Le macchine in agricoltura: da krumire a irrinunciabili alleate
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Le macchine in agricoltura: da krumire a irrinunciabili alleate
Le macchine in agricoltura: da krumire a irrinunciabili alleate Dalla fine dell’Ottocento per l’economia agricola ha avuto inizio una trasformazione ciclopica e inarrestabile. L’avvento delle macchine, introdotte in ogni settore produttivo, sconvolgeva modalità, rapporto numerico e tempi di lavoro che fino a quel momento avevano caratterizzato, cadenzandola, l’esistenza delle generazioni precedenti. L’inarrestabile affermarsi della meccanizzazione, così congeniale all’agricoltura di pianura, ebbe ad incontrare diversi ostacoli, primo tra tutti l’elevato costo in rapporto alle scarse finanze della piccola e media proprietà; quindi la diffidenza della classe mezzadrile che avvertì immediatamente come l’introduzione dell’onerosa macchina avrebbe sottratto lavoro manuale, mettendo in crisi la struttura familiare a quei tempi assai numerosa e intesa fondamentalmente quale unità produttiva, oltreché parentale. Gli anziani, disorientati, legati all’adagio secondo cui “chi lascia la strada vecchia per la nuova/ malcontento si ritrova”, incapaci di presagire le prospettive che si stavano aprendo, indirizzate allo spostamento dell’asse d’equilibrio economico dalla predominante agricoltura verso l’industria e l’artigianato, opposero resistenze notevoli. Il mezzo meccanico, salutato con meraviglia dalle giovani generazioni, poneva in discussione lo stratificato e più che millenario bagaglio di conoscenze da cui, specialmente gli anziani che ne erano i detentori più accreditati, traevano un ruolo di supremazia. In una logica pressoché immutabile delle cose, la loro indiscutibile esperienza e competenza era il sicuro ed irrinunciabile riferimento per le giovani generazioni. Comunemente era infatti il più anziano della famiglia, responsabile per il rispetto del contratto a mezzadria o terzeria, ad avere il comando e la supervisione su tutto, compreso il comportamento morale, dato che le trasgressioni potevano avere sensibili riflessi sull’andamento economico generale. Il verificarsi di una qualsiasi devianza rispetto alle regole comuni metteva in discussione l’idoneità al comando del capo famiglia e non escludeva la recessione del contratto di conduzione del fondo. Furono senz’altro i titolari della grande proprietà che, intuendo la facilità di ammortizzare l’investimento attraverso il risparmio di manodopera, specialmente bracciantile, dettero inizio a questo nuovo corso. Presso il bracciantato, per nulla conservatore, già dalla fine dell’Ottocento, avevano iniziato ad agitarsi e ad affermarsi ideali socialisti sulla cui onda era stato creato un movimento di sostegno sempre più ampio, capace di ingaggiare lotte rivendicative e salariali tali da intaccare sensibilmente gli allora ampi margini di guadagno, quasi ad esclusivo vantaggio della grande proprietà agraria. Porre argini al montare di quegli ideali già non nuovi, che pure negli anni tra la fine dell’Ottocento e inizio del Novecento apparivano raggiungibili, era l’assillo prioritario. Che la macchina in agricoltura fosse vissuta come pericolosa antagonista è tanto vero che sul settimanale Luce dell’agosto 1903 veniva definita come terribile krumira la quale, stralciando dall’articolo: “d’ora innanzi dovrà far concorrenza ai nostri braccianti e a quelli dei paesi limitrofi… [si trattava] di una macchina acquistata dall’ing, Berardi allo scopo di sostituirla ai vangatori di risaia…”. L’articolo concludeva esortando i lavoratori di unirsi in un’organizzazione capace di affrontare l’acquisto di macchine agricole, attraverso le quali avrebbe dovuto passare l’emancipazione operaia dal lavoro: suggerimento che, per quei tempi, risultava una vera e propria utopia, ripresa e in parte realizzata solo nell’immediato secondo dopoguerra: ovvero mezzo secolo dopo. Nel dicembre 1908, L’Unione Costituzionale (1), le macchine agricole in Italia ed in America) testata che rappresentava specialmente l’interesse agrario, palesava apertamente una delle ragioni fondamentali del ricorso alle macchine: “[…] Oggi più che mai si sente da tutti la necessità di diffondere l’uso delle macchine agrarie, che sono valvola di sicurezza contro gli eccessi degli scioperi, elemento prezioso di benessere e di pace…” La macchina, venendo ad abbattere numericamente l’ingaggio di manodopera e i tempi di lavoro, ebbe realmente a mostrarsi strumento valido a spegnere le forti spinte verso il raggiungimento di condizioni di vita materiale più umane. La straordinaria funzione degli aratri, delle mieti/lega, delle battitrici, delle sfiocinatrici e quant’altro, fatto salvo l’iniziale fascino, creavano timori che, in breve, ebbero a concretizzarsi. Le considerazioni diffuse all’epoca erano sul seguente registro: [La macchina è utile] ma intanto ci troviamo disoccupati, perché la macchina ha fatto in un giorno il lavoro che prima occupava per un mese dieci operai.” La redazione del settimanale socialista carpigiano Luce dell’8 settembre 1891, primo numero stampato con una macchina rotativa Marinoni, ritrovandosi a dover risolvere l’imbarazzo sortente dalla riduzione del personale, esordiva con un articolo di due colonne intitolato alle macchine, in cui partendo dal riassunto di quelli che erano gli umori diffusi tra i lavoratori, concludeva con un plauso alla tecnica, quale possibile strumento di emancipazione: “[…] Quante rivoluzioni hanno portato le macchine! Quanti operai han dovuto darsi ad altre industrie, quante rovine improvvise, quante disoccupazioni, che spietata concorrenza, che guerra mortale!… Ma dovremmo per questo gridare abbasso le macchine? Dovremmo per questo volere che l’uomo riprenda il suo posto di bestia da soma… dovremmo regredire di cinquant’anni, maledire la scienza…? Ben vengano gli aratri meccanici, le falciatrici, le sarchiatrici, i trebbiatoi, le mietitrici, gli strettoi da uva, le pompe travasa vini, le locomobili, i telai meccanici e tutta l’altra serie di macchine inventate e da inventarsi… Ma sieno le macchine, come tutti gli utensili del lavoro, proprietà assoluta degli operai… altrimenti la scienza stessa, lo scopo ultimo della quale è la ricerca dell’umana felicità, sarà invece strumento di tirannia, di schiavitù a danno dei moltissimi, in favore di pochi.” Un articolo comparso su Luce tra il 23-24 marzo del 1905, dal titolo Come le macchine oggi maledette, nel socialismo saranno benedette, rende oggi la misura di quanta potesse essere l’avversione comunemente diffusa alla meccanizzazione del lavoro che veniva così riportata: “[...] la rovina dei lavoratori sono le macchine; maledetto chi le ha inventate! Bisognerebbe distruggere tutte le macchine, oppure, che so io, fare una legge che ne proibisca l’uso: Perché, se no, voi fate le leghe, fate le richieste, ma il padrone mette una macchina al posto vostro e buona notte...”