Le macchine in agricoltura: da krumire a irrinunciabili alleate

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Le macchine in agricoltura: da krumire a irrinunciabili alleate
Le macchine in agricoltura:
da krumire a irrinunciabili alleate
Dalla fine dell’Ottocento per l’economia agricola ha avuto inizio una trasformazione
ciclopica e inarrestabile. L’avvento delle macchine, introdotte in ogni settore
produttivo, sconvolgeva modalità, rapporto numerico e tempi di lavoro che fino a
quel momento avevano caratterizzato, cadenzandola, l’esistenza delle generazioni
precedenti.
L’inarrestabile affermarsi della meccanizzazione, così congeniale all’agricoltura di
pianura, ebbe ad incontrare diversi ostacoli, primo tra tutti l’elevato costo in rapporto
alle scarse finanze della piccola e media proprietà; quindi la diffidenza della classe
mezzadrile che avvertì immediatamente come l’introduzione dell’onerosa macchina
avrebbe sottratto lavoro manuale, mettendo in crisi la struttura familiare a quei tempi
assai numerosa e intesa fondamentalmente quale unità produttiva, oltreché parentale.
Gli anziani, disorientati, legati all’adagio secondo cui “chi lascia la strada vecchia
per la nuova/ malcontento si ritrova”, incapaci di presagire le prospettive che si
stavano aprendo, indirizzate allo spostamento dell’asse d’equilibrio economico dalla
predominante agricoltura verso l’industria e l’artigianato, opposero resistenze
notevoli.
Il mezzo meccanico, salutato con meraviglia dalle giovani generazioni, poneva in
discussione lo stratificato e più che millenario bagaglio di conoscenze da cui,
specialmente gli anziani che ne erano i detentori più accreditati, traevano un ruolo di
supremazia. In una logica pressoché immutabile delle cose, la loro indiscutibile
esperienza e competenza era il sicuro ed irrinunciabile riferimento per le giovani
generazioni. Comunemente era infatti il più anziano della famiglia, responsabile per il
rispetto del contratto a mezzadria o terzeria, ad avere il comando e la supervisione su
tutto, compreso il comportamento morale, dato che le trasgressioni potevano avere
sensibili riflessi sull’andamento economico generale. Il verificarsi di una qualsiasi
devianza rispetto alle regole comuni metteva in discussione l’idoneità al comando del
capo famiglia e non escludeva la recessione del contratto di conduzione del fondo.
Furono senz’altro i titolari della grande proprietà che, intuendo la facilità di
ammortizzare l’investimento attraverso il risparmio di manodopera, specialmente
bracciantile, dettero inizio a questo nuovo corso.
Presso il bracciantato, per nulla conservatore, già dalla fine dell’Ottocento, avevano
iniziato ad agitarsi e ad affermarsi ideali socialisti sulla cui onda era stato creato un
movimento di sostegno sempre più ampio, capace di ingaggiare lotte rivendicative e
salariali tali da intaccare sensibilmente gli allora ampi margini di guadagno, quasi ad
esclusivo vantaggio della grande proprietà agraria. Porre argini al montare di quegli
ideali già non nuovi, che pure negli anni tra la fine dell’Ottocento e inizio del
Novecento apparivano raggiungibili, era l’assillo prioritario. Che la macchina in
agricoltura fosse vissuta come pericolosa antagonista è tanto vero che sul settimanale
Luce dell’agosto 1903 veniva definita come terribile krumira la quale, stralciando
dall’articolo: “d’ora innanzi dovrà far concorrenza ai nostri braccianti e a quelli dei
paesi limitrofi… [si trattava] di una macchina acquistata dall’ing, Berardi allo scopo
di sostituirla ai vangatori di risaia…”. L’articolo concludeva esortando i lavoratori di
unirsi in un’organizzazione capace di affrontare l’acquisto di macchine agricole,
attraverso le quali avrebbe dovuto passare l’emancipazione operaia dal lavoro:
suggerimento che, per quei tempi, risultava una vera e propria utopia, ripresa e in
parte realizzata solo nell’immediato secondo dopoguerra: ovvero mezzo secolo dopo.
Nel dicembre 1908, L’Unione Costituzionale (1), le macchine agricole in Italia ed in
America) testata che rappresentava specialmente l’interesse agrario, palesava
apertamente una delle ragioni fondamentali del ricorso alle macchine: “[…] Oggi più
che mai si sente da tutti la necessità di diffondere l’uso delle macchine agrarie, che
sono valvola di sicurezza contro gli eccessi degli scioperi, elemento prezioso di
benessere e di pace…”
La macchina, venendo ad abbattere numericamente l’ingaggio di manodopera e i
tempi di lavoro, ebbe realmente a mostrarsi strumento valido a spegnere le forti
spinte verso il raggiungimento di condizioni di vita materiale più umane.
La straordinaria funzione degli aratri, delle mieti/lega, delle battitrici, delle
sfiocinatrici e quant’altro, fatto salvo l’iniziale fascino, creavano timori che, in breve,
ebbero a concretizzarsi. Le considerazioni diffuse all’epoca erano sul seguente
registro: [La macchina è utile] ma intanto ci troviamo disoccupati, perché la
macchina ha fatto in un giorno il lavoro che prima occupava per un mese dieci
operai.”
La redazione del settimanale socialista carpigiano Luce dell’8 settembre 1891, primo
numero stampato con una macchina rotativa Marinoni, ritrovandosi a dover risolvere
l’imbarazzo sortente dalla riduzione del personale, esordiva con un articolo di due
colonne intitolato alle macchine, in cui partendo dal riassunto di quelli che erano gli
umori diffusi tra i lavoratori, concludeva con un plauso alla tecnica, quale possibile
strumento di emancipazione: “[…] Quante rivoluzioni hanno portato le macchine!
Quanti operai han dovuto darsi ad altre industrie, quante rovine improvvise, quante
disoccupazioni, che spietata concorrenza, che guerra mortale!… Ma dovremmo per
questo gridare abbasso le macchine? Dovremmo per questo volere che l’uomo
riprenda il suo posto di bestia da soma… dovremmo regredire di cinquant’anni,
maledire la scienza…? Ben vengano gli aratri meccanici, le falciatrici, le
sarchiatrici, i trebbiatoi, le mietitrici, gli strettoi da uva, le pompe travasa vini, le
locomobili, i telai meccanici e tutta l’altra serie di macchine inventate e da
inventarsi… Ma sieno le macchine, come tutti gli utensili del lavoro, proprietà
assoluta degli operai… altrimenti la scienza stessa, lo scopo ultimo della quale è la
ricerca dell’umana felicità, sarà invece strumento di tirannia, di schiavitù a danno
dei moltissimi, in favore di pochi.”
