Torino tra 800 e 900 - Museo dell`automobile
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Torino tra 800 e 900 - Museo dell`automobile
TORINO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO Data del 1853 il primo perimetro della città di Torino realizzato in muratura: è di quell’anno la costruzione della cinta daziaria, un muro alto dai quattro ai cinque metri, della lunghezza di una ventina di chilometri, interrotto soltanto alle barriere, dove montavano di guardia i vigili daziari per riscuotere quanto dovuto da chi portava in città pollame, burro ed altri prodotti di campagna. Qualche anno prima (1847) Torino era entrata a far parte della rete ferroviaria italiana, mediante il collegamento con Genova, seguito nel 1854 da quello con Susa e con Pinerolo; nel 1856 vengono realizzate le linee per Biella, Savigliano, Saluzzo, l’anno dopo quella per Novara. Nascono molti insediamenti industriali lungo la ferrovia, in particolare nella zona nord della città, per la maggior facilità di approvvigionamento che offriva la ferrovia e soprattutto perché in quella zona, grazie ai corsi d’acqua, vi era la possibilità di sfruttare l’energia idraulica. Nel 1863 iniziano i lavori di costruzione della Mole Antonelliana, cosiddetta perché progettata dall’architetto Alessandro Antonelli. E’ a lui che la comunità israelitica affida la costruzione del proprio tempio. Ne scaturisce un’opera rivoluzionaria e modernissima, che pur usufruendo della tradizionale struttura muraria, giunge a soluzioni che si pensavano realizzabili soltanto dall’architettura in ferro. La costruzione si sviluppa in altezza, non essendoci lo spazio per uno sviluppo orizzontale: sopra una pianta quadrata si innalza una cupola a vele sottilissime, un tempietto dorico e un’altissima guglia. I lavori vengono sospesi, ripresi, congelati; si dice che non è stabile, la comunità israelitica si rifiuta di continuare a pagare. La situazione si sblocca quando l’edificio in costruzione viene acquistato dal Municipio di Torino che lo destina a sede del Museo del Risorgimento. Nel 1888, anno di morte dell’Antonelli, raggiunge l’altezza di 165 metri: è l’edificio che celebra la vittoria dell’uomo sulla forza di gravità, l’onnipotenza raggiunta dalla tecnica, e riecheggia, nella sua concezione e nella sua simbologia, un altro monumento simbolo di quegli anni, la Tour Eiffel a Parigi. La città di Torino, dal punto di vista architettonico ed urbanistico, è ripensata e riprogettata. Occorre fare i conti infatti con una popolazione aumentata del 70% dal 1848 al 1861, con la carenza di nuovi alloggi, con il nascere dei primi grandi insediamenti industriali nella zona nord. Torino si autocelebra nelle periodiche Esposizioni Internazionali dell’Industria e dell’Artigianato, di cui particolarmente significative per il decollo industriale sono quelle del 1871, 1880, 1884, 1888, 1902 e 1911. Cambia in pochi anni l’aspetto della città, nei suoi luoghi cruciali. Per esempio nasce un nuovo modo di intendere la piazza. Da spazio aperto, al cui interno si svolgevano in forma pubblica le attività quotidiane, nella seconda metà dell’Ottocento diventa un nodo della circolazione dei veicoli, e assume importanza cruciale il monumento, spesso celebranti personaggi ed episodi risorgimentali (Torino è la città d’Italia con più monumenti). Nel 1894, simbolo di un nuovo modo di intendere la città e il suo sviluppo, viene aperta via Pietro Micca, che però i torinesi chiameranno per lunghi anni “la diagonale”, perché, tra lo sbigottimento generale, il suo andamento obliquo aveva rotto quel reticolo perfetto costituito dalle vie della zona. Perde importanza il mercato tradizionale che aveva messo in rapporto fino ad allora la città con la campagna, si allontanano dal centro le botteghe degli artigiani, sostituiti negli stessi edifici da negozi con le vetrine piene di prodotti alla moda. Trionfa il liberty, uno stile floreale elegante e ricercato, celebrato dalla Esposizione di Arte decorativa ed Industriale del 1902 dove aveva trionfato nei mobili, nelle ceramiche, nella progettazione degli edifici, delle vetrate, dei cancelli, degli oggetti di uso quotidiano. Non sono pochi però i problemi che la città deve affrontare, un anno dopo l’altro. Il più grande, nella seconda metà dell’ottocento, è sicuramente legato al trasferimento della capitale del Regno da Torino a Firenze (1865) che provoca un arresto dello sviluppo economico, un calo della popolazione, la necessità di una riconversione di immagine e di ruolo. Le condizioni di vita dei lavoratori sono molto dure: ancora nel 1906, dunque a crisi superata e a fronte di un grande sviluppo della industria meccanica e soprattutto automobilistica, il 33% degli alloggi operai è costituito da una sola camera dove vivono dalle cinque alle dieci persone. 