The History of the Caliph Vathek: tracce di

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The History of the Caliph Vathek: tracce di
The History of the Caliph Vathek: tracce di contemporaneità
Quando nel 17861 in Inghilterra esce il romanzo The History Of Caliph Vathek, il
romanzo gotico viveva la sua stagione più florida. William Beckford , eccentrico
figlio della più alta nobiltà londinese, lo aveva scritto in due notti e tre giorni di
febbrile entusiasmo.
Originariamente composto in lingua francese, venne
pubblicato, senza il consenso dello stesso autore, in traduzione inglese sotto il titolo
di An arabian Tale ad opera del reverendo Samuel Henley2 al quale aveva affidato la
traduzione. Destinato a entrare a far parte del felice trittico dei romanzi gotici più
noti (The Castle of Otranto e Frankestein ne fanno da contraltare), The History of the
Caliph Vathek narra l’infelice storia del nono califfo della stirpe abbaside. Prendendo
le mosse da reali coordinate storiche, al-Wāthiq bi-llāh effettivamente fu sovrano
“illuminato” tra l’842 e l’8473, il romanzo mette in scena la bramosia di sapere aldilà
di ogni facoltà umana che porteranno Vathek alle soglie dell’Inferno ed oltre.
Dapprincipio il califfo viene raffigurato come un sovrano amato e stimato dal
popolo, sovrano felice di un regno altrettanto felice, seppur si insinua fin dalle prime
battute l’idea di una propensione particolare del sovrano ai piaceri della tavola
nonché della carne. La magnificenza del califfato sorpassa in bellezza e sontuosità
tutti i precedenti regni, e l’erezione di cinque palazzi volti al soddisfacimento di
altrettanti sensi, ne è l’emblema più evidente. Ed è proprio nella costruzione dei
cinque palazzi sensoriali, accompagnati all’elevazione di una torre di sproporzionata
altezza, leggibile la chiave di volta del romanzo, il peccato e la colpa dell’infelice
califfo. È un moderno peccatore di Hybris il nostro Vathek, corroso dall’avidità di
conoscenza e dalla sete di potenza, pronto a ricreare in terra un paradiso a misura
tipicamente umana e a innalzare una torre per lanciare il suo grido di sfida a un Dio
già offeso. A questo richiamo risponderà non già un Dio ma la sua più distante
rincarnazione, un personaggio abominevole denominato il perfido Giaour che, con la
promessa di inestimabili ricchezze, lo condurrà a compiere crimini di ogni sorta pur
1
DAVID PUNTER, Storia della letteratura del terrore, Roma, Editori Riuniti, 2006, p.47.
WILLIAM BECKFORD, The History of the Caliph Vathek, LiberiPomi (format epub), 2014, p.19.
3
AHMAD IBN MUHAMMAD MAQQARI, IBN AL-KHATIB, The History of the Mohammedan Dynasties in
Spain,Harvard College Library, Londra, 1980, p. 541.
2
di raggiungere l’agognato tesoro. Ma è anche e soprattutto un uomo fedele al
richiamo della carne, al desiderio, concretizzatosi nella figura della giovane
Nouronihar tanto che per soddisfare la sua passione sembra anche vacillare il
proposito di seguire il Giaour. Complici della disfatta del sovrano saranno anche la
perfida madre, Carathis, dai connotati diabolici e la bella Nouronihar, ragazza dai
tratti innocenti e arrivisti allo stesso tempo, che non indugerà nel lasciare il dolce e
patetico Gulchenrouz per cedere alle lusinghe di amore e tesoro di Vathek. In loro
compagnia, a seguito della spirale di follia indotta dal Giaour, varcherà le porte
dell’inferno, di dantesca memoria ma islamica tradizione ( il reggente è infatti Eblis),
per non farvi più, come è noto, ritorno.
