Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi di Napoli

Transcript

Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi di Napoli
Università degli Studi di Napoli
“L’Orientale”
Regione Campania
Fondazione Banco
di Napoli
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Archivio di Stato di Napoli
Collana Matteo Ripa n. 19
Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
di Napoli (1682-1869)
Percorso documentario e iconografico
Con l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica
Catalogo della mostra
Archivio di Stato di Napoli 18 novembre 2006 - 31 marzo 2007
a cura di
MICHELE FATICA
Napoli 2006
Archivio di Stato
di Napoli
A cura di:
MICHELE FATICA
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Impaginazione, grafica e fotoritocco:
MARIANO CINQUE
ISSN:
1824-4181
Stampa:
ARTI GRAFICHE ZACCARIA Srl
© copyright 2006
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Finito di stampare nel mese di settembre 2006
Indice
Presentazioni
Matteo Ripa: l’uomo di fede, l’intellettuale, l’artista | PASQUALE CIRIELLO
5
Un ponte tra Oriente e Occidente:
Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi attraverso le carte d’Archivio | FELICITA DE NEGRI
7
Saggi
I percorsi della mostra | MICHELE FATICA
11
Vita di relazione e vita quotidiana
nel Collegio dei Cinesi | GIACOMO DI FIORE • MICHELE FATICA
21
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese
commissionata da Kangxi | ANDREINA ALBANESE
49
Sulla toponomastica mancese dell’atlante
di Matteo Ripa | GIOVANNI STARY
71
Ricercato numero uno: la vita avventurosa tra Europa ed Asia
di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806),
alunno del Collegio dei Cinesi | EUGENIO MENEGON
87
Arte e storia nella chiesa e collegio
della Sacra Famiglia ai Cinesi | UGO DI FURIA
101
Le ricerche in Cina sull’italiano Matteo Ripa
e il Collegio dei Cinesi | WAN MING
133
Iconografia
La famiglia, le aderenze familiari,
l’ascesa sociale, la caduta
149
Da Roma a Portsmouth a Macao
169
Ripa alla corte di Kangxi
Le incisioni su rame
191
Le polemiche con i Gesuiti
Echi sulla stampa napoletana
L’attività di interprete
209
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli:
promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732
del Papa Clemente XII Corsini
231
La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e
l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
253
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
269
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
I Cinesi a Napoli
Napoli in Cina
291
307
Matteo Ripa:
l’uomo di fede, l’intellettuale, l’artista
PASQUALE CIRIELLO
Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Poche Università hanno il privilegio, come L’Orientale, di essere state fondate da un artista. Certamente nella biografia di Matteo Ripa risaltano anzitutto la sua statura di uomo di
fede, che lo portò appena ventiseienne a partire missionario per la Cina, così come il profilo di
letterato, che gli permise di appropriarsi dei misteri dell’idioma mandarino. E tuttavia questa
esposizione dimostra, ove mai ve ne fosse bisogno, che Matteo Ripa fu anche – e forse soprattutto – un artista.
È noto che il motivo fondamentale della sua ammissione alla corte dell’imperatore cinese
fu appunto l’abilità nelle arti del disegno, della pittura, dell’incisione su rame, tanto che il
sovrano del Celeste Impero ebbe a commissionargli una serie di stampe raffiguranti la propria
residenza di Jehol in Tartaria. Ben conosciuta, e fonte ogni volta di rinnovata ammirazione, è
la sua Grande Mappa dell’Impero di Cina, capolavoro della cartografia del primo Settecento.
Ma il materiale iconografico esposto dimostra che Matteo Ripa fu artista in ogni momento
della sua vita, non solo su commissione ma anche quando il disegno e la pittura furono semplicemente al servizio della sua curiosità intellettuale unita a una certa sensibilità estetica. Ne
sono prova i minuziosi disegni di pesci, molluschi e vegetali che il sacerdote traccia a margine
delle pagine del diario redatto nel 1708 durante la navigazione sul vascello inglese Donegal che
lo sta portando verso Macao. Squali, calamari, remore, frutti esotici, dei quali annota anche i
nomi in varie lingue, vi sono tracciati con un’accuratezza che fa apparire Matteo Ripa un epigono non disprezzabile del Leonardo osservatore della natura e un notevole anticipatore delle
sistematiche raffigurazioni di Linneo (che, ricordiamolo, nel 1708 aveva a malapena un anno).
Se, da un lato, spiace che non sia rimasto molto della produzione figurativa realizzata in
terra cinese (ma non è detto che da archivi e biblioteche non spuntino altre testimonianze), è
altrettanto evidente che in Matteo Ripa, da un certo momento in poi, il talento pittorico viene
sostanzialmente abbandonato a favore di quella che resta la sua grande impresa, di uomo di
fede come di intellettuale: la fondazione del Collegio dei cinesi. E d’altronde tutte le tracce che
Presentazione
Matteo Ripa: l’uomo di fede, l’intellettuale, l’artista
ci restano del suo operato, ben compendiate peraltro nei reperti della mostra, curata dal prof.
Fatica, testimoniano di come questi aspetti risultino organicamente integrati in quello che è il
suo grande, utopico, progetto: la conversione al cristianesimo dell’Impero cinese. È questo
carattere complesso della personalità di Matteo Ripa a tracciare quello che sarà il compito della
prima istituzione europea per lo studio delle lingue e delle culture del lontano Oriente. Anche
il disegno di evangelizzazione è affidato a un percorso di acculturazione e di formazione, sia
per i membri occidentali della Congregazione da lui fondata che per i giovani cinesi disposti a
intraprendere l’impegnativo cammino verso il sacerdozio. Ecco, dunque, che anche la diffusione di un messaggio concepito come universale si apre alla reciproca (pur se non ancora simmetrica) assunzione della diversità culturale.
Questa duplice missione di apertura della società europea verso i misteri delle civiltà
orientali e di contemporaneo avvicinamento delle culture dell’Asia estrema alle elaborazioni
della tradizione europea permette la realizzazione e il progressivo radicamento nel contesto
napoletano dell’istituzione immaginata da Matteo Ripa, dapprima nel periodo del viceregno
austriaco e, poi, negli anni della dinastia borbonica. Sarà poi questa vocazione intrinsecamente destinata, anche al di là delle stesse intenzioni del fondatore, a un arricchimento culturale
originale e intenso (e pertanto dagli esiti non sempre prevedibili: si vedano le simpatie liberali dei convittori a metà dell’Ottocento) a permettere la trasformazione, dopo l’unità d’Italia,
dell’antico Collegio dei Cinesi in un’istituzione laica e statale, maggiormente attenta alle prospettive di proiezione commerciale e politica in Asia degli interessi italiani. Progressivamente
sempre più aperta a prospettive culturali plurali e diversificate, attenta ai mutamenti della
società contemporanea, L’Orientale si riconosce tuttavia ancora oggi nella capacità di discernimento, nella sensibilità artistica, nell’incrollabile passione di Matteo Ripa, qui così evidentemente esibite.
6
Un ponte tra Oriente e Occidente:
Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi attraverso le carte d’Archivio
FELICITA DE NEGRI
Direttrice dell’Archivio di Stato di Napoli
Missione istituzionale dell’Archivio di Stato di Napoli è la conservazione della memoria
documentaria; ma l’Archivio non è un mero deposito di atti. La memoria, il ricordo sono possibili solo se il passato viene ripensato nei termini posti dalle domande e dalle necessità del
presente. A tal fine, il documento, che del passato è testimonianza, deve essere sottratto
all’oblio e al silenzio. È l’Archivio stesso a rendere possibile la conoscenza del patrimonio
documentario che custodisce. Potremmo dire, quindi, che l’Archivio conserva per comunicare. Le forme di cui tale attività di comunicazione si avvale sono le più diverse: sia va dagli strumenti più tradizionali, gli inventari cartacei dei fondi archivistici, ai moderni data-base, che
consentono anche all’utente remoto di recuperare l’informazione, alle mostre documentarie.