1 TORINO NELL’OTTOCENTO. LE PRINCIPALI INDUSTRIE ED ATTIVITÀ ECONOMICHE DELLA CITTÀ La prima fase di industrializzazione torinese, all’inizio dell’Ottocento, è caratterizzata dal sorgere di lanifici, cotonifici e setifici. Queste industrie si servono all’inizio di macchinario straniero: il loro sviluppo costante sollecita il sorgere di industrie meccaniche. Seguono le industrie chimiche: numerose per esempio le fabbriche di zolfanelli. Altra grande attività è la lavorazione del tabacco. Due sono i grandi stabilimenti dove si svolge: la Regia Fabbrica di Torino, in via Po, e Regio Parco, e danno lavoro a oltre 600 persone (da tener presente che la popolazione all’iniziod el secolo è di 80.000 abitanti). Vi sono quindi in città cinque fabbriche di candele, di cui la più grande appartiene a Michele Lanza, il costruttore della prima automobile italiana a quattro ruote (1895). Coloro che lavorano a Torino appartengono generalmente alla categoria di commercianti, impiegati, militari (oltre 7.000), osti e albergatori, vetturini, carrozzieri, insegnanti. Tanti i minori: per esempio nelle manifatture laniere, oltre 6.000 persone impiegate, circa il 20 % della manovalanza era costituito da bambini. Notevole peso hanno le officine militari, non soltanto perché danno lavoro a tante persone (per esempio, all’Arsenale lavorano 750 operai; alla fabbrica d’armi Valdocco 600; alle Officine di Artiglieria, altri 600), ma anche perché da queste maestranze deriverà il primo nucleo di operai altamente specializzati con cui prenderà avvio l’industria automobilistica. Si trattava infatti di manodopera qualificata, meccanici, metallurgici, siderurgici, carrozzai, le cui competenze diventeranno ancora più preziose con il passare degli anni e l’affacciarsi di nuove attività. Negli anni in cui Torino è capitale del Regno gli operai metallurgici che lavorano in città sono circa 6.000. Poco meno numerosi gli operai che lavorano nell’industria del legno, circa 5.000; 6.500 quelli occupati nell’industria alimentare, soprattutto dolciaria; 2.000 invece sono impiegati nell’industria dei pianoforti. La popolazione aumenta lentamente, nel 1881 conta 250.000 abitanti. La distribuzione dei mestieri non cambia granché: circa 10.000 sono diventati gli operai meccanici e metallurgici, e 50.000 gli operai addetti alle attività industriali in genere. Ma la città è all’avanguardia per molti aspetti. Dal 1837 è dotata di un’illuminazione pubblica a gas: è la prima in Italia, la quarta in Europa. Nel 1896 è una delle prime città del mondo a dotarsi di un doppio sistema di fognature, con una rete di canalizzazione bianca ed una nera. Nel 1884, all’Esposizione Nazionale, viene presentata per la prima volta l’utilizzazione della energia elettrica per scopi industriali: una rivoluzione immensa, uno spartiacque tra ottocento e novecento di cui oggi fatichiamo a renderci conto. Per la prima volta alcuni padiglioni sono illuminati con l’energia elettrica, che si diffonderà non soltanto nelle industrie ma nelle case, rivoluzionando abitudini, ritmi, persino l’arredo domestico. Le condizioni di lavoro, invece, non sono ancora cambiate molto. Tanto alto è il ricorso alla manodopera infantile e femminile (sottopagata, più ricattabile e dominabile) che occorre addirittura una legge (1886) che proibisca il lavoro notturno dei minori di dodici anni e limiti a sei ore quello dei ragazzi da dodici a quindici anni. Con sempre maggiore frequenza si impiegano le donne, soprattutto nell’industria laniera (circa il 70% delle maestranze), con orari che toccano spesso le quattordici ore al giorno. Con l’avvicinarsi della fine del secolo le ore di lavoro diminuiscono ma non scendono mai al di sotto delle dodici giornaliere. Gli ambienti di lavoro sono tutt’altro che salubri, anche perché generalmente ricavati da edifici preesistenti, come cascine, conventi, collegi. Chi si ammala non ha tutela, e può anche essere licenziato. Ancora all’inizio del