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SUESSULA (NA) TRA TARDOANTICO
E MEDIOEVO
DOMENICO
di
CAMARDO, VITTORIA CARSANA,
AMEDEO ROSSI
PREMESSA
In questo contributo si presentano i primi risultati degli
scavi condotti, dal 1999 al 2002, nell’area urbana dell’antica Suessula dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università degli Studi di Salerno in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta e diretti dalla dott.ssa Daniela Giampaola e dal Prof. Luca Cerchiai.
Le vicende di Suessula, uno dei centri più importanti
della Campania antica (CERCHIAI 1995, pp. 26-31), interessano, senza soluzioni di continuità, un ampio arco di tempo
compreso tra l’età del Ferro e l’età romana fino a raggiungere il medioevo (Fig. 1).
Mentre della città era noto il materiale della necropoli
preromana, scavata dal barone Spinelli nella seconda metà
del XIX secolo e che solo da pochi anni si è ritornati a scavare (LA FORGIA, BASILE, GRASSI, RONGA 1996), dell’area
urbana si conosceva ben poco. Le uniche e brevi notizie
d’archivio erano relative ad uno scavo che lo stesso Spinelli fece alla fine dell’800, quando mise in luce una parte del
lastricato del foro ed alcuni edifici pubblici disposti ai margini della piazza (BORRIELLO 1985).
W. Johannowsky per primo affrontò il problema della
topografia della città antica e delineò l’estensione dell’area
urbana, circoscritta intorno alla Casina di caccia degli Spinelli (JOHANNOWSKY 1970; JOHANNOWSKY 1983 )
Nel 1996 la Soprintendenza Archeologica di Napoli, sotto la guida e l’impulso di S. De Caro, ha avviato un progetto
di ricerche sistematiche finalizzato alla delimitazione e all’esplorazione del sito antico, incaricando il Dipartimento di
Beni Culturali dell’Università di Salerno di avviare un programma di indagini con l’ausilio dell’aerotopografia e dei
sondaggi geoarcheologici. Tale programma ha contribuito a
definire e inquadrare cronologicamente i limiti dell’impianto urbano antico (DE CARO 1996; GIAMPAOLA 2002, p. 165).
Su queste nuove basi sono stati pianificati all’interno
della città, puntuali interventi di scavo che hanno interessato la zona immediatamente a sud-ovest della Casina Spinelli (Fig. 2), dove già si erano svolte le campagne di scavo
della fine dell’800 (GIAMPAOLA 2002, p. 166).
LO SCAVO
Dal 1999 sono in corso indagini che, su una superficie
complessiva di circa mq. 430, hanno permesso di recuperare i primi dati sulla conoscenza dell’impianto urbano della
città romana e, inoltre, di cogliere i relativi processi di trasformazione insediativa che investono l’area pubblica tra il
tardo-antico e l’altomedioevo.
Della città sono stati scoperti una parte consistente della piazza del foro ed alcuni edifici pubblici che si affacciano su di essa lungo il limite settentrionale, databili tra il
II sec. a.C. e il I sec. d.C..
Tra questi si sono messi in luce un tratto della basilica
(m 4,00×12,00 ca.) e una porticus (m 6,00×8,00 ca.) posta
poco ad est (Fig. 3). Il porticato è delimitato sul lato orientale da una strada basolata (larg. max. m 3,15; lung. max.
m 8,00) orientata nord-est/sud-ovest (N 12°W) che si immette nella piazza, provenendo da Nord. Tra la basilica e la
porticus, entrambe databili tra il II e I sec. a.C., si colloca
un piccolo sacello costruito nel corso del I sec. d.C.
In un periodo successivo, tra il III e il IV sec. d.C., non
si registrano interventi costruttivi, ma semplici rifacimenti:
ad esempio mentre nella porticus sono rimodellati gli ingressi ed è rifatta la pavimentazione, nella basilica avvengono delle sostanziali modifiche, tra le quali la realizzazione di un troppo pieno, che cambiano le funzioni originarie
dell’edificio.
Dopo questa fase si registrano i primi segnali di un lento e progressivo abbandono di questa parte della città che
sembra articolarsi in almeno due momenti: nella seconda
metà del V sec. d.C. si verifica l’abbandono e il crollo degli
edifici, che diventano, in alcuni casi, un luogo dove scaricare i rifiuti; in seguito, tra il VI e il VII sec. d.C., è abbandonata anche la strada basolata che, analogamente a quanto
avveniva nella piazza del foro, era rimasta in uso come percorso carrabile di cui si conservano tracce sulle rasature
delle strutture abbandonate.
Da questo momento nel foro e sulla strada basolata si
deposita uno strato di terreno sabbioso di origine colluviale,
la cui formazione precede di poco la costituzione di un sepolcreto nei ruderi degli edifici e nella piazza abbandonata.
Le dodici tombe recuperate riutilizzano le strutture più
antiche o sono scavate all’interno degli strati di scarico. Le
tombe, orientate in senso est/ovest (N 74°/78° E), presentano i defunti deposti con il capo ad ovest; nove sono inumazioni in posizione supina ed una sola tomba presenta una
deposizione secondaria: nella fossa, ai piedi del defunto,
era raccolto un altro scheletro. Mancano elementi di corredo ad eccezione di una sepoltura di bambino (T. 201) che
ha restituito uno spillone da acconciatura in osso lavorato:
tuttavia, in base ai rapporti stratigrafici, è possibile datare il
sepolcreto tra il VII e l’VIII sec. d.C.
Allo stesso ambito cronologico, nella parte dello scavo
prossima alla Casina Spinelli, appartiene un battuto pavimentale formatosi sulla pareggiatura di alcuni scarichi e
pertinente ad un’area abitata.
In seguito si assiste ad una intensa attività di spoliazione nell’area pubblica, con lo smontaggio delle gradinate
d’accesso alla basilica e delle lastre calcaree della piazza. A
questa attività, databile stratigraficamente tra l’VIII ed il
IX secolo, è connessa, nella parte orientale dei settori di
scavo, la costruzione di una fornace per la cottura della
calce. La fornace, ricavata nel terreno intaccando anche il
muro di fondazione della porticus, è costituita da una camera di combustione di forma sub-circolare (diam. max.
m 2,63) con il perimetro in blocchi di tufo di piccole dimensioni disposti secondo filari non regolari e un corridoio
di accesso (praefurnio) ad ovest (lung. m 3,88; larg. m 1,00).