. Nell’area carpigiana, dove l’economia agricola si coniugava da oltre quattro secoli alla diffusissima lavorazione del truciolo, praticata specialmente nelle campagne, l’effetto dell’introduzione dei mezzi meccanici era già stato ampiamente sperimentato e osteggiato già a partire del secondo decennio dell’Ottocento. La messa a punto di una macchina, denominata “Bellodi”, per l’estrazione delle paglie necessarie all’intreccio utile alla produzione dei cappelli, aveva non solo abbattuto il numero degli addetti, ma, seppure solo teoricamente, annullando inconvenienti di ordine fisico e riducendo drasticamente quelli tecnici, appariva come una minaccia al secolare monopolio maschile sull’arte. Giuseppe Saltini sulla “Cronaca di Carpi” da lui redatta, in data 21 aprile 1817 ebbe a registrare: “Da persona ingegnosa fu organizzata una certa macchina per fare le paglie del Truciolo senza alcuna fatica e senza soggezione per cui anche un piccolo ragazzo farebbe quanto può fare un uomo perito di tale mestiere. Da molti pertanto vedendo l’inconveniente che poteva succedere a tale Arte...fu oggi fatto un complotto di gente alla testa del quale eravi un numero di capi pagliari...e questi si portarono a quelle case ove sapevano che eranvi di quelle macchine ed intendevano a forza di ottenerle e romperle in tanti pezzi. Ma sentito questo la guardia de ’Dragoni, subito si portò ove eravi questa unione coll’accompagnamento del Sig. Dott. Ercole Caleffi odierno Podestà il quale ordinò che tutte le macchine fossero depositate in Palazzo Comunale ed ordinando ancora ai capi che si acquietassero e ponessero termine a suoi clamori promettendogli giustizia...Fu scritto tostamente alla Capitale Modena e frattanto nella notte furono presi alcuni di que’ capi e tosto tradotti alle carceri di Modena; avuto poscia riscontro, furono restituite le macchine a di chi erano e furono imprigionati gli altri capi rivoluzionari che poi col tempo furono levati e posti in libertà.” Successivamente, all’inizio del Novecento, l’ulteriore automazione della macchina “Bellodi”, prima ad energia vapore e poi elettrica, venendo ad assottigliare ulteriormente il numero degli addetti, sortì nuovi e significativi disordini tra la categoria dei pagliari sia di città che di campagna. I tanti contadini, che nella stalla attendevano dal tardo autunno e nell’inverno alla trattura delle paglie per integrare i magri redditi, all’improvviso si trovarono definitivamente spiazzati. Era stata la manodopera maschile, pagando un notevole tributo, a sperimentare l’impatto con la meccanizzazione ed era comprensibile il sospetto nutrito verso quegli assordanti “mostri” meccanici i quali, in un arco di tempo breve, assolvevano al lavoro che fino ad allora era stato di una moltitudine. Laddove arrivava la macchina, si spopolavano campi ed aie e poco importava se, agli esordi, il lavoro meccanico era impreciso e nei campi rimanevano in piedi molte spighe e parte del raccolto andava perduto: il risparmio sulla manodopera ripagava abbondantemente lo spreco. Questo fatto ebbe ricadute immediate sul mercato della manodopera che, posta di fronte ad una così impari e disarmante concorrenza, per decenni ebbe a subirne le conseguenze, piegandosi, senza tuttavia rassegnarsi, a condizioni sempre più tristi, sia sotto l’aspetto delle quote salariali che dell’assegnazione del monte giorni lavorativi. Ma il nuovo corso era segnato a tal punto che, in un’epoca in cui la fotografia era principalmente intesa con funzioni ritrattistiche, ancora appannaggio di un’esigua ed elitaria minoranza, l’introduzione delle prime battitrici a vapore veniva senz’altro interpretata come azione pionieristica, così eccezionale da meritare l’essere immortalata fotograficamente. La macchina, anzi le due macchine divennero i soggetti fotografici: l’una, di legno, che divideva i chicchi del grano dallo stelo e dalla pula, era un monumentale carro con un sistema di assi mosse da bracci che sfregavano il prodotto; per azionarla occorreva un’altra macchina assai simile ad una locomotiva a vapore che, collegata con una cinghia a ruote, trasmetteva il movimento alla prima. Il lavoro manuale si faceva cornice Alla fine dell’Ottocento, il poeta emiliano Enrico Panzacchi dedicava alcuni versi alla trebbiatura meccanica ed in essi, specie nel penultimo verso “non s’odon né risa né canti” traspare un clima di, quantomeno, perplessità e tristezza. Trebbiatura Meriggio: La macchina trebbia Ansando con rombo profondo. Il grano, rigagnolo biondo, giù scorre. Nell’aria è una nebbia sottile. Sogguarda per l’aia il nonno, con faccia rubizza. Nell’aria una rondine guizza, radendo la bassa grondaia. E intanto, che ressa sul ponte tra i mucchi di spighe e di paglia, col sole che gli occhi abbarbaglia, col sole che affuoca ogni fronte! Le donne di rosse pezzuole Avvolgon le trecce sudanti. Non s’odon né risa né canti. Ma il nonno: Su allegre, figliole! Contemporaneamente al diffondersi delle macchine agricole, si affacciava sul mercato del lavoro la richiesta di una nuova competenza, definita di motorista che inglobava in sé la capacità di azionare e manutenere i macchinari; contemporaneamente all’acquisto di una macchina agricola, per la quale era previsto anche un possibile noleggio, le grandi aziende si dotavano anche di più o meno elementari officine. Dalle botteghe di fabbri, presso le quali iniziava la richiesta di interventi complessi, per assolvere i quali si faceva pressoché indispensabile la comprensione del meccanismo generale, tale da indurre a progettarne e produrne in proprio, prendeva avvio anche un embrione di industria meccanica come si evince da un articolo comparso su Luce del 3 – 8 del 1890: “[…] giovedì mattina venne da Modena, pel comizio Agrario, il Dottor