novecento vi sono fabbriche in cui le condizioni di lavoro sono pesantissime. Un muratore guadagnava tre lire al giorno, un operaio finito 2 lire e mezza, manovali o garzoni molto meno, da due lire a una lira e mezza. Un chilo di pane costava (1896) 35 centesimi, un chilo di pasta 50 centesimi, un etto di burro 30 centesimi, un chilo di riso 40 centesimi, un litro di latte 30 centesimi; un alloggio di due camere costava 15 lire al mese. Le donne guadagnavano molto meno: da mezzo centesimo e una lire e mezza; le strussere, ossie le bambine aiutanti delle filatrici, trenta centesimi. In certe fabbriche poi le multe erano un ottimo sistema di decurtazione dei salari. Si era multati di 30 centesimi se si era sorpresi a parlare, 2 20 centesimi per un ritardo di cinque minuti. Non vi erano sussidi per la pensione, fino al 1899, quando si varò il progetto di versare un assegno agli operai durante l’invalidità e la vecchiaia. COME SI SVAGAVANO I TORINESI Si adorava il ballo, in tutti i ceti sociali; e si andava molto a teatro, frequentato come oggi il cinema o forse più a tutti i livelli. Il caffè era un punto di incontro non soltanto sociale o mondano ma anche artistico, politico, culturale. Intorno al 1840 le “botteghe da caffè” a Torino sono più di cento, e vengono frequentati da tutti, braccianti, contadini, operai, uomini d’affari. Tutti usano bere il bicerin, deliziosa bevanda calda a base di caffè, panna, cioccolata. I caffè torinesi sono sempre forniti di giornali, riviste e quotidiani di ogni tendenza; era costume leggere il giornale al caffè, e questo dava esca ad interminabili discussioni politiche. Il Carnevale e le fiere erano scadenze molto sentite, e a cui tutti in città partecipavano. Molto attesi erano anche i balli al di fuori della cinta: il Ballo della Crocetta, della Madonna del Pilone, della Tesoriera. Si giocava alla pallacorda, sorta di tennis, o al pallamaglio, che ricorda il cricket; al pallone, che non conosce secoli; alle bocce. I bambini invece si trastullavano con il cerchio, i birilli, il cavallo a dondolo, la lanterna magica, il teatro dei burattini, le bambole. Da ricordare che molti luoghi oggi facenti parte della cinta urbana, come Lingotto, Mirafiori, Lucento, Regio Parco, allora (cioè fino alla fine dell’ottocento) erano zone lontanissime, mete di gite domenicali. I SERVIZI SOCIALI Nell’Ottocento ogni casa o gruppo di case disponeva di un pozzo nel cortile, dotato di un secchio a catena o di una pompa a mano per l’estrazione dell’acqua. Molto spesso questi pozzi erano in pessime condizioni igieniche, perché erano aperti e animali e rifiuti vi cadevano dentro o anche perché troppo vicini a fosse di scarico, con pericolo di infiltrazioni, molto frequenti. Occorre attendere il 1859 perché la Società Anonima per la condotta d’acqua potabili in Torino dia inizio ad un regolare servizio di acquedotto. Molte famiglie poi preferivano continuare ad attingere gratuitamente l’acqua dal pozzo anziché allacciarsi all’acquedotto e pagare un canone, e soltanto intorno al 1920 tutta la città è servita regolarmente di acqua potabile. D’altra parte erano poche le case con un bagno interno. I primi bagni sono installati nelle case dei signori a partire dal 1825; per il popolo, invece lavarsi significava andare al Po o alla Dora, oppure frequentare i bagni pubblici, allora frequenti. Oltre ai bagni, vi erano anche gli scaldatoi pubblici, ossia grandi camere riscaldate che enti di beneficenza mettevano a disposizione dei diseredati. Il primo è aperto nel 1844, si trova nel quartiere di Borgo Dora, e può accogliere 600 poveri. Gli enti di beneficenza sono i promotori anche dei primi ospedali. A Torino, intorno al 1850, ve ne sono dodici; il più importante è il San Giovanni Battista, d’antichissima fondazione (1300 circa). E’ presieduto dall’Arcivescovo di Torino, e accoglie tutti i malati. L’assistenza è gratuita soltanto per i più poveri, gli altri pagano una retta che varia da ospedale ad ospedale. Nel 1826 la città dispone, per l’illuminazione urbana pubblica, di 465 fanali ad olio; nel 1837, come già detto, vi è il primo esperimento di illuminazione a gas. I lampioni a gas sono appesi a sbarre fisse accessibili per mezzo di scale; di giorno queste sono custodite dagli “accenditori”, sotto l’atrio di Palazzo Madama. Naturalmente è illuminato soltanto il centro; e già nel 1851 funzionano 357 