Un articolo comparso su Luce tra il 23-24 marzo del 1905, dal titolo Come le
macchine oggi maledette, nel socialismo saranno benedette, rende oggi la misura di
quanta potesse essere l’avversione comunemente diffusa alla meccanizzazione del
lavoro che veniva così riportata: “[...] la rovina dei lavoratori sono le macchine;
maledetto chi le ha inventate! Bisognerebbe distruggere tutte le macchine, oppure,
che so io, fare una legge che ne proibisca l’uso: Perché, se no, voi fate le leghe, fate
le richieste, ma il padrone mette una macchina al posto vostro e buona notte...”.
Nell’area carpigiana, dove l’economia agricola si coniugava da oltre quattro secoli
alla diffusissima lavorazione del truciolo, praticata specialmente nelle campagne,
l’effetto dell’introduzione dei mezzi meccanici era già stato ampiamente sperimentato
e osteggiato già a partire del secondo decennio dell’Ottocento. La messa a punto di
una macchina, denominata “Bellodi”, per l’estrazione delle paglie necessarie
all’intreccio utile alla produzione dei cappelli, aveva non solo abbattuto il numero
degli addetti, ma, seppure solo teoricamente, annullando inconvenienti di ordine
fisico e riducendo drasticamente quelli tecnici, appariva come una minaccia al
secolare monopolio maschile sull’arte. Giuseppe Saltini sulla “Cronaca di Carpi” da
lui redatta, in data 21 aprile 1817 ebbe a registrare: “Da persona ingegnosa fu
organizzata una certa macchina per fare le paglie del Truciolo senza alcuna fatica e
senza soggezione per cui anche un piccolo ragazzo farebbe quanto può fare un uomo
perito di tale mestiere. Da molti pertanto vedendo l’inconveniente che poteva
succedere a tale Arte...fu oggi fatto un complotto di gente alla testa del quale eravi
un numero di capi pagliari...e questi si portarono a quelle case ove sapevano che
eranvi di quelle macchine ed intendevano a forza di ottenerle e romperle in tanti
pezzi. Ma sentito questo la guardia de ’Dragoni, subito si portò ove eravi questa
unione coll’accompagnamento del Sig. Dott. Ercole Caleffi odierno Podestà il quale
ordinò che tutte le macchine fossero depositate in Palazzo Comunale ed ordinando
ancora ai capi che si acquietassero e ponessero termine a suoi clamori
promettendogli giustizia...Fu scritto tostamente alla Capitale Modena e frattanto
nella notte furono presi alcuni di que’ capi e tosto tradotti alle carceri di Modena;
avuto poscia riscontro, furono restituite le macchine a di chi erano e furono
imprigionati gli altri capi rivoluzionari che poi col tempo furono levati e posti in
libertà.”
Successivamente, all’inizio del Novecento, l’ulteriore automazione della macchina
“Bellodi”, prima ad energia vapore e poi elettrica, venendo ad assottigliare
ulteriormente il numero degli addetti, sortì nuovi e significativi disordini tra la
categoria dei pagliari sia di città che di campagna. I tanti contadini, che nella stalla
attendevano dal tardo autunno e nell’inverno alla trattura delle paglie per integrare i
magri redditi, all’improvviso si trovarono definitivamente spiazzati.
Era stata la manodopera maschile, pagando un notevole tributo, a sperimentare
l’impatto con la meccanizzazione ed era comprensibile il sospetto nutrito verso quegli
assordanti “mostri” meccanici i quali, in un arco di tempo breve, assolvevano al
lavoro che fino ad allora era stato di una moltitudine.
Laddove arrivava la macchina, si spopolavano campi ed aie e poco importava se, agli
esordi, il lavoro meccanico era impreciso e nei campi rimanevano in piedi molte
spighe e parte del raccolto andava perduto: il risparmio sulla manodopera ripagava
abbondantemente lo spreco. Questo fatto ebbe ricadute immediate sul mercato della
manodopera che, posta di fronte ad una così impari e disarmante concorrenza, per
decenni ebbe a subirne le conseguenze, piegandosi, senza tuttavia rassegnarsi, a
condizioni sempre più tristi, sia sotto l’aspetto delle quote salariali che
dell’assegnazione del monte giorni lavorativi.
Ma il nuovo corso era segnato a tal punto che, in un’epoca in cui la fotografia era
principalmente intesa con funzioni ritrattistiche, ancora appannaggio di un’esigua ed
elitaria minoranza, l’introduzione delle prime battitrici a vapore veniva senz’altro
interpretata come azione pionieristica, così eccezionale da meritare l’essere
immortalata fotograficamente. La macchina, anzi le due macchine divennero i
soggetti fotografici: l’una, di legno, che divideva i chicchi del grano dallo stelo e
dalla pula, era un monumentale carro con un sistema di assi mosse da bracci che
sfregavano il prodotto; per azionarla occorreva un’altra macchina assai simile ad una
locomotiva a vapore che, collegata con una cinghia a ruote, trasmetteva il movimento
alla prima. Il lavoro manuale si faceva cornice
Alla fine dell’Ottocento, il poeta emiliano Enrico Panzacchi dedicava alcuni versi alla
trebbiatura meccanica ed in essi, specie nel penultimo verso “non s’odon né risa né
canti” traspare un clima di, quantomeno, perplessità e tristezza.
Trebbiatura
Meriggio: La macchina trebbia
Ansando con rombo profondo.
Il grano, rigagnolo biondo,
giù scorre. Nell’aria è una nebbia
sottile. Sogguarda per l’aia
il nonno, con faccia rubizza.
Nell’aria una rondine guizza,
radendo la bassa grondaia.
E intanto, che ressa sul ponte
tra i mucchi di spighe e di paglia,
col sole che gli occhi abbarbaglia,
col sole che affuoca ogni fronte!
Le donne di rosse pezzuole
Avvolgon le trecce sudanti.
Non s’odon né risa né canti.
Ma il nonno: Su allegre, figliole!
Contemporaneamente al diffondersi delle macchine agricole, si affacciava sul
mercato del lavoro la richiesta di una nuova competenza, definita di motorista che
inglobava in sé la capacità di azionare e manutenere i macchinari;
contemporaneamente all’acquisto di una macchina agricola, per la quale era previsto
anche un possibile noleggio, le grandi aziende si dotavano anche di più o meno
elementari officine.
Dalle botteghe di fabbri, presso le quali iniziava la richiesta di interventi complessi,
per assolvere i quali si faceva pressoché indispensabile la comprensione del
meccanismo generale, tale da indurre a progettarne e produrne in proprio, prendeva
avvio anche un embrione di industria meccanica come si evince da un articolo
comparso su Luce del 3 – 8 del 1890: “[…] giovedì mattina venne da Modena, pel
comizio Agrario, il Dottor Bortolotti a visitare la trebbiatrice auto/locomobile
inventata dal nostro bravo Reverberi e costruita nell’officina Formigoni Reverberi.
