lo Squaderno - professionaldreamers

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lo Squaderno - professionaldreamers
Rivista di discussione culturale
No. 12 - giugno 2009
ISSN 1973-9141
www.losquaderno.net
Ricerca, inchiesta, documentario
12Lo sQuaderno
Table of contents
Research, inchiesta, documentary
Guest artist: Emiliano Facchinelli
Editorial / Editoriale
Charlie Barnao
L’inchiesta sociale salvi la sociologia! / May inchiesta save sociology!
Alessandro Leogrande
Il lavoro degli altri. Il giornalismo, l’inchiesta e i limiti della
rappresentazione / The work of the others. Journalism, inchiesta and the
limits of representation
Luca Rossomando
Perché nella mia città si fanno poche inchieste
Piano b
Quali interlocutori per l’inchiesta sociale?
Insu^tv
Un caffè con Nicola Angrisano. Una città, una telestreet e un documentario
indipendente
Vittorio Iervese
“Prima trovare, poi cercare”. Quattro passi tra cinema documentario e ricerca
sociale
Alberto Brodesco
La lezione del vuoto. Verità estatica ne “L’ignoto spazio profondo” / The lesson
of emptiness. Aesthetic truth in the “Wild Blue Yonder”
Andrea Mubi Brighenti
Street photography as social interaction
Andrea Membretti
Per un uso performativo delle immagini nella ricerca-azione sociale
Giovanni Rinaldi
“Pastanera” e “I treni della felicità”. Un progetto parallelo di storia e cinema
Laura Basco
Pratiche narrative. L’esperienza del Laboratorio Urbano Aperto in Salento
Claudio Coletta
Gomorra: sguardo neoepico e malocchio della ricerca sociale. Transdisciplinarietà di un oggetto narrativo non identificato
EDITORIALE
La ricerca sociale è un’attività che si svolge generalmente all’interno di determinati contesti
disciplinari. Sia che si svolga in ambito accademico, sia che venga commissionata da istituzioni pubbliche o corporation, tale ricerca si articola rispettando alcuni standard metodologici, definiti in specifici settori disciplinari. La ricerca accademica (che sia sociologica,
antropologica o storica, qualitativa o quantitativa) è spesso poco libera, sovente condizionata
da dibattiti specialistici interni alle varie discipline e poco comprensibili al di fuori di esse, da
rapporti di potere o lotte tra fazioni all’interno dei dipartimenti universitari, dalla necessità di
produrre pubblicazioni.
Ma questa non è l’unica modalità per conoscere i fenomeni sociali. In questo numero abbiamo cercato di mettere a confronto la ricerca sociale classicamente intesa con altri strumenti
di indagine, in particolare con l’inchiesta, il documentario e il reportage. Si tratta non solo
di tradizioni, ma di pratiche diverse, eppure allo stesso tempo comunicanti, dotate di una
serie di somiglianze di famiglia. Alcune di queste pratiche di ricerca, d’altro canto, si sono
diffuse in Italia ben prima che le scienze sociali ottenessero un riconoscimento all’interno
dell’università, talvolta preparandone il terreno. Pensiamo ai resoconti di viaggio di grandi
scrittori europei, alla tradizione di inchiesta meridionalistica che risale alla fine dell’Ottocento
e si riafferma nel secondo dopoguerra, ai raccoglitori di folklore, alle inchieste di militanti del
movimento operaio, ma anche al romanzo verista, al cinema neorealista, al documentario
etnografico. Per molti decenni, una conoscenza di prima mano di ampie aree e settori della
società italiana è stata fornita da ricercatori non accademici.
Il tentativo di incidere sulla realtà e di innescare processi di cambiamento, l’uso di media
e supporti diversi, la possibilità di raggiungere pubblici e fruitori differenti, la mescolanza
e l’emergere di nuovi generi letterari e formati rappresentativi sono tutti fattori di cui i
contributi qui presentati cercano di rendere conto. Uno degli intenti del numero è stato infatti
quello di instaurare una sorta di dialogo tra esperienze diverse di sguardo attivo sulla realtà,
cercando di rintracciare quelle voci che, soprattutto a partire dalla pratica, aiutassero a capire
lo stato dell’arte e di salute della ricerca sociale in Italia.
Restano aperte numerose questioni, non ultima quella della definizione dei linguaggi di cui
possa servirsi la ricerca. Una questione che lasciamo alla riflessione delle nostre lettrici e dei
nostri lettori, presentando la compagine decisamente ibrida e multidisciplinare dei ricercatori
e gruppi che ci hanno raccontato le loro esperienze, in contesti dove la ricerca stessa è un
mezzo istruttorio di operazioni che si pongono fini diversi, dalla diffusione di informazioni al
racconto di una realtà a proposte di trasformazione collettiva dei luoghi.
Il numero si apre con un articolo di Charlie Barnao che lancia un appello alla sociologia accademica tradizionale: di fronte alla chiusura istituzionale e alla crisi culturale e scientifica di
cui la sociologia italiana oggi soffre, si tratta di reintegrare tradizioni alternative come quella
dell’inchiesta sociale e di forme più riflessive di conoscenza in grado di riaprire la disciplina,
permettendole di ritrovare la sua ispirazione ideale originaria. In parziale risposta, seguono
alcune testimonianze e riflessioni su alcune esperienze di inchiesta, che evidenziano le
3
possibilità ma anche le difficoltà di questa pratica. Alessandro Leogrande confronta il lavoro
di inchiesta con le varie forme oggi di moda in Italia di “giornalismo investigativo”, non solo
e non tanto per evidenziare i limiti – evidenti – di queste ultime e la loro facile strumentalizzabilità, quanto per interrogarsi più in profondità sulle possibilità di conoscere e rappresentare il punto di vista degli attori delle classi subordinate in un mondo sempre più scisso
e dominato da disuguaglianze crescenti. Luca Rossomando ripercorre invece l’esperienza del
giornale indipendente Napoli Monitor, analizzando le difficoltà organizzative e strutturali
legati al produrre inchieste e reportage nel contesto in cui il giornale è nato e lavora. Mentre
questo intervento si concentra sul versante della produzione, il contributo del gruppo di
inchiesta bolognese Piano b pone il problema del versante del pubblico, chiedendosi (e
chiedendoci) dove trovare gli interlocutori per l’inchiesta sociale e come sia possibile attivare,
proprio a partire da un’inchiesta, processi di reale cambiamento: come sia possibile, in altre
parole, far sì che l’inchiesta non resti soltanto “denuncia”.
Una delle pratiche che negli ultimi anni sono state sperimentate al fine di comunicare a un
pubblico ampio informazioni e approfondimenti indipendenti, prodotti su varie questioni
di attualità, è quella delle street tv. Tra queste, abbiamo raccolto, attraverso il racconto di
Nicola Angrisano, l’esperienza di Insu^tv, una telestreet napoletana, impegnata tra l’altro
nella distribuzione di un documentario autoprodotto sulla questione dei rifiuti in Campania.
Seguono altri interventi sul documentario e sull’uso delle forme visuali nella ricerca sociale.
Vittorio Iervese propone un’interpretazione del documentario come forma di ricerca che si
pone ben al di là della semplice rappresentazione una realtà oggettiva data, mentre Alberto
Brodesco sembra proporre un’applicazione di questa intuizione attraverso un’analisi de
L’ignoto spazio profondo di Werner Herzog. Mubi avanza poi una proposta sul dialogo che si
potrebbe instaurare tra street photography (o fotografia documentaria diretta) e sociologia.
Le successive tre testimonianze narrano di altrettante ricerche svolte attraverso l’utilizzo di
una pluralità di media. Andrea Membretti presenta il processo di produzione di video partecipativi come strumento di ricerca-azione; Giovanni Rinaldi ripercorre la produzione parallela di
un documentario e di un libro di inchiesta sulla vicenda dei “treni della felicità” nell’immediato dopoguerra; Laura Basco presenta il caso del Laboratorio Urbano Aperto in Salento e del
laboratorio residenziale da questo promosso in una piccola comunità rurale del sud.
In conclusione, Claudio Coletta, a partire dall’“oggetto narrativo non identificato” Gomorra di
Roberto Saviano, invita a riflettere sui generi letterari come parte integrante della conoscenza
che viene prodotta, chiamando in discussione la questione dell’autorialità e dei confini tra le
diverse forme di sapere.
Per corredare questo numero marcatamente italiano – ma che ci auguriamo possa incontrare
un pubblico anche altrove – abbiamo scelto come artista ospite Emiliano Facchinelli, fotografo di reportage, che presenta alcune serie di fotografie sulle processioni religiose nel sud:
eventi che non smettono di stimolarci a riflessioni ad ampio raggio sul complesso rapporto
fra tradizione, innovazione, mentalità popolare, religione, società e potere nell’Italia di oggi.
A.M.B., C.M., M.P.
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EDITORIAL
Social research is an activity that usually takes
place within given disciplinary contexts. Whether
sponsored by academia, institutions, or corporations, such research follows specific methodological
standards that are instrinsic to a specific discipline
(e.g., sociology, geography, anthropology, etc.).
Research of this kind – whether sociologic, anthropologic or historical, qualitative or quantitative)
is often not really free, burdened by specialism,
struggles and the ‘publish or perish’ imperative. But
this is not the only way to know social phenomena. In this issue, we compare conventional social
research with different tools of enquiry, in particular
inchiesta, documentary and reportage. These are
not simply traditions but also practices that are
diverse but share a number of family resemblances.
The commitment to promote change in society, the
use of visual media, the possibility of reaching a
wider audience, the mix of literary genres and the
emergence of new genres are all topics addressed
by the following articles.
In presenting them, our aim is to start up a dialogue
between different experiences engaged in the ‘active observation’ of society. Thus we have set out to
report a number of voices that can help us to know
better the state of the art of independent research
in today’s Italy.
A number of questions remain open, not last the
question about the most suitable languages for
social research. We leave this open question to our
readers, confining ourselves to presenting the various multidisciplinary researchers and groups who
have undertake research in different contexts and
for different purposes, ranging from knowledge to
social change.
The opening article by Charlie Barnao launches
a call for Italian academic sociology to embrace
alternative forms of social enquiry such as inchiesta
and reflexive ethnography. Such a move, Barnao
argues, is badly needed if Italian sociology wants
to escape institutional closure and an otherwise
gloomy cultural and scientific crisis, and retrieve
its original idealist motivation. In reply, the articles
from groups already engaged in inchiesta
report about their own experience, highlighting
both the promises and the difficulties that are
inherent in such practice. Alessandro Leogrande
compares inchiesta with the various forms of
nowadays fashionable ‘investigative journalism’, not simply to stress their major limits and
manipulability, but also to question the extent
to which it is possible to know and represent the
point of view of the actors from underprivileged
classes in a world dominated by increasing inequalities. Luca Rossomando recounts the challenge of the independent journal Napoli Monitor,
analysing the organisational and structural difficulties of producing inchiestas and reportages
today. While Rossomando’s article focuses on
the side of production, the following article by
the Bologna-based research group Piano b raises
the issue of the public, asking where it could be
possible to find a receptive audience for social
inchiesta in order to begin actual processes of
social transformation, and how could inchiesta
overcome the ‘denouncement’ attitude.
Among the practices that in recent years have
been experimented, to result in some of the
most innovative ways to reach a wider audience
for independent research, there are street televisions. Nicola Angrisano reports about Insu^tv,
a street tv based in Naples that has recently
produced a noticeable documentary on the problem of waste management in Campania. The following group of articles deal with documentary
and the use of visual forms in social research.
Vittorio Iervese proposes to interpret documentary as a type of research well beyond the mere
issue of ‘representing’ a given objective reality,
while Alberto Brodesco seems to apply a similar
insight in his analysis of Werner Herzog’s The
Wild Blue Yonder. On his part, Mubi advances a
proposal for a possibly fruitful dialogue between
street photography and sociology.
The following three pieces deal with enquiry
that involves a multiplicity of media. Andrea
Membretti presents the stages of production of
participatory video as a tools for action-research;
Giovanni Rinaldi writes about the parallel production of a documentary and a book about the
case of the so called “happiness trains” in the immediate aftermath of World War II; Laura Basco
introduces the experience of a residential Open
Urban Laboratory (Laboratorio Urbano Aperto) in
a small rural community in Salento (Puglia).
Finally, discussing the famous case of Roberto
Saviano’s Gomorra as an “unidentified narrative
object”, the article by Claudio Coletta intives us
to reflect on literary genres as an integral part
of knowledge, embracing a point of view that
suggests to deconstruct the ‘author’ (understood as an objective, detached observer) and
the boundaries between different forms of
knowledge.
To illustrate this markedly ‘Italian’ issue – which
however, we hope, will be of interest to a wider
readership – we have chosen as a guest artist
Emiliano Facchinelli, a reportage photographer
who presents here one of his series on religious
processions in Southern Italy – a topic that
does not cease to inspire all those who aim to
understand the complex relationship between
tradition, innovation, popular mind, religion,
society and power in today’s Italy.
A.M.B., C.M., M.P.
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L’inchiesta sociale salvi
la sociologia!
Charlie Barnao
Charlie Barnao è etnografo e ricercatore di sociologia generale presso
l’Università Magna Græcia di Catanzaro. Tra i suoi libri, Sopravvivere
in strada. Elementi i sociologia della
persona senza dimora (2004).
[email protected]
Il 18 febbraio di quest’anno veniva pubblicata sul Corriere della Sera un’intervista a uno dei
più noti e accreditati sociologi italiani, Marzio Barbagli, studioso e profondo conoscitore, tra
l’altro, dei fenomeni sociali legati all’immigrazione straniera. L’articolo si intitolava, prendendo spunto da alcune dichiarazioni del sociologo, “Immigrati e reati, io di sinistra non volevo
vedere”.
Nell’intervista Barbagli spiegava che, fino ad alcuni anni fa, le sue posizioni di “uomo di
sinistra” gli avevano creato dei pregiudizi tali da non voler vedere la realtà – tali, cioè, da non
vedere una “pesante ricaduta sull’aumento di certi reati” da parte dell’ondata migratoria – e
quindi di fatto inficiando i risultati delle sue ricerche. Barbagli concludeva affermando che
oggi, dopo questo percorso “faticoso, ma di grande crescita” ritornava ad essere un “ricercatore” e nient’altro.
L’intervista che, tra l’altro, veniva pubblicata in un periodo di “psicosi collettiva” legata alla
paura per gli stupri, mi colpì particolarmente. Non solo e non tanto per le sue connotazioni
squisitamente “politiche”. Ciò che più mi colpiva non erano le parole pronunciate dall’“uomo
di sinistra” che si accorgeva dei suoi pregiudizi. Da questo punto di vista, si trattava di uno dei
tanti articoli, delle infinite riflessioni e dell’estesa letteratura (scientifica e non) sulla crisi della
sinistra e sulle ragioni del suo declino nella politica italiana negli ultimi anni.1
Quelle che alle mie orecchie tuonavano come allarmanti erano le parole dello scienziato
sociale e, in particolare, del sociologo di indiscussa fama, che ammetteva di essersi sbagliato
per anni nella formulazione delle ipotesi, così come nell’analisi e nell’interpretazione dei dati,
a causa di un “blocco mentale”2 fatto di pregiudizi ideologici.
Le parole di Barbagli mi sembrava che gettassero discredito sulla disciplina, creando anche
problemi non indifferenti a chi di intervento sul fenomeno immigratorio (accoglienza agli
immigrati, lotta per la difesa dei loro diritti, ecc.) si era occupato utilizzando le sue analisi sociologiche. Creando problemi, cioè, a quegli scienziati sociali e a quegli operatori sociali che,
attraverso l’utilizzo dei risultati delle ricerche di Barbagli, perseguivano il difficile obiettivo
di fornire un barlume di razionalità e di arginare gli interventi politici, sempre più incisivi e
1 Tra i tanti volumi pubblicati recentemente sull’argomento ricordiamo: Berselli [2008], AA.VV. [2008], Barenghi
[2008], Mannheimer e Natale [2008], Negri [2006], Tranfaglia [2009], Salvaggiulo [2009].
2 Così lo avrebbe chiamato il vice-direttore del Corriere Pierluigi Battista in un commento alle dichiarazioni di
Barbagli apparso sul Corriere della Sera del 19 febbraio 2009.
radicali, della destra xenofoba e di governo sul tema della immigrazione e della criminalità3.
Che stava succedendo alla sociologia italiana? Che significavano realmente le parole di Barbagli? Che significavano soprattutto per quei sociologi che credono nella sociologia come disciplina che ha nelle sue radici il valore della “critica sociale”? Come mai Barbagli si accorgeva
così in ritardo, dopo anni, del suo pregiudizio? Come mai la comunità scientifica non lo aveva
aiutato nel raggiungimento di questa consapevolezza? E perché, in ambito accademico, non
si sviluppava un reale dibattito su quanto da lui affermato? E ancora: Barbagli, che con le sue
affermazioni sembrava voler prendere le distanze dai sociologi politicamente “coinvolti”, non
immaginava forse che le sue parole sarebbero state strumentalizzate politicamente dalla
destra in un periodo in cui razzismo e xenofobia sembrano bussare alle nostre porte (per
non dire che sono già entrati con prepotenza)? Le sue parole significavano davvero che un
sociologo non può coinvolgersi politicamente? E che fine farebbe, se così fosse, la capacità
critica della sociologia?
Non tenterò di rispondere a tutte queste domande. Ma da queste domande nascono i brevi
spunti di riflessione che seguono su alcuni dei mali che affliggono la sociologia italiana dei
nostri giorni e sulla boa di salvezza che, forse, può aiutare la sociologia a riscoprire le sue
nobili motivazioni originarie e a trovare nuovi stimoli.
Mentre il mondo va a destra la sociologia italiana... lo
(in)segue
Se in generale si può affermare che “la sociologia è andata a sinistra mentre il mondo è
andato a destra” [Burawoy 2007, 4] in Italia la sociologia si sposta invece sempre più a destra
insieme con il resto del paese. La disciplina e la comunità che la rappresenta, infatti, sembrano aver aver perso gran parte dell’originaria passione per i valori della giustizia sociale,
dell’eguaglianza economica, dei diritti umani, appiattendosi sulle posizioni della dominante
cultura di destra – il berluscoleghismo – che in quei valori non crede.
La crisi dell’economia mondiale ha così costituito (formalmente) la sponda perfetta per una
politica di tagli alla ricerca e all’istruzione specie in ambito universitario. Ciò ha reso e rende
ancora più dipendente l’università dal potere politico, risvegliando e rinforzando quel processo di politicizzazione che aveva caratterizzato la sociologia internazionale negli anni ‘80 [cfr.
Burawoy 2007, 24] e che sembra travolgere la sociologia italiana dei nostri giorni sempre più
debole istituzionalmente anche in conseguenza del crollo delle iscrizioni universitarie.
Da un punto di vista culturale, inoltre, la crisi della sinistra italiana in questi ultimi anni, sembra avere avuto dei riflessi sulla sociologia in quanto disciplina. Ciò non sorprende visto che la
sociologia italiana ha sempre mantenuto una marcata matrice di sinistra e molti degli odierni
intellettuali di sinistra vengono dalle file dei sociologi. In un recente articolo pubblicato su
La Stampa Luca Ricolfi [2009] ha individuato nell’“astrattezza”, nel pregiudizio ideologico,
nella “presunzione”, nello “snobismo” e nella “distanza dai problemi delle persone normali” le
cause principali della crisi della sinistra. Come vedremo tra breve, alcuni dei mali della sinistra
italiana sono gli stessi che affliggono la sociologia accademica.
La sociologia italiana è chiusa in se stessa ed è sempre
più “privata”
“Autoreferenzialità” sembra la parola d’ordine della sociologia in Italia. Dal punto di vista storico,
3 Di fatto, dopo quell’intervista, Barbagli – uno dei più illustri sociologi di sinistra – diventava improvvisamente
uno degli scienziati sociali più citati dagli uomini politici di destra e all’interno dei blog legati alla destra culturale e politica, con l’impazzare di commenti positivi degli “uomini di destra” alle sue dichiarazioni.
11
organizzativo e culturale, al suo interno la sociologia italiana è, dalle sue radici, divisa in tre gruppi
che, di fatto, detengono il potere accademico. I tre gruppi sono il MiTo [Milano-Torino] (in origine la
componente laica di sinistra vicina al PCI), i “cattolici” (in origine vicini alla DC e, in particolare, alla
sinistra DC), la “terza componente” (in origine vicina all’area laica socialista) [Scaglia 2007, 31-32].
Oggi questi tre gruppi hanno perso molte delle connotazioni culturali (e, soprattutto, hanno perso
molte delle ragioni) per le quali erano nati. Si muovono, di fatto, principalmente come gruppi di interesse che negoziano e si spartiscono il potere accademico, seguendo logiche localistiche, personalistiche e di opportunità continTutto ciò comporta una
Sempre più distante dalla realtà quotidiana, la sociologia genti.
sempre
maggiore autoreferenaccademica sembra incapace di cogliere e/o criticare le trasformazioni sociali. Appare concentrarsi prevalentemente su un zialità e frazionamento interno
approccio di ricerca di tipo deduttivo che non fa che acuire la che sembrano estremizzarsi in
sua già paradossale distanza dai fenomeni sociali. periodi di “vacche magre” per i
finanziamenti all’università.