fanali, tra il plauso di molti e l’opposizione di altri che ne deploravano l’alto costo e il pericolo di scoppi. Solo nel 1884, con l’Esposizione del 1° aprile, si svolgono i primi esperimenti di illuminazione elettrica; in quell’occasione ha luogo a Torino la “festa della luce”: migliaia di lampadine illuminano per la prima volta, tra l’entusiasmo degli spettatori, la città che però, dopo quell’avvenimento, sarà ancora per molti anni rischiarata dai vecchi fanali a gas. Soltanto sul finire dell’ottocento comincia a diffondersi l’uso dell’illuminazione elettrica. Ma il servizio pubblico che cambia più l’aspetto della città è la comparsa delle tranvie. Le prime linee di carrozze a cavalli, intorno a Piazza Castello, sono del 1845. Questi “omnibus”, di cui le “giardiniere” rosse e gialle sono fino al 1925-30 un simbolo della città, passano alle fermate ogni 3 venti minuti ed il prezzo della corsa è di circa 20 centesimi, all’incirca un paio d’ore di lavoro di un operaio. Le giardiniere non avevano portiere; i vetri si abbassano completamente, le tendine color marrone dava loro d’estate quasi l’aspetto di velieri. Nel 1871 importante novità: le strade vengono lastricate e i cavalli trascinano le carrozze su rotaie, non più sul semplice acciottolato, con meno fatica e più rapidità. Nel 1889 si contano già diciotto linee, gravitanti tutte intorno al centro cittadino. Alcune portavano fino ai borghi esterni alla città, come quelle che collegavano con Moncalieri e Trofarelli, con Saluzzo, con Stupinigi e Vinovo, con Orbassano e Rivoli, con Venaria, con Cirié, Lanzo, Volpiano, Leinì. Molte tranvie compivano poche centinaia di metri e dovevano già fermarsi bloccate dai passaggi a livello. Nel Novecento, tra il ’20 e il ’30 si rimediò con qualche cavalcavia, finché il “piano di ferro” venne abbassato. Fino al 1897 sono i cavalli a garantire i trasporti pubblici; quell’anno il Comune elettrifica tutte le linee, fondando l’Azienda Tranvie Municipali. Anche l’istruzione è molto curata. Nel giro di dieci anni, dal 1850 al 1861, le scuole diurne e serali di istruzione primarie passano da 32 a 163. Curiosità: il primo doposcuola è organizzato nel 1895. DUE PRIMATI DI TORINO POCO NOTI: L’INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA. L’INDUSTRIA DOLCIARIA La prima proiezione cinematografica a Torino avviene sabato 7 novembre 1896, nel locale della ex chiesa dell’Ospizio di Carità in via Po 33, con la pellicola “L’arrivo del treno nella stazione di Le Ciotat”, di Lumière. Sulla Stampa del giorno dopo si leggeva: “Gli esperimenti di ieri sera dimostrano che la pratica ha perfettamente corrisposto alla teoria su cui si basa l’ingegnoso apparecchio…L’illusione è completa. Quando si spegne la luce e il quadro sparisce, gli spettatori prorompono in un applauso”. La prima casa di produzione cinematografica torinese: è la Anonima Ambrosio, fondata da Arturo Ambrosio, titolare di un negozio di articoli ottici e fotografici in via Roma, nel 1906 (diventa “Anonima” nel 1907 con l’afflusso di nuovi capitali), con sede in via Napione. Altre case di produzione torinesi, nate poco dopo, sono: la Itala Film, l’Aquila, la Sic-Unitas, la Pasquali, la Savoia, la Gloria, la Leonardo da Vinci, la Cenisio, la Corona, la Bonnard, la Sinat, l’Enotria; nel 1919 la Pittaluga (FERT) e molte altre. Nel 1915, quando scoppia la guerra, a Torino si producono centinaia di film dei più diversi generi: dal documentario alla “comica finale”, al dramma passionale, al film storico, avventuroso, western. Nell’arco di una decina d’anni lo spettacolo cinematografico invade la città, facendo una concorrenza massiccia al teatro. Nel 1907, sulla Stampa Giovanni Papini scriveva: “I cinematografi, con la loro petulanza luminosa, coi loro grandi manifesti tricolori, e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli delle loro orchestrine, i richiami stridenti dei loro boys rossovestiti, invadono le vie principali, scacciano i caffè, s’insediano dove già erano le halls di un restaurant o le sale di un biliardo, si associano ai bars, illuminano ad un tratto con la sfacciataggine delle lampadine ad arco le misteriose piazze vecchie, e minacciano a poco a poco di spodestare i teatri, come i giornali hanno spodestato i libri, e i bars hanno spodestato i caffè”. Nel 1915 a Torino sono attive 68 sale, un autentico primato nazionale, contro le 48 di