Assistevano alle prove di locomozione e di lavoro, eseguite nel podere Paltrinieri
fuori Barriera Fanti, il direttore e il segretario del locale Consorzio Agrario, Sig,
Filippo Gandolfi e rag. Ersilio Benassi, e parecchi industriali e possidenti di Modena
e Carpi. Le prove riuscirono egregiamente e gli intervenuti incoraggiarono
l’inventore a mandare la trebbiatrice alla prossima esposizione di Pavia e a recarsi a
Parigi…” Nel luglio dello stesso anno, sempre dalla stessa fonte, si apprende che il
Reverberi chiedeva al Governo il brevetto della macchina, dopo averne riscontrata
l’efficienza: “[…] infatti essa si è recata con generale soddisfazione in moltissime
ville del Comune e della Provincia, visitando sino a tre poderi in un giorno, e
trebbiando da 110 a 130 quintali di frumento. La trebbiatura poi ha dato ottimo
risultato e tutti se ne lodano…”
Ben quindici anni dopo, sul settimanale L’unione Costituzionale (2) si dibatteva
ancora sull’opportunità o meno di introdurre le macchine agricole: “[…] perché si
dovrebbero preferire gli aratri moderni di ferro, a quelli antichi di legno? Non tanto
per la loro leggerezza, per il minimo sforzo di trazione, quanto perché con essi la
fetta di terreno riesce del tutto capovolta, e il solco tracciato resta ben pulito. Perché
si consiglia la semina a macchina piuttosto che quella fatta a mano? [Le macchine]
pongono il seme alla profondità voluta, per una buona e sollecita germinazione, ne
risparmiano, permettono di compiere meglio i lavori di successiva zappatura e di
sarchiatura… Molte volte però si cerca la celerità a scapito della bontà di lavoro.
Per esempio, nella fienagione dell’erba medica e del trifoglio. Compiendo il lavori
colle falciatrici non riesce a fare come nella falciatura a mano. Però accelerando i
lavori noi possiamo custodire meglio il fieno non scapitando così la qualità del
prodotto…” e conclude affermando che in generale si può benissimo introdurre
qualsiasi macchina laddove si abbiano le porche abbastanza larghe da poter far
circolare con lestezza le macchine…” Nel numero successivo, L’Unione
Costituzionale (3) affrontava quello che si configurava come il vero nodo della
questione, ovvero il generarsi di disoccupazione in ragione del diffondersi della
meccanizzazione; nel farlo adottava toni minimizzanti e, piuttosto, spostava i
malumori dal settore agricolo a quello neo/industriale del truciolo dove l’introduzione
delle macchine, come ampiamente sperimentato, stava abbattendo sensibilmente gli
addetti al lavoro della trattura delle paglie: […] Qui da noi non succede altro che lo
spostamento della distribuzione del lavoro… disoccupazione vera e propria [le
macchine] non apporterebbero… perché le macchine nelle nostre aziende
sostituiscono parzialmente l’uomo e perché i lavori durante l’annata agraria sono
molteplici e non tutti atti a farsi con le macchine. Qui sta la differenza tra il lavoro
meccanico industriale dove la sostituzione dell’uomo con la macchina è completa…
nella nostra industria non si verificò forse la disoccupazione dei pagliai perché si è
introdotto le macchine a vapore nella fabbrica delle paglie?…”
La trasformazione in atto aveva i tratti davvero epocali; peraltro si verificava in
concomitanza di un inedito e significativo movimento migratorio della manodopera
agricola verso un lontanissimo estero, una migrazione che, per i più, sarebbe stata
senza ritorno. Furono in molti a ravvisare nella meccanizzazione una delle cause di
quella fortissima emigrazione che ebbe i suoi apici assoluti proprio tra l’inizio del
Novecento e il 1914, raggiungendo il ragguardevole numero di circa due milioni di
emigranti verso le Americhe.
Sul possibile collegamento tra l’avvento delle macchine agricole e il forte flusso
emigratorio, nel 1907, a sedare il diffuso rammarico e malcontento, quale portavoce
degli agrari, interveniva ancora L’unione Costituzionale che sosteneva: “[…]
L’introduzione delle macchine da raccolto (le legatrici per il grano) si è verifica in
particolar modo nei paesi del mezzogiorno; ma si badi bene! Non ha preceduta
l’emigrazione, ma bensì l’ha seguita… Bisogna dire ed affermare chiaramente che
l’introduzione delle macchine da raccolto non ha mai cacciato l’agricoltore, ma è
andata a colmare il vuoto, lasciato dagli emigranti. Guai se non fossero venute in
questi ultimi anni le mietitrici e le segatrici nel Mezzogiorno che si stava spopolando!
Furono la salvezza della coltivazione del grano, perché condizione di quella
contrada è lo spopolamento a cui seguì il rincaro della mano d’opera, e l’agricoltura
non ha altro modo di provvedere a tale stato di cose, pur restando alti i salari…
Senza l’introduzione delle macchine da raccolto si avrebbe avuta la decadenza
dell’agricoltura…” L’articolo concludeva auspicando: da un lato che il Ministero
all’Agricoltura incoraggiasse l’introduzione delle macchine, affinché avessero a
rinnovarsi quelli che venivano definiti depositi, arsenali inanimati, veri musei che
non servono a nulla; dall’altro lato che l’industria nazionale metallurgica si avviasse
in maniera decisa alla produzione delle macchine agrarie e potesse così assorbire le
forze in esubero del settore agricolo.
