Srecko Jurisic
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Srecko Jurisic
Srecko Jurisic La fenomenologia dell’inetto da Svevo a D’Annunzio La risposta è dentro di te… epperò è sbagliata Corrado Guzzanti 1.Premessa L’accostamento tra D’Annunzio e Svevo, tra l'inetto e il superuomo, appare, ad uno sguardo epidermico, come una vena critica infruttuosa limitata a qualche analogia 1, un’impossibile coniuctio oppositorum e per molti versi è così. A più riprese, nell'epistolario, Svevo, quando parla del “dannunziano” Benco ai vari corrispondenti sembra apprezzarlo proprio in quanto dannunziano mancato. A Cremieux 16 maggio 1928 scrive: Per Benco Le serbo un sincero rancore. Il Benco è un artista mangiato quasi tutto dal giornalismo e un po' anche dal D'Annunzio. Lei dirà che se è stato mangiato non si vede più. Ma il Suo libro è pieno di altre persone mangiate. Il Benco (e solo per un momento, per avvicinarmi a Lei, dimentico i suoi due primi romanzi che sono intimamente meno d'Annunzani di quello che sembrino) è se non altro un grande divulgatore di cultura. (Svevo 1965, 97) Simili cose scriverà anche all'amico Eugenio Montale (18 settembre 1926): Io non credo che l'Atmosfera sia la miglior cosa del Benco per quanto anch'essa buona come tutto quanto esce dalla penna del Benco. Si procuri altri due suoi romanzi. C'è un'imitazione Dannunziana, ma solo alla superficie. Il castello dei Desiderii ha delle pagine che non so dimenticare (Svevo 1965, 183) e poi ancora, sempre a Montale: “Il Castello del Benco restò per me sempre un caro ricordo. Non lo vedo da anni. Ricordo che ammiravo un'imitazione (voluta?) del D'Annunzio non riuscita perché ne sbucava l'amabile fisionomia del nostro esteta” (Svevo 1965,196). Con D'Annunzio, insomma, bisogna fare i conti in un modo o in un altro, a costo di servirsene come un termine di paragone negativo. Tanta e tale e la possanza della sua opera che non lo si può evitare e talmente sgargiante è la sua personalità che non la si può ignorare; non si può avere un rapporto di piana intertestualità con lui. Il rapporto con D'Annunzio è sempre peripatetico e un qualche legame, per quanto tortuoso, c'è quasi sempre. Lo dimostrano i casi di Pirandello, Gadda, Pasolini e altri. Fu, del resto, proprio Montale a dire che “D’Annunzio è presente in tutti perché ha sperimentato o sfiorato tutte le possibilità linguistiche o prosodiche del nostro tempo. In questo senso non aver preso nulla da lui sarebbe un pessimo segno.” (Montale 1976, 68). Slataper ci ricorda che “Trieste è un posto di transizione – geografica, storica, di cultura, di commercio – cioè di lotta. Ogni cosa è duplice o triplice a Trieste, cominciando dalla flora e 1 Quella più lampante riguarda il racconto sveviano L'assassinio di via Belpoggio (apparso sull'Indipendente nell'ottobre del 1892) e Giovanni Episcopo di D'Annunzio dello stesso anno. Al di là delle coincidenze cronologiche, la prosa di entrambi rivela ispirazioni dostoievskiane (Delitto e castigo, ma anche altre) nella resa della crudezza del crimine e del suo aspetto psicologico (A D'Annunzio interessa la preparazione al crimine che viene raccontato monologicamente attraverso la deposizione del protagonista davanti a un giudice mentre Svevo narra il tormentato stato d'animo dell'assassino dopo il crimine). Comune l’impegno nella descrizione di diverse classi sociali, con l’attenzione ai particolari caratterizzanti un personaggio, l’attenzione con cui viene reso un ambiente, (la Roma dannunziana e Trieste in Svevo), nella varietà delle stagioni. Qualcuno ha anche tentato il confronto tra l'introspezione dei romanzi dannunziani e quelli di Svevo, ma, a nostro parere, non è un raffronto che ha ragione di essere. Se fosse vero lo scavo psicologico dannunziano, e non si trattasse di ginnastica grammaticale con pur validi squarci, ai vari Stelio, Andrea, Giorgio, Claudio et al. deflagrerebbe il cervello dopo poche pagine. 1 finendo con l’etnicità” (Slataper 1954, 134). L’affermazione dell’autore de Il mio Carso è probabilmente applicabile anche alla figura dell’inetto sveviano. A maggior ragione che l’ “inettologia” è una scienza complessa e soprattutto non è una scienza esatta e ipotizzarla come territorio di lotta tra forze in opposizione tra di loro non è affatto impossibile. 2. Il marketing secondo D’Annunzio La genealogia dell’inetto coincide dal punto di vista scientifico con la storia della depressione, malattia di grande rilievo sociale (Lippi, Cabras, Levito 2005), in tutte le sue declinazioni e con una manciata di rivolgimenti socio-culturali a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Uno di questi ultimi fu anch’esso una specie di “malattia” (Croce, com’è noto, ebbe a definire i primi tre decadenti italiani - Fogazzaro, D'Annunzio, Pascoli - come dei “malati di nervi”) ed è il dannunzianesimo che, a nostro parere, non deve essere trascurato nell’esegesi della figura dell’inetto. Entrambi i fenomeni hanno, come termine ad quem la borghesia. Il dannunzianesimo è un fenomeno tanto vasto quanto complesso. Non ci interessa, in questa sede, la sua facies più