. Non basta il sole e la terra, per crescere.
C’è altro, Giuseppe.
Gli uomini vogliono un posto al sole, per crescere orgogliosamente rigogliosi del sé
Debbono utilizzare l’intelligenza superiore. Come utilizzarla è soggettivo.
Si. Ecco. Ciò che li accomuna agli alberi è il sole. Ma c’è dell’altro.
ALTRO.
— E tu cosa combini?Perché?Voglio aiutarti, ma non so come pizzinnè! —
Altro, vita e morte;MorteVita. Non è la stessa cosa, dopotutto?Il bruco muore e nasce la
farfalla. Un fiume si sacrifica al mare ed il mare stesso pare aspettare ogni fiume che a lui
confluirà. E la luna? All’alba attende, attende paziente un giorno nel proprio guscio, prima
di tornare a rischiarare la notte. Che siamo destinati anche noi a morire per comprendere
l’essenza della vita?Buio per luce.
Gli uomini.
Gli uomini la vita devono viverla e non vegetarla, Giuseppe Fratello Caro.
Io sto vivendo. Semplicemente vivendo. Modus Vivendi e Operandi, you Know?
Ciò che non abbiamo vissuto prima, e tu dovresti saperne qualcosa.
Plebe. Siamo plebei, fratello Caro anzi, Plebei con la P maiuscola che hanno consumato le
unghie e i denti per fare ciò che fanno.
Non sono un albero Giuseppe e non lo sarò mai. Non voglio esserlo. Ma voglio
ugualmente il MIO sole.
C’ è un momento nella vita in cui
— Vattene fuori di qui, Giuseppe. Prenditi i miei figli per un po', tua moglie, prenditi
anche cane, cuoca e cameriera se vuoi. La baby sitter due/tre volte la settimana. Ma
vattene! —
si avvisa di star perdendo la rotta
e pare non esista bussola che possa evitarlo, Giuseppe Caro
L’uomo aveva sospirato
Sapessi che bei sogni faccio la notte, fratello caro.
Ti descrivo il mio tipico Sogno Di Una Notte Di Mezzo Inverno?
Va bene, se proprio insisti, lo descrivo.
Siedi pure, c’è tempo. Gradisci un Valium?
Nuda in un tunnel. Un lungo tunnel, buio e putriscente, l’odore di marcio ti avvolge fino
alle ossa. E topi, ragni e scarafaggi… il mio tunnel preferito ne brulica. Giù in fondo vedo
una luce che pulsa, Giuseppe, ma è in fondo e io corro per raggiungerla e corro scivolando
nella melma, cadendo e rialzandomi e corro e corro e corro
Ma non la raggiungo mai
— Giona?! Stai bene? —
— S… si. Bene —
— Un angelo è sempre un angelo, pizzinnè. Anche con le ali spezzate —.
Giona non aveva risposto. Sfuggendo le dita e lo sguardo dell’altro aveva ciondolato il
capo come un fantoccio rotto, cominciato a piangere un dolore tremolante, inspiegabile,
senza fine. Il fratello l’aveva abbracciata. “Un angelo è sempre un angelo. E prima o poi
torna a volare… DEVE tornare a volare, perché è nella sua condizione, volare.
Coraggio, pizzinnè. Il coraggio ci vuole —. Sarah, la cognata, senza fare commenti aveva
spinto i bambini fuori dello studio della donna).
Albero. Sirena.
E ora le foglie turbinavano e stormivano col vento secco, tagliente sul viso pallido e
disfatto.
Giona era apatica.
S’infilò nell’MG e con un rombo intessuto d’energia il motore s’avviò, i fanalini di coda
s’illuminarono. Uscì dal parcheggio dove spiccava un PRIVATO segnalato in caratteri
cubitali e con uno stridio di gomme lanciò l’auto in un viottolo tra bidoni di spazzatura ed
un cumulo pericolante di mattoni e terra per poi immettersi su di una vecchia strada
secondaria, in direzione del mare. Va tutto bene, va tutto bene come deve andare Giona
scrittrice sarda di razza che non concepisce mentori. Doveva andare così dall’inizio.
Adesso lanciamo la macchina coi fari che illuminano i tronchi e sostituiscono le stelle fino
al molo dove non c’è nessuno che ti aspetta se non il tuo mare. Eppoi facciamo il tuffo, ti
va bambina?Non rispondi?Mah. Was will das Weib?*
— Si che mi va —, biascicò Giona non pensare a nulla. I bambini stanno bene anzi,
staranno meglio con lo zio e sua moglie posata infermiera professionale che con una
scrittrice sarda di razza che si ubriaca la notte e va avanti a Prozac e Lexotan. Molto
poetico tutto ciò. God save the Queen. Molto poetico tutto ciò. Si si Sissignori.
Pigiò il piede sull’acceleratore e imboccò i tornanti furiosa, hai perso tutto, cara mia la
sissignora sarda di razza candidata al Nobel per la letteratura. Giacomo è svanito come il
genio della lampada così pure l’ex marito che hai fatto uscire di senno e il lavoro?che ne
dici se adesso ti salta il contratto editoriale con Francia e Germania perché non riesci a
buttare un rigo in grazia di Dio?Quel protégé del tuo paziente inglese agente si romperà
moooolto, si. E ti dirà di andare a farti fottere e avrà ragione. E i bambini?Il loro padre è
partito verso altra destinazione per colpa tua, caaaara. Che porti sfiga? Magari porti sfiga
sfiga uno appresso all’altro, col finestrino aperto e il vento ghiacciato a sferzare volto e
capelli e anima. Dopo una curva, finalmente apparve il mare e Giona sorrise, acelerò
ancora. E vai vai vaivaievaiiiiii!!!
Il mare, la spiaggia onde alte immense rabbiose che aspettano inquiete, il molo. Prese a
piovigginare. Virò verso la spiaggia si si!Che bella idea!Dalla spiaggia va meglio bambina
e, in medias res*, … le onde ti vengono incontro e tu vai incontro a loro siiiiiiiiiiiii!!!
Giona sterzò e in un testacoda posizionò l’auto parallela alla linea del bagnasciuga. Frenò
arrestandola, aprì ulteriormente il finestrino e aspirò ansante le stille di pioggia, la nuca
abbandonata al poggiatesta del sedile. Fissò un punto impreciso di fronte a lei, ingranò la
marcia e partì acelerando, acelerando ancora vaivaivaiiiiiiiiiiiii e sollevando schizzi
d’acqua salata, proiettili di sabbia. Virò. Ecco il mare davanti e si avvicina, il respiro è
rapido e breve, le onde frantumano la rena e la pioggia vaiiiiiiiiiiiiii e il ricordo che urla e
tutto scorre fuori veloce fugit inreparabile tempus monocromatico, la colonna sonora è il
sibilo del vento.
Frenò un istante prima che l’auto spaccasse in due il mare. L’onda si alzò alta sopra la
capote e Giona ne vide il cumulo d’acqua erto, pieno e vigoroso e sibillino, blu, e dietro
spuntò il sole, sorse come ogni giorno e la pioggia smise di cadere. L’onda cadde
frantumandosi sull’auto che vibrò e la riva, perdendosi in mille gocce solitarie. Giona serrò
la mascella, poggiò la testa sul volante battendola piano una, due volte. Il parabrezza era
coperto dagli spruzzi salati; riusciva a stento a vedere. Ma spiò il sole svegliandosi con
esso, gl’imprevedibili riverberi giallo arancio a chiazzare cielo e nuvole, l’acqua. Albero.
Sirena. Luce. Tirò il freno a mano. Spalancò lo sportello della macchina, uscì e odorò il
salmastro lottando contro le folate. Sedette sulla sabbia bagnata, levò le scarpe e raccolse le
ginocchia al petto come faceva da bambina, attese l’altra onda alzarsi e caderle come una
frustata di ghiaccio ai piedi, rabbrividì, sorrise e il sorriso divenne riso mentre lacrime
diverse, liberatorie, presero a scorrere. Giona rise scotendo la testa e infine, dinanzi al suo
mare, annuì. Sono tornata pensò.
..................................