In fase con la fornace, immediatamente a nord e a sud di
questa, sono scavate nel terreno due vasche adibite allo spegnimento della calce.
Una nuova cesura insediativa è segnalata da un mutato
assetto ambientale. Nella sequenza stratigrafia si individuano, infatti, consistenti apporti alluvionali, depositi di sabbie fluviali ricche di materiale archeologico dilavato, che
colmano l’area della piazza per circa m 1,00.
In questa zona le acque, favorite dalla scarsa pendenza
e per le particolari caratteristiche mineralogiche, producono la formazione di uno strato di travertino, denominato
localmente “pietra di pantano”, di ca. cm 30-40 di spessore.
Questo fenomeno si attua in un periodo precedente l’ XI
sec. d.C. quando nella zona riprendono le attività antropiche,
come documenta la realizzazione del tracciato di un alveocanale regolarizzato per drenare le acque: nella parte meridionale del percorso, il canale sembra piegare verso W, con
una curva e una pendenza costante da nord verso sud-ovest,
per evitare nuovi allagamenti nella piazza. Dalle sabbie di
colmata del canale, tra gli altri materiali, proviene un tarì
d’oro con legenda cufica databile nell’ XI sec. d.C. (Fig. 4)
In un periodo compreso tra l’XI e il XII sec. d.C. sugli
strati di sabbia è scaricata terra mista a materiali ceramici
con lo scopo di innalzare le quote e creare nuovi piani d’uso,
funzionali ad un insediamento di capanne di legno, servite
da un pozzo per attingere l’acqua. Dallo strato di riempi-
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mento della struttura sono state recuperate 15 brocche soprattutto dipinte a bande, integre o ricostruibili, ed i frammenti di diverse altre decine.
Del villaggio (Fig. 5) sono state identificate quattro unità
abitative (B, C, D, E) di forma ovale (dimensioni diam. max.
tra i m 4 e i m 6) ed una (A), al cui interno è stato individuato un focolare, dalla pianta rettangolare (lung. 5,70, larg.
3,40), che sfrutta come parete nord-occidentale l’angolo
formato dai ruderi della basilica e del piccolo sacello posto
ad est di questa. Il perimetro delle capanne è definito da
buche di palo che sorreggono un tetto in materiale deperibile: ognuna presenta all’interno almeno una fossa circolare per la conservazione di derrate alimentari. Di queste fosse ne sono state messe in luce otto, tre delle quali a forma di
tronco di cono (diam. ca. cm 100), foderate con pezzame di
travertino frammisto a malta sabbiosa. Le restanti, di dimensioni più piccole, sono, invece, prive di rivestimento.
Alla stessa fase è da ricondurre un profondo fossato situato ai margini meridionali dell’area indagata ( orientato
est-ovest (N 78°E), largo ca m 6, profondo ca. m 3,00 ) che
potrebbe aver avuto funzioni difensive.
Tra i materiali recuperati nello scavo degli strati d’uso
del villaggio è importante ricordare il rinvenimento, anche
se in giacitura secondaria, di una placchetta di bronzo (fibbia?) (cm 5,6×4,00) (Fig. 6) decorata con smalto cloisonné
in verde, blu, rosso e bianco, su cui si conservano i fori per
il fissaggio. Il tipo di decorazione a smalto colorato richiama alcune placchette rinvenute nel monastero di San Vincenzo al Volturno da contesti datati al IX secolo, interpretate come parte di coperta di libro o come reliquario (HODGES,
MITCHELL 1995, p. 52, figg. 3.25 e 3.26; MARAZZI 2002,
p. 31). Nel medesimo ambito culturale potrebbe anche rientrare una placchetta di bronzo decorata a sbalzo raffigurante un cavallino (cm 2,5×2,8) rinvenuta nello strato di humus.
L’abitato altomedievale viene abbandonato, ma per un
periodo breve. Sui livelli di abbandono si individuano, tra
il XII ed il XIII secolo, labili e sporadiche tracce di un insediamento più dimensioni ridotte rappresentato da una fossa
per l’alloggiamento di una piccola macina per il grano e da
una capanna di legno, ultime testimonianze archeologiche
di una occupazione antropica che da questo momento sembra esaurirsi definitivamente.
A.R.
I MATERIALI CERAMICI DEI PERIODI TARDO-ANTICO E ALTOMEDIEVALE
Le sequenze tardo-antiche e altomedievali dello scavo,
che comprendono un arco cronologico compreso dalla metà
del V secolo d.C. all’XI secolo, dall’abbandono dell’area
pubblica della città romana all’occupazione altomedievale
del sito, hanno restituito una discreta quantità di ceramica,
che, sebbene per alcuni periodi molto frammentaria, ha consentito di definire la cronologia delle diverse fasi. I materiali
ceramici rinvenuti, oltre a costituire una sequenza cronologica significativa, forniscono dati interessanti sulla circolazione e il consumo di manufatti in questo periodo in un’area
della Campania situata proprio al confine tra il territorio bizantino e quello longobardo del ducato di Benevento.
I contesti databili alla metà del V secolo d.C., che documentano l’abbandono dell’uso degli edifici pubblici (basilica e porticus) sono caratterizzati dalla presenza di ceramica comune e da cucina di produzione campana, associata
a sigillata africana C e D e pochi frammenti di lucerne e
anfore africane.
La sigillata africana è attestata, oltre alcune forme residue in A, soprattutto nella produzione C, con le scodelle
Hayes 50A (230-325 d.C.) e un frammento di Hayes 84,
databile tra il 400 e la fine del V secolo d.C. La produzione
D è documentata da pochi frammenti riconducibili alle scodelle Hayes 59 (320-400/420 d.C.) e 61 (325-450 d.C.).