Roma, le 40 di Milano e le 36 di Napoli. Piccole o grandi, hanno una capienza media tra i 150 e i 500 posti; ma vi sono alcune sale anche di 2 – 3.000 posti. Il costo del biglietto (1913) era di 30 centesimi per le prime visioni e 20 centesimi per le seconde visioni. Dopo la guerra sono ancora attive 41 sale, e 44 case di produzione. Nel marzo del 1919 si costituisce la S.A. Stefano Pittaluga, casa di produzione, potenziata nel 1926 con l’acquisizione degli stabilimenti FERT. In quello stesso anno la FERT Pittaluga raggiunge l’astronomico capitale sociale di 50 milioni di lire (nel 1924 la Fiat impiega 17.000 operai, e ha un capitale sociale di 400 mio). Nel 1936 risultano attive in Italia 5.235 sale cinematografiche, di cui 3.345 dotate di impianto sonoro. Di queste, 600 sono di associazioni dopolavoristiche e 1600 parrocchiali. A Torino ve ne sono oltre 60. 4 Nel 1953 i biglietti cinematografici venduti a Torino furono oltre 23 milioni. Da considerare che in anni recenti la frequenza annuale al cinema nella nostra città è sui 2/3 milioni, un rapporto di 10:1, a vantaggio di anni in cui la popolazione cittadina era molto inferiore… Le più celebri aziende produttrici torinesi di cioccolata, superiori persino a quelle svizzere, furono la Caffarel Prochet, la più antica (fondata nel 1826), la Talmone (1850), trasformata dal fondatore Michele e dai suoi cinque figli in un vastissimo complesso industriale, la Moriondo & Gariglio, iniziata nel 1870 in due cantine sotto il negozio Paissa da Agostino Moriondo che si associò in seguito al cugino Gariglio. Riccardo Gualino nel 1924 riunisce sotto un’unica ragione sociale (denominata proprio “Unica”) i marchi Talmone, Moriondo & Gariglio, IDEA, Società Fabbriche Riunite Galettine Biscuits e Affini, Dora Biscuits (tutte di Torino) e Bonatti di Milano. Nel 1934 la Unica si fonde con la Venchi, dando vita alla “Venchi Unica” Nel 1934, secondo i dati dell’Unione Nazionale Industria Dolciaria, a Torino erano attive settantuno aziende di dolciumi, con un numero di addetti complessivo di oltre 4.000 unità. TORINO ALL’INIZIO DEL NOVECENTO. L’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA Qual è la ragione della straordinaria “esplosione” automobilistica di Torino, che non solo ha creato macchine ma ha creato anche campioni e campionissimi, di cui si è spesso perduta memoria Senza l’industria automobilistica, Torino sarebbe rimasta un borgo operoso ma provinciale, importante per l’economia piemontese ma tutto sommato marginale per l’economia nazionale. Per dare un’idea della crescita vertiginosa dei quartieri torinesi ecco qualche dato. La frazione Molinette passò da 5.491 abitanti a 14.900 dopo che nella zona si erano insediate la Fiat, la Rapid e altre industrie ausiliarie. Il rione Crocetta vide la sua popolazione accrescersi nello stesso periodo da 1.880 a 10.000 abitanti; nei pressi erano sorte l’Itala, la Standard, la Diatto, la Spa. La Barriera di Milano passò da 5.750 a 25.000 abitanti per la presenza di stabilimenti Fiat ed Ansaldo. L’aumento più vistoso fu registrato dalle borgate Pozzo Strada e San Paolo dove erano concentrate quasi tutte le aziende automobilistiche: Scat, Ceirano, Itala, Spa, Chiribiri, Fast, Lancia, Nazzaro, Lux, Taurinia, Diatto, Fod, OMT ed altre ancora. In questi due rioni, con la massiccia costruzione di case per i lavoratori, si passò da 4.250 a 32.1000 abitanti. Nel 1901, su un totale di 335.650 abitanti, 14.900 lavoravano nell’industria metalmeccanica; nel 1911 la popolazione era salita a 427.000 unità e i lavoratori metalmeccanici venivano censiti in due diverse categorie: metalmeccanici in genere (16.800) e addetti all’industria automobilistica (14.600); nel 1927 gli addetti al settore auto sarebbero aumentati ulteriormente a 44.546 unità su di una popolazione di 550.000 abitanti, mentre i metalmeccanici in genere sarebbero risultati soltanto 10.200. Il perché di questo sviluppo vertiginoso, che non ebbe nemmeno Milano nonostante fosse all’avanguardia nel settore meccanico ha molte ragioni, tutte ugualmente valide e concorrenti. Torino, per esempio, era ottimamente collegata con la Francia, che sul finire del secolo era stata presa dalla frenesia delle vetturette e dei tricicli a vapore; Torino era il punto più propizio per scaricare merci di importazione provenienti d’Oltralpe. Altra ragione: l’abbondanza di acqua (Torino è la