Molto si è scritto, anche in anni recenti, contro le mostre in genere e quelle archivistiche
in particolare. Alle critiche incentrate sul carattere effimero di tali manifestazioni, si è aggiunta, nel caso delle mostre documentarie, l’obiettiva difficoltà di offrire alla vista del pubblico un
bene culturale che, a differenza di altri, proprio per le sue peculiarità, si presta, piuttosto, ad
una comprensione mediata attraverso la lettura. Sappiamo inoltre che il documento, una volta
estrapolato dal contesto originario – il fondo, la serie, l’unità archivistica cui appartiene – non
riesce a trasmettere tutto intero il suo significato.
Vero è, d’altro canto, che fra i compiti dell’archivista vi è anche quello di «mettere più
direttamente il grande pubblico a contatto coi documenti e coll’archivio, del quale per lo più
ignora l’esistenza». L’affermazione è di Eugenio Casanova – che ha ricoperto, fra l’altro, anche
la carica di direttore dell’Istituto napoletano agli inizi del Novecento – e risale agli anni ’20 del
secolo scorso. Tuttavia, essa ha mantenuto in gran parte il suo valore, giacché gli Archivi continuano ad avere problemi di visibilità, specie se posti a confronto con altre istituzioni culturali di più largo richiamo, come musei e scavi archeologici; il nostro Istituto, in particolare, è
ancora per molti napoletani, non «addetti ai lavori», un luogo inesplorato e un po’ misterioso.
Ben vengano, dunque, le occasioni di divulgazione offerte dalle mostre, tanto più quando esse
Presentazione
Un ponte tra Oriente e Occidente: Matteo Ripa...
concernono temi che hanno connessioni con i problemi e gli eventi dell’attualità e che possono perciò richiamare più facilmente l’attenzione del pubblico non specialistico.
La mostra su «Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi» appartiene sicuramente a quest’ultima categoria; la straordinaria avventura umana, religiosa, culturale del sacerdote napoletano e
le vicissitudini dell’istituzione da lui creata si collegano prepotentemente con le curiosità e le
ansie del presente; e se non possono offrire risposte ai nostri interrogativi, sono però in grado
di illuminarli di nuova consapevolezza.
La struttura narrativa della mostra si articola in più sezioni corrispondenti alle varie fasi
della vicenda; quella centrale, che segna il momento cruciale del ritorno a Napoli di Matteo
Ripa e della laboriosa fondazione del «Collegio dei cinesi e degli indiani», attinge al patrimonio documentario dell’Archivio di Stato di Napoli, le altre si avvalgono, invece, dell’apporto di
numerosi istituti fra Archivi e Biblioteche, italiani e stranieri.
Nata dalla collaborazione fra l’Istituto napoletano e l’appassionata ricerca del prof.
Michele Fatica – che a Matteo Ripa e alla storia dell’Istituto Orientale ha dedicato anni di studio e numerose pubblicazioni – la mostra ha potuto essere realizzata grazie al lavoro paziente
e solerte di Carolina Belli, vicedirettore dell’Archivio, che è stata coadiuvata validamente da
Barbara Orciuoli, brillante diplomata della nostra Scuola di Archivistica, Paleografia e
Diplomatica.
Il riaffacciarsi prepotente della Cina sulla ribalta mondiale, dopo un lungo periodo di
eclisse, sollecita una riflessione approfondita sulla storia dei rapporti fra la Cina e l’Occidente;
il percorso documentario costruito dalla mostra, con il relativo catalogo, ne rappresenta una
pagina significativa. Ci auguriamo, quindi, che il pubblico possa trarne stimoli per un confronto più sereno con le affinità e le diversità del presente.
8
Saggi
I percorsi della mostra
MICHELE FATICA
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Premessa
Nel 1996, a 250 anni dalla morte di Matteo Ripa (29 marzo 1746), chi scrive propose ai vertici dell’allora Istituto Universitario Orientale di ricordare l’anniversario con un convegno internazionale e
con una mostra documentaria, iconografica e bibliografica. La proposta suscitò un forte interesse nel
rettore del tempo, prof. Adriano Rossi, in Maurizio Taddei e Adolfo Tamburello, studiosi del
Dipartimento di Studi Asiatici, che avevano già compiuto ricerche sul fondatore del Collegio dei Cinesi
di Napoli, in Mario Agrimi, allora direttore del Dipartimento di Filosofia e Politica. Grazie alle sinergie dei due dipartimenti il convegno ebbe luogo il 11 e 12 febbraio 1997 con l’adesione della Società
Italiana di Studi del secolo XVIII – rappresentata da Alberto Postigliola – e vi parteciparono studiosi
provenienti da tutte le parti del mondo, come è testimoniato dai loro contributi pubblicati negli atti1.
È doveroso ricordare che il successo del «colloquio» internazionale fu merito anche di Francesco
D’Arelli e di Paola Paderni, che affiancarono efficacemente chi scrive nella fase organizzativa e nella
realizzazione dell’iniziativa, mentre D’Arelli dimostrò una grande capacità nella composizione degli
atti, operazione tutt’altro che facile in presenza dei numerosi contributi degli studiosi cinesi nella loro
lingua.
L’idea è ritornata a 260 anni dalla morte di Matteo Ripa ed è coincisa con l’anno dell’Italia in
Cina. La felice conclusione è dovuta a tante persone, a cui dobbiamo esprimere la nostra gratitudine: in primo luogo, la direttrice dell’Archivio di Stato di Napoli, dott.ssa Felicita De Negri, che,
con la finezza del suo tratto distintivo, ha messo a disposizione locali e tesori documentari; il prof.
Pasquale Ciriello, rettore dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, che ha riposto la sua
fiducia in chi scrive. È superfluo ricordare che l’esito positivo è stato possibile soprattutto grazie
ad un finanziamento generoso erogato dalla Regione Campania, che ci preme ringraziare nella
persona del governatore on. Antonio Bassolino e dei funzionari Pasquale Carrano e Raffaella
Farina. Il prof. Adriano Giannola e il dott. Aldo Pace, rispettivamente presidente e direttore della
Fondazione Banco di Napoli, sono intervenuti con grande sensibilità per coprire, con un contributo della benemerita istituzione alcuni buchi che si erano venuti a creare.
Michele Fatica, Francesco DArelli (a c. di), Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi, Atti del Colloquio Internazionale, Napoli, 11-12
febbraio 1997, Napoli 1999.
1
I percorsi della mostra
Una citazione riconoscente merita anche l’Ina Assitalia, Agenzia di Napoli Nord, la quale ha
offerto gratuitamente l’assicurazione dei pezzi provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Napoli.
Accanto alle istituzioni e persone già ricordate, non possiamo passare sotto silenzio quanti nel
Dipartimento di Filosofia e Politica si sono prodigati per la buona riuscita dell’iniziativa: il prof. Riccardo
Naldi, direttore; Antonietta Sportiello e Nicola Fabozzi, responsabili della segretaria amministrativa;
Daniela Di Donna, assistente alla segretaria. La sinergia delle competenze dirigenziali e amministrative
concorrono con le competenze culturali. A tal proposito il curatore non poteva trovare collaborazione
migliore di quella offerta dalle dott.sse Carolina Belli e Barbara Orciuoli dell’Archivio di Stato di Napoli.