prettamente letteraria, quella che, per intenderci, si palesò nell’opera di Guido Da Verona che si destreggio piuttosto abilmente tra il kitsch e le poetiche dannunziane posticce rendendosi così un Vate per i ceti a cui l’originale pescarese sarebbe risultato intellettualmente indigesto. Preme qui piuttosto toccare rapidamente l’aspetto che concerne l’impatto sociale del dannunzianesimo perché oggi è difficile immaginare ciò che D’Annunzio, per molto tempo l’unico prodotto editoriale italico da esportazione, ha rappresentato nella società dell’età umbertina, di quella giolittiana, di quella fascista e le tentazioni in cui egli indusse consapevolmente (la Grande guerra fu la più clamorosa) la società italiana e quella europea in circa mezzo secolo di inesausta attività letteraria. Se si tiene presente che il marchio Coca- cola è stato registrato nel 1893 e che è possibile parlare del brand in maniera economicamente seria soltanto a partite degli anni Sessanta, parlare di marketing secondo D’Annunzio, un uomo nato nel 1863 e morto nel 1938, potrebbe sembrare una forzatura, ma non lo è affatto. Il poligrafo pescarese rovesciava in tempi non sospetti a tutti gli effetti la teoria, oggi piuttosto diffusa, del marchio come essere vivente proponendo piuttosto l’essere vivente, se medesimo, come marchio. Se si pensa che importanti artisti moderni arrivano all’idea moltissimi anni dopo2, ci si rende conto dell’avanguardismo gestionale dannunziano. Quest’ultimo poggia sulle rifrazioni quasi pirandelliane tra D’Annunzio scrittore e D’Annunzio personaggio facendosi ancor più sfocato grazie all’agire poliedrico dello scrittore, politico, socialite (nelle sottospecie di conclamato tombeur de femmes e assiduo frequentatore di salotti che contano). D’Annunzio, come una figura della scrittura, salta fuori dalla pagina diventando uno dei “personaggi dell’immaginario”, uno dei “fantasmi di quel teatro dell’immaginario che è la letteratura, escono dalla vita del testo senza morire, anzi continuano a popolare la vita degli uomini; non appartengono a nessuno e appartengono a tutti” (Corti 1997, 87). D’Annunzio “artiere” della réclame promuove i prodotti dell’artifex letterario con comunicati stampa fasulli (fatale caduta da cavallo come trovata pubblicitaria), liaisons di dominio pubblico, imponendosi gradualmente non solo per il suo stile letterario, ma per il suo stile di vita, lussuoso e oltremodo sfavillante. Il dannunzianesimo si dà come la commercializzazione del mito del superuomo, una maschera sociale malfunzionante, a un pubblico target di borghesi. All’apparenza è un successo inspiegabile visto che il superomismo predica l’elitarismo tutto sommato inadatto alla massa dei borghesi, ma come tutti i fenomeni sociali diffusisi su vasta scala il superomismo si dà come riservato a una cerchia di eletti e attira così coloro che a uno status simile aspirano dalla mediocrità della loro vita borghese, in un paese retto da una politica disastrosa. Come spesso accade, però, 2 Nel 1997 il cantante David Bowie è stato il primo artista a collocare delle obbligazioni: i Bowie Bonds, un'emissione di titoli decennali da 55 milioni di USD, poi interamente acquistata dalla Prudential Insurance Co., garantita dai diritti d'autore di 287 canzoni contenute in 25 album registrati prima del 1990. L'idea è stata seguita da altri artisti tra cui James Brown. 2 quando il prodotto non funziona, il pubblico acquirente è l’ultimo a saperlo. Chi se ne accorge immediatamente sono tutti i detrattori di D’Annunzio, Luigi Pirandello in primis. Lo scrittore di Girgenti mette in evidenza tutte le manchevolezze delle tesi narrative dannunziane nella sua recensione al vetriolo a Le vergini delle rocce (Pirandello 1994, 250) in cui fa abbondante uso di vocaboli quali “caricatura”, “ridicolo” ecc. in riferimento al protagonista Claudio Cantelmo. D’Annunzio medesimo se ne accorge ben presto che i suoi superuomini sovente s’inceppano. Già nel Trionfo della morte (romanzo pubblicato prima, parzialmente e a puntate, sulla Tribuna illustrata e sul Mattino di Napoli, e poi in volume nei 1894) il superometto Aurispa viene accompagnato da espressioni quali: Considerando il suo egoismo e la sua debolezza, egli si rivoltava contro sé medesimo; e ricercava dentro, con una furia puerile, qualche piccola parte di sé più attiva ch’egli potesse eccitare o sollevare contro la maggior parte efficacemente ed averne ragione come d’una turba vigliacca. Questi tumulti fittizi non duravano, né giovavano a spingerlo verso la risoluzione virile» (D'Annunzio 1933, 102) Ma anche da perifrasi del tipo: «il solitario, il contemplatore, lo speculatore inerte, il malsicuro seguace di Gautama» (D'Annunzio 1933, 317) che si affibbia da solo in una singolare contaminazione tra il superomismo e inettitudine (Baldi 1996) mentre cerca di risollevarsi nel buen retiro di San Vito Chietino. Che D’Annunzio abbia capito che il suo Übermensch non possa esistere nella moderna e democratica società lo dimostra anche il finale dell’ultimo romanzo, ambientato tra le più “moderne vicende”, Forse che sì, forse che no