Was*
In medias…*
cosa vuole la donna?
nel mezzo della narrazione
***
Sul chiostro un rosaio sonnacchioso, eretico di centifoglie specchiava la luce tenue e fra
quelle un bocciolo di rosa, la più alta ed augusta, si faceva guardare ringraziando per
l’attenzione ogni fuggevole occhiata, poiché la bellezza vive degli sguardi altrui e di quelli
si bea pur sapendo che, come rosa e come bellezza, non durerà che l’attimo di uno
sguardo. Attorno, disposte a ferro di cavallo, erano sentinelle dieci colonne di granito
d’ordine toscano che fingevano sostegno a nove archi ogivali timidi, chiazzati d’edera
freddolosa. Ventisette celle v’erano. Gli arredi d’ogni cella erano scarni; in quattro strette e
bianche mura dividevano gli spazi un vecchio armadio a due ante, un crocifisso sul muro
ed un povero letto in ghisa, dignitoso col guanciale candido e coperta di lana grezza, una
sedia e uno scrittoio e giù, ad angolo tra una piccola finestra dalla quale osava filtrare
soltanto l’orto del monastero ed il gracidio delle rane in quelle giornate particolari in cui il
sole rimaneva accessibile agli uomini più di quanto gli stessi lo volessero; un
inginocchiatoio del quale, nel bel guardare, il gradino peculiare era tatuato dalle
genuflessioni del tempo. Giona indossò la capa bianca e il velo, s’avvinghiò al rosario sotto
lo scapolare con entrambe le mani e chiuse la porta della stanza alle sue spalle. Raggiunse
il corridoio interno e l’imboccò silente, l’attraversò lesta, salutò con un cenno di testa due
sorelle, salì tre gradini dove sulla cima, a manca; dipartiva un’ulteriore scalinata che lasciò
al suo destino ed ecco, all’opposto, una fila di sette porte chiuse, contraddistinte da
numeri. Giona aprì la porta della sala numero tre, entrò, la chiuse. C’era, in mezzo alla
minuscola stanza quadrata, una grata ferrosa che calava dal soffitto per fermarsi a circa
metà altezza d’uomo su di un appoggio legnoso che, assieme alla grata descritta;divideva
la sala in due parti. Da un lato, il lato del visitatore; ancora una porta; solo lo spazio di due
sedie poste gemelle v’era, una che dava alla destra ed una alla sinistra della grata dov’era
possibile, in un angolo in basso, aprire un piccolo varco che sempre fungeva da tramite tra
l’esterno e l’interno con un chiavistello ed un cancelletto ove presumo si potesse far
passare qualcosa; chessò, un libro, cibo, un pensiero comunque ben accetto a chi stava
dall’altro lato. Il visitato poteva accomodarsi in una delle quattro sedie presenti in tutto,
fissare negl’occhi il suo interlocutore e, se proprio voleva salutarlo con una carezza;farla
col ferro in mezzo alle dita. Sulla parete, in alto alle sue spalle, capeggiava una croce latina
scarna e trista e, più in là, una sorta di lampioncino bronzeo e spartano dalla tenue luce
che, più che illuminare il minuscolo luogo — seppure poco ci voleva ad illuminarlo —;
valorizzava due icone di un Cristo sereno di diversa misura. Giona sedette a capo chino,
assorta, e attese in muta preghiera. La porta di fronte a lei s’aprì.
La donna sollevò il volto che parve illuminarsi d’un tratto e dei ricordi più dolci.
— Giuseppe!
Caro! — esclamò, ed una mano fuggì suo malgrado da sotto lo scapolare, sfiorò la grata,
la toccò, la strinse e dita frementi l’oltrepassarono.
— Quanto tempo…! —
— Roma è Roma, pizzinnè —
Il sorriso di lei si accentuò al sentire quel nomignolo e l’uomo capì, rispose al sorriso e alla
stretta della sorella che per lui, ora, doppiamente sorella era. Dunque toccò con le sue le
dita di lei e contemporaneamente sedette, poggiò una busta da lettera strappata
maldestramente da un lato sul davanzale legnoso.
— Come stai? — disse, preoccupandosi un poco per la freddezza della mano che gli
veniva porta
— sto bene, Giuseppe.
Questa è la mia vita, è la mia sirena. Non potrei vivere in altro luogo che non sia questo —
L’uomo divenne serio, per un attimo aggrottò le sopracciglia, evitò lo sguardo di lei
— Si —, mormorò soltanto, poi, di nuovo la fissò. Giona con un cenno del capo
l’incoraggiò a parlare:
“perché c’è qualcosa in te, Giuseppe. Qualcosa di… diverso, che preme per venire fuori…
non è così?” dissero gli occhi della monaca
“Si, è così. E non sono cose buone, sorella mia” dissero gli occhi dell’uomo
— I… i miei figli? — osò allora Giona, incerta
— No, no cara; stanno benissimo. Tutti. Pochi giorni fa sono stato a casa di Antonio,
abbiamo chiacchierato, bevuto Cannonau e ballato abbracciati sbronzi per ore pure con
Francesco che sonava le Launeddas e fachiat su Tillu Tillu…*quanto è bravo quello a
sonarle che se lo sapessero gli altri principi del foro capoluogo rivali suoi gli
mangerebbero la testa a morsi dall’invidia!. Alla fine, quella povera crista di Anna ci ha
fatto un pentolone di minestra a tutti per aggiustarci la spezia* chè poco ci è mancato di
rovesciarci l’anima. Io… era importante che ti vedessi, Giona —
— Dimmi. —.
L’uomo schiarì la voce, indicò la busta sul ripiano.
— E’ di … Giacomo Guidi. —, esordette.
Giona trasalì e non si pronunziò, chinò il capo. Infine assentì.
— Mi ha scritto per anni, qui in Monastero. E sempre le sue lettere le ho fatte rispedire al
mittente.
Sapessi Giuseppe quante volte, quante volte …!Ed ogni volta un pezzo di cuore gridava
“leggi, Giona. Leggi soltanto”—.
— Capisco.
Come questa ne ho ricevute un centinaio. Le ho bruciate tutte. Ma questa…—
La donna si morse il labbro inferiore, lo guardò
— Cosa è accaduto a Giacomo? —
L’uomo tossì.
— Sai che penso di lui per ciò che ti ha fatto, no? —
— Cosa… cosa gli è accaduto? —, bisbigliò Giona facendosi eco
— E’ stato colpito da un ictus, due giorni fa ed è… la stampa ha dichiarato che sta molto
male. Non vuole vedere nessuno, com’è nel suo stile del resto —
La rondine piegò il capo, chiuse gli occhi ed unì i palmi delle mani in preghiera.
Non vuole vedere nessuno.
Le martellava la testa ed una parola soltanto saettò: solitudine.
E coraggio.
Occorre più coraggio per continuare a vivere al buio o per cercare di uscirne?
O ancora: occorre più coraggio a vivere la propria vita in solitudine o a scegliere di viverla
a fianco di un compagno della propria solitudine?E’ giusto dividere la propria solitudine
con un altro, in nome dell’amore?
O regalare al compagno di vita la propria solitudine, non è forse l’atto d’ egoismo più
estremo?
— … cestinata —
— Come, scusa? —
— Questa è la sua ultima lettera ed è un puro caso che non l’abbia cestinata. Dopo che ho
saputo ciò che gli è accaduto l’ho aperta, Giona. E l’ho letta. L’ha scritta qualcuno per lui,
una settimana prima che venisse colpito dall’ictus… stava già male e sentiva che presto
sarebbe venuto il peggio. Mi prega di dirti che ti vorrebbe accanto, che ne conosci il
perché. Vuole che tu gli stia vicino quando…—
— Giacomo…— mormorò Giona, affranta
— Quell’uomo è il male, Giona. Non ha mai creduto in niente se non in sé stesso —
— Giacomo —. Lei sollevò il viso, scrutò il fratello con dolore immenso: — No. Ha vissuto
nel tormento e ora… forse ora l’ha compreso. Oh Signore… sapevo… sapevo che prima o
poi questo momento sarebbe arrivato… lo sapevo, Giuseppe. Ma pensavo che sarei stata
pronta ad aiutarlo, adesso di più. Adesso che non posso amarlo —
Passò ancora le dita attraverso la grata cercando il calore fraterno.
— Ma non è così… il mio cuore, lo so… il mio cuore si spezzerà quando lui…— traette un
respiro, le parole si smorzarono. Strizzò gli occhi.
Li riaprì.
— Devo andare da lui —
— Giona, tu non sai tutto. Tre anni fa quell’uomo si è sposato, ne hanno parlato tutti i
giornali. Ha sposato una sua assistente e non merita che proprio tu —
— Non m’interessa. Ora ha bisogno di me e io andrò da lui. Parlerò con la Madre
Superiora, mi conosce e comprenderà. Partirò oggi stesso —.
................................
Spezia*
Launeddas*
Fachiat*
stomaco
strumento a fiato fatto di canne
faceva il tillu tillu (passo di danza sardo)
................................
Fece per alzarsi
— Giona aspetta. Se ha vissuto solo è perché l’ha voluto. E’ un meschino… ed è meschinità
grande, la sua, se durante la vita ha avuto bisogno dell’altrui meschinità per brillare di
luce propria. Lascia che muoia solo, com’è giusto che sia. E se c’è una giustizia in cielo…—
La donna sorrise al fratello
— quanto bene puoi volermi, Giuseppe?— strinse maggiormente le dita di lui, — Tutti
viviamo e moriamo soli, io non potrò impedirglielo. Ma gli starò accanto quando
accadrà… e non avrà paura della morte più di quanto non ne ha avuta della sua stessa vita —.
Arbatax, 26 novembre, H. 5.45.
Sorge il sole, e se tu sapessi quanto mi sei vicino, in questo momento.
E se vedessi ciò che vedo io in questo istante, smetteresti di respirare; pensare. E’ l’infinito,
questo mare, forse è l’infinito che io e te abbiamo cercato dall’inizio avendolo invece
accanto; l’uno rappresentato nell’altro. E smetteresti di credere che siamo fatti solo di fisica
e chimica organica, o un composto bizzarro di sola energia. La psiche è comunque un
fenomeno energetico, sono convinta che sia indistruttibile
Lo spirito? L’anima?. E’ anima ciò che io sento e vedo adesso e scusami se tutto ciò che
sento e vedo e respiro, ora e sempre, lo faccio per te e per un barlume d’incosciente
speranza di poterti, un giorno, abbracciare ancora. Trovo ogni risposta a domande mai
porte ma nate con me, qui dinanzi alla maestosità delle mie onde, nel dicembre che è
prossimo a sorprenderci e fa pensare che la Natura, in realtà, non dorme neppure in
inverno quando, forse, è più languida, sensuale e dolce che mai col porpora delle bacche di
biancospino e qui nelle rocce erose, offese e sublimate, lascive, sirene abbandonate a sé
stesse e agli eventi. Non è questo, il Dio che tanto neghi?