Nell’ambito della ricerca accademica l’autoreferenzialità si è tradotta in due tendenze principali: sbilanciamento chiaro ed esplicito verso l’approccio quantitativo e “professionale” della sociologia (con
tendenza all’imitazione delle scienze naturali e paura di perdita di scientificità se il ricercatore vive
un “coinvolgimento pubblico”4) e scarsa capacità di dialogo con le altre discipline, specie con quelle
considerate “meno scientifiche” come ad esempio l’antropologia culturale (vedi ad es. Dei [2007]).
Un interessante tentativo di superamento della tendenza autoreferenziale è il progetto della sociologia pubblica [Burawoy 2007]. La tendenza all’autoreferenzialità, infatti, potrebbe essere combattuta
perseguendo una disciplina che accantoni “i modelli teorici generalisti, astratti e centralizzati, votati
a rendere inaccessibili i loro linguaggi e ad alimentare una crescente distanza dai pubblici” [Padovan
2007, 1].
La sociologia italiana non è riflessiva ed è sempre più
“sganciata” dalla realtà della vita quotidiana
Sempre più distante dalla realtà quotidiana, la sociologia accademica sembra incapace di
cogliere e/o criticare le trasformazioni sociali. Appare concentrarsi prevalentemente su un
approccio di ricerca di tipo deduttivo che non fa che acuire la sua già paradossale distanza
dai fenomeni sociali.
Si tratta di un distacco della disciplina dalla realtà empirica che, anche quando non avviene
in modo radicale, può portare a strane e difficili situazioni di isolamento i suoi ricercatori.
Il caso di Barbagli – che di certo è uno di quei pochi sociologi di peso accademico che si
“sporcano le mani” con importanti ricerche sul campo – è significativo anche in questo
senso. Barbagli denuncia l’isolamento affermando che, una volta liberatosi dei pregiudizi
ideologici, a causa dei risultati delle sue ricerche alcuni colleghi gli hanno “tolto il saluto”. Ma
quello di Barbagli è un isolamento che non significa soltanto “solitudine”. Significa anche
mancanza di riflessività del ricercatore e della comunità tutta. Come mai Barbagli si accorge
solo dopo molti anni dei suoi pregiudizi ideologici? E come mai la comunità non lo ha
criticato e aiutato negli anni passati a prenderne consapevolezza? Purtroppo in Italia come
altrove “la conoscenza strumentale prevale su quella riflessiva” [Burawoy 2007, 24]. Forse,
investendo in modalità di ricerca e di conoscenza maggiormente riflessive, il ricercatore
Barbagli avrebbe compreso prima e la comunità tutta lo avrebbe potuto aiutare in questo
processo.
4 È lo sbilanciamento verso la “sociologia professionale” descritto da Burawoy [2007, 20].
Bisogna “scendere per strada”... e “fare inchiesta”!
A questo punto ci si può chiedere: che fare? Da quanto detto emerge la necessità di sviluppare un approccio alla ricerca che abbia delle caratteristiche abbastanza precise. È importante
che il processo di ricerca sia maggiormente induttivo, riflessivo, multidisciplinare, “critico” e,
quindi, “pubblico”.
La proposta che facciamo è che la sociologia italiana riscopra, valorizzi e promuova una
modalità di ricerca che è nel suo specifico DNA e che possiede già in sé e nella sua storia
quelle caratteristiche che possono, forse, ridare vitalità alla disciplina in crisi. Ci riferiamo
all’inchiesta sociale (per una ricostruzione storica vedi Fofi [2009]).
Pensiamo ai primi e nobili esempi di ricerche sociologiche, quelle realizzate, tra l’immediato
dopoguerra e i primi anni ’60, dal Gruppo di Portici, guidato dal maestro Manlio Rossi Doria.
Si trattava di inchieste sociali che mettevano al centro social issues rilevanti5 (prima fra tutte
la questione meridionale) sulla base di un approccio fortemente multidisciplinare (sociologia,
antropologia, economia e politica agraria, botanica, agronomia) e che si manifestavano in
modo inscindibile dall’impegno sociale e politico6.
Ma l’inchiesta sociale non è soltanto radicata alle origini della sociologia in Italia. Essa trova
ancora oggi forti e profondi collegamenti con le scienze sociali italiane, in particolare con
l’etnografia e il suo armamentario metodologico [cfr. Perrotta 2008]. L’etnografia ha un’insita
propensione alla riflessività e all’approccio induttivo nella ricerca sul campo. La riflessività
accompagna il ricercatore in tutte le fasi, dall’accesso al campo alla pubblicazione dei risultati
[cfr. Marzano 2006, 27-31]. La ricerca etnografica è, inoltre, induttiva “per definizione” basandosi su una relazione tra teoria e ricerca aperta e interattiva, in cui si passa dal particolare
all’universale attraverso diversi e successivi livelli di astrazione.
Forse, recuperando il valore sociale e politico dell’inchiesta e facendo dialogare quest’ultima
con l’etnografia, la sociologia potrà trovare nuovi stimoli e provare a risollevarsi da una
crisi che, altrimenti, sembra strutturale. Forse. Certo è che tutto ciò potrebbe assumere un
significato ancora più profondo in tempi in cui la libertà dell’informazione (scientifica e non)
è da molti considerata in pericolo.
May inchiesta save sociology!
On18 february 2009, in a interview published in Corriere della Sera, the famous Italian sociologist Marzio Barbagli, an established scholar on immigration, has declared that he has deceived himself for a long time because
of his own “leftist ideology”, that brought him to deny that immigrants commit more crimes than natives.
That interview, published in a period of collective psychosis about insecurity, struck me deeply, not only for its
immediate political meaning. Actually, there is already a fairly large body of literature – scientific and not – on
the crisis of the Italian left and its decline in recent years (Berselli 2008, AA.VV. 2008, Barenghi 2008, Man5 Riscoprire le reali social issues (così importanti per la Scuola di Chicago e per la nascita della sociologia
statunitense) permetterebbe, tra l’altro, di migliorare la legittimazione sociale della sociologia e di avere un
“confronto più serrato con la realtà” [Magatti 2007, 7].
6 Fra gli altri episodi si può ricordare a questo proposito come negli anni della Scuola di Portici Rossi-Doria fosse
impegnato in un’accesissima campagna elettorale in Basilicata nella lista del Partito d’Azione con Guido Dorso,
Carlo Levi e altri [cfr. Marselli 1991].
13
nheimer e Natale 2008, Negri 2006, Tranfaglia 2009,
Salvaggiulo 2009). What I found worrying were the
words of the sociologist, who was admitting to have
largely misconceived his major topic of investigation
due to ideological prejudice.
Barbagli’s words were in fact discrediting the whole
discipline, creating major problems to all those
sociologists and social workers who drew on the
sociological analysis of immigration, including those
activists and volunteers who provide assistance and
strive to protect immigrants rights, as well as more
generally all those social scientists who face the difficult task to remain rational before the increasingly
harsh xenophobia expressed by the Italian government on issues of immigration and criminality.
What is happening to Italian sociology? What is
the real meaning of Barbagli’s words? How is it
possible that a scientist could find out about his
own major “prejudice” only so late, after many years
of research? Why the scientific community did not
help him discussing and criticising his former and
new views? And, Could Barbagli not imagine that
the Right would have politically capitalised on his
public declarations? Here, I do not aim to answer all
these questions, rather to take them as the point of
departure for a reflection on Italian sociology today.
The world turns right, Italian sociology...
follows it
While, generally speaking, “sociology has turned left,
while the world has turned right” (Burawoy 2007, 4)
in Italy on the contrary sociology has been pushing
itself more and more rightward along with the rest of
the country. In practice, the discipline seems to have
lost much of its original passion for social justice,
equality and human rights, aligning itsself with the
dominant culture of the right, the ‘berlusco-leagueism’ [Berlusconi + Northern League].
In this context, the global economic crisis has
represented the perfect excuse for cutting research
and education funds. As a consequence, the Italian
university has become even more dependent upon
political power, as it already happened internationally
during the 80s (Burawoy 2007, 24). The crisis of the
culture of the left has also brought its effects. Since
its birth, Italian sociology has been markedly leftist
and several left-wing intellectuals are trained as
sociologists. But, recently, Ricolfi (2009) and others
have charged the culture of the left of being abstract,
presemptuous, snob, far form the problems of common common people, and sociology seems to suffer
from similar problems.
Italian sociology has turned inwards and is
increasingly “private”
“Self-referentiality” afflicts Italian sociology. Historically speaking, the discipline has always been split
into three major groups that hold the academic
power: the “MiTo” [Milano-Torino] (the secular
group, historically close to the Italian Communist
Party), the “catholics” (from the left of the Christian
Democrat party), and the “third group” (close to the
socialists) (Scaglia 2007, 31-32). Today, these three
groups have lost their original cultural rationale and
survive mainly as academic lobbies that increase selfreferentiality and internal divisions in the discipline.
In turn, self-referentiality has led to the hegemony
of “professional” quantitative sociology that shuns
any public engagement and a lack of dialogue with
other disciplines regarded as “less scientific”, such as
cultural anthropology (Dei 2007).
An alternative project is represented by public
sociology (Burawoy 2007), which rejects the selfreferentiality of “generalist, abstract and centralised
theoretical models, impossible to understand for lay
people” (Padovan 2007, 1).
Italian sociology is not reflexive and is far
from everyday life
Academic sociology seems incapable of grasping the
ongoing transformations in Italian society. Its focus
on deductive models makes things even worse. The
Barbagli case – one of the few major sociologists
who still continues to produce empirical research – is
telling. Barbagli claims that after his declarations he
has been isolated. But in fact such isolation means
lack of reflexivity at the individual and collective
level. How comes that he never reflected on that
“prejudice”? How comes that the scientific community never criticised him on that point? In Italy
as elsewhere, “instrumental knowledge prevails
over reflexive knowledge” (Burawoy 2007, 24).
Perhaps, using more reflexive forms of research,
Barbagli would have understood sooner and the
whole scientific community could have helped him
in this process.
Let’s get on the streets and... make
inchiestas!
What should we do? On the basis of what said so far,
what we badly need is develop a type of research
that is inductive, reflexive, multidisciplinary, critical
and “public”.
My proposal is for sociology to rediscover and
promote social inchiesta (Fofi 2009), a tradition
that is typically Italian. Just recall those excellent
researches carried out, in between 1945 and the early
60s, by the Portici Group led by Manlio Rossi Doria.
Those researches focused on major social issues,
starting from the “southern question”, adopting a
multidisciplinary approach (sociology, anthropology,
economics, agriculture politics, botanics, agronomy)
and, at the same time, a strong political and social
commitment.
Not only is social inchiesta rooted at the origins of
Italian sociology, it is also intimately linked with
current social research, particularly with ethnography
(Perrotta 2008). Ethnography is inextricably reflexive
(Marzano 2006, 27-31) and inductive, being based
on an open and interactive relationship between
theory and research.
Perhaps, retrieving the social and political value of
inchiesta and developing a dialogue with ethnography, sociology could find new ways to overcome a
crisis that could otherwise be chronic. Perhaps. What
is certain is that such move carries an even deeper
meaning at a time when the freedom of (scientific
and not) information is endangered.
15
Riferimenti / References
AA.VV. [2008] Sinistra senza sinistra. Idee plurali per uscire dall’angolo, Feltrinelli, Milano.
Barenghi R. [2008] Eutanasia della sinistra, Fazi, Roma.
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Tranfaglia N. [2009] Fine corsa. Vent’anni con Berlusconi (1993-2013). L’estinzione della
sinistra, Garzanti, Milano.
17
IlIl giornalismo,
lavoro degli
altri.
l’inchiesta e i limiti
della rappresentazione
Alessandro Leogrande
Alessandro Leogrande è vicedirettore della rivista Lo Straniero
(www.lostraniero.net). Ha
pubblicato diverse inchieste, tra
cui Un mare nascosto (L’Ancora del
Mediterraneo, 2000) e Uomini e
caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi
nelle campagne del Sud (Mondadori, 2008).
[email protected]
In una lunga conversazione con Maria Nadotti sul buon giornalismo, contenuta in Il cinico
non è adatto a questo mestiere (edizioni e/o 2000), Ryzard Kapuscinski afferma che senza
l’aiuto degli altri non si può scrivere un reportage: “Ogni reportage – anche se firmato solo
da chi l’ha scritto – in realtà è il frutto del lavoro di molti. Il giornalista è l’estensore finale,
ma il materiale è fornito da moltissimi individui”1. Senza un lavoro di raccordo, un lungo
peregrinare attraverso fonti orali e fonti scritte, basato sulla cooperazione e sulla comprensione reciproca, scrivere è impossibile.
Più avanti, focalizzando il tema principale dei propri libri, Kapuscinski sostiene che esso è la
povertà, o meglio, la somma delle varie forme di povertà:
Scrivevo, tuttavia, anche per alcune ragioni etiche: intanto perché i poveri di solito sono silenziosi.
La povertà non piange, la povertà non ha voce. La povertà soffre, ma in silenzio. La povertà non si
ribella. Avrete situazioni di rivolta solo quando la gente povera nutre qualche speranza. Allora si
ribella, perché spera di migliorare qualcosa […] Nelle situazioni di perenne povertà, la caratteristica
principale è la mancanza di speranza […] Questa gente non si ribellerà mai. Così ha bisogno di
qualcuno che parli per lei. Questo è uno degli obblighi morali che abbiamo quando scriviamo di
questa infelice parte della famiglia umana.
Oltre che cogliere un meccanismo ineluttabile della psicologia sociale, questa osservazione
è per noi molto importante. Anche se stentiamo a riconoscere le sue forme, oggi in Italia
al di sotto del precariato (di quello che comunemente intendiamo per precariato e che già
appare vulnerabile) si sta aprendo una galassia sommersa. In agricoltura e in edilizia (e in
parte anche nell’assistenza domestica), donne e uomini stranieri sono costretti a forme di
sfruttamento servile, a un nuovo schiavismo.
Non è solo la miseria delle paghe a essere indecorosa, ma il fitto reticolato di violenze e
soprusi che avvolge le loro vite. Ciò che sconvolge è la lontananza siderale da standard
lavorativi che in Occidente consideravamo non poter essere messi in discussione. Questa
distanza siderale si tramuta presto in uno spesso muro da varcare. Difficile da varcare per gli
operatori sociali, il sindacato, i volontari, la politica… Ed enormemente difficile da varcare
per chi ne voglia scrivere.2 È una povertà che non si ribella, proprio come diceva Kapuscinski.
Il silenzio che avvolge le loro vite (alimentato anche dalla minaccia di ritorsioni di padroncini
1 Questo articolo riprende l’ultimo paragrafo del saggio “Modelli e metodi nella pratica di inchiesta”, contenuto
nel volume Le pratiche dell’inchiesta sociale, a cura di Stefano Laffi, edizioni dell’asino, 2009 (http://www.gliasini.it/). Ringraziamo Stefano Laffi per aver acconsentito alla pubblicazione di questo articolo per lo Squaderno.
2 Ho provato a farlo in Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, 2008.
e caporali) è una cappa inscalfibile. È un fitto banco di nebbia.
Come raccontare, allora, le loro vite? Molti pensano che sia possibile farlo adottando forme
di travestitismo. Facendosi assumere come bracciante o come edile per un po’ di giorni. Ma i
reportage come questi che sono usciti su la Repubblica o su L’espresso si basano su un assunto totalmente sbagliato: quello secondo cui bastano un po’ di giorni, e una spruzzata esotica
di “vita reale” per entrare nella testa e nei corpi degli sfruttati. Si presuppone insomma che,
per chi sta sopra (come se disponesse di una specie di macchina del tempo), sia cosa facile
uscire dalla propria classe sociale ed entrare in un’altra,
Oggi in Italia al di sotto del precariato si sta aprendo una
e poi compiere – con la
galassia
sommersa. In agricoltura e in edilizia (e in parte anche
stessa nonchalance – il
nell’assistenza
domestica), donne e uomini stranieri sono costretti
percorso inverso.
a forme di sfruttamento servile, a un nuovo schiavismo.
A parte la questione che
tutti questi reportage
lasciano sempre dubbiosi sul fatto che l’immersione sia effettivamente avvenuta, è proprio
il presupposto (estremamente ambiguo) che dovrebbe essere messo in discussione. Siamo
ben lontani dal lento peregrinare invocato da Kapuscinski. E siamo ben lontani anche dal
lavoro di Barbara Ehrenreich3 che, riprendendo le forme migliori di inchiesta letteraria (o di
meta-sociologia o di reportage narrativo) statunitense si è fatta assumere come cameriera,
donna delle pulizie, commessa in un grande magazzino, e ha provato a raccontare quel lavoro (e precisamente come non si arriva alla fine del mese con un salario da fame) dall’interno.
L’inchiesta di Ehrenreich è basata su un lungo arco di esperienze dilatate nel tempo, ma
soprattutto sulla convinzione che non è possibile entrare pienamente nelle teste e nei corpi
degli altri, che l’ “immersione” non può essere mai totale, in quanto il ricercatore-scrittore
può tirarsi fuori, dichiarando l’esperimento terminato e tornando alla propria vita “borghese”.
Fossero solo esempio di cattivo giornalismo, lasceremmo queste forme di travestitismo
alle loro pagine. Tuttavia è bene ricordare che c’era un tempo, in Italia, in cui certe posizioni
grossolane non sarebbero mai state assunte. C’era un tempo in cui, sul tema dell’incontro
intellettuali-operai, si scrivevano pagine e pagine di analisi e autoanalisi sui limiti dell’uscire
dalla propria classe sociale. Sulla difficoltà delle “esperienze di fabbrica”. Sulla sfiducia che lo
stesso partito potesse essere il luogo adatto per la ricomposizione delle contraddizioni (a tal
proposito, penso a un bellissimo saggio di Franco Fortini, Un discorso di Nenni, apparso nel
1954 su Nuovi Argomenti).
Nel 1961, sul n. 4 di Il Menabò, rivista diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, interamente
dedicato alla questione “letteratura e fabbrica”, uscì un lungo Taccuino industriale, a firma di
Ottiero Ottieri, sulla sua esperienza di dirigente alla Olivetti e sul rapporto con gli operai di
una città del sud. Il suo Donnarumma all’assalto è del 1959, ma il Taccuino (un denso diario
di appunti, racconti, riflessioni) era stato scritto prima. È uno di quei testi che vanno al cuore
della questione, e l’incipit è fulminante:
Novembre ’54. Se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di fabbrica, c’è anche
una ragione pratica, che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo
chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro
possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o
impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in
una industria? I pochi che ci lavorano, diventano muti, per ragioni di tempo, di opportunità, eccetera.
3 Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo, Feltrinelli, 2004.
19
Gli altri non ne capiscono niente. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica.
Tra lo stare o anche l’occuparsi di industria, e il parlarne, esiste come una contraddizione in termini.
Superarla è durissimo, e infatti ognuno si aspetta che l’altissimo prezzo da pagare per superarla, lo
sborsi un altro. Troppi oggi si augurano il romanzo di fabbrica, eccetera, e troppo pochi sono disposti
a riconoscere le difficoltà pratiche (teoriche) che si oppongono alla sua realizzazione. L’operaio,
l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno;
o, per caso, entrano, e allora non dicono più.
Proprio perché parte da questa premessa, Ottieri riesce a restituire come pochi l’insieme di
tensioni, sogni, paure che attraversano il proletariato industriale. In lui la descrizione non è
mai naturalistica, ma sempre protesa al sovvertimento radicale dell’ordine stabilito (o meglio,
a cosa questo possa voler dire nella testa e nei corpi di proletari meridionali strappati alle
campagne o alle periferie urbane). Tuttavia Ottieri è ben consapevole di non poter capire fino
in fondo cosa passi nella testa di chi sta alla catena di montaggio. Se lo intervista, l’intervistato sovrapporrà delle frasi fatte a quello che l’intervistatore pensa. Se l’intervistatore si
sostituisce al suo lavoro, semplicemente entrerà in quella esperienza con il suo bagaglio di
intellettuale borghese, e dovrà affrontare un altro tipo di sovrapposizione. Il diaframma è
sempre lì, sempre presente. Chi osserva viene sempre dall’altra parte della barricata, anche
quando decide di mettersi in gioco. Anche quando la sua denuncia si nutre di propositi
“progressisti”.
Per Ottieri è quasi un’ossessione, tanto che Vittorini pare quasi rimbrottarlo nell’introduzione
al numero citato di Il Menabò. “Il rilievo è suggestivo”, scrive l’autore di Conversazioni in Sicilia,
e tuttavia esatto fino a un certo punto: “L’esperienza di fabbrica potrebbe aiutare a scrivere
oggi più di quanto l’esperienza della coltivazione del suolo (e della caccia, della pesca, della
pastorizia, eccetera) abbia aiutato a scrivere ieri e avantieri?”.
