lo Squaderno - professionaldreamers
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Rivista di discussione culturale No. 12 - giugno 2009 ISSN 1973-9141 www.losquaderno.net Ricerca, inchiesta, documentario 12Lo sQuaderno Table of contents Research, inchiesta, documentary Guest artist: Emiliano Facchinelli Editorial / Editoriale Charlie Barnao L’inchiesta sociale salvi la sociologia! / May inchiesta save sociology! Alessandro Leogrande Il lavoro degli altri. Il giornalismo, l’inchiesta e i limiti della rappresentazione / The work of the others. Journalism, inchiesta and the limits of representation Luca Rossomando Perché nella mia città si fanno poche inchieste Piano b Quali interlocutori per l’inchiesta sociale? Insu^tv Un caffè con Nicola Angrisano. Una città, una telestreet e un documentario indipendente Vittorio Iervese “Prima trovare, poi cercare”. Quattro passi tra cinema documentario e ricerca sociale Alberto Brodesco La lezione del vuoto. Verità estatica ne “L’ignoto spazio profondo” / The lesson of emptiness. Aesthetic truth in the “Wild Blue Yonder” Andrea Mubi Brighenti Street photography as social interaction Andrea Membretti Per un uso performativo delle immagini nella ricerca-azione sociale Giovanni Rinaldi “Pastanera” e “I treni della felicità”. Un progetto parallelo di storia e cinema Laura Basco Pratiche narrative. L’esperienza del Laboratorio Urbano Aperto in Salento Claudio Coletta Gomorra: sguardo neoepico e malocchio della ricerca sociale. Transdisciplinarietà di un oggetto narrativo non identificato EDITORIALE La ricerca sociale è un’attività che si svolge generalmente all’interno di determinati contesti disciplinari. Sia che si svolga in ambito accademico, sia che venga commissionata da istituzioni pubbliche o corporation, tale ricerca si articola rispettando alcuni standard metodologici, definiti in specifici settori disciplinari. La ricerca accademica (che sia sociologica, antropologica o storica, qualitativa o quantitativa) è spesso poco libera, sovente condizionata da dibattiti specialistici interni alle varie discipline e poco comprensibili al di fuori di esse, da rapporti di potere o lotte tra fazioni all’interno dei dipartimenti universitari, dalla necessità di produrre pubblicazioni. Ma questa non è l’unica modalità per conoscere i fenomeni sociali. In questo numero abbiamo cercato di mettere a confronto la ricerca sociale classicamente intesa con altri strumenti di indagine, in particolare con l’inchiesta, il documentario e il reportage. Si tratta non solo di tradizioni, ma di pratiche diverse, eppure allo stesso tempo comunicanti, dotate di una serie di somiglianze di famiglia. Alcune di queste pratiche di ricerca, d’altro canto, si sono diffuse in Italia ben prima che le scienze sociali ottenessero un riconoscimento all’interno dell’università, talvolta preparandone il terreno. Pensiamo ai resoconti di viaggio di grandi scrittori europei, alla tradizione di inchiesta meridionalistica che risale alla fine dell’Ottocento e si riafferma nel secondo dopoguerra, ai raccoglitori di folklore, alle inchieste di militanti del movimento operaio, ma anche al romanzo verista, al cinema neorealista, al documentario etnografico. Per molti decenni, una conoscenza di prima mano di ampie aree e settori della società italiana è stata fornita da ricercatori non accademici. Il tentativo di incidere sulla realtà e di innescare processi di cambiamento, l’uso di media e supporti diversi, la possibilità di raggiungere pubblici e fruitori differenti, la mescolanza e l’emergere di nuovi generi letterari e formati rappresentativi sono tutti fattori di cui i contributi qui presentati cercano di rendere conto. Uno degli intenti del numero è stato infatti quello di instaurare una sorta di dialogo tra esperienze diverse di sguardo attivo sulla realtà, cercando di rintracciare quelle voci che, soprattutto a partire dalla pratica, aiutassero a capire lo stato dell’arte e di salute della ricerca sociale in Italia. Restano aperte numerose questioni, non ultima quella della definizione dei linguaggi di cui possa servirsi la ricerca. Una questione che lasciamo alla riflessione delle nostre lettrici e dei nostri lettori, presentando la compagine decisamente ibrida e multidisciplinare dei ricercatori e gruppi che ci hanno raccontato le loro esperienze, in contesti dove la ricerca stessa è un mezzo istruttorio di operazioni che si pongono fini diversi, dalla diffusione di informazioni al racconto di una realtà a proposte di trasformazione collettiva dei luoghi. Il numero si apre con un articolo di Charlie Barnao che lancia un appello alla sociologia accademica tradizionale: di fronte alla chiusura istituzionale e alla crisi culturale e scientifica di cui la sociologia italiana oggi soffre, si tratta di reintegrare tradizioni alternative come quella dell’inchiesta sociale e di forme più riflessive di conoscenza in grado di riaprire la disciplina, permettendole di ritrovare la sua ispirazione ideale originaria. In parziale risposta, seguono alcune testimonianze e riflessioni su alcune esperienze di inchiesta, che evidenziano le 3 possibilità ma anche le difficoltà di questa pratica. Alessandro Leogrande confronta il lavoro di inchiesta con le varie forme oggi di moda in Italia di “giornalismo investigativo”, non solo e non tanto per evidenziare i limiti – evidenti – di queste ultime e la loro facile strumentalizzabilità, quanto per interrogarsi più in profondità sulle possibilità di conoscere e rappresentare il punto di vista degli attori delle classi subordinate in un mondo sempre più scisso e dominato da disuguaglianze crescenti. Luca Rossomando ripercorre invece l’esperienza del giornale indipendente Napoli Monitor, analizzando le difficoltà organizzative e strutturali legati al produrre inchieste e reportage nel contesto in cui il giornale è nato e lavora. Mentre questo intervento si concentra sul versante della produzione, il contributo del gruppo di inchiesta bolognese Piano b pone il problema del versante del pubblico, chiedendosi (e chiedendoci) dove trovare gli interlocutori per l’inchiesta sociale e come sia possibile attivare, proprio a partire da un’inchiesta, processi di reale cambiamento: come sia possibile, in altre parole, far sì che l’inchiesta non resti soltanto “denuncia”. Una delle pratiche che negli ultimi anni sono state sperimentate al fine di comunicare a un pubblico ampio informazioni e approfondimenti indipendenti, prodotti su varie questioni di attualità, è quella delle street tv. Tra queste, abbiamo raccolto, attraverso il racconto di Nicola Angrisano, l’esperienza di Insu^tv, una telestreet napoletana, impegnata tra l’altro nella distribuzione di un documentario autoprodotto sulla questione dei rifiuti in Campania. Seguono altri interventi sul documentario e sull’uso delle forme visuali nella ricerca sociale. Vittorio Iervese propone un’interpretazione del documentario come forma di ricerca che si pone ben al di là della semplice rappresentazione una realtà oggettiva data, mentre Alberto Brodesco sembra proporre un’applicazione di questa intuizione attraverso un’analisi de L’ignoto spazio profondo di Werner Herzog. Mubi avanza poi una proposta sul dialogo che si potrebbe instaurare tra street photography (o fotografia documentaria diretta) e sociologia. Le successive tre testimonianze narrano di altrettante ricerche svolte attraverso l’utilizzo di una pluralità di media. Andrea Membretti presenta il processo di produzione di video partecipativi come strumento di ricerca-azione; Giovanni Rinaldi ripercorre la produzione parallela di un documentario e di un libro di inchiesta sulla vicenda dei “treni della felicità” nell’immediato dopoguerra; Laura Basco presenta il caso del Laboratorio Urbano Aperto in Salento e del laboratorio residenziale da questo promosso in una piccola comunità rurale del sud. In conclusione, Claudio Coletta, a partire dall’“oggetto narrativo non identificato” Gomorra di Roberto Saviano, invita a riflettere sui generi letterari come parte integrante della conoscenza che viene prodotta, chiamando in discussione la questione dell’autorialità e dei confini tra le diverse forme di sapere. Per corredare questo numero marcatamente italiano – ma che ci auguriamo possa incontrare un pubblico anche altrove – abbiamo scelto come artista ospite Emiliano Facchinelli, fotografo di reportage, che presenta alcune serie di fotografie sulle processioni religiose nel sud: eventi che non smettono di stimolarci a riflessioni ad ampio raggio sul complesso rapporto fra tradizione, innovazione, mentalità popolare, religione, società e potere nell’Italia di oggi. A.M.B., C.M., M.P. 5 EDITORIAL Social research is an activity that usually takes place within given disciplinary contexts. Whether sponsored by academia, institutions, or corporations, such research follows specific methodological standards that are instrinsic to a specific discipline (e.g., sociology, geography, anthropology, etc.). Research of this kind – whether sociologic, anthropologic or historical, qualitative or quantitative) is often not really free, burdened by specialism, struggles and the ‘publish or perish’ imperative. But this is not the only way to know social phenomena. In this issue, we compare conventional social research with different tools of enquiry, in particular inchiesta, documentary and reportage. These are not simply traditions but also practices that are diverse but share a number of family resemblances. The commitment to promote change in society, the use of visual media, the possibility of reaching a wider audience, the mix of literary genres and the emergence of new genres are all topics addressed by the following articles. In presenting them, our aim is to start up a dialogue between different experiences engaged in the ‘active observation’ of society. Thus we have set out to report a number of voices that can help us to know better the state of the art of independent research in today’s Italy. A number of questions remain open, not last the question about the most suitable languages for social research. We leave this open question to our readers, confining ourselves to presenting the various multidisciplinary researchers and groups who have undertake research in different contexts and for different purposes, ranging from knowledge to social change. The opening article by Charlie Barnao launches a call for Italian academic sociology to embrace alternative forms of social enquiry such as inchiesta and reflexive ethnography. Such a move, Barnao argues, is badly needed if Italian sociology wants to escape institutional closure and an otherwise gloomy cultural and scientific crisis, and retrieve its original idealist motivation. In reply, the articles from groups already engaged in inchiesta report about their own experience, highlighting both the promises and the difficulties that are inherent in such practice. Alessandro Leogrande compares inchiesta with the various forms of nowadays fashionable ‘investigative journalism’, not simply to stress their major limits and manipulability, but also to question the extent to which it is possible to know and represent the point of view of the actors from underprivileged classes in a world dominated by increasing inequalities. Luca Rossomando recounts the challenge of the independent journal Napoli Monitor, analysing the organisational and structural difficulties of producing inchiestas and reportages today. While Rossomando’s article focuses on the side of production, the following article by the Bologna-based research group Piano b raises the issue of the public, asking where it could be possible to find a receptive audience for social inchiesta in order to begin actual processes of social transformation, and how could inchiesta overcome the ‘denouncement’ attitude. Among the practices that in recent years have been experimented, to result in some of the most innovative ways to reach a wider audience for independent research, there are street televisions. Nicola Angrisano reports about Insu^tv, a street tv based in Naples that has recently produced a noticeable documentary on the problem of waste management in Campania. The following group of articles deal with documentary and the use of visual forms in social research. Vittorio Iervese proposes to interpret documentary as a type of research well beyond the mere issue of ‘representing’ a given objective reality, while Alberto Brodesco seems to apply a similar insight in his analysis of Werner Herzog’s The Wild Blue Yonder. On his part, Mubi advances a proposal for a possibly fruitful dialogue between street photography and sociology. The following three pieces deal with enquiry that involves a multiplicity of media. Andrea Membretti presents the stages of production of participatory video as a tools for action-research; Giovanni Rinaldi writes about the parallel production of a documentary and a book about the case of the so called “happiness trains” in the immediate aftermath of World War II; Laura Basco introduces the experience of a residential Open Urban Laboratory (Laboratorio Urbano Aperto) in a small rural community in Salento (Puglia). Finally, discussing the famous case of Roberto Saviano’s Gomorra as an “unidentified narrative object”, the article by Claudio Coletta intives us to reflect on literary genres as an integral part of knowledge, embracing a point of view that suggests to deconstruct the ‘author’ (understood as an objective, detached observer) and the boundaries between different forms of knowledge. To illustrate this markedly ‘Italian’ issue – which however, we hope, will be of interest to a wider readership – we have chosen as a guest artist Emiliano Facchinelli, a reportage photographer who presents here one of his series on religious processions in Southern Italy – a topic that does not cease to inspire all those who aim to understand the complex relationship between tradition, innovation, popular mind, religion, society and power in today’s Italy. A.M.B., C.M., M.P. 7 9 L’inchiesta sociale salvi la sociologia! Charlie Barnao Charlie Barnao è etnografo e ricercatore di sociologia generale presso l’Università Magna Græcia di Catanzaro. Tra i suoi libri, Sopravvivere in strada. Elementi i sociologia della persona senza dimora (2004). [email protected] Il 18 febbraio di quest’anno veniva pubblicata sul Corriere della Sera un’intervista a uno dei più noti e accreditati sociologi italiani, Marzio Barbagli, studioso e profondo conoscitore, tra l’altro, dei fenomeni sociali legati all’immigrazione straniera. L’articolo si intitolava, prendendo spunto da alcune dichiarazioni del sociologo, “Immigrati e reati, io di sinistra non volevo vedere”. Nell’intervista Barbagli spiegava che, fino ad alcuni anni fa, le sue posizioni di “uomo di sinistra” gli avevano creato dei pregiudizi tali da non voler vedere la realtà – tali, cioè, da non vedere una “pesante ricaduta sull’aumento di certi reati” da parte dell’ondata migratoria – e quindi di fatto inficiando i risultati delle sue ricerche. Barbagli concludeva affermando che oggi, dopo questo percorso “faticoso, ma di grande crescita” ritornava ad essere un “ricercatore” e nient’altro. L’intervista che, tra l’altro, veniva pubblicata in un periodo di “psicosi collettiva” legata alla paura per gli stupri, mi colpì particolarmente. Non solo e non tanto per le sue connotazioni squisitamente “politiche”. Ciò che più mi colpiva non erano le parole pronunciate dall’“uomo di sinistra” che si accorgeva dei suoi pregiudizi. Da questo punto di vista, si trattava di uno dei tanti articoli, delle infinite riflessioni e dell’estesa letteratura (scientifica e non) sulla crisi della sinistra e sulle ragioni del suo declino nella politica italiana negli ultimi anni.1 Quelle che alle mie orecchie tuonavano come allarmanti erano le parole dello scienziato sociale e, in particolare, del sociologo di indiscussa fama, che ammetteva di essersi sbagliato per anni nella formulazione delle ipotesi, così come nell’analisi e nell’interpretazione dei dati, a causa di un “blocco mentale”2 fatto di pregiudizi ideologici. Le parole di Barbagli mi sembrava che gettassero discredito sulla disciplina, creando anche problemi non indifferenti a chi di intervento sul fenomeno immigratorio (accoglienza agli immigrati, lotta per la difesa dei loro diritti, ecc.) si era occupato utilizzando le sue analisi sociologiche. Creando problemi, cioè, a quegli scienziati sociali e a quegli operatori sociali che, attraverso l’utilizzo dei risultati delle ricerche di Barbagli, perseguivano il difficile obiettivo di fornire un barlume di razionalità e di arginare gli interventi politici, sempre più incisivi e 1 Tra i tanti volumi pubblicati recentemente sull’argomento ricordiamo: Berselli [2008], AA.VV. [2008], Barenghi [2008], Mannheimer e Natale [2008], Negri [2006], Tranfaglia [2009], Salvaggiulo [2009]. 2 Così lo avrebbe chiamato il vice-direttore del Corriere Pierluigi Battista in un commento alle dichiarazioni di Barbagli apparso sul Corriere della Sera del 19 febbraio 2009. radicali, della destra xenofoba e di governo sul tema della immigrazione e della criminalità3. Che stava succedendo alla sociologia italiana? Che significavano realmente le parole di Barbagli? Che significavano soprattutto per quei sociologi che credono nella sociologia come disciplina che ha nelle sue radici il valore della “critica sociale”? Come mai Barbagli si accorgeva così in ritardo, dopo anni, del suo pregiudizio? Come mai la comunità scientifica non lo aveva aiutato nel raggiungimento di questa consapevolezza? E perché, in ambito accademico, non si sviluppava un reale dibattito su quanto da lui affermato? E ancora: Barbagli, che con le sue affermazioni sembrava voler prendere le distanze dai sociologi politicamente “coinvolti”, non immaginava forse che le sue parole sarebbero state strumentalizzate politicamente dalla destra in un periodo in cui razzismo e xenofobia sembrano bussare alle nostre porte (per non dire che sono già entrati con prepotenza)? Le sue parole significavano davvero che un sociologo non può coinvolgersi politicamente? E che fine farebbe, se così fosse, la capacità critica della sociologia? Non tenterò di rispondere a tutte queste domande. Ma da queste domande nascono i brevi spunti di riflessione che seguono su alcuni dei mali che affliggono la sociologia italiana dei nostri giorni e sulla boa di salvezza che, forse, può aiutare la sociologia a riscoprire le sue nobili motivazioni originarie e a trovare nuovi stimoli. Mentre il mondo va a destra la sociologia italiana... lo (in)segue Se in generale si può affermare che “la sociologia è andata a sinistra mentre il mondo è andato a destra” [Burawoy 2007, 4] in Italia la sociologia si sposta invece sempre più a destra insieme con il resto del paese. La disciplina e la comunità che la rappresenta, infatti, sembrano aver aver perso gran parte dell’originaria passione per i valori della giustizia sociale, dell’eguaglianza economica, dei diritti umani, appiattendosi sulle posizioni della dominante cultura di destra – il berluscoleghismo – che in quei valori non crede. La crisi dell’economia mondiale ha così costituito (formalmente) la sponda perfetta per una politica di tagli alla ricerca e all’istruzione specie in ambito universitario. Ciò ha reso e rende ancora più dipendente l’università dal potere politico, risvegliando e rinforzando quel processo di politicizzazione che aveva caratterizzato la sociologia internazionale negli anni ‘80 [cfr. Burawoy 2007, 24] e che sembra travolgere la sociologia italiana dei nostri giorni sempre più debole istituzionalmente anche in conseguenza del crollo delle iscrizioni universitarie. Da un punto di vista culturale, inoltre, la crisi della sinistra italiana in questi ultimi anni, sembra avere avuto dei riflessi sulla sociologia in quanto disciplina. Ciò non sorprende visto che la sociologia italiana ha sempre mantenuto una marcata matrice di sinistra e molti degli odierni intellettuali di sinistra vengono dalle file dei sociologi. In un recente articolo pubblicato su La Stampa Luca Ricolfi [2009] ha individuato nell’“astrattezza”, nel pregiudizio ideologico, nella “presunzione”, nello “snobismo” e nella “distanza dai problemi delle persone normali” le cause principali della crisi della sinistra. Come vedremo tra breve, alcuni dei mali della sinistra italiana sono gli stessi che affliggono la sociologia accademica. La sociologia italiana è chiusa in se stessa ed è sempre più “privata” “Autoreferenzialità” sembra la parola d’ordine della sociologia in Italia. Dal punto di vista storico, 3 Di fatto, dopo quell’intervista, Barbagli – uno dei più illustri sociologi di sinistra – diventava improvvisamente uno degli scienziati sociali più citati dagli uomini politici di destra e all’interno dei blog legati alla destra culturale e politica, con l’impazzare di commenti positivi degli “uomini di destra” alle sue dichiarazioni. 