Anima. Non è anima, l’energia che ci muove? E seppure fosse soltanto energia, custa
Lughe de Chelu*; non è, comunque, una fonte che a sua volta scaturisce da un unico ego
talmente potente da condizionare spesso noi stessi e gli eventi che ci circondano? A me
piace chiamarla Anima, non energia. L’associo al vento che corteggia le foglie d’autunno,
ispira loro e impone di cadere dai rami che le proteggono, staccarsi e morire — o vivere
davvero —; solitarie e, forse finalmente, libere. Pure dall’apparente leggero giogo di un
ramo. Siamo foglie, Amore, siamo come le foglie d’autunno, mosse e arcane, lascive e
gaudiose come baccanti, vive e trasudanti, ansanti, doloranti di gemiti di passione o
giocose o felici; gitane, sensuali lacrime di Pierrot che soltanto l’amore può grinzare ed il
tempo, dell’amore solare ed incontrastato alleato, addolcirne l’agro ricordo. Se tu sapessi
quanto il tuo viso è ancora presente in me temeresti questa forza, e, da animale braccato,
scapperesti lontano; ancora più lontano rifugeresti nella tua mente di quanto tu non sia
adesso… ma vorrei che tu sapessi; se solo tu potessi sapere quanto e ciò che vorrei.
Perdonarti per quanto ci hai fatto?Mai;perdonarti significherebbe perdonare me e quello in
cui ho creduto o voluto credere amandoti. La vecchia Severina diceva che si può impazzire
d’amore. E’ vero. Forse qualcuno ha pena dell’uomo e di questa sua immane sofferenza,
tanto grande da piegare in due corpo e cuore e spirito e cervello? Esiste qualcuno che ha
pietà di queste creature UominiDonne così uniche da essere in grado di formare unendosi
d’amore vite intelligenti, belle, creative, furbe, crudeli e lussuriose ma in realtà fragili come
gocce di pioggia che cadono dal cielo prima unite e poi sparpagliate sulla terra nuda,
ognuna col compito di dissetarla e se capissero, quelle gocce, che unite potrebbero
arricchire l’intera terra e abbeverarla!? Ma sole non servono a niente se non a disperdersi
in direzioni spesso troppo lontane anche dalla propria immaginazione. Per amore si può
piangere ogni notte, Giacomo caro, e si può carezzare e toccare con una mano che diventa
la tua mano di fuoco, ogni notte Fenice; si può maledire, sognare sogni già fatti da mille e
mille altri UominiDonne, nuragici e prima di te e tutti, ora, dentro te; si può sperare di
morire e nessun richiamo della vita a difesa della tua vita può essere utile. Ci si può
perdere, per amore, oh si. Ed è una selva talmente intricata e antica e buia, aracne tela
appiccicaticcia, orrenda epperò voluta e inevitabile da non uscirne più fuori, di non
vederne filtrare luce alcuna. Perdita e passione da augurare a ogni uomo. E’, quella, la fine
della mantide che pur sapendo che dopo l’accoppiamento verrà divorata si unisce alla
compagna, comunque. ”La felicità suprema della vita è la convinzione che siamo amati”,
scriveva Hugo. Io scrivo ciò che non riuscirei a sussurrarti senza i sospiri dell’amante casta
e in attesa di un gesto, una parola che se anche venissero sarebbero, per dovere e difesa,
rifiutati. Ma sappi che c’è e tu sei ancora, e sempre, nei miei silenzi, negli scritti, nei
disegni, nei canti miei, nei gesti e nei ricordi, in ogni delirio della passione, ragione. E non
so se meriti di esserci. Ma ci sei e basta. E anche a me, basta così. Perché non si ama,
Giacomo, chiedendosi un perché. Si ama. Non c’è un perché nell’uomo alla rincorsa del
proprio destino, se questo destino è rappresentato dall’amore. Si corre attraversando la
stessa fissità del tempo, fino a che non fanno male le gambe e fino a che le gambe non
divengono ali. Nei bui e nelle luci di cielo, nelle onde/tempeste e rene placate. Nella mia
libertà.
Tua Giona
“Dae bòidu sa boghe tua che un’eco in mie s’assinabat.
Lenu lenu dae mente a coro che un’eco in mie s’assinabat.
Ma ite, ite cuffusione, tot’in d’unu tremet in mie una nota, intrat in
Armonia chin sas notas tuas, e su bòidu torrat a esser pretesa.
Sinche lìerat lentu s’ayubore.
Ite oh ite colores cubat sa distanzia chi nos seberan chi zai
S’est prenande de calore.
Calore ite calore ch’irrayat sa boghe tua disconnòschida
Chi su fadu mi at dadu faghéndemi torra bisiare.
Forsis diat firmar cust’illusione o apo a éssere dae bisos boitada.
Si ses tue s’abba chi mancat dae su desertu meu rena mea
T’at a collire mare meu…”.*
Strinse al petto la carta stropicciata e la biro, una barca a vela si spostò lateralmente ad una
roccia rossastra e muschiata che la nascose del tutto alla vista. Giona piegò il foglio in
quattro, l’infilò in una busta da lettera giallo ocra. La chiuse. Un corvo poggiato ad una
carcassa di bidone, sollevava e abbassava le grandi ali a scatti, insultando il ferro
rugginoso con beccate nervose. Giona carezzò con la mano libera il ventre e quasi lo
sentiva, il suo bambino, ridere ad ogni arpionata buffa del volatile. Quella creatura era
stata cercata si, ma non voluta in quella circostanza; in un abbandono tardivo e imprevisto
fra i due amanti. Giacomo non avrebbe saputo mai nulla della gravidanza; la loro storia
era chiusa (e l’amore? Si era mai chiuso davvero quell’amore tanto forte da spaccare gli
argini del tempo, dell’umana conoscenza e morale?
— Promettimi che quando avrai più bisogno di me mi farai chiamare… non lasciare che lo
sappia da altri —
— Che senso ha questa richiesta, adesso? —
— Ha senso per me, Giacomo… anche se dovessero passare anni senza che uno sappia
nulla dell’altro… promettilo, ti prego! —
— D’accordo. Lo prometto. Ma anche tu…—
— Si. Ovunque sarò. Quando accadrà che… io ti starò accanto. VOGLIO starti accanto —)
e ognuno avrebbe seguito la propria strada, senza remora alcuna. Era giusto così. Per
tutto e tutti. Non si combatte coi mulini a vento, Giona.
Sola. Tre bambini da crescere Dio sa come e incinta di un’altra creatura che non avrebbe
mai conosciuto il suo, di padre. Era sola, ma piuttosto che chiedere uno spillo a qualcuno
lei, Giona Demura, avrebbe preferito morirne. La giovane donna fissò il corvo. Rabbrividì.
Retrocesse verso casa.
E il corvo sulla carcassa rugginosa fissò la donna
E’ giovane, pensò lisciandosi le piume, è bella, pensò
Ha il mondo in mano e una creatura in corpo, la sento dall’odore
Può dare la vita come ogni femmina
Ha la Natura in mano e il sole davanti e ancora non lo sa
Ma lo saprà presto, pensò il corvo, e non ne avrà più paura
Si è tutti Natura e Natura è tutti, concluse il corvo
Alzò le ali in segno di saluto e chinò il capo, saltellò e spiccò il volo.
....................
“Dae…*
Dal vuoto la tua voce come un’eco in me s’insinuava.
Lentamente, dalla mente al cuore, come un’eco s’insinuava.
Ma che confusione, all’improvviso vibra in me una nota,
entra in armonia con le tue note, ed il vuoto è nuovamente pienezza.
Lentamente la gioia si sprigiona.
Ed il vuoto è nuovamente pienezza.
Chissà che colori nasconde quella distanza che ci separa che già si sta
Riempiendo di calore. Calore, che calore irradia la tua voce sconosciuta
Che il fato mi ha donato facendomi ricominciare a sognare.
Forse dovrei fermare quest’illusione o sarò travolta dai sogni.
E se fossi tu l’acqua che manca dal mio deserto?La mia sabbia
Ti accoglierebbe, mio mare…
(SI SES TUE . Se sei tu ; Canto della tradizione popolare sarda)
***
— Prego. Il Maestro l’attende. E’ disteso al piano di sopra, la camera che…—
— Si, si… so dov’è —, mormorò Giona e l’anima sua era già in quella stanza e la parola ed
il corpo, ogni parte del corpo, pareva staccarsi da lei e, in preda ad una convulsiva propria
volontà volava, danzava su per le scale saltandone i gradini di marmo greggio per
giungere lì, aggirarsi finalmente come il pellegrino che dopo mesi di sofferenza si placida
dell’unica oasi rimasta senza avere il coraggio di abbeverarsi di quell’acqua e prima la
guarda, e la guarda ancora, e ancora; fermandosi a dissetare le carni lì dov’è e dov’era
sempre stata la sua vera fonte. S’accodò dunque alla giovane nell’attraversare mestamente
gl’ambienti spartani e rudi fermi negli anni del proprio cuore, la seguì lenta odorando
dietro di lei odori dolori già suoi, le mura, ogni oggetto ch’era un frammento di memoria,
rumori e umori sopiti.