In Carpi, fino al secondo dopoguerra, non vennero a crearsi industrie meccaniche e
metallurgiche, piuttosto vi fu evoluzione nelle imprese di tipo artigiano, perlopiù
sortenti dalle officine di fabbri, strettamente legate al lavoro agricolo, ma anche alla
lavorazione del truciolo, anch’essa orientata ad una meccanizzazione significativa,
strettamente collegata all’impronta industriale che ebbe inizio alla fine dell’Ottocento
e decollò particolarmente con il determinarsi della prima Società Anonima del
carpigiano: “Il Truciolo”. Le macchine per l’estrazione delle paglie, quelle per cucire
i cappelli, le presse, le roccatrici, tutto quanto poteva animarsi ad energia, prima a
vapore e poi elettrica, veniva introdotto generando una innovazione inimmaginabile
sino a qualche anno prima. Lo scrittore poeta Giovanni Mastracchi, in visita guidata
da Alfredo Bertesi allo stabilimento de Il Truciolo, nel fare la cronaca riportava:
“[…] per tutta questa sua opera la società si vale della mano dell’uomo, ma anche
delle più ingegnose macchine odierne. Qui siamo al cospetto delle grandi macchine
madri, le nostre caldaie, da cui si ingenera, tramutandosi in moto… la forza
animatrice dei nostri stabilimenti… qui avviene il miracolo per il quale il vapore si fa
forza meccanica e questa trascende in elettrica… [c’è] una sala popolata d’un
doppio ordine di macchine da cucire, riunite tra loro da un’asse d’acciaio
che…comunica loro il movimento. Davanti a ciascun ordigno siede un’operaia:
sono, fra tutte, duecento… premendo con un piede un pedale si mette in moto l’ago
che vien trafiggendo la paglia… intorno è il fragore di duecento macchine in moto…
In un altro salone di macchine ci sono più di ottocento telai… fra rombi assordanti
una fantastica danza di rocchetti che girano vorticosi gli uni intorno agli altri senza
mai incontrasi… i loro fili convergendo al di sopra dell’arcolaio, formano la
treccia…[di] tagal…”
Sempre all’inizio del Novecento, con il sorgere delle cantine sociali, prendeva avvio
anche un nuovo corso della vitivinicoltura e, particolarmente verso quel settore così
importante per l’economia carpigiana, si indirizzò l’attenzione degli artigiani locali
che iniziarono a produrre macchine enologiche sempre più sofisticate. L’officina di
Salardi Enrico, con sede in piazzale Ramazzini, fu una delle prime a rispondere alle
nuove esigenze e presso di essa si crearono quelle competenze da cui presero avvio
altre piccole o medie imprese artigiane con produzione e manutenzione altamente
qualificate di macchinari indirizzati all’agricoltura e alla lavorazione del truciolo;
truciolo che, in quanto a materia prima, ovvero coltura del salice e del pioppo,
comportava una prima fase di lavorazione squisitamente agricola.
Oltre all’officina Salardi era presente anche quella di Formigoni che, entrata in crisi
nel 1924, su iniziativa dell’operaio meccanico Guido Aguzzoli, di trasformava nella
società Aguzzoli e C. Lo stesso Guido Aguzzoli nel 1961 rilasciava al mensile
TuttoCarpi la seguente intervista: “[…] All’inizio le cose non andarono molto bene…
c’era poco lavoro e [dovemmo] accontentarci di fare le riparazioni da nulla,
aggiustare le auto che erano ben poche, le pompe dei contadini che sono e saranno
sempre… [i contadini] sono clienti difficili, impossibili da trattare… venivano lì in
cinque o in sei, padre, figli, generi, si consultavano a vicenda… Dopo la fase delle
riparazioni, l’officina si mise a produrre pompe irroratrici e pompe da travaso da
150 ettolitri l’ora… Nel’37 si decise di costruire torchi continui per distillerie e
cantine. Nel frattempo ci eravamo messi a fare anche delle presse idrauliche per i
Monopoli di Stato. Durante la guerra abbiamo fatto poco, per cui ci dedicammo a
riparare quello che capitava: caldaie, macchine di pastificio, scrematrici, battitori
per trebbia…” Finita la guerra, pur tra non indifferenti difficoltà, Aguzzoli riprese a
produrre macchine da vino e in particolare torchi e presse: Titano, Microtitano,
Ipotitano e la pressa Zeta ed Eureca, impiegati nelle cantine vinicole di mezza Italia,
nonché all’estero, in particolare in Perù dove le presse venivano straordinariamente
impiegate per la fabbricazione della farina di pesce. Per scelta, la ditta Aguzzoli
ancora presente ed impegnata in produzioni complesse e altamente specializzate, non
ha mai fatto il salto da artigianato ad industria; resta il fatto che le maestranze che vi
hanno e continuano a lavorarvi sono professionalmente complete, iperspecializzate,
padrone del mestiere.
Con l’emergenza generatasi in conseguenza del primo conflitto mondiale che
sottrasse notevoli energie all’agricoltura, lasciata in gestione ad anziani, donne e
giovani pressoché bambini che la sostennero con estrema difficoltà, si determinò una
stasi del processo innovativo. A posteriori, nel 1927, con un “Gloria a tutte voi,
Donne della Campagna che durante la guerra, con l’aiuto dei vecchi e dei ragazzi,
coltivate i poderi per riconsegnarli in buono stato agli uomini vostri, reduci vittoriosi
dalle trincee”, nel paventarne altri, era resa riconoscenza per i gravi sacrifici
affrontati durante il lungo conflitto. Il rientro delle forze attive alla fine della guerra e
la mancata realizzazione delle prospettive promesse riaccesero, infuocandolo, un
conflitto di classe che appariva insanabile; ad esso, particolarmente dalla classe
agraria, venne opposto il fascismo.
Sotto l’aspetto della diffusione di nuove tecnologie, il ventennio che seguì si
caratterizzò per le spinte contraddittorie: da un lato la potenzialità notevolissima
espressa da un’industria nazionale in espansione capace di produrre macchinari
dall’azione sempre più efficiente, dall’altro l’assoluta necessità di impegnare
l’abbondante manodopera che proprio dall’azione delle macchine si sarebbe trovata
disoccupata. L’azione sistematica e determinata del neo governo fascista fu quella di
soffocare il montante movimento rivendicativo e abbassare i salari dei giornalieri, la
spartizione del cui lavoro era rigorosamente controllata: la non adesione ai fasci era
motivo di discriminazione certa.
Detto nuovo assetto decelerò l’affermarsi delle grandi macchine agricole; per le
piccole e medie proprietà aveva un senso relativo possedere una mietilegatrice o
mietitrebbiatrice quando il costo della manodopera che si offriva sul mercato era
irrisorio. Peraltro, nella logica conservatrice tipica del padronato di quei tempi,
qualsiasi investimento doveva essere di lunga durata e ciò era in contraddizione con
l’inarrestabile evoluzione in campo tecnico, cosicché l’avanzare del mercato delle
macchine procedeva con il freno inserito. Alla meccanizzazione non poteva sottrarsi
la grande azienda agricola che non era caratteristica sul territorio dell’area carpigiana
e si concentrava particolarmente nella vasta area un tempo valliva, redenta
dall’ultima consistente bonifica degli anni Venti. Va registrato altresì che la stessa
grande proprietà, prevalentemente di area lombarda, riconoscendo i pregi gestionali
dell’appoderamento, lo aveva ampiamente adottato. A proposito di sottoutilizzo delle
macchine, Bruno Calanca, motorista meccanico impiegato dalla grande azienda
agricola A.R.A di Fossoli fin dal suo nascere, riportava la seguente memoria: “[...]
