Globalizzazione, politiche regionali dell`UE e revival del

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Globalizzazione, politiche regionali dell`UE e revival del
Globalizzazione, politiche regionali dell’UE e revival del
regionalismo (1989-2008)
Rolf Petri
Perché in Europa, tra la caduta del muro di Berlino e gli albori della recente crisi economica, la
regione ha attraversato una sorta di revival? Questo infatti è accaduto: forse non sempre nella
sostanza, perché gli Stati-nazione difendono le proprie prerogative sovrane, ma comunque sul
piano dell’identificazione collettiva e delle rievocazioni simboliche. Non affronterò, in questa
sede, le rimarchevoli ricadute della recente crisi economica sulle politiche regionali, né
inquadrerò viceversa il rapporto tra nazione, regione ed Europa nell’evoluzione di oltre due
secoli, come altrove ho fatto (Petri 2012). Cercherò di concentrarmi sulle possibili conseguenze
che i cambiamenti degli interventi dell’UE possono aver avuto a livello politico. Secondo il
Trattato di Maastricht, le risorse dovevano essere in misura crescente ridistribuite
direttamente a favore delle regioni e di altri enti decentrali. Negli anni successivi, oltre un terzo
della spesa comunitaria è stata destinata alla politica regionale. Pare plausibile ipotizzare che
la competizione per l’accaparramento di tali finanziamenti abbia indotto le élite regionali a
rafforzare le proprie istanze con un ricorso all’arsenale simbolico dell’identità regionale. La
politica di Bruxelles è stata quindi un catalizzatore del revival regionalista, oppure ha al
contrario posto qualche freno alle sue espressioni più radicali ed etnocentriche?
Per un primo test dell’ipotesi di un ruolo di catalizzatore dell’intervento di Bruxelles
rivolgerò lo sguardo ai processi di regionalizzazione in due paesi europei che non fanno parte
dell’UE e quindi non sono stati esposti, almeno in teoria, all’influenza delle sue politiche
regionali: la Norvegia e la Russia. Le politiche regionali dell’UE sono però andate anche oltre i
confini dell’Unione, in quanto hanno avuto un ruolo attivo nel region building transnazionale e
nella ristrutturazione geopolitica del continente dopo l’implosione dell’URSS. Dopo questo
secondo aspetto focalizzerò sugli effetti politici delle politiche regionali di Bruxelles in alcuni
stati membri dalla forte tradizione centralista e in altri dalla forte tradizione federalista. Mi
interrogherò inoltre, sempre accennando a dei casi concreti, sul contributo delle politiche
dell’UE ai processi di ri-etnicizzazione del discorso politico e come tali politiche si pongano di
fronte all’autonomismo e all’indipendentismo di alcune regioni. Prenderò infine in esame
discorsi che hanno cercato di accreditare la regione come scudo protettivo non solo contro gli
effetti indesiderati della globalizzazione, ma anche delle politiche di Bruxelles.
1.
Russia e Norvegia: regionalismi europei all’esterno dell’UE
I paesi che secondo convenzione geografica possono dirsi “europei” senza essere parte dell’UE
hanno negli ultimi venticinque anni perso letteralmente terreno. Sono da un lato soggetti agli
stessi influssi della globalizzazione dei paesi UE, mentre dall’altro rimangono, almeno a prima
vista, sottratti alle misure e ai mutamenti delle politiche regionali di Bruxelles. Forse possono
fornire qualche utile controprova che serva a ponderare in chiave comparata il peso delle
misure dell’UE.
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Nei primi anni Novanta la Federazione russa ha attraversato una serie di conflitti intraregionali che contenevano un potenziale di ulteriore deflagrazione territoriale. Le basi per tali
conflitti erano stati messi molto tempo addietro. Sin dall’Ottocento gli equilibri territoriali
dell’Impero zarista erano sottoposti a mutevoli strategie, oscillanti tra il rafforzamento del
centralismo amministrativo, il più delle volte effimero riconoscimento, altre volte però
addirittura incoraggiamento, dei patriottismi locali e regionali. Arte, canti e letteratura del
gruppo “etnico” di maggioranza furono dominati da un’idea di “anima russa” che, se in larga
parte rimase avulsa da attribuzioni di tipo geografico o politico-istituzionale, aleggiava sul
fondo delle campagne di russificazione che colpirono sempre più spesso le province
periferiche, dove suscitarono l’opposizione crescente delle “regioni” e delle minoranze.
Mediare tra tutte queste spinte era uno dei principali negozi, espletato con fatica ma non
senza successi, del governo dell’Impero. Questo scenario “multi-etnico” è stato ereditato e per
certi versi ancora accentuato dalla Russia rivoluzionaria prima, dall’Unione sovietica poi. Da un
lato il patriottismo regionale (oblastničestvo), per esempio in Siberia, si era opposto al potere
dei soviet, dall’altro questo aveva reagito con una propria “politica delle nazionalità”,
tracciando nuovi confini tra le nazioni della Federazione o addirittura fondando, attraverso
l’incentivazione del folklore e della scrittura in lingua, etnie e popoli prima non riconosciuti
come tali (Artobolevskij 1997: 130; Masoero 2004: 1009).
Negli anni dell’URSS la convergenza nello sviluppo delle regioni della Repubblica
Socialista Federativa Sovietica Russa era stata più un proclama che una realtà. Il potere
centrale lasciava sostanzialmente mano libera ai ministeri nell’allocazione territoriale delle
risorse in termini di investimenti produttivi o trasferimenti. La pianificazione era in misura
cospicua frutto di una negoziazione tra lobby regionali all’interno del partito comunista. Dalla
metà degli anni ’80, con l’accelerarsi del declino politico ed economico all’interno dell’Unione
e della RSFSR, questo sistema deteriorò in una sorta di lotta darwiniana tra le regioni, che
svilupparono ciascuna una retorica secondo cui dovevano considerarsi vittime dello
sfruttamento operato a proprio danno da altre regioni e dal potere centrale. Il problema
veniva aggravato dal fatto che i mega-investimenti operati nell’era sovietica lasciavano dietro a
sé assetti regionali segnati da monostrutture produttive difficili da convertire. Si rafforzarono
le istanze per una maggiore autonomia politica e autosufficienza economica in particolare
delle regioni più ricche, che in alcuni frangenti sembravano divenire apertamente separatiste.
Così, nel corso degli anni ’90, nel contesto della globalizzazione e all’insegna di una politica
economica nazionale a tratti caratterizzata da un neoliberismo spinto, il regionalismo russo
assunse una dimensione virulenta e pericolosa per la stessa sopravivenza della Federazione.
Pertanto, molti commentatori preoccupati per l’unità del Paese, proposero che la Russia
dovesse respingere il modello delle politiche regionali dell’UE, improntate com’erano alla
competizione e alla sussidiarietà, onde valorizzare le misure del New Deal oppure anche le
precedenti politiche regionali della CEE/CE, caratterizzatesi per interventi dirigistici nei flussi
delle risorse (Artobolevskij 1997: 140-145).
Come nel caso dei paesi dell’UE, anche in quello del più grande Stato territoriale del
mondo non si fanno distinguere con chiarezza gli effetti degli sconvolgimenti politici interni da
quelli causati da fattori esterni. Si può senz’altro dire che i drammatici cambiamenti a livello di
economia mondiale, tra i cui catalizzatori principali va annoverata la stessa implosione del
sistema sovietico, hanno a loro volta accelerato e rafforzato le tendenze regionaliste
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all’interno della Federazione russa, per non dire della deflagrazione dell’Unione sovietica.