con Paolo Tarsis, che nel nome parafrasa Paolo di Tarso, il più grande pentito della letteratura universale, salvatosi dall’ennesima impresa di volo acrobatico per il rotto della cuffia: Ecco che la sua carne ridiventava miserabile: non si poteva più esprimere se non col soffio lamentevole non udito da alcuno, chiedendo il sollievo d'un attimo a quella piaga empia che novamente costringeva e imbestiava in un punto angusto la volontà vittoriosa. Fece l'estremo sforzo, con le coste contratte, con i denti stretti, con le palpebre chiuse, rispasimando nella sabbia attrita. Allentò gomiti e polsi, rovesciandosi indietro, supino, nel toccare il gelo dell'acqua. Respirò dal profondo. Girò gli occhi verso la grande Àrdea immune. Fu certo dell'aver compiuto, primo e solo. Allora al suo spirito parve che gli medicassero la piaga immersa gli spiriti del mare. (D'Annunzio, 1959, 456 - 457) Il sollievo di Tarsis è quello di una persona che sa di averla scampata bella e che non deve più riprovarci se non vuole lasciarci le penne, che capisce. Non a caso pochi anni avanti (1907) D’Annunzio aveva scritto un’opera gemella, la “tragedia moderna” Più che l’amore, che ha non pochi punti di contatto con l’ultimo romanzo dannunziano. In essa, nonostante l’onomastica roboante (il protagonista risponde al nome di Corrado Brando), il superuomo viene clamorosamente degradato e subisce lo scacco da parte della società: Brando non è un nobile decaduto o, comunque, un individuo d’alto lignaggio alla Cantelmo o alla Sperelli. Non lo era nemmeno Aurispa, del resto. Corrando Brando è un borghese divenuto esploratore, un mestiere tutto sommato superomistico, ma che al ritorno a Roma non riesce né a riprendersi l’esistenza precedente, né a rilanciarsi come esploratore in una società ormai sorda a simili imprese. Finirà male: presumibilmente ucciso in uno scontro con la polizia dopo aver egli stesso ucciso un uomo in una bisca, per soldi. In breve, l’unico superomismo riuscito a D’Annunzio rimane quello verbale perché dal punto di vista linguistico a D’Annunzio riesce praticamente tutto ed è la lingua la crinolina verbale dietro cui celare le cuciture maldestre nella struttura dei romanzi in cui snocciolare nozioni di un Nietzsche mandato giù come un caffé bollente. Nonostante tutto ciò, il successo dell’opera dannunziana è grande ed essendone D’Annunzio stesso un personaggio, ne beneficia la sua mitografia personale, abilmente costruita e facilmente sintetizzabile in alcuni atteggiamenti chiave, ad usum delphini, si direbbe, di cui la società borghese coeva era desiderosa di fruire. 3 3. Il superuomo, vent’anni dopo Fatte queste premesse, facciamo un confronto tra la prima scena dell’ultimo romanzo dannunziano e la prima scena dell’ultimo, incompiuto, romanzo sveviano. Leggiamo prima il passaggio di D’Annunzio: - Forse - rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente […]- Forse rispondeva la donna, aguzzando il suo sorriso che il velo pareva confondere e quasi fumeggiare nei mobili riflessi, di sotto alle due ali ferrugigne che le coprivano gli orecchi inserite nel suo cappello a guisa d'elmetto intessuto d'una paglia larga e forte come trucioli di frassino […] Il furore gonfiò, il petto dell'uomo chino sul volante della sua rossa macchina precipitosa, che correva l'antica strada romana con un rombo guerresco simile al rullo d'un vasto tamburo metallico.[…] Parve guizzarle tra i denti e il bianco degli occhi l'acutezza del sorriso formidabile come il baleno di un'arme a doppio taglio. Con la destra il furibondo afferrò la leva, accelerò la corsa come nell'ardore d'una gara mortale, sentì pulsare nel suo proprio cuore la violenza del congegno esatto. Il vento gli mozzava le parole su le labbra arsicce.[…] Protesa, ella ripeteva la sillaba sibilante, con un misto d'irrisione e di voluttà selvaggia. E veramente l'uno e l'altro sangue si rinforzavano, balzavano; l'uno contro l'altro parevano ardere ed esplodere come l'essenza accesa dal magnete nel motore celato dal lungo cofano. - La morte, la morte! Non sbigottita ma ebra ella mirava l'imagine di lui nel fanale mediano, ch'era come un teschio orecchiuto, costrutto di tre metalli: mirava nella spera convessa del rame il capo rimpicciolito; ingrossato il basso del corpo, la mano sinistra enorme su la guida dello sterzo. Percotendo il sole nella spera, il fuoco divorava la faccia; e dell'imagine allora non appariva a lei se non il mostruoso torace decapitato e il pugno gigantesco nel guanto rossastro.