L’evidenza sembra suggerire che la maggior parte delle
importazioni di vasi dall’Africa sia databile entro il primo
quarto del IV secolo (produzioni A e forme più antiche della C, ceramica africana da cucina), con scarse attestazioni
di IV-V secolo (produzioni C e D). Dopo la metà del
V secolo d.C. terminano le importazioni. dall’Africa ed i
contesti che documentano un uso della piazza e dell’asse
stradale ancora nei secoli VI e VII d.C., non restituiscono
ceramica di importazione.
La ceramica di produzione campana, comune e da fuoco, databile dal V al VII secolo d.C., presenta strette analogie da un punto di vista morfologico con vasi attestati in
coevi contesti della Campania, sia siti urbani come Napoli,
Capua, Benevento, che rurali, indicando una omogeneità
dei manufatti che riflette evidentemente un sistema di distribuzione e circolazione dei prodotti abbastanza efficiente a livello regionale e forse anche extraregionale (ARTHUR,
PATTERSON 1994). Non sono visibili, ad un esame macroscopico delle argille, differenze rispetto agli altri esemplari
campani, e solo analisi petrologiche su ampie campionature potrebbero individuare diverse zone produttive.
La ceramica comune dei contesti di V e VI secolo è
caratterizzata da vasi, soprattutto bacini e brocche, con le
superfici ingubbiate, per immersione o a straccio, produzione che si inserisce in una tradizione culturale ancora di
età tardo-romana, con forme che imitano la ceramica fine
da mensa importata dal Nord Africa. Nelle stratigrafie databili alla metà del V secolo d.C. sono attestati il bacino con
orlo ingrossato all’interno e segnato da due scanalature all’esterno (Fig.7, n. 1) e il bacino con listello (Fig.7, n. 2),
molto frequenti nei coevi contesti napoletani (ARTHUR 1994,
fig. 87 tipo 62 e fig. 81 n. 16). Dal VII secolo i vasi, purtroppo molto frammentari, sono caratterizzati da una decorazione dipinta a bande, presente sugli orli e anse delle brocche e sugli orli e sulle superfici interne ed esterne dei bacini; in qualche caso sugli orli dei bacini alla dipintura è associata anche una decorazione incisa a pettine con motivo
ad onda. I bacini (Fig. 7, nn. 3-5) trovano confronti abbastanza puntuali con analoghi esemplari rinvenuti a Benevento (CARSANA, SCARPATI 1998, figg. 76-79) in contesti databili dal VII all’XI secolo; vasi simili sono documentati in
altri siti altomedievali della Campania, a Napoli, Ischia, e
in Molise dal complesso di S. Vincenzo al Volturno
(PATTERSON c.s.).
Purtroppo l’evidenza ceramica è abbastanza esigua per i
contesti datati tra l’VIII e il X secolo, forse riflesso delle tormentate vicende di guerre e saccheggi cui fu sottoposta la
città e il suo territorio nel IX e X secolo, così come ci sono
narrate dalle fonti, ma i frammenti rinvenuti sembrano comunque indicare una continuità nell’uso dei prodotti ceramici. Tra la ceramica dipinta a bande rinvenuta non si notano
variazioni significative né da un punto di vista morfologico
né decorativo almeno fino all’XI secolo. Accanto ai vasi da
mensa e da dispensa lo scavo ha restituito anche una discreta
quantità di ceramica da cucina di produzione campana. Il
vasellame da fuoco rinvenuto nei contesti databili dal V al
VII secolo presenta ancora un’esecuzione di buona qualità,
con manufatti realizzati al tornio veloce, pentole, tegami e
olle, con diverse varianti che denotano probabilmente realtà
produttive differenziate in ambito locale. I tipi più documentati sono la pentola con orlo introflesso con ansa a presa semicircolare, a volte con impressioni digitali (Fig. 7, n. 6), e alcuni esemplari con orlo ingrossato all’esterno, scanalatura
per l’alloggio del coperchio (Fig. 7, n. 7), superficie esterna
polita a stecca, che imitano le forme dei vasi africani (forma
Hayes 197). La politura a stecca è presente anche sulle superfici di alcuni tegami a vasca poco profonda, fondo piano e
orlo leggermente introflesso, che richiamano anch’essi vasi
da cucina di produzione africana. Gli esemplari rinvenuti sono
abbastanza comuni in questo periodo non solo in Campania
(Napoli, Capua, Benevento), ma anche in molti siti del Mediterraneo centro-occidentale (CARSANA 1994, fig. 104, tipo
2; figg. 108-109, tipo 12).
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Fig. 1 – Carta topografica generale con ubicazione di Suessula
(Acerra-NA).
Fig. 2 – Suessula (NA). Stralcio topografico con ubicazione dell’area di scavo e della Casina Spinelli.
Fig. 3 – Suessula (NA). Area del Foro. Gli edifici pubblici
(II sec.a.C.-I sec. d.C.).
Fig. 4 – Suessula (NA). Tarì d’oro (US 4230/settore 10).
Nei contesti datati alla fine del VI-VII secolo si segnalano
alcuni contenitori eseguiti al tornio lento abbastanza grossolanamente, che potrebbero essere stati usati come testi da forno
per la cottura di pane o focacce. Questi vasi, con orlo indistinto, vasca poco profonda e fondo piatto, diventano poi abbastanza frequenti nei contesti dei periodi posteriori di X e XI
Fig. 5 – Suessula (NA). Area del Foro. Capanne di XI-XII sec. d.C.
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Fig. 6 – Suessula(NA). Placchetta di bronzo (US 4167/settore 10).
Fig. 7 – Suessula (NA). Ceramica comune decorata a bande nn. 15; Ceramica da cucina nn. 6-8.
Fig. 8 – Suessula (NA): Ceramica comune decorata a bande nn. 9-14;
Ceramica da cucina nn. 15-16; Ceramica a vetrina pesante n. 17.
secolo (Fig. 7, n. 8), simili ad esemplari rinvenuti a Benevento
dallo scavo nell’area del monastero di S. Sofia da stratigrafie
databili dall’VIII al XII secolo (CARSANA 1998, fig. 101, nn.