Bortolotti a visitare la trebbiatrice auto/locomobile inventata dal nostro bravo Reverberi e costruita nell’officina Formigoni Reverberi. Assistevano alle prove di locomozione e di lavoro, eseguite nel podere Paltrinieri fuori Barriera Fanti, il direttore e il segretario del locale Consorzio Agrario, Sig, Filippo Gandolfi e rag. Ersilio Benassi, e parecchi industriali e possidenti di Modena e Carpi. Le prove riuscirono egregiamente e gli intervenuti incoraggiarono l’inventore a mandare la trebbiatrice alla prossima esposizione di Pavia e a recarsi a Parigi…” Nel luglio dello stesso anno, sempre dalla stessa fonte, si apprende che il Reverberi chiedeva al Governo il brevetto della macchina, dopo averne riscontrata l’efficienza: “[…] infatti essa si è recata con generale soddisfazione in moltissime ville del Comune e della Provincia, visitando sino a tre poderi in un giorno, e trebbiando da 110 a 130 quintali di frumento. La trebbiatura poi ha dato ottimo risultato e tutti se ne lodano…” Ben quindici anni dopo, sul settimanale L’unione Costituzionale (2) si dibatteva ancora sull’opportunità o meno di introdurre le macchine agricole: “[…] perché si dovrebbero preferire gli aratri moderni di ferro, a quelli antichi di legno? Non tanto per la loro leggerezza, per il minimo sforzo di trazione, quanto perché con essi la fetta di terreno riesce del tutto capovolta, e il solco tracciato resta ben pulito. Perché si consiglia la semina a macchina piuttosto che quella fatta a mano? [Le macchine] pongono il seme alla profondità voluta, per una buona e sollecita germinazione, ne risparmiano, permettono di compiere meglio i lavori di successiva zappatura e di sarchiatura… Molte volte però si cerca la celerità a scapito della bontà di lavoro. Per esempio, nella fienagione dell’erba medica e del trifoglio. Compiendo il lavori colle falciatrici non riesce a fare come nella falciatura a mano. Però accelerando i lavori noi possiamo custodire meglio il fieno non scapitando così la qualità del prodotto…” e conclude affermando che in generale si può benissimo introdurre qualsiasi macchina laddove si abbiano le porche abbastanza larghe da poter far circolare con lestezza le macchine…” Nel numero successivo, L’Unione Costituzionale (3) affrontava quello che si configurava come il vero nodo della questione, ovvero il generarsi di disoccupazione in ragione del diffondersi della meccanizzazione; nel farlo adottava toni minimizzanti e, piuttosto, spostava i malumori dal settore agricolo a quello neo/industriale del truciolo dove l’introduzione delle macchine, come ampiamente sperimentato, stava abbattendo sensibilmente gli addetti al lavoro della trattura delle paglie: […] Qui da noi non succede altro che lo spostamento della distribuzione del lavoro… disoccupazione vera e propria [le macchine] non apporterebbero… perché le macchine nelle nostre aziende sostituiscono parzialmente l’uomo e perché i lavori durante l’annata agraria sono molteplici e non tutti atti a farsi con le macchine. Qui sta la differenza tra il lavoro meccanico industriale dove la sostituzione dell’uomo con la macchina è completa… nella nostra industria non si verificò forse la disoccupazione dei pagliai perché si è introdotto le macchine a vapore nella fabbrica delle paglie?…” La trasformazione in atto aveva i tratti davvero epocali; peraltro si verificava in concomitanza di un inedito e significativo movimento migratorio della manodopera agricola verso un lontanissimo estero, una migrazione che, per i più, sarebbe stata senza ritorno. Furono in molti a ravvisare nella meccanizzazione una delle cause di quella fortissima emigrazione che ebbe i suoi apici assoluti proprio tra l’inizio del Novecento e il 1914, raggiungendo il ragguardevole numero di circa due milioni di emigranti verso le Americhe. Sul possibile collegamento tra l’avvento delle macchine agricole e il forte flusso emigratorio, nel 1907, a sedare il diffuso rammarico e malcontento, quale portavoce degli agrari, interveniva ancora L’unione Costituzionale che sosteneva: “[…] L’introduzione delle macchine da raccolto (le legatrici per il grano) si è verifica in particolar modo nei paesi del mezzogiorno; ma si badi bene! Non ha preceduta l’emigrazione, ma bensì l’ha seguita… Bisogna dire ed affermare chiaramente che l’introduzione delle macchine da raccolto non ha mai cacciato l’agricoltore, ma è andata a colmare il vuoto, lasciato dagli emigranti. Guai se non fossero venute in questi ultimi anni le mietitrici e le segatrici nel Mezzogiorno che si stava spopolando! Furono la salvezza della coltivazione del grano, perché condizione di quella contrada è lo spopolamento a cui seguì il rincaro della mano d’opera, e l’agricoltura non ha altro modo di provvedere a tale stato di cose, pur restando alti i salari… Senza l’introduzione delle macchine da raccolto si avrebbe avuta la decadenza dell’agricoltura…” L’articolo concludeva auspicando: da un lato che il Ministero all’Agricoltura incoraggiasse l’introduzione delle macchine, affinché avessero a rinnovarsi quelli che venivano definiti depositi, arsenali inanimati, veri musei che non servono a nulla; dall’altro lato che l’industria nazionale metallurgica si avviasse in maniera decisa alla produzione delle macchine agrarie e potesse così assorbire le forze in esubero del settore agricolo. In Carpi, fino al secondo dopoguerra, non vennero a crearsi industrie meccaniche e metallurgiche, piuttosto vi fu evoluzione nelle imprese di tipo artigiano, perlopiù sortenti dalle officine di fabbri, strettamente legate al lavoro agricolo, ma anche alla lavorazione del truciolo, anch’essa orientata ad una meccanizzazione significativa, strettamente collegata all’impronta industriale che ebbe inizio alla fine dell’Ottocento e decollò particolarmente con il determinarsi della prima Società Anonima del carpigiano: “Il Truciolo”. Le macchine per l’estrazione delle paglie, quelle per cucire i cappelli, le presse, le roccatrici, tutto quanto poteva animarsi ad energia, prima a vapore e poi elettrica, veniva introdotto generando una innovazione inimmaginabile sino a qualche anno prima. Lo scrittore poeta Giovanni Mastracchi, in visita guidata da Alfredo Bertesi allo stabilimento de Il Truciolo, nel fare la cronaca riportava: “[…] per tutta questa sua opera la società si vale della mano dell’uomo, ma anche delle più