(D'Annunzio 1959, 3-6) La scena dannunziana è futuristica, il discorso amoroso ha luogo in un paesaggio che non ha più nulla di classicamente oleografico, è piuttosto una riga policroma che scorre ai lati della macchina in corsa. Nemmeno il volto del partner è descritto con la dolce stasi necessaria alla contemplazione durante l’innamoramento: Isabella vede Paolo deforme nel cofano della vettura. Lo sguardo, insomma, si frantuma. Leggiamo ora il brano di Svevo: La cosa avvenne quest’anno, nell’Aprile che ci apportava uno dopo l’altro dei giorni foschi, piovosi, con brevi interruzioni sorprendenti di sprazzi di luce e anche di calore. Rincasavo di sera in automobile con Augusta dopo una breve gita a Capodistria. Avevo gli occhi stanchi di sole ed ero incline al riposo. Non al sonno ma all’inerzia. Mi trovavo lontano dalle cose che mi circondavano e che tuttavia lasciavo arrivare a me perché nulla le sostituiva: Andavano via prive di senso. S’erano fatte anche molto sbiadite dopo il tramonto, tanto più che oramai i verdi campi erano stati sostituiti dalle grigie case e le squallide vie, tanto conosciute che arrivavano previste, e guardarle era poco meno che dormire. In piazza Goldoni fummo fermati dal vigile e mi destai. Vidi allora avanzarsi verso di noi e, per evitare altri veicoli, accostarsi al nostro fino a rasentarlo, una fanciulla giovanissima vestita di bianco con nastrini verdi al collo e striscie verdi anche sulla leggera mantellina aperta, che in parte copriva il suo vestito pur esso di un bianco candido interrotto come sulla mantellina da lievi tratti di quel verde luminoso. Tutta la figurina era una vigorosa affermazione della stagione. La bella fanciulla! L’evidente pericolo in cui si trovava la faceva sorridere mentre i suoi grandi occhi neri spalancati guardavano e misuravano. Il sorriso faceva trapelare il biancore dei denti in quella faccia tutta rosea. Alte teneva le mani, al petto, nello sforzo di farsi più piccola e in una di esse c’erano i guanti morbidi. Io vidi esattamente quelle mani, la loro bianchezza e la loro forma, le lunghe dita e la piccola palma che si risolveva nella rotondità del polso. E allora, io non so perché, sentii che sarebbe stato crudele che l’attimo fosse fuggito senza creare alcuna relazione fra me e quella giovinetta. Troppo crudele. Ma bisognava fare presto e la fretta creò la confusione. Ricordai! C’era già tale relazione fra me e lei. Io la conoscevo. La salutai piegandomi verso la lastra per esser visto, e accompagnai il mio saluto 4 di un sorriso che doveva significare la mia ammirazione per il suo coraggio e la sua giovinezza. Subito poi cessai il sorriso ricordando che scoprivo il tanto oro che c’era nella mia bocca e restai a guardarla serio e intento. La giovinetta ebbe il tempo di guardarmi con curiosità, e rispose al saluto con un cenno esitante che rese molto compunta la sua faccina da cui era sparito il sorriso e che così cambiò di luce come se fra lei e i miei occhi si fosse frapposto un prisma. Augusta aveva portato l’occhialino agli occhi subito quando aveva temuto di veder finire la giovinetta sotto ad un’automobile. Salutò anche lei per associarsi a me, e domandò: – Chi è quella giovinetta? Io proprio non ne ricordavo il nome. Ficcai gli occhi nel passato col vivo desiderio di ritrovarcela e passai presto di anno in anno, lontano, lontano. La scoprii accanto ad un amico di mio padre. – La figlia del vecchio Dondi – mormorai malsicuro. Ora che avevo fatto quel nome mi parve di ricordare meglio. Il ricordo della giovinetta portava con sé quello di un giardino piccolo e verde attorno ad una piccola villa. E vi si accompagnò anche il ricordo di parole con le quali la giovinetta aveva fatto ridere tutti i molti presenti: – Perché da un tetto non cade mai un gatto solo ma sempre due? – Così essa allora aveva gettato in faccia a tutti la sua sfacciata innocenza come ora in piazza Goldoni. Ed allora ero stato tanto innocente anch’io da ridere con tutti gli altri invece che prenderla fra le mie braccia tanto bella e tanto desiderabile. Voglio dire che tale ricordo mi ringiovanì per un istante e ricordai di essere stato capace di afferrare, di tenere, di lottare. Augusta fece cessare tale sogno sconvolto con uno scoppio di riso: – La figlia del vecchio Dondi a quest’ora ha la tua età. Chi dunque salutasti tu? La Dondi era di sei anni più vecchia di me. Ah! Ah! Ah! Se fosse capitata qui, invece di sorridere del pericolo, come faceva quella giovinetta, traballando e zoppicando sarebbe finita sotto alle nostre ruote. Anche ora la luce di questo mondo si alterava come se mi fosse improvvisamente pervenuta attraverso ad un prisma. Non subito m’associai al riso di Augusta. Ma bisognava! Altrimenti avrei rivelato l’importanza della mia avventura e sarebbe stata la prima volta ch’io ad Augusta mi sarei confessato. – Già, già, non ci pensavo. Tutto si sposta ogni giorno un pochino ciò che in un anno fa molto e in settanta moltissimo –. Poi ebbi una parola sincera. Fregandomi gli occhi come chi ha dormito aggiunsi: – Dimenticavo di essere vecchio io stesso e che perciò tutti i miei contemporanei son vecchi. Anche quelli ch’io non vidi invecchiare e anche quelli che restarono celati e non fecero mai parlare di sé, non sorvegliati da alcuno, ogni giorno pur invecchiarono —. Stavo diventando infantile nello sforzo di celare quel lampo di gioventù che m’era stato concesso. Bisognava cambiare d’intonazione e con l’aspetto più indifferente domandai: – Dove vive ora la figlia del vecchio Dondi? – Augusta non lo sapeva: Non era mai ritornata a Trieste dopo di essersi sposata con uno straniero. Ed io perciò ora rividi la povera Dondi, nelle sue gonne tuttavia lunghe, moversi in