Ambientazioni grottesche, insistente presenza del soprannaturale, dalla possessione
demoniaca all’intervento benigno del Genio, atmosfere terrificanti: i cardini del
gotico sembrano essere pienamente rispettati. Gotico dunque è il romanzo, gotico è il
periodo in cui Beckford scrive, se il gotico, come affermano eminenti studiosi, ha
avuto la sua massima espansione intorno all’anno 17954. Gotico è finanche il suo
autore dall’alto della sua caduca torre di Fonthill Abbey ,tuttavia, benché pienamente
inserito nella tradizione, l’opera sembra fornire fin dall’inizio spunti di originalità.
Rimando, in negativo, al quadro che delinea David Punter:
[..]Il mondo che trattava era popolato di personaggi triti, che si esprimevano in modo
prevedibile: l’eroina timida, nervosa, riservata, che nondimeno possedeva di solito una
notevole capacità di scampare a situazioni tremendamente pericolose; il padre duro e
tirannico; il cast di comparse comiche dei servi che, come del resto molti altri
personaggi, sembravano ripescati di sana pianta dal dramma giacobita; e soprattutto il
cattivo. Il cattivo era sempre il personaggio più complesso e interessante nella narrativa
gotica, anche quando era disegnato con mano goffa: con la sua capacità di incutere
timore, pieno di infinite risorse nel perseguire i suoi scopi malvagi..[..]5
Innanzitutto la triade eroe-eroina-malvagio nonché la stereotipizzazione dei personaggi è
scardinata a vantaggio di una più complessa tessitura: il cattivo è certamente il perfido
Giaour, infedele per antonomasia, ma lo stesso Vathek non sembra essere esente da
4
DAVID PUNTER, Storia della letteratura del terrore, Roma, Editori Riuniti, 2006, p. 57.
5
Ivi p.13-4.
malvagità( si pensi soltanto alla descrizione del temuto sguardo mortifero) ancora più
crudele inoltre è la madre Carathis, implicata e co fautrice della rovinosa caduta del figlio.
L’eroina, di contro, non può essere di certo Nouronihar, affatto timida e riservata che, al
primo richiamo della ricchezza, rinnega amore e famiglia mentre Goulchenrouz sembra
l’archetipo più lontano ed effeminato dell’eroe. Personaggi smodati, ruoli confusi dunque
in cui l’unico puramente buono, di una purezza quasi estenuante, è Gulchenrouz , chiaro
alter ego di Vathek, il doppio buono, che alla fine, in pieno spirito escatologico, guadagna
un probabile paradiso “peterpanesco”. Non solo la struttura, ma anche l’ambientazione si
offre ad una riflessione: l’esotismo rovescia la prospettiva occidentale, ne delinea un
immagine complementare, sovrapponibile, eppure la distorce nel suo contrario.
L’oltretomba delineato, che a un lettore ingenuo appare nelle sue fattezze speculare
all’Inferno cristiano, non è la sua descrizione ma quella dell’Inferno
islamico, La
Jahannam appunto. Tralasciando l’annosa questione se il Libro della Scala abbia fornito a
Dante la materia prima per la sua Divina Commedia, rimane il fatto che a un lettore
occidentale le parole ≪In the midst of this immense hall, a vast multitude was incessantly passing, who
severally kept their right hands on their hearts, without once regarding any thing around them. They had all
the livid paleness of death6. ≫ rimanda alle innumerevoli descrizioni dei dannati danteschi e
Vathek e Nouronihar sembrano essere il doppio in negativo di Paolo e Francesca se da
≪Quei due che ‘nsieme vanno, e paiono sì al vento esser leggieri≫7 si passa a ≪ These unhappy
beings recoiled, with looks of the most furious distraction≫.8 Sulle tracce dell’etimologia della parola
Giaour , il perfido Giaour, o meglio il per fides, scopriamo che si tratta dell’alterazione del
termine arabo kefir, termine con cui spregiativamente i musulmani designavano i cristiani.