Certo, i termini economici della regionalizzazione russa divergono sensibilmente da quelli
registrati all’interno dell’UE, però il passaggio a una competizione accentuata tra regioni, che
poi è parzialmente rientrato negli ultimi anni, non appare in controtendenza rispetto agli
sviluppi all’interno dell’UE. Al di là degli aspetti economici ed amministrativi, preme in questa
sede sottolineare il comportamento culturale delle classi politiche regionali. Queste hanno
fatto ricorso simbolico alle tradizioni nazionali ed etniche, russe e non, e alle relative narrazioni
storiche e folkloristiche, servendosi con relativa disinvoltura sia dell’arsenale simbolico dei
movimenti filo-zaristi e anti-comunisti della guerra tra rossi e bianchi, sia degli elementi della
politica delle nazionalità della prima era sovietica. Hanno fatto altresì leva sui frutti
dell’insegnamento della kraevedenie, una materia scolastica “olistica” di geografia, cultura,
etnologia e storia delle “piccole patrie” resuscitata in Unione Sovietica sin dagli anni ‘50. Con
questi strumenti i leader regionali speravano di poter rafforzare il proprio consenso attorno
alla lotta per le risorse. Alla bisogna nascevano, per un simile scopo, anche etnie inedite di cui
in precedenza non si aveva avuto cognizione, come la «etnia degli Urali» (Peter 2006: 128129). Le èlite regionali della Russia hanno dunque condiviso, in quel frangente, con le élite
regionali all’interno dell’UE il trend a favore dei richiami storico-simbolici regionalisti.
Anche nel complicato processo di region building norvegese, le così dette regioni
storiche di origine medievale, che nella percezione generale esprimono ancora un alto grado di
omogeneità culturale, hanno acquistato nuova forza simbolica e politica. Vantano un tasso di
identificazione tra la popolazione maggiore dello Stato-nazione, anche se non si deve
dimenticare come le landsdel, in quanto immaginate come parti di un tutto, adempiono –
come in altri casi la Heimat (Petri 2001) o la petite patrie (Thiesse 2006) – a una funzione
integrativa verso la nazione. Con queste regioni storiche convivono le regioni amministrative
moderne, che similmente a un sistema prefettizio dislocano le competenze dello Stato centrale
nel territorio «disgregando politicamente le regioni storiche» (Bukve 2005: 125) – un
fenomeno riscontrabile anche altrove, ad esempio in Bulgaria, dove gli oblasti (un tempo
okrazi) rappresentano degli enti dello Stato centrale non coincidenti con le roden kraj, le
regioni storicamente percepite come aree di appartenenza (Jakimova 2006: 111-112). In
Norvegia, durante il periodo di osservazione e pur tra contrasti politici, si è fatto strada un
processo di democratizzazione dei distretti amministrativi. In particolare nelle aree
economicamente floride del Paese, gli organi ora eletti dal basso hanno promosso
l’unificazione delle unità amministrative in enti territoriali di dimensione maggiore e che
spesso, significativamente, ricalcano più o meno i confini delle “regioni storiche”. A favore di
tale processo si adducono sia le ragioni della competitività economica e, nelle aree del sudest,
quelle dell’integrazione intra-regionale nel contesto “europeo”, sia la difesa delle tradizioni
linguistiche e culturali delle regioni storiche contro gli “alienanti” influssi esterni. Nei termini
degli idealtipi di Keating (1998) si può dire che il “vecchio” e il “nuovo” regionalismo si
compenetrano intensamente formando un amalgama perfetto. Ecco perché «the new
regionalism in Norway is of the same grain as the European regionalism of the 1990s» (Bukve
2005: 128).
L’esperienza di Russia e Norvegia, due paesi esterni all’UE e tra loro piuttosto diversi,
denota, nel periodo di osservazione e nonostante tale diversità, una tendenza simile verso la
regionalizzazione della governance territoriale e quindi nella ricerca di consenso. A prima vista
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tale risultato potrebbe deporre a favore della tesi che il revival delle regioni all’interno dell’UE
non sia riconducibile alle politiche regionali di Bruxelles, ma all’influsso di un contesto
economico e politico di trasformazioni globali comune a tutti i paesi. In ogni caso i due esempi
ci forniscono la certezza che tale revival non può essere ricondotto alle sole politiche regionali
dell’UE. D’altra parte va tenuto presente come l’UE sia una parte importante dell’economia
mondiale e pertanto essa stessa un attore attivo di quei processi di globalizzazione che poi si
riverberano sugli assetti economici e geografici inclusi nei propri confini. Le politiche regionali
dell’UE si inseriscono in questa circolarità. Con il loro rilancio avvenuto dopo il 1989, hanno
preteso di dare risposte alle sfide di una globalizzazione di cui al contempo sono parte, in
quanto agiscono per indebolire le prerogative regolatrici e protettrici dello Stato-nazione.
Come vedremo qui di seguito, le politiche regionali dell’UE sembrano quindi senz’altro
amplificare e accelerare, più che attutire, gli effetti della globalizzazione e dell’allargamento
dell’Unione, imprimendo loro tuttavia alcune caratteristiche specifiche.
2.
L’allargamento dell’UE e la ristrutturazione regionale del continente europeo
Occorre valutare brevemente un altro elemento capace di relativizzare il valore della nostra
“controprova”: il fatto che l’Unione Europea, in quanto potenza economica e politica
continentale, condizioni comunque pesantemente i paesi confinanti, quali la Norvegia e la
Russia – sicuramente la Russia indebolita degli anni qui considerati – sotto il profilo industriale,
commerciale e monetario. Questo vale anche nei casi in cui non sussistono prospettive di
adesione o trattati di associazione e cooperazione. L’introduzione dell’Euro ha creato un forte
condizionamento delle politiche monetarie ed economiche a cui non si sono potuti sottrarre
né i paesi membri rimasti fuori dall’Unione monetaria né altri paesi confinanti (Cuenca Garcia
2005). Un fattore, questo, che ha influito tanto sulle correnti di commercio quanto sugli scambi
interregionali, dando adito a nuove cooperazioni e nuove linee di conflitto. Da un lato si sono
promosse forme di cooperazione intra-regionale, ed Euro-regioni interne o trasversali ai
confini esterni dell’Unione europea, tra Stati membri o tra questi e Stati terzi. A queste forme
appartengono i progetti InterReg, EuroRegions ed altri, quali, ad esempio, la Comunidad
Transfronteriza Aquitania-Euskadi-Navarra, la Communauté de travail du Jura tra Francia e
Svizzera, la Regio TriRhena tra regioni francesi, tedesche e svizzere, la Euregion Neisse tra
Polonia, Germania e Repubblica Ceca, la Storkalotten Region o Barents Region di regioni
norvegesi, finlandesi, russi e svedesi collocati a nord del Circolo polare, l’EstRuFin Network che
unisce città finlandesi, russe ed estoni; e trattati di cooperazione intra-regionale come AlpeAdria, o quelli tra Catalogna, Rhône-Alpes, Lombardie e Baden-Württemberg. Dall’altro, però, i
confini dell’Unione europea in espansione verso est, sudest e sud a volte tagliano in due aree
economiche e culturali un tempo integrate, come è stato ad esempio il caso lungo il confine tra
Lituania e Bielorussia, o in quello dell’area di insediamento della minoranza Seto sui due lati
del confine russo-estone (Leimgruber 204: 130-143). I problemi che ne risultano vengono
sentiti e dibattuti, ancora una volta, soprattutto a livello regionale; e a volte, nel tentativo di
risolverli, conducono a nuove forme di cooperazione.