Nel 1929, c’era la mietilega, ma si perdevano delle spighe, allora l’ingegner
Reggiani ha preferito usare il bracciantato... Il primo trattore che ho guidato si
chiamava “Fordson”, a petrolio, poi il “Titan”, il Mogul; c’era da faticare a
guidarli, ma io ce l’ho sempre fatta... L’ingegner Reggiani mise le ruote di gomma ad
un Ford e lo usava per andare in stazione a caricare il concime”.
Cosicché il tradizionale lavoro manuale e l’innovazione, con una netta supremazia
del primo sulla seconda, ebbero a convivere fino agli anni immediatamente seguenti
la fine del secondo conflitto mondiale che, come il primo, rimise in ginocchio
l’agricoltura.
A tal proposito è assai emblematica la ricca documentazione fotografica di quegli
anni che, se non fosse per il mutato abbigliamento, potrebbe essere scambiata con
quella più antica. Accanto ai ricchi servizi utili alle campagne di propaganda del
regime che mostravano macchinari d’eccezione, ve ne erano altri in cui compariva la
classica, arcaica aratura col tiro di buoi, le mietiture e fienagioni a sfalcio con il
carico manuale del prodotto non sempre effettuato sui carri trainati da bestiame da
tiro, bensì su barelle sostenute a braccia. Detta realtà si protrasse anche per alcuni
anni dell’immediato secondo dopoguerra, quando, stante la crisi nazionale delle
grandi e medie imprese industriali, già impegnate in massima parte nella produzione
bellica, ancora disorientate nella ricerca di nuovi sbocchi di mercato, l’agricoltura più
che mai in ginocchio, ancora governata da rapporti pressoché feudali, appariva come
l’unica risorsa certa.
È scontato sottolineare che alle caratteristiche ambientali di un territorio, alle sue
trasformazioni, è strettamente connessa la sua evoluzione produttiva e, a tal
proposito, è emblematico il fatto che con l’ultimo grande intervento di bonifica la
“grande sete” estiva dei terreni agricoli di pianura, in particolare di quelli vallivi,
poteva dirsi sanata. Fino alla metà degli anni Venti, la condizione delle valli
carpigiane veniva descritta nel modo seguente: “Le terre del basso carpigiano e del
novese sono soggette a periodici allagamenti per insufficienza di scoli. Le risaie, le
così dette valli di Budrione, di Fossoli e le contigue terre di Novi sono ridotte per il
disgelo e la pioggia a bacini che non si svuotano se non lontanamente […] Là la
terra è triste: poche erbe gialle corrono coi loro ciuffetti tisici le zolle nerastre:
larghi crepacci corrono a zig-zag per tutti i sensi i campi infecondi, crepe e crepacci
profondi fino a due metri, in cui entra un piede stanno a dimostrare che sete orrenda
quella povera terra soffra: L’aridità squassa i ponti, i fabbricati: la terra gonfiandosi
d’inverno, restringendosi d’estate, solleva e abbassa le opere murate con diabolica
facilità: non vi è ponte a cui non cadano le ali e non abbia spaccato il ventre: la vite,
ricchezza e gioia delle nostre campagne, là alligna tardi e male, l’olmo stesso, lo
sposo della vite, il prato pensile (gelso) che dà buon mangime, che fornisce il legno
robusto e il resistente combustibile, l’olmo cresce lento, faticoso, quasi a dimostrare
l’ingratitudine della terra in cui alligna. Tale è la realtà del basso budrionese…”
Stante questa descrizione, non è difficile comprendere come fosse necessaria l’azione
di prosciugamento rispetto al deposito delle acque in eccedenza che là ristagnavano
dall’autunno e sino alla primavera inoltrata e come fosse altrettanto importante se non
essenziale la possibilità di irrigarle in estate. La carenza di acqua in estate era poi
risentita da tutta quanta l’agricoltura locale. Queste necessità avevano trovato efficace
risposta dal realizzarsi del grande progetto di bonifica a cura del Consorzio di
Bonifica Parmigiana/Moglia e, a tal proposito, sulla stampa dell’epoca veniva scritto:
“Avvenuto il prosciugamento, il compito dei Bonificatori non era esaurito, anzi era
appena iniziato. Occorrevano strade, caseggiati colonici, e sopra tutto acqua da
irrigare, perché le terre ex vallive del nostro territorio, screpolano fortemente
durante l’estate e perciò, riasciugandosi con rapidità lo strato superiore, rendono
misera e stentata qualsiasi vegetazione…. Senz’acqua non può l’agricoltore ottenere
delle colture intensive… Sonvi circa 80 chilometri di nuovi canali per il solo comune
di Carpi… e altri ancora ne verranno costruiti per rendere più densa la rete di
distribuzione… Le colture sarchiate, come il granoturco e la barbabietola, oggi
neglette per mancanza d’acqua, saranno rimesse in onore …certe leguminose
foraggiere come il trifoglio ladino, potranno essere introdotte nelle rotazioni
agrarie… In certe zone potrà con profitto essere ripristinata la risaia, non più con
carattere permanente e quindi antigienico, ma avvicendata al frumento ed al prato e
quindi suscettibile di elevate produzioni… erbai di granoturco, di avena, il
quarantino, il miglio, con l’irrigazione assicurata, non saranno più aleatori…
L’ampliamento delle colture prative darà maggiore incremento all’industria
zootecnica…” Per sfruttare queste nuove risorse bisognava munirsi di pompe
idrovore e, neanche a dirlo, la produzione, l’assemblaggio, il commercio, nonché la
manutenzione di pompe di piccola, media o grande portata, si fece assai consistente.
Tanto più che le pompe, oltre all’irrigazione, erano indispensabili per l’irrorazione di
molte colture e in particolare della vite, specialmente dopo il perniciosissimo
diffondersi di filossera e peronospora.
Si distingueva in particolare l’allora ditta Grillenzoni Alberto, oggi scomparsa ma
ancora attiva e presente nel 1953 alla quindicesima edizione della Fiera di Modena,
dove veniva presentata come eccellente per i criteri di lavorazione improntati alla
serietà… che assicuravano successo alle sue creazioni: pompe per irrorazioni,
pompe per irrigazioni, motopompe per liquidi fluidi e densi e corpi in sospensione,
impianti fissi e mobili con carrelli per irrorazione e irrigazione.
In quell’ambito, seppure più giovane della ditta Grillenzoni, agiva anche l’Officina
Meccanica dei Fratelli Goldoni, con sede in Migliarina di Carpi.
Carpi ebbe a conoscere le condizioni di rapporto con la vera industria soltanto a
partire dal 1940, quando, per porsi al sicuro da attacchi aerei, la Magneti Marelli qui
aveva decentrato parte della sua produzione, tutta in chiave bellica. In essa avevano
trovato posto fisso, non più incerto e stagionale come nel truciolo, oltre un migliaio di
persone tra donne e uomini, con netta prevalenza delle prime sui secondi. Le
maestranze maschile si aggiravano intorno alle trecentocinquanta unità, di cui una
buona percentuale era di estrazione contadina.