In un contesto occidentale nonché in un Inghilterra fortemente cristiana, Beckford dunque
ribalta la prospettiva e ci fa odiare il cattivo, ci fa temere il Giaour, l’altro, l’infedele, infine
noi stessi. Beckford dunque plasma la materia gotica a suo gusto, un gusto orientale, un
gusto per la sregolatezza, di cui ne è campione vista la folle idea di una torre di
proporzioni impossibili, un gusto anche e soprattutto riversato sul desiderio sessuale e gli
estremi in cui si compie. Sebbene dunque non lesini un finale moraleggiante, si innesta su
un filone particolare del romanzo gotico, calcando l’attenzione sul desiderio sessuale.
6
WILLIAM BECKFORD, The History of the Caliph Vathek, LiberiPomi (format epub), 2014, p.1474
DANTE ALIGHIERI, Inferno, Le monnier, Firenze, 2006, p.84
8
Ivi, p.1533
7
A tal proposito Tzvetan Todorov nel suo saggio La letteratura fantastica
del 1970
individuava nel romanzo fantastico una tematica ricorrente designata come “il tema del
tu”, caratterizzata dal desiderio sessuale. Più in generale, distingueva la letteratura
fantastica riconducendola a due poli diversi : il tema del tu, appunto, e il tema dell’io.
Nella fattispecie il tema dell’io, implicava un dialogo costante del soggetto con il mondo
≪poiché il soggetto non è più separato dall’oggetto, la comunicazione avviene direttamente, e il
mondo intero si trova preso in una rete di comunicazione generalizzata≫9, quindi l’assetto
logico razionale vacillava a favore di una cancellazione del confine tra soggetto e oggetto.
Suddetta rete tematica faceva inoltre riferimento a due categorie principali di elementi
soprannaturali: la metamorfosi di essere viventi e l’esistenza di esseri
e forze
soprannaturali che hanno il potere di metamorfosizzare e metamorfosizzarsi. Questi
ultimi sopperivano a una mancanza di causalità
spiegabile razionalmente e
introducevano il concetto di pandeterminismo, dove ≪tutto, ivi compreso l’incontro di
diverse serie causali (o a caso), deve avere la sua causa, nel senso pieno della parola, anche se
questa non può essere che di ordine soprannaturale ≫10. Il tema del tu, invece, aveva come
punto di partenza il desiderio sessuale e più in generale riguardava il rapporto dell’uomo
con il suo desiderio, dunque con il suo inconscio. La letteratura fantastica infatti ≪si dedica
alla descrizione particolare delle sue forme immoderate e delle sue diverse trasformazioni, o se si
vuole, delle sue perversioni≫. La pulsione sessuale non diventa un mero stimolo latente ma
l’obiettivo principale, il motore essenziale del soggetto e quindi della vicenda narrata. E’ il
caso di The Monk di Lewis ad esempio che, corrotto dalle lusinghe della seducente Matilda,
null’altro che servitrice di Lucifero, si accende di passione per la sorella Antonia, sulla
quale commette il più bieco degli stupri. Torodov suggerisce che il fantastico delinei
diverse specie di desiderio, ascrivibili non tanto al soprannaturale (di cui talvolta è
l’incarnazione) quanto a uno strano sociale.
Le varianti sono diverse dall’incesto,
esemplato con The Monk, all’amore a tre ,all’ambiguità circa il sesso dell’amante, finanche
alla crudeltà assimilabile al sadismo. E’ proprio il califfo Vathek a fungere da testo
esplicativo per le ultime due varietà. Gulchenrouz, il doppio buono del sovrano,
esemplifica l’ambiguità sessuale in quanto, sebbene Beckford si ostini a declinarlo al
9
TZVETAN TODOROV, La letteratura fantastica, Garzanti, 2000, Italia, p.121
10 Ivi, p. 114
maschile si diletta, non senza una punta di ironia, a connotarlo sia fisicamente che
psicologicamente come un elemento femminile. Leggiamo da pagina 1208≪ and when
Gulchenrouz appeared in the dress of his cousin, he seemed to be more feminine than even herself≫11.