68-70). Come è documentato in altri siti della Campania il panorama delle forme da cucina cambia notevolmente dopo il
VII secolo, con la scomparsa delle forme aperte (pentole e tegami), forse sostituite da recipienti in metallo, e la presenza
quasi esclusiva dell’olla e dell’olletta monoansata da fuoco,
con orlo estroflesso, ansa schiacciata che tende a sopraelevarsi,
e fondo leggermente convesso. La produzione delle olle, realizzate al tornio veloce con impasti di buona qualità, pareti
abbastanza sottili, fondi lisciati, è di un livello qualitativo discreto, soprattutto dall’XI secolo (Fig. 8 nn. 15-16). Il passag-
gio dall’uso della pentola all’olla, di capienza minore e adatta
alla cottura di cibi semiliquidi come legumi o farinate a base di
cereali, è documentato in molti siti altomedievali e sembra riflettere mutate abitudini alimentari. I testi da pane, tipici dei
siti rurali e urbani altomedievali, indicano invece una produzione di tipo diverso, forse anche di tipo familiare.
Con la rioccupazione del sito nell’XI secolo, documentata
dal villaggio di capanne insediato nella zona del foro della città antica, l’evidenza ceramica è nuovamente consistente, soprattutto grazie ai riempimenti del pozzo e dei silos granari.
Significativo è infatti il rinvenimento di circa 15 brocche integre o ricostruibili, oltre a numerose altre frammentarie recuperate nel riempimento del pozzo, soprattutto dipinte a bande, ad
eccezione di pochi esemplari da fuoco. I vasi sono realizzati in
un’identica argilla di colore arancio (Munsell 5YR7/6-7/8),
compatta, con inclusi calcarei e vulcanici, e presentano un repertorio formale estremamente ripetitivo. Morfologicamente
sono inquadrabili in un tipo fondamentale, la brocca monoansata (solo due anfore biansate) con due dimensioni, un contenitore più grande, alto circa 24 cm ed uno piccolo, alto circa 18
cm. (diametro 8 cm); l’orlo è arrotondato, quasi sempre trilobato, collo alto, corpo globulare, ansa a nastro che attacca inferiormente nel punto di massima espansione del vaso e superiormente sotto l’orlo, fondo leggermente convesso (Fig. 8, nn.
9-14). Anche i motivi decorativi sono ricorrenti: una banda
rossa sull’orlo, bande rosse verticali parallele sul collo ed archetti continui, cappi o cappi rovesciati, posizionati tra la spalla ed il punto di massima espansione della pancia dei vasi. I
confronti puntuali con vasi provenienti da contesti campani di
XI-XII secolo, da Altavilla Silentina, Capaccio Vecchia (SA) e
dall’area pestana (JANNELLI 1983, tav. XIV, c; EAD. 1984, tav.
XXV; EAD. 1985, fig. 4) denotano una produzione abbastanza
standardizzata, con un livello qualitativo non molto elevato
che comprende una gamma ristretta di forme ed una decorazione non particolarmente curata, che circolava in alcuni siti
rurali della Campania, ma non sembra arrivare in città come
Napoli, dove la ceramica dipinta coeva presenta forme diverse
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Fig. 9 – Suessula (NA). Casina Spinelli. Torre medioevale.
e decorazioni più accurate. La ripresa dello sfruttamento agricolo del territorio attraverso piccoli insediamenti rurali comportò probabilmente la riorganizzazione di attività artigianali
locali, quali la produzione dei manufatti ceramici, forse con
vasai semi-professionisti che si spostavano tra i diversi villaggi. Nell’anno 1090 è attestato un magister figulorum operante
nel territorio ebolitano presso Salerno (BERGAMO 1946).
Solo con l’insediamento di XI secolo sono documentati
prodotti ceramici più pregiati, come attestato dalla presenza di pochi frammenti di ceramica a vetrina pesante, ad eccezione di un boccaletto biansato rinvenuto quasi integro
nel riempimento di un silos (Fig. 8, n. 17), che trova un
confronto puntuale con un vaso proveniente da Salerno dalla
Chiesa del SS. Salvatore (ALFANO, PEDUTO 1992, tav. II, 2).
Associata alla ceramica a vetrina pesante si rinvengono
alcuni prodotti di importazione, costituiti da frammenti di
anfore a cannelures, provenienti dalla Sicilia (MOLINARI 1994), la cui presenza sembra abbastanza costante nei
contesti campani di XI e XII secolo, sia urbani che rurali
(Napoli, Salerno, Benevento, Fratte, Capaccio Vecchia,
Altavilla Silentina) e che attestano una ripresa della circolazione delle merci in Italia meridionale.
V.C.
L’INSEDIAMENTO DI SUESSULA TRA IL TARDOANTICO E L’ALTOMEDIOEVO: LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA E LA TRADIZIONE STORICA
Nel VI sec. d.C. la città di Suessula, come il resto della
Campania, subì le lunghe e tormentate vicende della guerra
greco-gotica. Non abbiamo notizie degli eventi che riguardarono la città in quegli anni, anche se recentemente è stata
avanzata l’ipotesi di vedere in Suessula un centro fortificato bizantino, posto a controllo del tratto settentrionale della
Via Appia. L’ipotesi si basa sull’identificazione della stessa
con il kastron Souessas, citato da Giorgio di Cipro (ZANINI
1998, pp. 273-274), fortezza che era stata variamente collocata, da Sessa Aurunca a Susa, dagli studiosi che si erano
occupati del problema.
I dati di scavo provenienti dall’area del Foro sembrano
indicare che la città era in crisi già prima dell’arrivo dei
Longobardi, quasi che questi, come in altre similari situazioni, abbiano avuto il ruolo di moltiplicatori di un processo di trasformazione che già era in atto (DELOGU 1994, p. 14).
L’azione di spoglio della basilica e della porticus ed il loro
abbandono sembra innescarsi dopo la metà del V sec. d.C.,
mentre la pavimentazione del Foro e la strada che costeggia
la porticus sono ancora utilizzate e tenute sgombre da rifiuti.
La crisi si acuisce nel corso del VII-VIII secolo coinvolgendo anche la piazza del Foro che è occupata da sepolture come la Basilica e la porticus. In quest’ultima nel corso del IX sec. è costruita la grande calcara, indizio evidente
del funzionamento di un’attività edilizia.