Dopo il crollo dell’Unione sovietica, la riunificazione della Germania, lo smantellamento
della Jugoslavia e l’espansione di UE e NATO verso est, i punti gravitazionali della geografia
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economica e regionale dell’Europa sono notevolmente cambiati. L’invenzione di una così detta
Wider Northern Europe è uno degli esempi per come i paesi dell’UE si sono impegnati a
intervenire in questi processi attivando politiche di cooperazione intra-regionale e macroregionali che appaiono come una prosecuzione della politica estera con altri mezzi. La politica
estera, infatti, si è attivata con: la creazione del Council of the Baltic Sea States (CBSS), cui oltre
all’UE e i paesi rivieraschi aderiscono l’Islanda e la Norvegia; l’adesione all’Unione europea di
Finlandia e Svezia nel 1995 e dei Paesi baltici e della Polonia nel 2004; infine, l’adesione all’area
di Schengen della Norvegia nel 2000. Ma già immediatamente dopo il 1989/90 varie regioni
tedesche e scandinave rivierasche del Mar Baltico si sono lanciate in una sorta di politica
estera ed economica più “silenziosa” verso le confinanti aree ex comuniste, per fiancheggiare
l’opera di “europeizzazione” del Nordest attraverso la cooperazione intra-regionale,
nell’ambito della quale sono fiorite politiche simboliche e rivolte al passato atte a dimostrare
l’”unità storica” dell’area o di parti di esse, a seconda degli specifici interessi delle varie parti. I
progetti spaziavano dalla New Hansa impostata su una interpretazione simil-braudeliana
dell’area del Mar Baltico, ai progetti Norden, Baltoscandia e così via, il più delle volte ideate
come cooperazione diretta tra soggetti regionali di base, città portuali e così via (Stråth 2000;
Hackmann 2003). In questo complesso processo negoziale, in cui «the cultural boundary
between the assumed Europeans and non-Europeans can be constructed in a gradated and
open-ended form» (Aalto 2006: 24), la dimensione regionale ha avuto la maggiore come spazio
di rappresentazione, immaginazione ed azione.
La costruzione di una Wider Northern Europe va dunque vista come «one case of the
formation of a regionalized European order. Its Europe of regions version looks like a mosaic of
political agents and subjectivities, where regions and cities form non-Westphalian chains
extending across state borders» (Aalto 2006: 26). È stato, anche, il caso di maggiore successo
politico ed economico che poi ha fatto da modello ad altre iniziative geopolitiche e geoeconomiche dell’UE, quali la riesumazione di concetti come Donauraum e Mitteleuropa, e le
alterne politiche verso il Mediterraneo, dal Barcelona Process all’Union for the Mediterranean
e a Medgovernance, oscillanti tra visioni integrative ad egemonia europea, di ispirazione neobraudeliana, e tentativi di rinsaldare la fortezza europea nel mare aliorum in chiave di
“sicurezza” e arginamento dei flussi migratori. Molte di tali iniziative sono comunque rimaste
poco più di fantasie geopolitiche (Bialasiewicz 2011; Bialasiewicz et al. 2013: 59-76). Esse
riguardano il bordering o region-building soprattutto a livello macro-regionale, benché
coinvolgano quasi sempre anche il livello sub-nazionale. È a quest’ultimo tipo di regione che
torna, a questo punto, il nostro ragionamento.
3.
La regionalizzazione implementata dall’alto
L’“europeizzazione” delle regioni è stata spesso intesa come processo di implementazione di
un particolare livello di governance europeo nella gestione interna degli Stati-nazione e delle
loro regioni. Queste strutture dovevano connettere gli attori nazionali e regionali tra di loro
anche trasversalmente ai confini nazionali, facendo crescere così un insieme di relazioni di
cooperazione e di competizione su cui basare una nuova multi-level governance. In teoria, il
“terzo livello” delle regioni e delle realtà locali doveva innestarsi su tale intreccio, come
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interfaccia di interazioni dirette tra regioni e la Commissione europea. La creazione di un
Comitato delle Regioni, una delle maggiori modifiche nell’assetto delle politiche comunitarie
dopo il 1989, è stata un’espressione di tale intenzione. Altre ne sono state l’incremento e la
modifica delle regole di elargizione dei fondi strutturali – Fondo europeo di sviluppo regionale
(FESR) e il Fondo sociale europeo (FSE) – e la creazione, nel 1994, del Fondo di coesione per gli
investimento infrastrutturali nei paesi più deboli. Questi strumenti dell’intervento regionale
hanno rappresentato, dopo il 2000, oltre il 35% della spesa complessiva dell’Unione europea.
Una tale massa di soldi nonché i 317 seggi del Comitato hanno creato un alto livello di
aspettative, come dimostrano quasi duecento rappresentanze di governi regionali e locali
presenti a Bruxelles alla fine del nostro periodo di osservazione. È però unanime il giudizio
negativo degli esperti sull’effettiva realizzazione di un terzo livello, regionale e locale, di poteri
sovrani, accanto agli Stati-nazione e l’UE. Ma ciò nonostante i nuovi meccanismi di
distribuzione delle risorse tra UE e regioni hanno esercitato una certa pressione sugli Statinazione più centralistici affinché rafforzassero la progettualità e i poteri di spesa delle loro
regioni. Vediamone alcuni esempi.
Nella diffusa visione greca le realtà regionali appaiono piuttosto come una miniatura,
pur colorita di tinte locali, della nazione (Stouraiti 2006: 122). «Regional histories appeared
defending lost local traditions and with the aim to restore and find a place for them in the
national imaginary. As a consequence, each region was anxious to upgrade its regional image
according to the terms of the national ideology and to compete for the financial and cultural
resources distributed by the state» (Liakos 2007: 210-211). In siffatto contesto, pur segnato da
una forte aderenza alle tradizioni folkloristiche locali e regionali, la legittimazione dello Stato
centrale a decidere non ha rischiato di essere messo in dubbio “dal basso”. La spinta per un
maggiore conferimento di poteri decisionali alle regioni è stata dovuta essere attivata
“dall’alto”, tramite lo stesso Stato-nazione, a favore di regioni inizialmente neanche
interessate ad averli. Ma per poter partecipare adeguatamente a una distribuzione delle
risorse europee effettuata tramite i nuovi meccanismi, la creazione di poteri politici regionali
diveniva una questione di interesse nazionale. In un primo momento lo Stato greco si è avvalso
del ben collaudato sistema prefettizio per coinvolgere nel processo di decentramento anche
attori parastatali e privati e incubare così una società civile regionale. In un secondo tempo il
sistema prefettizio è stato soppiantato da una riforma amministrativa che ha istituito enti
regionali legittimati dal voto. Nonostante l’ingegneria verticistica nell’implementazione di un
regionalismo politico, alcuni effetti non si sono fatti attendere. Con la legittimazione del
governo delle regioni attraverso la raccolta di consenso democratico a livello territoriale, si
sono formate nuove élite che saturano il proprio discorso politico di richiami alla tradizione e al
folklore regionali, specie laddove coincidono con la promozione di interessi economici legati al
turismo o alle attività portuali (Getimis / Demetropoulou 2005: 156).
Pur sullo sfondo di una storia nazionale marcatamente diversa, l’esempio polacco porta
a simili conclusioni. Le tendenze centralistiche dello Stato polacco, ulteriormente rafforzatesi
in epoca socialista, «in passato hanno comportato identità regionali deboli e la scarsa
consapevolezza circa la necessità di disporre di un autogoverno locale. Troppo fortemente
l’attenzione è rimasta assorbita dall’obbiettivo di preservare, nelle varie epoche storiche,
l’autodeterminazione nazionale» (Benzler 1994: 311). Le riforme amministrative del 1919-25 e
del 1945 condussero alla creazione di prima 16, poi 17 województwo. Nel 1972-75 un’ulteriore
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riforma, condotta con dichiarato intento decentralizzatore, portò a 49 województwo, ma in
realtà essa rafforzò il livello nazionale, perché il ridisegno della geografia delle unità
amministrative doveva servire «a rendere invisibili i confini delle storiche spartizioni» del
territorio polacco e ad attutire l’impatto tendenzialmente esplosivo «delle migrazioni coatte
nel contesto della Seconda guerra mondiale», in quanto gli insediamenti degli esuli dell’est in
parte si misero geograficamente e concettualmente di traverso «ai possibili progetti identitari
degli autoctoni polacchi delle varie regioni» (Müller 2006: 125). Una delle richieste politiche
centrali dell’opposizione anticomunista degli anni ‘80 fu samorzad, ovvero un più forte autogoverno dei livelli decentrali, nella speranza di indebolire così il controllo del governo
comunista sul territorio.