ingegnose macchine odierne. Qui siamo al cospetto delle grandi macchine madri, le nostre caldaie, da cui si ingenera, tramutandosi in moto… la forza animatrice dei nostri stabilimenti… qui avviene il miracolo per il quale il vapore si fa forza meccanica e questa trascende in elettrica… [c’è] una sala popolata d’un doppio ordine di macchine da cucire, riunite tra loro da un’asse d’acciaio che…comunica loro il movimento. Davanti a ciascun ordigno siede un’operaia: sono, fra tutte, duecento… premendo con un piede un pedale si mette in moto l’ago che vien trafiggendo la paglia… intorno è il fragore di duecento macchine in moto… In un altro salone di macchine ci sono più di ottocento telai… fra rombi assordanti una fantastica danza di rocchetti che girano vorticosi gli uni intorno agli altri senza mai incontrasi… i loro fili convergendo al di sopra dell’arcolaio, formano la treccia…[di] tagal…” Sempre all’inizio del Novecento, con il sorgere delle cantine sociali, prendeva avvio anche un nuovo corso della vitivinicoltura e, particolarmente verso quel settore così importante per l’economia carpigiana, si indirizzò l’attenzione degli artigiani locali che iniziarono a produrre macchine enologiche sempre più sofisticate. L’officina di Salardi Enrico, con sede in piazzale Ramazzini, fu una delle prime a rispondere alle nuove esigenze e presso di essa si crearono quelle competenze da cui presero avvio altre piccole o medie imprese artigiane con produzione e manutenzione altamente qualificate di macchinari indirizzati all’agricoltura e alla lavorazione del truciolo; truciolo che, in quanto a materia prima, ovvero coltura del salice e del pioppo, comportava una prima fase di lavorazione squisitamente agricola. Oltre all’officina Salardi era presente anche quella di Formigoni che, entrata in crisi nel 1924, su iniziativa dell’operaio meccanico Guido Aguzzoli, di trasformava nella società Aguzzoli e C. Lo stesso Guido Aguzzoli nel 1961 rilasciava al mensile TuttoCarpi la seguente intervista: “[…] All’inizio le cose non andarono molto bene… c’era poco lavoro e [dovemmo] accontentarci di fare le riparazioni da nulla, aggiustare le auto che erano ben poche, le pompe dei contadini che sono e saranno sempre… [i contadini] sono clienti difficili, impossibili da trattare… venivano lì in cinque o in sei, padre, figli, generi, si consultavano a vicenda… Dopo la fase delle riparazioni, l’officina si mise a produrre pompe irroratrici e pompe da travaso da 150 ettolitri l’ora… Nel’37 si decise di costruire torchi continui per distillerie e cantine. Nel frattempo ci eravamo messi a fare anche delle presse idrauliche per i Monopoli di Stato. Durante la guerra abbiamo fatto poco, per cui ci dedicammo a riparare quello che capitava: caldaie, macchine di pastificio, scrematrici, battitori per trebbia…” Finita la guerra, pur tra non indifferenti difficoltà, Aguzzoli riprese a produrre macchine da vino e in particolare torchi e presse: Titano, Microtitano, Ipotitano e la pressa Zeta ed Eureca, impiegati nelle cantine vinicole di mezza Italia, nonché all’estero, in particolare in Perù dove le presse venivano straordinariamente impiegate per la fabbricazione della farina di pesce. Per scelta, la ditta Aguzzoli ancora presente ed impegnata in produzioni complesse e altamente specializzate, non ha mai fatto il salto da artigianato ad industria; resta il fatto che le maestranze che vi hanno e continuano a lavorarvi sono professionalmente complete, iperspecializzate, padrone del mestiere. Con l’emergenza generatasi in conseguenza del primo conflitto mondiale che sottrasse notevoli energie all’agricoltura, lasciata in gestione ad anziani, donne e giovani pressoché bambini che la sostennero con estrema difficoltà, si determinò una stasi del processo innovativo. A posteriori, nel 1927, con un “Gloria a tutte voi, Donne della Campagna che durante la guerra, con l’aiuto dei vecchi e dei ragazzi, coltivate i poderi per riconsegnarli in buono stato agli uomini vostri, reduci vittoriosi dalle trincee”, nel paventarne altri, era resa riconoscenza per i gravi sacrifici affrontati durante il lungo conflitto. Il rientro delle forze attive alla fine della guerra e la mancata realizzazione delle prospettive promesse riaccesero, infuocandolo, un conflitto di classe che appariva insanabile; ad esso, particolarmente dalla classe agraria, venne opposto il fascismo. Sotto l’aspetto della diffusione di nuove tecnologie, il ventennio che seguì si caratterizzò per le spinte contraddittorie: da un lato la potenzialità notevolissima espressa da un’industria nazionale in espansione capace di produrre macchinari dall’azione sempre più efficiente, dall’altro l’assoluta necessità di impegnare l’abbondante manodopera che proprio dall’azione delle macchine si sarebbe trovata disoccupata. L’azione sistematica e determinata del neo governo fascista fu quella di soffocare il montante movimento rivendicativo e abbassare i salari dei giornalieri, la spartizione del cui lavoro era rigorosamente controllata: la non adesione ai fasci era motivo di discriminazione certa. Detto nuovo assetto decelerò l’affermarsi delle grandi macchine agricole; per le piccole e medie proprietà aveva un senso relativo possedere una mietilegatrice o mietitrebbiatrice quando il costo della manodopera che si offriva sul mercato era irrisorio. Peraltro, nella logica conservatrice tipica del padronato di quei tempi, qualsiasi investimento doveva essere di lunga durata e ciò era in contraddizione con l’inarrestabile evoluzione in campo tecnico, cosicché l’avanzare del mercato delle macchine procedeva con il freno inserito. Alla meccanizzazione non poteva sottrarsi la grande azienda agricola che non era caratteristica sul territorio dell’area carpigiana e si concentrava particolarmente nella vasta area un tempo valliva, redenta dall’ultima consistente bonifica degli anni Venti. Va registrato altresì che la stessa grande proprietà, prevalentemente di area lombarda, riconoscendo i pregi gestionali dell’appoderamento, lo aveva ampiamente adottato. A proposito di sottoutilizzo delle macchine, Bruno Calanca, motorista meccanico impiegato dalla grande azienda agricola A.R.A di Fossoli fin dal suo nascere, riportava la seguente memoria: “[...] Nel 1929, c’era la mietilega, ma si perdevano delle spighe, allora l’ingegner Reggiani ha preferito usare il