11 organizzativo e culturale, al suo interno la sociologia italiana è, dalle sue radici, divisa in tre gruppi che, di fatto, detengono il potere accademico. I tre gruppi sono il MiTo [Milano-Torino] (in origine la componente laica di sinistra vicina al PCI), i “cattolici” (in origine vicini alla DC e, in particolare, alla sinistra DC), la “terza componente” (in origine vicina all’area laica socialista) [Scaglia 2007, 31-32]. Oggi questi tre gruppi hanno perso molte delle connotazioni culturali (e, soprattutto, hanno perso molte delle ragioni) per le quali erano nati. Si muovono, di fatto, principalmente come gruppi di interesse che negoziano e si spartiscono il potere accademico, seguendo logiche localistiche, personalistiche e di opportunità continTutto ciò comporta una Sempre più distante dalla realtà quotidiana, la sociologia genti. sempre maggiore autoreferenaccademica sembra incapace di cogliere e/o criticare le trasformazioni sociali. Appare concentrarsi prevalentemente su un zialità e frazionamento interno approccio di ricerca di tipo deduttivo che non fa che acuire la che sembrano estremizzarsi in sua già paradossale distanza dai fenomeni sociali. periodi di “vacche magre” per i finanziamenti all’università. Nell’ambito della ricerca accademica l’autoreferenzialità si è tradotta in due tendenze principali: sbilanciamento chiaro ed esplicito verso l’approccio quantitativo e “professionale” della sociologia (con tendenza all’imitazione delle scienze naturali e paura di perdita di scientificità se il ricercatore vive un “coinvolgimento pubblico”4) e scarsa capacità di dialogo con le altre discipline, specie con quelle considerate “meno scientifiche” come ad esempio l’antropologia culturale (vedi ad es. Dei [2007]). Un interessante tentativo di superamento della tendenza autoreferenziale è il progetto della sociologia pubblica [Burawoy 2007]. La tendenza all’autoreferenzialità, infatti, potrebbe essere combattuta perseguendo una disciplina che accantoni “i modelli teorici generalisti, astratti e centralizzati, votati a rendere inaccessibili i loro linguaggi e ad alimentare una crescente distanza dai pubblici” [Padovan 2007, 1]. La sociologia italiana non è riflessiva ed è sempre più “sganciata” dalla realtà della vita quotidiana Sempre più distante dalla realtà quotidiana, la sociologia accademica sembra incapace di cogliere e/o criticare le trasformazioni sociali. Appare concentrarsi prevalentemente su un approccio di ricerca di tipo deduttivo che non fa che acuire la sua già paradossale distanza dai fenomeni sociali. Si tratta di un distacco della disciplina dalla realtà empirica che, anche quando non avviene in modo radicale, può portare a strane e difficili situazioni di isolamento i suoi ricercatori. Il caso di Barbagli – che di certo è uno di quei pochi sociologi di peso accademico che si “sporcano le mani” con importanti ricerche sul campo – è significativo anche in questo senso. Barbagli denuncia l’isolamento affermando che, una volta liberatosi dei pregiudizi ideologici, a causa dei risultati delle sue ricerche alcuni colleghi gli hanno “tolto il saluto”. Ma quello di Barbagli è un isolamento che non significa soltanto “solitudine”. Significa anche mancanza di riflessività del ricercatore e della comunità tutta. Come mai Barbagli si accorge solo dopo molti anni dei suoi pregiudizi ideologici? E come mai la comunità non lo ha criticato e aiutato negli anni passati a prenderne consapevolezza? Purtroppo in Italia come altrove “la conoscenza strumentale prevale su quella riflessiva” [Burawoy 2007, 24]. Forse, investendo in modalità di ricerca e di conoscenza maggiormente riflessive, il ricercatore Barbagli avrebbe compreso prima e la comunità tutta lo avrebbe potuto aiutare in questo processo. 4 È lo sbilanciamento verso la “sociologia professionale” descritto da Burawoy [2007, 20]. Bisogna “scendere per strada”... e “fare inchiesta”! A questo punto ci si può chiedere: che fare? Da quanto detto emerge la necessità di sviluppare un approccio alla ricerca che abbia delle caratteristiche abbastanza precise. È importante che il processo di ricerca sia maggiormente induttivo, riflessivo, multidisciplinare, “critico” e, quindi, “pubblico”. La proposta che facciamo è che la sociologia italiana riscopra, valorizzi e promuova una modalità di ricerca che è nel suo specifico DNA e che possiede già in sé e nella sua storia quelle caratteristiche che possono, forse, ridare vitalità alla disciplina in crisi. Ci riferiamo all’inchiesta sociale (per una ricostruzione storica vedi Fofi [2009]). Pensiamo ai primi e nobili esempi di ricerche sociologiche, quelle realizzate, tra l’immediato dopoguerra e i primi anni ’60, dal Gruppo di Portici, guidato dal maestro Manlio Rossi Doria. Si trattava di inchieste sociali che mettevano al centro social issues rilevanti5 (prima fra tutte la questione meridionale) sulla base di un approccio fortemente multidisciplinare (sociologia, antropologia, economia e politica agraria, botanica, agronomia) e che si manifestavano in modo inscindibile dall’impegno sociale e politico6. Ma l’inchiesta sociale non è soltanto radicata alle origini della sociologia in Italia. Essa trova ancora oggi forti e profondi collegamenti con le scienze sociali italiane, in particolare con l’etnografia e il suo armamentario metodologico [cfr. Perrotta 2008]. L’etnografia ha un’insita propensione alla riflessività e all’approccio induttivo nella ricerca sul campo. La riflessività accompagna il ricercatore in tutte le fasi, dall’accesso al campo alla pubblicazione dei risultati [cfr. Marzano 2006, 27-31]. La ricerca etnografica è, inoltre, induttiva “per definizione” basandosi su una relazione tra teoria e ricerca aperta e interattiva, in cui si passa dal particolare all’universale attraverso diversi e successivi livelli di astrazione. Forse, recuperando il valore sociale e politico dell’inchiesta e facendo dialogare quest’ultima con l’etnografia, la sociologia potrà trovare nuovi stimoli e provare a risollevarsi da una crisi che, altrimenti, sembra strutturale. Forse. Certo è che tutto ciò potrebbe assumere un significato ancora più profondo in tempi in cui la libertà dell’informazione (scientifica e non) è da molti considerata in pericolo. May inchiesta save sociology! On18 february 2009, in a interview published in Corriere della Sera, the famous Italian sociologist Marzio Barbagli, an established scholar on immigration, has declared that he has deceived himself for a long time because of his own “leftist ideology”, that brought him to deny that immigrants commit more crimes than natives. That interview, published in a period of collective psychosis about insecurity, struck me deeply, not only for its immediate political meaning. Actually, there is already a fairly large body of literature – scientific and not – on the crisis of the Italian left and its decline in recent years (Berselli 2008, AA.VV. 2008, Barenghi 2008, Man5 Riscoprire le reali social issues (così importanti per la Scuola di Chicago e per la nascita della sociologia statunitense) permetterebbe, tra l’altro, di migliorare la legittimazione sociale della sociologia e di avere un “confronto più serrato con la realtà” [Magatti 2007, 7]. 6 Fra gli altri episodi si può ricordare a questo proposito come negli anni della Scuola di Portici Rossi-Doria fosse impegnato in un’accesissima campagna elettorale in Basilicata nella lista del Partito d’Azione con Guido Dorso, Carlo Levi e altri [cfr. Marselli 1991]. 13 nheimer e Natale 2008, Negri 2006, Tranfaglia 2009, Salvaggiulo 2009). What I found worrying were the words of the sociologist, who was admitting to have largely misconceived his major topic of investigation due to ideological prejudice. Barbagli’s words were in fact discrediting the whole discipline, creating major problems to all those sociologists and social workers who drew on the sociological analysis of immigration, including those activists and volunteers who provide assistance and strive to protect immigrants rights, as well as more generally all those social scientists who face the difficult task to remain rational before the increasingly harsh xenophobia expressed by the Italian government on issues of immigration and criminality. What is happening to Italian sociology? What is the real meaning of Barbagli’s words? How is it possible that a scientist could find out about his own major “prejudice” only so late, after many years of research? Why the scientific community did not help him discussing and criticising his former and new views? And, Could Barbagli not imagine that the Right would have politically capitalised on his public declarations? Here, I do not aim to answer all these questions, rather to take them as the point of departure for a reflection on Italian sociology today. The world turns right, Italian sociology... follows it While, generally speaking, “sociology has turned left, while the world has turned right” (Burawoy 2007, 4) in Italy on the contrary sociology has been pushing itself more and more rightward along with the rest of the country. In practice, the discipline seems to have lost much of its original passion for social justice, equality and human rights, aligning itsself with the dominant culture of the right, the ‘berlusco-leagueism’ [Berlusconi + Northern League]. In this context, the global economic crisis has represented the perfect excuse for cutting research and education funds. As a consequence, the Italian university has become even more dependent upon political power, as it already happened internationally during the 80s (Burawoy 2007, 24). The crisis of the culture of the left has also brought its effects. Since its birth, Italian sociology has been markedly leftist and several left-wing intellectuals are trained as sociologists. But, recently, Ricolfi (2009) and others have charged the culture of the left of being abstract, presemptuous, snob, far form the problems of common common people, and sociology seems to suffer from similar problems. Italian sociology has turned inwards and is increasingly “private” “Self-referentiality” afflicts Italian sociology. Historically speaking, the discipline has always been split into three major groups that hold the academic power: the “MiTo” [Milano-Torino] (the secular group, historically close to the Italian Communist Party), the “catholics” (from the left of the Christian Democrat party), and the “third group” (close to the socialists) (Scaglia 2007, 31-32). Today, these three groups have lost their original cultural rationale and survive mainly as academic lobbies that increase selfreferentiality and internal divisions in the discipline. In turn, self-referentiality has led to the hegemony of “professional” quantitative sociology that shuns any public engagement and a lack of dialogue with other disciplines regarded as “less scientific”, such as cultural anthropology (Dei 2007). An alternative project is represented by public sociology (Burawoy 2007), which rejects the selfreferentiality of “generalist, abstract and centralised theoretical models, impossible to understand for lay people” (Padovan 2007, 1). Italian sociology is not reflexive and is far from everyday life Academic sociology seems incapable of grasping the ongoing transformations in Italian society. Its focus on deductive models makes things even worse. The Barbagli case – one of the few major sociologists who still continues to produce empirical research – is telling. Barbagli claims that after his declarations he has been isolated. But in fact such isolation means lack of reflexivity at the individual and collective level. How comes that he never reflected on that “prejudice”? How comes that the scientific community never criticised him on that point? In Italy as elsewhere, “instrumental knowledge prevails over reflexive knowledge” (Burawoy 2007, 24). Perhaps, using more reflexive forms of research, Barbagli would have understood sooner and the whole scientific community could have helped him in this process. Let’s get on the streets and... make inchiestas! What should we do? On the basis of what said so far, what we badly need is develop a type of research that is inductive, reflexive, multidisciplinary, critical and “public”. My proposal is for sociology to rediscover and promote social inchiesta (Fofi 2009), a tradition that is typically Italian. Just recall those excellent researches carried out, in between 1945 and the early 60s, by the Portici Group led by Manlio Rossi Doria. Those researches focused on major social issues, starting from the “southern question”, adopting a multidisciplinary approach (sociology, anthropology, economics, agriculture politics, botanics, agronomy) and, at the same time, a strong political and social commitment. Not only is social inchiesta rooted at the origins of Italian sociology, it is also intimately linked with current social research, particularly with ethnography (Perrotta 2008). Ethnography is inextricably reflexive (Marzano 2006, 27-31) and inductive, being based on an open and interactive relationship between theory and research. Perhaps, retrieving the social and political value of inchiesta and developing a dialogue with ethnography, sociology could find new ways to overcome a crisis that could otherwise be chronic. Perhaps. What is certain is that such move carries an even deeper meaning at a time when the freedom of (scientific and not) information is endangered. 15 Riferimenti / References AA.VV. [2008] Sinistra senza sinistra. Idee plurali per uscire dall’angolo, Feltrinelli, Milano. Barenghi R. [2008] Eutanasia della sinistra, Fazi, Roma. Berselli E. [2008] Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica, Mondadori, Milano. Burawoy M. [2007] “Per la sociologia pubblica”, Sociologica, n. 1, pp. 1-45. Dei F. [2007] “Sull’uso pubblico delle scienze sociali, dal punto di vista dell’antropologia”, Sociologica, n. 2. Fofi G. [2009] “Breve storia dell’inchiesta sociale in Italia”, in Laffi S. [2009] Le pratiche dell’inchiesta sociale, Edizioni dell’Asino, Roma. Magatti M. [2007] “Sulla crisi della sociologia”, Sociologica, n. 2. Mannheimer R. e Natale P. [2008] “Senza più sinistra. L’italia di Bossi e Berlusconi”, il Sole 24 Ore. Marselli G. A. 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L’estinzione della sinistra, Garzanti, Milano. 17 IlIl giornalismo, lavoro degli altri. l’inchiesta e i limiti della rappresentazione Alessandro Leogrande Alessandro Leogrande è vicedirettore della rivista Lo Straniero (www.lostraniero.net). Ha pubblicato diverse inchieste, tra cui Un mare nascosto (L’Ancora del Mediterraneo, 2000) e Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Mondadori, 2008). [email protected] In una lunga conversazione con Maria Nadotti sul buon giornalismo, contenuta in Il cinico non è adatto a questo mestiere (edizioni e/o 2000), Ryzard Kapuscinski afferma che senza l’aiuto degli altri non si può scrivere un reportage: “Ogni reportage – anche se firmato solo da chi l’ha scritto – in realtà è il frutto del lavoro di molti. Il giornalista è l’estensore finale, ma il materiale è fornito da moltissimi individui”1. Senza un lavoro di raccordo, un lungo peregrinare attraverso fonti orali e fonti scritte, basato sulla cooperazione e sulla comprensione reciproca, scrivere è impossibile. Più avanti, focalizzando il tema principale dei propri libri, Kapuscinski sostiene che esso è la povertà, o meglio, la somma delle varie forme di povertà: Scrivevo, tuttavia, anche per alcune ragioni etiche: intanto perché i poveri di solito sono silenziosi. La povertà non piange, la povertà non ha voce. La povertà soffre, ma in silenzio. La povertà non si ribella. Avrete situazioni di rivolta solo quando la gente povera nutre qualche speranza. Allora si ribella, perché spera di migliorare qualcosa […] Nelle situazioni di perenne povertà, la caratteristica principale è la mancanza di speranza […] Questa gente non si ribellerà mai. Così ha bisogno di qualcuno che parli per lei. Questo è uno degli obblighi morali che abbiamo quando scriviamo di questa infelice parte della famiglia umana. Oltre che cogliere un meccanismo ineluttabile della psicologia sociale, questa osservazione è per noi molto importante. Anche se stentiamo a riconoscere le sue forme, oggi in Italia al di sotto del precariato (di quello che comunemente intendiamo per precariato e che già appare vulnerabile) si sta aprendo una galassia sommersa. In agricoltura e in edilizia (e in parte anche nell’assistenza domestica), donne e uomini stranieri sono costretti a forme di sfruttamento servile, a un nuovo schiavismo. Non è solo la miseria delle paghe a essere indecorosa, ma il fitto reticolato di violenze e soprusi che avvolge le loro vite. Ciò che sconvolge è la lontananza siderale da standard lavorativi che in Occidente consideravamo non poter essere messi in discussione. Questa distanza siderale si tramuta presto in uno spesso muro da varcare. Difficile da varcare per gli operatori sociali, il sindacato, i volontari, la politica… Ed enormemente difficile da varcare per chi ne voglia scrivere.2 È una povertà che non si ribella, proprio come diceva Kapuscinski. Il silenzio che avvolge le loro vite (alimentato anche dalla minaccia di ritorsioni di padroncini 1 Questo articolo riprende l’ultimo paragrafo del saggio “Modelli e metodi nella pratica di inchiesta”, contenuto nel volume Le pratiche dell’inchiesta sociale, a cura di Stefano Laffi, edizioni dell’asino, 2009 (http://www.gliasini.it/). Ringraziamo Stefano Laffi per aver acconsentito alla pubblicazione di questo articolo per lo Squaderno. 2 Ho provato a farlo in Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, 2008. e caporali) è una cappa inscalfibile. È un fitto banco di nebbia. Come raccontare, allora, le loro vite? Molti pensano che sia possibile farlo adottando forme di travestitismo. Facendosi assumere come bracciante o come edile per un po’ di giorni. Ma i reportage come questi che sono usciti su la Repubblica o su L’espresso si basano su un assunto totalmente sbagliato: quello secondo cui bastano un po’ di giorni, e una spruzzata esotica di “vita reale” per entrare nella testa e nei corpi degli sfruttati. Si presuppone insomma che, per chi sta sopra (come se disponesse di una specie di macchina del tempo), sia cosa facile uscire dalla propria classe sociale ed entrare in un’altra, Oggi in Italia al di sotto del precariato si sta aprendo una e poi compiere – con la galassia sommersa. In agricoltura e in edilizia (e in parte anche stessa nonchalance – il nell’assistenza domestica), donne e uomini stranieri sono costretti percorso inverso. a forme di sfruttamento servile, a un nuovo schiavismo. A parte la questione che tutti questi reportage lasciano sempre dubbiosi sul fatto che l’immersione sia effettivamente avvenuta, è proprio il presupposto (estremamente ambiguo) che dovrebbe essere messo in discussione. Siamo ben lontani dal lento peregrinare invocato da Kapuscinski. E siamo ben lontani anche dal lavoro di Barbara Ehrenreich3 che, riprendendo le forme migliori di inchiesta letteraria (o di meta-sociologia o di reportage narrativo) statunitense si è fatta assumere come cameriera, donna delle pulizie, commessa in un grande magazzino, e ha provato a raccontare quel lavoro (e precisamente come non si arriva alla fine del mese con un salario da fame) dall’interno. L’inchiesta di Ehrenreich è basata su un lungo arco di esperienze dilatate nel tempo, ma soprattutto sulla convinzione che non è possibile entrare pienamente nelle teste e nei corpi degli altri, che l’ “immersione” non può essere mai totale, in quanto il ricercatore-scrittore può tirarsi fuori, dichiarando l’esperimento terminato e tornando alla propria vita “borghese”. Fossero solo esempio di cattivo giornalismo, lasceremmo queste forme di travestitismo alle loro pagine. Tuttavia è bene ricordare che c’era un tempo, in Italia, in cui certe posizioni grossolane non sarebbero mai state assunte. C’era un tempo in cui, sul tema dell’incontro intellettuali-operai, si scrivevano pagine e pagine di analisi e autoanalisi sui limiti dell’uscire dalla propria classe sociale. Sulla difficoltà delle “esperienze di fabbrica”. Sulla sfiducia che lo stesso partito potesse essere il luogo adatto per la ricomposizione delle contraddizioni (a tal proposito, penso a un bellissimo saggio di Franco Fortini, Un discorso di Nenni, apparso nel 1954 su Nuovi Argomenti). Nel 1961, sul n. 4 di Il Menabò, rivista diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, interamente dedicato alla questione “letteratura e fabbrica”, uscì un lungo Taccuino industriale, a firma di Ottiero Ottieri, sulla sua esperienza di dirigente alla Olivetti e sul rapporto con gli operai di una città del sud. Il suo Donnarumma all’assalto è del 1959, ma il Taccuino (un denso diario di appunti, racconti, riflessioni) era stato scritto prima. È uno di quei testi che vanno al cuore della questione, e l’incipit è fulminante: Novembre ’54. Se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di fabbrica, c’è anche una ragione pratica, che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in una industria? I pochi che ci lavorano, diventano muti, per ragioni di tempo, di opportunità, eccetera. 3 Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo, Feltrinelli, 2004. 19 Gli altri non ne capiscono niente. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica. Tra lo stare o anche l’occuparsi di industria, e il parlarne, esiste come una contraddizione in termini. Superarla è durissimo, e infatti ognuno si aspetta che l’altissimo prezzo da pagare per superarla, lo sborsi un altro. Troppi oggi si augurano il romanzo di fabbrica, eccetera, e troppo pochi sono disposti a riconoscere le difficoltà pratiche (teoriche) che si oppongono alla sua realizzazione. L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più. Proprio perché parte da questa premessa, Ottieri riesce a restituire come pochi l’insieme di tensioni, sogni, paure che attraversano il proletariato industriale. In lui la descrizione non è mai naturalistica, ma sempre protesa al sovvertimento radicale dell’ordine stabilito (o meglio, a cosa questo possa voler dire nella testa e nei corpi di proletari meridionali strappati alle campagne o alle periferie urbane). Tuttavia Ottieri è ben consapevole di non poter capire fino in fondo cosa passi nella testa di chi sta alla catena di montaggio. Se lo intervista, l’intervistato sovrapporrà delle frasi fatte a quello che l’intervistatore pensa. Se l’intervistatore si sostituisce al suo lavoro, semplicemente entrerà in quella esperienza con il suo bagaglio di intellettuale borghese, e dovrà affrontare un altro tipo di sovrapposizione. Il diaframma è sempre lì, sempre presente. Chi osserva viene sempre dall’altra parte della barricata, anche quando decide di mettersi in gioco. Anche quando la sua denuncia si nutre di propositi “progressisti”. Per Ottieri è quasi un’ossessione, tanto che Vittorini pare quasi rimbrottarlo nell’introduzione al numero citato di Il Menabò. “Il rilievo è suggestivo”, scrive l’autore di Conversazioni in Sicilia, e tuttavia esatto fino a un certo punto: “L’esperienza di fabbrica potrebbe aiutare a scrivere oggi più di quanto l’esperienza della coltivazione del suolo (e della caccia, della pesca, della pastorizia, eccetera) abbia aiutato a scrivere ieri e avantieri?”