Il Sejm post-comunista uscito dalle elezioni del 1989, già un anno dopo emise una nuova
legge per l’auto-governo territoriale che rafforzò i parlamenti locali, mentre invece il governo
verticistico del livello regionale delle województwo non venne modificato, ma anzi risultò ora
stretto nella tenaglia di organi forti di legittimazione elettorale sia a livello nazionale che locale
(Benzler 1994: 321-323). Tuttavia già allora si sollevarono varie voci a favore di un riassetto
generale nell’amministrazione del territorio, nel senso di un ritorno a regioni più grandi e
dotate di maggiori poteri di auto-governo. I fautori della riforma argomentarono che «le nuove
regioni (o województwo) dovevano essere abbastanza forti per promuovere il proprio sviluppo
e rimanere economicamente competitive nel contesto europeo» (Kowalczyk 1994: 335). Ma
ancora prevalse il timore che regioni più grandi potessero diventare centri di potere
economico e attrattori di identificazione politica troppo forti per non esercitare una forza
centrifuga e minare così la coesione nazionale. Pertanto, all’input regionalista di Bruxelles la
Polonia reagì con la proposta di formare “regioni funzionali” il più possibile lontani da ogni
possibilità di identificazione storica. La riforma amministrativa promossa nel 1999, in
preparazione dell’adesione all’UE del 2004, rappresenta un compromesso tra un’effettiva
regionalizzazione e la tradizione centralista dello Stato-nazione. I woiwod rimangono
rappresentanti del governo centrale nel territorio dotati di ampi poteri di controllo, ma hanno
una nuova controparte nelle diete regionali elette (zarząd województwa), che formano un
governo regionale sotto il marszałek województwa. Le nuove województwo, tornate al numero
di 16, non sono state formate secondo mere esigenze di funzionalità economica, ma
richiamano nel loro nome formazioni regionali preesistenti, come Mazowieckie, Małopolskie,
Podlaskie, Pomorskie, Śląskie ecc. Con questa miscela tra utilità funzionale e risurrezione
simbolica del livello regionale, il caso polacco si avvicina in qualche modo a quello greco.
In altri Stati dalla forte tradizione centralista, «la struttura amministrativa è stata messa
in grado di rispondere con sufficiente prontezza, modificando con una certa coerenza i propri
sistemi di programmazione, coordinamento interno e gestione sul territorio degli interventi.
Ad esempio, in Portogallo si è subito intervenuto sulla struttura dei ministeri (…). In Irlanda,
l’importante Ministero delle Finanze ha assunto il compito di attuare la politica di coesione
(…)» (Boccia et al. 2003: 28). Si vede che non in tutti gli Stati dalla forte tradizione centralista la
regionalizzazione voluta da Bruxelles ha prodotto rapide trasformazioni nell’assetto di governo
territoriale. In Portogallo, il processo di decentralizzazione è lento e ancora oggi non concluso;
in Irlanda, lo stesso processo presenta un quadro multiforme a livello dei poteri delle contee,
che tuttavia servono sempre più come dimensione su cui proiettare un diffuso senso di
appartenenza. Quello che sembra tuttavia comune a tutti è una certa tendenza, guidata
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oppure spontanea, al rafforzamento quanto meno simbolico, ma spesso anche sostanziale,
della dimensione regionale. Questo è vero anche per la Francia, considerata, a torto o a
ragione, lo Stato centralista per eccellenza, di cui parleremo diffusamente in seguito.
4.
Contesti federali: rafforzamento delle regioni o dello Stato?
Appartengono all’Unione europea anche Stati di tradizioni federaliste storicamente
“innervate” a livello culturale ed ideologico, come l’Austria e la Germania, e Stati che negli
ultimi decenni hanno rafforzato elementi di decentralizzazione del governo, come l’Italia, il
Belgio, la Spagna e la Gran Bretagna. In alcuni casi ciò è frutto anche del rafforzarsi di
movimenti entno-regionalisti. A ogni modo, in paesi in cui già esistevano regioni con poteri
legislativi propri o comunque enti territoriali con un’effettiva autonomia finanziaria sorretta
da assemblee elettive, hanno assimilato le novità provenienti da Bruxelles attraverso
un’assodata routine di governo. Si tratta di paesi le cui regioni e i cui enti territoriali
dispongono anche di adeguate esperienze nel campo della rappresentanza diplomatica ed
economica, e sono in grado di intervenire – spesso con successo – a Bruxelles, facendo leva
sulle proprie lobby, ma senza mettersi troppo sotto i riflettori dei mass media. In questi paesi
le novità introdotte nelle politiche regionali dell’Unione europea hanno quindi faticato a
destare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Anche in Italia, tra i paesi fondatori della CEE storicamente il più abituato all’uso di fondi
regionali per il sud, le nuove regole sono state affrontate più a livello amministrativo che
politico, «secondo un approccio minimalista: la nuova politica opera in un’area ristretta
dell’amministrazione, non riuscendo dunque a produrre un impatto più diffuso sulle pratiche
correnti» (Boccia et al. 2003: 26-27). L’input di Bruxelles, in questo caso, non solo non ha fatto
discutere, ma è rimasto anche estraneo al fatto che nel periodo osservato in Italia si è molto
parlato di federalismo portando, tra l’altro, al rafforzamento formale dei governi regionali. A
spingere in questa direzione sono stati i movimenti regionalisti del nord, che a loro volta hanno
potuto far leva su una richiesta diffusa di realizzare l’autonomia promessa della costituzione.
I meccanismi di distribuzione delle risorse UE e il fatto stesso di ospitare la “sede del
governo europeo”, in Belgio paiono invece aver dato qualche contributo alla coesione tra le
aree fiamminghe e valloni che altrimenti, almeno a tratti, sono sembrati sull’orlo della
spaccatura. L’unità nazionale sembrava insidiata da una suddivisione in due sfere non solo
culturali, ma anche politiche, sempre più distanti tra loro non solo sul piano della
rappresentanza politica, ma anche a livello di cultura e società civile. Se in Belgio la retorica di
un regionalismo etnicamente definito sembra minare l’unità nazionale, la politica regionale
dell’UE pare aiutare a depotenziarne la capacità deflagrante (Artobolevskij 1997: 106-107;
Türsan 1998: 10).
Nei due paesi di lingua tedesca, invece, l’etnoregionalismo in pratica non esiste, se non
per alcuni gruppi linguistici. Qui il federalismo si fonda su un’idea di nazione che pretende sin
dal suo primo apparire in epoca moderna di trovare nella diversità delle sue “stirpi” e delle
loro lande l’espressione più autentica dell’essere tedesco. Su questa celebrazione del
molteplice si fondano anche pratiche storiche di autogoverno. Qui la politica regionale dell’UE
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non è stata capace di dare ulteriori spinte alla regionalizzazione, poiché a livello costituzionale
e amministrativo esistono già degli equilibri consolidati tra regioni e Stato-nazione.
In Germania «l’introduzione del principio di partnership e della programmazione
nell’ambito della riforma della politica strutturale europea non ha provocato rilevanti reazioni
di adattamento, poiché con i Länder già si disponeva di enti subnazionali al meglio attrezzati
alla contrattazione con i ministeri e la Commissione europea» (Auel 2003: 284). Attraverso la
lunga consuetudine alla negoziazione parlamentare tra regioni, e tra queste e la Dieta federale,
il nuovo meccanismo di distribuzione delle risorse europee è stato integrato nel ingranaggio
istituzionale senza attriti degni di nota. Non è quindi diventato un tema da campagna
elettorale, ma solo uno di ordinaria amministrazione, senza alcun fabbisogno aggiuntivo di
investimento simbolico. Di questo passo, però, è andata delusa anche l’aspettativa secondo cui
il processo di regionalizzazione avrebbe dovuto dare un impulso alla “democratizzazione”
dell’Unione europea. Il pericolo è semmai quello di un maggiore peso delle burocrazie
regionali (Auel 2003: 287). In una sola circostanza la distribuzione dei fondi regionali dell’UE è
diventata oggetto di dibattito politico. L’occasione si è presentata nel contesto
dell’allargamento dell’UE verso est, che ha comportato la riclassificazione delle regioni
europee bisognose di trasferimenti, tra cui erano in un primo momento rientrate tutte le
regioni della ex-DDR. Temendo l’emergere di regioni estere confinanti a basso livello salariale e
in procinto di giovarsi di finanziamenti europei “tolti” alle aree tedesche, i Länder orientali
fecero rientrare i fondi strutturali EU tra i temi del confronto con le regioni occidentali e il
governo federale. È stata l’unica volta che in Germania il tema delle politiche regionali dell’UE
rientrasse in un dibattito pubblico più ampio (Mesenhöller 2006: 118; Mathias 2004: 106-107).