La riuscita del catalogo sotto il profilo estetico è dovuta al giovane, ma già esperto Mariano Cinque.
Occorre anche ringraziare quanti (Andreina Albanese, Giacomo Di Fiore, Ugo Di Furia, Eugenio Menegon,
Giovanni Stary, Wan Ming) hanno scritto i saggi che aiutano a capire la complessa personalità di Matteo
Ripa, ricostruiscono i tesori di arte – oggi in gran parte dispersi o perduti – che corredavano la chiesa e il
Collegio dei Cinesi, raccontano le esistenze e le sofferenze dei suoi ospiti, ricordano quanto l’istituzione di
Napoli sia presente sia nella documentazione archivistica, sia nelle ricerche della lontana Cina.
La raccolta bibliografica, documentaria ed iconografica è iniziata da molti anni e chi scrive deve
ringraziare quanti hanno agevolato le sue ricerche e consentito l’uso gratuito delle immagini: in modo
particolare padre Leonard Boyle OP, già prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana; Josef Metzler
OMI, già responsabile dell’Archivio Storico della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli;
monsignor Vittorio Giustiniani, responsabile dell’Archivio Storico della Diocesi di Salerno; padre don
Pedro Gil, responsabile dell’archivio della Curia Generalizia dell’Ordine dei Frati Minori; la dott.ssa
Maria Luisa Storchi e il sig. Franco Manzione, direttrice l’una e impiegato l’altro dell’Archivio di Stato
di Salerno; l’avvocato Salvatore Maffei, direttore della Emeroteca Tucci di Napoli. Il sopralluogo nella
chiesa dei Cinesi è stato autorizzato dal dott. Mario Tursi, direttore dell’ASL 1 di Napoli e guidato dall’ing. Carmelo Covuccia. La ND Maria Grazia Leonetti Rodinò e la dott.ssa Loredana Gazzarra hanno
gentilmente permesso di pubblicare la foto della tela Visita dei Re Magi al Bambin Gesù, un tempo
patrimonio della chiesa dei Cinesi ed oggi conservata nella quadreria del Pio Monte della Misericordia.
Paziente e vicino mi è stato il personale tutto (Paolo Amodeo, Bruno Calabrò, Enzo Cipullo, Ettore
Griffo) del Torcoliere, Centro di composizione e stampa dell’Università degli Studi di Napoli
“L’Orientale”, in modo particolare il segretario amministratico del Centro, dott. Luigi Squillacciotti, e
il responsabile del coordinamento editoriale, dott. Umberto Cinque. Massimo Zaccaria e Antonio
Scagliola hanno messo a disposizione di chi scrive la loro arte tipografica.
12
Michele Fatica
Le sezioni della mostra
I. La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Il numero notevole di documenti esposti, tratti dall’Archivio Storico della Diocesi di Salerno, ha
un solo scopo: quello di dimostrare la reale condizione sociale degli ascendenti paterni e materni di
Matteo Ripa e sfatare la diffusissima e mai contestata leggenda circa un preteso titolo nobiliare di Gian
Filippo Ripa, padre del fondatore del Collegio dei Cinesi. Anche un testo relativamente recente, frutto
di lunghe ricerche archivistiche e scevro di quella pietas che spesso appanna la vista di chi scrive, ripete la leggenda relativa ad un sedicente titolo di «barone di Planchetella» posseduto dal genitore di
Matteo Ripa2. Quanti tra cultori di storia e di glorie patrie hanno attribuito negli ultimi 140 anni a
Gianfilippo Ripa una qualifica baronale inesistente non possono sottrarsi ad un certo biasimo, avendo
ignorato un testo pubblicato nel 1859 che ricostruisce minutamente la storia del feudo di Chianca e
Chianchetella in Principato Ulteriore3. Ma quale era allora la condizione sociale della famiglia da cui
proveniva Matteo Ripa? Se volessimo usare gli attuali parametri di classificazione sociale potremmo
dire che la famiglia di Matteo Ripa apparteneva al ceto medio agiato provinciale. L’agiatezza derivava a
tale famiglia dall’esercizio delle professioni liberali. Il nonno del fondatore del Collegio dei Cinesi,
Diego, abitante in Prepezzano, uno dei sei casali di Giffoni, provincia di Salerno – ove la gens risiedeva
in una contrada che da essa prendeva nome «la Ripa» e che comprendeva una «casa palazziata» – era
doctor utriusque iuris; il padre di Matteo Ripa era doctor physicus, oggi diremmo medico, che aveva sposato Antonia Longo/Luongo, sorella di prete e di medico, quindi di famiglia della stessa condizione
sociale, che abitava in una contrada denominata «casa Longo» in Vignale, altro casale di Giffoni.
Allora quale il legame della famiglia di Matteo Ripa con la baronia di Planchetella o Chianchetella?
I fratelli di Matteo Ripa erano medici, avvocati e preti, ma nutrivano tutti una grande ambizione: quella di nobilitarsi. La mostra documenta il trasferimento da Prepezzano ad Eboli di Gianfilippo, la conquista di Napoli dei suoi figli Diego e Lorenzo, l’acquisizione del titolo baronale da parte di Lorenzo
con l’acquisto del feudo di Chianchetella e Balba.
La morte prematura di Lorenzo nel 1739 e quella successiva di Diego documentano una cadura
altrettanto rapida dell’ascesa.
Alle ambizioni di ascesa sociale dei fratelli, alle loro sinergie per favorire la nobilitazione di Lorenzo, Matteo Ripa era rimasto quasi estraneo. Egli aveva carattere troppo forte e determinato per presta2
3
Cosimo Longobardi, Eboli tra cronaca e storia, vol. IV, Salerno 1998, p. 239.
Erasmo Ricca, La nobiltà del Regno delle Due Sicilie, vol. I, Napoli 1859, pp. 368-373.
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I percorsi della mostra
re la sua collaborazione al disegno familiare quasi ossessivo di promozione sociale, né dal fratello
Tommaso Andrea, guida spirituale del gruppo, aveva avuto un trattamento uguale o paritetico a quello di Lorenzo. Non poteva dimenticare che il fratello maggiore nel 1704 lo aveva costretto a retrodonare a favore di Lorenzo la «casa palazziata» in Eboli già donatagli nel 17024 e che nel 1711 allo stesso
Lorenzo gli altri fratelli avevano donato un uliveto con 300 piante, il cui usufrutto annuo di 50 ducati
era stato prima devoluto, vita natural durante, a beneficio di «D. Matteo Ripa, attualmente predicatore e missionario apostolico nel Regno della Cina»5.
Egli prima ancora di essere ordinato sacerdote, il 28 marzo 1705, dall’arcivescovo di Salerno, il
francescano calabrese Bonaventura Poerio, aveva condotto un’esistenza quasi in polemica con quei fratelli tutti protesi ad arrivare. Si era iscritto alla Congregazione di Santa Maria della Purità, che aveva
sede nella chiesa di San Giorgio Maggiore e che svolgeva attività tra i ceti più poveri di Forcella – allora nota come la Vicaria Vecchia – e dei Mannesi, proprio per marcare una certa distanza dai fratelli che
frequentavano i ceti alti di Napoli. La sua scelta di accettare l’invito di Antonio Torres, preposito dei Pii
Operai, a recarsi a Roma per poi essere destinato in Cina, può essere valutata anche nell’ambito di questo rapporto non sempre disteso coi fratelli.