Individuare in Carpi tanta manodopera alla quale era richiesta una certa competenza,
era pressoché impossibile. Così come riporta Erio Aguzzoli, attuale titolare
dell’Officina Guido Aguzzoli, a risentire maggiormente dell’arrivo della Marelli,
furono le piccole imprese artigiane presso cui si determinò un’emorragia di personale
attratto dalle migliori condizioni contrattuali e retributive, qualche maestranza venne
sottratta anche alla Caproni di Reggio Emilia: dal punto di vista numerico
rappresentavano comunque un’inezia rispetto al bisogno, cosicché a cura della
Magneti Marelli vennero organizzate trasferte formative presso gli stabilimenti
milanesi, quindi corsi interni e di perfezionamento per aspiranti operai. Questo fatto è
significativo al fine di una valutazione delle piccole dimensioni delle imprese
artigiane locali in campo metalmeccanico. Furono specialmente i giovani i quali,
allettati dalla meccanica che aveva ancora i tratti pioneristici e dalla possibilità di
evitare la chiamata al fronte, a rispondere prontamente all’offerta di detto impiego
che pure ricadeva sotto lo strettissimo controllo del distretto militare. Cessato il
conflitto, la Marelli avrebbe inteso riportarsi a Sesto San Giovanni e, per coloro che
avevano ritenuto di emanciparsi dalla precarietà del lavoro agricolo, si prospettavano
notevoli incertezze che il tempo arrivò poi a fugare abbondantemente. Questo fatto
rafforzava la convinzione che l’agricoltura potesse essere l’unico sbocco certo, tanto
più che il lavoro di riassetto della campagna locale dopo il conflitto e l’occupazione
riusciva ad assorbire molte energie.
Verso la fine degli anni ’40 ebbe inizio un marcato processo innovativo caratterizzato
da investimenti notevoli di risorse. Parimenti a quanto era avvenuto all’inizio del
secolo, seppure su un piano paritetico con uomini e donne che se ne servivano, in una
concezione nuova rispetto al passato che potrebbe definirsi di conciliazione, la
macchina, quale segno di una conquistata emancipazione rispetto al pesante lavoro
agricolo, ritornava ad essere soggetto fotografico esibito con orgoglio, specialmente
da quanti intravedevano e sperimentavano rapporti diversi con il padronato agrario.
Non era più cosa semplice disdettare contratti se non adducendo una giusta causa,
gradualmente ma speditamente scomparve l’uso dell’onoranza dovuta al proprietario
del fondo e, quindi, era possibile ragionare in una prospettiva lunga dove
l’investimento per l’acquisto di una macchina agricola non appariva un azzardo
impossibile.
Le incertezze passate venivano poi ampiamente superate in ragione specialmente
dell’affermarsi sul territorio di nuovi ambiti produttivi, dagli esordi artigianali ma con
evidenti prospettive industriali, non necessariamente solo di servizio al settore
agricolo, capaci di assorbire gli esuberi di manodopera peraltro ben disposta a mutare
condizione. Il superamento della mezzadria sostituita dalla nuova classe di coltivatori
diretti che attraverso facilitazioni di legge erano riusciti ad acquisire la proprietà dei
fondi, il ricostituirsi di forti associazioni cooperativistiche di braccianti agricoli,
divennero un forte incentivo all’ammodernamento delle tecniche di lavoro e, in
particolare, all’acquisizione di macchinari.
Già dalla prima metà degli anni ’50, ebbero a cadere diffidenze e molte
contraddizioni; al lento ritmo innovativo venne impressa un’accelerata straordinaria
su un percorso ormai obbligato e senza ritorno. La legge 949 del 25 luglio 1952 che
prevedeva agevolazioni creditizie per gli agricoltori favorì notevolmente la
meccanizzazione agricola; al 30 settembre 1957, veniva calcolato che il numero di
domande di prestito per l’acquisto di macchine agricole fosse arrivato a 1853 unità
così ripartite: 674 trattrici e 863 motofalciatrici.
Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra il Landini, ormai storico in quanto a
tradizione, era tra i trattori il più ambito, forse il più abbordabile sotto l’aspetto
economico, sicuramente di più facile manutenzione in ragione del fatto che l’impresa
produttrice aveva e continua ad avere sede nella vicina Fabbrico di Reggio Emilia,
nonché era rappresentativo di quello spirito d’impresa caratteristico, vanto della gente
della pianura modenese e reggiana.
Produzione di macchine agricole
Nel 1958 erano iscritte nell’albo della Camera di Commercio di Modena 440 ditte per
la fabbricazione di macchine agricole, le quali complessivamente impegnavano 1832
addetti e 38 ditte per la costruzione di pompe, compressori e simili con 246 addetti;
considerati tali dati non è difficile dedurre che le dimensioni delle imprese fossero per
la maggior parte di tipo artigianale.
A Carpi e territorio limitrofo, partendo da una tradizione contadina sedimentata da
epoca remotissima, quindi dalla precisa percezione dei bisogni tipici dell’agricoltura
locale, le officine dei fabbri, anche e soprattutto tramite l’assemblaggio di pezzi
meccanici nuovi o di recupero, iniziarono a mettere a punto economiche ma efficaci
macchine agricole che in breve trovarono sbocco sull’intero mercato nazionale ed
estero.
Da queste piccolissime imprese hanno avuto origine realtà industriali notevoli.
La rinomata “Lugli Carrelli Elevatori”, approdata a questa specializzazione dopo la
produzione di una numerosa serie di piccoli trattori che andavano sotto il nome di
“Lilliput” e “Carioca”, avviata da Tullio Lugli, era anch’essa presente alla XV Fiera
di Modena del 1953 dove presentava il Lilliput. A questo piccolo trattore era
riservato uno spazio particolare all’interno del Palazzo dello Sport; collocato tra i
macchinari minuti e preziosi; di esso era data la seguente descrizione: “[…] è un
gioiello di perfezione meccanica e sviluppa un’eccezionale potenza, nonostante le sue
dimensioni da giocattolo, la sua struttura snella, apparentemente esile, ma ben
carrozzata con vero buon gusto estetico. Il trattore Lilliput concretizza la sua forza
in 6,8 HP., può trainare su piano un peso di ottanta quintali ed esige un consumo
piccolissimo: in appena 600 grammi ora di gasolio. Pesa 400 chilogrammi e monta
un motore inglese Enfield a ciclo Diesel quattro tempi”. La Lugli Carrelli Elevatori,
ceduta nel 1990 ad una società finanziaria italo/svizzera, che nel 2004 impegnava 180
maestranze fisse in uno stabilimento che occupa complessivamente 27.000 metri di
cui 9.000 coperti e occupati dall’officina e 2.000 dagli uffici di progettazione e
amministrazione, attualmente versa in gravi difficoltà dovute in particolare ad una
malaccorta gestione, nonostante la sua produzione sia apprezzata e richiesta sul
mercato nazionale ed estero.