bracciantato... Il primo trattore che ho guidato si chiamava “Fordson”, a petrolio, poi il “Titan”, il Mogul; c’era da faticare a guidarli, ma io ce l’ho sempre fatta... L’ingegner Reggiani mise le ruote di gomma ad un Ford e lo usava per andare in stazione a caricare il concime”. Cosicché il tradizionale lavoro manuale e l’innovazione, con una netta supremazia del primo sulla seconda, ebbero a convivere fino agli anni immediatamente seguenti la fine del secondo conflitto mondiale che, come il primo, rimise in ginocchio l’agricoltura. A tal proposito è assai emblematica la ricca documentazione fotografica di quegli anni che, se non fosse per il mutato abbigliamento, potrebbe essere scambiata con quella più antica. Accanto ai ricchi servizi utili alle campagne di propaganda del regime che mostravano macchinari d’eccezione, ve ne erano altri in cui compariva la classica, arcaica aratura col tiro di buoi, le mietiture e fienagioni a sfalcio con il carico manuale del prodotto non sempre effettuato sui carri trainati da bestiame da tiro, bensì su barelle sostenute a braccia. Detta realtà si protrasse anche per alcuni anni dell’immediato secondo dopoguerra, quando, stante la crisi nazionale delle grandi e medie imprese industriali, già impegnate in massima parte nella produzione bellica, ancora disorientate nella ricerca di nuovi sbocchi di mercato, l’agricoltura più che mai in ginocchio, ancora governata da rapporti pressoché feudali, appariva come l’unica risorsa certa. È scontato sottolineare che alle caratteristiche ambientali di un territorio, alle sue trasformazioni, è strettamente connessa la sua evoluzione produttiva e, a tal proposito, è emblematico il fatto che con l’ultimo grande intervento di bonifica la “grande sete” estiva dei terreni agricoli di pianura, in particolare di quelli vallivi, poteva dirsi sanata. Fino alla metà degli anni Venti, la condizione delle valli carpigiane veniva descritta nel modo seguente: “Le terre del basso carpigiano e del novese sono soggette a periodici allagamenti per insufficienza di scoli. Le risaie, le così dette valli di Budrione, di Fossoli e le contigue terre di Novi sono ridotte per il disgelo e la pioggia a bacini che non si svuotano se non lontanamente […] Là la terra è triste: poche erbe gialle corrono coi loro ciuffetti tisici le zolle nerastre: larghi crepacci corrono a zig-zag per tutti i sensi i campi infecondi, crepe e crepacci profondi fino a due metri, in cui entra un piede stanno a dimostrare che sete orrenda quella povera terra soffra: L’aridità squassa i ponti, i fabbricati: la terra gonfiandosi d’inverno, restringendosi d’estate, solleva e abbassa le opere murate con diabolica facilità: non vi è ponte a cui non cadano le ali e non abbia spaccato il ventre: la vite, ricchezza e gioia delle nostre campagne, là alligna tardi e male, l’olmo stesso, lo sposo della vite, il prato pensile (gelso) che dà buon mangime, che fornisce il legno robusto e il resistente combustibile, l’olmo cresce lento, faticoso, quasi a dimostrare l’ingratitudine della terra in cui alligna. Tale è la realtà del basso budrionese…” Stante questa descrizione, non è difficile comprendere come fosse necessaria l’azione di prosciugamento rispetto al deposito delle acque in eccedenza che là ristagnavano dall’autunno e sino alla primavera inoltrata e come fosse altrettanto importante se non essenziale la possibilità di irrigarle in estate. La carenza di acqua in estate era poi risentita da tutta quanta l’agricoltura locale. Queste necessità avevano trovato efficace risposta dal realizzarsi del grande progetto di bonifica a cura del Consorzio di Bonifica Parmigiana/Moglia e, a tal proposito, sulla stampa dell’epoca veniva scritto: “Avvenuto il prosciugamento, il compito dei Bonificatori non era esaurito, anzi era appena iniziato. Occorrevano strade, caseggiati colonici, e sopra tutto acqua da irrigare, perché le terre ex vallive del nostro territorio, screpolano fortemente durante l’estate e perciò, riasciugandosi con rapidità lo strato superiore, rendono misera e stentata qualsiasi vegetazione…. Senz’acqua non può l’agricoltore ottenere delle colture intensive… Sonvi circa 80 chilometri di nuovi canali per il solo comune di Carpi… e altri ancora ne verranno costruiti per rendere più densa la rete di distribuzione… Le colture sarchiate, come il granoturco e la barbabietola, oggi neglette per mancanza d’acqua, saranno rimesse in onore …certe leguminose foraggiere come il trifoglio ladino, potranno essere introdotte nelle rotazioni agrarie… In certe zone potrà con profitto essere ripristinata la risaia, non più con carattere permanente e quindi antigienico, ma avvicendata al frumento ed al prato e quindi suscettibile di elevate produzioni… erbai di granoturco, di avena, il quarantino, il miglio, con l’irrigazione assicurata, non saranno più aleatori… L’ampliamento delle colture prative darà maggiore incremento all’industria zootecnica…” Per sfruttare queste nuove risorse bisognava munirsi di pompe idrovore e, neanche a dirlo, la produzione, l’assemblaggio, il commercio, nonché la manutenzione di pompe di piccola, media o grande portata, si fece assai consistente. Tanto più che le pompe, oltre all’irrigazione, erano indispensabili per l’irrorazione di molte colture e in particolare della vite, specialmente dopo il perniciosissimo diffondersi di filossera e peronospora. Si distingueva in particolare l’allora ditta Grillenzoni Alberto, oggi scomparsa ma ancora attiva e presente nel 1953 alla quindicesima edizione della Fiera di Modena, dove veniva presentata come eccellente per i criteri di lavorazione improntati alla serietà… che assicuravano successo alle sue creazioni: pompe per irrorazioni, pompe per irrigazioni, motopompe per liquidi fluidi e densi e corpi in sospensione, impianti fissi e mobili con carrelli per irrorazione e irrigazione. In quell’ambito, seppure più giovane della ditta Grillenzoni, agiva anche l’Officina Meccanica dei Fratelli Goldoni, con sede in Migliarina di Carpi. Carpi ebbe a conoscere le condizioni di rapporto con la vera industria soltanto a partire dal 1940, quando, per porsi al sicuro da attacchi aerei, la Magneti Marelli qui aveva decentrato parte della sua produzione, tutta in chiave bellica. In essa avevano trovato posto fisso, non più incerto e stagionale come nel truciolo, oltre un migliaio