. Ciò che interessa a Vittorini non è l’interno della fabbrica, ma la relazione tra industria e mondo, e il modo in cui la città e il mondo si sono trasformati a seguito di questa relazione, tanto che conclude il suo intervento con questo paragrafo: La verità industriale risiede nella catena di effetti che il mondo delle fabbriche mette in moto. E lo scrittore, tratti o no della vita di fabbrica, sarà a livello industriale solo nella misura in cui il suo sguardo e il suo giudizio si siano compenetrati di questa verità e delle istanze (istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ch’essa contiene. Non è una cattiva risposta, anche se forse non è all’altezza dei dubbi di Ottieri. Vittorini la prende alla larga, ma dice qualcosa di interessante anche per l’Italia di oggi, in un’epoca che i più definiscono postindustriale e post-moderna. È un’esortazione, la sua, a essere contemporanei al proprio tempo, a saper scorgere nel cambiamento dei modi di produzione e dei modi di lavorare l’incedere di una nuova epoca. Oggi è enormemente difficile raccontare le nuove fabbriche, i mille rivoli del lavoro precario, restituire sul piano letterario o nel reportage le nuove soggettività che emergono. Ma allo stesso modo è oltremodo difficile raccontare le nuove fratture che sorgono al di fuori dei capannoni aziendali: perché, ad esempio, molti operai hanno votato per la Lega Nord, fino a considerare la mitologia del “territorio” più importante della concretezza dei nuovi vissuti (e delle nuove iniquità) nel mondo del lavoro? C’è una “catena di effetti”. La paranoia securitaria che genera quella mitologia del territorio andrebbe letta – direbbe forse Vittorini nell’Italia del 2009 – come frutto della nuova realtà, industriale o postindustriale che sia, come una specie di sublimazione regressiva dell’assenza di sicurezza nel mondo della produzione. Come se la logica dello squalo, dopo aver vinto in fabbrica, si fosse abbarbicata davanti all’uscio di ogni casa. Detto questo, il “rilievo suggestivo” di Ottiero Ottieri non perde la sua forza. La sua ossessione, il capire cioè cosa passi nella testa degli sfruttati, dove si collochi la sottile linea di demarcazione tra acquiescenza e rivolta, è la stessa ossessione di Kapuscinski o di Ehrenreich. Ha a che fare con i presupposti (metodologici, politici, morali) di ogni reportage, e direi anche di ogni romanzo. Il punto è che bisogna cercare sempre di stare davanti all’abisso, e scavare nell’enigma più difficile. The work of the others. Journalism, inchiesta and the limits of representation In an extendend conversation with Maria Nadotti about quality journalism published in Il cinico non è adatto a questo mestiere [The cynical is unfit for this job] Ryzard Kapuscinski claims that it is impossible to write a reportage without help from several others: “Although signed by a single author, every reportage is in fact the joint work of many. The journalist is the final drafter, but the reported substance comes from many people”. Without such cooperation, without a painstaking research into oral and written sources based on reciprocal cooperation and understanding, it is impossible to write a reportage. Kapuscinski also indicates that poverty, or better the sum of different poverties, is the substantive focus of his own work: I used to write for a number of ethical reasons. To begin with, because the poor are mute. Poverty does not cry, it has no voice. Poverty suffers in silence. It does not revolt. You will find revolts only when people start to have hope. Then they revolt, with the hope to change something […] In the context of endless poverty though, the main characteristic is precisely the lack of hope. […] These people will never upsurge. Thus, they badly need someone who will talk for them. This is one of the moral obligations we have when we write about this unhappy part of the human family. Besides catching an infallible law of social psychology, this view is very important for us today. Indeed, we fail to see clearly all the details of the new social conditions in today’s Italy. Below the social stratum of the officially recognised young ‘precarious’, a new invisible galaxy of labour conditions is emerging. In agriculture and the building sector, as well as in caring services, a number of foreign women and men are bound to semi-feudal exploitation, a new slave condition. It is not simply a matter of miserable salaries, but a whole environment dominated by systematic violence and abuse. The working conditions of these people are shockingly below the minimum standard we take for granted in the West. It is a social distance which also entails a communicative wall for social workers, volunteers, politicians… and especially for those who aim to write about these conditions. Just as Kapuscinski said, this type of poverty does not revolt. The silence that envelops the lives of these people (a silence bred by the threat of retaliation from landlords, foremen and ‘caporali’) is unbreakable. Just like a thick fog. How could one describe their lives? Many people think that it is possible to do so through covert observation, for instance getting enrolled as an agricultural worker or a builder for a few days. But similar reportages, published by la Repubblica or L’espresso, are based on a fundamentally wrong assumption: that a few days of work in such ‘real life’ exotic context are sufficient to understand the experience and the thoughts of the exploited. It is believed that for members of the higher classes it is relatively easy to do the mental experiment of leaving their own social class, enter another and return, with the same nonchalance. 21 But apart from the fact that the majority of these reportages leave us with more than a shade of doubt about whether or not the covert observation actually took place, it is their very starting assumption that must be criticised. Here we are very far from the slow wandering of Kapuscinski, as well as from a work such as Barbara Ehrenreich’s Nickel and Dimed. Building on the best tradition of literary enquiry (or meta-sociology or narrative reportage), Ehrenreich worked as a waitress, cleaning lady, clerk in a large store, and subsequently attempted to depict those works from the inside, describing the ways in which one does and does not get by with lowest incomes in America. Ehrenreich’s enquiry is based on extended experience and especially on the belief that it is impossible to understand completely the experience of the underprivileged: immersion can never be real for someone who always retains the possibility of declaring the experiment over, turning back to their bourgeois life. If it were just a matter of bad journalism, one could let it be. But it is important to remember that in Italy there was a time when certain oversimplified views were not current at all. There was a period when pages and pages were written on the relationship between intellectuals and manual workers, about the limits of leaving one’s class behind, about the hardness of factory life, and the mistrust towards the party as the most apposite place to overcome social contradictions. These topics were constantly discussed. I am thinking for instance of a beautiful essay by Franco Fortini, Un discorso di Nenni [A talk by Nenni] which appeared in Nuovi Argomenti in 1954. In 1961, Il Menabò, the review edited by Elio Vittorini and Italo Calvino published its fourth, special issue on Literature and factory. In this issue, a long diary entitled Taccuino industriale [Factory notebook] by Ottiero Ottieri was published. It dealt with the author’s personal experience as a manager at Olivetti and his relationships with the manual workers in a southern Italian city. Ottieri’s more famous Donnarumma all’assalto [Donnarumma assault] was published in 1959, but his rich diary containing a number of reflections on the factory was written earlier. One of the pages of that diary goes directly to the heart of the issue: November 1954. If fiction and cinema have given us very little about the inner world of the factory, it is because of a very practical reason, which turns into a theoretical reason too. The world of the factory is a closed world. One cannot either enter or exit easily. Who can describe it? Those who live inside it can give us data, but no reflection – unless they are artists-workers or artists-clerks, which is very rare. On the other hand, the artists who live outside – how could they get into the factory? Those who work inside become mute because of lack of time, etiquette etc., while the others don’t really know much about it. That is also why the factory is inexpressive: this is its main characteristic. There is a contradiction between being in a factory and describing it – a contradiction almost impossible to overcome. Indeed, everybody expects that the high price to pay in order to overcome such contradiction will be paid by someone else. Many fancy about the ‘factory novel’, but too few recognise the practical and theoretical difficulties that hamper it. The manual worker, the clerk, the manager, remain mute. The writer, the film maker, the sociologist are either outside – and thus do not know anything – or, if by chance they get inside, become mute as well. Starting from this assumption, Ottieri is one among the few who has portrayed the tensions, dreams and fears of the Italian industrial proletariat at that time. His description is never naturalistic; rather always explicitly oriented toward radical subversion of the established order – better, towards what could such subversion mean in the head of the southern Italian working class recently immigrated from the countryside and now living in urban outskirts. Ottieri is well aware of the limits of his own capacity to understand manual workers. Neither interview nor direct observation can help to overcome class boundaries, even when the researcher is motivated by the best intentions and is a progressive. For Ottieri it amounted to almost an obsession – to the point that in the same issue of Il Menabò Vittorini seems to object to his position. “It is an intriguing suggestion,”Vittorini writes, however only to a certain extent because he continues asking: “but how could the factory experience help us today to write, more than the agriculture experience (as well as the hunting, fishing, herding experiences) helped us to write in the past?”What counts for Vittorini is not so much the factory itself, but the relationship between the factory and the world, together with the way in which the city and the world have changed as the result of such relationship. He concludes: The industrial truth lies in the consequences of factory activities. Whether he decides to write about the factory or not, a writer will be up to the industrial task only if his gaze and judgement will be soaked in this truth and the practical demands of appropriation and transformation that it raises. It is not a bad consideration, although perhaps not at the level of the doubts raised by Ottieri. Vittorini points out something that is still noticeable in today’s postindustrial Italy. He exhorts the writer to be a creature of his/her times, capable to understand the ongoing changes in the world of production and work. It is still very hard to describe today, not only the factory but also the thousands of streams of precarious work, giving a literary portrait of the new social subjectivities of workers. But it is likewise difficult to analyse the cleavages that exist outside the factory: why, for instance, have many manual workers voted for the right-wing Northern League, with its mythology of ‘territory’ completely disconnected from the new inequalities on the workplace? There is a linkage between these phenomena. In the context of today’s security paranoia, territorial mythology must be understood as the regressive sublimation of the absence of security in the world of production. Ottiero Ottieri’s obsession was to understand what happens inside the head of the exploited, just like Kapuscinski and Ehrenreich wished to. Their work teaches us the methodological, political and moral presuppositions of every reportage – and, I would add, every novel, too: one must try to stay before the abyss, tirelessly excavating the enigma. 23 Perché nella mia città si fanno poche inchieste Luca Rossomando Luca Rossomando scrive per Napoli Monitor, giornale di inchieste, cronache, reportage e disegni che una volta al mese racconta i fatti di Napoli, delle altre città italiane e le storie dal mondo. Dal gennaio 2007 Napoli Monitor esce con regolarità ed è disponibile in circa trenta punti di distribuzione a Napoli e provincia e in alcune delle principali città italiane. Napoli Monitor ha curato il libro Medioevo napoletano. Dopo il rinascimento prima della barbarie. Otto reportage dentro e fuori Napoli (L’Ancora del mediterraneo, 2008). [email protected] www.napolimonitor.wordpress.com Napoli Monitor – il mensile di cronache, reportage e disegni che un gruppo abbastanza vario di disegnatori e scriventi fa uscire da tre anni a Napoli e dintorni, e da cinque mesi nelle maggiori città italiane – nasce tra le altre cose da una grande insoddisfazione come lettori. Alla contraddittoria vitalità di una città come Napoli non corrispondono inchieste, analisi, resoconti approfonditi che rappresentino per il lettore uno strumento di conoscenza chiaro, ricco di informazioni e originale, o quanto meno compiuto nella forma. Se sorvoliamo sui quotidiani, non registriamo la presenza di alcun periodico di informazione locale, né di riviste che si facciano carico di approfondire il presente e indagare sul futuro della città. Dalle facoltà di scienze sociali non nascono studi utili, se non alle necessità auto-riproduttive dell’accademia. Le poche creazioni di rilievo negli ultimi anni, in cui il contenuto e la forma dialogano con pari dignità, sono libri isolati, racconti ibridi (che quando hanno successo diventano però matrice deleteria di una produzione amorfa, opportunista, superflua); o altrimenti alcuni documentari audio e video; o ancora frammenti difficili da intercettare: le cronache fatte in emergenza da luoghi in conflitto, spezzoni di blog, auto-narrazioni, centri di documentazione improvvisati e altri sparsi gioielli: grezzi, effimeri e quasi clandestini. Ci siamo messi tre anni fa a progettare questo giornale – giornale, non rivista; un giornale si può stropicciare, piegare in tasca, dimenticare sull’autobus – per questo e per altri motivi. Perché ci hanno insegnato (anni fa, qualcuno ci ha insegnato) che un giornale è meglio farselo da soli piuttosto che come vogliono gli altri; che lo status di giornalista (di cronista, di narratore) non viene concesso da nessun ordine professionale o commissione d’esame; che la fiducia nelle proprie capacità (che qualcuno chiama professionalità) non ha mai avuto bisogno di essere controinformazione… e altre cose ancora. Abbiamo cominciato in tre. Era un’idea che avevamo in testa da dieci anni. Nel frattempo è cresciuto un gruppo, variegato e mobile, intorno a una decina di persone che assicurano la continuità, anche stilistica, del giornale. Metà della redazione è composta da disegnatori. In questo periodo abbiamo imparato, sperimentandole, diverse cose: alcune tecniche, altre di metodo e altre ancora sul funzionamento del sistema, sull’interdipendenza strettissima tra mezzi e risultati, sui vincoli quasi insuperabili che le condizioni produttive – il tempo, la diffusione della testata e, in definitiva, il denaro a disposizione – impongono alla realizzazione di un giornale. E penso soprattutto alle inchieste. La cronaca, il reportage, sono cose che si possono far bene anche con scarsi mezzi (e che in ogni caso pochi fanno) mentre l’inchiesta, quella approfondita, “investigativa”, richiede, oltre che tempo e soldi, anche una “rispettabilità” nei confronti delle fonti che una piccola testata non sempre possiede. Raramente abbiamo pubblicato vere e proprie inchieste sul nostro giornale. Piuttosto reportage, storie di vita, testimonianze: cose viste e ascoltate, ricognizioni, aggiornamenti, mappe, recensioni, interviste, ma pochissime inchieste. Le inchieste fatte bene costano troppo. Bisogna avere tempo a disposizione. Noi lavoriamo gratis e non possiamo pagare nessuno. Per un periodo abbiamo creduto di poter rimediare, coinvolgendo i giornalisti amici che lavorano nelle redazioni e che – credevamo – potevano mettere in comune l’autorevolezza delle loro testate e qualche ritaglio del loro tempo pagato. Ma abbiamo dovuto constatare quel che già sospettavamo. I giornalisti da redazione credono fermamente che il sistema per cui lavorano sia l’unico modo possibile di fare giornalismo. Anche se passano il loro tempo libero a criticarlo, anche se il capo redattore gli boccia una proposta dopo l’altra o li sposta senza motivo da un’inchiesta che seguivano da mesi per mandarli a “coprire” il ballo delle debuttanti, questo è quel che sentiranno finché saranno stipendiati da quel sistema. Vi passeranno ogni tanto qualche pezzo documentato o una buona soffiata, ma avranno sempre, inevitabilmente, quell’aria di non crederci, lo sguardo di chi osserva stupito uno sforzo inutile, uno spreco di buone intenzioni che andrebbero, è evidente, indirizzate altrove. Così a un certo punto abbiamo pensato di andare sul sicuro; bisognava sveltire i tempi di lavorazione ed elevare la qualità degli articoli; se proprio non riusciamo a svelare oscuri retroscena – ragionavamo – assicuriamo almeno al lettore la vivacità di un resoconto, l’arguzia di un dettaglio, l’ironia di uno sguardo. Ci voleva gente affidabile, con cui pianificare un reportage e poi attendere senza patemi il testo pronto da impaginare: proponemmo la collaborazione ad alcuni giovani narratori – sceneggiatori, romanzieri, saggisti – abbastanza amici e alla mano da ricevere con piacere l’invito a contribuire a un progetto serio e indipendente, imperniato sulla gratuità e sugli strumenti specifici del loro mestiere. Il piano all’inizio sembrò funzionare. Per concordare un articolo bastavano poche parole. L’intesa era immediata, il risultato soddisfacente. Ma ogni volta l’incantesimo durava poco. Dopo una o due apparizioni, il nome del prezioso collaboratore era destinato a scomparire dal colophon in ultima pagina. In effetti, gli amici che ci passavano i loro articoli stavano giocando nello stesso momento una partita più importante: erano impegnati nella lunga marcia di avvicinamento al mondo dei professionisti della scrittura. Questo tipo di scalata, rigorosamente in solitaria, comporta una serie di priorità: per esempio, ricercare la collaborazione con giornali e riviste ad alta tiratura, meglio se impegnate, ma senza disdegnare il pezzo di costume o le rubriche sui “femminili”; sottoscrivere anticipi per realizzare libri di rapida fattura e su argomenti all’ultima moda, per quanto lontani dalle questioni che riguardano i luoghi e le persone che ci circondano; partecipare a uno o più dibattiti in voga – sulla rete ma non solo – tra i “giovani” scrittori omologhi, per quanto vaghi e inconcludenti appaiano i temi in discussione. E così via. Tutta una serie di occupazioni che alla lunga rendono incompatibile una collaborazione assidua con un giornale dichiaratamente insolvente, poco diffuso sul territorio nazionale e che suole indicare gli autori degli articoli con una sigla al posto del nome. Insomma, ci convincemmo che era più opportuno un investimento a lungo termine. Avremmo fatto del giornale una palestra, aprendolo ai giovani, quelli veri; avremmo dato spazio a chi ne aveva davvero bisogno: i ventenni appena entrati all’università, per esempio, o quelli venuti fuori dal tunnel delle scuole di giornalismo o dei corsi di scrittura; oppure i tanti che facevano la gavetta con scarse prospettive in qualche ufficio stampa istituzionale. Il futuro non gliel’avremmo assicurato nemmeno noi, ma almeno qualche stimolo in più, qualche occasione per misurarsi, mettersi alla prova, potevamo garantirla. Certo, non avremmo ottenuto l’articolo sfolgorante al primo colpo, ma potevamo contare – ci dicevamo – sulla dedizione, l’entusiasmo e anche l’umiltà, che non guasta, di persone curiose di esplorare il 25 mondo circostante, e di farlo finalmente senza i vincoli imposti dalle formule asfittiche dei mestieri della “comunicazione”. Ci dedicammo al ruolo dei formatori con abnegazione, tempo limitato e forse poco coraggio nel lasciare la briglia sciolta, ma anche difficoltà a capire quanta libertà richiedessero i nostri giovani redattori. Certi strumenti però non si improvvisano. Spesso le interviste bisognava farle insieme, i contatti con le fonti dovevamo suggerirli noi. Gli articoli non erano male ma il lavoro preparatorio lo facevamo quasi tutto noi. E diventava complicato mantenere vivo a lungo il coinvolgimento. In fondo, la cosa non Tutti quelli che hanno scritto o disegnato in questi tre anni, che sembrava appassionarli sono “passati” per il giornale o ci sono rimasti, hanno compiuto più di tanto. Alcuni, incerti un gesto di fiducia verso la nostra fragile proposta. Hanno dato sulla loro vocazione, dopo il loro