Ciò che interessa a Vittorini non è l’interno della fabbrica, ma la relazione tra industria e
mondo, e il modo in cui la città e il mondo si sono trasformati a seguito di questa relazione,
tanto che conclude il suo intervento con questo paragrafo:
La verità industriale risiede nella catena di effetti che il mondo delle fabbriche mette in moto. E
lo scrittore, tratti o no della vita di fabbrica, sarà a livello industriale solo nella misura in cui il suo
sguardo e il suo giudizio si siano compenetrati di questa verità e delle istanze (istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ch’essa contiene.
Non è una cattiva risposta, anche se forse non è all’altezza dei dubbi di Ottieri. Vittorini la
prende alla larga, ma dice qualcosa di interessante anche per l’Italia di oggi, in un’epoca che i
più definiscono postindustriale e post-moderna. È un’esortazione, la sua, a essere contemporanei al proprio tempo, a saper scorgere nel cambiamento dei modi di produzione e dei modi
di lavorare l’incedere di una nuova epoca.
Oggi è enormemente difficile raccontare le nuove fabbriche, i mille rivoli del lavoro precario,
restituire sul piano letterario o nel reportage le nuove soggettività che emergono. Ma allo
stesso modo è oltremodo difficile raccontare le nuove fratture che sorgono al di fuori dei
capannoni aziendali: perché, ad esempio, molti operai hanno votato per la Lega Nord, fino a
considerare la mitologia del “territorio” più importante della concretezza dei nuovi vissuti (e
delle nuove iniquità) nel mondo del lavoro? C’è una “catena di effetti”. La paranoia securitaria
che genera quella mitologia del territorio andrebbe letta – direbbe forse Vittorini nell’Italia
del 2009 – come frutto della nuova realtà, industriale o postindustriale che sia, come una
specie di sublimazione regressiva dell’assenza di sicurezza nel mondo della produzione.
Come se la logica dello squalo, dopo aver vinto in fabbrica, si fosse abbarbicata davanti
all’uscio di ogni casa.
Detto questo, il “rilievo suggestivo” di Ottiero Ottieri non perde la sua forza. La sua ossessione,
il capire cioè cosa passi nella testa degli sfruttati, dove si collochi la sottile linea di demarcazione tra acquiescenza e rivolta, è la stessa ossessione di Kapuscinski o di Ehrenreich. Ha
a che fare con i presupposti (metodologici, politici, morali) di ogni reportage, e direi anche
di ogni romanzo. Il punto è che bisogna cercare sempre di stare davanti all’abisso, e scavare
nell’enigma più difficile.
The work of the others.
Journalism, inchiesta and the limits of
representation
In an extendend conversation with Maria Nadotti about quality journalism published in Il cinico non è adatto a
questo mestiere [The cynical is unfit for this job] Ryzard Kapuscinski claims that it is impossible to write a reportage without help from several others: “Although signed by a single author, every reportage is in fact the joint
work of many. The journalist is the final drafter, but the reported substance comes from many people”. Without
such cooperation, without a painstaking research into oral and written sources based on reciprocal cooperation
and understanding, it is impossible to write a reportage.
Kapuscinski also indicates that poverty, or better the sum of different poverties, is the substantive focus of his
own work:
I used to write for a number of ethical reasons. To begin with, because the poor are mute. Poverty
does not cry, it has no voice. Poverty suffers in silence. It does not revolt. You will find revolts only
when people start to have hope. Then they revolt, with the hope to change something […] In the
context of endless poverty though, the main characteristic is precisely the lack of hope. […] These
people will never upsurge. Thus, they badly need someone who will talk for them. This is one of the
moral obligations we have when we write about this unhappy part of the human family.
Besides catching an infallible law of social psychology, this view is very important for us today. Indeed, we fail
to see clearly all the details of the new social conditions in today’s Italy. Below the social stratum of the officially
recognised young ‘precarious’, a new invisible galaxy of labour conditions is emerging. In agriculture and the
building sector, as well as in caring services, a number of foreign women and men are bound to semi-feudal
exploitation, a new slave condition.
It is not simply a matter of miserable salaries, but a whole environment dominated by systematic violence and
abuse. The working conditions of these people are shockingly below the minimum standard we take for granted
in the West. It is a social distance which also entails a communicative wall for social workers, volunteers, politicians… and especially for those who aim to write about these conditions. Just as Kapuscinski said, this type
of poverty does not revolt. The silence that envelops the lives of these people (a silence bred by the threat of
retaliation from landlords, foremen and ‘caporali’) is unbreakable. Just like a thick fog.
How could one describe their lives? Many people think that it is possible to do so through covert observation,
for instance getting enrolled as an agricultural worker or a builder for a few days. But similar reportages, published by la Repubblica or L’espresso, are based on a fundamentally wrong assumption: that a few days of work
in such ‘real life’ exotic context are sufficient to understand the experience and the thoughts of the exploited. It is
believed that for members of the higher classes it is relatively easy to do the mental experiment of leaving their
own social class, enter another and return, with the same nonchalance.
21
But apart from the fact that the majority of these
reportages leave us with more than a shade of doubt
about whether or not the covert observation actually
took place, it is their very starting assumption that
must be criticised. Here we are very far from the
slow wandering of Kapuscinski, as well as from a
work such as Barbara Ehrenreich’s Nickel and Dimed.
Building on the best tradition of literary enquiry (or
meta-sociology or narrative reportage), Ehrenreich
worked as a waitress, cleaning lady, clerk in a large
store, and subsequently attempted to depict those
works from the inside, describing the ways in which
one does and does not get by with lowest incomes in
America. Ehrenreich’s enquiry is based on extended
experience and especially on the belief that it is
impossible to understand completely the experience
of the underprivileged: immersion can never be real
for someone who always retains the possibility of
declaring the experiment over, turning back to their
bourgeois life.
If it were just a matter of bad journalism, one could
let it be. But it is important to remember that in Italy
there was a time when certain oversimplified views
were not current at all. There was a period when
pages and pages were written on the relationship
between intellectuals and manual workers, about
the limits of leaving one’s class behind, about the
hardness of factory life, and the mistrust towards
the party as the most apposite place to overcome
social contradictions. These topics were constantly
discussed. I am thinking for instance of a beautiful
essay by Franco Fortini, Un discorso di Nenni [A talk by
Nenni] which appeared in Nuovi Argomenti in 1954.
In 1961, Il Menabò, the review edited by Elio Vittorini
and Italo Calvino published its fourth, special issue
on Literature and factory. In this issue, a long diary
entitled Taccuino industriale [Factory notebook] by Ottiero Ottieri was published. It dealt with the author’s
personal experience as a manager at Olivetti and his
relationships with the manual workers in a southern
Italian city. Ottieri’s more famous Donnarumma
all’assalto [Donnarumma assault] was published
in 1959, but his rich diary containing a number of
reflections on the factory was written earlier. One of
the pages of that diary goes directly to the heart of
the issue:
November 1954. If fiction and cinema
have given us very little about the inner
world of the factory, it is because of a very
practical reason, which turns into a theoretical reason too. The world of the factory
is a closed world. One cannot either enter
or exit easily. Who can describe it? Those
who live inside it can give us data, but no
reflection – unless they are artists-workers
or artists-clerks, which is very rare. On the
other hand, the artists who live outside –
how could they get into the factory? Those
who work inside become mute because
of lack of time, etiquette etc., while the
others don’t really know much about it.
That is also why the factory is inexpressive:
this is its main characteristic. There is a
contradiction between being in a factory
and describing it – a contradiction almost
impossible to overcome. Indeed, everybody
expects that the high price to pay in order
to overcome such contradiction will be
paid by someone else. Many fancy about
the ‘factory novel’, but too few recognise
the practical and theoretical difficulties that
hamper it. The manual worker, the clerk,
the manager, remain mute. The writer,
the film maker, the sociologist are either
outside – and thus do not know anything
– or, if by chance they get inside, become
mute as well.
Starting from this assumption, Ottieri is one among
the few who has portrayed the tensions, dreams and
fears of the Italian industrial proletariat at that time.
His description is never naturalistic; rather always
explicitly oriented toward radical subversion of the
established order – better, towards what could such
subversion mean in the head of the southern Italian
working class recently immigrated from the countryside and now living in urban outskirts. Ottieri is well
aware of the limits of his own capacity to understand
manual workers. Neither interview nor direct
observation can help to overcome class boundaries,
even when the researcher is motivated by the best
intentions and is a progressive.
For Ottieri it amounted to almost an obsession – to
the point that in the same issue of Il Menabò Vittorini
seems to object to his position. “It is an intriguing
suggestion,”Vittorini writes, however only to a
certain extent because he continues asking: “but how
could the factory experience help us today to write,
more than the agriculture experience (as well as the
hunting, fishing, herding experiences) helped us to
write in the past?”What counts for Vittorini is not so
much the factory itself, but the relationship between
the factory and the world, together with the way in
which the city and the world have changed as the
result of such relationship. He concludes:
The industrial truth lies in the consequences of factory activities. Whether he
decides to write about the factory or not, a
writer will be up to the industrial task only
if his gaze and judgement will be soaked
in this truth and the practical demands
of appropriation and transformation that
it raises.
It is not a bad consideration, although perhaps not
at the level of the doubts raised by Ottieri. Vittorini
points out something that is still noticeable in today’s
postindustrial Italy. He exhorts the writer to be a
creature of his/her times, capable to understand the
ongoing changes in the world of production and
work.
It is still very hard to describe today, not only the
factory but also the thousands of streams of precarious work, giving a literary portrait of the new social
subjectivities of workers. But it is likewise difficult to
analyse the cleavages that exist outside the factory:
why, for instance, have many manual workers voted
for the right-wing Northern League, with its mythology of ‘territory’ completely disconnected from the
new inequalities on the workplace? There is a linkage
between these phenomena. In the context of today’s
security paranoia, territorial mythology must be
understood as the regressive sublimation of the absence of security in the world of production. Ottiero
Ottieri’s obsession was to understand what happens
inside the head of the exploited, just like Kapuscinski
and Ehrenreich wished to. Their work teaches us the
methodological, political and moral presuppositions
of every reportage – and, I would add, every novel,
too: one must try to stay before the abyss, tirelessly
excavating the enigma.
23
Perché nella mia città si fanno
poche inchieste
Luca Rossomando
Luca Rossomando scrive per Napoli Monitor, giornale di inchieste,
cronache, reportage e disegni
che una volta al mese racconta
i fatti di Napoli, delle altre città
italiane e le storie dal mondo. Dal
gennaio 2007 Napoli Monitor esce
con regolarità ed è disponibile in
circa trenta punti di distribuzione
a Napoli e provincia e in alcune
delle principali città italiane. Napoli
Monitor ha curato il libro Medioevo
napoletano. Dopo il rinascimento
prima della barbarie. Otto reportage
dentro e fuori Napoli (L’Ancora del
mediterraneo, 2008).
[email protected]
www.napolimonitor.wordpress.com
Napoli Monitor – il mensile di cronache, reportage e disegni che un gruppo abbastanza
vario di disegnatori e scriventi fa uscire da tre anni a Napoli e dintorni, e da cinque mesi nelle
maggiori città italiane – nasce tra le altre cose da una grande insoddisfazione come lettori.
Alla contraddittoria vitalità di una città come Napoli non corrispondono inchieste, analisi,
resoconti approfonditi che rappresentino per il lettore uno strumento di conoscenza chiaro,
ricco di informazioni e originale, o quanto meno compiuto nella forma.
Se sorvoliamo sui quotidiani, non registriamo la presenza di alcun periodico di informazione
locale, né di riviste che si facciano carico di approfondire il presente e indagare sul futuro della
città. Dalle facoltà di scienze sociali non nascono studi utili, se non alle necessità auto-riproduttive dell’accademia. Le poche creazioni di rilievo negli ultimi anni, in cui il contenuto e la
forma dialogano con pari dignità, sono libri isolati, racconti ibridi (che quando hanno successo diventano però matrice deleteria di una produzione amorfa, opportunista, superflua);
o altrimenti alcuni documentari audio e video; o ancora frammenti difficili da intercettare: le
cronache fatte in emergenza da luoghi in conflitto, spezzoni di blog, auto-narrazioni, centri di
documentazione improvvisati e altri sparsi gioielli: grezzi, effimeri e quasi clandestini.
Ci siamo messi tre anni fa a progettare questo giornale – giornale, non rivista; un giornale
si può stropicciare, piegare in tasca, dimenticare sull’autobus – per questo e per altri motivi.
Perché ci hanno insegnato (anni fa, qualcuno ci ha insegnato) che un giornale è meglio
farselo da soli piuttosto che come vogliono gli altri; che lo status di giornalista (di cronista,
di narratore) non viene concesso da nessun ordine professionale o commissione d’esame;
che la fiducia nelle proprie capacità (che qualcuno chiama professionalità) non ha mai avuto
bisogno di essere controinformazione… e altre cose ancora.
Abbiamo cominciato in tre. Era un’idea che avevamo in testa da dieci anni. Nel frattempo è
cresciuto un gruppo, variegato e mobile, intorno a una decina di persone che assicurano la
continuità, anche stilistica, del giornale. Metà della redazione è composta da disegnatori. In
questo periodo abbiamo imparato, sperimentandole, diverse cose: alcune tecniche, altre di
metodo e altre ancora sul funzionamento del sistema, sull’interdipendenza strettissima tra
mezzi e risultati, sui vincoli quasi insuperabili che le condizioni produttive – il tempo, la diffusione della testata e, in definitiva, il denaro a disposizione – impongono alla realizzazione
di un giornale. E penso soprattutto alle inchieste. La cronaca, il reportage, sono cose che si
possono far bene anche con scarsi mezzi (e che in ogni caso pochi fanno) mentre l’inchiesta,
quella approfondita, “investigativa”, richiede, oltre che tempo e soldi, anche una “rispettabilità” nei confronti delle fonti che una piccola testata non sempre possiede.
Raramente abbiamo pubblicato vere e proprie inchieste sul nostro giornale. Piuttosto reportage, storie di vita, testimonianze: cose viste e ascoltate, ricognizioni, aggiornamenti, mappe,
recensioni, interviste, ma pochissime inchieste. Le inchieste fatte bene costano troppo. Bisogna avere tempo a disposizione. Noi lavoriamo gratis e non possiamo pagare nessuno. Per
un periodo abbiamo creduto di poter rimediare, coinvolgendo i giornalisti amici che lavorano
nelle redazioni e che – credevamo – potevano mettere in comune l’autorevolezza delle
loro testate e qualche ritaglio del loro tempo pagato. Ma abbiamo dovuto constatare quel
che già sospettavamo. I giornalisti da redazione credono fermamente che il sistema per cui
lavorano sia l’unico modo possibile di fare giornalismo. Anche se passano il loro tempo libero
a criticarlo, anche se il capo redattore gli boccia una proposta dopo l’altra o li sposta senza
motivo da un’inchiesta che seguivano da mesi per mandarli a “coprire” il ballo delle debuttanti, questo è quel che sentiranno finché saranno stipendiati da quel sistema. Vi passeranno
ogni tanto qualche pezzo documentato o una buona soffiata, ma avranno sempre, inevitabilmente, quell’aria di non crederci, lo sguardo di chi osserva stupito uno sforzo inutile, uno
spreco di buone intenzioni che andrebbero, è evidente, indirizzate altrove.
Così a un certo punto abbiamo pensato di andare sul sicuro; bisognava sveltire i tempi di
lavorazione ed elevare la qualità degli articoli; se proprio non riusciamo a svelare oscuri
retroscena – ragionavamo – assicuriamo almeno al lettore la vivacità di un resoconto,
l’arguzia di un dettaglio, l’ironia di uno sguardo. Ci voleva gente affidabile, con cui pianificare
un reportage e poi attendere senza patemi il testo pronto da impaginare: proponemmo la
collaborazione ad alcuni giovani narratori – sceneggiatori, romanzieri, saggisti – abbastanza
amici e alla mano da ricevere con piacere l’invito a contribuire a un progetto serio e indipendente, imperniato sulla gratuità e sugli strumenti specifici del loro mestiere.
Il piano all’inizio sembrò funzionare. Per concordare un articolo bastavano poche parole.
L’intesa era immediata, il risultato soddisfacente. Ma ogni volta l’incantesimo durava poco.
Dopo una o due apparizioni, il nome del prezioso collaboratore era destinato a scomparire
dal colophon in ultima pagina. In effetti, gli amici che ci passavano i loro articoli stavano giocando nello stesso momento una partita più importante: erano impegnati nella lunga marcia
di avvicinamento al mondo dei professionisti della scrittura. Questo tipo di scalata, rigorosamente in solitaria, comporta una serie di priorità: per esempio, ricercare la collaborazione con
giornali e riviste ad alta tiratura, meglio se impegnate, ma senza disdegnare il pezzo di costume o le rubriche sui “femminili”; sottoscrivere anticipi per realizzare libri di rapida fattura
e su argomenti all’ultima moda, per quanto lontani dalle questioni che riguardano i luoghi
e le persone che ci circondano; partecipare a uno o più dibattiti in voga – sulla rete ma non
solo – tra i “giovani” scrittori omologhi, per quanto vaghi e inconcludenti appaiano i temi in
discussione. E così via. Tutta una serie di occupazioni che alla lunga rendono incompatibile
una collaborazione assidua con un giornale dichiaratamente insolvente, poco diffuso sul territorio nazionale e che suole indicare gli autori degli articoli con una sigla al posto del nome.
Insomma, ci convincemmo che era più opportuno un investimento a lungo termine.
Avremmo fatto del giornale una palestra, aprendolo ai giovani, quelli veri; avremmo dato
spazio a chi ne aveva davvero bisogno: i ventenni appena entrati all’università, per esempio,
o quelli venuti fuori dal tunnel delle scuole di giornalismo o dei corsi di scrittura; oppure i
tanti che facevano la gavetta con scarse prospettive in qualche ufficio stampa istituzionale. Il
futuro non gliel’avremmo assicurato nemmeno noi, ma almeno qualche stimolo in più, qualche occasione per misurarsi, mettersi alla prova, potevamo garantirla. Certo, non avremmo
ottenuto l’articolo sfolgorante al primo colpo, ma potevamo contare – ci dicevamo – sulla
dedizione, l’entusiasmo e anche l’umiltà, che non guasta, di persone curiose di esplorare il
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mondo circostante, e di farlo finalmente senza i vincoli imposti dalle formule asfittiche dei
mestieri della “comunicazione”.
Ci dedicammo al ruolo dei formatori con abnegazione, tempo limitato e forse poco coraggio
nel lasciare la briglia sciolta, ma anche difficoltà a capire quanta libertà richiedessero i nostri
giovani redattori. Certi strumenti però non si improvvisano. Spesso le interviste bisognava
farle insieme, i contatti con le fonti dovevamo suggerirli noi. Gli articoli non erano male
ma il lavoro preparatorio lo facevamo quasi tutto noi. E diventava complicato mantenere
vivo a lungo il coinvolgimento. In fondo, la cosa non
Tutti quelli che hanno scritto o disegnato in questi tre anni, che sembrava appassionarli
sono “passati” per il giornale o ci sono rimasti, hanno compiuto più di tanto. Alcuni, incerti
un gesto di fiducia verso la nostra fragile proposta. Hanno dato sulla loro vocazione, dopo
il loro contributo a una pratica concreta di narr/azione. un po’ si interessavano ad
altro; altri avevano fretta di
arrivare al sodo e preferivano
la rassicurante routine di un giornale “vero” per intravedere un orizzonte che dalle nostre
parti restava invisibile. Altri ancora rinunciavano prima di cominciare: compilare comunicati
stampa doveva sembrargli qualcosa di più simile a un mestiere rispetto al tipo di pratica
che gli proponevamo. Fu così che ci convincemmo di aver bisogno non tanto di articolisti
brillanti, quanto di collaboratori affidabili, di provata e inflessibile volontà, pronti a dare un
contributo senza attendersi ricompense materiali se non il lento avanzamento della causa.
Ci rivolgemmo a quei militanti, più o meno nostri coetanei, usciti da una lunga stagione
di politica dal basso, abbastanza lucidi da comprendere la sclerosi del movimento, ma non
per questo disposti a voltare le spalle ai loro ideali. Erano quelli che, dedicandosi al lavoro
di informazione attraverso i più diversi supporti, prendevano il nome di mediattivisti.
Obbedendo alle vecchie abitudini, a ogni focolaio di rivolta o anche solo di agitazione, si
precipitavano sul posto con un microfono o una telecamera, un po’ per documentare e un
po’ per rinfocolare, e producevano resoconti che, pur non avendo il dono della profondità,
avevano quello dell’immediatezza e delle informazioni di prima mano. Cominciammo a
chiedere loro una serie di contributi a partire dalle vicende che seguivano. Il problema era
che, a causa della frenesia militante che ancora li animava, raramente avevano il tempo
di produrre inchieste, restando a lungo sullo stesso argomento e sullo stesso territorio; e
quando lo facevano erano spesso impegnati a dimostrare una tesi stabilita a priori. Trascuravano la forma dimenticando che a volte questa coincide con la sostanza…
Insomma, mi fermo qui. Ho volutamente calcato la mano. In effetti, questo articolo mette
in scena eventi accaduti realmente, ma con un ordine, una linearità che non è mai esistita.
In realtà, tutte queste cose sono avvenute contemporaneamente, e sono tuttora in corso.