L’iniziale relazione con la cugina Nouronihar, spezzata dall’irrompere del califfo nella loro
storia, sembra acquisire i toni di una relazione omosessuale come anche la descrizione del
massacro dei ragazzi in favore del Giaour non ne sembra esente. Gli esiti più interessanti
della ricerca, però, prendono le mosse dalla figura di Carathis che in diverse occasioni nel
romanzo raggiunge la crudeltà più pura, propriamente una gioia sadica. Esulta e si
compiace Carathis della morte dei suoi sudditi accorsi ingenuamente per gettare acqua
sulla torre reale in fiamme, mentre compie uno dei suoi rituali propiziatori. Collezionate
le più orribili rarità custodite nei recessi della torre, acceso un rogo a base di corna di
rinoceronte, teschi umani, veleni dei più potenti serpenti, il culmine della sua estasi si
raggiunge quando alle esalazioni dei suoi fetidi tesori si accompagna l’odore di carne
umana. E qui l’invasamento diviene esperienza totale, ma un altro passo ci offre occasione
di riflettere sulle punte di sadismo di questo personaggio la cui origine sessuale è
evidente. Riportiamo per il passo di cui Carathis è il soggetto:
≪[..] but in the midst of their gaiety she contrived to introduce serpents amongst them, and to break
pots of scorpions under the table. They all bit to a wonder, and Carathis would have left them to bite,
were it not that to fill up the time, she now and then amused herself in curing their wounds with an
excellent anodyne of her own invention; for this good princess abhorred being indolent..≫12
C’è un filo rosso dunque che si spinge dal desiderio per incontrare la crudeltà
rifuggendo nella morte e che ci conduce in seno al sadismo.
Il sadismo, con la sua filosofia di annichilamento totale , porta alle estreme conseguenze
l’atroce e ne rappresenta uno scoglio oppure ≪può anche essere rivendicato come tale entro una
generale desublimazione del mondo≫13. Se tra gotico e sublime si era instaurato finora un
felice sodalizio, i due binari che agivano parallelamente si discostano e il sublime non
può che deragliare. Il rischio di cui il siamo spettatori è di trovarci nel diametralmente
11
WILLIAM BECKFORD, The History of the Caliph Vathek, LiberiPomi (format epub), 2014, p.1208
12Ivi, p 1040
13 REMO BODEI, Il sublime, il Mulino, p.138
opposto, nello spazio del de-sublime o, come ci suggerisce Argan riguardo a Francis
Bacon, nello spazio del subumano.
Francis bacon, pittore contemporaneo irlandese, deforma le figure, sfigura i volti, li
corrompe ed assiste alla loro degradazione per scoprire il vero volto dell’umanità. Ed è
lui l’ultimo erede del sublime egli:
≪sublima ma non idealizza, perciò il sublime per lui non è il super umano ma il subumano non il sacro o il divino ma il demoniaco. Da tutta la sua opera risulta che non
crede all’elezione o alla salvezza ma alla degradazione e alla caduta dell’umanità:
dunque anche la pittura non è un processo elettivo ma degradante. E’ demistificazione,
brutale scoperta della verità sotto la finzione. Il sublime del nostro tempo è in realtà il
contrario del sublime, è l’infame.14 ≫
Siamo giunti dunque a un bivio senza ritorno ed è in questa sfumatura sadica l’attualità
del romanzo, la vera novità che ci permette di leggerlo come paradigma e parabola
della contemporaneità. La lettura del Vathek si offre dunque a una riflessione: dal
sublime eroico di Longino, ci siamo trovati nella modernità in un sublime che si
attestava sul confine, sul crinale, per poi venire nella contemporaneità scalzato fuori,
detronizzato aldilà del confine.
14 GIULIO CARLO ARGAN, L’arte moderna, Milano, Sansoni, 2002, p. 241