città dei quattro fiumi), il che significava per le industrie poter disporre di energia a basso costo. Ebbe il suo peso anche la geniale intraprendenza di tanti uomini: Giovanni Agnelli è sicuramente il più conosciuto, ma occorre rendere omaggio anche alla memoria dei fratelli Ceirano, di Lancia, di Diatto e di tantissimi altri imprenditori, progettisti, innovatori. Tutti questi capitani d’impresa poterono fin dall’inizio delle loro attività contare su una manodopera qualificata e preparata, in quanto proveniente da lavorazioni di alta precisione e tecnologia, come l’Arsenale, le industrie del legno e ferroviarie, che avevano lunga e salda tradizione in Torino. 5 Già nel 1854 la popolazione era accorsa in Piazza Castello per vedere la “macchina infernale” a vapore di Virginio Bordino, ufficiale del Genio Piemontese, che con trenta chili di carbone percorreva in un’ora otto chilometri, ma l’invenzione non ebbe seguito. Bisognava arrivare a Michele Lanza, proprietario di una fabbrica di candele steariche, perché fosse costruita una vetturetta a quattro ruote, la prima in Italia. A fare la parte del leone nella prima fase dell’industria automobilistica torinese furono i fratelli Ceirano. Costruttori nel 1898 della vetturella Welleyes, fondarono molte fabbriche, tra cui ricordiamo la Fratelli Ceirano, la Matteo Ceirano, l’Itala, la Junior, la Spa, la Scat, la Rapid, la Ceirano. Da notare che fu proprio la Welleyes a costituire, in nuce, il primo modello Fiat quando questa società, all’indomani della sua fondazione, rilevò disegni, attrezzature e personale della prima fabbrica Ceirano. La nascita della Fiat è datata 11 luglio 1899 con capitale di 800.000 lire. All’inizio la sigla veniva scritta per esteso (Fabbrica Italiana Automobili Torino) ma subito dopo venne adottata l’attuale, non senza qualche riserva da parte di un socio, per il quale la sigla scelta aveva un esagerato sapore biblico. All’inizio vi erano tre piccoli stabilimenti in cui venivano prodotte le vetture: i locali della Ceirano in corso Vittorio Emanuele 9, la ditta Martina in via Buniva; la carrozzeria Alessio, in via Orto Botanico. Per il nuovo stabilimento la scelta cadde su di un terreno vicino a Ponte Isabella, nell’isolato formato dalle vie Marenco, Monti, Chiabrera e corso Dante: aveva il vantaggio di essere attiguo alla carrozzeria Alessio e di utilizzare una costruzione (la Galleria del Lavoro) dell’Esposizione Generale Italiana del 1898. Nell’autunno del 1899 i primi 50 operai vi si trasferirono dall’officina di corso Vittorio Emanuele e iniziavano la produzione. Nel 1904, cinque anni più tardi, gli operai erano decuplicati (500) e le vetture costruite in un anno erano 268. Dal 1899 si assistette a tutta un fioritura di piccole industrie che si cimentarono nel costruire automobili. Avevano nomi altisonanti, ridondanti, come “Perfecta”, “Invicta”, “Itala”, “Mirabilis” e così via. Nel 1904 in città circolavano 145 auto e sei anni dopo erano 2013. Nacque il codice stradale (1901), primo di una serie infinita. Le multe erano, allora come adesso, salate. Intanto continuavano a nascere tante piccole industrie, tra il 1902 e il 1906, come la Taurinia, la Quagliotti, la Fert, la Rotor, la Krieger, la Gallia, la Lux, la Padus. Alcune di queste, poche per la verità, pur sorte su un principio artigianale, diventarono veri pilastri industriali. E’ il caso della Diatto, in corso Moncalieri. Avevano iniziato come fabbricanti di carrozze, proseguendo nella costruzione di vetture tranviarie e ferroviarie. Nel 1905 stipularono un accordo con una ditta francese, la Adolphe Clément, per la costruzione di vetture Torino. Nel 1909 vi lavoravano ben cinquecento operai; sciolti i legami con la casa francese, iniziarono a costruire vetture con il marchio Diatto. Vincenzo Lancia, invece, fondatore nel 1906 dell’omonima marca, aveva iniziato come pilota da corsa Fiat. Nel 1911costruiva già 1145 macchine all’anno, nel 1913 1700. I suoi prodotti avevano fama di robustezza, durata ed eleganza eccezionali, e godevano di un ampio mercato, in Inghilterra, Germania, Stati Uniti, Australia. Un altro grande marchio fu la Itala, fondata nel 1904 da uno dei fratelli Ceirano, e che nel 1907 si coprì di gloria vincendo il primo raid automobilistico della storia, da Pechino a Parigi. Si sviluppava intanto la concorrenza tra le “cittadine”, ossia vetture pubbliche ad