Anche se può apparire a prima vista paradossale, è stato invece in uno Stato centralista
come quello francese che, per contrasto, la riorganizzazione dei meccanismi distributivi dei
finanziamenti europei ha suscitato un’attenzione pubblica decisamente maggiore. In Francia,
dove «a livello regionale non si hanno istituzioni similmente efficaci» e quindi l’azione è stata
portata avanti non da governi regionali autonomi, ma da amministrazioni periferiche dello
Stato centrale, la dimensione regionale «si è mostrata più facilmente capace di dare un
plusvalore in termini di legittimazione democratica della politica europea» (Auel 2003: 283).
Anche se il potere di programmazione è rimasto nelle mani dello Stato-nazione, nell’arena di
ogni Conseil régional si articolano degli interessi presenti nel territorio e si cerca di influenzare
le decisioni dello Stato centrale. Si tratta quindi di processi di articolazione del consenso che
non sfuggono all’attenzione pubblica. In questo senso si è ottenuto, almeno in chiave
comparata, un certo “plusvalore democratico” delle politiche regionali europee.
Aspetti ancora diversi entrano in gioco nel caso britannico. Quelle che compongono il
Regno unito auto-definendosi come “nazioni”, dal punto di vista dell’UE sono considerate
“regioni” che grazie a tale classificazione hanno potuto giovarsi delle politiche di devolution
dell’UE per consolidare la propria autonomia “nazionale”. Qui e in Spagna, della quale si dirà,
le politiche europee sembrano dunque avere un effetto rafforzativo sul regionalismo. Mentre
nella versione federale tedesca tale effetto sembra mancare del tutto, nel caso belga, se c’è, è
compensato dagli effetti favorevoli al mantenimento dell’unità nazionale. Da notare, inoltre,
come in Gran Bretagna il principio di sussidiarietà propagato da Bruxelles abbia portato prima
che non altrove al desiderato coinvolgimento di soggetti semi-pubblici e privati che, come nel
caso delle Highlands scozzesi o in quello di Wales, sino diventati portavoce degli interessi
9
regionali, e come tali interlocutori accettati della Commissione europea (Mathias 2004: 73-83;
Boccia et al. 2003: 29).
5.
Politiche dell’UE ed etnicizzazione del discorso regionalista
Uno dei paesi in cui le politiche regionali dell’UE hanno invece visibilmente contribuito a
modificare il discorso sulle regioni è la Svezia. In vista dell’entrata nell’Unione nel 1995 «the
debate on regions and regionalism in Sweden […] has got a very wide scope. On the one hand
there are ideas put forth considering Sweden as one of nine nations within a Baltic Region of
Europe, whilst in a narrower perspective the most important thing is the creation of stronger
popular government at the regional level» (Elander / Montin 1994: 282). Il peso di questa
osservazione va commisurata con la straordinaria persistenza storica della struttura
amministrativa del Regno di Svezia che risale al 1634. In quell’anno vennero create le provincie
(län) amministrate dai governatori del Re, la cui funzione politica si sovrapponeva infine
subentrandovi a quella dei territori e delle contrade di origine medievale (landskap) che però
ancora oggi fanno da riferimento a una pur debole identificazione regionale. Se si prescinde
dall’aggiustamento della struttura amministrativa dopo la separazione dalla Finlandia del 1810
e dalle successive riforme amministrative a livello comunale, la suddivisione dei 24 län rimase
invariata fino agli anni ‘90. La messa in discussione di questo assetto longevo, se è andata oltre
sotto l’impulso della “Europa delle regioni”, trae le sue origini tuttavia dalla crisi dello Stato
sociale che si è manifestato, in modo più o meno strisciante, sin dagli anni ’80, risentendo a
sua volta dei fenomeno che all’epoca si iniziavano a riassumere nel concetto di
“globalizzazione”. Non a caso gli studi avviati nel 1991 per preparare la riforma delle strutture
amministrative e rafforzare le diete provinciali elette (landstingen) avevano l’obiettivo
prioritario di ottenere una riduzione della spesa pubblica per rendere possibile l’abbassamento
delle tasse (Elander/Montin 1994: 291), in sintonia con il principio della sussidiarietà
sbandierato dall’UE. In realtà, anche in Svezia la devolution dei poteri verso consigli comunali e
diete provinciali ha proceduto a passo lento. Nel 1996 è stato introdotto un meccanismo di
compensazione finanziaria tra gli enti di governo territoriale, all’insegna dello sviluppo
equilibrato del territorio nazionale. E la riforma amministrativa del 1997-98, in origine ideata
per ridurre drasticamente il numero delle provincie e rafforzarne i poteri, si è risolta
nell’eliminazione di sole quattro province, grazie all’unificazione di Malmöhus län e
Kristianstads län per creare Skåne län e la fusione di Göteborgs län, Bohus län, Älvsborgs län e
Skaraborgs län in Västra Götalands län. Alle due nuove e più grandi provincie è assegnato un
carattere sperimentale, devolvendo ad esse responsabilità per lo sviluppo economico ed altre
che, normalmente, rimangono tra le prerogative dello Stato (Tatsachen 2005: 3).
Nel periodo di osservazione lo slogan dell’Europa delle regioni non ha quindi potuto
veramente inficiare l’impianto di fondo dello Stato centralista svedese. E tuttavia le spinte
europee sottostanti hanno contribuito a cambiare il clima in un paese in cui il regionalismo
politico e le istanze di autogoverno locale avevano avuto un radicamento tradizionalmente
debole. Sugli impulsi regionalisti hanno fatto leva una classe politica interessata a portare
avanti la “riforma dello Stato sociale”, e nuove élite regionali. Queste hanno iniziato sia
10
cooperazioni e associazioni tra comuni e provincie, anche ai fini della partecipazione a progetti
europei transfrontalieri. Fin qui, il caso svedese potrebbe assomigliare a quelli polacco o greco.
Ma il risultato maggiore di queste spinte alla mobilitazione regionale è consistito nella
parziale rietnicizzazione dello stesso discorso nazionale, di una società che ancora all’inizio
degli anni ’90 si percepiva come “etnicamente omogeneo” nonostante l’alto tasso di
immigrazione. Dopo il riconoscimento, nel 1991, della Convenzione ILO n° 169 da parte delle
Nazioni unite, secondo cui le “minoranze nazionali” conservano ampi diritti di sfruttamento in
proprio delle ricchezze del suolo e sottosuolo che abitano, il Consiglio d’Europa e l’UE
«recognized the Sami as the natives of Scandinavia and funds for preserving the traditional
Sami culture has been allocated. Being part of several nations, the supranational perspective in
organisations like EU has also helped the Sami in finding new ways to reach recognition and
attention» (Hassler 2005: 6). Mentre la Norvegia prontamente aderiva alla Convenzione, la
Svezia ha temporeggiato, non tanto per i circa 15.000 sami viventi in Svezia, quanto per un
altro gruppo di minoranza ufficialmente riconosciuto, numericamente più consistente e in
parte concentrato nel territorio regionale del nord: la minoranza finnica chiamata kven. «La
loro lotta etnica è stata incentivata anche dal riconoscimento dei diritti delle popolazioni sámi
in seguito alla ratifica della convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che
conferisce a questi ultimi lo status di popolazione autoctona dotata di diritti speciali nell’uso
della terra e dell’acqua. Questa concessione ha mobilitato le minoranze finniche, insorte con
una discorsività talvolta aggressiva a fronte dei diritti riconosciuti al popolo sámi. Il movimento
ha tentato di accreditare profonde revisioni storiche attorno agli etimi etnici sámi e lap
(lapponi) nonché kven (trasformato, in base a rivisitazioni storiche, in un etimo che oggi
designa tutte le minoranze di lingua finnica), onde provare che i kven sono una popolazione
altrettanto autoctona» (Elenius 2006: 133-134). È stato così che l’amalgama tra i discorsi
regionalisti, le retoriche favorevoli alla protezione del patrimonio culturale di una minoranza e
i conflitti di interesse economico legati allo sfruttamento delle risorse di acqua, suolo e
sottosuolo, hanno rivalutato la dimensione regionale introducendo negli equilibri territoriali e
politici della Svezia aspetti inediti.