(— Non posso. —.
— Che significa non posso, Giacomo? Guardami negli occhi —
— Che è più forte di me e…—
— Sono una madre, prima che la tua compagna! E tu lo sapevi dall’inizio. Non puoi
pretendere che abbandoni i miei figli per occuparmi soltanto di… di… un bambino mai
cresciuto! Perché è questo che vedo in questo momento e io…ho deciso di lavorarti
accanto, ero pronta a lasciare la mia città, le persone che amo. Ma non chiedermi di
trascurare i bambini ora che hanno più bisogno di me —
L’uomo fissò lo sguardo in un punto imprecisato del pavimento, abbandonato in silenzio,
curvo e rassegnato e stanco.
— La mia arte è una missione. E mi sto annullando, per amarti. Non mi era mai successo
prima —
— SIAMO UOMINI, GIACOMO!UOMINI!GLI UOMINI AMANO!
Io non… non posso credere a ciò che dici, desideravamo un figlio nostro, lo ricordi?
Avrei combattuto col mondo, per difenderci… rinunciato a tutto per te…MALEDIZIONE
A TE E A QUELLO CHE SEI… NO, NON MI TOCCARE! —
— Giona…—
La donna rise amara, beffarda, distrutta, impotente.
Raccolse dal tavolo la tazza in coccio semipiena di caffè, la scrutò assente e cerea in volto,
le labbra tremanti
— Dammi ancora tempo Giona… sei talmente giovane e impulsiva! —
— L’hai avuto il tempo, come l’ho avuto io. Voglio viverti accanto… come una donna vive
col suo uomo —
— Devo pensarci prima di rischiare di rovinare quarant’anni di lavoro per la presenza di
figli neppure miei. Ho la mia età e… se ti avessi incontrata dieci anni fa —
— Cosa sarebbe cambiato? Sarebbero stati i tuoi e comunque sempre estranei al nostro
amore —
— Ho sempre vissuto solo e tutto mi sarei aspettato dalla vita tranne che conoscerlo al
mio tramonto, l’amore —
— E’ un dono, e non l’hai capito. Cosa fai? Cosa ci stai facendo, Giacomo?
Così si ama solo una volta nella vita. —.
Ma capì quella sete di solitudine estrema in chi, la solitudine, aveva conosciuta da sempre
come madre. Inspirò, trattenne le lacrime in uno sforzo abnorme, alzò il coccio col caffè e
lo scagliò furiosa contro il muro. Puntò gli occhi sul volto segnato e incerto dell’uomo ora
fredda, altera, stremata, ansante. Com’era possibile, per ambizione, egoismo e paura,
tralasciare LA VITA?. Ma forse semplicemente non c’era amore, non c’era mai stato, forse
avevano creduto e si erano illusi o aveva creduto o forse… Se… .
— E’ finita —, sibilò Giona assente e come, anni prima, l’aveva profetizzato Severina.
— Giona, aspetta…— disse lui, in un singulto. Ma lei era già fuori, era già via, ali arrese
all’ineluttabilità degli eventi. S’avviò verso la scuderia, entrò, mosse una carezza a
Diavolo, il suo stallone nero. Quello sbuffò allungando il collo, recalcitrò acculando. Lo
sellò per montarlo, lo lanciò ad un galoppo rabbioso e senza meta, a briglia sciolta, nella
campagna agreste dove già, lentamente, volgeva l’interminabile e astiosa notte).
— Le domando di non farlo parlare troppo, sorella. E’ stata precisa disposizione del
medico —.
Giona annuì affacciandosi alla camera in penombra e chiusa ad ogni elemento od essere
estranei alla stessa. Ancora due specchi v’erano — gli stessi —, poggiati alle pareti come
arazzi dai ghirigori stonati e sepolti da drappi di stoffa deliquia. Lei soltanto un respiro
udì; pesante, roco, stanco. La ragazza rimase (“per disposizione di mio marito”) fuori della
camera. Chiuse la porta alle spalle di Giona. Questa divenne statua muta, il respiro
ritmicamente sospeso, fuso con quello ansante dell’uomo sul letto. Poi la rondine, come
destatasi da lungo sonno, volò al capezzale inginocchiandovisi davanti, raccolse e strinse
al petto la mano tremolante del vecchio maestro; poggiò le labbra e le ali sull’orecchio di
lui: — Vita mia —, sussurrò e quel bisbigliare fu per l’uomo il titillo dell’acqua tra anfratti
rocciosi, le violacciocche ed il fruscìo delle felci maschio. L’arcaico volto ebbe un tremito e
la bocca accennò un sorriso.
— Hai… mantenuta la… nostra promessa —. Soffiò. Gli occhi liquidi, feriti, secolari,
guizzarono sul velo scuro di lei, seguirono i contorni e gli affossamenti immaginando le
castanee onde ribelli nascoste da essi.
— Toglimelo tu —, pregò Giona accostandosi la mano dell’uomo al capo, — Mai un altro,
prima, l’ha fatto —. Le dita fletterono in poco che aveva di umano, s’infilarono dolcemente
sotto il velo e, lente, lo traettero via. Lei venne in aiuto e calò così la capa bianca. L’accenno
di chioma, rasa e stagnante, mutilata, fossilizzata alla riva. Giacomo Guidi afferrò quella
zazzera marrone, l’attirò a sé con singhiozzo furioso: — Venticinque anni fa sono morto,
io… per te…. Malaitta sias pro sempre tue; frisca rosa*… e puru deo! — *.
— Salve! Hai dimenticato il nostro appuntamento? —
Giacomo Guidi, nella sua vestaglia rosso mattone, barba ispida di varie settimane, occhiaie
e capelli neri incolti; inforcò gli occhiali da vista, abbandonò sulla poltrona in pelle accanto
al camino e al fuoco ormai ridotto ad uno strato di braci che consumavano lente;un
vecchio volume rilegato in pelle nera dimenticando di segnarne la pagina letta e s’alzò,
rovesciando da un lato la multicolore coperta in lana che, fino a pochi istanti prima, gli
scaldava gambe e piedi. Di fianco a raffigurazioni in pietra di figure mitologiche e affreschi
di pastori intenti alla mungitura; squadrò la ragazzina (quanti anni le avrebbe dato?
Venticinque, ventisei?Forse meno) e con lei il pseudo registratore, la penna, il block notes e
una copia del suo ultimo romanzo con aria d’infastidita sufficienza; partì dal completo in
pantalone nero dozzinale che ne segnava le forme procaci fino ad arrivare ai capelli
lunghi, e selvatici, di sicuro mai pettinati prima. Corpo di donna in un viso da bambina,
concluse. Probabilmente intelligente, ma pur sempre una pizzinnedda*. Poi, negli occhi di
lei, in quella bellezza pura e non ostentata; in quel fuoco latente, navigò suo malgrado e
s’avvide del navigare dolce di lei nei suoi.
Schiarì la voce. — Chi l’ha fatta entrare? Chi è lei? —, borbottò infastidito
— L’intervista!Sono Giona — e allungò la mano verso di lui con espressione speranzosa,
— … Giona Demura… la mia telefonata, ricordi? —
Era quindi lei, Giona Demura. La giovane “scrittrice” mezzosangue… Ogliastra e
Gennargentu. (— Mi occupo anche di critica letteraria, sai…— aveva mormorato lei ed il
tono aveva tradito, al telefono, un leggero imbarazzo, — … devo pur mangiare, con tre
bambini da crescere. —
— qual è il lavoro di tuo marito? —
— Sono separata. E premi e critiche positive non mi bastano per vivere. Voglio dedicare un
servizio ai maestri dell’arte e chi meglio di te, per il mio pezzo, rappresenta l’attuale
movimento della scultura? —).
— Giona… si. Avevo segnato un’altra data. Ma chi ti ha fatta entrare? —. Una pizzinna
madre di tre pizzinnos. E scrittrice di razza, dicono. E pittrice. E giornalista. E cos’altro
diavolo ancora?
Giona scoppiò a ridere indovinandone i pensieri, ritraette la mano. — So che non avrei
dovuto ma… la porta era socchiusa e… l’ho spinta! —. Era un fiume in piena. Fece
spallucce, Accennò un sorriso da monella.
— Ti assicuro che non è il mio comportamento abituale —
— Studiavo —, concluse l’uomo, brusco, distogliendo lo sguardo. Poi sorrise,
apparentemente sciolto
— Accomodati pure e… scusami —. A Giona s’accostò ciondolando l’anziano e grasso
setter dello scultore. Poggiò il muso bavoso sulle cosce di lei imbrattandone il pantalone di
saliva filante. Giona passò la lingua all’interno della guancia per non ridere. Grattò il collo
all’animale.
— Le piaci molto. —
— Mmmh. — annuì.
— Se sei d’accordo inizio subito l’intervista e tolgo il disturbo —
— No. Spegni il registratore per ora. Ho bisogno di un caffè. —
Arbatax, h. 17.30
Ciao Malilla. Ti chiamerò così; Malilla.