qualche cantuccio della terra, sconosciuta, cioè fra gente che mai l’aveva vista giovine. Me ne commossi perché era il mio stesso destino benché io mai mi fossi allontanato da qui. La sola Augusta dice di ricordarsi di me esattamente con tutte le mie grandi virtù giovanili e con qualche difetto, primo dei quali la paura d’invecchiare ch’essa ancora non mi perdona per quanto a quest’ora potrebbe accorgersi quanto fondata essa sia stata, (Svevo, 1985, 432-436) La scena sveviana ha un prefisso chiaramente agli antipodi rispetto a quello dannunziano. Il motivo della macchina è comune, non amatissima da Svevo, iniettore di adrenalina nella vita e nell’opera in D’Annunzio, la stagione primaverile anche, ma nel Pescarese è il sole allo zenith a deformare gli oggetti alla vista mentre nello scrittore triestino e il crepuscolo a nasconderli. Non è un caso. Dopo una neanche profondissima riflessione verrebbe da vedere la scena sveviana come la scena dannunziana, vent’anni dopo, per dirla alla Dumas. Il superuomo dannunziano sembra essersi rimesso al volante della sua fiammante Isotta Fraschini vent’anni dopo (diciotto per essere precisi) stanco, invecchiato, tumefatto dalla vita e, soprattutto, consapevole di non aver vissuto l’esistenza da sogno che forse avrebbe voluto. Cronologicamente parlando, Svevo raggiunge l’acme della sua fioca fama letteraria quando la vena dannunziana si va ormai esaurendo tra le mura mausolee del Vittoriale in cui lo scrittore monocolo rimastica con la bocca sdentata e notturna il troppo materiale esistenzial-estetico per comporre le pagine del Libro segreto. Non sarebbe dunque difficilissimo immaginare Svevo (e i suoi alter ego letterari) come fruitori potenziali dello stile di vita propinato 5 da D’Annunzio (e i suoi alter ego letterari) 3. L’antieroe sveviano è borghese, introflesso nella coscienza e il suo carattere chiaramente “insano” difficilmente si sposa con la letteratura “sana” richiesta dalla politica fascista in ascesa. Il mito dannunziano è un fenomeno di costume a quel punto ben radicato nella società italiana e la sua facciata sgargiante sembra offrirsi come una panacea per tutti i mali esistenziali alla gente italiana e giuliana avida di simili letture e di simili pensate, tranne che per un piccolissimo dettaglio: non funziona. Non ha funzionato per D’Annunzio, nella vita vera, e non ha funzionato per le sue creature cartacee. Il contratto capestro che il borghese medio tacitamente sigla con il mito dannunziano non farà altro che acuire lo spleen triestino, l’inettitudine, o che dir si voglia. Salvo forse Paolo Tarsis, i protagonisti dannunziani si comportano come il loro creatore dal cranio calvo: fanno finta di niente e vanno imperterriti avanti. Non constatano il proprio fallimento, sono gli altri a farlo per loro, curatori fallimentari, lettori o critici letterari che siano. A Svevo e ai suoi questo gioco di prestigio non riesce, egli, pirandellianamente, si vede vivere e la sua scrittura ha altri fini. Soffermiamoci ancora sui frammenti dell’ultimo romanzo sveviano, quasi un romanzo “a episodi”, e, più precisamente, sulla parte intitolata Il mio ozio. Qui, la postrema incarnazione del Cosini ha saputo “con forza sovrumana” (Svevo 1985, 399) vincere certi malanni fisici; quello che egli definisce “misura igienica” (la parola “igiene” e i suoi derivati ricorrono più volte nel breve testo) spesso non si limita soltanto ad uno stile di vita più salutare (diete dimagranti), ma inizia a riguardare “anche degli organi che in nessun modo avevano domandato aiuto” (Svevo 1985, 400). Del resto, sono gli anni in cui si accresce la consapevolezza dell'importanza dell'aspetto fisico e dell'immagine personale; sono anche gli anni degli studi di uno scienziato sui generis ma importantissimo quale Paolo Mantegazza, autore di numerosi volumi di cui si potrebbe discutere con profitto in questa sede. Per rendere l'idea riportiamo l'indice di un volume dal titolo eloquente, L'igiene della bellezza, un volume che all'epoca ebbe molto successo (la prima edizione risale al 1869 (Milano, Brigola) come parte dell'Almanacco igienico, ma fu ristampato anche nel 1910 a Napoli per la casa editrice Partenopea): Due parole ai miei amici di Rimini-Chi è sano è quasi bello-La bellezza è una gran bella cosa-Un pochino di estetica metafisica-Si discende in più umile sentiero-Ogni età ha le proprie bellezze-Le palme e i pini-Ognuno al suo posto-La carnagione e le sue bellezze-I cosmetici-Il miglior cosmetico è l'igiene-Pallidi e rossi-Elogio del cold cream-Breve e veridica istoria del sapone-Levigatezza, pieghevolezza e altre bellezze senza fine della pelle-Estetica della mano ad uso delle signore e degli operai-I pescatori di corallo ad Alghero-I belletti e le loro nequizie-Prima tirata contro l'ipocrisia-Un avviso in francese da tradursi e da studiarsi tra due persone-Storia, mitologia e poesia dei capelli e della barba- Una maledizione di Geremia-Igiene dei capelli-Il primo capello bianco e la sua storia-Giulia figlia d'Augusto-La calvezza, rimedi e conforti-Rassegnazione o parruccaLa barba e le unghie-Artigli