contributo a una pratica concreta di narr/azione. un po’ si interessavano ad altro; altri avevano fretta di arrivare al sodo e preferivano la rassicurante routine di un giornale “vero” per intravedere un orizzonte che dalle nostre parti restava invisibile. Altri ancora rinunciavano prima di cominciare: compilare comunicati stampa doveva sembrargli qualcosa di più simile a un mestiere rispetto al tipo di pratica che gli proponevamo. Fu così che ci convincemmo di aver bisogno non tanto di articolisti brillanti, quanto di collaboratori affidabili, di provata e inflessibile volontà, pronti a dare un contributo senza attendersi ricompense materiali se non il lento avanzamento della causa. Ci rivolgemmo a quei militanti, più o meno nostri coetanei, usciti da una lunga stagione di politica dal basso, abbastanza lucidi da comprendere la sclerosi del movimento, ma non per questo disposti a voltare le spalle ai loro ideali. Erano quelli che, dedicandosi al lavoro di informazione attraverso i più diversi supporti, prendevano il nome di mediattivisti. Obbedendo alle vecchie abitudini, a ogni focolaio di rivolta o anche solo di agitazione, si precipitavano sul posto con un microfono o una telecamera, un po’ per documentare e un po’ per rinfocolare, e producevano resoconti che, pur non avendo il dono della profondità, avevano quello dell’immediatezza e delle informazioni di prima mano. Cominciammo a chiedere loro una serie di contributi a partire dalle vicende che seguivano. Il problema era che, a causa della frenesia militante che ancora li animava, raramente avevano il tempo di produrre inchieste, restando a lungo sullo stesso argomento e sullo stesso territorio; e quando lo facevano erano spesso impegnati a dimostrare una tesi stabilita a priori. Trascuravano la forma dimenticando che a volte questa coincide con la sostanza… Insomma, mi fermo qui. Ho volutamente calcato la mano. In effetti, questo articolo mette in scena eventi accaduti realmente, ma con un ordine, una linearità che non è mai esistita. In realtà, tutte queste cose sono avvenute contemporaneamente, e sono tuttora in corso. Da qualche tempo il loro avvicendarsi non ci provoca più il senso di smarrimento che forse traspare dal racconto. Siamo arrivati a un punto di equilibrio, a una presa d’atto; alla consapevolezza che la riuscita di questo progetto non dipende tanto dal carattere delle persone che vi partecipano, ma dalla loro persuasione nella solidità dello stesso. Così non abbiamo mai smesso (e non smetteremo) di cercare collaboratori per il giornale: giovani alle prime armi, scrittori di talento, tenaci militanti e giornalisti navigati. In fondo, noi stessi siamo stati e siamo ancora un po’ tutte queste cose insieme. Scriviamo su questo o quel giornale, a volte gratis per vanità, oppure per soldi ma con disdegno perché ci tocca mischiare la nostra firma a quella di qualche vecchio trombone o giovane ciarlatano. Anche noi abbiamo un sacco di cose da imparare, e anche qualcuna da insegnare, ma siamo pigri o non abbastanza costanti, e così da tre anni è sempre la stessa persona che impagina il giornale ed sempre lo stesso quello che corregge le bozze. Anche noi, che volevamo fare un giornale all’inglese, freddo e oggettivo, cadiamo spesso negli occhielli sarcastici o tendenziosi, oppure non rinunciamo a pubblicare un pezzo noioso, solo per l’ansia di ribadire certe cose, di far passare una “linea”. Tutti quelli che hanno scritto o disegnato in questi tre anni, che sono “passati” per il giornale o ci sono rimasti, hanno compiuto un gesto di fiducia verso la nostra fragile proposta. Hanno dato il loro contributo a una pratica concreta di narr/azione. Insieme a loro abbiamo capito che il modo di produrre inchieste non dipende solo dalle debolezze o dalle qualità di chi scrive, ma soprattutto dalle condizioni in cui le inchieste vengono prodotte; e che il modo più efficace di coinvolgere le persone, di attivare i loro talenti, di suscitare impegno in un’impresa comune è quello di creare una struttura che assicuri non solo la qualità e la continuità (come abbiamo provato a fare finora) ma anche la solidità economica, e quindi, nel caso di un giornale, un’ampia diffusione e la possibilità di programmare nel futuro. Quanto più robusta sarà questa struttura tanto più intensamente le persone coinvolte la vedranno come un’alternativa nel panorama esistente. Questo è l’obiettivo che ci siamo dati per il tempo a venire. 27 29 Quali interlocutori per l’inchiesta sociale? Piano b Piano b è il nome collettivo di un gruppo di giornalisti, ricercatori, insegnanti, operatori sociali e culturali, nato nel giugno 2006 al fine di produrre inchieste sociali nel territorio di Bologna. Piano b ha pubblicato articoli su: il manifesto, Lo Straniero, Metronomie, Tratti. [email protected] http://collettivopianob.blogspot.com La chiusura delle fabbriche, la scomparsa della classe operaia, la riconversione dei capannoni industriali dismessi. La città post-industriale, dei servizi, dei centri commerciali. L’immigrazione, la città multietnica, la questione della sicurezza, l’insicurezza percepita dai cittadini italiani nei propri quartieri. Il lavoro precario, il consumismo, la speculazione edilizia, l’inquinamento, la fine delle “comunità”, la parcellizzazione dei rapporti sociali. Parole che da anni leggiamo e ascoltiamo e che ci sembra descrivano in modo appropriato i fenomeni e le trasformazioni in atto nelle città italiane. Ma anche parole di “senso comune”, che diamo per scontate. Descrizioni dei mondi in cui viviamo che è difficile mettere in discussione, che solitamente vengono evocate piuttosto che argomentate. Parole che basta nominare perché tutti bene o male capiscano di cosa si sta parlando. Che ci mostrano in maniera inequivocabile la direzione nella quale sta andando la società in cui viviamo. E, aspetto non secondario, inibiscono l’azione politica collettiva e la nascita di progetti di segno diverso. Tanto, “si sa che va così”. In questi processi si è imbattuta l’esperienza di Piano b, un gruppo nato a Bologna nel 2006 al fine di “fare inchiesta” in città. In questo articolo proviamo a tracciare un bilancio di questa (breve) esperienza, descrivendo le potenzialità e i limiti dell’“inchiesta sociale”, per come l’abbiamo praticata. Anzitutto, le motivazioni per cui abbiamo iniziato un lavoro di inchiesta su questi temi. Le persone che si sono incontrate in Piano b venivano da esperienze molto diverse tra loro. Tutti in qualche modo notavamo (e notiamo) con una certa insoddisfazione che né l’esperienza lavorativa né quella politica consentono una conoscenza approfondita della città in cui viviamo. Chi lavora all’università si rende conto che la ricerca accademica non è interessata tanto a studiare la “realtà” quanto a seguire dibattiti e linguaggi chiusi all’interno di “discipline” (sociologia, antropologia…) e per questo “disciplinati” e autoreferenziali. Chi fa il giornalista nota i limiti di un lavoro che deve rispettare agende e cadenze precise, linguaggi codificati e non concede l’ampiezza di respiro necessaria ad una comprensione approfondita della città. Chi lavora come maestro o educatore sente la mancanza di una conoscenza dei mondi sociali dai quali provengono le persone che ogni giorno deve “istruire” o “educare” (bambini, giovani immigrati di seconda generazione, adulti stranieri, detenuti). Dalle esperienze di diretto impegno politico e sociale (in quell’area non meglio identificata che viene chiamata “movimento”, che sta a sinistra, solitamente fuori dai partiti), d’altra parte, ciascuno di noi ha ricavato un’insoddisfazione dovuta, anche qui, alla mancanza di conoscenza dei mondi e delle persone che di quella attività politica sono troppo spesso l’oggetto e non il soggetto (gli operai, i precari, gli immigrati, i senza fissa dimora, i consumatori e così via). A Bologna, come altrove, spesso notiamo – nelle realtà di movimento non meno che nei partiti – un approccio superficiale e frettoloso alle questioni politiche, affrontate soltanto quando sono sotto l’occhio dell’attenzione pubblica e mediatica e dimenticate subito dopo, per passare ad altro. È una città in cui si discute molto, ma nella quale raramente vengono individuati e messi in discussione i poteri, le persone, le istituzioni che effettivamente prendono le decisioni importanti, che definiscono il volto della città. Insoddisfatti rispetto a tutto ciò e forse semplicemente sentendo la necessità e l’urgenza di conoscere la città (dopo averci vissuto per dieci, venti o trent’anni!), avevamo bisogno di un “Piano b”. Un’inchiesta ci sembrava l’unica cosa che in quel momento fosse possibile fare. Il gruppo si è formato un po’ casualmente, lontano da Bologna, attorno a un seminario sull’inchiesta organizzato in Calabria dalla Comunità Progetto Sud e dalla rivista Lo Straniero. Tornati a Bologna, abbiamo concentrato la nostra curiosità su un luogo che ci sembrava condensasse molte storie e molte delle “parole” che abbiamo elencato sopra: le Officine di Casaralta, una fabbrica di vagoni ferroviari nata a inizio Novecento, tristemente famosa per le drammatiche vicende legate all’amianto e dimsessa definitivamente nel 2003, dopo una lunga lotta degli operai contro la chiusura dell’azienda. Da questa fabbrica, l’inchiesta si è allargata al territorio circostante, la Bolognina, un’area della città cresciuta attorno alle fabbriche metalmeccaniche nel corso del Novecento. Abbiamo cercato di raccontare realtà e traiettorie di vita apparentemente lontane tra loro, accomunate dal fatto di svolgersi dentro il medesimo reticolo di strade. Abbiamo conosciuto e intervistato decine di testimoni diretti della vita e della storia di quelle strade e di quei luoghi. Abbiamo discusso con anziani abitanti del quartiere, operai e delegati sindacali delle fabbriche e abbiamo raccolto le loro storie di vita. Abbiamo incontrato alcuni immigrati cinesi residenti sul territorio. E poi funzionari sindacali, avvocati, medici, amministratori pubblici, urbanisti, architetti, maestri di boxe. Abbiamo frequentato centri anziani e circoli di quartiere e partecipato a iniziative pubbliche di presentazione e discussione dei piani urbanistici. In seguito, abbiamo spostato lo sguardo su un’altra area di Bologna, Santa Viola, nella quale erano accaduti e sono tuttora in atto processi di trasformazione urbana molto simili a quelli della Bolognina: dismissioni industriali, trasformazione dei capannoni in centri commerciali, casi anche eclatanti di speculazione edilizia, fine della “centralità operaia” sul territorio. L’inchiesta, dunque, è consistita, nel modo più semplice, e nello stesso tempo difficilissimo, nel parlare con le persone, ascoltarne i racconti, le opinioni, le sensazioni, reperire informazioni, tessere i fili, tenersi aggiornati su quello che succede, connettere fatti apparentemente lontani tra loro. Leggere giornali e libri. Ascoltare attentamente quello che gli interlocutori che di volta in volta sceglievamo avevano da raccontarci. Il tentativo è stato quello di non dare per scontati i processi in atto in città e sotto gli occhi di tutti (dismissione industriale, riconversione edilizia, trasformazioni urbanistiche, ecc.), ma di ricostruire minuziosamente gli eventi, di capire come sono avvenuti e a partire da quali decisioni politiche, di mappare i confronti, gli scontri e i compromessi tra i poteri rispetto a queste decisioni, di non prendere per buone le “giustificazioni” che vengono proposte ai cittadini ma andarle a verificare. E, cosa non secondaria e forse più complessa, di comprendere quali sono gli effetti di questi processi sulle storie delle persone che in quei quartieri abitano, che in 31 quelle fabbriche lavoravano, che in quelle aree sono immigrati da altri paesi. Un lavoro appassionante e che ci ha consentito di capire molto della città in cui viviamo. Un lavoro, tuttavia, con i cui limiti abbiamo, a un certo punto, dovuto fare i conti. Non vogliamo qui parlare delle difficoltà relative al lavoro di questo gruppo di inchiesta, che pure vi sono e che riconosciamo (tanto per fare alcuni esempi: la difficoltà di dare continuità a un’attività che viene fatta soltanto nel nostro “tempo libero”; la “diffidenza” che proviamo verso altre forme di “sapere” – accademico, politico, giornalistico – e che troppo spesso ci impedisce di farne un uso laico; la difficoltà ad allargare il collettivo). Si tratta di questioni che crediamo attualmente significative per qualsiasi esperienza di inchiesta. Una domanda è, ovviamente, come (e a chi) “comunicare” quanto emerso dal lavoro di inchiesta. A tale questione classica Piano b ha dato risposte classiche e per nulla innovative: articoli e saggi su quotidiani e riviste nazionali e locali, un breve documentario, incontri pubblici, un blog (e vari altri progetti in cantiere, come un documentario radiofonico e un “foglione” periodico autoprodotto). Ma quella della “comunicazione” nasconde e ci porta ad altre due questioni ancora più importanti. La prima è: come generare processi di cambiamento? In altre parole, dopo aver fatto inchiesta e dopo averci “capito qualcosa” di quello che succede, e dato che questa realtà non ci piace, come far sì che l’inchiesta contribuisca al mutamento sociale? Come evitare che essa rimanga soltanto un approfondimento o una “denuncia” come tanti che, pur approfonditi e documentati, appaiono sui mass media e lì restano confinati? Legata a questa vi è una seconda questione, con la quale Piano b si è confrontato per la prima volta quando ha provato a trarre le conclusioni del primo lavoro di inchiesta: qual è il progetto politico – anche minimo – a partire dal quale – eventualmente – proporre processi di cambiamento sociale? Abbiamo un progetto di questo tipo? Quali sono le “proposte”? Quali sono i “soggetti” e quali i percorsi di questo mutamento politico? Mentre scrivevamo della dismissione delle fabbriche della Bolognina desideravamo denunciare – almeno implicitamente – la chiusura delle fabbriche soltanto per motivi di speculazione edilizia, la trasformazione della città in un grande centro commerciale, il coinvolgimento insufficiente o mascherato dei cittadini nelle decisioni urbanistiche, l’esclusione degli stranieri dalle sedi delle discussioni, un razzismo più o meno strisciante e così via. Ma mentre ne scrivevamo, ci rendevamo conto di non avere ben chiara un’idea alternativa di città (e non volevamo certamente proporre un ritorno impossibile alla Riteniamo che queste due questioni – come generare città industriale, con il suo cambiamento sociale e a partire da quali soggetti e progetti carico di sfruttamento e politici – siano oggi centrali per chi faccia inchiesta. In altri nocività ambientali!). periodi, l’inchiesta sociale aveva degli interlocutori. Riteniamo che queste due questioni – come generare cambiamento sociale e a partire da quali soggetti e progetti politici – siano oggi centrali per chi faccia inchiesta. In altri periodi, l’inchiesta sociale aveva degli interlocutori. Dagli anni cinquanta di Danilo Dolci ai sessanta di Montaldi e dei Quaderni rossi le grandi esperienze italiane di inchiesta sociale avevano, grosso modo, degli interlocutori nel “movimento operaio” (o contadino, o studentesco), nei partiti comunista e socialista, nelle organizzazioni sindacali. Per molti vi era un orizzonte politico di mutamento sociale (per lo più il socialismo, nelle sue diverse varianti). L’inchiesta oggi non ha né un interlocutore (quale movimento?), né un progetto politico di riferimento. A chi parla Roberto Saviano – per citare l’inchiesta che più ha fatto discutere negli ultimi anni? A un milione di lettori in tutto il mondo, certo. Ma per lo più a individui (a consumatori di cultura) e non a movimenti, organizzazioni, istituzioni. A questo proposito, la pratica di Piano b in questo momento è “minimalista”: ciascuno di noi ha arricchito la propria esperienza quotidiana (professionale e politica) delle conoscenze e della consapevolezza acquisite conducendo delle inchieste sulla città. Questo non è poco, soprattutto perché molti di noi fanno lavoro educativo o “di base” (con gli studenti delle scuole superiori, i giovani immigrati, i senza fissa dimora, i detenuti). E, forse, in attesa di un progetto politico più ampio, le due uniche strade che ci rimangono sono appunto quella di conoscere a fondo la realtà nella quale viviamo e fare lavoro di base. L’inchiesta può essere strumento fondamentale di entrambe. Ma è chiaro che si tratta di una risposta insufficiente. 33 Un caffè con Nicola Angrisano. Una città, una telestreet e un documentario indipendente insu^tv Nicola Angrisano, registra schivo e impegnato, figura condivisa e anonima, dai toni polifonici, è il direttore di insu^tv, una telestreet attiva a Napoli da circa 7 anni. Nel suo palinsesto si trovano tra le altre cose documentari, docufiction e DomenicAUT, una trasmissione tematica periodica cui è possibile partecipare in diretta recandosi nella location dove viene realizzata. Cristina Mattiucci lo ha incontrato per lo Squaderno. http://www.insutv.it/ http://docutrashfilm.noblogs.org/ Ho incontrato Nicola Angrisano per caso. È facile incontrarlo per le vie di questa città. Gira con un occhio multiplo come un osservatorio mobile sui fenomeni che qui si consumano e con la meraviglia di una creatura senza età li guarda spesso impietoso, come un bambino che ti chiede “... e perché?!” di fronte a dati che si danno per fatti, ma la cui logica richiede quantomeno una curiosità lucida per farla crollare ed una grande passione per registrarli, talvolta smontarli e poi rielaborarli, così da far raccontare loro un’altra storia... quella che forse in fondo non avrebbero voluto tanto rivelare! Mi colpisce sempre questa forza, anche quando, mimetizzato nella rete di download pigri, indifferenti ed estemporanei, lo incrocio nelle mie traiettorie virtuali e mi desta il pensiero critico, il dubbio e spesso anche risate e sorrisi. Succede di più quando lo incontro dal vivo – non tanto nelle proiezioni pubbliche, dove tra la folla mi riesce spesso difficile riconoscerlo – soprattutto in momenti come questo, quando uno dei pezzettini di questa creatura multiforme si stacca dal fluire del guardare e si ferma a raccontarsi, come un vecchio. Il tempo di un caffè... giusto il tempo di un caffè, che da queste parti resta ancora un tempo sacro, dove – se l’aroma è quello giusto – puoi riuscire a parlare per un bel po’, basta solo riuscire a trovare le parole giuste che diano il la per farsi raccontare: la storia passata e quella più recente e futura della sua ultima coproduzione. Come è successo quella mattina... Parola: insu^tv. Parole (di Nicola): A Napoli, dal 2003, esiste un’isola di videoproduzione indipendente: insu^tv. Per la città (e non solo) si trattava di un’esperienza del tutto nuova nel suo genere, che si contamina e si alimenta – allora come oggi – attraverso la videoproduzione indipendente, perché si tratta – a nostro parere – della soglia più bassa d’accesso al flusso dei saperi. insu^tv è un’esperienza assolutamente non commerciale, non legata a nessun tipo di corrente o sponsor istituzionale. insu^tv cresce accanto all’idea nazionale di telestreet: piccoli canali televisivi che trasmettono a corto raggio in un cono d’ombra; ha iniziato le prime produzioni e le prime trasmissioni nell’etere napoletano, occupando un canale televisivo libero nel 2004. Può sembrare una follia, ma come le vecchie radio libere, solo con una tecnologia leggermente più complessa, insu^tv è riuscita a occupare una frequenza nel bacino dell’etere analogico napoletano, proprio come si può occupare una vecchia fabbrica o uno stabile in disuso. E infatti, come in ogni occupazione, anche quella di un canale televisivo va difesa, con i mezzi della comunicazione e non solo. Negli anni infatti non sono mancati gli attacchi alla libertà d’espressione: uno per tutti, l’occupazione, anch’essa abusiva, della stessa frequenza – la S19 – da parte di un canale televisivo commerciale locale; occupazione che il nostro gruppo ha dovuto “fisicamente” contrastare. Parola: una telestreet (a Napoli) Parole (di Nicola): Facciamo un passo indietro: in Campania esistono 107 emittenti televisive. È ovviamente una delle regioni più densamente La nostra esigenza era ed è tuttora quella di creare una visibilità sovraffollate... anche per tutte quelle esperienze indipendenti, che propongono e pratinell’etere! cano delle soluzioni possibili alla eterna notte che avvolge la città Di queste 107, solo una setdi Napoli da anni. tantina hanno una regolare licenza per trasmettere, le altre, tra abusive e condonate, hanno solo un’autorizzazione temporanea alla trasmissione. Il confine tra legale e illegale a Napoli passa per la porta sradicata nell’archivio frequenze dell’Ispettorato alle telecomunicazioni! Ma a Napoli, come nel resto d’Italia, il problema non è l’etere, quanto piuttosto il suo duopolio, che ha condotto un gruppo privato a concorrere con i canali pubblici e a far convergere questo potere nella poltrona di Primo Ministro per la quarta volta. L’esigenza di iniziare “a trasmettere” è nata dal silenzio assordante che in città oscura vicende importanti – come la disoccupazione, l’emarginazione, il diritto allo studio – esprime l’isolamento di alcune questioni sociali – come il “caso migranti” e la “questione periferie”, entrambi comuni a molte metropoli – o ancora si genera intorno alle vicende del “mercato delle sostanze” – da sempre legate al controllo camorristico della città – fino alla più recente e scottante questione ambientale campana. Accanto alle questioni “metropolitane”, la nostra esigenza era ed è tuttora quella di creare una visibilità per tutte quelle esperienze indipendenti, che propongono e praticano delle soluzioni possibili alla “eterna notte” che avvolge la città di Napoli da anni. Nell’eterna