Le giornate si allungano, è stato un inverno molto freddo ed è strano; uno non pensa mai
che l’inverno possa essere freddo vicino al mare e forse è vero ma noi sardi siamo diversi,
no? Indigeni, rocciosamente bastardi, zingari meravigliosi che il mare, freddo o caldo che
sia l’hanno dentro, io l’ho sempre avuto e, adesso, lo passo a te.
Il farmacista del paese mi ha regalato un mazzo di finocchietti selvatici, “per le sue
tisane”, mi ha detto, e la moglie ha sorriso. Sono sposati da ventidue anni e sono felici
come il primo giorno mi hanno confidato, e si vede da come lei muove le mani la felicità; è
palpabile in quel carezzarsi i capelli, in quel brillìo d’ occhi che so, in una donna
innamorata, brillare in maniera speciale;unica. I tuoi fratelli stanno bene, crescono in fretta
e già hanno l’aspetto di piccoli guerrieri pronti a difenderci dall’universo e spesso la notte,
nel letto, viene a trovarmi Francesco, mi chiede di carezzare la pancia e sentire “i rumori
dentro”, come dice lui. Luigi è titubante come pure Antonio, sono curiosi ma avverto in
loro un rispetto, un’istintiva conoscenza della maternità più grandi della curiosità. Mi
aiutano molto, per quanto possono aiutare dei bambini. La notte viene a trovarmi anche
tuo padre. Spesso nella mente mi pare di vederlo come allora, vorrei vederlo e toccarlo;
non mi è possibile ma sappi che lo sento con me. Manca poco alla primavera, l’aria è
tiepida e le prime margherite fanno capolino tra l’erba, il mare lo vedo dolce come in
questo istante in cui le onde carezzano le rive, le rocce, le mie caviglie quando, appesantita
dalla giornata oso passeggiare nei dintorni coi pantaloni arrotolati sui polpacci, i bambini
che giocano lanciando sassi nell’acqua e ne ammirano i cerchi che si espandono fino a
morire sulla superficie increspata.
Non sarà facile la nostra vita perché si ha a che fare col resto del mondo; non siamo solo
noi, il mondo. E il mondo non è clemente. Non sempre per cattiveria; sono la morale e i
falsi pregiudizi a dare un nome ad un fiore senza conoscerne il profumo. Non ti prometto
nulla su ciò che potrò e riuscirò a darti. Non riuscirò ad impedirti di cadere, piangere per
chi ti farà del male. Ma ciò che vorrò darti, è sicuro, è la forza di rialzarti e camminare
anche e soprattutto quando la strada che troverai sarà impervia. Come Severina mi regalò
le conchiglie magiche, voglio regalarti la forza, la tenacia di una donna cresciuta senza
chiedere aiuto a nessuno se non alla propria volontà e al talento, quel piccolo dono che
tutti hanno ma molti, purtroppo, non riescono a riconoscere. E non importa se quel talento
riguarda scrivere o disegnare, cantare, far volare aquiloni o raccogliere carciofi. Sappi che
il peggior raccoglitore di carciofi del mondo sarà sempre migliore nel suo campo di una
ottima scrittrice che raccoglie carciofi. Saprò darti l’orgoglio di una madre che è partita dal
mare ed è arrivata, seppure con immane fatica, a scalare la sua montagna.
E ti dirò che non importa se della montagna tu, mio figlio, non vedrai mai la cima. Vola
comunque, se non da aquila vola da passero, senza paura di sognare e volare. Vola
comunque e se anche arriverai soltanto alle radici di quel monte perché l’avrai voluto tu,
avrai vinto. Ecco, forse ti regalerò se lo vorrai l’orgoglio di chi plasma creature di carta che,
qualcuno dice, rimarranno per sempre, pure quando la tua e la loro madre non ci sarà più.
Ho pensato tante volte a questo, a ciò che mi ha spinta a scrivere anche quando nulla si
profilava all’orizzonte, né gloria né soldi. L’ho fatto per me certo, per lasciare al pari di
ogni artista un’impronta, grano di sabbia sulla rena. Non è presunzione, non la chiamerai
ambizione ma piuttosto la voglia di dare ciò che hai dentro; un po’ come quei passeri che,
ogni mattina, ti sveglieranno becchettando sul davanzale della finestra. E cantano pure se
la sera prima non hai sparso briciole per loro.
Cantano perché amano cantare, cantano il e al Creato, alla gente, al ragazzino che magari,
più tardi, li prenderà di mira con la fionda. Cantano a tutto ciò che sta loro intorno e tutto
attorno, in quel momento, è deliziato da quel canto e seppure oltre ai passeri esistono
pettirossi, merli, tordi o aquile o gli splendidi canarini, ebbene, guai se un giorno, alla
Natura, mancasse il canto dei passeri. Quando sarà il momento ti farò nascere in questo
luogo, vicino al mare, come è successo a tua madre e la madre di tua madre e questo
battesimo, lo so, ti sarà d’augurio nel tuo essere donna.
A presto,
Giona
.................................
Frades*
Su Logu*
Malaitta…*
Pizzinnedda*
Frisca rosa*
fratelli
Il luogo
che sia maledetta tu…e pure io!
bambina
rosa fresca
MALILLA, 12 dicembre, h. 14.00
— Vattene al diavolo! —.
L’uomo non batté ciglio. La parte razionale del suo cervello gli impose di non battere
ciglio. Abbandonò l’obiettivo della macchina fotografica sul treppiede professionale, levò
dal taschino dell’eccentrico gilet damascato nero e oro un pacchetto di sigarette, ne
estraette una con gesto stizzito ma sicuro, la portò alla bocca e fece cenno d’intesa al
giovane assistente con la coda di cavallo biondo cenere che immediatamente prese a
frugare all’interno d’una borsa di pelle buttata ai piedi di ombrelloni colorati aperti, chiusi
e semichiusi, materassini da mare e palloni gonfiabili. Levò un accendino e diede fuoco
alla sigaretta dell’altro, ritornò a giocare distrattamente con la pietra del suo minuscolo
orecchino. Un’ occhialuta e inespressiva aspirante stilista sbuffò, continuò a scribacchiare
sulla sovraccoperta in pelle di un Book sollevando lo sguardo come per imprimere meglio,
nella mente, ogni immagine. Le luci dello studio, da un azzurro/verde acqua soffuso che
erano, passarono ad un forte e prepotente bianco, la dolce musica celtica che fino a
quell’istante aveva fatto da sottofondo alla scena; cessò all’occhiata caustica del fotografo
agli addetti. Van Darhnel aspirò una boccata, parve gustare il fumo tra una guancia e
l’altra, sollevò il mento verso l’alto ed espirò una nuvola grigia.
— Senti cara, e sentimi bene. Io lavoro così e chi vuole lavorare con Van si adegua.
Altrimenti la porta è quella —.
Malilla sgranchì le gambe, lasciò bicchiere, finta fettina di limone e cannuccia sul
materassino, tolse gli occhiali e li gettò con rabbia addosso al fotografo.
— Vogue o non Vogue lo sfondo che hai scelto è uno schifo e di un colore che non valorizza I miei,
di colori! —. Col palmo della mano librò un colpo all’alta immagine tridimensionale alle sue spalle.
Il telo vibrò increspandosi, l’aspirante stilista reprimette un gridolino scandalizzato.
— tu sei solo un manichino, ragazza. E se per tuoi colori intendi quelli che t’ha dato la
natura, ti consiglio di dormire qualche ora in più, la notte, per valorizzarli al meglio —
— MA COME TI PERMETTI? —
Van Darhnel strinse gli occhi e sorrise, gettò la sigaretta senza spegnerla alla sua destra,
l’assistente s’affrettò a schiacciarla con foga col tacco.
— Pare che tu abbia venticinque anni, Maly. Come top sei arrivata e finita quindi, fossi in
te, aprofitterei di ciò che passa il convento visto che, per ora, è un convento molto ricco nei
tuoi confronti. Poi potrai sempre accasarti con qualche emiro arabo o un giocatore di
football incantato dalle bambole, vuote come lui —
— Figlio di puttana — sibilò Malilla. Si alzò, raccolse l’accappatoio blu oceano e l’indossò
sul seno nudo, la panciuta truccatrice dello studio scattò al suo fianco con specchietto per
la cipria, asciugamano, rossetto ed un campionario di pennelli. La giovane donna la
squadrò sprezzante e la respinse.
Malilla s’accostò scalza all’uomo e, con gesti misurati da gatta, gli si parò davanti colle
mani sui fianchi. Mosse solo il piede ed il sostegno della macchina fotografica cedette,
rovesciò da un lato ed un “crack” sinistro accertò ai presenti che il servizio di moda, per
quel giorno, sarebbe necessariamente saltato.
Van Darhnel avvertì la parte razionale del suo cervello andare in fibrillazione e segnalare
un DANGER a caratteri cubitali rossi. Strinse la mascella fissando la giovane, sorrise a
denti stretti in silenzio ed una vampata di rossore violento gli partì dai lati della bocca fino
ad estendersi alle orecchie e l’attaccatura talmente bionda da parere bianca, dei capelli.
Sorrise anche Malilla, e sputò sulla macchina fotografica.
— Tu…TU…— ruggì il fotografo puntandole il dito indice contro, — SEI FATTA, MALY.