Sebbene all’insegna di problematiche alquanto differenti, una certa, forse involontaria,
sintonia tra politiche europee e rietnicizzazione dei discorsi regionalisti è rilevabile anche in un
paese come la Bulgaria. Anche qui, come in Svezia e altri paesi a tradizione centralista, il
processo di riforme non ha portato, nel periodo qui considerato, a una effettiva devoluzione di
competenze decisionali ai ventotto oblasti, benché l’importanza delle assemblee elettive
venisse rivalutata e quindi con essa il potenziale di medio e lungo periodo di nuove
articolazioni politiche del regionalismo. E tuttavia nei nuovi equilibri della politica bulgara postcomunista, la forte minoranza di lingua turca che rappresenta la maggioranza dei votanti nelle
regioni di Kardzhali, Haskovo, Shumen e Targovishte, ha potuto guadagnare non solo influenza
regionale, ma anche nazionale. «In questo modo le aspirazioni etnocentriche di minoranze
fortemente ancorate in alcune regioni ha potuto crearsi uno spazio di rappresentanza anche a
livello nazionale (Jakimova 2006: 113). Il movimento Dviženie na Prava i Svobodata (DPS)
guidato da Ahmed Dogan, che raccoglie voti tra le minoranze turche e pomacche, è entrato in
più coalizioni di governo a livello nazionale portando avanti istanze regionali frammiste a
interessi economici e di minoranza (Pitassio 2012: 173-238). Un contributo, probabilmente
modesto e in ogni caso difficile da soppesare, a questi sviluppi ha dato anche l’UE
11
condizionando l’adesione della Bulgaria nell’Unione alla rimozione di pratiche e clausole
discriminatorie di minoranze “nazionali” ed “etniche”. Alle minoranze etniche e alle politiche
europee si oppone Nacionalen Săjuz Ataka portando avanti una linea xenofoba e nazionalista,
che a sua volta contribuisce a etnicizzare i conflitti attorno alla distribuzione delle risorse, tra
gruppi sociali e correnti politiche, e anche tra regioni.
Né il caso svedese né quello bulgaro permettono di stabilire un rapporto di causalità
diretta tra le politiche dell’UE e le tendenze all’etnicizzazione del regionalismo. Gli sviluppi
politici di cui si è accennato qui derivano, in entrambi i casi, da spinte interne e internazionali
che non dipendono dall’intervento dell’UE né si limitano allo spazio europeo. Eppure le
politiche dell’UE e di altri organismi internazionali rafforzano queste spinte. Sin dal 1983 «the
European Union established an Action Line for the Promotion and Safeguard of Minority and
Regional Languages and Culture. By 1998, this Action Line provided 3,350,305 € directly for
projects related to minority languages. This support had a significant networking effect and it
was a catalyst in promoting the sharing of expertise and good practise» (Jones 2013: 9). Al
1992 risale l’iniziativa del Consiglio d’Europa per la creazione di una European Charter for
Regional or Minority Languages (ECRML) che intende proteggere le minoranze etnolinguistiche. È stato istituito uno European Bureau for Lesser Used Languages, mentre l’art.
128 del Trattato di Maastricht e l’art. 3 del Trattato di Lisbona sottolineano il valore della
varietà linguistica e culturale all’interno dell’Unione europea. È stato anche da altri rilevato
come tutto questo «vigoroso processo europeo di costruzione di lingue e culture nazionali»
stimoli «l’emergere di movimenti nazionalisti» (Thiesse 2006: 46). Se dunque da un lato l’UE
può essere vista come volano di una crescente omogeneizzazione culturale e linguistica nello
spazio europeo, dall’altro è difficile negare che anche grazie a questi interventi «the European
sphere is emerging as a new forum for minority groups to voice their demands and concerns»
(Elias 2006: 25).
6.
Unione europea, autonomie regionali e ipotesi separatiste
Una novità introdotta dall’integrazione europea nel sistema degli Stati-nazione emerso
dall’Ottocento è che essa rende economicamente fattibili ipotesi separatiste, e quindi la
trasformazione a pieno titolo di un region-building in nation-building: «European integration
has made the calls for independence of ethnoregionalist parties more realistic. It weakens the
argument against Kleinstaaterei. Small states can clearly survive and prosper within this new
international institutional context» (De Winter 1998: 221). Una separazione pacifica, sul
modello della Cecoslovacchia, è teoricamente possibile sotto il tetto dell’UE ed è pertanto
rientrato tra gli obiettivi di alcuni movimenti indipendentisti. Ad esempio in Scozia, dove a
causa del sistema elettorale maggioritario «a region with a strong nationalist tradition and
identity resources nevertheless has been unable to influence the policy of the centre» (Türsan
1998: 11). Le speranze, tra anni Novanta e Duemila, si sono quindi dirette all’UE come arbitro,
affinché potesse indurre lo Stato centrale alla cessione di prerogative di sovranità o consentire
la separazione in casa.
Nel nostro periodo, l’influenza elettorale complessiva dell’arcipelago dei movimenti
regionalisti a sfondo etnico è rimasta, in Europa occidentale, debole a livello nazionale, anche
12
se è in alcuni casi abbastanza forte a livello regionale da poter condizionare gli equilibri politici
complessivi. A questi raggruppamenti appartenevano, in Spagna, partiti come Euzko Alderdi
Jeltzalea, Herri Batasuna (fuori legge dal 2003), Convergència i Unió, Bloque Nacionalista
Galego e vari altri; in Gran Bretagna, lo Scottis Naitional Pairtie, il Plaid Cymru gallese, l’Ulster
Unionist Party e Sinn Fein; in Italia, il Partito d’azione sardo, la Lega Nord, il Südtiroler
Volkspartei e l’Union Valdôtaine; in Belgio, Volksunie e Front Démocratique des Francophones;
in Francia, raggruppamenti come Partit Occitan, Union démocratique bretone, Union du peuple
alsacien e Front de la Liberation de la Corse; in Germania, il Südschleswigsche Wählerbund e il
Comitato nazionale dei serbi di Lusazia; nei Paesi Bassi, il Fryske Nasjonale Partij – giusto per
stilare, qui, un piccolo elenco incompleto. Almeno in un primo momento il peso elettorale di
questi raggruppamenti è stato indebolito dal processo di allargamento dell’UE verso nord, est
e sudest. Ma presto anche nei paesi di nuova adesione si sono fatti sentire simili movimenti,
quali, ad esempio, in Finlandia, il Svenska Folkpartiet, in Polonia Ruch Autonomii Slaska e
Lietuvos lenku rinkimu akcija, in Romania la Liga Transilvania-Banat e l’Uniunea Democrata a
Maghiarilor din Romania, in Slovacchia il Magyar Foderalista Part e, infine, Svaz Moravanu
nella Repubblica Ceca. La consistenza del seguito e le prospettive politiche di tutti questi
movimenti divergono (Lynch 2005: 95), ma il più delle volte sono rimaste modeste. E tuttavia il
loro peso culturale è più grande di quanto possa esprimere la percentuale di voti. I loro discorsi
filtrano, se non altro sul piano culturale e folkloristico, nell’opinione pubblica influenzando
subdolamente la definizione degli interessi territoriali. Le élite regionali, anche se non
regionaliste, cominciano a far leva su questi discorsi per legittimare le proprie iniziative.