Da qualche tempo il loro avvicendarsi non ci provoca più il senso di smarrimento che forse
traspare dal racconto. Siamo arrivati a un punto di equilibrio, a una presa d’atto; alla consapevolezza che la riuscita di questo progetto non dipende tanto dal carattere delle persone
che vi partecipano, ma dalla loro persuasione nella solidità dello stesso. Così non abbiamo
mai smesso (e non smetteremo) di cercare collaboratori per il giornale: giovani alle prime
armi, scrittori di talento, tenaci militanti e giornalisti navigati. In fondo, noi stessi siamo stati
e siamo ancora un po’ tutte queste cose insieme. Scriviamo su questo o quel giornale, a
volte gratis per vanità, oppure per soldi ma con disdegno perché ci tocca mischiare la nostra
firma a quella di qualche vecchio trombone o giovane ciarlatano. Anche noi abbiamo un
sacco di cose da imparare, e anche qualcuna da insegnare, ma siamo pigri o non abbastanza
costanti, e così da tre anni è sempre la stessa persona che impagina il giornale ed sempre
lo stesso quello che corregge le bozze. Anche noi, che volevamo fare un giornale all’inglese,
freddo e oggettivo, cadiamo spesso negli occhielli sarcastici o tendenziosi, oppure non
rinunciamo a pubblicare un pezzo noioso, solo per l’ansia di ribadire certe cose, di far passare
una “linea”.
Tutti quelli che hanno scritto o disegnato in questi tre anni, che sono “passati” per il giornale
o ci sono rimasti, hanno compiuto un gesto di fiducia verso la nostra fragile proposta. Hanno
dato il loro contributo a una pratica concreta di narr/azione. Insieme a loro abbiamo capito
che il modo di produrre inchieste non dipende solo dalle debolezze o dalle qualità di chi
scrive, ma soprattutto dalle condizioni in cui le inchieste vengono prodotte; e che il modo più
efficace di coinvolgere le persone, di attivare i loro talenti, di suscitare impegno in un’impresa
comune è quello di creare una struttura che assicuri non solo la qualità e la continuità (come
abbiamo provato a fare finora) ma anche la solidità economica, e quindi, nel caso di un giornale, un’ampia diffusione e la possibilità di programmare nel futuro. Quanto più robusta sarà
questa struttura tanto più intensamente le persone coinvolte la vedranno come un’alternativa
nel panorama esistente. Questo è l’obiettivo che ci siamo dati per il tempo a venire.
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Quali interlocutori per
l’inchiesta sociale?
Piano b
Piano b è il nome collettivo di un
gruppo di giornalisti, ricercatori,
insegnanti, operatori sociali e
culturali, nato nel giugno 2006 al
fine di produrre inchieste sociali nel
territorio di Bologna. Piano b ha
pubblicato articoli su: il manifesto, Lo
Straniero, Metronomie, Tratti.
[email protected]
http://collettivopianob.blogspot.com
La chiusura delle fabbriche, la scomparsa della classe operaia, la riconversione dei capannoni
industriali dismessi. La città post-industriale, dei servizi, dei centri commerciali. L’immigrazione, la città multietnica, la questione della sicurezza, l’insicurezza percepita dai cittadini
italiani nei propri quartieri. Il lavoro precario, il consumismo, la speculazione edilizia, l’inquinamento, la fine delle “comunità”, la parcellizzazione dei rapporti sociali.
Parole che da anni leggiamo e ascoltiamo e che ci sembra descrivano in modo appropriato
i fenomeni e le trasformazioni in atto nelle città italiane. Ma anche parole di “senso comune”, che diamo per scontate. Descrizioni dei mondi in cui viviamo che è difficile mettere in
discussione, che solitamente vengono evocate piuttosto che argomentate. Parole che basta
nominare perché tutti bene o male capiscano di cosa si sta parlando. Che ci mostrano in maniera inequivocabile la direzione nella quale sta andando la società in cui viviamo. E, aspetto
non secondario, inibiscono l’azione politica collettiva e la nascita di progetti di segno diverso.
Tanto, “si sa che va così”.
In questi processi si è imbattuta l’esperienza di Piano b, un gruppo nato a Bologna nel 2006
al fine di “fare inchiesta” in città. In questo articolo proviamo a tracciare un bilancio di questa
(breve) esperienza, descrivendo le potenzialità e i limiti dell’“inchiesta sociale”, per come
l’abbiamo praticata.
Anzitutto, le motivazioni per cui abbiamo iniziato un lavoro di inchiesta su questi temi. Le
persone che si sono incontrate in Piano b venivano da esperienze molto diverse tra loro. Tutti
in qualche modo notavamo (e notiamo) con una certa insoddisfazione che né l’esperienza
lavorativa né quella politica consentono una conoscenza approfondita della città in cui viviamo. Chi lavora all’università si rende conto che la ricerca accademica non è interessata tanto
a studiare la “realtà” quanto a seguire dibattiti e linguaggi chiusi all’interno di “discipline”
(sociologia, antropologia…) e per questo “disciplinati” e autoreferenziali. Chi fa il giornalista
nota i limiti di un lavoro che deve rispettare agende e cadenze precise, linguaggi codificati e
non concede l’ampiezza di respiro necessaria ad una comprensione approfondita della città.
Chi lavora come maestro o educatore sente la mancanza di una conoscenza dei mondi sociali
dai quali provengono le persone che ogni giorno deve “istruire” o “educare” (bambini, giovani
immigrati di seconda generazione, adulti stranieri, detenuti).
Dalle esperienze di diretto impegno politico e sociale (in quell’area non meglio identificata
che viene chiamata “movimento”, che sta a sinistra, solitamente fuori dai partiti), d’altra
parte, ciascuno di noi ha ricavato un’insoddisfazione dovuta, anche qui, alla mancanza di
conoscenza dei mondi e delle persone che di quella attività politica sono troppo spesso l’oggetto e non il soggetto (gli operai, i precari, gli immigrati, i senza fissa dimora, i consumatori
e così via).
A Bologna, come altrove, spesso notiamo – nelle realtà di movimento non meno che nei
partiti – un approccio superficiale e frettoloso alle questioni politiche, affrontate soltanto
quando sono sotto l’occhio dell’attenzione pubblica e mediatica e dimenticate subito dopo,
per passare ad altro. È una città in cui si discute molto, ma nella quale raramente vengono
individuati e messi in discussione i poteri, le persone, le istituzioni che effettivamente prendono le decisioni importanti, che definiscono il volto della città.
Insoddisfatti rispetto a tutto ciò e forse semplicemente sentendo la necessità e l’urgenza di
conoscere la città (dopo averci vissuto per dieci, venti o trent’anni!), avevamo bisogno di un
“Piano b”. Un’inchiesta ci sembrava l’unica cosa che in quel momento fosse possibile fare.
Il gruppo si è formato un po’ casualmente, lontano da Bologna, attorno a un seminario
sull’inchiesta organizzato in Calabria dalla Comunità Progetto Sud e dalla rivista Lo Straniero.
Tornati a Bologna, abbiamo concentrato la nostra curiosità su un luogo che ci sembrava
condensasse molte storie e molte delle “parole” che abbiamo elencato sopra: le Officine di
Casaralta, una fabbrica di vagoni ferroviari nata a inizio Novecento, tristemente famosa per
le drammatiche vicende legate all’amianto e dimsessa definitivamente nel 2003, dopo una
lunga lotta degli operai contro la chiusura dell’azienda.
Da questa fabbrica, l’inchiesta si è allargata al territorio circostante, la Bolognina, un’area
della città cresciuta attorno alle fabbriche metalmeccaniche nel corso del Novecento.
Abbiamo cercato di raccontare realtà e traiettorie di vita apparentemente lontane tra loro,
accomunate dal fatto di svolgersi dentro il medesimo reticolo di strade. Abbiamo conosciuto
e intervistato decine di testimoni diretti della vita e della storia di quelle strade e di quei
luoghi. Abbiamo discusso con anziani abitanti del quartiere, operai e delegati sindacali delle
fabbriche e abbiamo raccolto le loro storie di vita. Abbiamo incontrato alcuni immigrati cinesi
residenti sul territorio. E poi funzionari sindacali, avvocati, medici, amministratori pubblici,
urbanisti, architetti, maestri di boxe. Abbiamo frequentato centri anziani e circoli di quartiere
e partecipato a iniziative pubbliche di presentazione e discussione dei piani urbanistici.
In seguito, abbiamo spostato lo sguardo su un’altra area di Bologna, Santa Viola, nella quale
erano accaduti e sono tuttora in atto processi di trasformazione urbana molto simili a quelli
della Bolognina: dismissioni industriali, trasformazione dei capannoni in centri commerciali,
casi anche eclatanti di speculazione edilizia, fine della “centralità operaia” sul territorio.
L’inchiesta, dunque, è consistita, nel modo più semplice, e nello stesso tempo difficilissimo,
nel parlare con le persone, ascoltarne i racconti, le opinioni, le sensazioni, reperire informazioni, tessere i fili, tenersi aggiornati su quello che succede, connettere fatti apparentemente
lontani tra loro. Leggere giornali e libri. Ascoltare attentamente quello che gli interlocutori
che di volta in volta sceglievamo avevano da raccontarci.
Il tentativo è stato quello di non dare per scontati i processi in atto in città e sotto gli occhi di
tutti (dismissione industriale, riconversione edilizia, trasformazioni urbanistiche, ecc.), ma di
ricostruire minuziosamente gli eventi, di capire come sono avvenuti e a partire da quali decisioni politiche, di mappare i confronti, gli scontri e i compromessi tra i poteri rispetto a queste
decisioni, di non prendere per buone le “giustificazioni” che vengono proposte ai cittadini ma
andarle a verificare. E, cosa non secondaria e forse più complessa, di comprendere quali sono
gli effetti di questi processi sulle storie delle persone che in quei quartieri abitano, che in
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quelle fabbriche lavoravano, che in quelle aree sono immigrati da altri paesi.
Un lavoro appassionante e che ci ha consentito di capire molto della città in cui viviamo. Un
lavoro, tuttavia, con i cui limiti abbiamo, a un certo punto, dovuto fare i conti. Non vogliamo
qui parlare delle difficoltà relative al lavoro di questo gruppo di inchiesta, che pure vi sono e
che riconosciamo (tanto per fare alcuni esempi: la difficoltà di dare continuità a un’attività
che viene fatta soltanto nel nostro “tempo libero”; la “diffidenza” che proviamo verso altre
forme di “sapere” – accademico, politico, giornalistico – e che troppo spesso ci impedisce di
farne un uso laico; la difficoltà ad allargare il collettivo). Si tratta di questioni che crediamo
attualmente significative per qualsiasi esperienza di inchiesta.
Una domanda è, ovviamente, come (e a chi) “comunicare” quanto emerso dal lavoro di
inchiesta. A tale questione classica Piano b ha dato risposte classiche e per nulla innovative:
articoli e saggi su quotidiani e riviste nazionali e locali, un breve documentario, incontri
pubblici, un blog (e vari altri progetti in cantiere, come un documentario radiofonico e un “foglione” periodico autoprodotto). Ma quella della “comunicazione” nasconde e ci porta ad altre
due questioni ancora più importanti. La prima è: come generare processi di cambiamento? In
altre parole, dopo aver fatto inchiesta e dopo averci “capito qualcosa” di quello che succede,
e dato che questa realtà non ci piace, come far sì che l’inchiesta contribuisca al mutamento
sociale? Come evitare che essa rimanga soltanto un approfondimento o una “denuncia” come
tanti che, pur approfonditi e documentati, appaiono sui mass media e lì restano confinati?
Legata a questa vi è una seconda questione, con la quale Piano b si è confrontato per la
prima volta quando ha provato a trarre le conclusioni del primo lavoro di inchiesta: qual è il
progetto politico – anche minimo – a partire dal quale – eventualmente – proporre processi
di cambiamento sociale? Abbiamo un progetto di questo tipo? Quali sono le “proposte”?
Quali sono i “soggetti” e quali i percorsi di questo mutamento politico? Mentre scrivevamo
della dismissione delle fabbriche della Bolognina desideravamo denunciare – almeno
implicitamente – la chiusura delle fabbriche soltanto per motivi di speculazione edilizia, la
trasformazione della città in un grande centro commerciale, il coinvolgimento insufficiente
o mascherato dei cittadini nelle decisioni urbanistiche, l’esclusione degli stranieri dalle sedi
delle discussioni, un razzismo più o meno strisciante e così via. Ma mentre ne scrivevamo,
ci rendevamo conto di non avere ben chiara un’idea alternativa di città (e non volevamo
certamente proporre un
ritorno impossibile alla
Riteniamo che queste due questioni – come generare
città industriale, con il suo
cambiamento sociale e a partire da quali soggetti e progetti
carico di sfruttamento e
politici – siano oggi centrali per chi faccia inchiesta. In altri
nocività ambientali!).
periodi, l’inchiesta sociale aveva degli interlocutori.
Riteniamo che queste due
questioni – come generare
cambiamento sociale e a partire da quali soggetti e progetti politici – siano oggi centrali per
chi faccia inchiesta. In altri periodi, l’inchiesta sociale aveva degli interlocutori. Dagli anni
cinquanta di Danilo Dolci ai sessanta di Montaldi e dei Quaderni rossi le grandi esperienze
italiane di inchiesta sociale avevano, grosso modo, degli interlocutori nel “movimento
operaio” (o contadino, o studentesco), nei partiti comunista e socialista, nelle organizzazioni
sindacali. Per molti vi era un orizzonte politico di mutamento sociale (per lo più il socialismo,
nelle sue diverse varianti).
L’inchiesta oggi non ha né un interlocutore (quale movimento?), né un progetto politico di
riferimento. A chi parla Roberto Saviano – per citare l’inchiesta che più ha fatto discutere
negli ultimi anni? A un milione di lettori in tutto il mondo, certo. Ma per lo più a individui (a
consumatori di cultura) e non a movimenti, organizzazioni, istituzioni.
A questo proposito, la pratica di Piano b in questo momento è “minimalista”: ciascuno di noi
ha arricchito la propria esperienza quotidiana (professionale e politica) delle conoscenze e
della consapevolezza acquisite conducendo delle inchieste sulla città. Questo non è poco,
soprattutto perché molti di noi fanno lavoro educativo o “di base” (con gli studenti delle
scuole superiori, i giovani immigrati, i senza fissa dimora, i detenuti). E, forse, in attesa di un
progetto politico più ampio, le due uniche strade che ci rimangono sono appunto quella di
conoscere a fondo la realtà nella quale viviamo e fare lavoro di base. L’inchiesta può essere
strumento fondamentale di entrambe.
Ma è chiaro che si tratta di una risposta insufficiente.
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Un caffè con Nicola Angrisano.
Una città, una telestreet e un
documentario indipendente
insu^tv
Nicola Angrisano, registra schivo
e impegnato, figura condivisa e
anonima, dai toni polifonici, è il
direttore di insu^tv, una telestreet
attiva a Napoli da circa 7 anni.
Nel suo palinsesto si trovano tra le
altre cose documentari, docufiction
e DomenicAUT, una trasmissione
tematica periodica cui è possibile
partecipare in diretta recandosi
nella location dove viene realizzata.
Cristina Mattiucci lo ha incontrato
per lo Squaderno.
http://www.insutv.it/
http://docutrashfilm.noblogs.org/
Ho incontrato Nicola Angrisano per caso. È facile incontrarlo per le vie di questa città. Gira
con un occhio multiplo come un osservatorio mobile sui fenomeni che qui si consumano e
con la meraviglia di una creatura senza età li guarda spesso impietoso, come un bambino
che ti chiede “... e perché?!” di fronte a dati che si danno per fatti, ma la cui logica richiede
quantomeno una curiosità lucida per farla crollare ed una grande passione per registrarli,
talvolta smontarli e poi rielaborarli, così da far raccontare loro un’altra storia... quella che
forse in fondo non avrebbero voluto tanto rivelare!
Mi colpisce sempre questa forza, anche quando, mimetizzato nella rete di download pigri,
indifferenti ed estemporanei, lo incrocio nelle mie traiettorie virtuali e mi desta il pensiero
critico, il dubbio e spesso anche risate e sorrisi. Succede di più quando lo incontro dal vivo –
non tanto nelle proiezioni pubbliche, dove tra la folla mi riesce spesso difficile riconoscerlo
– soprattutto in momenti come questo, quando uno dei pezzettini di questa creatura
multiforme si stacca dal fluire del guardare e si ferma a raccontarsi, come un vecchio.
Il tempo di un caffè... giusto il tempo di un caffè, che da queste parti resta ancora un tempo
sacro, dove – se l’aroma è quello giusto – puoi riuscire a parlare per un bel po’, basta solo
riuscire a trovare le parole giuste che diano il la per farsi raccontare: la storia passata e quella
più recente e futura della sua ultima coproduzione. Come è successo quella mattina...
Parola: insu^tv.
Parole (di Nicola): A Napoli, dal 2003, esiste un’isola di videoproduzione indipendente:
insu^tv. Per la città (e non solo) si trattava di un’esperienza del tutto nuova nel suo genere,
che si contamina e si alimenta – allora come oggi – attraverso la videoproduzione indipendente, perché si tratta – a nostro parere – della soglia più bassa d’accesso al flusso dei saperi.
insu^tv è un’esperienza assolutamente non commerciale, non legata a nessun tipo di corrente o sponsor istituzionale. insu^tv cresce accanto all’idea nazionale di telestreet: piccoli
canali televisivi che trasmettono a corto raggio in un cono d’ombra; ha iniziato le prime
produzioni e le prime trasmissioni nell’etere napoletano, occupando un canale televisivo
libero nel 2004.
Può sembrare una follia, ma come le vecchie radio libere, solo con una tecnologia leggermente più complessa, insu^tv è riuscita a occupare una frequenza nel bacino dell’etere
analogico napoletano, proprio come si può occupare una vecchia fabbrica o uno stabile in
disuso.
E infatti, come in ogni occupazione, anche quella di un canale televisivo va difesa, con i
mezzi della comunicazione e non solo. Negli anni infatti non sono mancati gli attacchi alla
libertà d’espressione: uno per tutti, l’occupazione, anch’essa abusiva, della stessa frequenza
– la S19 – da parte di un canale televisivo commerciale locale; occupazione che il nostro
gruppo ha dovuto “fisicamente” contrastare.
Parola: una telestreet (a Napoli)
Parole (di Nicola): Facciamo un passo indietro: in Campania esistono 107 emittenti televisive. È ovviamente una delle
regioni più densamente
La nostra esigenza era ed è tuttora quella di creare una visibilità
sovraffollate... anche
per tutte quelle esperienze indipendenti, che propongono e pratinell’etere!
cano delle soluzioni possibili alla eterna notte che avvolge la città
Di queste 107, solo una setdi Napoli da anni.
tantina hanno una regolare
licenza per trasmettere, le
altre, tra abusive e condonate, hanno solo un’autorizzazione temporanea alla trasmissione.
Il confine tra legale e illegale a Napoli passa per la porta sradicata nell’archivio frequenze
dell’Ispettorato alle telecomunicazioni! Ma a Napoli, come nel resto d’Italia, il problema non
è l’etere, quanto piuttosto il suo duopolio, che ha condotto un gruppo privato a concorrere
con i canali pubblici e a far convergere questo potere nella poltrona di Primo Ministro per la
quarta volta.
L’esigenza di iniziare “a trasmettere” è nata dal silenzio assordante che in città oscura vicende
importanti – come la disoccupazione, l’emarginazione, il diritto allo studio – esprime
l’isolamento di alcune questioni sociali – come il “caso migranti” e la “questione periferie”,
entrambi comuni a molte metropoli – o ancora si genera intorno alle vicende del “mercato
delle sostanze” – da sempre legate al controllo camorristico della città – fino alla più recente
e scottante questione ambientale campana.
Accanto alle questioni “metropolitane”, la nostra esigenza era ed è tuttora quella di creare
una visibilità per tutte quelle esperienze indipendenti, che propongono e praticano delle
soluzioni possibili alla “eterna notte” che avvolge la città di Napoli da anni.
Nell’eterna notte ci sono due racconti. Il primo, quello classico dell’informazione ufficiale
mainstream che fa e produce “notizia” solo durante le emergenze dichiarate: le fasi di guerra
di camorra, la caccia ai rom, le città seppellite dai rifiuti ecc. Il secondo racconto, invece, è
quello del circuito indipendente, di insu^tv e molte altre realtà che, al di là della notizia in
sé, valorizzano l’approfondimento delle singole vicende. Peraltro questo approfondimento
emerge nei fatti come una vera e propria esigenza: i piccoli video che hanno dato voce ai
Rom o alla Comunità Cinese partenopea hanno raggiunto nel tempo centinaia di migliaia di
click su internet.
Parola: informazione indipendente
Parole (di Nicola): Il giornalismo non professionista è un impegno serio, assumersi l’onere
dell’informazione indipendente crea anche delle aspettative in una comunità, e non si può
pensare di farlo da soli. È per questo che fin da subito la nostra isola è entrata in contatto con
esperienze preesistenti e per noi molto valide, come Radiolina – prima radio pirata a Napoli
– ed il nodo napoletano del network di Indymedia. Mi ricordo anche di Metrovie, allegato
settimanale locale del quotidiano il manifesto, che oggi non esiste più.