TU HAI FINITO DI LAVORARE. FI-NI-TO! —
La giovane si concesse un ultimo sorrisetto malizioso, chiuse l’accappatoio, strizzò l’occhio
all’assistente ed uscì, a testa alta, dallo studio.
LUIGI, 12 dicembre, h. 13. 26
Isole di colore nel bianco totale del volto insignificante, quasi prosaico.
E’ strano, gli aveva confidato in quel momento Tonio, strano davvero come la morte possa
rendere tutti, belli o brutti, insignificantemente pacifici. Mentre noi che si è fuori del resto
— esiste poi un RESTO? — a piangere e disperarci per ciò ch’è stato e pure per ciò che non
lo è; lui o lei, su quel lettino asettico e sotto luci fredde e bianche come la sua faccia; pare
che rida. Sembra ridere. Ci si chiede che ci sarà da ridere, del resto. Forse perché quello che
viene poi è, si crede, meglio di ciò che, comunque, è il prima. E se tutto quello che viviamo
è una specie di sogno?Un sogno sognato da chi noi sogniamo la notte. Se cioè il sogno che
facciamo la notte è in realtà la nostra vita vera. E il morire sia la fine di quel sogno. Anna
piangeva disperatamente, aggrappata alla sua giacca di velluto a coste grigio, guardava
Luca disteso sul lettino dell’obitorio e strillava piangendo. Sollevava gli occhi verso il
marito che, impassibile, sentiva fame e sete e odorava arricciando il naso il puzzo stantìo
della camera, continuando a fissare la salma con la bocca spalancata. No, Anna. Non è
possibile, non succede a noi. Ma che dici?E’ Luca!E’ LUCA!!E Luca sorrideva col volto
bianco e le sue impudiche isole di colore, il viola delle braccia gonfie e bucate.
All’indomani del funerale di Luca, Tonio ed Anna avevano pulito la camera del ragazzo, il
che sarebbe pure una cosa normale. Ma la camera era GIA’ pulita. Luigi la ricordava come
la camera più pulita che avesse visto. Libri posti in ordine d’altezza, dal più grande al più
piccolo senza che ne osasse sgarrare uno, vecchie bandiere ammainate in un alto cesto di
vimini con posters ripiegati, macchine e macchinine Bburago in una mensola d’
improbabile viola fluo, stereo e cuffie, vecchi trentatré e quarantacinque giri, musicassette,
un intera collezione di Diabolik ed un’altra, fino al numero 99, di Dylan Dog. Anna,
rifacendo il letto del ragazzo pur senza che nessuno l’avesse disfatto; aveva trovato sotto,
tra il materasso e la rete, una rivista “sconcia. Sporca davvero, Tonio… con quelle donne lì.
”. L’aveva rimessa ordinatamente al suo posto, tra materasso e rete. E il
copriletto?Meravigliosamente coordinato con tende e cuscini;tutti di stelle bianche su
fondo viola come la mensola delle macchinine, come spiegava la dicitura di plastica dorata
fissata alla sommità della mensola e se a me veniva voglia di mettere le macchinine da
un’altra parte?Cosa sarebbe successo se… . Era sempre stato un ragazzino problematico, a
pensarci bene, suo nipote Luca. Prima un bambino troppo solitario e obeso, poi un
ragazzino problematico, infine un uomo(uomo?qualcuno gli aveva mai insegnato che
significa davvero essere un UOMO? Forse suo padre Tonio che andava cincischiando dalla
sera alla mattina che avrebbe preferito non nascere, oppure sua madre, sempre attenta
all’apparizione dell’ultima ruga di turno come si sta attenti all’annuncio stagionale dei
saldi ben sapendo che saldi veri non sono, — per comprare quel maglioncino “in vetrina lì
al corso, bello nero con le rifiniture in oro”—; e rimediare con la crema per il viso ai triplo
acidi della frutta dai risultati immediatamente visibili, da lifting casalingo e durevole nel
tempo), come suo padre, mai uomo davvero. Luigi ricordava come fosse ieri una volta che
aveva incrociato, non visto, suo nipote — aveva dieci anni, se non erro. Si. Dieci. Con tutta
la sua pancia, i primi brufoli, il gel e un accenno fiero di peli ai posti di comando —
proprio all’uscita della scuola. L’aveva seguito, non visto, in un zigzag tra genitori, docenti
e alunni mentre quello con l’edizione tascabile dell’ Isola Del Tesoro (che aveva convinto il
padre a comprargli al centro commerciale, visto che neppure in biblioteca era riuscito a
trovarla) sottobraccio, imboccava lesto il cancello dell’istituto e in un saltellare sul
marciapiedi di capelli, grasso e zaino in jeans; allungava la mano a toccarsi la scarpa da
tennis per giocherellare un po’ con le stringhe e il libro scivolava e cadeva. Luca lo
raccattava, faceva due passi e si fermava, era quasi l’ora di pranzo; a sbirciare davanti alla
vetrina di “TUTTO QUANTO PER MILLELIRE”, proseguiva affacciandosi all’ingresso
della sala giochi e finalmente entrava nella pasticceria Mereu & Figli per l’antipasto
quotidiano a base di liquirizia, lecca lecca e Big Babol alla pesca ch’era costretto a
comprare di nascosto con la paghetta settimanale (“cinquemila lire, zio!Cosa devo dire ai
miei compagni di scuola che ci hanno già il cellulare?Perché non parli con babbo a vedere
se ti ascolta… e dài!”) perché la madre, nel negozio di famiglia, gli vietava ogni tipo di
dolci “almeno fino a che non scende la pancetta, figlio mio”. Da una parte, Luigi aveva
sperato che il nipote all’uscita della pasticceria sollevasse lo sguardo e, incrociando il suo
sornione; magari gli offrisse una ruota di liquirizia nera facendo spallucce, dall’altra non
voleva che lo vedesse per non trovarselo letteralmente con le mani nel sacco. Quindi il
buon zio Luigi ch’era stato bambino pure lui, non obeso ma bambino seppure non ne
rammentasse più il periodo tanto da fargli comprendere, in tandem con la calvizie
incipiente, quanto il tempo scorra veloce;aveva fatto per tornare sui suoi passi dicendo
mentalmente addio alla ruota di liquirizia.
(— Zio Gigi sei tu?!Che ci fai qui? —.
Luca si era issato fuori della pasticceria, tra una jeep parcheggiata in seconda fila con, in
stridente anacronismo, Eddie Cochran e il suo “Summertime blues” che fuoriuscivano dal
finestrino dello sportello anteriore sinistro ed il segnale di divieto di parcheggio. Sulla
parete scrostata del vecchio palazzo a tre piani, vicino al monumento ai caduti in mare, la
scritta in gesso semicancellata dalla pioggia “bElle o bRutTe vi VoGlio TuttE”. Una
vigilessa solerte passava da un’auto all’altra regalando foglietti sui tergicristalli. Giunse
alla jeep col paraurti anteriore ammaccato, scivolò in avanti titubando al ritmo, passò una
mano sulla guancia, scribacchiò e regalò.
Luigi scoccò al nipote un’occhiata colpevole. — Oh, ciao Luca. Documenti da sbrigare.
Come va? — . Si rendeva perfettamente conto d’ essersi disteso in un sorriso da IdiotaSpione-Per-Caso, ma non gliene importava granché. Il ragazzino fissò le sue Nike slacciate.
— Ufff. Va. Vuoi una liquirizia? —
— Ok, ma non diciamolo a tua madre —
— Sarebbe una bella vigliaccata se TU lo facessi. Sei a piedi? —
— macinino dal meccanico —
— Vuoi uno strappo?Ci ho Peppineddu legato al cancello della scuola —
— Scherzi?Una venti che ci porta in due? — (… in tre, a dirla tutta caro Luca mio.
Accettare di farlo sarebbe una cosa troppo incongrua. Ma esiste qualcosa di assolutamente
non incongruo in questa vita?)
— E’ una venti da cross, zio, non una qualunque. Eppoi è Peppineddu —
Luigi aveva trattenuto a stento il riso.
Si strinse comunque nelle spalle.
— Ho capito bene? — insisté in tono perentorio
— Certo. Provare per credere —
— Sai impennare? —
— Così così —
— Allora guido io —
— Scherzi? —
— Ti sembro un professore che scherza? —. soprattutto, caro nipote, sono un professore
che sa trattare coi ragazzini e tu si vede lontano un chilometro che non sputi serenità da
ogni poro. Dalle liquirizie e dall’isola del tesoro, magari. Ma da ogni poro, proprio no.
— Va tutto bene a casa, Luca?Coi tuoi, voglio dire —
— Mmmmh. Si
Cioè…—
— Dimmi —
— Si. Tutto bene. Forse babbo…—
— Continua —
— Mah. A volte penso che vogliano troppo da me… cioè… quello che io non posso dargli.