Tra il IX ed il X sec. il Foro ha totalmente perso la sua
funzione e sembra essere del tutto abbandonato. Si depositano in questo periodo spessi strati alluvionali, dovuti alle
mutate condizioni ambientali ed alla crisi dei sistemi di irregimentazione delle acque, che provocano periodici allagamenti in questa zona della città e la formazione di placche di travertino.
Le fonti confermano che Suessula nel IX sec. d.C. andò
incontro ad un periodo di grande instabilità collegato alla
sua posizione di frontiera tra longobardi e bizantini. Nella
cronaca di Erchemperto si incontrano numerosi riferimenti
alla città, gastaldato longobardo dipendente da Capua, il
cui territorio è frequentemente al centro di eventi drammatici, scorrerie e distruzioni. Particolarmente interessante
appare un passo dell’863 (Erchemperto, cap. 30 p. 22) in
cui si fa riferimento all’occupazione del castello di Suessula
da parte di Pandonolfo, conte di Capua, che ne tenne il controllo fino all’867. Proprio a questa fortificazione potrebbe
essere ricollegata la torre ancor oggi esistente nel sito dell’antica Suessula, nel punto morfologicamente più elevato,
inglobata nella Casina Spinelli costruita nel 1778 (CAPORALE 1890, pp. 22-23) (Fig. 9). La torre, di forma troncoconica, vuota all’interno, è stata realizzata con blocchi di tufo
accuratamente messi in opera in corsi orizzontali, con una
sola apertura in alto e senza saettiere (PEDUTO 1990, p. 322;
ID., 1994, p. 292; NATELLA, PEDUTO 1994, pp. 402, 406-407).
La tecnica costruttiva in opera quadrata di blocchi di tufo
richiama quella della torre circolare del castello di Acerra,
che recenti indagini archeologiche hanno permesso di datare al IX secolo. Future indagini permetteranno di definire in modo più certo la cronologia del monumento e di
stabilire se esso era isolato o collegato ad un sistema difensivo, come sembrerebbe indicare una prima ricognizione
delle strutture inglobate nella Casina Spinelli (ROBOTTI 1997,
pp. 199-209). L’ipotesi avanzata da W. Johannowsky
(JOHANNOWSKY 1970, pp. 755 ss.) che quest’ultima era stata
edificata sul sito del teatro romano della città potrebbe indicare che la torre altomedievale fu eretta in collegamento
con il monumento, tipo di edificio che per la sua forma e
struttura era facilmente trasformabile in un fortilizio.
Nell’871 Suessula fu coinvolta nelle vicende connesse
all’assedio saraceno di Salerno. Infatti fu proprio presso
Suessula che i Capuani intercettarono e distrussero una gruppo di 1000 saraceni (Erchemperto, cap. 35 pp. 47-48). Nuove distruzioni si ebbero a Suessula nell’880-881, quando
Erchemperto narra delle scorrerie realizzate dai Saraceni, alleati di Atanasio vescovo e duca di Napoli, in Campania e
nelle regioni vicine. L’autore specifica tuttavia che la devastazione di Suessula non fu opera dei Saraceni, ma fu perpetrata con l’inganno dai Cristiani (Erchemperto, cap. 44, 48
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pp. 56, 59). Nell’884 i Saraceni provenienti dal campo fortificato di Agropoli uccisero circa 200 Capuani nei dintorni di
Suessula, presso il fiume Clanis (Erchemperto, cap. 56 p. 65).
Suessula dové subire un nuovo saccheggio nell’887 ad opera
di gruppi di Materani, Capuani e Pugliesi al comando di
Atenolfo conte di Capua.
La città, sia pure in stato di profonda crisi, continuò a
vivere nel corso del X secolo. Le fonti ci informano che era
sede vescovile suffraganea dell’arcidiocesi di Benevento,
come si ricava da una bolla del pontefice Giovanni XIV,
datata al 984. Situazione confermata da papa Gregorio V
nel 998 e da Leone IX nel 1053 (UGHELLI 1722, VIII, pp. 69,
72, 78). La fine della diocesi è da porsi proprio alla metà
dell’XI secolo. Infatti l’ultimo documento in cui si parla
dei vescovi Suessolani è del 1054, mentre in un elenco di
vescovi suffraganei dell’arcidiocesi di Benevento di cinque
anni successivo non compare più quello di Suessula. Probabilmente la diocesi era già stata unita a quella di Sant’Agata dei Goti, il cui vescovo assunse la denominazione
di Episcopus Sanctae Agathae Gothorum et Suessulae (CAPORALE 1890, pp. 18-19; KEHR 1935, VIII, pp. 476-477).
La cattedrale della città di Suessula, che era intitolata a S.
Michele Arcangelo (CAPORALE 1890, p. 18), sorgeva distante
dalla zona del Foro, in un’area che conserva il toponimo di
Vescovado. Era situata presso la cinta muraria d’epoca classica, così come è documentato in diverse città altomedievali italiane (PANI ERMINI 1989, pp. 64-82; CANTINO WATAGHIN 1989,
pp. 35-47). I suoi ruderi erano ancora visibili nel XVIII sec.,
quando il Lettieri ricorda la località nel bosco di Suessula, ove
si diceva il Vescovado; ed eravi un pilastro con muri cadenti,
tra le rovine di antiche fabbriche (LETTIERI 1778).
L’abolizione della diocesi costituisce un significativo
segnale dell’avanzata crisi in cui versava la città intorno
alla metà dell’XI secolo. Tuttavia è proprio in questo periodo che l’area del Foro, dopo la realizzazione di canali di
drenaggio, fu di nuovo occupata da un insediamento di capanne che in parte sfruttavano i resti di edifici ancora in
luce. La scoperta di silos granari in cui si sono rinvenute
falci, roncole e strumenti per la cardatura della lana, chiarisce che tale comunità si dedicava all’agricoltura ed all’allevamento. L’insediamento in questo periodo aveva probabilmente forma di abitato sparso, con gruppi di abitazioni che si
alternavano a campi coltivati. Tale aspetto sembra anche ricostruibile da un importante documento del 1028, dove una
certa Sellecta, vedova di Sergio Porclacca, per ripianare i
debiti del marito, vende un fondo situato intus Sessola Vetere
(R.N.A.M., IV, pp. 204-205, doc. CCCXXXVII). Dal documento si possono ricavare una serie di dati interessanti: è
redatto in civitate Suessula, che in quel momento era sotto
il controllo bizantino, come ci informa l’intitolazione del
documento che fa riferimento all’imperatore d’Oriente Costantino VIII. Nella città è presente un funzionario pubblico che ha funzione di giudice. Infatti Sellecta per poter perfezionare la vendita del fondo deve andare ante presentiam
nostrorum comitibus. Altrettanto interessante è la descrizione del fondo con i suoi confini. Sellecta aliena la proprietà del fondo, ma tiene per sé l’adiacente appezzamento
con la casa. Il podere confina con la proprietà di Donato
figlio di Andrea, con la proprietà di Sparano figlio di Mara
e, infine, con la terra di Fasano figlio di Stefano Lupo. Questa così precisa indicazione dei confinanti è sintomo di vitalità dell’area, che rivela come in questa zona della città
esistesse ancora un’articolata divisione della proprietà.