Ma la città fermenta. Negli anni sono nate altre esperienze, di carta stampata, come Moni35
tor, con cui esiste una buona relazione redazionale, e le nuove sperimentazioni di web radio
come Radioazioni e RadioMassa, entrambe nate nei circuiti universitari cittadini. Per non
parlare della nuovissima sinergia dei media center: gruppi autorganizzati che seguono “via
via” (“via” in dialetto campano significa sulla strada) eventi specifici, con dirette audio-video
molto partecipate.
Parola: il docutrashfilm “una montagna di balle”
Parole (di Nicola): Il lavoro d’inchiesta più grosso che insu^tv ha affrontato in questi anni
riguarda la questione rifiuti in Campania. Un gruppo di medi-attivisti (così si amano definire
gli animatori di esperienze come le nostre!) avevano iniziato già nel 2002 a raccontare attraverso filmati autoprodotti e corsi on field, la cosiddetta “vicenda rifiuti”, proprio a partire da
Acerra, luogo-simbolo, oggi come nel 2003, della costruita “emergenza rifiuti”.
Da quelle immagini, e da quelle iniziate a girare dal 2007 in poi, quando la vicenda è stata
riproposta con una grossa risonanza mediatica come l’ennesima grande emergenza, è nata
l’idea di un film documentario sulla questione. A dicembre del 2007, in un momento di
riflessione collettiva, vennero gettate le basi di un percorso narrativo di un documentario
che potesse avere allo stesso tempo particolarità ed unicità nel ricostruire l’intera vicenda. Da
allora, grazie a creatività, professionalità e dedizione, si è prodotta una riflessione collettiva, una ricerca estetica ed un’efficacia comunicativa nuova. Il casuale incontro con Ascanio
Celestini, attore militante, ha disvelato la voglia di comunicare ad un pubblico più ampio
il complesso messaggio del documentario. Il supporto di professionisti come l’ex 99Posse
Marco Messina, sound-designer, o Maurizio Braucci, già tra gli sceneggiatori di Gomorra,
ci ha permesso di crescere e – speriamo – di aver confezionato un prodotto utile al grande
pubblico.
Usare il termine “confezionato” non è un caso: solo gli artigiani confezionano, e noi come loro,
attraverso un bricolage, abbiamo imbastito le trame di questo documentario e della ricerca
che lo ha anticipato. Ricerca d’archivio, tra le carte dei commissariati ad esempio, e ricerca sul
campo accompagnata da interviste video in presa diretta – senza filtri di nessun genere –
con i diretti interessati alla vicenda, i cittadini.
Anche durante questo lavoro l’autoproduzione ha avuto una parte determinante. Avendo
rifiutato per scelta sponsor pubblici e privati, abbiamo attraversato l’esperienza di Produzioni
dal Basso, un portale web che ti invita a coprodurre una creazione. Strada che ha dato ottimi
risultati e che, unita all’uso di licenze internazionali digitali, che mettono a disposizione
contenuti per fini non commerciali come Creative Commons, ha permesso una nuova proposta distributiva, che non ha voglia di fare lunghe anticamere nelle sale delle distribuzioni
classiche.
In breve “una montagna di balle” è una piattaforma libera: sul suo blog materiali come la
sceneggiatura o le foto di scena sono già fruibili. Del resto i primi a pubblicare video in rete
sono stati proprio quegli hacker sognatori, che una notte del 1999 si trovarono a paralizzare la World Trade Organization a Seattle negli Stati Uniti... Al tempo, Youtube e tanti altri
strumenti non c’erano e il mercato era ancora molto scettico rispetto al “fenomeno internet”.
Forse è venuto il momento di riappropriarsi della libertà di esprimersi, proprio attraverso la
condivisione.
“Prima trovare, poi
cercare.”
Quattro passi tra cinema documentario
e ricerca sociale
UNO. In Concrete Island, un romanzo del 1974, J.G. Ballard racconta di Robert Maitland,
“un borghese come tanti, con una moglie, un figlio, un’amante e una magnifica Jaguar, non
necessariamente in ordine di valore” che in seguito ad un banalissimo incidente stradale si
trova a scoprire una comunità sorta e cresciuta all’ombra dei piloni dell’autostrada. Maitland
si trasforma così in una specie di esploratore di un mondo sempre esistito ma mai osservato.
Per capire il rapporto che lega il documentario alla ricerca sociale bisogna mettersi nelle
condizioni descritte da Ballard. Nel senso che è necessario alzarsi dalla propria postazione
di lavoro e uscire a fare un giro nel mondo, nella speranza che capiti qualcosa d’inatteso che
ci apra alla conoscenza. Potrebbe apparire una cosa scontata, ma non sono poi tanti quelli
che lo fanno. In questo senso, il documentario ha con la ricerca sociale un primo, fondamentale elemento di comunanza: la referenza con il dato empirico, che si manifesta nella
sua unicità prima ancora di esprimere la sua significatività. Attraverso il documentario non
è possibile dire “automobile” o dire “operaio” senza mostrare una determinata automobile o
un determinato operaio in un particolare momento, in un uno specifico contesto, ecc. Non
si possono filmare il capitalismo o l’etica protestante, ma soltanto le persone e le cose che, a
nostro avviso, esemplificano, personificano e simboleggiano queste idee e pratiche. È questo,
in modo brutalmente semplificato, ciò che Pasolini (1972) sosteneva quando parlava della
complessità, della polivalenza e dell’ambiguità del linguaggio cinematografico. E da questo
lo stesso Pasolini concludeva che il cinema, diversamente dal linguaggio scritto e parlato
può servire sia al discorso estetico che a quello scientifico. Chi fa documentari e chi fa ricerca
empirica è quindi costretto a confrontarsi, mescolarsi, contraddirsi nel tentativo di inoltrarsi
in una qualsiasi realtà. Una ricerca, così come un documentario, corrisponde sempre ad uno
sconfinamento. Se non è così, semplicemente non è.
Concrete Island, si diceva. Tralasciando dettagli significativi come la Jaguar e l’amante, Robert
Maitland potrebbe essere ognuno di noi, con uno sguardo: “abituato a guardare soltanto ciò
che cerca”, come sostiene causticamente Ballard. Questa espressione ci riporta in una battuta
l’intera lezione del costruttivismo radicale (Von Foerster 1984, Von Glasersfeld 1988): la
nostra osservazione costruisce il mondo e i suoi significati attraverso una continua opera di
selezione di qualcosa dal suo sfondo. “La forma è quando il fondo risale in superficie” diceva
Victor Hugo ed è così che il nostro sguardo dà forma al mondo, distinguendo qualcosa da
qualcos’altro. Da questa prospettiva, perde di interesse l’opposizione tra soggettività e oggettività o tra realtà e finzione che ha spesso impegnato tanto coloro che si occupano di cinema
(e di immagini in generale) quanto quelli che sono impegnati nel fare ricerca sociale. Fino
Vittorio Iervese
Vittorio Iervese è ricercatore in
Sociologia dei Processi Culturali
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e
Reggio Emilia. Da tempo si occupa,
tra le altre cose, di lavoro con e
sulle immagini, in particolare di sociologia visuale e di documentari. È
membro del comitato scientifico e
di selezione del Festival dei Popoli
(www.festivaldeipopoli.org).
[email protected]
37
39
a qualche anno fa, infatti, si tendeva a reclamare dal documentario un approccio “scientifico”. Si riteneva da molte parti che il documentario, per raggiungere quel grado minimo di
oggettività che lo rendesse attendibile, dovesse spogliarsi della soggettività e abbandonare
ogni “seduzione formale”, come si diceva allora (Frosoli 2002). Così come Kierkegaard aveva
teorizzato il famoso aut aut tra estetica ed etica, così nel campo degli studiosi si presupponeva un aut aut fra qualità estetica e qualità scientifica. In realtà, la macchina da presa,
erroneamente feticizzata come mezzo di riproduzione neutrale (qui sta l’equivoco dell’oggettività) è invece in tutto e per tutto un mezzo di produzione. Essa (ri)produce squarci di reale
soltanto se viene problematizzata e le si chiede di rispondere a delle questioni (ib.). Pertanto,
alla vocazione constativa e accertativa del documentario se ne aggiunge quasi sempre una
seconda, di natura chiaramente interpretativa (Basso 2002). Il discorso sul rapporto tra
documentario e ricerca sociale si sposta allora su un piano metodologico, ovvero sulle forme
e gli ordini dell’osservazione.
DUE. È il 1966 quando l’ingegnere e tecnico del suono francese Pierre Schaeffer nel Traité
des objets musicaux definisce per la prima volta la musique concrète, una musica “costituita
da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o
musica tradizionale. Questi elementi sono poi composti in modo sperimentale mediante una
costruzione diretta che tende a realizzare una volontà di composizione senza l’aiuto, divenuto
impossibile, di una notazione musicale tradizionale”. Schaeffer sosteneva così di non fare
musica, ma documentazioni sonore costruite secondo la regola aurea: “Prima trovare, Poi cercare”. Si tratta di una provocazione metodologica di grande importanza tanto per la musica
e l’arte in generale, quanto per la scienza contemporanea. Schaeffer si muove infatti come
un ricercatore o un documentarista che raccoglie materiali non secondo una partitura o un
ordine imposto da una tesi da dimostrare. Si tratta allora di farsi guidare dal caso, dall’intuito
o semplicemente di procedere alla cieca? Niente di tutto ciò. La fenomenologia dell’udibile di
Schaeffer si articola sull’intenzionalità percettiva del sentire, sulla definizione fenomenologica dell’essenza del suono, sulle modalità di organizzazione dei suoni. In altri termini, sulle
forme e gli ordini della costruzione del suono che necessitano di essere consapevoli delle
selezioni che si compiono e di quelle che rimangono sullo sfondo. Senza entrare nel merito
del complesso dibattito che stimolò questa proposta (Lévi-Strauss, Adorno) mi preme qui
sottolineare come sia nuovamente il problema del trattamento della realtà, piuttosto che
della restituzione del reale a motivare la svolta elettronica e quella concreta in particolare.
Una svolta che non si esaurisce nella musica ma le cui conseguenze possono essere facilmente rintracciate in tanti fenomeni contemporanei. Lo stesso Schaeffer estese le sue ricerche
all’ambito audio-visuale fondando il CICV, un centro internazionale per la ricerca e la creazione nel settore delle nuove tecnologie applicate all’immagine, al suono e alla comunicazione.
La lezione più importante del CICV è stata quella di affermare il valore intrinseco della realtà
(sonora e visuale) che assume senso soltanto nel processo di denaturizzazione e ricontestualizzazione degli “oggetti” tratti dal reale. Parafrasando la famosa espressione di McLuhan
(che lui stesso parafrasava volentieri) si può affermare che: “il medium è il missaggio”, ovvero
che è la selezione, composizione, giustapposizione, ricontestualizzazione degli elementi a
definire una composizione, un ordine possibile ma non necessario.
TRE. Quanto finora detto, mi porta ad osservare che anche la ricerca sociale è in definitiva
descrivibile come una combinazione di: 1) programma e 2) montaggio. Con il primo termine
mi riferisco precisamente a quel complesso di condizioni di correttezza delle operazioni
che identificano le aspettative scientifiche (Luhmann 1984). Mentre il secondo va inteso
come assemblaggio e combinazione di elementi preesistenti, raccolti secondo procedure
metodologicamente definite (Denzin e Lincoln 2003). Pertanto, si può considerare ogni
metodologia come un programma che indica le condizioni di correttezza delle operazioni di
ricerca, e in base a questo permette di valutare il grado di coerenza interna (autoreferenza) e
il rapporto con la teoria (eteroreferenza).
Dalla teoria di riferimento si trae quindi, in primo luogo, l’attenzione nei confronti dei
processi di costruzione dei significati tanto di chi viene osservato quanto di chi osserva e
l’esigenza di programmi in grado di dirigere l’osservazione. È proprio questo il punto su cui si
concentrano le più recenti riflessioni
sulla metodologia della ricerca
“La forma è quando il fondo risale in superficie” diceva
sociale, le quali, sulla scorta di un
Victor Hugo ed è così che il nostro sguardo dà forma al
mondo, distinguendo qualcosa da qualcos’altro. Da questa
corposo dibattito interdisciplinare,
prospettiva, perde di interesse l’opposizione tra soggettività
definiscono la ricerca sociale
e oggettività o tra realtà e finzione che ha spesso impegnato
come un’attività di “interpretative
tanto coloro che si occupano di cinema (e di immagini in
bricolage” che “(…) stress how
generale) quanto quelli che sono impegnati nel fare ricerca
social experience is created and
sociale.
given meaning” (ib.).
Questo ragionamento si fonda, come indicato già da Ballard, su una teoria dell’osservazione
che fa coincidere l’atto dell’osservare con quello della costruzione della conoscenza sulla
realtà. Questa prospettiva costruttivista implica che ogni sistema crei i significati attraverso
operazioni proprie. In questo senso, il compito di chi si occupa di fare ricerca nell’ambito
delle scienze sociali è quello di realizzare altre osservazioni. Ciò significa che quella di
chi fa ricerca non è un’osservazione con un grado di oggettività maggiore delle altre, ma
un’osservazione concentrata sui modi d’osservazione di un altro sistema. Questa attenzione
ai processi di costruzione dei significati implica una metodologia che faccia emergere le
scelte di chi fa ricerca piuttosto che i dati carpiti dalla realtà, che motivi le selezioni effettuate
piuttosto che “misurare” le informazioni raccolte. Se l’attività di ricerca viene considerata una
costruzione di significati, allora la metodologia ha innanzitutto il compito di rendere non
casuali, ma coerenti e trasparenti le scelte compiute dai ricercatori nello svolgimento della
loro osservazione sistematica.
QUATTRO. Interrogarsi sul rapporto tra l’atto del documentare e quello del ricercare
vuol dire allora porsi delle domande sulla metodologia e le aspettative che stanno alla base
di queste procedure. La comunanza sta soprattutto nell’urgenza di ricostruire il senso e i
pattern degli elementi isolati in un percorso di “raccolta dati”. Se, come ho sostenuto sopra,
la ricerca sociale consiste in un’elaborazione di un’osservazione di secondo grado, ovvero
un’osservazione di osservazioni e contemporanemante la definizione di specifiche forme
d’osservazione prodotte dai sistemi osservati, allo stesso modo “non si possono filmare
che dispositivi di rappresentazione” (Comolli 1982). Le distanze e le differenze tra i due atti
risiedono allora soprattutto nel come viene affrontato questo problema. Di solito la “scientificità” aspira ad una rappresentazione che restituisca un ordine riconoscibile del fenomeno
osservato, il cinema (documentaristico) fornisce un magma complesso e sincretico tratto
dal fenomeno che si mette in mostra. Naturalmente, un film stupido lo fa in modo stupido
ma, al di là del valore dell’opera, esiste il fascino di quel sovraccarico di reale che l’immagine
per sua natura, volente o nolente, si trascina dietro. In questo senso, la ricerca ha molto
da imparare dal cinema come dalla musica elettronica, che riescono (quando ci riescono)
entrambi a mantenere la complessità del reale, proponendo all’interprete (leggi spettatore o
ascoltatore) il compito di collaborare a cogliere e rielaborare i tanti aspetti della complessità.
41
Riferimenti
Ballard J. G. (1974) Concrete island, London: Cape.
Basso P. (a cura di) (2002) Vedere giusto o del cinema senza luoghi comuni, Firenze: Guaraldi.
Comolli J.L. (1982) Tecnica e ideologia, Parma: Pratiche Editrice. Denzin N.K. & Lincoln Y.S. (ed.) (2003) The Landscape of Qualitative Research. Theories and Issues, Thousand
Oaks (Ca): Sage.
Luhmann N. (1984) Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt am Main: Suhrkamp.
Pasolini P. P. (1972) Empirismo eretico, Milano: Garzanti.
Scaeffer P. (1966) Traité des objets musicaux, Paris: Seuil.
Von Foerster H. (1984) Observing Systems, Seaside (Ca): Intersystems Publications.
Von Glasersfeld E. (1988) Il costruttivismo radicale. Una via per conoscere ed apprendere, Roma: Quaderni di
Methodologia.
La
lezione
del
vuoto.
Verità estatica ne “L’ignoto spazio profondo”
Alberto Brodesco
“Verità estatica”. La formula suona bene, ha avuto successo. Werner Herzog ne scrive nella
Dichiarazione del Minnesota1, il suo manifesto, al punto 5: “There are deeper strata of truth in
cinema, and there is such a thing as poetic, ecstatic truth. It is mysterious and elusive, and
can be reached only through fabrication and imagination and stylization”.
La distinzione tra documentario e finzione perde così di senso, non è decisiva, diventa obsoleta. Quello che importa è il modo con cui il racconto audiovisivo si relaziona con la realtà.
Per Herzog esiste una forma di conoscenza cinematografica in grado di farci raggiungere il
nucleo profondo delle cose. Un’illuminazione. Il cinema è capace, in qualche sporadico flash,
di rivelarci qualcosa di essenziale riguardo ciò che ci definisce come esseri umani. Cercando
nella realtà qualcosa che ci colpisce per la sua vicinanza al vero, per il fatto che lo sentiamo
profondamente reale.
La verità estatica non si trova nella realtà così com’è. Come dichiara Herzog, va fabbricata,
immaginata, stilizzata. Nelle interviste, gli esempi di verità estatica che Herzog ritrova nei
suoi film hanno a che fare con dei momenti di stallo all’interno dell’inquadratura, con delle
inerziali sospensioni di senso2; oppure con delle forzature della realtà da parte di chi la
racconta, al fine di completare un’esperienza, di caricare di significato quello che sta davanti
alla macchina da presa per toccare nel profondo il cuore e il cervello di chi vede e ascolta3.
1 http://www.wernerherzog.com/main/de/html/news/Minnesota_Declaration.htm.
2 In Kalachakra – La ruota del tempo (2003), quando una guardia del corpo, incaricata di vigilare sul Dalai
Lama, una volta che questi se n’è andato rimane a difendere nessuno da nessun aggressore www.adamgollner.com/file_download/3/ECSTATIC+TRUTH.pdf. O in Grizzly Man (2005), quando il protagonista esce
dall’inquadratura, e il muoversi dell’erba, in sua assenza, sbalza improvvisamente da sfondo a centro della
percezione: www.timeout.com/film/news/901/.
3 Per Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), documentario sull’handicap estremo, Herzog dichiara di aver
scritto delle frasi da far recitare alla protagonista sordo-cieca. Per esempio quella in cui la donna dice: “Se scoppiasse una guerra io nemmeno me ne accorgerei”. In Bokassa. Echi da un regno oscuro (1990) viene costruito
un dialogo fintamente improvvisato tra Herzog e il reporter Michael Goldsmith di fronte a uno scimpanzé
nicotinomane chiuso in una gabbia allo zoo: “While this dialogue and my use of the animal was a completely
scripted invention, the nicotine-addicted monkey itself wasn’t. There was something momentous and
mysterious about the creature and filming it in the way I did brought the film to a deeper level of truth, even if
I didn’t stick entirely to the facts. To call Echoes from a Sombre Empire a ‘documentary’ is like saying that Warhol’s
painting of Campbell’s soup cans is a documentary about tomato soup.” http://www.filminfocus.com/article/
the_ecstatic_truth_of_werner_herzog.
Alberto Brodesco è dottorando in
Studi audiovisivi presso l’Università di Udine. Ha recentemente
pubblicato Una voce nel disastro.
L’immagine dello scienziato nel
cinema dell’emergenza (Meltemi,
2008).
[email protected]
43
La verità, per Herzog, non è “là fuori”, pronta a essere raccolta da chiunque faccia un uso
onesto della videocamera. La verità si ottiene mettendo in moto un processo che ha a che
fare non solo con la raccolta di un dato della realtà ma con la sua elaborazione. In cerca della
verità estatica, il cinema non si ferma ai fatti, alla superficie. Scende al di sotto. Sprofonda.
Sin dal titolo – The Wild Blue Yonder, L’ignoto spazio profondo – si pone in relazione a questo
senso di una ricerca che va oltre, al di là. Herzog definisce L’ignoto spazio profondo una
science-fiction fantasy. Il materiale con cui il film è costruito è questo: video della NASA
(hangar, astronauti nello spazio);
Per Herzog esiste una forma di conoscenza cinematografica filmati subacquei da sotto i
ghiacci dell’Antartide; un uomo
in grado di farci raggiungere il nucleo profondo delle cose.
Un’illuminazione. Il cinema è capace, in qualche sporadico col codino che parla da una
cittadina abbandonata in mezzo
flash, di rivelarci qualcosa di essenziale riguardo ciò che ci
definisce come esseri umani.
al deserto. C’è qualcos’altro, un
breve inserto dei primi voli in aereo, filmati in bianco e nero d’inizio
Novecento. E riprese di foreste dall’alto di un elicottero.
Su queste immagini, monocordi al loro interno e incoerenti tra loro, Werner Herzog
costruisce una storia. Dà la parola all’uomo con il codino, che si presenta come un alieno. È
puro racconto orale, un personaggio che parla in camera. La storia che l’alieno racconta ci fa
leggere quelle immagini nel modo definito dalle sue parole. Le sue didascalie spurie inventano il nostro sguardo. La sua narrazione impone un punto di vista sulle riprese della NASA
e dell’Antartide – riprese che erano “documentarie” fino a un secondo prima che l’alieno ci
mettesse sopra una voce.