Nel periodo considerato, in alcuni paesi membri forme di nation-building regionale a
impronta etnica hanno infatti già conquistato una certa egemonia sul discorso pubblico
relativo alle proprie regioni di riferimento. Questo è stato possibile perché hanno saputo
sovrapporre i loro richiami alla “autenticità” di lingua e cultura, e alla persistenza storica lunga
del “popolo” nel territorio, alla rappresentazione di interessi sociali ed economici. Laddove
questi sono stati articolati a favore della sussidiarietà, del mercato e dell’allentamento della
pressione fiscale, si sono mostrati in sintonia con le massime dell’UE.
Uno dei paesi più coinvolti in questi processi è la Spagna. La costituzione spagnola del
1978 prevedeva ampie autonomie, poi ulteriormente estese, sul piano giuridico e politico, nel
corso degli anni ’90. In misura diversa ne godono tutte le regioni nonché le città di Ceuta e
Melilla, arrivando a concedere proprie forze di polizia ai Paesi Baschi e alla Catalogna.
Significativo mi pare riflettere su questa “misura diversa”, che nel periodo considerato ha
concesso più diritti all’autonomia a chi legittimava con un più vigore e sostegno elettorale le
proprie richieste con una diversità nazionale. Nel caso catalano, il Regno di Spagna ne ha
formalmente riconosciuto lo status di “nazione” nel 2006, nazione alla quale si chiede tuttavia
di convivere con la “unità indivisibile della nazione spagnola”. Questa sembra riconosciuta
dalle élite dominanti dei Paesi Baschi, in compenso di un ampio riconoscimento di poteri
(Nuñez Seixas 2006: 133). Le concessioni fatte all’autonomia sono state ottenute nonostante lo
Stato spagnolo, messo di fronte alla tendenza visibile in varie regioni di portare avanti un
nation-bulding alternativo, si sia impensierito sulle prospettive della propria integrità.
Ancora durante i primi anni ’90 il governo spagnolo si è opposto all’idea che le regioni
spagnole prendessero ad esempio le pratiche di lobbying delle regioni tedesche e belghe, e
intervenisse direttamente presso la Commissione europea per ottenere ascolto per le proprie
13
istanze. I governi regionali della Spagna, invece, si sono rivolti contro una rappresentanza delle
istituzioni comunali spagnole a Bruxelles, temendo che queste avrebbero potuto annacquare il
carattere “nazionale” delle proprie istanze. Le regioni spagnole più impegnate sul fronte
autonomista hanno pensato sin dall’inizio a far leva sulla “Europa delle regioni” per ottenere i
loro scopi: «Di fronte alle scarse possibilità di influire sui processi decisionali della politica
interna, i governi regionali hanno dato priorità allo stabilirsi di contatti con le istituzioni
comunitarie e in particolare con la Commissione europea» (Morata Tierra 1994: 160). Gli
antesignani di questo processo furono enti parastatali, semipubblici e privati come Patronat
Catalá Pro Europa e Interbask, che dovevano superare le restrizioni imposte dal governo
spagnolo prima di ottenere un loro diritto di rappresentanza. Poiché un buon posizionamento
complessivo della Spagna nella lotta per la distribuzione dei fondi europei rappresenta, al
contempo, un interesse nazionale, il governo centrale a un certo punto non ha potuto fare
altro che rafforzare la posizione delle regioni spagnole. Da questo riconoscimento di fatto, e
dal successo ottenuto a Bruxelles, hanno a loro volta tratto vantaggio politico i governi delle
regioni autonomiste economicamente e politicamente più forti, quello catalano e quello basco.
Questo perché «threats are more credible, and bargaining power is larger, if autonomy
demands have popular support» e perché «threats are more credible if the region can inflict
substantial costs on the center. Such costs can be either economic […] or political […]» (Van
Houten 2000: 26).
Anche in Gran Bretagna la “nazionalizzazione” sembra perseguita per rafforzare la
posizione negoziale generale delle regioni, per questo anche «Wales […] is currently trying to
press forward its status as a nation within the UK multinational state» (Mathias 2004: 75).
Mentre l’Italia settentrionale è stata teatro di un tentativo di apparente fuga dallo Stato
centrale sotto le ali protettrici dell’Unione europea da parte dei sudtirolesi che hanno
accantonato i riferimenti retorici “irredentisti” all’Austria e alla Germania, a favore di una sorta
di nation-building regional-europeo (Heiss 2004). È stata inoltre il teatro di una forte, per
quanto ambigua, retorica separatista da parte della Lega Nord, che delineava una prospettiva
probabilmente poco realistica, visto che non è stata maggioritaria neanche nel territorio di
riferimento; ma a cui occorre concedere di essere all’epoca riuscita a egemonizzare il discorso
pubblico sulla “questione settentrionale” e far riconoscere ben al di là della cerchia dei propri
simpatizzanti categorie come Padania come marcatori di un’area dalle presunte caratteristiche
comuni, e divergenti da quelle del resto del paese.
Se questi sono semi che possono germogliare in futuro è una questione indecidibile, in
quanto dipendente dalle contingenze. Nel passato, anche recente, si sono verificati molti
cambiamenti di confine tra gli Stati europei, e quasi sempre con la pretesa di essere l’ultimo
tassello di un assetto geografico politico definitivo. Nulla autorizza dunque a pensare che in
futuro non ce ne saranno degli altri. Certamente né l’Unione europea né le sue politiche
regionali hanno l’obiettivo di alterare l’assetto degli Stati sovrani suoi membri. È quindi lungi
da loro voler coadiuvare movimenti separatisti. E tuttavia le politiche regionali iniziate negli
anni ’90 sono state un motivo ulteriore per le classi politiche ed economiche operanti nel
territorio di ricorrere al discorso degli interessi e delle “identità” regionali.
14
7.
Regionalizzazione come opposizione contro UE e globalizzazione?
Effetti indesiderati delle misure decise a Bruxelles si hanno anche laddove un regionalismo
politico e culturale viene promosso come opposizione all’UE. La deregulation, la
liberalizzazione e lo stesso principio di sussidiarietà promossi dalla Commissione europea, se
vengono salutati da alcuni movimenti regionalisti, da altri vengono interpretati come misure
atte a esporre i mercati e le società locali, e i loro patrimoni storici e naturali, senza più
protezioni agli effetti nefasti della globalizzazione. La regione e l’autogoverno, secondo questa
visione, devono rafforzarsi onde ovviare al venir meno delle protezioni prima garantite dallo
Stato.
In Francia, una simile visione si è amalgamata nel tempo con una vecchia richiesta di
maggiore décentralisation. Le 21 regioni create nel 1960 con il raggruppamento dei
departments avevano rappresentato più che altro una riorganizzazione dell’amministrazione
statale nel territorio. Con la Loi Defferre del 1982 queste stesse regioni ottennero alcuni poteri
di intervento in tema di economia, cultura e infrastrutture. Come concessione alle pressioni
indipendentiste all’epoca molto forti, a una sola regione, la Corsica, venne invece concesso
uno statuto speciale con più ampi poteri. Come abbiamo visto sopra, nel contesto delle
politiche regionali avviate dall’UE nei primi anni ’90, le regioni francesi hanno goduto di una
certa rivalutazione sul piano delle rappresentazioni discorsive, del dibattito pubblico e, in
misura crescente, anche su quello della legittimazione democratica. Contemporaneamente ha
ripreso vigore il regionalismo culturale che, al di là degli stereotipi sullo Stato centralista, sta
alla base delle rappresentazioni immaginarie della nazione francese (Thiesse 2006: 44-48).
Già negli anni ’70 si diffuse un discorso regionalista e autonomista, perorato da ex
attivisti del Maggio francese, in riferimento alla Bretagna, al Massiccio Centrale, ai Paesi Baschi
francesi e all’Alsazia. Nel corso degli anni ’80 si manifestava anche una volontà conservatrice di
ritorno alle tradizioni regionali, ad esempio nella regione della Vandea. Dagli anni ’90 la
corrente di opinioni regionaliste si è ancora ridefinita. L’aspetto centrale sembrava essere,
«agli occhi di molti cittadini francesi, l’indebolimento del livello nazionale e statale sia sullo
sfondo dell’integrazione europea che della globalizzazione. La regione, ma più ancora il pays o
il terroir, assumono in questo contesto segnato da incertezze e dallo sgretolamento delle
abituali modalità e regole dell’agire, un significato marcatamente conservatore, di reazione,
indipendentemente dal fatto che venga sbandierato sul lato sinistro degli schieramenti politici,
per esempio da parte dell’imprenditore di formaggio Roquefort e leader no-global José Bové. A
dare retta alla maggior parte delle analisi politologiche e sociologiche dell’identità regionale, si
tratta di un’identità di rifugio nostalgico, a fronte di un processo di modernizzazione che ora
assume il nome dell’UE, ora quello della mondialisation» (Serrier 2006: 115).