In questo periodo funzionano ancora, nell’area dell’antica
città, una serie di chiese, di cui abbiamo traccia nelle fonti. In
un documento del 1097 Riccardo principe di Capua conferma
al monastero di S. Lorenzo d’Aversa una serie di donazioni già
fatte nel 1087. Tra le chiese donate è ricordata quella di S.
Lorenzo, situata a Suessola, nel pantano vicino al bosco, con
tutte le sue pertinenze, terre e villani (R.N.A.M., V, p. 232,
doc. CCCCXXXIX). Nella seconda metà dell’XI secolo la disgregazione di Suessula, dal punto di vista amministrativo e
giuridico, sembra essere un fatto compiuto. Il documento sopra citato per definire la chiesa di S. Lorenzo dice che è in
territorio Acerre dato che il territorio dell’antica città è ormai
unito a quello della confinante Acerra. Infatti in un documento
del 1113 è citato Giovanni di Acerra, figlio del fu Leonardo
che fu conte di Suessula ed Acerra (R.N.A.M., V, p. 368, doc.
DXLII). Nel 1114 il vescovo di Acerra concede ai monaci della chiesa dei SS. Sergio e Bacco la chiesa di S. Pietro a Cancello, situata nel territorio suessolano, desolata e cadente per la
mancanza di abitanti nei dintorni. Nel documento la stessa situazione sembra riferibile anche a Suessula. Infatti nel testo è
citato Goffredo de Medania Suessulanorum et Acerranorum
domino, rectore ac gubernatore che versa una decima al capitolo della cattedrale su ciò che possiede in tota terra castro
quod Sessula vocatur pertinente tunc temporis habebat atque
habiturus erat (R.N.A.M., V, 1114, doc. DLVIII).
Lo stesso Goffredo de Medania in un documento del
1116, nel quale si definisce ancora signore dei Suessolani e
degli Acerrani, dona all’abate della chiesa di S. Lorenzo di
Aversa le decime di tutto il territorio di Suessula, con i mobili
e gli immobili appartenenti al suo dominio, con le decime
di tutta la platea di Suessula e di tutta la platea di Acerra, ed
ancora l’intero molino detto Dell’arco e l’intero molino vicino al molino della chiesa della Vergine, appartenente al
vescovo Giraldo, e tutti interi i fusari di Mefito. Con la condizione che nessuno degli uomini del De Medania, siano
essi Suessolani o Acerrani o di tutta la terra della palude,
osassero macerare il lino in altra acqua se non nei predetti
fusari chiamati Canneto (R.N.A.M., V, 1116, pp. 38 ss.).
La città sembra volgere al termine della sua storia. Le
indagini archeologiche nel Foro di Suessula hanno mostrato che dopo l’abbandono del villaggio di XI secolo l’area
sembra essere stata occupata nel XII-XIII secolo solo in
modo sporadico. Contemporaneamente nei documenti si
moltiplica la citazione nel territorio di Suessula di aree boschive e di zone con acque stagnanti.
Dal punto di vista amministrativo Suessula è ormai unita
ad Acerra, ma il suo territorio non è abbandonato. Questo
aspetto lo rivela il sopra citato documento del 1116, che
riporta dettagliatamente i confini dei fusari detti Canneto
che confinano con le proprietà di ben 21 privati ed alcuni
enti religiosi; a conferma che queste zone, anche se palustri
e boschive, erano caratterizzate da una proprietà viva e da
un’economia attiva. L’ambiente palustre si afferma nel territorio di Suessula nei secoli dell’alto Medioevo, in seguito
al venir meno dell’irregimentazione delle acque superficiali. Ma questo tipo di ambiente caratterizzava da sempre l’area
ad Ovest della città. Carotaggi realizzati in località Pantano
hanno infatti mostrato la presenza di una diffusa area palustre che vive, senza soluzione di continuità, della preistoria
all’epoca moderna. Questa zona in epoca medievale non
era abbandonata ma soggetta ad un tipo particolare di economia, come rivelano aree con simili condizioni in altre
regioni d’Italia (TRAINA 1994, p. 93), dove in epoca medievale la caccia e la pesca si coniugavano con lo sfruttamento
delle zone boschive e con un’agricoltura specializzata basata sulla coltivazione del canneto, del salice, di lenticchie,
di vitigni palustri (TRAINA 1988, pp. 101-108).
Inoltre i fusari, già ricordati in documenti dell’XI e XII
secolo (R.N.A.M., V, 1114, 1116; CAPORALE 1890, p. 19),
erano utilizzati per la lavorazione del lino e della canapa,
anche se contribuirono, con i miasmi derivanti da quest’attività, a rendere ulteriormente insalubre l’area e poco adatta all’insediamento. Per molti secoli, oltre che per la presenza di alcuni molini e dei fusari, l’area dell’antica Suessula
fu ricordata per la presenza di un fitto bosco, usato come
riserva di caccia dai conti di Acerra. Questa foresta fu abbattuta solo dopo il 1830, il terreno dissodato e rimesso a
cultura. Il ricordo della selva sopravvive nel toponimo di
Bosco di Calabricito, ancora correntemente utilizzato per
indicare l’area.
367
D.C.