II. Da Roma a Portsmouth e a Macao
Prima di accingersi a prendere da Napoli la direzione per Roma – il che avverrà il 26 novembre
1705 – Matteo Ripa aveva preso con sé stesso due impegni: in primo luogo, mantenere il più stretto
silenzio con il genitore Gianfilippo e con i fratelli. Dati i rapporti che aveva con i congiunti, ai quali
abbiamo accennato, i fratelli avrebbero usato ogni mezzo per impedire a Matteo di mettere in atto quella decisione – che giudicavano pazzesca – di partire missionario per la lontanissima Cina. In secondo
luogo, compiere il viaggio a piedi e «mendicando il vitto». Riuscì ad osservare il primo impegno, perché i fratelli non seppero assolutamente nulla della sua partenza. Raggiunse Roma in calesse, il 30
novembre 1705, per aiutare l’amico Gennaro Amodei, debole di corpo, ma non di spirito. Nella capitale della cristianità deve attendere l’udienza pontificia dell’8 ottobre 1707, per intravedere il segnale
della partenza per la Cina. Intanto, dopo un periodo di grandi patimenti, per mancanza di risorse e di
aiuti, si fa largo grazie alle eccezionali doti di cui è fornito: contrae amicizie importanti come dimostrano i documenti esposti nella mostra.
4
ASSa, Protocolli notarili, Notai del distretto di Salerno, Eboli, Atti di Berniero Romano, fascio 2658, ff. 72-74, atto del 18 luglio
1704.
5
ASSa, Protocolli notarili, Notai del distretto di Salerno, Eboli, Atti di Rocco de Antola, fascio 2641, rogito del 1° aprile 1711, f. 74v.
14
Michele Fatica
III. Ripa alla corte di Kangxi: le incisioni su rame
In coerenza con la consegna ripiana di non insistere sul suo talento di pittore e di incisore, noi possiamo ricostruire solo attraverso i vaghi indizi contenuti nei suoi scritti l’itinerario che lo portò ad essere apprezzato ed onorato dall’imperatore Kangxi proprio per le sue capacità artistiche e tecniche.
L’imperatore, del resto, non aveva gusti dozzinali, ma per essere un cultore raffinato delle arti, era noto
in Europa come il Luigi XIV dell’Estremo Oriente. Per quanto riguarda l’apprendistato di pittore a
Napoli, sappiamo che, ancora prima di essere prete assecondò il suo talento pittorico copiando alcuni
affreschi esistenti nella chiesa di S. Giorgio Maggiore. A Roma sicuramente continuò a coltivare la sua
passione per la pittura: lo deduciamo dall’immagine della Vergine che egli aveva dipinto e che aveva
colpito a tal punto Giovanni Antonio Mezzafalce da indurlo a scriverne al fratello Giovanni Donato al
seguito del legato papale in Cina Carlo Tommaso Maillard de Tournon. Questi, pur essendo prigioniero a Macao, aveva comunicato all’imperatore l’arrivo del pittore Matteo Ripa, insieme a musicisti come
il prete della Congregazione della Missione Teodorico Pedrini, e a scienziati, come l’agostiniano
Guglielmo Bonjour Fabre, secondo quanto gli aveva promesso al momento della prima udienza. Era
scontato per quanti sedevano sul trono giallo del dragone che l’onore di accedere in Cina ed essere
ammessi a corte era riservato solo a coloro che dall’Occidente portavano le novità scientifiche, tecnologiche, artistiche ignote nel Paese di Mezzo. Ma l’imperatore non accoglieva come suoi ospiti gli occidentali portatori di conoscenze nuove solo sulla base di segnalazioni che gli venivano da personalità sia
pure importanti come il legato papale. Nel caso di Matteo Ripa Kangxi richiese due condiziono: I. di
verificare di persona le sue capacità di pittore; II. di comunicare con il pittore solo nella lingua cinese.
Quindi il sacerdote ebolitano dovette inviare all’imperatore saggi delle sue capacità e mettersi di buona
lena ad imparare il cinese mandarinico o guanhua 官話.
Quando il 5 novembre 1710 il governatore di Canton riceve l’ordine di provvedere alla partenza
per Pechino di Ripa, Pedrini e Bonjour Fabre, significa che l’imperatore ha mostrato il suo gradimento per i saggi della pittura di don Matteo.
Il sacerdote ebolitano, partito da Canton il 27 novembre 1710 raggiunse Pechino il 6 febbraio 1711,
ammesso nella reggia come pittore di corte. Della sua produzione pittorica in Cina non è pervenuto nulla.
Di tutta la sua attività a corte restano solo due imprese legate alla sua sapienza tecnica di incisore su rame.
Dove e quando avesse imparato questa tecnica Matteo Ripa dice, come al solito, molto poco. Scrive soltanto che durante il suo soggiorno a Roma tra il dicembre 1705 e l’ottobre 1707, prima di partire per la
Cina, aveva appreso da un pittore la tecnica di incisione su rame con l’acquaforte6. Il 9 maggio 1711, quin-
6
Matteo Ripa, Giornale, vol. II (1711-1716), testo critico, note ed appendice documentaria di Michele Fatica, Napoli 1996, p. 38.
15
I percorsi della mostra
di 3 dopo mesi essere stato ammesso a corte, fu richiesto da Kangxi se oltre alla pittura, egli conoscesse
qualche altra arte o scienza. La sua risposta, come si legge nel suo Giornale, fu, come al solito, ispirata a
7
modestia. Ma le sue prove appagarono l’imperatore a tal punto che questi gli commissionò nell’agosto
1712 l‘incisione delle vedute dell’immenso parco «tra i monti per fuggire la calura estiva».
Dopo l’incisione della villa imperiale di Jehol una commissione ancora più impegnativa egli ebbe
dall’imperatore: riprodurre la carta generale dell’Impero. Nel 1914, quando il missionario ebolitano
ebbe l’incarico, i lavori per la confezione della grande carta non erano completati e, presumibilmente,
egli procedette a misura che l’équipe di geografi, cartografi e matematici europei inviava a Pechino i
risultati dei suoi rilevamenti. Nella romanizzazione dei toponimi sia cinesi, che mancesi egli fu aiutato
dai collaboratori delle due nazionalità che imparavano la tecnica nel laboratorio che egli aveva creato8.
Sotto la data del 20 ottobre 1716, egli afferma che «nell’intagliare la carta geografica, già er[a] giunto
alla gran muraglia, che divide la Cina dalla Tartaria»9. Di più non aggiunge, anche se più volte ribadisce che egli ha «delineato» a penna, cioè, ha disegnato in scala ridotta tutta la carta, che risulta nell’insieme di 44 tavole di rame10.
IV. Le polemiche con i Gesuiti, echi sulla stampa napoletana, l’attività di interprete
La permanenza del Ripa nella corte mancese fu caratterizzata da una continua polemica con i missionari della Compagnia di Gesù. I motivi della sua avversione agli accoliti di S. Ignazio era motivata,
in primo luogo, dalla sua convinta difesa della «purezza della nostra Santa Fede». Nei secoli si sono
scontrate due tendenze nella Chiesa di Roma: quella di chi è stato fermo nel pensiero di operare una
rivoluzione culturale nel convertito alle verità di Cristo. Questo pensiero comporta la costruzione di un
uomo nuovo che faccia tabula rasa di tutta la precedente cultura. La seconda posizione si rende conto
della impossibilità del convertito di effettuare un completo sradicamento dalla sua precedente cultura.
Matteo Ricci si mosse in questa seconda direzione e riconobbe nel culto degli antenati, dell’imperatore e dell’universo dei santi di cui è costellata la religiosità popolare cinese un complesso di credenze, da
lui definite «civili» che non intaccavano la fede in Cristo. Ma i Gesuiti ai primi del XVIII secolo erano
diventati troppo potenti perché la loro prassi missionaria in Cina – ma anche in altre regioni del
Ibidem, p. 29.