domestici-Il vestito è parte viva del nostro corpoUn'ordinanza di Enrico II di Francia-Igiene generale delle vestimenta-Apoteosi della 3 Il rapporto tra i due scrittori e i loro alter ego letterari presenta anch'esso delle analogie che qui, per ragioni di spazio non toccheremo se non per cenni. Quando gli fu chiesto se i suoi libri fossero o meno autobiografici, Svevo rispose “Sì, lo sono, ma l’autobiografia non è la mia”. La stessa valenza l'hanno le parole di Le confessioni di un vegliardo: “Io ho sempre pensato alla morte e credo che tutta la mia attività sia risultata dal mio sforzo di sfuggire a quel pensiero doloroso [..] E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho, tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso” (Svevo 1985, 288). La mitografia dannunziana nasce con l'esasperazione dell'adagio pirandelliano secondo cui la vita o si vive o si scrive. D'Annunzio vive intensamente e scrive altrettanto intensamente. Quando appronta il proprio profilo biografico per il mercato francese D'Annunzio, scafato mitografo di sé, non lascia nulla al caso e vuole che si dica “non quel che è ma quel che vorrei fosse detto di me” (D'Annunzio 2004, 245). Fatte le dovute proporzioni, lo stesso può affermarsi di Svevo. 6 flanella-Cotone, lino, canape e pellicce-Il color delle stoffe-Pregi della bianchezza e pericoli immaginari del rosso-Il cappello e i suoi fratelli minori-Caravatte e camicie-Il busto e i suoi malanni-I calzoni, le mutande et similia-I guanti-Le scarpe e una debolezza di messer Francesco Petrarca-Igiene del piede del soldato-Un dialogo rubato sugli orecchini-Le bellezze bugiarde-Invocazione dell'autore ai santi della satira-Seconda e più forte tirata contro l'ipocrisia-Un terribile proverbio spagnuolo-Uomini tinti e dipinti che appartengono alla storia- Morale e igiene della tintura-Il codice igienico dei sarti. (Mantegazza 1910, 1) L'igiene diviene sempre più intesa non come cura medica4 ma come una serie di consigli di bellezza, alcuni fatti su misura per un ipotetico Zeno Cosini (“Ogni età ha le proprie bellezze”) mentre altri sembrano il riassunto di un prontuario per il dandy da diporto con abbondanza di suggerimenti riguardanti l'abbigliamento. L'alter ego sveviano esagera un po' e a un certo punto la cura medica o diviene cosmesi, la ricerca della bellezza nella vecchiaia attraverso “operazioni di ringiovanimento”(Cosini le definisce così, è consapevole di “aver dedicato una parte della mia vita allo sforzo di non fare schifo”). Queste ultime comprendono anche la ripresa dell'attività sessuale, attributo par excellence della giovinezza: Ma fra i nostri organi c’è uno ch’è il centro quasi il sole in un sistema planetario. Fino a pochi anni or sono si credeva fosse il cuore. A quest’ora tutti sanno che la nostra vita intera dipende dall’organo sessuale. Carlo torce il naso dinanzi alle operazioni di ringiovanimento ma anche lui quando si parla di organi sessuali si leva il cappello. Dice: Se si arrivasse a ringiovanire gl’organi sessuali certo si ringiovanirebbe tutto l’organismo. Ciò non mi fu appreso. Lo avrei saputo da me solo. Ma non ci si riuscirà. È impossibile. Dio sa quale sia l’effetto della glandola della scimmia. Forse l’operato al vedere una bella donna si sente indotto ad arrampicarsi sull’albero più vicino. È anche questo un atto abbastanza giovanile. (Svevo 1985, 404) Insomma, il senex Cosini inizia, volente o nolente, ad esercitare quella che potremmo definire come la funzione fisica del superuomo secondo D'Annunzio, ovvero quell'esasperato giovanilismo, conseguenza di un ego ipetrofico e spesso portatore di una psychopatologia sexualis contraddistinta dalla presenza della cosiddetta “sindrome di Don Giovanni”. Non che il personaggio sveviano sia un amante seriale, ma vi è in lui un certo compiacimento per esser “stato sempre molto intraprendente” (Svevo 1985, 405) con le donne. L'età è quella che è e il nostro deve ripiegare su una giovane donna da trivio, Felicita, resa con giri di parole che rasentano il japonisme del D'Annunzio bizantino (“una vera figurina orientale”) mascherando il vizietto dietro la compravendita delle solite sigarette. È il tentativo di Cosini di “truffare madre natura e farle credere ch’io sempre ancora fossi atto alla riproduzione e mi presi un’amante.” (Svevo 1985, 405). Forte della costante cura del proprio corpo, ostenta sicurezza esagerata nei confronti del rivale in “amore”, un suo vecchio conoscente di nome Misceli cercando di mettere in evidenza la propria superiorità fisica dinanzi a un rivale decrepito: “Il grosso uomo, vecchio come me, ma in apparenza molto più vecchio perché imbarazzato dal suo grande peso, mi guatava esitante oltre agli occhiali lucenti appoggiati alla punta del naso. Io sento sempre gli altri vecchi come più vecchi di me.” (Svevo 1986, 413) O anche: 4 A tratti risulta difficile stabilire se l'infatuazione di Zeno Cosini per la medicina sia un rigurgito di positivismo o che il fascino, come nel caso di D'Annunzio provenga dagli orizzonti illimitati che il progresso scientifico prospetta. L'antieroe sveviano vi vede le potenzialità infinite in fatto di salute e di lunga vita mentre i personaggi dannunziani vedono il progresso come una protesi da applicare alla propria persona: l'aeroplano per elevarsi nelle alture mai prima raggiunte, l'automobile, frequente iniettore d'adrenalina nella prosa del Pescarese, per muoversi a velocità impensate. 