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APPENDICE
LE ANALISI ARCHEOBOTANICHE A SUESSULA: UNA
PRIMA RICOSTRUZIONE DELL’AMBIENTE DEL XIIXIII° SECOLO D.C.
Introduzione
In un contesto archeologico sono molte le discipline che
si mettono in gioco per ricostruire un ambiente passato. Gli
studiosi di ciascun settore riescono ad ottenere, dai dati che
emergono dagli scavi, informazioni che, integrate tra loro,
completano o cercano di completare la visione d’insieme
del sito. Tra queste discipline, l’archeobotanica studia i resti vegetali conservati nei sedimenti, e, attraverso la ricostruzione del paleoambiente, fornisce numerose risposte
circa l’economia, il tipo di paesaggio in cui viveva e l’impatto antropico.
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L’antracologia è un ramo dell’archeobotanica che permette di ricostruire il paleoambiente con grande dettaglio
spaziale; questa disciplina si basa sull’identificazione botanica e sulla eventuale datazione dei frammenti di legno carbonizzato; in ambiente mediterraneo, può essere considerata la più redditizia tecnica di indagine archeobotanica. Il
ritrovamento di resti di legno carbonizzato in un contesto
archeologico è tuttaltro che un evento eccezionale, visto che
in passato l’uso del legno era legato ad un grande numero
di attività a ciclo regolare e controllato (cucina, forni, fornaci, focolari), o accidentale (incendi). Si tratta comunque
di eventi sempre differenti, che devono essere attentamente
valutati al momento dell’interpretazione. La frequenza dei
ritrovamenti di residui carboniosi nei contesti archeologici
è spiegata anche dal fatto che la carbonizzazione rende i
materiali chimicamente inerti, quindi non alterabili da processi biologici degradativi.
368
Tab. 1 – Taxa rinvenuti nelle US analizzate.
Il metodo antracologico
L’analisi antracologica consiste nell’osservazione per
ogni frammento di carbone, dei caratteri diagnostici osservabili sulla sezione trasversale e sui piani longitudinali: l’insieme dei caratteri osservati consente di attribuire un campione ad un taxon, che può riferirsi anche ad entità di livello superiore a quello di specie. In questo caso l’identificazione è stata eseguita osservando i carboni con un microscopio a luce riflessa munito di contrasto interferenziale
(×100, ×200, ×500), con l’ausilio di atlanti di anatomia del
legno (G REGUSS 1959; C AMBINI 1965; C OUVERT 1977;
SCHWEINGRÜBER 1990; ABBATA EDLMANN et al. 1994).
Per convenzione in antracologia in casi particolari, oltre alla nomenclatura di norma utilizzata per definire la specie, si impiega una terminologia specifica (CHABAL 1997):
– il nome del genere (Alnus, Carpinus, Quercus) è impiegato per identificazioni che si sono limitate alla definizione
dello stesso;
– il termine confronta (cfr.) è usato per indicare una forte
probabilità di identificazione, e può essere utilizzato sia a
livello di specie (Fraxinus cfr. F. angustifolia) che a livello
superiore (cfr. Fraxinus);
– il binomio che riporta due generi associati (Salix-Populus)
è impiegato quando non è possibile distinguere i due taxa
per la forte corrispondenza dei caratteri anatomici.
I carboni di Suessula
Le analisi antracologiche hanno riguardato un numero
limitato di us; il numero di frammenti di carbone in alcune
di queste scende all’unità. In tutto sono stati identificati 9
taxa (vedi Tab. 1); l’esiguità dei campioni osservati non
permette al momento di effettuare valutazioni quantitative,
ma il significato ecologico di alcuni taxa permette comunque una prima ricostruzione del paesaggio passato e dell’uso delle risorse legnose.
Il paesaggio dei rilievi calcarei preappenninici
LECCIO – QUERCUS ILEX
Il leccio è considerato l’albero più tipico della vegetazione mediterranea, è una quercia sempreverde che spesso, soprattutto in corrispondenza di suoli sottili su matrice calcarea
va a costituire estese formazioni monospecifiche. Sulle colline dell’area in esame è presente, soprattutto in corrispondenza
di suoli sottili. Si tratta di una specie relativamente termofila,
che resiste bene alle basse temperature e al taglio ripetuto. Il
suo legno è denso, duro e compatto, difficile da lavorare ma
ottimo come combustibile e come carbone. Oggi è presente
nell’area in esame come in tutto il sistema dei rilievi costieri e
subcostieri della costa medio-tirrenica, dove forma boschi anche molto estesi. La sua presenza è limitata alla us 4230.
ROSACEAE
I caratteri anatomici osservati permettono di arrivare
solo all’identificazione della famiglia, che comprende molte specie arbustive ed arboree con caratteristiche ecologiche anche molto diverse.
CORBEZZOLO – ARBUTUS UNEDO
Arbusto o alberello sempreverde alto fino a 8 m, tipico
della macchia mediterranea e delle leccete; vegeta anche ai
margini dei boschi, in ambienti leggermente umidi.
Il paesaggio della pianura pedemontana acerrana
QUERCE DECIDUE – QUERCUS TIPO CADUCIFOGLIE
Il termine querce caducifoglie comprende specie diverse di querce a foglia caduca, non distinguibili in base ai
caratteri dell’anatomia del legno. Per l’area geografica in
questione devono essere considerate la roverella (Quercus
pubescens), la farnia (Q. robur), la rovere (Q. petraea) e il
cerro (Q. cerris). Attualmente solo il cerro e la roverella
sono ben rappresentate nella vegetazione attuale, mentre la
rovere e la farnia debbono essere considerate rare.