un cavallo, e i taxi. Nel 1908 si contavano venti auto pubbliche distribuite fra sette stazioni. La tariffa era di una lira e venti centesimi per i primi duemila metri, come per una sosta di quattro minuti. La tariffa raddoppiava nelle ore notturne. Nonostante l’entusiasmo popolare per le esibizioni sui circuiti e l’audacia dei piloti, non mancavano accuse, ostilità e chiusure pregiudiziali. L’auto veniva di volta considerata un pericolo mortale, il simbolo del potere di una certa classe, fonte di rumore e morte: più di una volta piovvero fischi ed insulti se non addirittura sassi sui guidatori. L’automobile, soggetto di infinite caricature, veniva attaccata da molti conservatori, atterriti dai primi incidenti funesti. Salì agli onori della cronaca un brigadiere dei carabinieri che si appostava sulla salita per Superga e dava la multa a tutti gli automobilisti che passavano (tanto un motivo lo trovava sempre). 6 Ma l’automobile proseguì la sua marcia inarrestabile. Apparvero molte nuove marche anche negli anni a cavallo della prima guerra mondiale: la Nazzaro, la Chiribiri, la Temperino; e poi ancora la Fast, la Fata ed altre, che spesso si guadagnarono credito ed apprezzamenti sui mercati di mezzo mondo. Una doverosa menziona spetta ai carrozzieri. Agli inizi dell’industria automobilistica, le case costruivano soltanto le parti meccaniche delle macchine; toccava poi al cliente farle carrozzare affidando l’autotelaio ad un carrozziere di fiducia. Uno dei più importanti di Torino fu Marcello Alessio, che iniziò a lavorare per Storero, la Prinetti & Stucchi e la Bianchi di Milano, e Michele Lanza. Lo seguirono tanti altri virtuosi dello stile e del design: per esempio Alessandro Locati, di cui fu donata una vettura Itala al Pontefice, Giacinto Ciocca, Giovanni Farina, Eusebio Garavini, Giovanni Bertone. Per molti anni le vetture furono prive di parabrezza, considerato un accessorio, oltretutto pericoloso in caso di incidente. Il tergicristallo fu adottato soltanto intorno al 1920. Anche le portiere laterali furono per lungo tempo ignorate. Il motivo era semplice: in caso di incidente, il guidatore poteva saltare giù alla svelta; in discesa, se mancavano i freni, poteva balzare a terra e mettere un sasso sotto le ruote, per frenare la macchina (all’inizio le automobili disponevano di freni soltanto sulle ruote posteriori). La fiducia nei freni non era molta: ancora intorno al 1925 alcuni automobilisti tenevano in macchina una fascina: trascinata da una corda, garantiva una certa frenata supplementare nelle lunghe discese di montagna. Delle miriadi di industrie che abbiamo elencato sopravvissero soltanto quelle che poterono maturare una buona esperienza, e disporre di capitali cospicui, oltreché di uomini e di mezzi adatti. Inevitabilmente le altre industrie minori scomparvero, assorbite dalle maggiori. Resta l’importanza, se non il dovere, di ricordare quanti contribuirono alla nascita e all’espansione del “mezzo del secolo” e a fare grande il nome di Torino nel mondo. PERCHE’ TORINO CULLA DELL’INDUSTRIA (non soltanto dell’automobile) Vari fattori spiegano questa priorità: Disponibilità di energia idraulica, grazie alla presenza di quattro fiumi, Po Dora Stura e Sangone, e di molti canali. Tra questi i più famosi sono quelli del Martinetto e della Ceronda, intorno a cui si sviluppò il quartiere industriale di Borgo Dora; Vicinanza a collegamenti ferroviari cruciali: Torino è infatti molto vicina alla Francia (è del 1871 il traforo del Fréjus), e la ferrovia che la collega con Genova, altra tratta fondamentale nello sviluppo degli scambi commerciali, è del 1853 Tradizione di lavoro industriale, grazie al ruolo di capitale svolto da Torino da secoli. Nel 1668 infatti Carlo Emanuele II fonda l’Arsenale, per la fusione di cannoni; intorno all’Arsenale si sviluppano industrie di armi, di polvere da sparo, e altre del settore “pesante”, ossia metallurgico-meccanico, come l’Officina delle Strade Ferrate dello Stato; Presenza dell’industria del legno, per la costruzione delle carrozze reali e del seguito. Da queste aziende nasceranno i maestri carrozzieri dell’automobile; Presenza di manodopera specializzata, proveniente proprio dal settore metallurgicomeccanico. Nel 1862 su 200.000 abitanti, 6.000 erano addetti a questo settore, e 5.000 all’industria del legno; nel 1881, a fronte di una popolazione cresciuta a 