7 Scendemmo la grande erta che conduceva a piazza Unità, lentamente, attenti di mettere i piedi a posto. Sull’erta egli, più pesante, appariva certamente più vecchio di me. Ci fu anzi un momento in cui incespicò e minacciava di cadere, ed io prontamente lo soccorsi…. Ed io pensai: “Poteva darmi un rivale che fosse più degno di me”. Infatti io mi movevo meglio di lui tanto sull’erta che in pianura. In suo confronto io era addirittura un ragazzo. Fumava anche delle sigarette denicotinizzate prive di alcun sapore. Com’ero più virile io che avevo sempre tentato di non fumare ma alla vigliaccheria delle sigarette denicotinizzate non ci avevo pensato mai.” (Svevo 1985, 414-415) la rivalità fisica sembra essere quella che preoccupa di più il protagonista visto che i sentimenti, nella fattispecie, si riducono alla vile pecunia: “Arrossato nel grosso volto egli s’era accostato a me e mi misurava più piccolo di me guardando in alto come se avesse cercato di scoprire sul mio corpo il punto più vulnerabile da colpire” (Svevo 1985, 417) La vicenda della giovane meretrice è l'episodio finale dell'educazione sentimentale di Cosini 5 e sancisce la presa di coscienza del definitivo decadimento fisico (“E la mia bruttezza m’è sempre presente.” (Svevo 1985, 428). La contrapposizione tra la giovinezza senile delle prime opere e la vecchiaia selvaggia che permette di nascondere dignitosamente, dietro alla maschera del tempo, quella dell’inettitudine, spesso proposta dalla critica ci sembra sempre meno tale come anche ha poco senso quella tra Svevo etico e D'Annunzio estetico. Idem per il superuomo come mito e l'inetto come antimito. Sono dicotomie fasulle che in realtà celano fasi di uno stesso percorso. L'inetto sveviano e il superuomo dannunziano sono le due facce dell'individuo moderno in crisi. L'inetto è consapevole della propria condizione e cerca di affrancarsene senza riuscirvi tentando la strada dell'agire superumano. Il superuomo col passare degli anni ha sempre più presente i limiti del proprio pensiero e sovente il suo agire rasenta quello dell'inetto. Il vecchione sveviano seguirà il decorso logico per un maschio della sua età smettendo di amare attivamente e limitandosi a fare il voyeur6 di tanto in tanto e meritandosi nel finale l'unico nome possibile, quello del “vecchio satiro”. Ad accompagnarne le riflessioni non saranno più le note wagneriane come nei zelanti uomini d'azione intellettuale generati da D'Annunzio ma la più morbida nona di Beethoven: E ritornai pensieroso al mio grammofono. Nella nona sinfonia ritrovai gli organi in collaborazione e in lotta. In collaborazione nei primi tempi, specie nello scherzo ove persino ai timpani è concesso di sintetizzare con due note quello che intorno ad essi tutti mormorano. La gioia dell’ultimo tempo mi parve ribellione. Rude, di una forza ch’è 5 “Fu il mio ultimo amore. Adesso che tutta l’avventura è andata ad ordinarsi nella regola del passato, non lo ritengo più tanto indegno, perché Felicita con quei suoi capelli biondi, la faccia pallida, il nasino affilato, gli occhi misteriosi, la parola parca che non spesso rivelava quanto freddo fosse quel suo cuore, può essere rimpianta. Ma, dopo di lei non ci fu posto ad altri amori. Essa m’aveva educato. Io, fino ad allora, quando il caso mi permetteva di soggiornare per oltre dieci minuti presso una donna, sentivo sorgermi dal cuore speranza e desiderio. Certamente avevo il desiderio di celare l’uno e l’altra ma ancora più forte c’era quello di aumentarli per sentire meglio la vita e la mia appartenenza ad essa. Per aumentarli non c’era altro modo che di vestirli di parole e rivelarli. Chissà quante volte si sarà riso di me? Alla carriera di vegliardo cui sono ora condannato, io fui educato da Felicita. Io appena ora so che in amore io non valgo altro che per quello che pago.” (Svevo 1985, 428). 6 “E nessuno finora mai rimpiazzò Felicita. Cerco tuttavia d’ingannare madre natura che mi sorveglia per sopprimermi non appena si fosse avvista ch’io non sono più atto alla riproduzione. Con dosatura sapiente proprio nelle quantità volute dall’Hahnemann io prendo giornalmente un po’ di quella medicina. Guardo le donne che passano, accompagno il loro passo cercando di vedere in quelle loro gambe qualche cosa d’altro che un ordigno per camminare e risentire il desiderio di fermarle e accarezzarle. Anche qui la dosatura si fa anche più avara di quello che io e Hahnemann vorremmo. Debbo cioè sorvegliare i miei occhi perché non rivelino che cosa ricerchino e così si capisce che tanto raramente la medicina serva. Si può fare a meno di farsi accarezzare da altri per arrivare a un intero sentimento ma non si può senza correre il pericolo di raffreddare il proprio animo, fingere un’indifferenza assoluta. E avendo scritto questo