O non riesco —
— Io credo che a volte i genitori vorrebbero vedere nei figli ciò che non sono riusciti ad
essere, non so se mi spiego. Non è colpa loro, è un desiderio egoista e inconscio che
bisognerebbe mettere a tacere. Ma siamo uomini, Luca, non dei. Lo capisci questo?Tuo
padre è una brava persona, è fatto a modo suo e questo non lo metto in
dubbio;bisognerebbe sorbirselo in dosi omeopatiche. Credo comunque che la vita, a volte,
ci riservi una seconda possibilità. Tuo padre, forse, la sua seconda possibilità la vede in
te;giusto o sbagliato che sia —
— Penso di si —
— Quando sarai padre lo capirai meglio. —
— Okay—
— Okay. —)
Luigi imboccò un viadotto per immettersi in superstrada. Chissà perché il pensiero di Luca
l’aveva accompagnato in quel pezzo di viaggio. Arrivò ad un incrocio sgombro di vetture,
alti olmi, nessun semaforo. Destra o sinistra, Luigi?Avanti, scegli. Destra e ritorni a casa
tua, sinistra e sarai catapultato nel mondo ch’è stato, volenti o nolenti, il mondo di tua
madre, quello che ha contribuito a farla diventare ciò che è ora e ciò che sei TU. Luca non è
riuscito a scegliere la strada giusta per lui. Ora tocca a te e chi nega il passato mente sul
proprio futuro. Destra o sinistra?Ragione o cuore?Lei ti ha sempre insegnato che
Che.
Seconda possibilità.
Virò a Sinistra.
Finalmente.
“Le pietre di un muro non fanno una prigione,
né le sbarre di ferro una gabbia;
Le menti innocenti e tranquille la prendono per un eremo,
se ho libertà nel mio amore e nella mia anima sono libero,
Solo gli angeli che volano in alto godono di tale libertà”
(R. Lovelace, TO ALTHEA: FROM PRISON)
Accostò la sedia al letto in penombra, raccolse l’antica mano tremante, la strinse ma non
troppo per paura di fargli male e giacché le pareva che, se l’avrebbe stretta quanto
davvero sentiva di fare con la forza di quell’amore a stento trattenuto;avrebbe potuto in
una qualche maniera interrompere il giusto processo della Provvidenza nei confronti
dell’uomo ch’era in quell’attimo soltanto suo e del cielo. Portò la mano alla guancia,
carezzandosi affranta.
— Giona mia, Giona! — disse l’uomo in un bisbiglio roco
— Si, si. —
— Non è… cambiato niente —
— Lo so, Giacomo. Non parlare —
— Io…— L’uomo ebbe un sussulto, gli occhi si chiusero un attimo. Li riaprì senza fare
altro movimento che un semplice battito di ciglia, fissò lo sguardo al soffitto.
— Sapevo di… nostra figlia, io sapevo ch’era mia, ne ero sicuro. E non ho fatto nulla per
avervi qui con me… non ho avuto il coraggio io…. la mia arte! LA MIA ARTE! Ma ti ho
amata, lo sa la Natura quanto amore e dolore, per te!Devi perdonarmi, Giona… io…— Un
attacco violento di tosse lo prese scotendo le membra, la donna sospirò, accostò l’orecchio
alle labbra e la mano sua passò a sfiorargli la nuca, calma e dolce.
— Devi perdonarmi…. DEVI!
Io… non posso morire senza il tuo perdono!
Guardami Giona — disse in un sibilo ansante, a denti stretti — PER… DONAMI! —
Lei, curva sul letto senza tempo, finalmente sorrise e con lei, finalmente, sorrisero gli occhi
e la figura tutta.
— Anima mia, vita… forse… forse con te ho perdonata me stessa —
Il vecchio scultore non rispose, gli occhi vitrei fissi al soffitto e le membra ferme. NO!Non
ora Signore… non adesso! Giona piegò il capo sulla spalla. Si morse il labbro inferiore per
non urlare, lasciò le lacrime scorrere calde e immense scuotendo la testa energicamente chè
no, non era possibile, non in quel momento e in quel modo, no.
— Vita… vita vita vita… la mia, per te! — ruggì in tono sommesso la donna, e sollevò
l’iridi al cielo inclemente, ora rabbiosa.
Serrò la mascella, strinse i pugni ficcando le unghie nella carne e si volse in silenzio sul
corpo senz’alito, levò le coperte e, lenta, lo svestì. Coprì Giacomo col tepore del proprio
corpo e così rimase, mano intrecciata alla mano, angelo su angelo in un unico saluto e volo
e abbraccio; muta la rondine tornata al nido.
MALILLA
Il primo accenno d’ansia prese corpo in lei quando si accorse che procedeva a bordo del
suo maggiolino e dopo aver mandato a farsi fottere il più famoso fotografo di moda del
momento; verso Sassari, fino in fondo. E un secondo accenno lo ebbe nel constatare che,
con solo l’accappatoio addosso e i pantaloni di una canadese che aveva visto tempi
migliori, scalza a dicembre, pigiava un po’ troppo il piede nell'acceleratore per arrivare in
tempo, come l’aveva pregata sua madre al telefono. Ed ecco che, l’ en plein della
situazione già di per sé da neuro; riprendeva a piovere. Arrivare in tempo. Arrivare in
tempo PER COSA?
E PER CHI?, pensò Francesco guardando il Porto Canale allontanarsi fuori del finestrino. Il
volto del taxista, in atteggiamento di mistica astrazione, dallo specchietto gli intercettò un
“stai in guardia” che non gli piacque per niente.
— C’è una donna di mezzo, vero dottore? —
— Come, prego? —
— Una donna di mezzo. Una donna la fa dannare, dottò. Femme fatale, Malafemmena,
porca eva eccetera eccetera —
Francesco deglutì: — Più o meno —. arriva fino in fondo, gli imperò una voce nel cervello
e l’avvocato non comprese. Deglutì ancora, sistemò il nodo alla cravatta, si concentrò sulle
parole dell’autista.
— Ne ero sicuro. Eeeh, queste donne. Tutte uguali. La verità è che si va a tentoni, con una
donna. Sempre. Non so se mi spiego.
Sa cosa diceva mio padre?
Le donne sono o sante o puttane e da lì non si scappa. Su tua madre e tua sorella puoi
metterci la mano sul fuoco, con le figlie già cominciamo a scarrellare. La mia no, per carità.
Una brava ragazza, studentessa modello alla Bocconi e fidanzata con il proprietario di una
concessionaria di Land Rover. Roba fine. La mia Giulia voleva farsi l’esperienza in
continente e l’ho lasciata andare. Ma le mogli…
Controllate, vanno. Io a mia moglie ci ho regalato il telefono portatile e so sempre dov’è.
Sempre PerIddio. Anche adesso se la chiamo so dov’è e lei lo sa, che mi preoccupo
insomma. Che penso
male. E allora lo lascia acceso. Grande invenzione, i telefonini. Ma cari! Bhà. Quando mi
preoccupo molto, di mia moglie insomma, a volte gliele do giù. Sono come i muli, le
donne, lo diceva mio padre. E quando serve i muli vanno domati. La domi dottò, che non
aspetta altro —. Il tassista si sfogò in un riso sguaiato. D’un colpo smise di ridere e
contemplò l’immagine di Francesco lanciando una specie di sospiro sibilante:
— Dottò, quasi quasi la chiamo… che dice? —.
Diede di freccia, arrestò l’auto sul ciglio della strada ed un camion cisterna bianco a strisce
trasversali blu LATTESOLOTUO gli sonò appresso rimbombandogli orecchie e cervello.
— ‘Fanculo! — grugnì Antonio ansante, la faccia bianca come un lenzuolo. Spense il
motore, slacciò la cintura di sicurezza.
Uscì dall’abitacolo lasciandone aperto lo sportello, con una mano grattò la pelata sulla
testa. Fissò il frecciare delle auto e gl’isterici dare di clacson, rabbrividì per il freddo
pungente e la pioggia che, maledetta pure lei, ricominciava a scendere. Levò dal cruscotto
una bottiglia in plastica da un quarto di litro, bevve un sorso di Evian. Sospirò. Frugò nella
tasca interna dei calzoni per levare la boccetta di vitamine, svitò il tappo e attaccò la bocca
all’apertura ingollandone un numero imprecisato.
Tossì riparandosi la bocca col dorso della mano libera.
Scosse la testa.
Torno indietro torno indietro torno indietro. Che senso ha tutto questo? Sentì le parole che
gli salivano nella gola ma faticò comunque a pronunciarle.
— ci deve essere per forza un senso a tutto? — disse in un soffio.
L’istinto. Hai mai seguito l’istinto in vita tua, Antonio? Oppure non ne hai calcolato passo
dopo passo: studi, lavoro, matrimonio, figli. Senza sgarrare una tappa. Senza sgarrare
l’ordine delle cose e facendo il possibile affinché anche gli altri, attorno a te, non
sgarrassero. Compreso Luca. Hai vissuto una vita intera nella vita del lattaio, della
panettiera Serafina, nell’amico di scuola diventato consigliere comunale, nei compagni di
bevute, al bar. Hai vissuto cibandoti e crescendo delle LORO vite. E la tua, dov’è finita la
tua vita? Passata fuori della finestra.
Passata come una corriera davanti alla fermata cinque minuti prima o cinque minuti dopo
del tuo arrivo.
Ora ti tocca; un-due-tre tocca a te.
Ti servirà ritrovarti per capire quello che vuoi e non basterà mettere insieme le capre, per
questo.
Sarà dura? Si.
Sarà difficile? Molto, per un coniglio ipervitaminizzato come te.
Ma il premio è grande.
Sei tu; Bianconiglio.