La roverella è un albero che raramente raggiunge i 25 m,
si trova comunemente nei boschi cedui del piano collinare ed è
specie termofila, la più rustica tra le querce considerate, ambientandosi meglio delle altre a condizioni di aridità e di suolo
sottile. Il cerro può raggiungere i 30 m, è specie più esigente in
fatto di umidità, ed è molto comune nella fascia di vegetazione
del castagno dove tende a formare boschi monospecifici. Il
legno di queste specie è duro e resistente, ma è di difficile
lavorabilità e tende ad imbarcarsi; è ottimo per la produzione
di carbone. Sia il cerro sia la roverella sono comuni in Campania e nell’ area di studio. La rovere e la farnia hanno caratteristiche ecologiche nettamente differenti dalle querce già descritte; il primo è un albero che può raggiungere e superare i
40 m di altezza, è specie del piano collinare-montano, predilige i suoli profondi ed è molto esigente in fatto di umidità; oggi
è rara nella regione mediterranea. La farnia può raggiungere le
stesse dimensioni della rovere, era un tempo comune in tutti i
boschi di pianura necessitando di suoli profondi e di notevole
disponibilità idrica. Oggi questi boschi (boschi planiziali), tipici delle piane alluvionali a drenaggio normale, sono quasi
scomparsi in Italia e in generale in tutta l’area mediterranea.
Entrambe queste specie forniscono un legno di ottima qualità,
adatto per le costruzioni ed ottimo come combustibile. Non si
può escludere che i carboni in questione possano essere riferibili proprio alla farnia, caratteristica componente dei boschi di
pianura. I carboni di questo taxon sono stati rinvenuti nelle us
4230 e 4306.
CARPINO – CARPINUS
Al genere Carpinus sono ascrivibili due specie, il carpino bianco (C. betulus) e il carpino orientale (C. orientalis).
369
I caratteri anatomici, non permettono di discriminare tra le
due. La prima è specie sciafila e preferisce suoli profondi,
spesso è associata a Quercus robur nelle foreste planiziarie;
la seconda è dotata di maggiore rusticità e xerofilia con predilezione per i suoli calcarei.
ONTANO – ALNUS
Anche in questo taxon, non si può spingere l’identificazione a livello di specie a causa della forte omologia dell’anatomia del legno; è plausibile che si tratti di ontano napoletano
(Alnus cordata) o più probabilmente di ontano nero (Alnus
glutinosa). Il primo ha un areale limitato, lo si trova in Italia
meridionale sull’Appennino campano-lucano e su quello calabrese. È una specie che si adatta bene ai terreni argillosi,
sassosi e poco fertili; rifugge i terreni con ristagni di umidità e
resiste bene al secco. L’ontano nero, diffuso in tutta l’Europa,
è un albero alto fino a 25-30 m che in Italia si ritrova dal livello
del mare sino a 1800 m s.l.m.. Tipico di ambienti molto umidi,
vegeta spesso lungo i corsi d’acqua; per la sua forte esigenza
in luce, raramente lo si trova in boschi chiusi. Sono specie che
rigettano bene dalla ceppaia. Il legno di ontano è semiduro,
resiste molto bene in condizioni riducenti e risulta quindi molto adatto per la costruzione di palafitte in terreni sommersi.
Trova limitati impieghi per lavori di intaglio ed è un mediocre
combustibile. Le caratteristiche ecologiche dell’insieme delle
specie rinvenute danno maggior credito all’ipotesi che possa
trattarsi dell’ontano nero.
SALICI E PIOPPI – SALIX-POPULUS
Salici e pioppi sono caratterizzati da legno con anatomia
non facilmente distinguibile tra loro, per cui, come detto all’inizio, per identificare il taxa, si utilizzano i nomi di entrambi i generi. Entrambi caratterizzano la vegetazione delle
zone umide e dei corsi d’acqua, ma i pioppi preferiscono i
terreni meglio drenati; si tratta di specie molto comuni, dal
livello del mare ai territori più in quota. Il salice da vimini
(Salix viminalis) è coltivato sini dall’antichità per i rami che
ogni anno vengono tagliati per fare cesti; il legno di queste
specie non è particolarmente pregiato e non è durevole.
FRASSINO – FRAXINUS CFR. F. ANGUSTIFOLIA
Con grande probabilità si tratta di Fraxinus angustifolia,
albero di 20-25 m di altezza molto comune in Italia meridionale; è una specie eliofila e termofila che vegeta in prossimità di acqua e in boschi freschi planiziali (la si ritrova
fino a 300 m di quota).
Il legno di questa specie è caratteristico per la sua elasticità, cosa che lo rende idoneo per la fabbricazione di manici
di utensili e per attrezzi agricoli; un tempo veniva utilizzato
per ottenere archi. Tale legname si stagiona facilmente, ma
non rimane molto stabile in opera a causa della sua deperibilità in condizioni di umidità. È ottimo come legna da ardere e
fornisce un carbone di buona qualità. I carboni di questo taxon sono stati ritrovati nell’80% delle us.
NOCE – JUGLANS REGIA
È un grande albero deciduo alto fino a 25-30 m molto
importante sia per il suo legno pregiato che per i frutti. Largamente diffuso dall’uomo nelle regioni temperate dell’Europa, in Italia era coltivato principalmente come albero da
frutto. È esigente in calore durante la stagione vegetativa,
resiste bene al freddo; necessita di terreni profondi, fertili,
freschi e ben drenati.
I dati pollinici (GRÜGER THULIN 1998), indicano che la
coltivazione del noce anche in Campania comincia solo a
partire dal periodo romano; il materiale rinvenuto in questo
caso ci permette di localizzare la presenza di aree a noceto
(residuo di colture precedenti più estese?) proprio nei dintorni dell’abitato di Suessula.
I paesaggi: foreste di pianura?
La maggior parte dei taxa rinvenuti sembra indicare essenzialmente la presenza di boschi planiziali attorno al sito,
ovvero boschi di pianura con buona disponibilità di acqua; ciò
è in accordo con quanto risulta anche dai documenti relativi al
territorio di Suessula, che attestano la presenza di boschi e di
zone acquitrinose nel XII-XIII secolo. Solamente il leccio ed
il corbezzolo si identificano chiaramente con un tipo di vegetazione differente, tipico di ambienti più asciutti. Evidentemente, per quanto riguarda il legno, l’area di approvvigionamento
poteva limitarsi alla pianura circostante l’insediamento, dove
doveva ancora essere presente il bosco; possiamo inoltre ipotizzare che parte di questo territorio fosse coltivata a noce.
MARZIANO M., DI PASQUALE G., SORIA G., DELLA CORTE C.
Laboratorio di Ecologia Applicata, Facoltà di Agraria Università degli Studi di Napoli “Federico II”
e-mail: [email protected]
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