L’alieno ci dice di essere discendente di una generazione di extra-terrestri sbarcati sulla Terra
in fuga dal loro pianeta d’origine, Wild Blue Yonder, e poi confusi e integrati tra gli umani. Ci
dice che un giorno una navicella terrestre si è lanciata in un viaggio nell’universo in cerca di
un nuovo pianeta abitabile. Quest’astronave è finita per atterrare su Wild Blue Yonder. Quando, dopo 820 anni, la navicella rientra sulla Terra, la trova disabitata dagli uomini, ritornata
alla sua forma e al suo orgoglio primigenio.
La facilità con la quale l’astronave si muove di galassia in galassia è merito di un vero e proprio miracolo scientifico. Uno scienziato (di cui leggiamo l’e-mail: [email protected])
ci spiega come sono stati resi possibili tali viaggi: chiama la sua teoria “chaotic transport”,
la spiega con dovizia di computer graphics e tecnicismi. Esistono dei “tunnel caotici”, delle
scorciatoie che permettono di saltare da una galassia all’altra sfruttando, come elastici di
una fionda, la forza di gravità dei pianeti.
Il carattere mistico del viaggio è enfatizzato, non sminuito, da questa spiegazione dello
scienziato orientale che parla a nome della NASA. Il tunnel caotico, come la verità estatica, è
un trampolino per arrivare a dei livelli di lontananza e profondità impossibili da raggiungere
con strumenti tradizionali.
Scopriamo però che il duplice viaggio (degli abitanti di Wild Blue Yonder verso la Terra e dei
terrestri verso Wild Blue Yonder) non si è risolto in una conquista. Le identità si sono perse
nel cammino, insieme ai sogni di una ripartenza, di una nuova civilizzazione.
La cosa che sconvolge lo stesso alieno che ci racconta la storia è che sia gli extra-terrestri sia
gli umani, appena arrivano nel nuovo pianeta e ragionano su come stabilirsi, progettano di
costruire un centro commerciale. Ecco in cosa si risolve una ricerca che si spinge oltre l’infini-
to, nell’ignoto spazio profondo. Allora davvero non vale la pena di cercare un altrove.
Quel che rimane è solo il viaggio nel vuoto. Senza gravità, attoniti, nell’astronave gli uomini
fanno esercizi fisici, si infilano nei sacchi a pelo, muovendosi in uno spazio estenuante, che
non dà da fare. Sotto la calotta ghiacciata di Wild Blue Yonder i movimenti sono ugualmente
lenti, l’acqua raggela, la luce che filtra attraverso il ghiaccio è troppo pulita. Si incontra una
fauna acquatica che nuota indifferente alla presenza dell’uomo, per una rotta senza scopo
apparente. Solo una volta una creatura si avvicina, attirata dalla luce. E subito l’astronauta la
respinge.
La costruzione di senso non sta, com’è ovvio, nell’edificazione di malls ma nei gesti di uomini
che hanno imparato a convivere con l’assenza di gravità e il gelo subacqueo. E con una
verità che, lassù, laggiù, giace inaccessibile. Ma come scrive Gershom Scholem del Dio dei
cabbalisti, si può provare l’estasi di un fugace contatto andandola a cercare “nelle profondità
del suo Nulla”.
È con questo che abbiamo a che fare, con l’incorruttibile indifferenza del cosmo, che resiste
ad ogni nostro tentativo di capire, di conoscere. Solamente accettando la lezione del vuoto è
possibile ambire a qualche piccolo lampo di verità, estaticamente inscritta in esso.
The lesson of emptiness.
Aesthetic truth in the “Wild Blue Yonder”
“Aesthetic truth”. The formula sounds good, has been successful. Werner Herzog writes about it in The Min-
45
nesota Declaration1, his manifesto, at point 5: “There
are deeper strata of truth in cinema, and there is such
a thing as poetic, ecstatic truth. It is mysterious and
elusive, and can be reached only through fabrication
and imagination and stylization”.
In this way, the distinction between documentary
and fiction loses its meaning, it is not decisive,
becomes obsolete. What is important is the way in
which the audiovisual narrative is related to reality.
For Herzog there is a form of cinematographic
consciousness that enables one to reach the profound
core of matters. An illumination. Cinema is able to, in
some sporadic flash, to reveal us something essential
regarding that which identifies us as human beings.
It does this by searching in reality for something that
touches us by its vicinity to the truth, because we
experience it as something profoundly real.
Aesthetic truth cannot be found in reality as it is.
As Herzog argues, it has to be fabricated, imagined,
stylized. In the interviews, the examples of aesthetic
truth have to do with moments of suspension internal to the frame, with related inertial postponements
of meaning2; or with the enforcements of reality
by the narrator, in order to complete an experience,
to instill meaning into that which is in front of the
camera, in order to profoundly touch the heart and
mind of the spectator.3
1 http://www.wernerherzog.com/main/de/html/
news/Minnesota_Declaration.htm
2 As it happens in Kalachakra – Wheel of Time
(2003), when a bodyguard – who has to protect
the Dalai Lama – continues to defend nobody from
no one once the latter has left www.adamgollner.
com/file_download/3/ECSTATIC+TRUTH.pdf; or in
Grizzly Man (2005), when the protagonist leaves the
scene and, in his absence, the grass moved by the
wind jumps unexpectedly from the background to
foreground: www.timeout.com/film/news/901/.
3 About Land des Schweigens und der Dunkelheit
(1971), a documentary on an extreme handicap,
Herzog declares to have written lines to be recited
by the deaf and blind protagonist. For instance, the
woman says: “If a war would break out, I would
not even notice”. In Echos aus einem düsteren Reich
(1990) a fake dialogue is constructed, improvised
between Herzog and the reporter Michael Goldsmith
in front of a nicotine-addicted chimp in a cage in the
zoo: “ ‘While this dialogue and my use of the animal
was a completely scripted invention, the nicotineaddicted monkey itself wasn’t. There was something
momentous and mysterious about the creature
The truth, according to Herzog, is not “out there”,
ready to be singled out by anyone who makes a honest use of the video camera. One acquires the truth
by starting a process that has not only to do with the
registration of a fact of reality, but with its elaboration. When in search of aesthetic truth, cinema does
not limit itself to registering facts, at a superficial
level. It goes into the deep. It sinks down.
Not least from the title, The Wild Blue Yonder, this
sense of a quest that goes beyond, that transcends,
becomes clear. Herzog defines The Wild Blue Yonder
a science fiction fantasy. The material for the film is
constituted by the following: film material from the
NASA (hangars, astronauts in space); underwater
shootings from under beneath Antarctic ice; a man
with a pony tail that speaks about an abandoned
town in the middle of the desert. There is something
else too, a brief interlude of the first airplanes’ flights,
early 1900 shootings in black and white, dnd shootings of forests from the bird’s eye view of a helicopter.
On the basis of these images, internally monotonous
and incoherent between them, Werner Herzog
narrates a story. He lets the man with the pony tail
speak, who presents himself as an alien. It is purely
an oral story, a person who speaks into the camera.
The story told by the alien makes us read those images in the way his words defined them. His unreal
subtitles invent our view. His narration imposes a
new point of view on the images of the NASA and
Antarctica – shootings that were just “documentaries”
a second before the alien overdubs them.
The alien claims to be the descendant of a generation
of extra-terrestrials who fled to the Earth from their
planet of origin, the Wild Blue Yonder, and they
subsequently mixed and integrated with the human
beings. He says that one day a small spaceship was
launched from Earth for a journey into the universe,
searching for a new, liveable planet. This ship
wounded up on the Wild Blue Yonder. When, after
820 years, the ship returns to Earth, it found it no
longer inhabited by human beings, and returned to
its original form and pride.
The easiness with which the astronaut moves from
and filming it in the way I did brought the film to
a deeper level of truth, even if I didn’t stick entirely
to the facts’. To call Echoes from a Sombre Empire a
‘documentary’ is like saying that Warhol’s painting of
Campbell’s soup cans is a documentary about tomato
soup”: http://www.filminfocus.com/article/the_ecstatic_truth_of_werner_herzog.
galaxy to galaxy is the result of a real scientific
miracle. A scientist (we can even read his e-mail address: [email protected]) explains us how such
voyages could be realized: he calls his theory “chaotic
transport”, he explains it with an abundance of computer graphics and technicalities. “Chaotic tunnels”
are said to exist, short-cuts that permit one to jump
from one galaxy to another, exploiting, similar to the
elastics of a catapult, the force of gravity of planets.
The mystic character of travelling is emphasized, not
ridiculed, by this explanation of the Asian-American
scientist who speaks in NASA’s name. The chaotic
tunnel, similar to the aesthetic truth, is a springboard
for arriving at levels of distance and profundity that
would be impossible to reach by conventional means.
However, we discover that the dual voyage (of the
inhabitants of Wild Blue Yonder to the Earth, and of
the earthlings to Wild Blue Yonder) has not resulted
in an achievement. The identities have been lost in
the process, together with the dreams of a restart, of
a new civilization.
The aspect that impresses the alien-narrator is that
both the extra-terrestrials and the earthlings right
after their arrival and initial contemplation on their
new life rush to build a shopping mall. This is what
in the end becomes of a quest that pushes us beyond
the limits of the infinity, of unknown, profound space.
That which remains is only a voyage into emptiness.
Without gravity, terrified, humans engage in physical
exercise inside their spaceship, they slide into their
sleeping bags, they move within a tiring space,
without really having anything to do. Beneath the ice
cap of the Wild Blue Yonder, movements are equally
slow, water freezes, the light that filters through the
ice is too weak. One encounters a submarine fauna
that swims without taking notice of the presence
of human beings, on a straight track without any
apparent goal. Only once does a creature come closer,
attracted by the light. And the astronaut immediately
pushes it away.
The construction of meaning does not emerge from,
obviously, the building of shopping malls but from
the gestures of humans who have learned to cohabitate with the absence of gravity and underwater
freeze.
And this leads us to the incorruptible indifference
of the cosmos, that resists any of our attempts to
understand, to know. Only by accepting this lesson of
emptiness it is possible to aspire to some small burst
of truth, aesthetically inscribed into it.
47
“Si riproduce così ancor oggi, per l’etnografo che si rechi nelle aree di sopravvivenza, lo spettacolo di due
mondi, il cristiano e il pagano, che coesistono senza mescolarsi, ultimo avanzo di una grande battaglia
che fu combattuta ma non interamente vinta. […] Questa tenacia di sopravvivenza e questo limite alla
espansione del costume cristiano pongono senza dubbio un problema. Quasi si direbbe che il Cristianesimo ebbe sì la potenza di riplasmare il costume negli strati superiori della società civile […] ma non poté
dispiegare uguale energia plasmatrice nelle campagne. […] Così una lamentatrice lucana di Valsinni
riassunse con inconsapevole esattezza un aspetto non del tutto irrilevante di quel complesso di problemi
sociali, politici e culturali che va sotto il nome di quistione meridionale quando ci disse che nel suo paese
vi erano due modi di patire la morte, quello dei signori che piangono soltanto in cuor loro, e quello
dei “cafoni” che si abbandonano al lamento rituale. […] È il riflesso di una fondamentale precarietà
esistenziale per cui la presenza dispone di una povera memoria retrospettiva e di una angusta coscienza
prospettica di comportamenti culturalmente efficaci”
da Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al
pianto di Maria, 1958.
49
Street photography as
social interaction
Andrea Mubi
Brighenti
Street photographers know quite well that taking a picture is a form of social interaction.
Since the birth of this genre of photography, they have been discussing at length about the
ethical problems involved in taking pictures of personal strangers in public places without
asking permission. Not to speak of legal problems, which have always been present to some
extent (just recall the prohibitions on taking pictures of human beings during war times) but
are becoming more and more relevant in the context of present-day enhanced security paranoia. For instance, in 2008 the UK Home Secretary declared that restrictions on photography
in public places are legitimate (an anti-restriction petition can be found at http://petitions.
number10.gov.uk/Photorestrict/#).
These controversies confirm that what is at stake in taking a picture involves much more than
a mere visual subject-to-object recording or representation of some subjects. Or, to put it
better, these controversies hint at the fact that the visual should be thoroughly reconceptualised, overcoming the myth that the domain of vision constitutes a detached, disembodied
domain. This is a typical modern mythology, which regards vision as a detached gaze whose
nature is essentially epistemic. In fact, rather than being merely a matter of symbols and
representations, visual interaction has a fully ‘haptic’ component. Regards are social forces endowed with a power of ‘making do’ – they are acts that have a grip on bodies: acts of seizure.
Once looking and being looked at are recognised as fundamental social forces, street
photography may prove to be a powerful in vivo observatory for ethnographers and sociologists, not simply because of the represented subjects – which, of course, do often fall within
the interests of urban ethnography and ethnographic research in general – but because of
the whole process of image-taking they entail. This process is an activity that defines and
negotiates the boundaries of visibility and intervisibility of subjects and determines their
coming into social existence through interaction. In short, the visible is the field where social
existence takes place.
On the basis of what just said, what kind of dialogue could exist between sociology and
street photography?
Among the many other considerations to be done, here I would simply suggest two points.
First, on the one hand, street photography invites sociology – and, specifically those sociologists who are more interested in overcoming the ‘avoidance of the concrete’ (Canetti) that
has dominated the discipline for quite a long time – to reconsider the role of the situated
materiality of the visible in social life, enquirying into the nature of the immediate social
Andrea Mubi Brighenti researches
into space, society and power, with
a focus on urban environments.
He has recently published a
monograph in Italian on Migrant
Territories. Space and Control of
Global Mobility (ombre corte,
2009).
[email protected]
51
forces it unleashed. When we look at a picture taken by a street photographer, we gain
direct access to the whole process of social interaction in the urban environment rather than
simply consult ‘a document’. Such wider process is made of a wealth of details that are to be
studied.
Second, on the other hand, sociology invites street photography to reconsider some of its
assumptions. One of the major declared aims of street photography is to get at a subject
who is ‘candid’, in the sense that she is not posing. The philosophy of most street photography is precisely to catch moments
of real life in the immediacy of
Sociologists should not overlook the aspect of materiality,
their taking place in public places.
spatiality and even better territoriality of the social; street
‘Getting to reality’, however, is
photographers and sociologists alike should appreciate the
mythic, because conventions
act of taking pictures and producing photographic evidence
of a slice of street life as a form of social interaction.
of representation are always
involved. Otherwise one could not
tell a good picture from a bad one.
But, even apart from that, a sociological regard on street photography aims to ask larger
questions. For instance, what is actually a ‘pose’? Isn’t posing after all a significant social activity itself (recall August Sander’s portraits)? And isn’t posing an integral part of the ‘presentation of the Self in everyday life’ (Goffman 1959)? There is no possible opposition between
posing and real social life. Rather, because taking a picture creates a social relationship the
very act of taking pictures should be understood in the light of the specific modifications it
introduces into the ‘interaction order’ (Goffman 1983) and its visibility regime.
In summary, taken together, these two reciprocal invitations – of street photography to
sociology and of sociology to street photography – converge towards a crucial enlargement of the field of the visible as a pivotal dimension of social life. Hence, two major points
emerge from my preliminary exploration: first, sociologists should not overlook the aspect
of materiality, spatiality and even better territoriality of the social; second, street photographers and sociologists alike should appreciate (and study) the act of taking pictures and
producing photographic evidence of a slice of street life as a form of social interaction, in
which the issue of the ‘reality’ or ‘realism’ of the product becomes of secondary importance
compared to the richness and the subtleties of the social dynamic that revolve around the
management of reciprocal visibilities in public places.
References
Goffman, E. (1959) The Presentation of Self in Everyday Life. Garden City, N.Y.: Doubleday.
Goffman, E. (1983) ‘The Interaction Order’. American Sociological Review 48(1): 1-17.
Per un uso performativo
delle
immagini
nella ricercaazione sociale
Andrea Membretti
La costruzione sociale della realtà e il ruolo degli spazi e
delle immagini
In sociologia per costruzione sociale della realtà (Berger e Luckmann, 1967) si intende quel
processo intersoggettivo tramite cui gli attori sociali conferiscono un particolare significato
al loro mondo di riferimento, attraverso una continua negoziazione con gli altri di natura
essenzialmente simbolico-culturale. La corrente sociologica dell’interazionismo simbolico
(Blumer, 1969) enuclea tre assiomi fondamentali di questo processo: 1. Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che queste hanno per essi; 2. Il significato
di una cosa per una persona nasce dai modi in cui le altre persone agiscono verso la persona
riguardo la cosa; 3. L’uso dei significati da parte del soggetto avviene attraverso un processo
di costante interpretazione.
Il cosiddetto “Teorema di Thomas” (Thomas e Thomas, 1928), o della “profezia che si auto-avvera”, sintetizza ulteriormente questo ragionamento nei seguenti termini: “Se una situazione
viene definita dalle persone come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze osservabili”.
Nella costruzione sociale della realtà giocano un ruolo fondamentale lo spazio e il territorio,
proprio perché, come sostiene Erving Goffman (1974), ogni esperienza umana è contestuale,
situata: è il frutto di un peculiare rapporto mente-ambiente, dove il primo di questi due poli
riguarda l’identità del soggetto e la sua dimensione cognitiva/emotiva, mentre il secondo
si riferisce tanto al contesto fisico-spaziale in cui avviene l’esperienza, quanto a quello
socio-relazionale. Goffman (1959) sostiene che i rapporti interpersonali possono essere letti
essenzialmente in chiave “drammaturgica”, con ciò intendendo che la vita quotidiana è una
costante “rappresentazione”, in cui gli attori “mettono in scena” personaggi attraverso i quali
negoziano e quindi costruiscono una comune situazione narrativa. Gli effetti durevoli di questa rappresentazione sono condensati nelle identità, individuali e collettive, che per il tramite
di queste interazioni si rafforzano, si trasformano o si indeboliscono, e nei significati attribuiti
a spazi e territori che, in questo modo, diventano luoghi nel senso antropologico del termine.
Non tutti gli attori, tuttavia, hanno lo stesso potere definitorio: c’è chi può determinare, in
misura maggiore o minore, l’“allestimento scenico” e chi invece si trova ad interagire in un
contesto già strutturato; c’è chi riesce ad imporre un “copione” e un certo “registro narrativo”
alla rappresentazione, fondato su determinati codici comunicativi e su assiomi di fondo dati
per scontati, e chi invece deve recitare una parte da altri confezionata, con un linguaggio non
proprio, magari affrontando un processo più o meno agevole di traduzione. Infine ci sono
anche i meri spettatori, il cui ruolo è quello essenzialmente di approvare o meno la rappre-
Andrea Membretti, dottore di
ricerca in sociologia e professore a
contratto presso l’Università di Pavia, si occupa di ricerca qualitativa
e di ricerca-azione, con particolare
attenzione alle tematiche territoriali e giovanili.
[email protected]
www.sociability.it
53
sentazione, a seconda innanzitutto del grado di adesione ad essa, e quindi di immedesimazione, da essi sperimentato.
Dunque in questa prospettiva analitica il significato del mondo che ci circonda è costantemente costruito e ri-costruito attraverso un uso negoziale e intersoggettivo di codici
comunicativi: appare evidente, allora, che in questo processo l’immagine – del sé, degli
altri, dell’ambiente – assume un ruolo fondamentale. La costruzione sociale della realtà
è anche e soprattutto una costruzione (e ri-costruzione/ri-definizione) di immagini,
sociali e spaziali, che sono
L’utilizzo, ma soprattutto la creazione, delle immagini che il condensato di identità, il
può essere fatto con la ricerca-azione si configura come di tipo simbolo di luoghi nonché
performativo, vale a dire atto a creare forme di realtà condivisa, il medium principale della
da intendersi, in senso figurato e in senso filmico, come l’effetto comunicazione stessa. Oggi
emergente di un lavoro collettivo e dialettico, tra ricercatori e più che mai la distinzione
partner coinvolti. tra realtà e immagine della
realtà appare infatti difficile da sostenere: reinterpretando il teorema di Thomas, potremmo
infatti sostenere che “se una situazione viene rappresentata per immagini, e quindi percepita
innanzitutto visivamente, come reale, saranno reali le conseguenze osservabili di tale
definizione”, ovvero tale rappresentazione sarà di natura performativa.
L’uso delle immagini nella ricerca sociale: approccio cognitivo e approccio performativo
L’uso scientifico delle immagini nella ricerca sociale va sotto l’etichetta di sociologia visuale
(Faccioli e Losacco, 2003): con questo termine si intende l’insieme delle tecniche e delle
metodologie che fanno uso di strumenti e di dati audiovisivi per lo studio dei fenomeni
sociali. La sociologia visuale, nata come tale negli anni Sessanta del ‘900 in rapporto iniziale
con l’inchiesta giornalistica e con il reportage socio-etnografico, si basa sull’idea che le
fotografie, i video e qualunque altra rappresentazione iconica e audiovisuale della realtà
possano essere utilizzati all’interno della ricerca sociale. Le immagini sono infatti socialmente costruite e socialmente, storicamente, culturalmente interpretate e interpretabili;
esse costituiscono una “descrizione densa” della realtà (Geertz, 1973), fornendo alla ricerca
sociale informazioni non ottenibili diversamente.