di persone tra donne e uomini, con netta prevalenza delle prime sui secondi. Le maestranze maschile si aggiravano intorno alle trecentocinquanta unità, di cui una buona percentuale era di estrazione contadina. Individuare in Carpi tanta manodopera alla quale era richiesta una certa competenza, era pressoché impossibile. Così come riporta Erio Aguzzoli, attuale titolare dell’Officina Guido Aguzzoli, a risentire maggiormente dell’arrivo della Marelli, furono le piccole imprese artigiane presso cui si determinò un’emorragia di personale attratto dalle migliori condizioni contrattuali e retributive, qualche maestranza venne sottratta anche alla Caproni di Reggio Emilia: dal punto di vista numerico rappresentavano comunque un’inezia rispetto al bisogno, cosicché a cura della Magneti Marelli vennero organizzate trasferte formative presso gli stabilimenti milanesi, quindi corsi interni e di perfezionamento per aspiranti operai. Questo fatto è significativo al fine di una valutazione delle piccole dimensioni delle imprese artigiane locali in campo metalmeccanico. Furono specialmente i giovani i quali, allettati dalla meccanica che aveva ancora i tratti pioneristici e dalla possibilità di evitare la chiamata al fronte, a rispondere prontamente all’offerta di detto impiego che pure ricadeva sotto lo strettissimo controllo del distretto militare. Cessato il conflitto, la Marelli avrebbe inteso riportarsi a Sesto San Giovanni e, per coloro che avevano ritenuto di emanciparsi dalla precarietà del lavoro agricolo, si prospettavano notevoli incertezze che il tempo arrivò poi a fugare abbondantemente. Questo fatto rafforzava la convinzione che l’agricoltura potesse essere l’unico sbocco certo, tanto più che il lavoro di riassetto della campagna locale dopo il conflitto e l’occupazione riusciva ad assorbire molte energie. Verso la fine degli anni ’40 ebbe inizio un marcato processo innovativo caratterizzato da investimenti notevoli di risorse. Parimenti a quanto era avvenuto all’inizio del secolo, seppure su un piano paritetico con uomini e donne che se ne servivano, in una concezione nuova rispetto al passato che potrebbe definirsi di conciliazione, la macchina, quale segno di una conquistata emancipazione rispetto al pesante lavoro agricolo, ritornava ad essere soggetto fotografico esibito con orgoglio, specialmente da quanti intravedevano e sperimentavano rapporti diversi con il padronato agrario. Non era più cosa semplice disdettare contratti se non adducendo una giusta causa, gradualmente ma speditamente scomparve l’uso dell’onoranza dovuta al proprietario del fondo e, quindi, era possibile ragionare in una prospettiva lunga dove l’investimento per l’acquisto di una macchina agricola non appariva un azzardo impossibile. Le incertezze passate venivano poi ampiamente superate in ragione specialmente dell’affermarsi sul territorio di nuovi ambiti produttivi, dagli esordi artigianali ma con evidenti prospettive industriali, non necessariamente solo di servizio al settore agricolo, capaci di assorbire gli esuberi di manodopera peraltro ben disposta a mutare condizione. Il superamento della mezzadria sostituita dalla nuova classe di coltivatori diretti che attraverso facilitazioni di legge erano riusciti ad acquisire la proprietà dei fondi, il ricostituirsi di forti associazioni cooperativistiche di braccianti agricoli, divennero un forte incentivo all’ammodernamento delle tecniche di lavoro e, in particolare, all’acquisizione di macchinari. Già dalla prima metà degli anni ’50, ebbero a cadere diffidenze e molte contraddizioni; al lento ritmo innovativo venne impressa un’accelerata straordinaria su un percorso ormai obbligato e senza ritorno. La legge 949 del 25 luglio 1952 che prevedeva agevolazioni creditizie per gli agricoltori favorì notevolmente la meccanizzazione agricola; al 30 settembre 1957, veniva calcolato che il numero di domande di prestito per l’acquisto di macchine agricole fosse arrivato a 1853 unità così ripartite: 674 trattrici e 863 motofalciatrici. Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra il Landini, ormai storico in quanto a tradizione, era tra i trattori il più ambito, forse il più abbordabile sotto l’aspetto economico, sicuramente di più facile manutenzione in ragione del fatto che l’impresa produttrice aveva e continua ad avere sede nella vicina Fabbrico di Reggio Emilia, nonché era rappresentativo di quello spirito d’impresa caratteristico, vanto della gente della pianura modenese e reggiana. Produzione di macchine agricole Nel 1958 erano iscritte nell’albo della Camera di Commercio di Modena 440 ditte per la fabbricazione di macchine agricole, le quali complessivamente impegnavano 1832 addetti e 38 ditte per la costruzione di pompe, compressori e simili con 246 addetti; considerati tali dati non è difficile dedurre che le dimensioni delle imprese fossero per la maggior parte di tipo artigianale. A Carpi e territorio limitrofo, partendo da una tradizione contadina sedimentata da epoca remotissima, quindi dalla precisa percezione dei bisogni tipici dell’agricoltura locale, le officine dei fabbri, anche e soprattutto tramite l’assemblaggio di pezzi meccanici nuovi o di recupero, iniziarono a mettere a punto economiche ma efficaci macchine agricole che in breve trovarono sbocco sull’intero mercato nazionale ed estero. Da queste piccolissime imprese hanno avuto origine realtà industriali notevoli. La rinomata “Lugli Carrelli Elevatori”, approdata a questa specializzazione dopo la produzione di una numerosa serie di piccoli trattori che andavano sotto il nome di “Lilliput” e “Carioca”, avviata da Tullio Lugli, era anch’essa presente alla XV Fiera di Modena del 1953 dove presentava il Lilliput. A questo piccolo trattore era riservato uno spazio particolare all’interno del Palazzo dello Sport; collocato tra i macchinari minuti e preziosi; di esso era data la seguente descrizione: “[…] è un gioiello di perfezione meccanica e sviluppa un’eccezionale potenza, nonostante le sue dimensioni da giocattolo, la sua struttura snella, apparentemente esile, ma ben carrozzata con vero buon gusto estetico. Il trattore Lilliput concretizza la sua forza in 6,8 HP., può trainare su piano un peso di ottanta quintali ed esige un consumo piccolissimo: in appena 600 grammi ora di gasolio. Pesa 400 chilogrammi e monta un motore inglese Enfield a ciclo