ACGOFM, MH, 15-2, p. 348; in sintesi i dati sono confermati in Matteo Ripa, Giornale, vol. II, cit., p. 136.
9
Matteo Ripa, Giornale, vol. II, cit., p. 223.
10
Ibidem, pp. 27 e 136.
7
8
16
Michele Fatica
mondo – fosse condivisa. Furono attaccati dagli zelanti, che parlavano della ipocrisia gesuitica, di
morale immorale, di concessioni al paganesimo, favorendo in Cina la contaminazione del cristianesimo con il confucianesimo. Nasceva così la questione dei «riti cinesi», su cui furono versati fiumi d’inchiostro. Ripa appartenne al partito degli zelanti, attirandosi nel suo soggiorno a Pechino l’avversione
dei suoi antagonisti, non solo per questa sua posizione, ma anche per l’iniziativa di creare un seminario per giovani cinesi a Pechino. I Gesuiti, che avevano della Cina un’esperienza secolare, ritenevano
che a loro sarebbe spettato il compito della formazione del clero indigeno. Ma quando in passato avevano preso in considerazione una ipotesi del genere, sempre l’avevano scartata, arretrando di fronte alle
grandi difficoltà che la realizzazione di un tale progetto avrebbe incontrato. Le culture erano troppo
diverse perché si potesse pensare seriamente a cinesi ordinati sacerdoti. Per le famiglie cinesi i giovani
maschi erano destinati a continuare la generazione e solo i più poveri erano disposti a farsi castrare
nella prospettiva di una brillante carriera a corte in qualità di eunuchi. Ora i Gesuiti venivano sfidati
dal Ripa con un piano sistematico, e non con una iniziativa sporadica, proprio lì dove essi avevano
ceduto. La vittoria del Ripa in questo settore fu parziale, perché la sua idea di fondare un collegio per i
cinesi avrà possibilità di realizzarsi solo lasciando Pechino ed eleggendo Napoli come sede del seminario per i cinesi. Comunque, anche prima del suo ritorno nella città, dove si era formato, la sua fama era
grande. Di quel che faceva in Cina abbiamo dettagliate notizie sugli «Avvisi» di Napoli, Ripa, inoltre,
imparò così bene la lingua cinese da essere scelto dall’imperatore Kangxi quale interprete della legazione del russo Lev Izmailov e del legato pontificio Carlo Ambrogio Mezzabarba.
V. Il ritorno a Napoli con 5 cinesi. Promotori ed oppositori del Collegio dei Cinesi
Stanco di polemizzare con i Gesuiti, Ripa decide, a fine estate del 1723, dopo la morte di Kangxi
nel dicembre 1722, di tornare a Napoli allo scopo di fondare un seminario per cinesi, da educare con
una metodologia opposta a quella dei Gesuiti, affinché, ritornati nella loro patria, diffondano tra i loro
connazionali un cristianesimo «puro», non inquinato dal confucianesimo. Poiché i rapporti col nuovo
imperatore Yongzheng sono ottimi, questi gli concede il permesso di ritornare in Europa a motivo di
un lutto familiare. Essendo uomo di corte, Ripa può essere accompagnato da servitori di fiducia: sono
i quattro giovani, primo nucleo del Collegio dei Cinesi. Ai quattro si aggiunge un cinese che ha superato i 30 anni: è il maestro Gioacchino Wang, il quale deve mantenere in esercizio i giovani allievi nella
lingua e nella scrittura della loro patria, che potrebbero dimenticare dopo una lunga permanenza a
Napoli. L’idea di fondare il Collegio trova una certa resistenza nel papa Benedetto XIII Orsini, che giudica Napoli una città troppo condizionata dalle teorie di Pietro Giannone. Ripa, però, trova sostenitori del suo progetto sia nel presidente del Consiglio Collaterale, Gaetano Argento, sia nell’imperatore
17
I percorsi della mostra
Carlo VI d’Asburgo, ch’egli visita a Vienna nel 1726, e che approva il Collegio, anche perché il sacerdote ebolitano gli promette di creare una scuola per interpreti della lingua cinese e della lingua indiana,
idea che piace molto all’imperatore, che nel 1722 ha fondato sotto l’egida imperiale la Compagnia di
Ostenda; che ha scali commerciali in India e a Canton. D’allora in poi l’istituto napoletano fondato dal
Ripa prenderà il nome di Collegio dei Cinesi e degli Indiani, anche se di questi ultimi a Napoli non si
è mai vista neppure l’ombra.
VI. La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di S. Maria Assunta in Cielo ai Cinesi.
Dal 1729 al 1894, il Collegio dei Cinesi, anche dopo le trasformazioni avvenute nel 1869 e nel 1888,
ebbe la sua sede nel complesso – situato extra mœnia sul poggio della Montagnola, zona dei Pirozzoli,
borgo dei Vergini – formato da un grande corpo di fabbrica, da due giardini, da una chiesa con un piccolo vano laterale, dove Ripa sistemò l’arciconfraternita di S. Maria Assunta in Cielo detta ai Cinesi. Il
sacerdote ebolitano, tutto preso dall’organizzazione dell’istituto da lui fondato, non dimenticò di essere un pittore, disegnò lo stemma del Collegio e l’immagine della Vergine che ascende in cielo.
Trattandosi dell’unica documentazione materiale che resta del Collegio, la sezione ricostruisce vecchie
epigrafi, legge alcune lapidi incise sopra il sepolcro di Matteo Ripa e di altri importanti congregati, ricostruisce la quadreria ed altri significativi dettagli della Chiesa e di tutto il complesso monumentale.
VII. Scritti di Ripa, da Ripa e su Ripa
Gli scritti di Matteo Ripa in gran parte restano manoscritti. In vita egli stampò una sola opera, che
è una biografia di un collegiale di origine giapponese, ma proveniente dalle Filippine, Belisario degli
Angeli, morto giovanissimo a Napoli. Nel 1832 i congregati della Sacra Famiglia assemblarono malamente due manoscritti del fondatore, censurando tutte le polemiche con i Gesuiti, manipolando e, in
alcuni casi, falsificando il testo del Ripa, il tutto allo scopo di avviare il processo di beatificazione, che
inizierà, senza successo, solo nel 1874. Gli stessi manoscritti furono visti, copiati e tradotti in francese
a Napoli, dal sacerdote della Congregazione della Missione, Gabriel Perboyre, confluendo poi nei tomi
IV-VIII degli anonimi Mémoires de la Congrégation de la Mission (Paris, 1863-1866). Intanto tutte le
relazioni inviate al papa Clemente XI Albani e a Propaganda Fide furono copiate da alcuni scrittori
avversi alla Compagnia di Gesù, che daranno il loro contributo alla soppressione dell’istituto ignaziano nel 1773. Al di fuori della letteratura controversistica la fama del Ripa acquistava una dimensione
mondiale e di lui si scrisse in libri sia stampati a Londra, sia pubblicati in Cina. I libri sono o fotocopiati nel frontespizio e esposti nella loro edizione originale.