Se l’approccio tipico della sociologia visuale è di natura cognitiva (laddove la raccolta e
l’uso delle immagini di fenomeni sociali è finalizzato a costruire, validare o confutare ipotesi
e teorie esplicative), qui mi interessa invece maggiormente discutere un altro approccio,
sviluppatosi sempre in sociologia e che costituisce un terreno di sperimentazione per la creazione e per l’uso delle immagini, che è quello della ricerca-azione (Lewin, 1946). Si tratta
di una ricerca in cui vi è tanto un’azione intenzionale di modificazione della realtà, quanto
la produzione di conoscenze che riguardano tale modificazione, con l’obiettivo di fornire
un supporto (empowerment) per cambiare condizioni giudicate insoddisfacenti da parte di
alcuni soggetti o gruppi. Nella ricerca-azione l’interpretazione tende dunque a coincidere
con la trasformazione dei fenomeni sociali osservati, in quello che si può chiamare un
processo di costruzione di una realtà condivisa attraverso l’osservazione critica. Il problema
da affrontare non è dato ma invece è costruito, tramite un processo di selezione di una delle
molteplici descrizioni possibili relative ad una situazione: infatti una situazione può sempre
essere ridefinita ed il problema ri-descritto. L’interpretazione della situazione problematica
rappresenta perciò di per sé una modificazione della stessa.
Mi sembra chiaro allora che l’utilizzo, ma soprattutto la creazione, delle immagini che può
essere fatto con la ricerca-azione si configura come di tipo performativo, vale a dire atto a creare forme di realtà condivisa, da intendersi, in senso figurato e in senso filmico, come l’effetto
emergente di un lavoro collettivo e dialettico, tra ricercatori e partner coinvolti, su “inquadrature”, “piani”, “sequenze” , “montaggi”, ecc. L’uso e la creazione dell’immagine, specialmente in
contesti socialmente problematici, costituisce allora un importante mezzo per favorire l’auto
e l’etero riconoscimento delle istanze soggettive e collettive, proprio a partire da un comune
spazio di riferimento, ovvero la loro emersione come elementi dotati di propria fisionomia e
messi in luce da una particolare prospettiva.
L’uso performativo delle immagini nella ricerca-azione:
una forma di empowerment visuale
Da alcuni anni, venendo dalla pratica sociologica dell’inchiesta territoriale e dalla sua ibridazione con progetti di documentaristica sociale, ho iniziato a sviluppare, tramite la collaborazione con alcuni registi e video-maker, un approccio alla ricerca-azione fondato sull’utilizzo
di tipo performativo delle immagini, che mira a fornire le basi per quello che definisco come
empowerment visuale.
Il punto di partenza di questo approccio è costituito dalla reinterpretazione, in chiave visuale,
del teorema di Thomas più sopra proposta, ovvero: “se una situazione viene rappresentata
per immagini, e quindi percepita innanzitutto visivamente, come reale, saranno reali le
conseguenze osservabili di tale definizione”. Questa affermazione attribuisce un notevole
potere definitorio alle immagini e, quindi, ai soggetti che le producono, le manipolano e le
diffondono, pubblicamente o in determinati ambiti sociali. Nei contesti socialmente critici
in cui tradizionalmente si gestiscono processi di ricerca-azione tale potere di definizione
non è però in origine nelle mani dei soggetti interessati dal percorso di ricerca come partner
dell’intervento; al contrario, l’immagine del territorio/spazio di riferimento, così come quella
dei suoi abitanti e dei loro vissuti, è solitamente imposta dall’esterno, spesso come cristallizzazione stereotipata, o comunque è prodotta da parte di soggetti in posizione dominante,
in grado di allestire un palcoscenico mediatico in cui i soggetti depotenziati si trovano a
recitare parti stereo-tipizzate in un ambiente visuale etero-definito. Uno degli obiettivi delle
tradizionali strategie di empowerment, individuale e collettivo, in tali contesti è proprio lo
sviluppo di identità autonome, basate sulla fiducia in sé e nelle proprie capacità, sulla autodeterminazione rispetto alla propria vita e al proprio ambiente socio-spaziale di riferimento
(ri-appropriazione).
Per empowerment visuale intendo allora il frutto di percorsi di ricerca-azione finalizzati in
primis alla redistribuzione, collettiva e a ciascuno, di questo potere definitorio per immagini,
rivolta ai soggetti direttamente interessati dalla ricerca-azione. Si tratta di una redistribuzione
che vede come particolarmente rilevante la dimensione spazio-territoriale, laddove gli attori
coinvolti spesso sono alienati dal proprio ambiente, che vivono come estraneo, oppure come
minaccioso, o ancora come costrittivo, ma soprattutto come in gran parte ignoto, e quindi
fuori dal proprio effettivo controllo, dalla propria capacità di denominazione.
Il nucleo di questo tipo di empowerment è una attività intersoggettiva e negoziale di reframing (ri-tematizzazione/ri-costruzione; Goffman 1974) rispetto ad un contesto socioterritoriale, basata sull’utilizzo dell’immagine e sul suo carattere di “fissazione durevole” della
realtà, atta ad essere comunicata tanto all’interno del gruppo/contesto coinvolto, quanto
all’esterno, nella società più vasta. Un re-framing che mira a mettere in discussione gli assunti
e gli atteggiamenti indiscussi (stereotipi, routine, pratiche consuetudinarie, ecc., con il correlato di relazioni di potere) mediante cui la società nel suo complesso, ma anche i soggetti
55
direttamente interessati hanno fino a quel momento “etichettato” la situazione stessa e gli
attori in essa coinvolti. Un re-framing che costituisce dunque la selezione partecipativa di
una delle molteplici descrizioni possibili relative ad una situazione, frutto della negoziazione
consapevole tra gli attori inseriti nel percorso di ricerca-azione e finalizzata a produrre un’immagine condivisa della propria realtà.
Nei progetti di ricerca-azione che ho condotto in questi anni tramite l’uso performativo
dell’immagine (http://www.sociability.it/?page_id=21) i partner coinvolti – ad esempio
una comunità zigana di sinti, oppure alcune classi scolastiche, o ancora i membri di una
società operaia di mutuo soccorso – sono diventati dunque attori di un processo partecipativo, tramite cui si è mirato a cambiare la percezione che questi soggetti avevano di sé e del
proprio ambiente e quella che di loro aveva la società circostante: se, riprendendo Blumer,
“gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che queste hanno
per essi”, oggi tali significati appaiono sempre più legati alle immagini che li veicolano. La
redistribuzione del potere definitorio tramite immagini, allora, si configura come una potenzialità ricca di ricadute in termini di azione concreta e di trasformazione dell’esistente.
Riferimenti
Berger, P., T. Luckmann (1967) The social construction of reality. New York: Doubleday.
Faccioli, P., G. Losacco (2003) Manuale di sociologia visuale. Milano: Franco Angeli.
Geertz, C. (1973) The interpretation of cultures. New York: Basic Books.
Goffman, E. (1959) The Presentation of Self in Everyday Life. Garden City, N.Y.: Doubleday.
Goffman, E. (1974) Frame analysis: An essay on the organization of experience. New York: Harper & Row.
Lewin, K. (1946) “Behavior and development as a function of the total situation”, in L. Carmichael (ed.) Manual
of child psychology. New York: Wiley.
Thomas, W.I.,D.S. Thomas (1928) The Child in America. New York: Knopf.
57
“Pastanera” e “I treni
della
felicità”
Un progetto parallelo di storia e cinema
Giovanni Rinaldi
Negli anni ’50, in un’Italia distrutta dalla guerra, dove l’inflazione era arrivata alle stelle e il
lavoro era quasi inesistente, persone con un profondo senso morale, superando ostacoli e
difficoltà di natura economica, materiale e psicologica, diedero inizio ad un movimento di
solidarietà popolare e nazionale con lo scopo di ospitare in famiglie di lavoratori ed operai
del Nord e del Centro Italia, dove il tessuto sociale aveva maggiormente resistito, i bambini
delle regioni maggiormente colpite dalla guerra. Una grande esperienza popolare che aiutò,
grazie ai “treni della felicità”, circa 70.000 bambini, facendogli vivere, dal 1946 al 1952, con
l’adozione familiare, un’infanzia meno dolorosa.
Tutto iniziò nell’autunno del 1945 con l’invio di migliaia di bambini milanesi e torinesi in
Emilia, poi con i bambini di Roma, Cassino, Frosinone, Napoli e la Sicilia. E proprio sulla scia di
questo grande movimento nato per iniziativa di associazioni femminili, come l’UDI (Unione
Donne Italiane), e dei partiti di sinistra, abbiamo voluto raccontare la storia e le storie di tanti,
spesso invisibili, protagonisti di questo movimento di solidarietà democratica e di un pezzo
di storia del nostro Paese non ancora conosciuto.
Questa è la storia sulla quale chi scrive e Alessandro Piva, regista, hanno deciso nel 2002 di
lavorare, con l’obiettivo di realizzare un documentario che la raccontasse, facendo parlare i
protagonisti che l’avevano vissuta.
L’Italia a cui ci siamo riferiti è quella della memoria e del presente, il Paese dello sfruttamento
e della rivolta, l’Italia agricola di sessanta anni fa, quella della terra (zappa, fatica, pelle arsa
dal sole) e quella del cielo (creatività, festa, rito, simbolo, sogno). Un Paese dal quale tanti
emigranti sono partiti in cerca di fortuna e che oggi è meta agognata di tanti immigrati.
L’Italia divisa tra dialetti e tradizioni diverse fra loro, ricca di storie apparentemente “locali” che
hanno in sé tutte le ragioni, le emozioni e i segni arcaici delle culture del mondo.
Quali tracce hanno lasciato i braccianti, i contadini e gli operai italiani nella cultura e
nell’identità nazionali? Quali intrecci, tra movimenti di massa ed esperienze personali, hanno
portato ad incontrarsi comunità del sud e comunità del nord sulla base di ideologie comuni o
piuttosto di sentimenti di solidarietà e apertura culturale?
La rievocazione per immagini e parole che abbiamo realizzato, ha provato a rappresentare,
al di là dei fatti particolari cui si riferisce, uno spaccato contemporaneo delle condizioni del
Paese nel periodo determinante della storia nazionale. Questo grande movimento solidaristico di massa, pur nato in seguito ad avvenimenti eccezionali ormai lontani e irripetibili,
contiene non solo elementi storicamente interessanti, ma intuizioni universalmente valide
Giovanni Rinaldi è ricercatore
indipendente di storia orale,
grafico, fotografo e organizzatore di
eventi culturali. è direttore dell’associazione Casa Di Vittorio.
[email protected]
www.giovannirinaldi.info
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e stimolanti come la solidarietà e l’unione tra Nord e Sud per un fine comune: la salvezza
dell’infanzia più disagiata per assicurarle un avvenire migliore; il desiderio di una diversa e
più umana qualità della vita e il nuovo ruolo sociale svolto dalla famiglia all’interno di una
società rinnovata; la partecipazione diretta delle masse popolari.
È l’Emilia Romagna al centro di questa grande campagna di solidarietà che accoglie i
figli dei braccianti e degli operai, dei partigiani e dei soldati morti in guerra. Al termine
dell’accoglienza rimaneva spesso però anche la difficoltà del ritorno dei bambini alla realtà
dura d’origine e la dolorosa
scelta di alcuni di rimanere
L’Italia a cui ci siamo riferiti è quella della memoria e del pre- nella nuova realtà sociale
sente, il Paese dello sfruttamento e della rivolta, l’Italia agricola scoperta. Abbiamo racdi sessanta anni fa, quella della terra (zappa, fatica, pelle arsa contato le vite parallele
dal sole) e quella del cielo (creatività, festa, rito, simbolo, sogno). delle famiglie meridionali e
settentrionali accomunate
da un’esperienza concreta
di “fratellanza”, con il mantenimento sino a oggi dei rapporti di amicizia e di scambio tra
queste nuove “famiglie allargate”.
Il percorso di creazione della sceneggiatura del documentario, Pastanera, è partito dal lavoro
di ricerca storico e dalle storie personali, dalla narrazione orale di tanti protagonisti, dalla
“letteratura materiale” raccolta con incontri privati e pubblici. Se la storia orale è stato il
metodo di riferimento storico-antropologico per l’individuazione di figure umane, di fatti e
forme di comportamento e autorappresentazione, la creatività artistica è stato il miscelatore
delle “icone” antropologiche definite dalle microstorie per la creazione di una storia tra le
storie.
Il lavoro di studio, raccolta, individuazione di fonti e comparazione di forme e contenuti,
svolto in forma scientifica e rigorosa, è stato continuamente verificato con la testimonianza
dei protagonisti, articolandosi come modello di laboratorio della memoria, museo non
statico, “evento” dinamico e flessibile che inserisce nel processo di acquisizione dei materiali
un metodo collettivo di gestione della memoria. I prodotti finali – il documentario e il libro
– ne saranno la sintesi creativa e artistica: alcune delle diverse interpretazioni possibili dei
frammenti di memoria che, come in un domino, si sono collegati sul piano di lavoro.
Per quanto riguarda la raccolta di interviste, il primo obiettivo è stato quello di raccogliere
informazioni sullo svolgimento dei fatti, l’entità e i modi del coinvolgimento popolare, gli
aspetti organizzativi, l’immagine residuale che di quelle storie è rimasta nella memoria dei
protagonisti. Il secondo obiettivo è stato di raccogliere vere e proprie autobiografie con totale
libertà per gli intervistati di raccontare il proprio vissuto, la propria immagine del mondo, i
momenti quotidiani della propria vita in quella particolare circostanza (il cibo, i rapporti tra i
sessi, i rapporti familiari); il terzo obiettivo (per i testimoni ospitati al nord) quello di cogliere
differenze e affinità con le culture eventualmente incontrate nel viaggio in Emilia e le altre
regioni ospitanti.
Nel documentario le storie personali, le fotografie, i racconti si sommano in maniera più
libera e “caotica” rispetto al soggetto e all’iter narrativo del libro. Fa da sfondo la raccolta e la
sistemazione dei materiali acquisiti (fotografie, filmati, interviste, poesie, canti, manoscritti
ecc.), delle esperienze affrontate (assemblee pubbliche, raccolta di materiali della memoria
attraverso richieste pubbliche, filmati di repertorio), l’uso di metodi diversi e interdisciplinari
utilizzati (la cultura del vestire, del cibo, delle tecniche del lavoro, della festa, della narrazi-
one). Si è realizzata così, già prima dei prodotti finali, una documentazione complessiva che
consente l’eventuale produzione di altri prodotti editoriali (catalogo fotografico, CD-ROM,
DVD interattivo), allestimenti espositivi (mostra fotografica con testi e audio), eventi spettacolari (musica e teatro). Gli stessi materiali espositivi e multimediali potranno essere utilizzati
in funzione didattica realizzando esperienze di laboratorio e interventi nelle scuole.
La macchina da presa del cineasta si è piegata alle esigenze della ricerca storica, seguendo le
interviste sui tempi lunghi del racconto autobiografico. I narratori non sono stati spinti dalle
domande incalzanti, come spesso avviene nei reportage giornalistici, che quasi tolgono il
respiro alla narrazione. Il lavoro di taglio e montaggio successivo ha ricollocato frammenti e
divagazioni in un quadro rappresentativo decifrabile ed emotivamente efficace.
Al contrario, nel testo scritto (I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie)
l’analisi del ricercatore ha sopperito alle carenze di immagine e di contesto ambientale, con
la descrizione di particolari, modalità d’incontro e individuazione di testimoni e luoghi della
ricerca, attingendo alla memoria delle immagini registrate, trascrivendo le parole e rielaborandole, osservando attentamente le riprese, provando a ridisegnare le parole sulla carta.
Il racconto si è quindi spontaneamente sostituito al saggio storico, inizialmente previsto,
rivivendo i momenti dell’incontro con i protagonisti degli eventi, ripercorrendo le tappe di un
viaggio alla ricerca di storie e di immagini. Provando anche a raccontare non solo i soggetti
che avevamo di fronte, ma anche noi stessi con i diversi “attrezzi” che ci hanno consentito di
diventare testimoni a nostra volta di storie prima sconosciute.
In un precedente lavoro di ricerca, pubblicato ne La memoria che resta. Vita quotidiana, mito
e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia (G. Rinaldi e P. Sobrero, Edizioni Aramirè, Lecce
2004), era il registratore magnetico che fissava le parole, i rumori, i suoni, costruendo un
“paesaggio sonoro” che andava poi trascritto, ricordando quello che si era provato e vissuto
durante l’ascolto, nello scambio tra ricercatore e intervistato. Oggi, con la videocamera, è
il “rivedere”, fermandosi, rallentando, scorrendo velocemente, che permette di raccontare
e descrivere atteggiamenti, sguardi, emozioni, tentennamenti, sottolineature. Anche la
trascrizione fedele del racconto registrato diventa quindi parziale, indecifrabile, e solo la
narrazione di tipo letterario ci riconsegna l’esperienza del testimone, mai solitaria e sempre
collettiva (testimone e ricercatore).
Il racconto cinematografico, a sua volta, ha avuto bisogno del narratore (il ricercatore) per
collegare le diverse testimonianze raccolte in luoghi e contesti diversi. Alla fine i due prodotti
si sono affiancati, rimanendo differenti. Costruiti insieme nella prima fase di raccolta in
viaggio, per poi ricostruirsi separatamente, ognuno seguendo i canoni del proprio linguaggio
specifico.
61
Pratiche
narrative.
L’esperienza del Laboratorio Urbano
Aperto in Salento
Laura Basco
L’esperienza di ricercazione del LUA (Laboratorio Urbano Aperto)1 è iniziata con una e-mail
fatta girare da un nucleo di giovani salentini, tre architetti – legati alla facoltà di architettura
di Firenze – e una sociologa.
L’invito a partecipare a un laboratorio urbano di esperienze conoscitive, che aveva l’obiettivo
di mettere a confronto diverse riflessioni sull’identità del piccolo paese di San Cassiano, a
partire dal contatto con gli abitanti, era diretto ad un piccolo gruppo di amici e conoscenti
che, giorno dopo giorno – tramite il web e il passaparola – è aumentato spontaneamente
fino ad radunare il 3 agosto 2003, giorno di apertura del primo laboratorio, ben 61 persone di
diversa provenienza. “Qualcuno che faceva base a San Cassiano, durante i due mesi precedenti, aveva stampato e fotocopiato l’invito e ne parlava ogni sera al bar... Questa cosa suscitava
un certo interesse e una crescente aspettativa”2.
San Cassiano è un paese di 2.223 abitanti nella provincia di Lecce. Centro periferico nel territorio disperso del Salento meridionale, o delle Serre. Nell’agosto del 2003, in un intervallo di
tempo di circa una settimana e in una porzione di spazio all’interno di tre coordinate spaziali,
il LUA prende la forma di un evento estivo.
Il desiderio del piccolo gruppo di promotori era “fare qualcosa per il nostro territorio cercando
di mettere a frutto le esperienze fatte durante gli anni universitari”. Il tema scelto per quel
primo anno era l’identità: “un tema che voleva essere una chiave di accesso per analizzare un
luogo ed un territorio privo di emergenze e di attrattive, fuori dai circuiti abituali del turismo.
Volevamo capire il luogo con e attraverso gli abitanti”3.
L’8 agosto vengono presentate ventiquattro ricerche, frutto di cinque giorni di laboratorio
residenziale e di due mesi di discussioni in rete. La strada principale del paese, chiusa al traffico per l’occasione, diventa lo scenario delle installazioni e quando in alcuni casi, per lavori
che necessitavano ambienti più raccolti di fruizione, si chiese di poter utilizzare gli ambienti
interni delle abitazioni “le signore di via Roma ci hanno prestato i loro soggiorni, le ‘stanze
de nanzi’, ovvero le stanze che affacciano sulla strada. Le hanno pulite, le hanno messe in
mostra, era come se aprissero la propria casa a tutti”4.
1 Il gruppo promotore del LUA è formato in parte da persone del luogo e in parte da soggetti esterni, radunati
sotto il nome di Labdue: Valentina Battaglini, Juri Battaglini, Antonella Fino, Gaetano Fornarelli e Mauro Lazzari.
2 Intervista a Mauro Lazzari, eseguita dall’autrice.
3 Intervista a Juri Battaglini, eseguita dall’autrice.
4 Intervista a Mauro Lazzari, eseguita dall’autrice.
Laura Basco, architetto, dottore di
ricerca in Urbanistica e Pianificazione Territoriale, è esperta
di processi di sviluppo locale e
partecipazione. Nella sua tesi di
dottorato – Quando la comunità è
il planner. Pratiche di autogestione
urbana e strumenti conviviali – si è
occupata dell’esperienza del LUA, a
cui partecipa attivamente dal 2003.