Originariamente connessa all’economia agricola, a quella artigianale ed industriale
del truciolo, nonché lavorazione/commercio del legno, era l’officina meccanica di
Stefano Benetti e Alvise Battini con sede allora a pianterreno di uno stabile posto tra
V.le Carducci e Nicolò Biondo. Evolutisi entrambe da fabbri in manutentori di
macchine agricole, nell’immediato secondo dopoguerra recepivano la richiesta di
mercato di seghe a nastro sia per l’agricoltura che per la lavorazione del legno in
generale; partendo dal recupero di residuati bellici, iniziarono un’avventura che,
tradottasi in industria, sotto la denominazione di Centauro, occupa attualmente 115
dipendenti fissi in uno stabilimento di 12.000 mq., posto a Limidi di Soliera, con un
indotto significativo. La Centauro attualmente colloca la sua produzione per il 40%
sul mercato nazionale e il rimanente 60% su quello estero (Europa, Stati Uniti, Africa
ed emirati arabi).
La rinomata, sopracitata “Goldoni”, presente già come realtà artigianale, creava
nell’immediato secondo dopoguerra le premesse per un decollo industriale come
Officina Meccanica dei Fratelli Goldoni, e si collocava sul mercato con pompe
idrauliche per l’agricoltura, le quali, presentate anch’esse alla XV Fiera di Modena
tenutasi nel 1953, venivano segnalate per l’accurata costruzione, per la loro lunga
durata, robustezza, per facilità d’impiego, adatte per ogni uso, sia per vigneti che per
frutteti, per competitività di prezzo in ragione della loro produzione in serie. Era
l’inizio di una delle realtà produttive tra le più significative in termini economici e
occupazionali, presenti sul territorio carpigiano, a cavallo con quello reggiano. Nel
1959, dopo alcuni anni di sperimentazione e orientamento, gradualmente viene
abbandonata la produzione di pompe per passare a quella di motocoltivatori . Negli
anni successivi la Goldoni ha saputo mirabilmente interpretare le istanze espresse da
un mercato sempre più esigente e, nel 1967, era così presentata: “[…] Goldoni, cioè i
magnifici cinque Celestino, Valseno, Franco, Leo, Severino Goldoni, che dalla
vecchia officina familiare di Migliarina che prima della guerra produceva pompe,
hanno fatto negli anni di duro e intelligente lavoro la seconda azienda d’Italia del
settore, un marchio conosciuto e apprezzato nelle fiere agricole di mezzo mondo, da
Bari a Verona, da Madrid a Lipsia, tanto che lo si vende ormai a scatola chiusa. I
principali prodotti Goldoni, supercollaudati, piazzatissimi, ricercatissimi sono: i
motocoltivatori Minor, Super, Export, buoni per tutti gli usi agricoli: aratura,
fresatura, zappatura, irrorazione, falciatura, trasporto; il trattore GM4 snodato, vero
gioiello della meccanica, capace di voltarsi su un raggio ridottissimo. Tranne i
motori e i pneumatici, tutto viene fatto nella fabbrica di Migliarina, che è dotata
ormai di forni e stampi per la forgiatura dei singoli pezzi componenti il prodotto
finito. [Le macchine Goldoni] vanno dovunque vi sia un’agricoltura di tipo costiero o
collinoso: Liguria, Sardegna, Calabria, Sicilia, le grandi province di Cuneo e Aosta,
Austria, Grecia, Jugoslavia, Iran, Portogallo, Spagna, Algeria, Somalia, Israele,
Libano… Nel 1964 e nel ’65, anni di congiuntura, i Goldoni hanno piazzato
rispettivamente 1.600 e 2.000 macchine… Gli agenti in Italia sono 120, i subagenti
non si contano; 93 sono i Consorzi agrari serviti dai Goldoni” (4) Tra il 1967 e il’69
vennero collocati sul mercato ben trentamila unità della serie Export; dal ’69 (5)
Attualmente la Goldoni, che continua ad essere un’azienda a conduzione familiare,
più che mai, serve quell’ampio segmento relativo a macchine piccole e medie,
preziose per le colture di ridotta o disagevoli entità poderali. La sua produzione,
suddivisa tra varie linee di montaggio con un ciclo produttivo di 24 ore su 24, sfiora
complessivamente le 13.000 unità annue e viene eseguita in un moderno impianto
industriale che copre una superficie complessiva di 130.000 metri quadri dei quali
65.000 interamente coperti; conta 250 concessionari sul territorio nazionale, ha due
filiali commerciali all’estero: una in Francia e l’altra in Portogallo, esporta in 84 paesi
del mondo, dispone di un servizio ricambi con 50 dipendenti fissi. I suoi macchinari
montano motori Lombardini e Jan Dear e amplissimo poi è l’indotto coinvolto nelle
sua produzione.
Macchine agricole: avanti tutta, senza indugi e senza ritorno
In occasione della ventesima Fiera della Meccanizzazione e dell’Agricoltura Padana,
tenutasi a Modena nel 1958, veniva calcolato che, in provincia, si avesse la media di
un trattore ogni 80 ettari e che, in pianura, fosse presente la massima concentrazione,
valutata intorno ai quattro quinti; l’obiettivo era di arrivare per il 1960 a 5.000
trattrici. Detti auspici, da un lato prospettavano uno sviluppo dell’economia agricola
e, dall’altro di quella industriale metalmeccanica, presso la quale potevano trovare
impiego gli esuberi di manodopera che necessariamente venivano a crearsi in
agricoltura.
Nella seconda metà degli anni ’50, per i tanti giovanissimi che si trovavano a dover
memorizzare l’ode carducciana dedicata al bove, già i primi versi, per la pur
contenutissima ilarità che creavano nella platea di compagni ancora sottoposti ad una
rigida disciplina, mettevano sconcerto in chi li doveva recitare ad alta voce:
praticamente nessuno era più in grado di concretizzare in immagine il bucolico
sentimento sortito da un vissuto non più sperimentabile in alcun modo. I miti buoi
erano spariti e i gioghi, quando non fossero ridotti in legna da ardere, rimanevano
appesi ai muri dell’ampia area di servizio delle case rurali da cui erano spariti i vecchi
carri per lasciar posto a trattori e a rimorchi moderni, quindi iniziavano a circolare nei
primi mercati di antiquariato, per entrare anche in contesti ambientali estranei alla
realtà agricola.