Non può stupire che in queste condizioni la rappresentazione della nazione attraverso
metafore locali e regionali non si limiti più a istanze conservatrici o ecologiste o a favore di una
varietà linguistica, culturale, naturale, estetica e culinaria, che peraltro forniscono alle regioni
francesi (e ai loro venditori di formaggio) vantaggi sul mercato globale (Thiesse 2006: 62-63). A
partire dagli anni ’90, essa comprende anche, sebbene in modo contorto, la dimensione dello
Stato sociale, o meglio i desiderata di uno Stato sociale di volta in volta meno corrisposti.
L’idea che la regione possa in qualche modo sostituirsi allo Stato-nazione latitante nella
protezione del mercato interno e del lavoro, emanare regole per l’economia e garantire i diritti
15
sociali non coincide certamente con l’idea di regione che si ha in mente a Bruxelles. È vero che
il rafforzamento delle regioni e il principio di sussidiarietà erano pensati per abbattere le
funzioni regolatrici e interventiste dello Stato-nazione, ma non certo per essere reintrodotti a
livello regionale. Come nel 2001 la Commissione europea ha ben chiarito, l’UE si attendeva dal
rafforzamento del livello regionale e locale al contrario un’estensione dei principi del mercato,
della flessibilità, della deregulation. Alle autorità decentrali attribuiva anzi il compito di
ancorare meglio tra i cittadini le direttive comunitarie di stampo liberista: «the Union should
make fuller use of the existing potential for flexibility to improve the ways European policies
are applied on the ground. (….) Moreover, the greater the participation in European policies of
national and regional actors, the more they will be prepared to inform the public about those
policies» (European Commission 2001: 28-29). Non solo. Le autorità pubbliche del livello
decentrale vengono identificate da Bruxelles come «attori tra tanti altri, da mettere sullo
stesso piano dei rappresentati della società civile. (…) Da queste istruzioni per l’uso, gli attori
regionali devono trarre l’idea di non godere affatto di alcun privilegiato ascolto o diritto alla
partecipazione nella politica europea» (Conzelmann 2002: 310-311). La regione “europeizzata”
non si adatta quindi al compito di subentrare allo Stato-nazione nel garantire sicurezza sociale
o regolare il mercato. Di conseguenza, i rappresentanti francesi di un regionalismo antiliberista hanno visto le politiche regionali dell’UE come strumenti della globalizzazione e hanno
cercato di opporvisi.
Ma lo Stato di quella nazione in nome della quale hanno cercato di preservare la varietà
regionale, di fronte al temuto effetto omologante del mercato mondiale, se si è mostrato
“debole” nella difesa delle sue precedenti prerogative interventiste in campo economico e
sociale, rimane comunque forte abbastanza per difendere la propria posizione come centro
unico del potere sovrano. «Il mantenimento, con poche correzioni, dello status quo giacobino
nell’amministrazione del territorio francese (…) dimostra chiaramente la persistenza di una
concezione centralistica del potere» (Thiesse 2006: 64). Concezione, questa, perentoria, che
l’autrice vede tuttavia messa in crisi. Il problema è che questa crisi evidenza altrettanto la
velleità del regionalismo-rifugio: la regione, nel contesto in cui opera, non ha né titolo né la
forza di offrire protezione sociale contro le temperie della delocalizzazione, della flessibilità,
delle fluttuazioni finanziarie, della disoccupazione. Quello che forse può offrire è un
contenitore per un’indignazione consolatoria che ripiega su una presunta diversità etnica da
redimere. È difficile predire la prospettiva di questo regionalismo del risentimento, poiché «the
question hinges on the malleability of social identities and the politicization of regional and
ethnic identity» (Türsan 1998: 14), ma sembrano in ogni caso prevalere le declinazioni etnico
culturali.
8.
Conclusione
Le pagine che precedono rappresentano un esperimento opinabile, poiché «isolating the subnational regions of the European Union, for the purposes of analysis, from other expressions of
regionalism in other parts of the world, is a temptation and certainly a necessity when we
come to the indispensable comparisons and case studies. However, an a priori approach of this
kind would be reductionist» (Smouts 1998: 32). Non possiamo infatti supporre che il revival
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regionalista europeo provenga da altri stimoli che nel resto del mondo. Perciò le nostre
conclusioni vanno lette in termini di legami causali possibili o verosimili, ma non univocamente
dimostrabili, tra le politica regionali dell’UE da una parte, e la tendenza alla regionalizzazione
nei paesi membri dall’altra.
Questo fatto si è subito evidenziato nel confronto con la Norvegia e la Russia, dove
negli anni sotto osservazione abbiamo rinvenuto tendenze simili alla regionalizzazione,
nonostante fossero esterni all’area interessata dalle politiche regionali targate UE. Tale
risultato non dimostra, però, che gli interventi dell’UE siano rimasti senza effetti. Esaminando
casi di region building transnazionale e gli effetti delle politiche regionali di Bruxelles su Stati
membri dalla forte tradizione centralista, abbiamo visto che le modifiche apportate alle
politiche regionali inducono comunque i paesi centralisti a non rafforzare, o creare ex nuovo,
un minimo di strutture territoriali decentrali elettoralmente legittimate. Sembra dunque che le
politiche regionali abbiano concorso a spostare, nel periodo di osservazione, alcune dinamiche
del discorso politico e della ricerca di consenso a favore dei livelli regionale e locale. Il discorso
conta, poiché può mettere alcuni semi a germogliazione lunga.
Sempre sul terreno della ricerca del consenso a livello regionale abbiamo intravvisto un
concorso tra le politiche UE e la globalizzazione economica nel favorire i processi di rietnicizzazione del discorso politico. Forse senza volerlo, all’interno degli Stato-nazione e della
“Europa delle regioni”, varie iniziative improntate alla decentralizzazione e alla sussidiarietà
hanno portato il discorso pubblico su un terreno di coincidenza tra definizioni etniche e
connotati regionali. Le élite regionali, anche se non regionaliste né autonomiste, cominciano a
far leva su questi discorsi per legittimare sé stesse e perorare le proprie iniziative. Ed è sullo
stesso terreno che il rapporto con il regionalismo “nazionalista” e separatista si fa ambiguo. In
teoria l’esistenza dell’UE renderebbe più fattibile la sopravvivenza economica di Stati piccoli, e
quindi la spaccatura degli Stati nazione in più unità. In pratica l’Unione europea non vorrebbe
alterare l’assetto dei confini sovrani. Tuttavia le politiche regionali iniziate negli anni ’90 sono
state un motivo ulteriore per le élite regionali di ricorrere a una politica delle “identità
regionali”, i cui effetti nel tempo non possiamo predire.
Abbiamo dunque rinvenuto apparenti effetti intenzionali ed effetti non intenzionali
delle politiche regionali dell’Unione europea, che però non si fanno univocamente definire in
termini causali. Questo “enigma”, forse, si risolve più facilmente guardando al contenuto
socio-economico delle politiche UE. Nel periodo di osservazione sono state di inequivocabile
ispirazione liberista, in ampia sintonia con le tendenze comunemente associate al termine
della “globalizzazione”. La difficoltà di definire un chiaro rapporto causale tra le politiche
regionali dell’UE e il revival delle regioni deriva, dunque, anche dal fatto che, come scrive Huri
Türsan (1998: 4), «in Europa la ‘globalizzazione’ viene sostituita dalle visioni della
‘europeizzazione’».
17
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