[email protected]
http://laboratoriourbanoaperto.
wordpress.com/
63
Da allora, il LUA, durante l’anno, tesse la trama, il sottotesto del dialogo e dell’incontro tra
artisti invitati ed abitanti, su cui si auto-organizza il laboratorio estivo. Le ricerche vengono
esibite nel giro di una serata, a chiusura del ciclo del laboratorio, durante la quale il paese si
scopre nel lavoro dei gruppi e si apre ai visitatori.
Il LUA è un processo che consta di tre tappe principali di produzione: una fase di pianificazione in cui si decidono il tema e i contesti e si diffonde il progetto attraverso i media più
opportuni; il momento in cui il laboratorio prende vita, con lo svolgimento delle ricerche partecipate; la fase finale, quella della mediatizzazione del processo, che parte dalle installazioni
nello spazio fisico e arriva alla raccolta dei materiali e la successiva pubblicazione.
L’occasione per i partecipanti di mostrare il proprio lavoro si intreccia con la possibilità per il
paese di mettersi in mostra, esponendo e condividendo i propri memorabilia, in un gioco di
temporanee poliappartenenze: gli artisti diventano abitanti e viceversa.
La parola tedesca Ausstellung, esposizione – letteralmente ‘mettere fuori’ – aiuta a descrivere
la situazione che si produce in quei giorni: le strade, le piccole corti e alcune stanze che affacciano sulla strada si animano di suoni e visioni di un territorio rivisitato, nel senso di “pensato
come forma aperta a ciò che sarà”5.
Non è facile quantificare il numero di abitanti che hanno partecipato in maniera attiva: “alcuni hanno realizzato una vera e propria ricerca con persone che venivano da fuori, altri hanno
partecipato all’organizzazione pur non capendo bene i ritmi o il perché si faceva una cosa e
non un’altra, altri invece hanno partecipato in forma più passiva, nel senso che l’ultimo giorno sono venuti e ci hanno aiutato ad allestire gli spazi”. Si crea una sorta di cortocircuito: gli
abitanti sono coinvolti avvicinandosi gradualmente alle pratiche di laboratorio che coinvolge
architetti, sociologi, esperti in comunicazione, laureati in beni ambientali, musicisti, registi
agronomi, un carabiniere, un dipendente dell’aereonautica militare, fotografi, giornalisti,
un pittore, un operaio Enel, un sarto-stilista, un coltivatore diretto, casalinghe e pensionati.
La scelta di utilizzare la strada come spazio espositivo, oltre a porre in relazione le singole
ricerche, lette come parte di un unico sistema, ricrea “l’ambito pubblico come spazio di
cooperazione o di comunicazione che è un prerequisito tanto per il lavoro quanto per l’arte.
Entrambi si risolvono in attività senza prodotto che hanno bisogno di essere svolte di fronte
ad un pubblico”6.
Forme espressive privilegiate, che rendono possibile la restituzione in breve tempo delle
ricercazioni del LUA sono: installazioni, film, video, progetti collettivi, performance. Tutti
strumenti che fanno emergere significati inconsci, nuove realtà o nuove interpretazioni della
realtà, trasformando l’evento espositivo in un percorso di crescita e di presa di coscienza delle
dinamiche della vita quotidiana e dell’azione individuale all’interno di un contesto sociale
collettivo. Gli effetti determinati dalle modalità di ricerca del LUA si manifestano al termine
del laboratorio: “Abbiamo avuto un atteggiamento di scoperta volta per volta del tema,
ognuno con i propri mezzi espressivi”7.
L’atteggiamento o la relazione che viene intessuta con gli abitanti è di tipo maieutico: “Se
vivere è imparare ad adattarsi adattando, l’invenzione e l’impiego di un nostro nuovo potere
costituiscono la creatività, la quale ha la stessa origine del verbo crescere: connettere il
preesistente in modo nuovo, concepire, suscitare generando. Chi asservisce non sa, non può
5 L. Decandia , Anime di luoghi, Franco Angeli, Milano, 2004.
6 Intervista a M. Scotini di E. Vannini, in Aroundphotography n. 5, aprile giugno 2005, pp. 56 -57.
7 Intervista a Juri Battaglini, eseguita dall’autrice.
costruire la città, la politica”8.
Le pratiche artistiche portate avanti dai gruppi di ricerca operano un recupero simbolico
emozionale teso a “costruire un nuovo modo di sentire e di agire; far nascere una nuova consapevolezza è un processo complesso e in quanto tale è necessario aiutarlo con una pratica
maieutica. Fare evolvere la conoscenza, l’intuito e la creatività, che possono aiutare a crescere
in autonomia e dare origine a modi di vivere e di agire responsabili, è il compito indifferibile
del nostro tempo. In questa prospettiva delineata dalla riflessione di Dolci, il comunicare
autentico, l’esperienza maieutica, sono fattori profondamente influenti sul processo di
evoluzione collettiva”9.
Con la libertà che consente di attraversare le memorie e non costruire identità fisse e ruoli che
bloccano il divenire, dal 2003 a oggi il laboratorio è diventato una tappa di un avvicinamento
graduale alle problematiche e alle dinamiche demografiche del territorio, che a partire dagli
anni ’60 hanno visto una battuta d’arresto della crescita della popolazione e la partenza
dapprima di braccianti, artigiani e operai ed in tempi più recenti dei cosiddetti “cervelli
emigranti”.
I racconti e le memorie raccolte ruotavano soprattutto intorno a quella che era la terra di
lavoro della maggior parte degli abitanti di San Cassiano: i Paduli, un immenso bosco di
ulivi di pertinenza di 11 comuni che, perduta la sua vocazione di latifondo produttivo, è oggi
un insieme di proprietà frammentate, una sorta di giardino di casa, della stessa natura dei
Kleingarten che circondano le grandi città tedesche. Le persone conoscono i Paduli: alcuni
8 D. Dolci, Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, Firenze, 1997, p. 43.
9 C. Mazzoleni,”La relazione società e ambiente in una prospettiva maieutica: incontro con Danilo Dolci”,
Cronache Ca’ Tron, n. 9, 1997.
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solo perché li costeggiano tutti i giorni in automobile mentre vanno al lavoro, altri perché vi
hanno lavorato per un lungo periodo di tempo. Alcuni sono in grado di muoversi liberamente
nel dedalo di strade asfaltate, viuzze di campagna, sentieri nascosti e percorsi fra gli alberi,
mentre altri avrebbero difficoltà a ritrovare la strada del ritorno. Qualcuno possiede appezzamenti di terreno di estensione considerevole, qualcun altro solo pochi alberi di ulivo. Per
alcuni è una zona produttiva o una fonte di reddito, per altri un investimento infruttuoso, per
altri ancora una zona dove fare escursioni; per qualcuno infine un posto pericoloso dove è
meglio non inoltrarsi.
Dal 2005 il LUA si concentra su quest’area e nel 2008 al laboratorio viene dato il titolo di
Maledetti Paduli, richiamando le imprecazioni che gli anziani, ricordandosi il periodo di duro
lavoro, ancor oggi le riservano. Sono stati prodotti tre video10, diversi tra loro ma che sintetizzano lo spaesamento e le potenzialità assopite di questa terra quasi abbandonata. Il primo,
Fimmine Fimmine, è nato dall’incontro di una piccola troupe di videomakers con il gruppo del
Circolo delle Donne di S.Cassiano, che in occasione del LUA aveva fatto una preziosa opera
di recupero e reinterpretazione dei canti popolari tradizionali di questa zona del Salento. Si
tratta di canti d’amore legati ai momenti della raccolta delle olive e del tabacco nei Paduli,
lavoro tramandato a memoria attraverso un’oralità recuperata e rivisitata con pazienza e una
punta d’orgoglio. Nel video si mescolano la realtà delle case di alcune donne ed i racconti
delle sensazioni ed esperienze che i singoli canti, attraverso testi e atmosfere, rievocano loro.
Il secondo video, Un giorno ai Paduli, è la restituzione di 24 ore passate all’interno dell’area:
una videoricerca che mette in luce il micromondo percettibile di rumori, suoni e luci che
abita un’area apparentemente abbandonata e uguale a se stessa. Il terzo lavoro, Benedetti
Paduli. Idee e proposte per una conversione sostenibile dei Paduli, è la visione futuribile delle
potenzialità dell’area. “L’obiettivo – dicono gi autori – era formulare una proposta per
un contenitore di quei suggerimenti che abbiano fini propositivi ed impieghi diretti nella
rivitalizzazione dei Paduli”. Un lavoro per comunicare un progetto di trasformazione dell’area,
che usa le tecniche di proiezione e di montaggio, riconsegnando agli abitanti e agli spettatori
paesaggi di futuri realizzabili.
Le pratiche narrative che utilizzano lo strumento video all’interno di una situazione partecipata come quella del LUA innescano e indirizzano una ricerca di significati all’interno di uno
spettro di significati possibili, permettendo di coniugare la realtà al congiuntivo e di riflettervi
in termini di passato, presente e futuro.
10 Tutti i video ed i nomi degli autori si possono trovare presso: http://maledettipaduli.blogspot.com,
http://laboratoriourbanoaperto.wordpress.com.
Gomorra: sguardo neoepico e
malocchio
della ricerca sociale.
Transdisciplinarietà di un oggetto narrativo non identificato
Claudio Coletta
Tra i sommovimenti generati da Gomorra c’è anche quello che ha investito il mondo della
ricerca sociale1. Nella rivista Etnografia e ricerca qualitativa Alessandro Dal Lago2 definisce
l’opera un “feuilleton con venature etnografiche”, mentre Domenico Perrotta3 insiste sul suo
carattere “autoetnografico”, distinguendo tra inchiesta letteraria, che fa leva sulla descrizione trasfigurata di un mondo, e ricerca sociale, che lega la descrizione alla ridefinizione un
impianto teorico e metodologico. L’accoglienza sembra piuttosto tiepida, ma ciò non deve
meravigliare: se l’atteggiamento degli studiosi nei confronti del romanzo di Roberto Saviano
assomiglia più a quello di un patologo che conduce l’autopsia di un alieno che a quello di un
sociologo alle prese con qualcosa di tremendamente affine, è perché Gomorra rappresenta
a tutti gli effetti un fenomeno inedito nella scena socioculturale italiana. Eppure, come
intendo sostenere, la peculiarità di Gomorra non risiede soltanto in ciò che il romanzo è, ma
soprattutto in ciò che il romanzo fa. Il modo in cui quel testo si compone, agisce e fa agire
presenta numerose affinità con la ricerca qualitativa e apre il campo a un ragionamento sulla
sua capacità performativa.
È utile in questo senso partire dalle categorie di feuilleton e autoetnografia proposte dai due
studiosi, considerate stavolta come concetti di cui rendere conto invece che come categorie
esplicative. Da una parte dunque, la formula seriale e tipicamente popular del romanzo d’appendice le cui nobili origini risalgono tra gli altri ad Alexander Dumas, Eugène Sue e Honoré
de Balzac. Il genere del feuilleton si distingue per la relazione stretta tra pratica di scrittura e
pratica di lettura, per la capacità di toccare il cuore ed entrare in risonanza con la memoria e
l’esperienza di chi legge4. Dall’altra, la complessità sfuggente dell’io narrante che si oppone
al riduzionismo soggettivo e compone la sua individualità come luogo di tutti i rapporti5,
autobiografia di un mondo corale.
In questo senso, Gomorra è ben oltre Roberto Saviano: impossibile attribuire all’autore la
1 Desidero ringraziare Claudia Boscolo, Dimitri Chimenti e tutta la crew di polifoNIE per i continui spunti e commenti che ho tentato di tradurre senza troppo tradire in quest’articolo.
2 Alessandro Dal Lago (2008) “I misteri di Napoli e l’etnografia”, Etnografia e ricerca qualitativa, n.1.
3 Domenico Perrotta (2008) “Da Gagliano a Gomorra. Percorsi di confine nelle scienze sociali italiane”, Etnografia
e ricerca qualitativa, n.1.
4 Tale forma di tracimazione testuale che attiva nuove pratiche e conversazioni a partire da racconti esistenti,
peraltro antichissima, è conosciuta oggi col nome di transmedialità, ovvero il passaggio e la riscrittura della
storie su diversi formati sfruttando le potenzialità di internet.
5 L’espressione, a me molto cara, è di Carlo Levi nel prologo alla seconda edizione di Cristo si è fermato ad Eboli.
L’io narrante di Claudio Coletta ha
un dottorato in sociologia e ricerca
sociale, studia il rapporto tra narrazioni e pratiche urbane con svariate
incursioni nei vorticosi mari della
popular culture.
[email protected]
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portata degli eventi narrati senza ricadere nel meccanismo del martire o dell’impostore. Il
peso etico di Gomorra diviene sostenibile nella misura in cui il testo passa di mano in mano,
viene manipolato, mantenuto, modificato, reso vivo: gomorra viaggia, agisce, fa agire e fa
parlare, trasforma l’individualità di Roberto Saviano e quella di chi legge. Per questa ragione
l’io narrante di Gomorra non è una mera trovata stilistica, ma è un metodo che gli consente
di comporre le voci del campo e di renderne conto: l’individualità di Saviano in Gomorra è
esperienza dotata di senso, trama che si immette in un racconto più vasto. Sguardo coinvolto
ma non “soggettivo”, che
Il confine tra sociologia e letteratura, tra pratiche e retoriche, co- come un demone prende
mincia a diventare un luogo abitabile, un mondo possibile per la possesso del porto di
ricerca sociale di tipo qualitativo. Arte di dire e arte di fare fuse Napoli, del kalashnikov,
insieme nel racconto, che lasciano spazi tattici di riappropria- del “sottomarino” Ciro e di
zione, ricombinano il repertorio di pratiche di ricerca mettendo in tutte le altre entità umane
discussione l’autorità e autorialità. e non umane che popolano
la narrazione. “Sguardo
obliquo”, come lo definisce Wu Ming 1, in cui la soggettività si dissolve: “È sempre Roberto
Saviano a raccontare, ma ‘Roberto Saviano’ è una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza
da un cervello all’altro, prende in prestito il punto di vista di un molteplice”6.
Wu Ming 1 ha elaborato una categoria promettente per cogliere la natura aliena di Gomorra
e altre forme narrative anomale, quella di “oggetto narrativo non identificato” (Unidentified
Narrative Object, UNO). L’acronimo sta ad indicare un testo narrativo che mette insieme
diverse forme discorsive (“fiction e non-fiction, prosa e poesia, diario e inchiesta, letteratura
e scienza, mitologia e pochade”) che assomiglia... ma non è affatto riducibile a un romanzo.
A loro volta, gli UNO orbitano nella nebulosa letteraria più vasta del New Italian Epic, che
raccoglie lavori di narrativa pubblicati in italia negli ultimi 15 anni, lei cui caratteristiche
salienti ai fini del presente discorso comprendono l’attitudine pop, la transmedialità e lo
sguardo obliquo. Il che ci riporta alle questioni del feuilleton e dell’io narrante. “C’è un io
marcato – scrive Luigi Weber – che racconta, e che tutto sa e tutto ha visto non grazie ai
libri, ma avendo vissuto sin da bambino nelle stade [...] Quell’io però non è mai lasciato
solo; lo rinforza, e lo protegge direi quasi, dallo sgomento e dall’enormità del nemico che si
è scelto, un vastissimo, ipertrofico apparato di nozioni, una panoplia di numeri, nomi, date,
località.”7
In un gioco di rimandi tra letteratura e sociologia, la comparsa di UNO in ambito letterario sembra corrispondere all’orientamento crescente da parte della ricerca sociale verso
etnografie virtuali, multi-sito, “cairotiche”, che mescolano cioè tempi e spazi multipli e
si muovono su terreni che l’etnografia classica difficilmente considererebbe empirici. Si
producono etnografie di oggetti, di organizzazioni, oltre che di esseri umani e di interazioni
strettamente sociali. In sostanza, tali approcci mettono in discussione l’esistenza di uno
sguardo “diretto” e “prolungato” sui fenomeni, nonché l’univocità dell’io narrante, al fine di
cogliere più a fondo la complessità del reale. All’obliquità dell’io narrante e alla dissoluzione
dei generi tipica degli UNO e del New Italian Epic fa eco la transdisciplinarietà ed eterogeneità di quei lavori che insistono sulla carattere ecologico e relazionale dell’attività di ricerca.
Il confine tra sociologia e letteratura, tra pratiche e retoriche, comincia allora a diventare un
6 Wu Ming, New Italian Epic, Torino: Einaudi, 2008. Si veda anche la ricca discussione sul web a partire dal
memorandum di WM1 su http://www.carmillaonline.com/archives/cat_new_italian_epic.html.
7 Luigi Weber, “Serpico, Scarface e Papillon. Su «Gomorra» di Roberto Saviano”, Studi Culturali, n. 3/2007.
luogo abitabile, un mondo possibile per la ricerca sociale di tipo qualitativo. Arte di dire e arte
di fare8 fuse insieme nel racconto, che lasciano spazi tattici di riappropriazione, ricombinano il
repertorio di pratiche di ricerca mettendo in discussione l’autorità e l’autorialità. Il ricercatore
sociale diviene luogo di tutti i rapporti attivati dal lavoro di ricerca, così come Saviano lo è
per Gomorra. Resta a questo punto da capire come la dimensione pop e l’efficacia narrativa
possano arricchire la prospettiva della ricerca sociale qualitativa.
Nel 1973, Paolo Fabbri pubblica un saggio dal titolo “Le comunicazioni di massa: sguardo
semiotico e malocchio della sociologia”. La proposta era quella di andare oltre la sterile
distinzione tra cultura “alta” e cultura “di massa” per cominciare ad interessarsi in modo serio
e non pregiudiziale di fenomeni che interessavano una parte consistente della popolazione.
Fabbri insisteva sulla necessità di riutensilizzare il dispositivo analitico sulla base dell’oggetto
di studio invece di partire dal repertorio teorico e disciplinare di riferimento. Alla luce del saggio di Paolo Fabbri, il NIE appare come un ulteriore tentativo di riutensilizzazione che mette
in crisi l’essenza stessa del genere e si rivolge alle capacità narrative di un’opera letteraria in
base al modo in cui essa entra in risonanza con altri oggetti e pratiche narrative. Analogamente, riutensilizzare la ricerca qualitativa in chiave neoepica significa allora riconoscere il
lavoro di ricerca un potente sistema abilitante, farne un oggetto fluido che superi costantemente le premesse, che si presti alla riappropriazione, riscrittura e traduzione, che procuri dei
cortocircuiti e che liberi possibilità creative. Fare in modo che il lettore si prenda carico della
sua “verità”.
Rispetto a Gomorra Alessandro dal Lago si chiedeva: “E noi [etnografi] che ci stiamo a fare?
Qual è il senso del nostro lavoro se un romanzo può tanto?”. Se, come abbiamo visto, efficacia
narrativa e presa performativa sul reale sfumano il confine tra sociologia e letteratura e
aumentano la capacità di render conto di fenomeni complessi, sarebbe forse più interessante
domandarsi: è in grado la ricerca sociale di produrre oggetti etnografici non identificati?
8 Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, 1981.
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Emiliano Facchinelli
Dal 1996 vive e lavora a Bologna. Fotografo di reportages, si è concentrato su diversi
temi: il panorama pugilistico bolognese (Tre Minuti); la tradizione e il mestiere dei barbieri a Bologna (Burmashave); le processioni religiose e popolari nel Sud Italia.
Ha collaborato a numerosi progetti e riviste internazionali, tra cui Witness Journal e
Streetsense, giornale degli homeless di Washington DC. Per quest’ultimo ha realizzato nel 2008 una ricerca sulla vita quotidiana dei senzatetto e sui dormitori pubblici
(CCNV).
Le fotografie di questo numero sono state scattate durante i Riti Settennali di Penitenza a
Guardia Sanframondi (Benevento) (pagine 28, 29, 32, 48-49); la Festa del Soccorso a
San Severo (Foggia) (pagine copertina, 6, 8-9, 16, 47, 62, 65, 70-71, 72); la Festa
di Sant’Agata a Catania (pagine 23, 27, 38-39, 45, 58); la Processione dei Serpari a
Cocullo (L’Aquila) (pagine 5, 15, 42, 50, 56, 57).
www.emilianofacchinelli.com
www.myspace.com/emilianofacchinelli
lo Squaderno 12
Research, inchiesta, documentary /
Ricerca, inchiesta, documentario
a cura di / edited by /
Andrea Mubi Brighenti, Cristina Mattiucci, Mimmo Perrotta
Guest artist: Emiliano Facchinelli
hanno collaborato a questo numero / contributors to this issue / Charlie Barnao, Laura Basco, Alberto Brodesco,
Claudio Coletta, Vittorio Iervese, Insu^tv, Alessandro Leogrande, Andrea Membretti, Mubi, Piano b, Giovanni
Rinaldi, Luca Rossomando.
lo Squaderno è un progetto di / lo Squaderno is a project by / Cristina Mattiucci, Andrea Mubi, Andreas
Fernandez, helped and supported by Paul Blokker, Alessandro Castelli, Micol Cossali and Peter Schaefer.
Special Thanks: Paul Blokker, Silvia Mattei, Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos
La rivista è disponibile / online at www.losquaderno.net. // Se avete commenti, proposte o suggerimenti,
scriveteci a / please send you feedback to [email protected]
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Impressum June 2009
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s uade
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Nel prossimo numero:
Connected and People