L’antica, numerosa famiglia patriarcale, indispensabile alla gestione dei fondi non
aveva più ragione di esistere, tanto più che i nascenti settori del tessile-abbigliamento,
della metalmeccanica, nonché quello edilizio correlato, ebbero abbondantemente ad
assorbire ogni possibile esubero: il suo smembramento divenne fisico dato che i
sottoinsiemi familiari iniziarono a distaccarsi, trasportando la residenza nel centro
cittadino o nelle sue immediate adiacenze dove si concentravano numerose le giovani
piccole imprese destinate a crescere. Ancora nel 1951 in agricoltura, tra mezzadri e
braccianti si contavano 9681 addetti, nel 1962 ne erano rimasti 2720.
Un'anziana contadina, Dolores Mantovani, consapevole del mutamento in atto,
intorno agli anni '50, ideò un nuovo proverbio che sintetizzava la percezione della
trasformazione in atto: "Da quand è andè zò i baròss con i serciòun/ I proverbi i'n'in
più bòun// " (da quando sono caduti in disuso i carri con le ruote di legno e sono
sopravvenute le macchine, i proverbi, ossia la memoria degli anziani, non valgono
più.).
Attualmente le nuove tecniche di coltivazione, supportate da macchinari sempre più
specializzati e sofisticati, i cui costi sarebbero inassorbibili dal singolo coltivatore
diretto, hanno indotto nuove forme gestionali improntate da un mercato sempre più
orientato alla globalizzazione, da cui è pressoché impossibile sottrarsi, la quale, più
che dettare, impone indirizzi. Per sopravvivere è stato indispensabile porsi nella
logica competitiva e, stante il veloce processo di obsolescenza dei mezzi, si è fatto
imperativo il ricorso ad imprese specializzate nel noleggio e manutenzione di
macchine agricole denominate di “movimento terra”. Non diversamente da quanto è
avvenuta su tutto il territorio emiliano/romagnolo, la cooperazione ha caratterizzato
anche il Carpigiano già a partire dalla fine dell’800; fattasi forte nel primo ventennio
del ’900 e seppur strettamente controllata sopravvissuta anche al ventennio fascista,
poteva riacquistare forza e svilupparsi nell’immediato secondo dopoguerra. Quanto
auspicato sul settimanale Luce nel 1891 “[…] Ben vengano gli aratri meccanici, le
falciatrici, le sarchiatrici, i trebbiatoi, le mietitrici, gli strettoi da uva, le pompe
travasa vini, le locomobili, i telai meccanici e tutta l’altra serie di macchine inventate
e da inventarsi… Ma sieno le macchine, come tutti gli utensili del lavoro, proprietà
assoluta degli operai…” diveniva realisticamente realizzabile e sia a Fossoli che a
Budrione di Carpi, nella vicina Novi di Modena, sorgevano cooperative di braccianti
agricoli che iniziarono ad investire le loro risorse economiche nell’acquisto di
macchinari per l’agricoltura.
L’antichissima cultura contadina è stata spazzata via e, distratti dalla più appariscente
e prorompente industria, ad accorgersene sono ancora in pochi. L’apparente
interminabile piana distesa di campi che rende difficile all’indigeno l’idea del benché
minimo rilievo, ha mutato radicalmente il suo aspetto e si è spopolata. Le messi,
frutto di una selezione accuratissima, anch’esse diverse da quelle del passato (tutto lo
spigato era a gambo lungo per facilitare lo sfalcio manuale e la riduzione in covoni),
continuano ad indicare l’evolversi stagionale ma, fatta ancora salva la coltura della
vite sebbene sia scomparsa l’antica piantata che rendeva il paesaggio un “ridente
giardino”, il paesaggio può mutare all’improvviso senza soluzioni intermedie: la vista
di una distesa di grano goduta in un momento del giorno arriva a scomparire nel
volgere di una manciata di ore, falciata da una macchina precisa che sostituendosi al
lavoro di tanti, velocissimamente miete, trebbia e ingoia in un capace serbatoio il
prodotto di quello che un’altra aveva seminato; se non si ha occasione di vederla
all’opera, il cambiamento può avere i caratteri dell’inesplicabile.
Il passato è superato, ma le diverse impronte che lascia sono pressoché indelebili e
così oggi è possibile individuarne i segni nella caratteristica struttura dell’economia
agricola locale, contraddistinta dalla prevalente piccola e media proprietà, retaggio
del settecentesco appoderamento gestito a mezzadria e terzeria. Se in quest’ambito
può essere scontato rilevare questo tratto di stemperata continuità, va registrato che la
cultura della gestione familiare è stata trasportata nell’imprenditoria locale, piccola,
media o grande che sia, con i pregi e i difetti che sono propri di ogni realtà.
Luciana Nora
Note
1) Da L’Unione Costituzionale 31/ 12/ 1908.
2) Da L’Unione Costituzionale 29/ 6/ 1905.
3) Da L’Unione Costituzionale 13/ 7/ 1905.
4) Da TuttoCarpi, aprile 1965
5) Da Carpi produce, numero unico economico, settembre 1967, pag. 74
Bibliografia
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- G. Bertacchi Un’Arte Italica: il truciolo, manoscritto, databile primo decennio del Novecento,
originale conservato presso L’I.S.R di Modena, Fondo A. Bertesi.
- S. Cappello, A. Prandi, “Carpi tradizione e sviluppo”, Bologna, 1978.
- M. Cassoli, “Carpi, memorie di vita contadina”, Carpi, 1980.
- C. Cogliati, “L’industria del truciolo”, Roma, 1913.
- C. Contini, “Al sôv”, Carpi, 1972.
- I.Dignatici, L. Nora, “ L’Arte del truciolo a Carpi”, Carpi 1981.
- I. Dignatici, L. Nora, “...Facevano tutti la treccia: uomini, donne e bambini.”, Carpi 1981.
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- L. Nora, “Giù i cappelli...e arrivò la Marelli.”, Comune di Carpi, 1990.
- L. Nora, “ Tener famiglia - Dalla famiglia patriarcale alla famiglia mononucleare “, Comune di
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- L. Nora, M. Pecoraro, “Impara l’arte ed entrane a far parte - Aspetti dell’artigianato carpigiano”,
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- G. Saltini, “Cronaca di Carpi”, manoscritto conservato presso l’Archivio Storico Comunale di
Carpi.
- A. G. Spinelli, “Memorie sull’Arte del Truciolo”, Modena, 1905
- AA.VV. “Da sfruttati a protagonisti”, Carpi, 1981.
Stampa consultata
L’Unione costituzionale
Luce
Avanti!
TuttoCarpi
Carpi produce, numero unico economico, settembre 1967.
Fonti orali dalla nastroteca della Sezione Etnografica del Museo Civico di Carpi
Documentazione fotografica dalla fototeca della Sezione Etnografica del Museo Civico di Carpi