capisco meglio la mia avventura con la vecchia Dondi. Io la salutai per farle qualche cosa e sentire meglio la sua bellezza. È il destino dei vecchi di fare dei bei saluti. (Svevo 1985, 429-430) 8 violenza con lievi, brevi rimpianti ed esitazioni. Non per nulla è intervenuta nell’ultimo tempo la voce umana, il suono meno ragionevole in tutta la natura. È vero che altre volte io avevo interpretato altrimenti quella sinfonia come la più intensa rappresentazione di accordo tra le forze più divergenti nelle quali infine viene accolta e fusa anche la voce umana. Ma quel giorno la sinfonia eseguita dagli stessi dischi apparve come dissi. (Svevo, 1985, 420) Le radici di simili comportamenti andrebbero ricercati nei testi sveviani antecedenti e nello Svevo giovane in cui l'eclettismo intellettuale lo faceva dialogare sia politicamente che letterariamente con ideologie contrastanti tra loro. L'articolo dal titolo “Un individualista”, apparso sull'Indipendente nel 1886, e firmato E. Samigli, esamina l'arte decadente ed estetizzante di Josephin Pèladan stigmatizzandone l'esasperato individualismo 7 ma non giudica e non rifiuta pur dichiarando apertamente di non amare l'autore. Anzi, il giovane Svevo, dice di non poter fare a meno di “impensierirsi, di esitare” dinanzi alle simili idee “esposte con tanta vivacità, con tanta convinzione”; dice che “a questi dubbi è consigliabile abbandonarsi; se non se ne esce con opinioni mutate, conservandole si rafforzano”. Quello che Svevo nota dei romanzi di Péladan e quello che lo colpisce di essi è accomunabile a quello che poi saranno le caratteristiche delle opere dannunziane: hanno grandi pregi di stile e di pensiero per quanto su quest'ultimo si debba riflettere con attenzione e il loro principale protagonista non è altro che lo scrittore stesso. Svevo si rende conto dell'inaccettabile posizione individualista dello scrittore francese, ma nello stesso tempo l'assolve e lo comprende indicandone i punti interessanti e seducenti. Così, nei romanzi successivi, nonostante la pochezza spiritual-culturale e la sporadica fiacchezza di volontà di Emilio Brentani, egli è, se non latin, allora almeno mitteleuropean lover e diventa tale perché A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza. (Svevo 2000, 416) In direzione non dissimile vanno anche le gesta da parvenu frustrato (non lo era forse lo stesso D'Annunzio nei salotti romani che frequentava in gioventù?) e suicida di Alfonso Nitti. Si tratta, sì, di personaggi affetti da qualche disturbo della personalità che li priva dell'avventato decisionismo dei personaggi dannunziani gettandoli nell'inettitudine, ma sono in contempo dei superuomini di papier mâché, delle individualità che aspirano all'orbita superumana. Il mito, già di per sé “tecnicizzato” (e nell'epoca della sua riproducibilità tecnica non potrebbe essere altrimenti) è indebolito si ritrova come interprete un uomo non d'eccezione, un trapezista tetraplegico. Gli aspetti che interessano Svevo e D’Annunzio sono complementari come lo sono anche i loro riflessi sull’intimo dei protagonisti che determinano l'ambiguo rapporto col mondo esterno. Infatti, sia i fiaccati superuomini dannunziani che i volitivi inetti sveviani incapaci di affrontare la realtà, si autoingannano, cercando di camuffare la propria sconfitta con una serie di atteggiamenti psicologici inutili. È la vita ambigua e imprevedibile ad avere partita vinta e alla fine essa, salvo rare eccezioni, macera i protagonisti dei romanzi di Svevo e di D’Annunzio, che in comune hanno l'incapacità di vivere. Bibliografia Baldi G. 1996 L’inetto e il superuomo: D’Annunzio tra «decadenza» e «vita ascendente», Torino, Scriptorium. 7 Si veda sull'argomento Saccone 1962. I brani dell'articolo di Svevo sono ripresi dall'articolo di Saccone. 9 Barilli R. 1993 D'Annunzio in prosa, Milano, Mursia. Contini G. 1983 Il romanzo inevitabile. Temi e tecniche narrative nella “Coscienza di Zeno”, Milano, Mondadori, Corti M. 1997 Per un’enciclopedia della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani. D'Annunzio G. 1933 Il trionfo della morte, Roma, L'Oleandro. D'Annunzio G. 1959 Forse che sì, forse che no, Milano, Mondadori. D'Annunzio G. 2004 Carteggio D’Annunzio – Hérelle (1891-1931), a cura di M. Cimini, Lanciano, Carabba. Ghidetti E. 1992 Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori riuniti. Lippi D, Cabras, P.L., Lovito F, 2005 Due millenni di «melancholia». Una storia della depressione, Bologna, Clueb. Montale E. 1976 Sulla poesia, Milano, Mondadori. Pirandello L. 1995 Umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Firenze, Giunti, 1995. Saccone E. 1962 Dati per una storia del primo svevo (1880-89), in “La rassegna della letteratura italiana, n.3, pp. 495-506. Slataper S. 1954 L’avvenire nazionale e politico di Trieste, a cura di G. Stuparich, in Scritti politici, Milano, Mondadori. Svevo I. 1965 Carteggio, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio. Svevo I. 1985 I racconti, a cura di G. Contini, Milano,Garzanti. Svevo I. 2000 Senilità, in Romanzi, a cura di F. Gavazzeni, Milano, Mondadori. 10