Diesel quattro tempi”. La Lugli Carrelli Elevatori, ceduta nel 1990 ad una società finanziaria italo/svizzera, che nel 2004 impegnava 180 maestranze fisse in uno stabilimento che occupa complessivamente 27.000 metri di cui 9.000 coperti e occupati dall’officina e 2.000 dagli uffici di progettazione e amministrazione, attualmente versa in gravi difficoltà dovute in particolare ad una malaccorta gestione, nonostante la sua produzione sia apprezzata e richiesta sul mercato nazionale ed estero. Originariamente connessa all’economia agricola, a quella artigianale ed industriale del truciolo, nonché lavorazione/commercio del legno, era l’officina meccanica di Stefano Benetti e Alvise Battini con sede allora a pianterreno di uno stabile posto tra V.le Carducci e Nicolò Biondo. Evolutisi entrambe da fabbri in manutentori di macchine agricole, nell’immediato secondo dopoguerra recepivano la richiesta di mercato di seghe a nastro sia per l’agricoltura che per la lavorazione del legno in generale; partendo dal recupero di residuati bellici, iniziarono un’avventura che, tradottasi in industria, sotto la denominazione di Centauro, occupa attualmente 115 dipendenti fissi in uno stabilimento di 12.000 mq., posto a Limidi di Soliera, con un indotto significativo. La Centauro attualmente colloca la sua produzione per il 40% sul mercato nazionale e il rimanente 60% su quello estero (Europa, Stati Uniti, Africa ed emirati arabi). La rinomata, sopracitata “Goldoni”, presente già come realtà artigianale, creava nell’immediato secondo dopoguerra le premesse per un decollo industriale come Officina Meccanica dei Fratelli Goldoni, e si collocava sul mercato con pompe idrauliche per l’agricoltura, le quali, presentate anch’esse alla XV Fiera di Modena tenutasi nel 1953, venivano segnalate per l’accurata costruzione, per la loro lunga durata, robustezza, per facilità d’impiego, adatte per ogni uso, sia per vigneti che per frutteti, per competitività di prezzo in ragione della loro produzione in serie. Era l’inizio di una delle realtà produttive tra le più significative in termini economici e occupazionali, presenti sul territorio carpigiano, a cavallo con quello reggiano. Nel 1959, dopo alcuni anni di sperimentazione e orientamento, gradualmente viene abbandonata la produzione di pompe per passare a quella di motocoltivatori . Negli anni successivi la Goldoni ha saputo mirabilmente interpretare le istanze espresse da un mercato sempre più esigente e, nel 1967, era così presentata: “[…] Goldoni, cioè i magnifici cinque Celestino, Valseno, Franco, Leo, Severino Goldoni, che dalla vecchia officina familiare di Migliarina che prima della guerra produceva pompe, hanno fatto negli anni di duro e intelligente lavoro la seconda azienda d’Italia del settore, un marchio conosciuto e apprezzato nelle fiere agricole di mezzo mondo, da Bari a Verona, da Madrid a Lipsia, tanto che lo si vende ormai a scatola chiusa. I principali prodotti Goldoni, supercollaudati, piazzatissimi, ricercatissimi sono: i motocoltivatori Minor, Super, Export, buoni per tutti gli usi agricoli: aratura, fresatura, zappatura, irrorazione, falciatura, trasporto; il trattore GM4 snodato, vero gioiello della meccanica, capace di voltarsi su un raggio ridottissimo. Tranne i motori e i pneumatici, tutto viene fatto nella fabbrica di Migliarina, che è dotata ormai di forni e stampi per la forgiatura dei singoli pezzi componenti il prodotto finito. [Le macchine Goldoni] vanno dovunque vi sia un’agricoltura di tipo costiero o collinoso: Liguria, Sardegna, Calabria, Sicilia, le grandi province di Cuneo e Aosta, Austria, Grecia, Jugoslavia, Iran, Portogallo, Spagna, Algeria, Somalia, Israele, Libano… Nel 1964 e nel ’65, anni di congiuntura, i Goldoni hanno piazzato rispettivamente 1.600 e 2.000 macchine… Gli agenti in Italia sono 120, i subagenti non si contano; 93 sono i Consorzi agrari serviti dai Goldoni” (4) Tra il 1967 e il’69 vennero collocati sul mercato ben trentamila unità della serie Export; dal ’69 (5) Attualmente la Goldoni, che continua ad essere un’azienda a conduzione familiare, più che mai, serve quell’ampio segmento relativo a macchine piccole e medie, preziose per le colture di ridotta o disagevoli entità poderali. La sua produzione, suddivisa tra varie linee di montaggio con un ciclo produttivo di 24 ore su 24, sfiora complessivamente le 13.000 unità annue e viene eseguita in un moderno impianto industriale che copre una superficie complessiva di 130.000 metri quadri dei quali 65.000 interamente coperti; conta 250 concessionari sul territorio nazionale, ha due filiali commerciali all’estero: una in Francia e l’altra in Portogallo, esporta in 84 paesi del mondo, dispone di un servizio ricambi con 50 dipendenti fissi. I suoi macchinari montano motori Lombardini e Jan Dear e amplissimo poi è l’indotto coinvolto nelle sua produzione. Macchine agricole: avanti tutta, senza indugi e senza ritorno In occasione della ventesima Fiera della Meccanizzazione e dell’Agricoltura Padana, tenutasi a Modena nel 1958, veniva calcolato che, in provincia, si avesse la media di un trattore ogni 80 ettari e che, in pianura, fosse presente la massima concentrazione, valutata intorno ai quattro quinti; l’obiettivo era di arrivare per il 1960 a 5.000 trattrici. Detti auspici, da un lato prospettavano uno sviluppo dell’economia agricola e, dall’altro di quella industriale metalmeccanica, presso la quale potevano trovare impiego gli esuberi di manodopera che necessariamente venivano a crearsi in agricoltura. Nella seconda metà degli anni ’50, per i tanti giovanissimi che si trovavano a dover memorizzare l’ode carducciana dedicata al bove, già i primi versi, per la pur contenutissima ilarità che creavano nella platea di compagni ancora sottoposti ad una rigida disciplina, mettevano sconcerto in chi li doveva recitare ad alta voce: praticamente nessuno era più in grado di concretizzare in immagine il bucolico sentimento sortito da un vissuto non più sperimentabile in alcun modo. I miti buoi erano spariti e i gioghi, quando non fossero ridotti in legna da ardere, rimanevano appesi ai muri dell’ampia area di servizio delle case rurali da cui erano spariti i vecchi carri per lasciar posto a trattori e a rimorchi moderni, quindi iniziavano a circolare nei primi mercati di antiquariato, per entrare anche in contesti ambientali