18
Michele Fatica
VIII. Le trasformazioni del Collegio dei Cinesi e i benefici concessi dai pontefici
L’imperatore Carlo VI d’Asburgo autorizzò l’apertura di un Collegio formato da una scuola per
missionari e interpreti cinesi e indiani, da un convitto aperto, dietro pagamento di una retta, a giovani
disposti a diventare missionari in Oriente, in più da una congregazione – chiamata della Sacra Famiglia
di Gesù Cristo – di sacerdoti, dotati di patrimonio sufficiente ai bisogni della loro esistenza, incaricati
dell’educazione sia dei collegiali che dei convittori. Il breve di approvazione Nuper pro, fu emesso il 7
aprile 1732 dal papa Clemente XI Albani nella presunzione di un’autonomia finanziaria dell’istituzione, garantita dall’imperatore in 800 ducati annui da ricavare dalle rendite di 3 vescovati di patronato
regio (Reggio, Cassano e Tropea). Il cambiamento dinastico e di governo, con la conquista nel 1734 del
Regno di Napoli da parte di Carlo di Borbone, vanificò la promessa di Carlo VI d’Asburgo, per cui il
Collegio dei Cinesi si trovò ad un certo punto privo di risorse finanziarie sicure. Tutto ciò fu fatto presente dal Ripa al nuovo papa Benedetto XIV Lambertini, da lui conosciuto in precedenza a Roma. La
bolla In Sacro Principis di Benedetto XIV, del 31 agosto 1743, segnava una svolta nella storia del
Collegio dei Cinesi, perché papa Lambertini, scrisse nel documento pontificio di avere saputo che le
rendite «erano così esigue da non essere sufficienti a nutrire i collegiali ragazzi e adolescenti, nonché il
personale addetto ai servizi e al governo dell’istituto», e pertanto concedeva al Collegio il beneficio dell’abbazia di S. Pietro Apostolo in Eboli, valutato a 1.700 ducati annui, con la riserva si detrarre dalla
rendita una pensione di 500 ducati da assegnare a persona da nominare. Ma la vera trasformazione si
ebbe con altra bolla, Misericordia Dei, del 6 ottobre 1747, con la quale, ormai defunto Ripa, papa
Lambertini rinunciava alla pensione annua di 500 ducati, alla condizione che nel Collegio dei Cinesi
fossero ammessi immediatamente anche 4 giovani cristiani provenienti da Valacchia, Bulgaria, Serbia
ed Albania (regioni soggette al Gran Turco), prevedendo in prosieguo un numero di 16 collegiali: 8
provenienti dall’India e dalla Cina e 8 dall’Impero Ottomano, restando le spese per il viaggio e per il
resto a carico del Collegio dei Cinesi. La definitiva trasformazione del Collegio dei Cinesi e degli
Indiani, in Collegio dei Cinesi e degli alunni provenienti dall’Impero Ottomano si ebbe con le successive bolle di Clemente XIII Rezzonico (Quanta Ecclesia, 1° maggio 1760) e di Pio VI Braschi (Præ ceteris illa, 22 luglio 1775) con le quali furono attribuiti nuovi benefici (la Petruccia) alla istituzione fondata da Matteo Ripa in territorio dell’attuale Battipaglia, ed il numero dei collegiali fu portato a 32, cui
si aggiunsero le spese del viaggio in Cina per tre missionari designati da Propaganda Fide. La concessione dei benefici ecclesiastici attenuò l’autorevolezza della regia protezione, con la quale il Collegio era
sorto, ponendo quest’ultimo alle dipendenze di Propaganda Fide anche sotto il profilo politico. Altra
trasformazione durante il decennio francese, quando fu incrementato il convitto, equiparato ad un
liceo, e fu introdotto l’insegnamento del cinese per i convittori che ne avessero fatto richiesta. In questo periodo il Collegio fu posto sotto la sorveglianza del Ministero dell’interno, sorveglianza che cessò
con la restaurazione borbonica. La forte attenzione dedicata al convitto si accrebbe nel periodo com-
19
I percorsi della mostra
preso tra il 1830 e il 1860, quando uno spazio di rilievo fu riservato alla musica e alle rappresentazioni
teatrali. Nel periodo precedente l’intervento garibaldino nel Mezzogiorno, i congregati della Sacra
Famiglia manifestarono simpatie liberali, che allarmarono le autorità pontificie e l’arcivescovo di
Napoli Sisto Riario Sforza. Forse fu anche grazie a tali simpatie, all’amicizia di alcuni congregati con
Pasquale Villari e con l’orientalista Giacomo Lignana, che il Collegio non fu soppresso e si avviò autonomamente a quella riforma realizzata nel 1868, che chiamò Collegio Asiatico l’antico Collegio dei
Cinesi, prima ancora dei decreti del ministro della Pubblica Istruzione Angelo Bargoni emessi nel settembre 1869. Questa sezione è densa d’immagini e di documenti provenienti dall’Archivio Storico
dell’Orientale e dall’Archivio di Stato di Napoli.
IX. Cinesi a Napoli, Napoli in Cina
Per secoli Napoli ha accolto in forma continua e non sporadica, come altre capitali europee – si
pensi a Parigi – una comunità di cinesi qualificati, che ha lasciato tracce che solo l’incuria del XX secolo ha cancellato. Se Ripa non fosse stato totalmente assorbito dall’idea, diventata ad un certo punto
ossessiva, di fondare un seminario dei cinesi per convertire l’immenso Impero Celeste alla fede in
Cristo, Napoli avrebbe avuto stampato già ai primi degli anni trenta del Settecento un vocabolario sinolatino, per il quale il missionario ebolitano scrisse l’introduzione. Ma a quella fonte di sapere sinico, che
fu il Collegio dei Cinesi, attinsero non solo intellettuali napoletani come Domenico Cirillo, ma diplomatici di grande statura come George Macartney, missionari e poliglotti famosi del XIX secolo come
Ludovico de Besi e Giuseppe Mezzofanti, Quando leggiamo il canto funebre in morte di Gaetano
Argento e la traduzione dei riti funebri prescritti per i cinesi dal papa Benedetto XIV Lambertini proviamo una grande commozione. Del Collegio si seppe in Cina, al di là della ristretta cerchia di missionari, solo nel 1861, grazie alla Breve relazione di un viaggio in Occidente, di Pietro Kuo, fratello di
Giuseppe Maria. Più tardi l’istituzione fu visitata nel giugno del 1870 dalla prima delegazione diplomatica cinese in visita in Italia, dando luogo ad uno strascico di polemiche. Quindi ne parlarono il funzionario imperiale Hong Xun 洪勳, che ne atttribuì la fondazione a Matteo Ricci – errore in cui sono
incorsi non solo i cinesi – e il diplomatico Xue Fucheng 薛福成. Per fortuna, come documenta Wan
Ming, la prima accademia sinica europea sta ritornando oggi in auge nella Repubblica Popolare cinese.
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Vita di relazione e vita quotidiana
nel Collegio dei Cinesi*
GIACOMO DI FIORE • MICHELE FATICA
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
I. La vita di relazione nel Collegio dei Cinesi agli esordi: Ripa e gli altri
La viziosa vogliosità, che sul principio io ebbi di radunare soggetti, affine di non lasciare soli i Cinesi,
la Casa e la Chiesa ne tempi delle mie lunghe assenze da questa Città, fece che mi caricassi di alcuni
ecclesiastici, santi per altro, ma non buoni per questa communità; e perché non s’era ancor introdotto il noviziato, essendo loro rimaste alcune involontarie imperfezioni, disturbavano con esse la
novella pianta del Signore; onde, avendo io colla propria esperienza conosciuto il mal, ch’aveva fatto
in esser stato tanto facile a riceverli, mi posi a pregare instantemente il Signore a volersi degnare di
sgravarmene, promettendoli d’esser più cautelato nella recezione de soggetti per l’avvenire. Il
Signore si degnò esaudirmi, avendo disposto che un dopo l’altro se ne andassero, lo che causò non
poco discredito a questa Santa Opera, per vedersi dal publico, che nessuno vi persisteva1.
Così scriveva Matteo Ripa, ricordando i primi passi dell’istituzione da lui fondata, la Congregazione
della Sacra Famiglia di Gesù Cristo con l’annesso Collegio dei Cinesi.