Monta in macchina e prosegui la tua strada. Arriva fino in fondo.
* * *
“Carissima Giona, frisca rosa mea,
oggi in paese è una giornata tiepida e il vento batte gli olmi, ha piovuto per tre giorni
di fila ed il gracidare delle rane, il ronzio delle api è ancora vigoroso, le colline hanno
bevuto tutto ciò che potevano; non ho mai conosciuto un’estate tanto bizzarra. Tristo
vedo l’avvenire di sardi e Sardegna madre… un avvenire come il tempo,
imprevedibile, agguantato dalle febbri di chi non parte e non vuol lasciar partire gli
altri per invidie, faide sotterranee. Io sento le ore scorrermi sopra troppo veloci,
passano col tempo gli anni e l’egocentrica paura è che al moi morire s’introietterà
anche quest’arte per la quale ho rinunciato al profumo dei miei fiori. Ti scrivo e la
mano trema, so che non leggerai queste righe ma mi conosci. Dicevi, per me, e lo
dicevi con la consapevolezza, la ribellione e la dolcezza che ti contraddistingue e che
soltanto ora comprendo fino in fondo: ‘non amai che la rosa che non colsi’. Pensavo
d’averti colta, fatta mia, tu, Regina; fiero, orgoglioso d’averti e mia soltanto sotto gli
sguardi curiosi di mondo e dei. Ma, in quel momento, non c’ero già più; tu non c’eri
già più…”
“… vicino a me, Giacomo. Mi capita di immaginarti ancora, e ancora amarti
negl’infiniti silenzi coi quali sfido le mie notti. Ma per quanto durerà il patire? Prego
Iddio e nel contempo me ne vergogno, chè cancelli questo dolore troppo umano e
faccia arrivare in fretta la fine dei miei giorni. Non c’è salvezza del corpo senza quella
dell’anima, sono convinta che, per guarire, l’anima ha bisogno di vincere il conflitto
col corpo e la materia che questo rappresenta, metafora del mondo e dell’esistenza
terrena. Nella morte tutti i nostri sogni muoiono con noi. Ma non ciò che è stato
costruito in nome di quei sogni. Mi sono domandata perché…”
“…eri predisposta al labirinto ma hai voluto scegliere la prigione di quelle tue sbarre
invisibili di fede. Cos’è, poi, la fede? Cos’è Giona? Sai ciò che penso in merito a serpi,
pecore a due gambe al limite dell’idiotismo/parossismo e quell’odio antico nei
confronti d’un inesistente Dio; non plus ultra di ‘nostro unico e solo’, occhio-ego
potente dalle viscere dogmatiche; se possibile, si è accentuato col tempo che,
maledetto da teutonica innocenza, non può cancellare il passato e il ricordo di un
peccatum originale che IO non voglio cancellare. Tu e la purezza, tu e il tuo mondo
erudito d’ipocriti compassionevoli… Aristotele vedeva nella compassione una
condizione morbosa e pericolosa della quale uno farebbe bene a liberarsi di quando in
quando con un purgativo. Sono d’accordo. Abbiamo già discusso dei valori nichilisti
e di décadence fortemente visti da Nietzsche; nel fatum di un’umanità iperborea e di
un cristianesimo schierato dalla parte del miserabile, del perdente, del malriuscito e
quindi fuorviante; da un largeur di cuore che tutto perdona e comprende — per un
‘vivi e lascia vivere’—, della parte egoista e più vincente dell’uomo. ”
“Ti ricordo l’anima. Se mi chiedessi cos’è, ti direi luce e vita. E di nuovo Morte,
Giacomo. Non è un paradosso. Morte dell’ipocondria morale. Rammenti la Fenice?
Nasce, rinasce dalle proprie ceneri: E’ questa la forza più grande della luce che ci
avvolge quando non ne sospettiamo l’esistenza; un trarre forza da dove forza non c’è.
Credere in ciò che non si vede e che quindi, razionalmente, non esiste. Ma sai, SAI
dentro te che quella luce c’è comunque e comprendi di averla trovata solo quando,
alla fine del tuo viaggio e della tua strada chiudi le vele; ti sta bene il porto che hai
raggiunto seppure non è che il primo approdo nel mondo che sai sia in tuo potere
raggiungere. La tua forza, lì, è dire senza remora alcuna: mi basta questo porto, ho
vinto tutto ciò che potevo vincere. Non ciò che VOLEVO vincere. E sai che non devi
ringraziare soltanto te stesso per questa vittoria. Pensavo sbagliando di essere fuggita
al mondo e i miei figli, chi mi ama, forse ancora lo pensa.
L’amore. Tempo fa ebbi di che discutere sugli scritti del Gibran; le sue tesi in merito
e…”
“Ancora Nietzsche:
Che cosa è buono? Tutto ciò che nell’uomo accresce il senso di potenza, la volontà di
potenza, la potenza stessa.
Che cosa è cattivo? Tutto ciò che discende dalla debolezza.
Che cosa è felicità? La sensazione del fatto che la potenza cresce, che una resistenza
viene vinta.
Non appagamento, ma più potenza; non pace in assoluto, ma guerra; non virtù, ma
valentia (virtù nello stile rinascimentale, virtù scevra da ipocrisia morale). ”
“L’esistenza di un Dio, di Dio, implica che nessun uomo può essere Dio, che nessun
individuo può essere onnisciente o onnipotente. La concezione di ‘buono’ o ‘cattivo’,
lo ripeto, è assolutamente soggettiva; l’umana esigenza di pensiero critico porta al
travaglio scientifico seppure inquinato da un’orgia crescente di emozione, cultura e
morale sociale.
Gibran:
‘… come ascende alla vostra cima e accarezza i rami più teneri che fremono al sole,
così discenderà alle vostre radici che scuoterà dove
si aggrappano con più forza alla terra.
Come fastelli di grano vi raccoglierà.
Vi batterà per denudarvi.
Vi passerà al crivello per liberarvi dalla pula.
Vi macinerà fino a farvi farina.
Vi impasterà fino a rendervi plasmabili.
E poi vi assegnerà al suo fuoco sacro.
Ma se avete paura, e cercherete soltanto la pace dell’amore
E il piacere dell’amore,
allora è meglio che copriate le vostre nudità, e passiate lontano dall’aia dell’amore,
nel mondo senza stagioni dove potrete ridere, ma non tutto il vostro riso, ma non
tutto il vostro pianto. L’amore non dà nulla all’infuori di sé, né prende nulla se non
da se stesso. Amore non possiede né può esser posseduto, perché l’amore basta all’
amore’.
L’amore non dà nulla all’infuori di sé, né prende nulla se non da sé stesso…L’amore,
ne sono convinta, per le umane creature, pure nella melanconia in sé già soddisfa le
esigenze dell’essenza/uomo; formidabile forza di guarigione, purificazione e rinascita
esso è la chiave di ogni saggezza, vibrazione, energia o conoscenza, sebbene ‘Amare
per amore di essere amati è umano, amare per amore di amare è angelico’*. Come
queste elevazioni alla massima potenza siano concepite teoricamente, in termini di
realismo umanistico o filosofia materialistico-meccanicistica, è essenziale
nell’interpretazione nodale del comportamento umano in base al sentimento. Solo
ora accetto d’aver voluto, creduto tutto dall’inizio del mio cammino a piedi scalzi e
tutto è avvenuto come doveva avvenire. Nonostante il dolore, l’amore perduto,
nonostante ciò che qualcuno può aver interpretato come un’eccentricità di
comportamento, laddove diviene morale la semplice incapacità di opporre resistenza
a ciò che voglio definire una disobbedienza alle regole sociali e perciò autoimposte.
La disobbedienza di Adamo ed Eva a Dio non viene, nel Vecchio Testamento,
chiamata peccato; non si accenna mai al fatto che questa disobbedienza abbia corrotto
l’uomo. Al contrario, la disobbedienza è condizione per l’autocoscienza dell’uomo,
per la sua capacità di scelta, e quindi, in ultima analisi, questo primo atto di
disobbedienza è il primo passo dell’uomo verso la libertà. Secondo il pensiero
profetico, appunto perché fu cacciato dal paradiso, l’animale donna uomo è in grado
di fare la propria storia, di sviluppare le proprie facoltà umane, e di raggiungere una
nuova armonia con l’uomo e la natura, come individuo pienamente evoluto, in luogo
dell’armonia precedente nella quale egli non era ancora un individuo. L’ampliarsi
della coscienza autonoma, superando la consapevolezza e realizzando l’inconscio
sociale, creerà l’uomo capace di sperimentare in sé stesso tutto il genere umano, di
essere un uomo del passato e del futuro che raccoglie dentro sé quel che l’umanità è
stata e sarà, nel bene e nel male, nel piacere come nel dolore.
Ed è dai deserti di dolore, Giacomo mio, che spesso nascono i gigli più puri e
semplici e belli… quelli che durano più a lungo poiché sopravvivono all’umana vita.
Al sogno costruito, già sognato.
Ciò che trascende nel ricordo degli altri, di noi, è e resterà vivo per sempre.
Tua, Vostra Giovanna”
“Amare…*: A. De Lamartine
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Giovanna Mulas
Lughe de Chelu80
(e Jenna de Bentu)
Pubblicato da Bastogi Editrice Italiana, 2003
EcletticaE-book 2004
[email protected]
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