estranei alla realtà agricola. L’antica, numerosa famiglia patriarcale, indispensabile alla gestione dei fondi non aveva più ragione di esistere, tanto più che i nascenti settori del tessile-abbigliamento, della metalmeccanica, nonché quello edilizio correlato, ebbero abbondantemente ad assorbire ogni possibile esubero: il suo smembramento divenne fisico dato che i sottoinsiemi familiari iniziarono a distaccarsi, trasportando la residenza nel centro cittadino o nelle sue immediate adiacenze dove si concentravano numerose le giovani piccole imprese destinate a crescere. Ancora nel 1951 in agricoltura, tra mezzadri e braccianti si contavano 9681 addetti, nel 1962 ne erano rimasti 2720. Un'anziana contadina, Dolores Mantovani, consapevole del mutamento in atto, intorno agli anni '50, ideò un nuovo proverbio che sintetizzava la percezione della trasformazione in atto: "Da quand è andè zò i baròss con i serciòun/ I proverbi i'n'in più bòun// " (da quando sono caduti in disuso i carri con le ruote di legno e sono sopravvenute le macchine, i proverbi, ossia la memoria degli anziani, non valgono più.). Attualmente le nuove tecniche di coltivazione, supportate da macchinari sempre più specializzati e sofisticati, i cui costi sarebbero inassorbibili dal singolo coltivatore diretto, hanno indotto nuove forme gestionali improntate da un mercato sempre più orientato alla globalizzazione, da cui è pressoché impossibile sottrarsi, la quale, più che dettare, impone indirizzi. Per sopravvivere è stato indispensabile porsi nella logica competitiva e, stante il veloce processo di obsolescenza dei mezzi, si è fatto imperativo il ricorso ad imprese specializzate nel noleggio e manutenzione di macchine agricole denominate di “movimento terra”. Non diversamente da quanto è avvenuta su tutto il territorio emiliano/romagnolo, la cooperazione ha caratterizzato anche il Carpigiano già a partire dalla fine dell’800; fattasi forte nel primo ventennio del ’900 e seppur strettamente controllata sopravvissuta anche al ventennio fascista, poteva riacquistare forza e svilupparsi nell’immediato secondo dopoguerra. Quanto auspicato sul settimanale Luce nel 1891 “[…] Ben vengano gli aratri meccanici, le falciatrici, le sarchiatrici, i trebbiatoi, le mietitrici, gli strettoi da uva, le pompe travasa vini, le locomobili, i telai meccanici e tutta l’altra serie di macchine inventate e da inventarsi… Ma sieno le macchine, come tutti gli utensili del lavoro, proprietà assoluta degli operai…” diveniva realisticamente realizzabile e sia a Fossoli che a Budrione di Carpi, nella vicina Novi di Modena, sorgevano cooperative di braccianti agricoli che iniziarono ad investire le loro risorse economiche nell’acquisto di macchinari per l’agricoltura. L’antichissima cultura contadina è stata spazzata via e, distratti dalla più appariscente e prorompente industria, ad accorgersene sono ancora in pochi. L’apparente interminabile piana distesa di campi che rende difficile all’indigeno l’idea del benché minimo rilievo, ha mutato radicalmente il suo aspetto e si è spopolata. Le messi, frutto di una selezione accuratissima, anch’esse diverse da quelle del passato (tutto lo spigato era a gambo lungo per facilitare lo sfalcio manuale e la riduzione in covoni), continuano ad indicare l’evolversi stagionale ma, fatta ancora salva la coltura della vite sebbene sia scomparsa l’antica piantata che rendeva il paesaggio un “ridente giardino”, il paesaggio può mutare all’improvviso senza soluzioni intermedie: la vista di una distesa di grano goduta in un momento del giorno arriva a scomparire nel volgere di una manciata di ore, falciata da una macchina precisa che sostituendosi al lavoro di tanti, velocissimamente miete, trebbia e ingoia in un capace serbatoio il prodotto di quello che un’altra aveva seminato; se non si ha occasione di vederla all’opera, il cambiamento può avere i caratteri dell’inesplicabile. Il passato è superato, ma le diverse impronte che lascia sono pressoché indelebili e così oggi è possibile individuarne i segni nella caratteristica struttura dell’economia agricola locale, contraddistinta dalla prevalente piccola e media proprietà, retaggio del settecentesco appoderamento gestito a mezzadria e terzeria. Se in quest’ambito può essere scontato rilevare questo tratto di stemperata continuità, va registrato che la cultura della gestione familiare è stata trasportata nell’imprenditoria locale, piccola, media o grande che sia, con i pregi e i difetti che sono propri di ogni realtà. Luciana Nora Note 1) Da L’Unione Costituzionale 31/ 12/ 1908. 2) Da L’Unione Costituzionale 29/ 6/ 1905. 3) Da L’Unione Costituzionale 13/ 7/ 1905. 4) Da TuttoCarpi, aprile 1965 5) Da Carpi produce, numero unico economico, settembre 1967, pag. 74 Bibliografia - E. Baraldi, “Cronistoria del movimento operaio carpigiano”, Modena 1956. - G. Bertacchi Un’Arte Italica: il truciolo, manoscritto, databile primo decennio del Novecento, originale conservato presso L’I.S.R di Modena, Fondo A. Bertesi. - S. Cappello, A. Prandi, “Carpi tradizione e sviluppo”, Bologna, 1978. - M. Cassoli, “Carpi, memorie di vita contadina”, Carpi, 1980. - C. Cogliati, “L’industria del truciolo”, Roma, 1913. - C. Contini, “Al sôv”, Carpi, 1972. - I.Dignatici, L. Nora, “ L’Arte del truciolo a Carpi”, Carpi 1981. - I. Dignatici, L. Nora, “...Facevano tutti la treccia: uomini, donne e bambini.”, Carpi 1981. - I. Dignatici, L. Nora, “La condizione contadina e l’esperienza del sacro”, Carpi, 1982. - V. D’Incerti, “Carriera e fortuna”, Milano 1974. - L. Nora, “Giù i cappelli...e arrivò la Marelli.”, Comune di Carpi, 1990. - L. Nora, “ Tener famiglia - Dalla famiglia patriarcale alla famiglia mononucleare “, Comune di Carpi, 1994. - L. Nora, M. Pecoraro, “Impara l’arte ed entrane a far parte - Aspetti dell’artigianato carpigiano”, Modena, 1998. - G. Saltini, “Cronaca di Carpi”, manoscritto conservato presso l’Archivio Storico Comunale di Carpi. - A. G. Spinelli, “Memorie sull’Arte del Truciolo”, Modena, 1905 - AA.VV. “Da sfruttati a protagonisti”, Carpi, 1981. Stampa consultata L’Unione costituzionale Luce Avanti! TuttoCarpi Carpi produce, numero unico economico, settembre 1967. Fonti orali dalla nastroteca della Sezione Etnografica del Museo Civico di Carpi Documentazione fotografica dalla fototeca della Sezione Etnografica del Museo Civico di Carpi