Tra gli «ecclesiastici, santi per altro, ma non buoni per questa communità» Matteo Ripa si sofferma a lungo sui suoi rapporti con Alfonso Maria de Liguori, che soggiornò per tre anni – dal giugno
1729 al novembre 1732, in qualità di convittore presso il Collegio dei Cinesi, nella sede ai Pirozzoli,
situata alle falde di Capodimonte, acquistata dallo stesso Ripa nell’aprile del 1719 dai padri olivetani.
Giacomo Di Fiore è autore dei capp. I e III di questo saggio; Michele Fatica ne ha scritto il cap. II ed ha curato le citazioni
dal ms. originale del Ripa intitolato Istoria o sia relazione.
1
Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione e Collegio della Sagra Famiglia di Giesù Cristo, ms. in ACGOFM, MH,
9-2, cap. 28, sotto la data di Napoli, luglio 1732, p. 299. Nel 1832, in previsione del processo di santità del Ripa, che avrà inizio, senza esito, solo nel 1874, i congregati della Sacra Famiglia di Gesù Cristo assemblarono detto manoscritto con 5 tomi
scritti dallo stesso Ripa, intitolati Giornale de viaggi …, per stampare in 3 tomi una Storia della fondazione della Congregazione
della Congregazione e del Collegio de’ Cinesi sotto il titolo della Sagra Famiglia di G. C. scritta dallo stesso fondatore Matteo Ripa,
Napoli 1832, opera in gran parte rimaneggiata e non priva di vere e proprie falsificazioni. Per la vicenda legata al cattivo uso
dei manoscritti del Ripa si rinvia a Matteo Ripa, Giornale (1705-1724), vol. I (1705-1712), introduzione, testo critico e note di
Michele Fatica, Napoli 1991, intr. passim.
*
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
Dopo aver descritto in molte pagine le travagliate relazioni tra se medesimo e il de Liguori, il fondatore del Collegio dei Cinesi conclude:
Voglio però che serva questo fatto [la diserzione di Alfonso Maria de Liguori] per ammaestramento
d’ogn’un di noi a non voler mai condescendere a dispensare la nostra regola, che proibisce accettare alcuno che abbia vestito l’abito d’altro istituto, benché sia d’un giorno solo, e indi senza legitima
causa l’abia deposto, e molto meno andar inquietando le altrui communità, con subbornare i soggetti a disertare dalla loro vocazione per abbracciare questa nostra vita, mai non benedicendo Dio
queste simili azioni2.
Che il giudizio su Alfonso Maria de Liguori, presentato come un personaggio che andava inquietando le altrui congregazioni e subornava i soggetti per indurli a seguirlo, non fosse lusinghiero, non
sfuggì ad Antonio Tannoja, compagno del de Liguori e suo primo biografo, il quale ebbe modo di leggerlo, facendo rilevare che quelle espressioni del Ripa suonavano «non a gloria di Alfonso, ma a suo
vituperio»3. Tra quanti abbandonarono, insieme al futuro S. Alfonso il sacerdote ebolitano, nelle
memorie di quest’ultimo troviamo altri due nomi: quello di Vincenzo Mandarini e di Gennaro Maria
Sarnelli, ai quali egli dedica la seguente nota:
… benché il Mandarini con altri suoi compagni persistesse qualch’anno in Tramonte, in quest’anno
1738 ch’io rileggo questa Relazione per corriggerla, ne sono stati con poco decoro scacciati. S’è unito
il Mandarini con alcuni ecclesiastici, che convivono in Cajazzo, e con essi si sforza di servire il
Signore. Col Sig. D. Alfonso di Livoro s’unì il Sig. D. Gennaro Sarnelli. Questo rimase nella casa presa
in affitto a Scala, assieme con un vecchio sacerdote, attuale canonico di quella città, per proseguire
ivi l’erezione della loro fondazione, dicendo la regola sudetta da essi mitigata, ed il Sig. D. Alfonso
con un altro buon sacerdote se ne andò su d’un monticello sei miglia distante dalla città di Caiazzo,
per formar ivi il noviziato. Il Sig. Sarnelli si sciolse dalla radunanza e così finì la nuova religione4.
Per ora ci soffermiamo su Gennaro Maria Sarnelli, del quale ci siamo già occupati parecchi anni fa,
trattando della memorabile, forsennata e perdente crociata che egli condusse contro le meretrici di Napoli5.
Qui ritorneremo ancora su questo personaggio e su quel breve periodo della sua vita (anch’essa peraltro di
scarsa durata: morì ad appena quarantadue anni) durante il quale fu ospitato nel Collegio dei Cinesi.
Ibidem, cap. XXVIII, p. 307.
Antonio Maria Tannoja, Vita ed istituto di S. Alfonso Maria de Liguori, Napoli 1798, vol. I, p. 73.
4
Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione …, cit., p. 306.
5
Giacomo Di Fiore, Il “più antico mestiere” e uno scrittore napoletano del ‘700, in «Prospettive Settanta», 3-4 (1985), pp. 378402.
2
3
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Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
Secondo Raimondo Giovine, che a metà Ottocento scrisse la più completa biografia del Sarnelli, e
che avrebbe curato la ristampa delle sue opere, «a dì 4 giugno 1729», il Sarnelli entrò «nel sudetto convitto de’ Cinesi in qualità di semplice convittore», e il suo esempio fu subito seguito da Alfonso de
Liguori – anche se secondo il Ripa il primo a dare il cattivo esempio fu proprio quest’ultimo – «il quale
vi entrò nella stessa qualità verso la metà del medesimo mese di giugno»6.
A parte il discorso su chi fosse stato per primo il seminatore di discordie, i due giovani erano, al
momento di entrare come convittori nella istituzione del Ripa, già legati da un saldo rapporto di amicizia e di collaborazione, iniziato da qualche anno e che avrebbe visto il suo momento più fervido nella
pratica delle cosiddette cappelle serotine. Partendo dal presupposto che «all’imbrunir della sera ... la
maggior parte dei plebei è libera dalle faccende», un piccolo drappello di volenterosi preti, guidati dal
de Liguori e comprendente il Sarnelli, all’epoca peraltro non ancora ordinato sacerdote, cominciò nelle
serate estive a catechizzare la gente «in luoghi remoti e solitari, cioè nel largo avanti le chiese di S. Teresa
de’ Scalzi, di S. Agnello a Caponapoli, e di S. Francesco di Paola sopra la Stella». Ma, poiché «a quei
tempi alcuni soldati luterani sparsi per la città occultamente tenevano cattedra, ponendo ogni loro
ingegno a togliere ai buoni Napoletani la Fede che avevano ricevuto dal Principe degli Apostoli», e ne
seguirono alcuni arresti di «eretici», si sparse per la città una generale diffidenza: «siccome i napoletani sono menti magnificatrici, così ogni unione che vedevano in luogo solitario, subito sospettavano che
fosse di luterani»7. L’arcivescovo di Napoli, Francesco Pignatelli, per evitare disordini, proibì queste
generose ma incontrollabili adunanze, e così il de Liguori e i suoi compagni ripiegarono nella catechesi «non più nelle piazze, ma nelle private case».
Erano principalmente il de Liguori e il Sarnelli a dedicare le proprie energie all’opera:
Spesso al tramontar del sole ambedue uscivano dal convitto; e girando per quelle case e botteghe ove erano
tali sacre adunanze, erudivano quei plebei delle cose necessarie al conseguimento dell’eterna salute e con
belli e sacri ragionamenti l’incuoravano ad essere buoni e costumati cristiani. Compiuto il catechismo, e
fatte le pratiche di pietà, si ritiravano verso il tardi nel convitto carichi di gloriose spoglie rapite all’inferno8.