notte ci sono due racconti. Il primo, quello classico dell’informazione ufficiale mainstream che fa e produce “notizia” solo durante le emergenze dichiarate: le fasi di guerra di camorra, la caccia ai rom, le città seppellite dai rifiuti ecc. Il secondo racconto, invece, è quello del circuito indipendente, di insu^tv e molte altre realtà che, al di là della notizia in sé, valorizzano l’approfondimento delle singole vicende. Peraltro questo approfondimento emerge nei fatti come una vera e propria esigenza: i piccoli video che hanno dato voce ai Rom o alla Comunità Cinese partenopea hanno raggiunto nel tempo centinaia di migliaia di click su internet. Parola: informazione indipendente Parole (di Nicola): Il giornalismo non professionista è un impegno serio, assumersi l’onere dell’informazione indipendente crea anche delle aspettative in una comunità, e non si può pensare di farlo da soli. È per questo che fin da subito la nostra isola è entrata in contatto con esperienze preesistenti e per noi molto valide, come Radiolina – prima radio pirata a Napoli – ed il nodo napoletano del network di Indymedia. Mi ricordo anche di Metrovie, allegato settimanale locale del quotidiano il manifesto, che oggi non esiste più. Ma la città fermenta. Negli anni sono nate altre esperienze, di carta stampata, come Moni35 tor, con cui esiste una buona relazione redazionale, e le nuove sperimentazioni di web radio come Radioazioni e RadioMassa, entrambe nate nei circuiti universitari cittadini. Per non parlare della nuovissima sinergia dei media center: gruppi autorganizzati che seguono “via via” (“via” in dialetto campano significa sulla strada) eventi specifici, con dirette audio-video molto partecipate. Parola: il docutrashfilm “una montagna di balle” Parole (di Nicola): Il lavoro d’inchiesta più grosso che insu^tv ha affrontato in questi anni riguarda la questione rifiuti in Campania. Un gruppo di medi-attivisti (così si amano definire gli animatori di esperienze come le nostre!) avevano iniziato già nel 2002 a raccontare attraverso filmati autoprodotti e corsi on field, la cosiddetta “vicenda rifiuti”, proprio a partire da Acerra, luogo-simbolo, oggi come nel 2003, della costruita “emergenza rifiuti”. Da quelle immagini, e da quelle iniziate a girare dal 2007 in poi, quando la vicenda è stata riproposta con una grossa risonanza mediatica come l’ennesima grande emergenza, è nata l’idea di un film documentario sulla questione. A dicembre del 2007, in un momento di riflessione collettiva, vennero gettate le basi di un percorso narrativo di un documentario che potesse avere allo stesso tempo particolarità ed unicità nel ricostruire l’intera vicenda. Da allora, grazie a creatività, professionalità e dedizione, si è prodotta una riflessione collettiva, una ricerca estetica ed un’efficacia comunicativa nuova. Il casuale incontro con Ascanio Celestini, attore militante, ha disvelato la voglia di comunicare ad un pubblico più ampio il complesso messaggio del documentario. Il supporto di professionisti come l’ex 99Posse Marco Messina, sound-designer, o Maurizio Braucci, già tra gli sceneggiatori di Gomorra, ci ha permesso di crescere e – speriamo – di aver confezionato un prodotto utile al grande pubblico. Usare il termine “confezionato” non è un caso: solo gli artigiani confezionano, e noi come loro, attraverso un bricolage, abbiamo imbastito le trame di questo documentario e della ricerca che lo ha anticipato. Ricerca d’archivio, tra le carte dei commissariati ad esempio, e ricerca sul campo accompagnata da interviste video in presa diretta – senza filtri di nessun genere – con i diretti interessati alla vicenda, i cittadini. Anche durante questo lavoro l’autoproduzione ha avuto una parte determinante. Avendo rifiutato per scelta sponsor pubblici e privati, abbiamo attraversato l’esperienza di Produzioni dal Basso, un portale web che ti invita a coprodurre una creazione. Strada che ha dato ottimi risultati e che, unita all’uso di licenze internazionali digitali, che mettono a disposizione contenuti per fini non commerciali come Creative Commons, ha permesso una nuova proposta distributiva, che non ha voglia di fare lunghe anticamere nelle sale delle distribuzioni classiche. In breve “una montagna di balle” è una piattaforma libera: sul suo blog materiali come la sceneggiatura o le foto di scena sono già fruibili. Del resto i primi a pubblicare video in rete sono stati proprio quegli hacker sognatori, che una notte del 1999 si trovarono a paralizzare la World Trade Organization a Seattle negli Stati Uniti... Al tempo, Youtube e tanti altri strumenti non c’erano e il mercato era ancora molto scettico rispetto al “fenomeno internet”. Forse è venuto il momento di riappropriarsi della libertà di esprimersi, proprio attraverso la condivisione. “Prima trovare, poi cercare.” Quattro passi tra cinema documentario e ricerca sociale UNO. In Concrete Island, un romanzo del 1974, J.G. Ballard racconta di Robert Maitland, “un borghese come tanti, con una moglie, un figlio, un’amante e una magnifica Jaguar, non necessariamente in ordine di valore” che in seguito ad un banalissimo incidente stradale si trova a scoprire una comunità sorta e cresciuta all’ombra dei piloni dell’autostrada. Maitland si trasforma così in una specie di esploratore di un mondo sempre esistito ma mai osservato. Per capire il rapporto che lega il documentario alla ricerca sociale bisogna mettersi nelle condizioni descritte da Ballard. Nel senso che è necessario alzarsi dalla propria postazione di lavoro e uscire a fare un giro nel mondo, nella speranza che capiti qualcosa d’inatteso che ci apra alla conoscenza. Potrebbe apparire una cosa scontata, ma non sono poi tanti quelli che lo fanno. In questo senso, il documentario ha con la ricerca sociale un primo, fondamentale elemento di comunanza: la referenza con il dato empirico, che si manifesta nella sua unicità prima ancora di esprimere la sua significatività. Attraverso il documentario non è possibile dire “automobile” o dire “operaio” senza mostrare una determinata automobile o un determinato operaio in un particolare momento, in un uno specifico contesto, ecc. Non si possono filmare il capitalismo o l’etica protestante, ma soltanto le persone e le cose che, a nostro avviso, esemplificano, personificano e simboleggiano queste idee e pratiche. È questo, in modo brutalmente semplificato, ciò che Pasolini (1972) sosteneva quando parlava della complessità, della polivalenza e dell’ambiguità del linguaggio cinematografico. E da questo lo stesso Pasolini concludeva che il cinema, diversamente dal linguaggio scritto e parlato può servire sia al discorso estetico che a quello scientifico. Chi fa documentari e chi fa ricerca empirica è quindi costretto a confrontarsi, mescolarsi, contraddirsi nel tentativo di inoltrarsi in una qualsiasi realtà. Una ricerca, così come un documentario, corrisponde sempre ad uno sconfinamento. Se non è così, semplicemente non è. Concrete Island, si diceva. Tralasciando dettagli significativi come la Jaguar e l’amante, Robert Maitland potrebbe essere ognuno di noi, con uno sguardo: “abituato a guardare soltanto ciò che cerca”, come sostiene causticamente Ballard. Questa espressione ci riporta in una battuta l’intera lezione del costruttivismo radicale (Von Foerster 1984, Von Glasersfeld 1988): la nostra osservazione costruisce il mondo e i suoi significati attraverso una continua opera di selezione di qualcosa dal suo sfondo. “La forma è quando il fondo risale in superficie” diceva Victor Hugo ed è così che il nostro sguardo dà forma al mondo, distinguendo qualcosa da qualcos’altro. Da questa prospettiva, perde di interesse l’opposizione tra soggettività e oggettività o tra realtà e finzione che ha spesso impegnato tanto coloro che si occupano di cinema (e di immagini in generale) quanto quelli che sono impegnati nel fare ricerca sociale. Fino Vittorio Iervese Vittorio Iervese è ricercatore in Sociologia dei Processi Culturali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Da tempo si occupa, tra le altre cose, di lavoro con e sulle immagini, in particolare di sociologia visuale e di documentari. È membro del comitato scientifico e di selezione del Festival dei Popoli (www.festivaldeipopoli.org). [email protected] 37 39 a qualche anno fa, infatti, si tendeva a reclamare dal documentario un approccio “scientifico”. Si riteneva da molte parti che il documentario, per raggiungere quel grado minimo di oggettività che lo rendesse attendibile, dovesse spogliarsi della soggettività e abbandonare ogni “seduzione formale”, come si diceva allora (Frosoli 2002). Così come Kierkegaard aveva teorizzato il famoso aut aut tra estetica ed etica, così nel campo degli studiosi si presupponeva un aut aut fra qualità estetica e qualità scientifica. In realtà, la macchina da presa, erroneamente feticizzata come mezzo di riproduzione neutrale (qui sta l’equivoco dell’oggettività) è invece in tutto e per tutto un mezzo di produzione. Essa (ri)produce squarci di reale soltanto se viene problematizzata e le si chiede di rispondere a delle questioni (ib.). Pertanto, alla vocazione constativa e accertativa del documentario se ne aggiunge quasi sempre una seconda, di natura chiaramente interpretativa (Basso 2002). Il discorso sul rapporto tra documentario e ricerca sociale si sposta allora su un piano metodologico, ovvero sulle forme e gli ordini dell’osservazione. DUE. È il 1966 quando l’ingegnere e tecnico del suono francese Pierre Schaeffer nel Traité des objets musicaux definisce per la prima volta la musique concrète, una musica “costituita da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o musica tradizionale. Questi elementi sono poi composti in modo sperimentale mediante una costruzione diretta che tende a realizzare una volontà di composizione senza l’aiuto, divenuto impossibile, di una notazione musicale tradizionale”. Schaeffer sosteneva così di non fare musica, ma documentazioni sonore costruite secondo la regola aurea: “Prima trovare, Poi cercare”. Si tratta di una provocazione metodologica di grande importanza tanto per la musica e l’arte in generale, quanto per la scienza contemporanea. Schaeffer si muove infatti come un ricercatore o un documentarista che raccoglie materiali non secondo una partitura o un ordine imposto da una tesi da dimostrare. Si tratta allora di farsi guidare dal caso, dall’intuito o semplicemente di procedere alla cieca? Niente di tutto ciò. La fenomenologia dell’udibile di Schaeffer si articola sull’intenzionalità percettiva del sentire, sulla definizione fenomenologica dell’essenza del suono, sulle modalità di organizzazione dei suoni. In altri termini, sulle forme e gli ordini della costruzione del suono che necessitano di essere consapevoli delle selezioni che si compiono e di quelle che rimangono sullo sfondo. Senza entrare nel merito del complesso dibattito che stimolò questa proposta (Lévi-Strauss, Adorno) mi preme qui sottolineare come sia nuovamente il problema del trattamento della realtà, piuttosto che della restituzione del reale a motivare la svolta elettronica e quella concreta in particolare. Una svolta che non si esaurisce nella musica ma le cui conseguenze possono essere facilmente rintracciate in tanti fenomeni contemporanei. Lo stesso Schaeffer estese le sue ricerche all’ambito audio-visuale fondando il CICV, un centro internazionale per la ricerca e la creazione nel settore delle nuove tecnologie applicate all’immagine, al suono e alla comunicazione. La lezione più importante del CICV è stata quella di affermare il valore intrinseco della realtà (sonora e visuale) che assume senso soltanto nel processo di denaturizzazione e ricontestualizzazione degli “oggetti” tratti dal reale. Parafrasando la famosa espressione di McLuhan (che lui stesso parafrasava volentieri) si può affermare che: “il medium è il missaggio”, ovvero che è la selezione, composizione, giustapposizione, ricontestualizzazione degli elementi a definire una composizione, un ordine possibile ma non necessario. TRE. Quanto finora detto, mi porta ad osservare che anche la ricerca sociale è in definitiva descrivibile come una combinazione di: 1) programma e 2) montaggio. Con il primo termine mi riferisco precisamente a quel complesso di condizioni di correttezza delle operazioni che identificano le aspettative scientifiche (Luhmann 1984). Mentre il secondo va inteso come assemblaggio e combinazione di elementi preesistenti, raccolti secondo procedure metodologicamente definite (Denzin e Lincoln 2003). Pertanto, si può considerare ogni metodologia come un programma che indica le condizioni di correttezza delle operazioni di ricerca, e in base a questo permette di valutare il grado di coerenza interna (autoreferenza) e il rapporto con la teoria (eteroreferenza). Dalla teoria di riferimento si trae quindi, in primo luogo, l’attenzione nei confronti dei processi di costruzione dei significati tanto di chi viene osservato quanto di chi osserva e l’esigenza di programmi in grado di dirigere l’osservazione. È proprio questo il punto su cui si concentrano le più recenti riflessioni sulla metodologia della ricerca “La forma è quando il fondo risale in superficie” diceva sociale, le quali, sulla scorta di un Victor Hugo ed è così che il nostro sguardo dà forma al mondo, distinguendo qualcosa da qualcos’altro. Da questa corposo dibattito interdisciplinare, prospettiva, perde di interesse l’opposizione tra soggettività definiscono la ricerca sociale e oggettività o tra realtà e finzione che ha spesso impegnato come un’attività di “interpretative tanto coloro che si occupano di cinema (e di immagini in bricolage” che “(…) stress how generale) quanto quelli che sono impegnati nel fare ricerca social experience is created and sociale. given meaning” (ib.). Questo ragionamento si fonda, come indicato già da Ballard, su una teoria dell’osservazione che fa coincidere l’atto dell’osservare con quello della costruzione della conoscenza sulla realtà. Questa prospettiva costruttivista implica che ogni sistema crei i significati attraverso operazioni proprie. In questo senso, il compito di chi si occupa di fare ricerca nell’ambito delle scienze sociali è quello di realizzare altre osservazioni. Ciò significa che quella di chi fa ricerca non è un’osservazione con un grado di oggettività maggiore delle altre, ma un’osservazione concentrata sui modi d’osservazione di un altro sistema. Questa attenzione ai processi di costruzione dei significati implica una metodologia che faccia emergere le scelte di chi fa ricerca piuttosto che i dati carpiti dalla realtà, che motivi le selezioni effettuate piuttosto che “misurare” le informazioni raccolte. Se l’attività di ricerca viene considerata una costruzione di significati, allora la metodologia ha innanzitutto il compito di rendere non casuali, ma coerenti e trasparenti le scelte compiute dai ricercatori nello svolgimento della loro osservazione sistematica. QUATTRO. Interrogarsi sul rapporto tra l’atto del documentare e quello del ricercare vuol dire allora porsi delle domande sulla metodologia e le aspettative che stanno alla base di queste procedure. La comunanza sta soprattutto nell’urgenza di ricostruire il senso e i pattern degli elementi isolati in un percorso di “raccolta dati”. Se, come ho sostenuto sopra, la ricerca sociale consiste in un’elaborazione di un’osservazione di secondo grado, ovvero un’osservazione di osservazioni e contemporanemante la definizione di specifiche forme d’osservazione prodotte dai sistemi osservati, allo stesso modo “non si possono filmare che dispositivi di rappresentazione” (Comolli 1982). Le distanze e le differenze tra i due atti risiedono allora soprattutto nel come viene affrontato questo problema. Di solito la “scientificità” aspira ad una rappresentazione che restituisca un ordine riconoscibile del fenomeno osservato, il cinema (documentaristico) fornisce un magma complesso e sincretico tratto dal fenomeno che si mette in mostra. Naturalmente, un film stupido lo fa in modo stupido ma, al di là del valore dell’opera, esiste il fascino di quel sovraccarico di reale che l’immagine per sua natura, volente o nolente, si trascina dietro. In questo senso, la ricerca ha molto da imparare dal cinema come dalla musica elettronica, che riescono (quando ci riescono) entrambi a mantenere la complessità del reale, proponendo all’interprete (leggi spettatore o ascoltatore) il compito di collaborare a cogliere e rielaborare i tanti aspetti della complessità. 41 Riferimenti Ballard J. G. (1974) Concrete island, London: Cape. Basso P. (a cura di) (2002) Vedere giusto o del cinema senza luoghi comuni, Firenze: Guaraldi. Comolli J.L. (1982) Tecnica e ideologia, Parma: Pratiche Editrice. Denzin N.K. & Lincoln Y.S. (ed.) (2003) The Landscape of Qualitative Research. Theories and Issues, Thousand Oaks (Ca): Sage. Luhmann N. (1984) Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt am Main: Suhrkamp. Pasolini P. P. (1972) Empirismo eretico, Milano: Garzanti. Scaeffer P. (1966) Traité des objets musicaux, Paris: Seuil. Von Foerster H. (1984) Observing Systems, Seaside (Ca): Intersystems Publications. Von Glasersfeld E. (1988) Il costruttivismo radicale. Una via per conoscere ed apprendere, Roma: Quaderni di Methodologia. La lezione del vuoto. Verità estatica ne “L’ignoto spazio profondo” Alberto Brodesco “Verità estatica”. La formula suona bene, ha avuto successo. Werner Herzog ne scrive nella Dichiarazione del Minnesota1, il suo manifesto, al punto 5: “There are deeper strata of truth in cinema, and there is such a thing as poetic, ecstatic truth. It is mysterious and elusive, and can be reached only through fabrication and imagination and stylization”. La distinzione tra documentario e finzione perde così di senso, non è decisiva, diventa obsoleta. Quello che importa è il modo con cui il racconto audiovisivo si relaziona con la realtà. Per Herzog esiste una forma di conoscenza cinematografica in grado di farci raggiungere il nucleo profondo delle cose. Un’illuminazione. Il cinema è capace, in qualche sporadico flash, di rivelarci qualcosa di essenziale riguardo ciò che ci definisce come esseri umani. Cercando nella realtà qualcosa che ci colpisce per la sua vicinanza al vero, per il fatto che lo sentiamo profondamente reale. La verità estatica non si trova nella realtà così com’è. Come dichiara Herzog, va fabbricata, immaginata, stilizzata. Nelle interviste, gli esempi di verità estatica che Herzog ritrova nei suoi film hanno a che fare con dei momenti di stallo all’interno dell’inquadratura, con delle inerziali sospensioni di senso2; oppure con delle forzature della realtà da parte di chi la racconta, al fine di completare un’esperienza, di caricare di significato quello che sta davanti alla macchina da presa per toccare nel profondo il cuore e il cervello di chi vede e ascolta3. 1 http://www.wernerherzog.com/main/de/html/news/Minnesota_Declaration.htm. 2 In Kalachakra – La ruota del tempo (2003), quando una guardia del corpo, incaricata di vigilare sul Dalai Lama, una volta che questi se n’è andato rimane a difendere nessuno da nessun aggressore www.adamgollner.com/file_download/3/ECSTATIC+TRUTH.pdf. O in Grizzly Man (2005), quando il protagonista esce dall’inquadratura, e il muoversi dell’erba, in sua assenza, sbalza improvvisamente da sfondo a centro della percezione: www.timeout.com/film/news/901/. 