250.000 anime, gli addetti al settore metallurgico sono raddoppiati, 10.000; nel 1911 le industrie torinesi (complessivamente) impiegano 70.000 operai (su circa 420.000 abitanti) Disponibilità di energia elettrica: nel 1896 a Torino viene fondata la S.A.Elettricità Alta Italia, nel 1932 è ancora il Piemonte ad essere primo tra le regioni italiane per la produzione di energia idroelettrica. Torino é la prima città in Italia a dotarsi di una rete di illuminazione urbana, dapprima a gas (prima città in Italia, quarta in Europa dopo Londra, Parigi, Vienna, nel 1838) poi elettrica (1907) 7 Bassi costi dell’energia. Gli anni dell’Amministrazione del Senatore Secondo Frola (19031909) sfruttano molto bene la legge del marzo 1903, che permette ai comuni l’assunzione diretta dei servizi. Nasce per esempio nel 1905 l’AEM (Azienda Elettrica Municipale), nel 1907 la ATM (Azienda Tranvie Municipale) Agevolazioni fiscali e di vario tipo per gli investitori esteri e nazionali. Nel momento in cui il ruolo di capitale d’Italia passa da Torino a Firenze, gli amministratori torinesi lanciano un appello agli industriali e agli investitori, perché vengano a Torino a fondare delle aziende, offrendo in cambio agevolazioni particolari (sgravi fiscali, energia idraulica ed elettrica a basso costo, disponibilità di terreni). All’appello del 1865 rispondono molti investitori stranieri, soprattutto svizzeri, che facevano capo alle varie banche dei De Fernex, Kuster, Donn, Geisser. Nel 1884 in Torino si contano sedici tra banche ed istituti di credito, tra cui la più antica era l’Opera Pia San Paolo, fondata nel 1556, e la Cassa di Risparmio, fondata nel 1827. Presenza di scuole specializzate: nel 1905 viene fondata, prima in Italia, la Scuola per Meccanici e Conduttori di Automobili, ma é già attiva la Scuola di Applicazione per Ingegneri, che si fuse nel 1906 con il Museo Industriale, unico istituto esistente in Italia fin dal 1862 inteso a promuovere l’istruzione superiore tecnica, e dando così origine al Politecnico. Le Scuole Tecniche Operaie San Carlo, nascono nel 1848 per iniziativa di Gabriele Capello come “Società di Mutuo Insegnamento”. In esse gli operai anziani analfabeti iniziavano al mestiere i giovani, i quali in cambio insegnavano agli anziani a leggere e a scrivere Rete di trasporto pubblico: nel 1890 sono già diciotto le linee di trasporto pubblico all’interno della città, lungo una rete di 58 km. Tale rete viene negli anni successivi elettrificata In sintesi Nel 1912 l’occupazione operaia nazionale nel settore automobilistico raggiunge le 12.000 unità, di cui 9.000 a Torino e il resto a Milano. Oltre il 70% della potenzialità complessiva è in sostanza concentrato nella città di Torino. Qui tre aziende, Diatto, Fiat e Itala, superano ciascuna i cinquecento addetti; le altre, duecento. Le motivazioni che contribuiscono a spiegare la scelta di Torino sono innanzitutto, la geniale audacia di imprenditori locali, la tradizionale predisposizione della manodopera a lavori meccanici in generale, la particolare sensibilità all’influenza esercitata dalla Francia, in quegli anni paese per eccellenza “dell’automobile”. Non va infine dimenticata una certa infrastruttura preesistente, costituita da buone officine meccaniche, dalla disponibilità di energia elettrica, dalla forte e attiva tradizione di eccellenti carrozzieri. A Milano si ritrovano, grosso modo, gli stessi elementi ambientali ai quali va aggiunto il confluire di disponibilità finanziarie interne ed estere, specialmente tedesche e svizzere. La diffusione dell’automobile in Italia avviene molto lentamente, il che è facilmente spiegabile con l’arretrata situazione economica generale, con il lento incremento del reddito pro-capite in Italia, con la generale propensione ad un prodotto potente ed elegante, anziché pratico e funzionale, il che si traduce inevitabilmente in alti costi d’acquisto e d’esercizio. Tutto questo limita la diffusione dell’automobile nel nostro paese, senza contare che la maggior parte della produzione nazionale è per l’esportazione (tranne nel periodo bellico, in cui vige il divieto di esportazione). Tuttavia, dalle 917 unità del parco vetture del 1901, si passa a 25.000 (1915) e 57.000 (1921), il che si traduce ad una macchina ogni circa 700 abitanti (1921) anziché ogni 37.000 (1901). Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile 8