3 Per Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), documentario sull’handicap estremo, Herzog dichiara di aver scritto delle frasi da far recitare alla protagonista sordo-cieca. Per esempio quella in cui la donna dice: “Se scoppiasse una guerra io nemmeno me ne accorgerei”. In Bokassa. Echi da un regno oscuro (1990) viene costruito un dialogo fintamente improvvisato tra Herzog e il reporter Michael Goldsmith di fronte a uno scimpanzé nicotinomane chiuso in una gabbia allo zoo: “While this dialogue and my use of the animal was a completely scripted invention, the nicotine-addicted monkey itself wasn’t. There was something momentous and mysterious about the creature and filming it in the way I did brought the film to a deeper level of truth, even if I didn’t stick entirely to the facts. To call Echoes from a Sombre Empire a ‘documentary’ is like saying that Warhol’s painting of Campbell’s soup cans is a documentary about tomato soup.” http://www.filminfocus.com/article/ the_ecstatic_truth_of_werner_herzog. Alberto Brodesco è dottorando in Studi audiovisivi presso l’Università di Udine. Ha recentemente pubblicato Una voce nel disastro. L’immagine dello scienziato nel cinema dell’emergenza (Meltemi, 2008). [email protected] 43 La verità, per Herzog, non è “là fuori”, pronta a essere raccolta da chiunque faccia un uso onesto della videocamera. La verità si ottiene mettendo in moto un processo che ha a che fare non solo con la raccolta di un dato della realtà ma con la sua elaborazione. In cerca della verità estatica, il cinema non si ferma ai fatti, alla superficie. Scende al di sotto. Sprofonda. Sin dal titolo – The Wild Blue Yonder, L’ignoto spazio profondo – si pone in relazione a questo senso di una ricerca che va oltre, al di là. Herzog definisce L’ignoto spazio profondo una science-fiction fantasy. Il materiale con cui il film è costruito è questo: video della NASA (hangar, astronauti nello spazio); Per Herzog esiste una forma di conoscenza cinematografica filmati subacquei da sotto i ghiacci dell’Antartide; un uomo in grado di farci raggiungere il nucleo profondo delle cose. Un’illuminazione. Il cinema è capace, in qualche sporadico col codino che parla da una cittadina abbandonata in mezzo flash, di rivelarci qualcosa di essenziale riguardo ciò che ci definisce come esseri umani. al deserto. C’è qualcos’altro, un breve inserto dei primi voli in aereo, filmati in bianco e nero d’inizio Novecento. E riprese di foreste dall’alto di un elicottero. Su queste immagini, monocordi al loro interno e incoerenti tra loro, Werner Herzog costruisce una storia. Dà la parola all’uomo con il codino, che si presenta come un alieno. È puro racconto orale, un personaggio che parla in camera. La storia che l’alieno racconta ci fa leggere quelle immagini nel modo definito dalle sue parole. Le sue didascalie spurie inventano il nostro sguardo. La sua narrazione impone un punto di vista sulle riprese della NASA e dell’Antartide – riprese che erano “documentarie” fino a un secondo prima che l’alieno ci mettesse sopra una voce. L’alieno ci dice di essere discendente di una generazione di extra-terrestri sbarcati sulla Terra in fuga dal loro pianeta d’origine, Wild Blue Yonder, e poi confusi e integrati tra gli umani. Ci dice che un giorno una navicella terrestre si è lanciata in un viaggio nell’universo in cerca di un nuovo pianeta abitabile. Quest’astronave è finita per atterrare su Wild Blue Yonder. Quando, dopo 820 anni, la navicella rientra sulla Terra, la trova disabitata dagli uomini, ritornata alla sua forma e al suo orgoglio primigenio. La facilità con la quale l’astronave si muove di galassia in galassia è merito di un vero e proprio miracolo scientifico. Uno scienziato (di cui leggiamo l’e-mail: [email protected]) ci spiega come sono stati resi possibili tali viaggi: chiama la sua teoria “chaotic transport”, la spiega con dovizia di computer graphics e tecnicismi. Esistono dei “tunnel caotici”, delle scorciatoie che permettono di saltare da una galassia all’altra sfruttando, come elastici di una fionda, la forza di gravità dei pianeti. Il carattere mistico del viaggio è enfatizzato, non sminuito, da questa spiegazione dello scienziato orientale che parla a nome della NASA. Il tunnel caotico, come la verità estatica, è un trampolino per arrivare a dei livelli di lontananza e profondità impossibili da raggiungere con strumenti tradizionali. Scopriamo però che il duplice viaggio (degli abitanti di Wild Blue Yonder verso la Terra e dei terrestri verso Wild Blue Yonder) non si è risolto in una conquista. Le identità si sono perse nel cammino, insieme ai sogni di una ripartenza, di una nuova civilizzazione. La cosa che sconvolge lo stesso alieno che ci racconta la storia è che sia gli extra-terrestri sia gli umani, appena arrivano nel nuovo pianeta e ragionano su come stabilirsi, progettano di costruire un centro commerciale. Ecco in cosa si risolve una ricerca che si spinge oltre l’infini- to, nell’ignoto spazio profondo. Allora davvero non vale la pena di cercare un altrove. Quel che rimane è solo il viaggio nel vuoto. Senza gravità, attoniti, nell’astronave gli uomini fanno esercizi fisici, si infilano nei sacchi a pelo, muovendosi in uno spazio estenuante, che non dà da fare. Sotto la calotta ghiacciata di Wild Blue Yonder i movimenti sono ugualmente lenti, l’acqua raggela, la luce che filtra attraverso il ghiaccio è troppo pulita. Si incontra una fauna acquatica che nuota indifferente alla presenza dell’uomo, per una rotta senza scopo apparente. Solo una volta una creatura si avvicina, attirata dalla luce. E subito l’astronauta la respinge. La costruzione di senso non sta, com’è ovvio, nell’edificazione di malls ma nei gesti di uomini che hanno imparato a convivere con l’assenza di gravità e il gelo subacqueo. E con una verità che, lassù, laggiù, giace inaccessibile. Ma come scrive Gershom Scholem del Dio dei cabbalisti, si può provare l’estasi di un fugace contatto andandola a cercare “nelle profondità del suo Nulla”. È con questo che abbiamo a che fare, con l’incorruttibile indifferenza del cosmo, che resiste ad ogni nostro tentativo di capire, di conoscere. Solamente accettando la lezione del vuoto è possibile ambire a qualche piccolo lampo di verità, estaticamente inscritta in esso. The lesson of emptiness. Aesthetic truth in the “Wild Blue Yonder” “Aesthetic truth”. The formula sounds good, has been successful. Werner Herzog writes about it in The Min- 45 nesota Declaration1, his manifesto, at point 5: “There are deeper strata of truth in cinema, and there is such a thing as poetic, ecstatic truth. It is mysterious and elusive, and can be reached only through fabrication and imagination and stylization”. In this way, the distinction between documentary and fiction loses its meaning, it is not decisive, becomes obsolete. What is important is the way in which the audiovisual narrative is related to reality. For Herzog there is a form of cinematographic consciousness that enables one to reach the profound core of matters. An illumination. Cinema is able to, in some sporadic flash, to reveal us something essential regarding that which identifies us as human beings. It does this by searching in reality for something that touches us by its vicinity to the truth, because we experience it as something profoundly real. Aesthetic truth cannot be found in reality as it is. As Herzog argues, it has to be fabricated, imagined, stylized. In the interviews, the examples of aesthetic truth have to do with moments of suspension internal to the frame, with related inertial postponements of meaning2; or with the enforcements of reality by the narrator, in order to complete an experience, to instill meaning into that which is in front of the camera, in order to profoundly touch the heart and mind of the spectator.3 1 http://www.wernerherzog.com/main/de/html/ news/Minnesota_Declaration.htm 2 As it happens in Kalachakra – Wheel of Time (2003), when a bodyguard – who has to protect the Dalai Lama – continues to defend nobody from no one once the latter has left www.adamgollner. com/file_download/3/ECSTATIC+TRUTH.pdf; or in Grizzly Man (2005), when the protagonist leaves the scene and, in his absence, the grass moved by the wind jumps unexpectedly from the background to foreground: www.timeout.com/film/news/901/. 3 About Land des Schweigens und der Dunkelheit (1971), a documentary on an extreme handicap, Herzog declares to have written lines to be recited by the deaf and blind protagonist. For instance, the woman says: “If a war would break out, I would not even notice”. In Echos aus einem düsteren Reich (1990) a fake dialogue is constructed, improvised between Herzog and the reporter Michael Goldsmith in front of a nicotine-addicted chimp in a cage in the zoo: “ ‘While this dialogue and my use of the animal was a completely scripted invention, the nicotineaddicted monkey itself wasn’t. There was something momentous and mysterious about the creature The truth, according to Herzog, is not “out there”, ready to be singled out by anyone who makes a honest use of the video camera. One acquires the truth by starting a process that has not only to do with the registration of a fact of reality, but with its elaboration. When in search of aesthetic truth, cinema does not limit itself to registering facts, at a superficial level. It goes into the deep. It sinks down. Not least from the title, The Wild Blue Yonder, this sense of a quest that goes beyond, that transcends, becomes clear. Herzog defines The Wild Blue Yonder a science fiction fantasy. The material for the film is constituted by the following: film material from the NASA (hangars, astronauts in space); underwater shootings from under beneath Antarctic ice; a man with a pony tail that speaks about an abandoned town in the middle of the desert. There is something else too, a brief interlude of the first airplanes’ flights, early 1900 shootings in black and white, dnd shootings of forests from the bird’s eye view of a helicopter. On the basis of these images, internally monotonous and incoherent between them, Werner Herzog narrates a story. He lets the man with the pony tail speak, who presents himself as an alien. It is purely an oral story, a person who speaks into the camera. The story told by the alien makes us read those images in the way his words defined them. His unreal subtitles invent our view. His narration imposes a new point of view on the images of the NASA and Antarctica – shootings that were just “documentaries” a second before the alien overdubs them. The alien claims to be the descendant of a generation of extra-terrestrials who fled to the Earth from their planet of origin, the Wild Blue Yonder, and they subsequently mixed and integrated with the human beings. He says that one day a small spaceship was launched from Earth for a journey into the universe, searching for a new, liveable planet. This ship wounded up on the Wild Blue Yonder. When, after 820 years, the ship returns to Earth, it found it no longer inhabited by human beings, and returned to its original form and pride. The easiness with which the astronaut moves from and filming it in the way I did brought the film to a deeper level of truth, even if I didn’t stick entirely to the facts’. To call Echoes from a Sombre Empire a ‘documentary’ is like saying that Warhol’s painting of Campbell’s soup cans is a documentary about tomato soup”: http://www.filminfocus.com/article/the_ecstatic_truth_of_werner_herzog. galaxy to galaxy is the result of a real scientific miracle. A scientist (we can even read his e-mail address: [email protected]) explains us how such voyages could be realized: he calls his theory “chaotic transport”, he explains it with an abundance of computer graphics and technicalities. “Chaotic tunnels” are said to exist, short-cuts that permit one to jump from one galaxy to another, exploiting, similar to the elastics of a catapult, the force of gravity of planets. The mystic character of travelling is emphasized, not ridiculed, by this explanation of the Asian-American scientist who speaks in NASA’s name. The chaotic tunnel, similar to the aesthetic truth, is a springboard for arriving at levels of distance and profundity that would be impossible to reach by conventional means. However, we discover that the dual voyage (of the inhabitants of Wild Blue Yonder to the Earth, and of the earthlings to Wild Blue Yonder) has not resulted in an achievement. The identities have been lost in the process, together with the dreams of a restart, of a new civilization. The aspect that impresses the alien-narrator is that both the extra-terrestrials and the earthlings right after their arrival and initial contemplation on their new life rush to build a shopping mall. This is what in the end becomes of a quest that pushes us beyond the limits of the infinity, of unknown, profound space. That which remains is only a voyage into emptiness. Without gravity, terrified, humans engage in physical exercise inside their spaceship, they slide into their sleeping bags, they move within a tiring space, without really having anything to do. Beneath the ice cap of the Wild Blue Yonder, movements are equally slow, water freezes, the light that filters through the ice is too weak. One encounters a submarine fauna that swims without taking notice of the presence of human beings, on a straight track without any apparent goal. Only once does a creature come closer, attracted by the light. And the astronaut immediately pushes it away. The construction of meaning does not emerge from, obviously, the building of shopping malls but from the gestures of humans who have learned to cohabitate with the absence of gravity and underwater freeze. And this leads us to the incorruptible indifference of the cosmos, that resists any of our attempts to understand, to know. Only by accepting this lesson of emptiness it is possible to aspire to some small burst of truth, aesthetically inscribed into it. 47 “Si riproduce così ancor oggi, per l’etnografo che si rechi nelle aree di sopravvivenza, lo spettacolo di due mondi, il cristiano e il pagano, che coesistono senza mescolarsi, ultimo avanzo di una grande battaglia che fu combattuta ma non interamente vinta. […] Questa tenacia di sopravvivenza e questo limite alla espansione del costume cristiano pongono senza dubbio un problema. Quasi si direbbe che il Cristianesimo ebbe sì la potenza di riplasmare il costume negli strati superiori della società civile […] ma non poté dispiegare uguale energia plasmatrice nelle campagne. […] Così una lamentatrice lucana di Valsinni riassunse con inconsapevole esattezza un aspetto non del tutto irrilevante di quel complesso di problemi sociali, politici e culturali che va sotto il nome di quistione meridionale quando ci disse che nel suo paese vi erano due modi di patire la morte, quello dei signori che piangono soltanto in cuor loro, e quello dei “cafoni” che si abbandonano al lamento rituale. […] È il riflesso di una fondamentale precarietà esistenziale per cui la presenza dispone di una povera memoria retrospettiva e di una angusta coscienza prospettica di comportamenti culturalmente efficaci” da Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, 1958. 49 Street photography as social interaction Andrea Mubi Brighenti Street photographers know quite well that taking a picture is a form of social interaction. Since the birth of this genre of photography, they have been discussing at length about the ethical problems involved in taking pictures of personal strangers in public places without asking permission. Not to speak of legal problems, which have always been present to some extent (just recall the prohibitions on taking pictures of human beings during war times) but are becoming more and more relevant in the context of present-day enhanced security paranoia. For instance, in 2008 the UK Home Secretary declared that restrictions on photography in public places are legitimate (an anti-restriction petition can be found at http://petitions. number10.gov.uk/Photorestrict/#). These controversies confirm that what is at stake in taking a picture involves much more than a mere visual subject-to-object recording or representation of some subjects. Or, to put it better, these controversies hint at the fact that the visual should be thoroughly reconceptualised, overcoming the myth that the domain of vision constitutes a detached, disembodied domain. This is a typical modern mythology, which regards vision as a detached gaze whose nature is essentially epistemic. In fact, rather than being merely a matter of symbols and representations, visual interaction has a fully ‘haptic’ component. Regards are social forces endowed with a power of ‘making do’ – they are acts that have a grip on bodies: acts of seizure. Once looking and being looked at are recognised as fundamental social forces, street photography may prove to be a powerful in vivo observatory for ethnographers and sociologists, not simply because of the represented subjects – which, of course, do often fall within the interests of urban ethnography and ethnographic research in general – but because of the whole process of image-taking they entail. This process is an activity that defines and negotiates the boundaries of visibility and intervisibility of subjects and determines their coming into social existence through interaction. In short, the visible is the field where social existence takes place. On the basis of what just said, what kind of dialogue could exist between sociology and street photography? Among the many other considerations to be done, here I would simply suggest two points. First, on the one hand, street photography invites sociology – and, specifically those sociologists who are more interested in overcoming the ‘avoidance of the concrete’ (Canetti) that has dominated the discipline for quite a long time – to reconsider the role of the situated materiality of the visible in social life, enquirying into the nature of the immediate social Andrea Mubi Brighenti researches into space, society and power, with a focus on urban environments. He has recently published a monograph in Italian on Migrant Territories. Space and Control of Global Mobility (ombre corte, 2009). [email protected] 51 forces it unleashed. When we look at a picture taken by a street photographer, we gain direct access to the whole process of social interaction in the urban environment rather than simply consult ‘a document’. Such wider process is made of a wealth of details that are to be studied. Second, on the other hand, sociology invites street photography to reconsider some of its assumptions. One of the major declared aims of street photography is to get at a subject who is ‘candid’, in the sense that she is not posing. The philosophy of most street photography is precisely to catch moments of real life in the immediacy of Sociologists should not overlook the aspect of materiality, their taking place in public places. spatiality and even better territoriality of the social; street ‘Getting to reality’, however, is photographers and sociologists alike should appreciate the mythic, because conventions act of taking pictures and producing photographic evidence of a slice of street life as a form of social interaction. of representation are always involved. Otherwise one could not tell a good picture from a bad one. But, even apart from that, a sociological regard on street photography aims to ask larger questions. For instance, what is actually a ‘pose’? Isn’t posing after all a significant social activity itself (recall August Sander’s portraits)? And isn’t posing an integral part of the ‘presentation of the Self in everyday life’ (Goffman 1959)? There is no possible opposition between posing and real social life. Rather, because taking a picture creates a social relationship the very act of taking pictures should be understood in the light of the specific modifications it introduces into the ‘interaction order’ (Goffman 1983) and its visibility regime. In summary, taken together, these two reciprocal invitations – of street photography to sociology and of sociology to street photography – converge towards a crucial enlargement of the field of the visible as a pivotal dimension of social life. Hence, two major points emerge from my preliminary exploration: first, sociologists should not overlook the aspect of materiality, spatiality and even better territoriality of the social; second, street photographers and sociologists alike should appreciate (and study) the act of taking pictures and producing photographic evidence of a slice of street life as a form of social interaction, in which the issue of the ‘reality’ or ‘realism’ of the product becomes of secondary importance compared to the richness and the subtleties of the social dynamic that revolve around the management of reciprocal visibilities in public places. References Goffman, E. (1959) The Presentation of Self in Everyday Life. Garden City, N.Y.: Doubleday. Goffman, E. (1983) ‘The Interaction Order’. American Sociological Review 48(1): 1-17. Per un uso performativo delle immagini nella ricercaazione sociale Andrea Membretti La costruzione sociale della realtà e il ruolo degli spazi e delle immagini In sociologia per costruzione sociale della realtà (Berger e Luckmann, 1967) si intende quel processo intersoggettivo tramite cui gli attori sociali conferiscono un particolare significato al loro mondo di riferimento, attraverso una continua negoziazione con gli altri di natura essenzialmente simbolico-culturale. La corrente sociologica dell’interazionismo simbolico (Blumer, 1969) enuclea tre assiomi fondamentali di questo processo: 1. Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che queste hanno per essi; 2. Il significato di una cosa per una persona nasce dai modi in cui le altre persone agiscono verso la persona riguardo la cosa; 3. L’uso dei significati da parte del soggetto avviene attraverso un processo di costante interpretazione. Il cosiddetto “Teorema di Thomas” (Thomas e Thomas, 1928), o della “profezia che si auto-avvera”, sintetizza ulteriormente questo ragionamento nei seguenti termini: “Se una situazione viene definita dalle persone come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze osservabili”. Nella costruzione sociale della realtà giocano un ruolo fondamentale lo spazio e il territorio, proprio perché, come sostiene Erving Goffman (1974), ogni esperienza umana è contestuale, situata: è il frutto di un peculiare rapporto mente-ambiente, dove il primo di questi due poli riguarda l’identità del soggetto e la sua dimensione cognitiva/emotiva, mentre il secondo si riferisce tanto al contesto fisico-spaziale in cui avviene l’esperienza, quanto a quello socio-relazionale. Goffman (1959) sostiene che i rapporti interpersonali possono essere letti essenzialmente in chiave “drammaturgica”, con ciò intendendo che la vita quotidiana è una costante “rappresentazione”, in cui gli attori “mettono in scena” personaggi attraverso i quali negoziano e quindi costruiscono una comune situazione narrativa. Gli effetti durevoli di questa rappresentazione sono condensati nelle identità, individuali e collettive, che per il tramite di queste interazioni si rafforzano, si trasformano o si indeboliscono, e nei significati attribuiti a spazi e territori che, in questo modo, diventano luoghi nel senso antropologico del termine. Non tutti gli attori, tuttavia, hanno lo stesso potere definitorio: c’è chi può determinare, in misura maggiore o minore, l’“allestimento scenico” e chi invece si trova ad interagire in un contesto già strutturato; c’è chi riesce ad imporre un “copione” e un certo “registro narrativo” alla rappresentazione, fondato su determinati codici comunicativi e su assiomi di fondo dati per scontati, e chi invece deve recitare una parte da altri confezionata, con un linguaggio non proprio, magari affrontando un processo più o meno agevole di traduzione. Infine ci sono anche i meri spettatori, il cui ruolo è quello essenzialmente di approvare o meno la rappre- Andrea Membretti, dottore di ricerca in sociologia e professore a contratto presso l’Università di Pavia, si occupa di ricerca qualitativa e di ricerca-azione, con particolare attenzione alle tematiche territoriali e giovanili. [email protected] www.sociability.it 53 sentazione, a seconda innanzitutto del grado di adesione ad essa, e quindi di immedesimazione, da essi sperimentato. Dunque in questa prospettiva analitica il significato del mondo che ci circonda è costantemente costruito e ri-costruito attraverso un uso negoziale e intersoggettivo di codici comunicativi: appare evidente, allora, che in questo processo l’immagine – del sé, degli altri, dell’ambiente – assume un ruolo fondamentale. La costruzione sociale della realtà è anche e soprattutto una costruzione (e ri-costruzione/ri-definizione) di immagini, sociali e spaziali, che sono L’utilizzo, ma soprattutto la creazione, delle immagini che il condensato di identità, il può essere fatto con la ricerca-azione si configura come di tipo simbolo di luoghi nonché performativo, vale a dire atto a creare forme di realtà condivisa, il medium principale della da intendersi, in senso figurato e in senso filmico, come l’effetto comunicazione stessa. Oggi emergente di un lavoro collettivo e dialettico, tra ricercatori e più che mai la distinzione partner coinvolti. tra realtà e immagine della realtà appare infatti difficile da sostenere: reinterpretando il teorema di Thomas, potremmo infatti sostenere che “se una situazione viene rappresentata per immagini, e quindi percepita innanzitutto visivamente, come reale, saranno reali le conseguenze osservabili di tale definizione”, ovvero tale rappresentazione sarà di natura performativa. L’uso delle immagini nella ricerca sociale: approccio cognitivo e approccio performativo L’uso scientifico delle immagini nella ricerca sociale va sotto l’etichetta di sociologia visuale (Faccioli e Losacco, 2003): con questo termine si intende l’insieme delle tecniche e delle metodologie che fanno uso di strumenti e di dati audiovisivi per lo studio dei fenomeni sociali. La sociologia visuale, nata come tale negli anni Sessanta del ‘900 in rapporto iniziale con l’inchiesta giornalistica e con il reportage socio-etnografico, si basa sull’idea che le fotografie, i video e qualunque altra rappresentazione iconica e audiovisuale della realtà possano essere utilizzati all’interno della ricerca sociale. Le immagini sono infatti socialmente costruite e socialmente, storicamente, culturalmente interpretate e interpretabili; esse costituiscono una “descrizione densa” della realtà (Geertz, 1973), fornendo alla ricerca sociale informazioni non ottenibili diversamente. Se l’approccio tipico della sociologia visuale è di natura cognitiva (laddove la raccolta e l’uso delle immagini di fenomeni sociali è finalizzato a costruire, validare o confutare ipotesi e teorie esplicative), qui mi interessa invece maggiormente discutere un altro approccio, sviluppatosi sempre in sociologia e che costituisce un terreno di sperimentazione per la creazione e per l’uso delle immagini, che è quello della ricerca-azione (Lewin, 1946). Si tratta di una ricerca in cui vi è tanto un’azione intenzionale di modificazione della realtà, quanto la produzione di conoscenze che riguardano tale modificazione, con l’obiettivo di fornire un supporto (empowerment) per cambiare condizioni giudicate insoddisfacenti da parte di alcuni soggetti o gruppi. Nella ricerca-azione l’interpretazione tende dunque a coincidere con la trasformazione dei fenomeni sociali osservati, in quello che si può chiamare un processo di costruzione di una realtà condivisa attraverso l’osservazione critica. Il problema da affrontare non è dato ma invece è costruito, tramite un processo di selezione di una delle molteplici descrizioni possibili relative ad una situazione: infatti una situazione può sempre essere ridefinita ed il problema ri-descritto. L’interpretazione della situazione problematica rappresenta perciò di per sé una modificazione della stessa. Mi sembra chiaro allora che l’utilizzo, ma soprattutto la creazione, delle immagini che può essere fatto con la ricerca-azione si configura come di tipo performativo, vale a dire atto a creare forme di realtà condivisa, da intendersi, in senso figurato e in senso filmico, come l’effetto emergente di un lavoro collettivo e dialettico, tra ricercatori e partner coinvolti, su “inquadrature”, “piani”, “sequenze” , “montaggi”, ecc. L’uso e la creazione dell’immagine, specialmente in contesti socialmente problematici, costituisce allora un importante mezzo per favorire l’auto e l’etero riconoscimento delle istanze soggettive e collettive, proprio a partire da un comune spazio di riferimento, ovvero la loro emersione come elementi dotati di propria fisionomia e messi in luce da una particolare prospettiva. L’uso performativo delle immagini nella ricerca-azione: una forma di empowerment visuale Da alcuni anni, venendo dalla pratica sociologica dell’inchiesta territoriale e dalla sua ibridazione con progetti di documentaristica sociale, ho iniziato a sviluppare, tramite la collaborazione con alcuni registi e video-maker, un approccio alla ricerca-azione fondato sull’utilizzo di tipo performativo delle immagini, che mira a fornire le basi per quello che definisco come empowerment visuale. Il punto di partenza di questo approccio è costituito dalla reinterpretazione, in chiave visuale, del teorema di Thomas più sopra proposta, ovvero: “se una situazione viene rappresentata per immagini, e quindi percepita innanzitutto visivamente, come reale, saranno reali le conseguenze osservabili di tale definizione”. Questa affermazione attribuisce un notevole potere definitorio alle immagini e, quindi, ai soggetti che le producono, le manipolano e le diffondono, pubblicamente o in determinati ambiti sociali. Nei contesti socialmente critici in cui tradizionalmente si gestiscono processi di ricerca-azione tale potere di definizione non è però in origine nelle mani dei soggetti interessati dal percorso di ricerca come partner dell’intervento; al contrario, l’immagine del territorio/spazio di riferimento, così come quella dei suoi abitanti e dei loro vissuti, è solitamente imposta dall’esterno, spesso come cristallizzazione stereotipata, o comunque è prodotta da parte di soggetti in posizione dominante, in grado di allestire un palcoscenico mediatico in cui i soggetti depotenziati si trovano a recitare parti stereo-tipizzate in un ambiente visuale etero-definito. Uno degli obiettivi delle tradizionali strategie di empowerment, individuale e collettivo, in tali contesti è proprio lo sviluppo di identità autonome, basate sulla fiducia in sé e nelle proprie capacità, sulla autodeterminazione rispetto alla propria vita e al proprio ambiente socio-spaziale di riferimento (ri-appropriazione). Per empowerment visuale intendo allora il frutto di percorsi di ricerca-azione finalizzati in primis alla redistribuzione, collettiva e a ciascuno, di questo potere definitorio per immagini, rivolta ai soggetti direttamente interessati dalla ricerca-azione. Si tratta di una redistribuzione che vede come particolarmente rilevante la dimensione spazio-territoriale, laddove gli attori coinvolti spesso sono alienati dal proprio ambiente, che vivono come estraneo, oppure come minaccioso, o ancora come costrittivo, ma soprattutto come in gran parte ignoto, e quindi fuori dal proprio effettivo controllo, dalla propria capacità di denominazione. Il nucleo di questo tipo di empowerment è una attività intersoggettiva e negoziale di reframing (ri-tematizzazione/ri-costruzione; Goffman 1974) rispetto ad un contesto socioterritoriale, basata sull’utilizzo dell’immagine e sul suo carattere di “fissazione durevole” della realtà, atta ad essere comunicata tanto all’interno del gruppo/contesto coinvolto, quanto all’esterno, nella società più vasta. Un re-framing che mira a mettere in discussione gli assunti e gli atteggiamenti indiscussi (stereotipi, routine, pratiche consuetudinarie, ecc., con il correlato di relazioni di potere) mediante cui la società nel suo complesso, ma anche i soggetti 55 direttamente interessati hanno fino a quel momento “etichettato” la situazione stessa e gli attori in essa coinvolti. Un re-framing che costituisce dunque la selezione partecipativa di una delle molteplici descrizioni possibili relative ad una situazione, frutto della negoziazione consapevole tra gli attori inseriti nel percorso di ricerca-azione e finalizzata a produrre un’immagine condivisa della propria realtà. Nei progetti di ricerca-azione che ho condotto in questi anni tramite l’uso performativo dell’immagine (http://www.sociability.it/?page_id=21) i partner coinvolti – ad esempio una comunità zigana di sinti, oppure alcune classi scolastiche, o ancora i membri di una società operaia di mutuo soccorso – sono diventati dunque attori di un processo partecipativo, tramite cui si è mirato a cambiare la percezione che questi soggetti avevano di sé e del proprio ambiente e quella che di loro aveva la società circostante: se, riprendendo Blumer, “gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che queste hanno per essi”, oggi tali significati appaiono sempre più legati alle immagini che li veicolano. La redistribuzione del potere definitorio tramite immagini, allora, si configura come una potenzialità ricca di ricadute in termini di azione concreta e di trasformazione dell’esistente. Riferimenti Berger, P., T. Luckmann (1967) The social construction of reality. New York: Doubleday. Faccioli, P., G. Losacco (2003) Manuale di sociologia visuale. Milano: Franco Angeli. Geertz, C. (1973) The interpretation of cultures. New York: Basic Books. Goffman, E. (1959) The Presentation of Self in Everyday Life. Garden City, N.Y.: Doubleday. Goffman, E. (1974) Frame analysis: An essay on the organization of experience. New York: Harper & Row. Lewin, K. (1946) “Behavior and development as a function of the total situation”, in L. Carmichael (ed.) Manual of child psychology. New York: Wiley. Thomas, W.I.,D.S. Thomas (1928) The Child in America. New York: Knopf. 57 “Pastanera” e “I treni della felicità” Un progetto parallelo di storia e cinema Giovanni Rinaldi Negli anni ’50, in un’Italia distrutta dalla guerra, dove l’inflazione era arrivata alle stelle e il lavoro era quasi inesistente, persone con un profondo senso morale, superando ostacoli e difficoltà di natura economica, materiale e psicologica, diedero inizio ad un movimento di solidarietà popolare e nazionale con lo scopo di ospitare in famiglie di lavoratori ed operai del Nord e del Centro Italia, dove il tessuto sociale aveva maggiormente resistito, i bambini delle regioni maggiormente colpite dalla guerra. Una grande esperienza popolare che aiutò, grazie ai “treni della felicità”, circa 70.000 bambini, facendogli vivere, dal 1946 al 1952, con l’adozione familiare, un’infanzia meno dolorosa. Tutto iniziò nell’autunno del 1945 con l’invio di migliaia di bambini milanesi e torinesi in Emilia, poi con i bambini di Roma, Cassino, Frosinone, Napoli e la Sicilia. E proprio sulla scia di questo grande movimento nato per iniziativa di associazioni femminili, come l’UDI (Unione Donne Italiane), e dei partiti di sinistra, abbiamo voluto raccontare la storia e le storie di tanti, spesso invisibili, protagonisti di questo movimento di solidarietà democratica e di un pezzo di storia del nostro Paese non ancora conosciuto. Questa è la storia sulla quale chi scrive e Alessandro Piva, regista, hanno deciso nel 2002 di lavorare, con l’obiettivo di realizzare un documentario che la raccontasse, facendo parlare i protagonisti che l’avevano vissuta. L’Italia a cui ci siamo riferiti è quella della memoria e del presente, il Paese dello sfruttamento e della rivolta, l’Italia agricola di sessanta anni fa, quella della terra (zappa, fatica, pelle arsa dal sole) e quella del cielo (creatività, festa, rito, simbolo, sogno). Un Paese dal quale tanti emigranti sono partiti in cerca di fortuna e che oggi è meta agognata di tanti immigrati. L’Italia divisa tra dialetti e tradizioni diverse fra loro, ricca di storie apparentemente “locali” che hanno in sé tutte le ragioni, le emozioni e i segni arcaici delle culture del mondo. Quali tracce hanno lasciato i braccianti, i contadini e gli operai italiani nella cultura e nell’identità nazionali? Quali intrecci, tra movimenti di massa ed esperienze personali, hanno portato ad incontrarsi comunità del sud e comunità del nord sulla base di ideologie comuni o piuttosto di sentimenti di solidarietà e apertura culturale? La rievocazione per immagini e parole che abbiamo realizzato, ha provato a rappresentare, al di là dei fatti particolari cui si riferisce, uno spaccato contemporaneo delle condizioni del Paese nel periodo determinante della storia nazionale. Questo grande movimento solidaristico di massa, pur nato in seguito ad avvenimenti eccezionali ormai lontani e irripetibili, contiene non solo elementi storicamente interessanti, ma intuizioni universalmente valide Giovanni Rinaldi è ricercatore indipendente di storia orale, grafico, fotografo e organizzatore di eventi culturali. è direttore dell’associazione Casa Di Vittorio. [email protected] www.giovannirinaldi.info 59 e stimolanti come la solidarietà e l’unione tra Nord e Sud per un fine comune: la salvezza dell’infanzia più disagiata per assicurarle un avvenire migliore; il desiderio di una diversa e più umana qualità della vita e il nuovo ruolo sociale svolto dalla famiglia all’interno di una società rinnovata; la partecipazione diretta delle masse popolari. È l’Emilia Romagna al centro di questa grande campagna di solidarietà che accoglie i figli dei braccianti e degli operai, dei partigiani e dei soldati morti in guerra. Al termine dell’accoglienza rimaneva spesso però anche la difficoltà del ritorno dei bambini alla realtà dura d’origine e la dolorosa scelta di alcuni di rimanere L’Italia a cui ci siamo riferiti è quella della memoria e del pre- nella nuova realtà sociale sente, il Paese dello sfruttamento e della rivolta, l’Italia agricola scoperta. Abbiamo racdi sessanta anni fa, quella della terra (zappa, fatica, pelle arsa contato le vite parallele dal sole) e quella del cielo (creatività, festa, rito, simbolo, sogno). delle famiglie meridionali e settentrionali accomunate da un’esperienza concreta di “fratellanza”, con il mantenimento sino a oggi dei rapporti di amicizia e di scambio tra queste nuove “famiglie allargate”. Il percorso di creazione della sceneggiatura del documentario, Pastanera, è partito dal lavoro di ricerca storico e dalle storie personali, dalla narrazione orale di tanti protagonisti, dalla “letteratura materiale” raccolta con incontri privati e pubblici. Se la storia orale è stato il metodo di riferimento storico-antropologico per l’individuazione di figure umane, di fatti e forme di comportamento e autorappresentazione, la creatività artistica è stato il miscelatore delle “icone” antropologiche definite dalle microstorie per la creazione di una storia tra le storie. Il lavoro di studio, raccolta, individuazione di fonti e comparazione di forme e contenuti, svolto in forma scientifica e rigorosa, è stato continuamente verificato con la testimonianza dei protagonisti, articolandosi come modello di laboratorio della memoria, museo non statico, “evento” dinamico e flessibile che inserisce nel processo di acquisizione dei materiali un metodo collettivo di gestione della memoria. I prodotti finali – il documentario e il libro – ne saranno la sintesi creativa e artistica: alcune delle diverse interpretazioni possibili dei frammenti di memoria che, come in un domino, si sono collegati sul piano di lavoro. Per quanto riguarda la raccolta di interviste, il primo obiettivo è stato quello di raccogliere informazioni sullo svolgimento dei fatti, l’entità e i modi del coinvolgimento popolare, gli aspetti organizzativi, l’immagine residuale che di quelle storie è rimasta nella memoria dei protagonisti. Il secondo obiettivo è stato di raccogliere vere e proprie autobiografie con totale libertà per gli intervistati di raccontare il proprio vissuto, la propria immagine del mondo, i momenti quotidiani della propria vita in quella particolare circostanza (il cibo, i rapporti tra i sessi, i rapporti familiari); il terzo obiettivo (per i testimoni ospitati al nord) quello di cogliere differenze e affinità con le culture eventualmente incontrate nel viaggio in Emilia e le altre regioni ospitanti. Nel documentario le storie personali, le fotografie, i racconti si sommano in maniera più libera e “caotica” rispetto al soggetto e all’iter narrativo del libro. Fa da sfondo la raccolta e la sistemazione dei materiali acquisiti (fotografie, filmati, interviste, poesie, canti, manoscritti ecc.), delle esperienze affrontate (assemblee pubbliche, raccolta di materiali della memoria attraverso richieste pubbliche, filmati di repertorio), l’uso di metodi diversi e interdisciplinari utilizzati (la cultura del vestire, del cibo, delle tecniche del lavoro, della festa, della narrazi- one). Si è realizzata così, già prima dei prodotti finali, una documentazione complessiva che consente l’eventuale produzione di altri prodotti editoriali (catalogo fotografico, CD-ROM, DVD interattivo), allestimenti espositivi (mostra fotografica con testi e audio), eventi spettacolari (musica e teatro). Gli stessi materiali espositivi e multimediali potranno essere utilizzati in funzione didattica realizzando esperienze di laboratorio e interventi nelle scuole. La macchina da presa del cineasta si è piegata alle esigenze della ricerca storica, seguendo le interviste sui tempi lunghi del racconto autobiografico. I narratori non sono stati spinti dalle domande incalzanti, come spesso avviene nei reportage giornalistici, che quasi tolgono il respiro alla narrazione. Il lavoro di taglio e montaggio successivo ha ricollocato frammenti e divagazioni in un quadro rappresentativo decifrabile ed emotivamente efficace. Al contrario, nel testo scritto (I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie) l’analisi del ricercatore ha sopperito alle carenze di immagine e di contesto ambientale, con la descrizione di particolari, modalità d’incontro e individuazione di testimoni e luoghi della ricerca, attingendo alla memoria delle immagini registrate, trascrivendo le parole e rielaborandole, osservando attentamente le riprese, provando a ridisegnare le parole sulla carta. Il racconto si è quindi spontaneamente sostituito al saggio storico, inizialmente previsto, rivivendo i momenti dell’incontro con i protagonisti degli eventi, ripercorrendo le tappe di un viaggio alla ricerca di storie e di immagini. Provando anche a raccontare non solo i soggetti che avevamo di fronte, ma anche noi stessi con i diversi “attrezzi” che ci hanno consentito di diventare testimoni a nostra volta di storie prima sconosciute. In un precedente lavoro di ricerca, pubblicato ne La memoria che resta. Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia (G. Rinaldi e P. Sobrero, Edizioni Aramirè, Lecce 2004), era il registratore magnetico che fissava le parole, i rumori, i suoni, costruendo un “paesaggio sonoro” che andava poi trascritto, ricordando quello che si era provato e vissuto durante l’ascolto, nello scambio tra ricercatore e intervistato. Oggi, con la videocamera, è il “rivedere”, fermandosi, rallentando, scorrendo velocemente, che permette di raccontare e descrivere atteggiamenti, sguardi, emozioni, tentennamenti, sottolineature. Anche la trascrizione fedele del racconto registrato diventa quindi parziale, indecifrabile, e solo la narrazione di tipo letterario ci riconsegna l’esperienza del testimone, mai solitaria e sempre collettiva (testimone e ricercatore). Il racconto cinematografico, a sua volta, ha avuto bisogno del narratore (il ricercatore) per collegare le diverse testimonianze raccolte in luoghi e contesti diversi. Alla fine i due prodotti si sono affiancati, rimanendo differenti. Costruiti insieme nella prima fase di raccolta in viaggio, per poi ricostruirsi separatamente, ognuno seguendo i canoni del proprio linguaggio specifico. 61 Pratiche narrative. L’esperienza del Laboratorio Urbano Aperto in Salento Laura Basco L’esperienza di ricercazione del LUA (Laboratorio Urbano Aperto)1 è iniziata con una e-mail fatta girare da un nucleo di giovani salentini, tre architetti – legati alla facoltà di architettura di Firenze – e una sociologa. L’invito a partecipare a un laboratorio urbano di esperienze conoscitive, che aveva l’obiettivo di mettere a confronto diverse riflessioni sull’identità del piccolo paese di San Cassiano, a partire dal contatto con gli abitanti, era diretto ad un piccolo gruppo di amici e conoscenti che, giorno dopo giorno – tramite il web e il passaparola – è aumentato spontaneamente fino ad radunare il 3 agosto 2003, giorno di apertura del primo laboratorio, ben 61 persone di diversa provenienza. “Qualcuno che faceva base a San Cassiano, durante i due mesi precedenti, aveva stampato e fotocopiato l’invito e ne parlava ogni sera al bar... Questa cosa suscitava un certo interesse e una crescente aspettativa”2. San Cassiano è un paese di 2.223 abitanti nella provincia di Lecce. Centro periferico nel territorio disperso del Salento meridionale, o delle Serre. Nell’agosto del 2003, in un intervallo di tempo di circa una settimana e in una porzione di spazio all’interno di tre coordinate spaziali, il LUA prende la forma di un evento estivo. Il desiderio del piccolo gruppo di promotori era “fare qualcosa per il nostro territorio cercando di mettere a frutto le esperienze fatte durante gli anni universitari”. Il tema scelto per quel primo anno era l’identità: “un tema che voleva essere una chiave di accesso per analizzare un luogo ed un territorio privo di emergenze e di attrattive, fuori dai circuiti abituali del turismo. Volevamo capire il luogo con e attraverso gli abitanti”3. L’8 agosto vengono presentate ventiquattro ricerche, frutto di cinque giorni di laboratorio residenziale e di due mesi di discussioni in rete. La strada principale del paese, chiusa al traffico per l’occasione, diventa lo scenario delle installazioni e quando in alcuni casi, per lavori che necessitavano ambienti più raccolti di fruizione, si chiese di poter utilizzare gli ambienti interni delle abitazioni “le signore di via Roma ci hanno prestato i loro soggiorni, le ‘stanze de nanzi’, ovvero le stanze che affacciano sulla strada. Le hanno pulite, le hanno messe in mostra, era come se aprissero la propria casa a tutti”4. 1 Il gruppo promotore del LUA è formato in parte da persone del luogo e in parte da soggetti esterni, radunati sotto il nome di Labdue: Valentina Battaglini, Juri Battaglini, Antonella Fino, Gaetano Fornarelli e Mauro Lazzari. 2 Intervista a Mauro Lazzari, eseguita dall’autrice. 3 Intervista a Juri Battaglini, eseguita dall’autrice. 4 Intervista a Mauro Lazzari, eseguita dall’autrice. Laura Basco, architetto, dottore di ricerca in Urbanistica e Pianificazione Territoriale, è esperta di processi di sviluppo locale e partecipazione. Nella sua tesi di dottorato – Quando la comunità è il planner. Pratiche di autogestione urbana e strumenti conviviali – si è occupata dell’esperienza del LUA, a cui partecipa attivamente dal 2003. [email protected] http://laboratoriourbanoaperto. wordpress.com/ 63 Da allora, il LUA, durante l’anno, tesse la trama, il sottotesto del dialogo e dell’incontro tra artisti invitati ed abitanti, su cui si auto-organizza il laboratorio estivo. Le ricerche vengono esibite nel giro di una serata, a chiusura del ciclo del laboratorio, durante la quale il paese si scopre nel lavoro dei gruppi e si apre ai visitatori. Il LUA è un processo che consta di tre tappe principali di produzione: una fase di pianificazione in cui si decidono il tema e i contesti e si diffonde il progetto attraverso i media più opportuni; il momento in cui il laboratorio prende vita, con lo svolgimento delle ricerche partecipate; la fase finale, quella della mediatizzazione del processo, che parte dalle installazioni nello spazio fisico e arriva alla raccolta dei materiali e la successiva pubblicazione. L’occasione per i partecipanti di mostrare il proprio lavoro si intreccia con la possibilità per il paese di mettersi in mostra, esponendo e condividendo i propri memorabilia, in un gioco di temporanee poliappartenenze: gli artisti diventano abitanti e viceversa. La parola tedesca Ausstellung, esposizione – letteralmente ‘mettere fuori’ – aiuta a descrivere la situazione che si produce in quei giorni: le strade, le piccole corti e alcune stanze che affacciano sulla strada si animano di suoni e visioni di un territorio rivisitato, nel senso di “pensato come forma aperta a ciò che sarà”5. Non è facile quantificare il numero di abitanti che hanno partecipato in maniera attiva: “alcuni hanno realizzato una vera e propria ricerca con persone che venivano da fuori, altri hanno partecipato all’organizzazione pur non capendo bene i ritmi o il perché si faceva una cosa e non un’altra, altri invece hanno partecipato in forma più passiva, nel senso che l’ultimo giorno sono venuti e ci hanno aiutato ad allestire gli spazi”. Si crea una sorta di cortocircuito: gli abitanti sono coinvolti avvicinandosi gradualmente alle pratiche di laboratorio che coinvolge architetti, sociologi, esperti in comunicazione, laureati in beni ambientali, musicisti, registi agronomi, un carabiniere, un dipendente dell’aereonautica militare, fotografi, giornalisti, un pittore, un operaio Enel, un sarto-stilista, un coltivatore diretto, casalinghe e pensionati. La scelta di utilizzare la strada come spazio espositivo, oltre a porre in relazione le singole ricerche, lette come parte di un unico sistema, ricrea “l’ambito pubblico come spazio di cooperazione o di comunicazione che è un prerequisito tanto per il lavoro quanto per l’arte. Entrambi si risolvono in attività senza prodotto che hanno bisogno di essere svolte di fronte ad un pubblico”6. Forme espressive privilegiate, che rendono possibile la restituzione in breve tempo delle ricercazioni del LUA sono: installazioni, film, video, progetti collettivi, performance. Tutti strumenti che fanno emergere significati inconsci, nuove realtà o nuove interpretazioni della realtà, trasformando l’evento espositivo in un percorso di crescita e di presa di coscienza delle dinamiche della vita quotidiana e dell’azione individuale all’interno di un contesto sociale collettivo. Gli effetti determinati dalle modalità di ricerca del LUA si manifestano al termine del laboratorio: “Abbiamo avuto un atteggiamento di scoperta volta per volta del tema, ognuno con i propri mezzi espressivi”7. L’atteggiamento o la relazione che viene intessuta con gli abitanti è di tipo maieutico: “Se vivere è imparare ad adattarsi adattando, l’invenzione e l’impiego di un nostro nuovo potere costituiscono la creatività, la quale ha la stessa origine del verbo crescere: connettere il preesistente in modo nuovo, concepire, suscitare generando. Chi asservisce non sa, non può 5 L. Decandia , Anime di luoghi, Franco Angeli, Milano, 2004. 6 Intervista a M. Scotini di E. Vannini, in Aroundphotography n. 5, aprile giugno 2005, pp. 56 -57. 7 Intervista a Juri Battaglini, eseguita dall’autrice. costruire la città, la politica”8. Le pratiche artistiche portate avanti dai gruppi di ricerca operano un recupero simbolico emozionale teso a “costruire un nuovo modo di sentire e di agire; far nascere una nuova consapevolezza è un processo complesso e in quanto tale è necessario aiutarlo con una pratica maieutica. Fare evolvere la conoscenza, l’intuito e la creatività, che possono aiutare a crescere in autonomia e dare origine a modi di vivere e di agire responsabili, è il compito indifferibile del nostro tempo. In questa prospettiva delineata dalla riflessione di Dolci, il comunicare autentico, l’esperienza maieutica, sono fattori profondamente influenti sul processo di evoluzione collettiva”9. Con la libertà che consente di attraversare le memorie e non costruire identità fisse e ruoli che bloccano il divenire, dal 2003 a oggi il laboratorio è diventato una tappa di un avvicinamento graduale alle problematiche e alle dinamiche demografiche del territorio, che a partire dagli anni ’60 hanno visto una battuta d’arresto della crescita della popolazione e la partenza dapprima di braccianti, artigiani e operai ed in tempi più recenti dei cosiddetti “cervelli emigranti”. I racconti e le memorie raccolte ruotavano soprattutto intorno a quella che era la terra di lavoro della maggior parte degli abitanti di San Cassiano: i Paduli, un immenso bosco di ulivi di pertinenza di 11 comuni che, perduta la sua vocazione di latifondo produttivo, è oggi un insieme di proprietà frammentate, una sorta di giardino di casa, della stessa natura dei Kleingarten che circondano le grandi città tedesche. Le persone conoscono i Paduli: alcuni 8 D. Dolci, Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, Firenze, 1997, p. 43. 9 C. Mazzoleni,”La relazione società e ambiente in una prospettiva maieutica: incontro con Danilo Dolci”, Cronache Ca’ Tron, n. 9, 1997. 65 solo perché li costeggiano tutti i giorni in automobile mentre vanno al lavoro, altri perché vi hanno lavorato per un lungo periodo di tempo. Alcuni sono in grado di muoversi liberamente nel dedalo di strade asfaltate, viuzze di campagna, sentieri nascosti e percorsi fra gli alberi, mentre altri avrebbero difficoltà a ritrovare la strada del ritorno. Qualcuno possiede appezzamenti di terreno di estensione considerevole, qualcun altro solo pochi alberi di ulivo. Per alcuni è una zona produttiva o una fonte di reddito, per altri un investimento infruttuoso, per altri ancora una zona dove fare escursioni; per qualcuno infine un posto pericoloso dove è meglio non inoltrarsi. Dal 2005 il LUA si concentra su quest’area e nel 2008 al laboratorio viene dato il titolo di Maledetti Paduli, richiamando le imprecazioni che gli anziani, ricordandosi il periodo di duro lavoro, ancor oggi le riservano. Sono stati prodotti tre video10, diversi tra loro ma che sintetizzano lo spaesamento e le potenzialità assopite di questa terra quasi abbandonata. Il primo, Fimmine Fimmine, è nato dall’incontro di una piccola troupe di videomakers con il gruppo del Circolo delle Donne di S.Cassiano, che in occasione del LUA aveva fatto una preziosa opera di recupero e reinterpretazione dei canti popolari tradizionali di questa zona del Salento. Si tratta di canti d’amore legati ai momenti della raccolta delle olive e del tabacco nei Paduli, lavoro tramandato a memoria attraverso un’oralità recuperata e rivisitata con pazienza e una punta d’orgoglio. Nel video si mescolano la realtà delle case di alcune donne ed i racconti delle sensazioni ed esperienze che i singoli canti, attraverso testi e atmosfere, rievocano loro. Il secondo video, Un giorno ai Paduli, è la restituzione di 24 ore passate all’interno dell’area: una videoricerca che mette in luce il micromondo percettibile di rumori, suoni e luci che abita un’area apparentemente abbandonata e uguale a se stessa. Il terzo lavoro, Benedetti Paduli. Idee e proposte per una conversione sostenibile dei Paduli, è la visione futuribile delle potenzialità dell’area. “L’obiettivo – dicono gi autori – era formulare una proposta per un contenitore di quei suggerimenti che abbiano fini propositivi ed impieghi diretti nella rivitalizzazione dei Paduli”. Un lavoro per comunicare un progetto di trasformazione dell’area, che usa le tecniche di proiezione e di montaggio, riconsegnando agli abitanti e agli spettatori paesaggi di futuri realizzabili. Le pratiche narrative che utilizzano lo strumento video all’interno di una situazione partecipata come quella del LUA innescano e indirizzano una ricerca di significati all’interno di uno spettro di significati possibili, permettendo di coniugare la realtà al congiuntivo e di riflettervi in termini di passato, presente e futuro. 10 Tutti i video ed i nomi degli autori si possono trovare presso: http://maledettipaduli.blogspot.com, http://laboratoriourbanoaperto.wordpress.com. Gomorra: sguardo neoepico e malocchio della ricerca sociale. Transdisciplinarietà di un oggetto narrativo non identificato Claudio Coletta Tra i sommovimenti generati da Gomorra c’è anche quello che ha investito il mondo della ricerca sociale1. Nella rivista Etnografia e ricerca qualitativa Alessandro Dal Lago2 definisce l’opera un “feuilleton con venature etnografiche”, mentre Domenico Perrotta3 insiste sul suo carattere “autoetnografico”, distinguendo tra inchiesta letteraria, che fa leva sulla descrizione trasfigurata di un mondo, e ricerca sociale, che lega la descrizione alla ridefinizione un impianto teorico e metodologico. L’accoglienza sembra piuttosto tiepida, ma ciò non deve meravigliare: se l’atteggiamento degli studiosi nei confronti del romanzo di Roberto Saviano assomiglia più a quello di un patologo che conduce l’autopsia di un alieno che a quello di un sociologo alle prese con qualcosa di tremendamente affine, è perché Gomorra rappresenta a tutti gli effetti un fenomeno inedito nella scena socioculturale italiana. Eppure, come intendo sostenere, la peculiarità di Gomorra non risiede soltanto in ciò che il romanzo è, ma soprattutto in ciò che il romanzo fa. Il modo in cui quel testo si compone, agisce e fa agire presenta numerose affinità con la ricerca qualitativa e apre il campo a un ragionamento sulla sua capacità performativa. È utile in questo senso partire dalle categorie di feuilleton e autoetnografia proposte dai due studiosi, considerate stavolta come concetti di cui rendere conto invece che come categorie esplicative. Da una parte dunque, la formula seriale e tipicamente popular del romanzo d’appendice le cui nobili origini risalgono tra gli altri ad Alexander Dumas, Eugène Sue e Honoré de Balzac. Il genere del feuilleton si distingue per la relazione stretta tra pratica di scrittura e pratica di lettura, per la capacità di toccare il cuore ed entrare in risonanza con la memoria e l’esperienza di chi legge4. Dall’altra, la complessità sfuggente dell’io narrante che si oppone al riduzionismo soggettivo e compone la sua individualità come luogo di tutti i rapporti5, autobiografia di un mondo corale. In questo senso, Gomorra è ben oltre Roberto Saviano: impossibile attribuire all’autore la 1 Desidero ringraziare Claudia Boscolo, Dimitri Chimenti e tutta la crew di polifoNIE per i continui spunti e commenti che ho tentato di tradurre senza troppo tradire in quest’articolo. 2 Alessandro Dal Lago (2008) “I misteri di Napoli e l’etnografia”, Etnografia e ricerca qualitativa, n.1. 3 Domenico Perrotta (2008) “Da Gagliano a Gomorra. Percorsi di confine nelle scienze sociali italiane”, Etnografia e ricerca qualitativa, n.1. 4 Tale forma di tracimazione testuale che attiva nuove pratiche e conversazioni a partire da racconti esistenti, peraltro antichissima, è conosciuta oggi col nome di transmedialità, ovvero il passaggio e la riscrittura della storie su diversi formati sfruttando le potenzialità di internet. 5 L’espressione, a me molto cara, è di Carlo Levi nel prologo alla seconda edizione di Cristo si è fermato ad Eboli. L’io narrante di Claudio Coletta ha un dottorato in sociologia e ricerca sociale, studia il rapporto tra narrazioni e pratiche urbane con svariate incursioni nei vorticosi mari della popular culture. [email protected] 67 portata degli eventi narrati senza ricadere nel meccanismo del martire o dell’impostore. Il peso etico di Gomorra diviene sostenibile nella misura in cui il testo passa di mano in mano, viene manipolato, mantenuto, modificato, reso vivo: gomorra viaggia, agisce, fa agire e fa parlare, trasforma l’individualità di Roberto Saviano e quella di chi legge. Per questa ragione l’io narrante di Gomorra non è una mera trovata stilistica, ma è un metodo che gli consente di comporre le voci del campo e di renderne conto: l’individualità di Saviano in Gomorra è esperienza dotata di senso, trama che si immette in un racconto più vasto. Sguardo coinvolto ma non “soggettivo”, che Il confine tra sociologia e letteratura, tra pratiche e retoriche, co- come un demone prende mincia a diventare un luogo abitabile, un mondo possibile per la possesso del porto di ricerca sociale di tipo qualitativo. Arte di dire e arte di fare fuse Napoli, del kalashnikov, insieme nel racconto, che lasciano spazi tattici di riappropria- del “sottomarino” Ciro e di zione, ricombinano il repertorio di pratiche di ricerca mettendo in tutte le altre entità umane discussione l’autorità e autorialità. e non umane che popolano la narrazione. “Sguardo obliquo”, come lo definisce Wu Ming 1, in cui la soggettività si dissolve: “È sempre Roberto Saviano a raccontare, ma ‘Roberto Saviano’ è una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all’altro, prende in prestito il punto di vista di un molteplice”6. Wu Ming 1 ha elaborato una categoria promettente per cogliere la natura aliena di Gomorra e altre forme narrative anomale, quella di “oggetto narrativo non identificato” (Unidentified Narrative Object, UNO). L’acronimo sta ad indicare un testo narrativo che mette insieme diverse forme discorsive (“fiction e non-fiction, prosa e poesia, diario e inchiesta, letteratura e scienza, mitologia e pochade”) che assomiglia... ma non è affatto riducibile a un romanzo. A loro volta, gli UNO orbitano nella nebulosa letteraria più vasta del New Italian Epic, che raccoglie lavori di narrativa pubblicati in italia negli ultimi 15 anni, lei cui caratteristiche salienti ai fini del presente discorso comprendono l’attitudine pop, la transmedialità e lo sguardo obliquo. Il che ci riporta alle questioni del feuilleton e dell’io narrante. “C’è un io marcato – scrive Luigi Weber – che racconta, e che tutto sa e tutto ha visto non grazie ai libri, ma avendo vissuto sin da bambino nelle stade [...] Quell’io però non è mai lasciato solo; lo rinforza, e lo protegge direi quasi, dallo sgomento e dall’enormità del nemico che si è scelto, un vastissimo, ipertrofico apparato di nozioni, una panoplia di numeri, nomi, date, località.”7 In un gioco di rimandi tra letteratura e sociologia, la comparsa di UNO in ambito letterario sembra corrispondere all’orientamento crescente da parte della ricerca sociale verso etnografie virtuali, multi-sito, “cairotiche”, che mescolano cioè tempi e spazi multipli e si muovono su terreni che l’etnografia classica difficilmente considererebbe empirici. Si producono etnografie di oggetti, di organizzazioni, oltre che di esseri umani e di interazioni strettamente sociali. In sostanza, tali approcci mettono in discussione l’esistenza di uno sguardo “diretto” e “prolungato” sui fenomeni, nonché l’univocità dell’io narrante, al fine di cogliere più a fondo la complessità del reale. All’obliquità dell’io narrante e alla dissoluzione dei generi tipica degli UNO e del New Italian Epic fa eco la transdisciplinarietà ed eterogeneità di quei lavori che insistono sulla carattere ecologico e relazionale dell’attività di ricerca. Il confine tra sociologia e letteratura, tra pratiche e retoriche, comincia allora a diventare un 6 Wu Ming, New Italian Epic, Torino: Einaudi, 2008. Si veda anche la ricca discussione sul web a partire dal memorandum di WM1 su http://www.carmillaonline.com/archives/cat_new_italian_epic.html. 7 Luigi Weber, “Serpico, Scarface e Papillon. Su «Gomorra» di Roberto Saviano”, Studi Culturali, n. 3/2007. luogo abitabile, un mondo possibile per la ricerca sociale di tipo qualitativo. Arte di dire e arte di fare8 fuse insieme nel racconto, che lasciano spazi tattici di riappropriazione, ricombinano il repertorio di pratiche di ricerca mettendo in discussione l’autorità e l’autorialità. Il ricercatore sociale diviene luogo di tutti i rapporti attivati dal lavoro di ricerca, così come Saviano lo è per Gomorra. Resta a questo punto da capire come la dimensione pop e l’efficacia narrativa possano arricchire la prospettiva della ricerca sociale qualitativa. Nel 1973, Paolo Fabbri pubblica un saggio dal titolo “Le comunicazioni di massa: sguardo semiotico e malocchio della sociologia”. La proposta era quella di andare oltre la sterile distinzione tra cultura “alta” e cultura “di massa” per cominciare ad interessarsi in modo serio e non pregiudiziale di fenomeni che interessavano una parte consistente della popolazione. Fabbri insisteva sulla necessità di riutensilizzare il dispositivo analitico sulla base dell’oggetto di studio invece di partire dal repertorio teorico e disciplinare di riferimento. Alla luce del saggio di Paolo Fabbri, il NIE appare come un ulteriore tentativo di riutensilizzazione che mette in crisi l’essenza stessa del genere e si rivolge alle capacità narrative di un’opera letteraria in base al modo in cui essa entra in risonanza con altri oggetti e pratiche narrative. Analogamente, riutensilizzare la ricerca qualitativa in chiave neoepica significa allora riconoscere il lavoro di ricerca un potente sistema abilitante, farne un oggetto fluido che superi costantemente le premesse, che si presti alla riappropriazione, riscrittura e traduzione, che procuri dei cortocircuiti e che liberi possibilità creative. Fare in modo che il lettore si prenda carico della sua “verità”. Rispetto a Gomorra Alessandro dal Lago si chiedeva: “E noi [etnografi] che ci stiamo a fare? Qual è il senso del nostro lavoro se un romanzo può tanto?”. Se, come abbiamo visto, efficacia narrativa e presa performativa sul reale sfumano il confine tra sociologia e letteratura e aumentano la capacità di render conto di fenomeni complessi, sarebbe forse più interessante domandarsi: è in grado la ricerca sociale di produrre oggetti etnografici non identificati? 8 Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, 1981. 69 Emiliano Facchinelli Dal 1996 vive e lavora a Bologna. Fotografo di reportages, si è concentrato su diversi temi: il panorama pugilistico bolognese (Tre Minuti); la tradizione e il mestiere dei barbieri a Bologna (Burmashave); le processioni religiose e popolari nel Sud Italia. Ha collaborato a numerosi progetti e riviste internazionali, tra cui Witness Journal e Streetsense, giornale degli homeless di Washington DC. Per quest’ultimo ha realizzato nel 2008 una ricerca sulla vita quotidiana dei senzatetto e sui dormitori pubblici (CCNV). Le fotografie di questo numero sono state scattate durante i Riti Settennali di Penitenza a Guardia Sanframondi (Benevento) (pagine 28, 29, 32, 48-49); la Festa del Soccorso a San Severo (Foggia) (pagine copertina, 6, 8-9, 16, 47, 62, 65, 70-71, 72); la Festa di Sant’Agata a Catania (pagine 23, 27, 38-39, 45, 58); la Processione dei Serpari a Cocullo (L’Aquila) (pagine 5, 15, 42, 50, 56, 57). www.emilianofacchinelli.com www.myspace.com/emilianofacchinelli lo Squaderno 12 Research, inchiesta, documentary / Ricerca, inchiesta, documentario a cura di / edited by / Andrea Mubi Brighenti, Cristina Mattiucci, Mimmo Perrotta Guest artist: Emiliano Facchinelli hanno collaborato a questo numero / contributors to this issue / Charlie Barnao, Laura Basco, Alberto Brodesco, Claudio Coletta, Vittorio Iervese, Insu^tv, Alessandro Leogrande, Andrea Membretti, Mubi, Piano b, Giovanni Rinaldi, Luca Rossomando. lo Squaderno è un progetto di / lo Squaderno is a project by / Cristina Mattiucci, Andrea Mubi, Andreas Fernandez, helped and supported by Paul Blokker, Alessandro Castelli, Micol Cossali and Peter Schaefer. Special Thanks: Paul Blokker, Silvia Mattei, Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos La rivista è disponibile / online at www.losquaderno.net. // Se avete commenti, proposte o suggerimenti, scriveteci a / please send you feedback to [email protected] published by professionaldreamers under CreativeCommons licence 2.5 Impressum June 2009 71 s uade 12 Nel prossimo numero: Connected and People