A seguito del successo che riscosse la nuova iniziativa, «si aprirono le pubbliche chiesicciuole che
erano per le vie della città, e furono addette ad uso della religiosa istruzione della plebe: e così furono
chiamate cappelle serotine»9.
Raimondo Giovine, Vita del gran servo di Dio D. Gennaro Maria Sarnelli padre della Congregazione del SS. Redentore, Napoli
1858, vol. I, pp. 94-95.
7
Ibidem, p. 89-90.
8
Ibidem, p. 97.
9
Ibidem, p. 92.
6
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
Non sappiamo quanto queste pie scorribande fossero approvate dal Ripa. Certo è che il sacerdote
ebolitano sollecitava con insistenza i due convittori, affinché si affiliassero alla sua congregazione (sembra anzi, come vedremo, che almeno il Sarnelli si fosse in qualche modo impegnato in tal senso), e fu probabilmente proprio per sottrarsi a pressioni sempre più assillanti che sia il de Liguori, sostenuto da
Tommaso Falcoia e tentato dall’avventura di fondare una propria congregazione, sia il Sarnelli, consigliato dai propri direttori spirituali, decisero di lasciare il Collegio a breve distanza temporale l’uno dall’altro.
Raimondo Giovine, la cui fonte è in questo caso evidentemente proprio l’ex missionario, per giustificare l’uscita del Sarnelli dal Collegio si serve delle medesime parole del Ripa con la citazione delle
quali abbiamo aperto questo lavoro:
Se non che siccome p. d. Matteo Ripa aveva ammesso nel suo convitto alcuni ecclesiastici santi per altro,
ma non buoni per la sua comunità, perché avendo costoro qualche involontaria imperfezione, le recavano disturbo e confusione; così Gennaro Maria poco dopo di essere stato iniziato nella chierical tonsura
pensò di far ritorno alla casa paterna. Infatti a dì 8 aprile 1730 uscì dal convitto, avendovi dimorato per
mesi dieci e giorni quattro. Sebbene però in tal riscontro fosse uscito dal convitto, nondimeno proseguì
ad essere amico e confidentissimo del p. Ripa, anzi ad essergli di aiuto per la sua nascente Congregazione10.
Il Giovine, dunque, attribuiva al disturbo e alla confusione che provocavano questi ecclesiastici
«santi per altro ma non buoni per la comunità», la decisione del Sarnelli di lasciare il Collegio, contrariamente a quanto invece ritiene, più verosimilmente, lo studioso redentorista Oreste Gregorio, il quale
identificava proprio nel Sarnelli il più importante di quegli «ecclesiastici, santi per altro, ma non buoni
per questa communità», a cui si riferiva Matteo Ripa con una «allusione indiretta poco elogiativa»11.
Mentre nella Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione e Collegio della Sagra Famiglia
di Giesù Cristo il giovane convittore è citato in soli due luoghi, in un manoscritto del Ripa (il cosiddetto Zibaldone, sorta di diario e insieme di brogliaccio, fogli di appunti, minute di lettere) è invece menzionato più volte.
Quando ne scrisse la biografia, Raimondo Giovine non era certo all’oscuro che il Sarnelli aveva
avuto col Ripa un pesante dissidio: lo attesta la superflua precisazione dell’autore sui buoni rapporti
che si sarebbero mantenuti fra i due dopo l’abbandono del Collegio da parte del Sarnelli (che sarebbe
più preciso definire la sua cacciata a opera del Ripa). Ma seguiamo gli eventi, partendo da alcuni
appunti del Ripa nel suo Zibaldone12, in fogli pieni di cancellature e non sempre di facile decifrazione.
In uno di questi fogli13 troviamo, su una delle due colonne, in cui è diviso il foglio, un appunto intitoIbidem, p. 100.
Oreste Gregorio, Lettera inedita del ven. Gennaro Sarnelli all’abate Matteo Ripa, 1730, in «Spicilegium historicum
Congregationis Ss.mi Redemptoris», XXIII (1975), n. 1, p. 5n.
12
Il ms. conservato nell’ACGOFM, MH, 12-3, e sarà d’ora innanzi cit. come Zibaldone.
10
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Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
lato: Lettera al sig. Sarnelli. 21 Gennaro 1730. Circa l’obedienza da prestarsi al Superiore del luogo. Siegue
la risposta. Sull’altra colonna troviamo, invece, quella che doveva essere con ogni probabilità la minuta o quanto meno il canovaccio – pieno di ripetute cancellature – su cui sarebbe poi stata formulata la
lettera vera e propria. Questa, come si è detto, è andata perduta, ma possiamo tuttavia ricostruirne con
buona approssimazione il contenuto, anche tenendo presente la risposta del Sarnelli, che è invece a
disposizione degli studiosi dopo la sua relativamente recente pubblicazione a opera di Oreste
Gregorio14.
Il Ripa esordiva comunicando al «carissimo Sig. D. Gennaro» di avergli inviato «l’attestato che
desiderava», e che presumibilmente doveva riferirsi alla sua buona condotta nel Collegio dove era convittore. Egli aggiungeva poi di avere:
aggiatamente considerato avanti Dio quest’affare, stante che nell’ultima parlata che V. S. fece meco la
notte della mia partenza [per Roma] non solo si dimostrò tanto restivo alla volontà del suo Superiore,
ma di più si espresse di non essere ancor fermo e determinato di persistere in cotesta Congregazione,
dandomi così giusto motivo di negarle il detto attestato, e di più venire ad altre risoluzioni, pure avendo maturamente considerato l’affare avanti il Crocifisso, e fatto riflessione, che il male non perviene
dalla sua volontà, che è risoluta di amare e servire Dio, ma che perviene dal comune inimico del genere umano, che invidiando il bene che si puol fare, l’ha confuso la mente, e sotto pretesto di bene l’ha
già illuso. E mi creda caro D. Gennaro, che in Gesù Cristo le parlo, mi creda dissi, che in questo V. S.
già è illuso; e di più essendo io entrato in speranza che col svelarle io apertamente il suo male, sia ella
per ravvedersi ed emendarsi, pertanto per questa volta non solo desisto dal prendere qualunque risoluzione, ma anche le invio il desiderato attestato. Intanto Le faccio sapere come se in ogni ben regolata communità si esigge una perfetta ubedienza al Superiore, in cotesta però che ora nasce, si esigge
perfettissima. E non si supporterà in essa soggetto alcuno, per qualunque altra buona parte che egli
abbia, se non ha un animo risoluto e pronto di totalmente esser morto nel volere del Superiore; e questa o carissimo fratello, è la sola perfezione, e non già l’oprare di propria testa: obbedire praepositis
vestris, e vivere nel volere del proprio Superiore, quando non è apertamente peccaminoso, questo è il
volere di Dio, e tutto quello che nelle comunità si fa contro il volere del Superiore non solo tutto è
perduto, ma tutto è inganno aperto e manifesto del demonio. Sicché dunque, acciò ella resti illuminata e venga ad intendere in che consista la vera perfezione di chiunque vive in comunità, con questa
la priego, ed acciò ne abbia anche il merito della virtù dell’ubbedienza, fortemente la incarico a volere ogni giorno far parte della sua quotidiana lettura spirituale nel trattato dell’ubbedienza che fa quel
Zibaldone, f. 169.
Oreste Gregorio, Il Ven. p. Sarnelli e l’abate Ripa, in «Spicilegium historicum Congregationis Ss.mi Redemptoris», XI (1963),
n. 1, pp. 245-51.
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
gran maestro di spirito D. Rodriguez15. Legga con attenzione, legga con animo disposto di volere
intendere e fare la volontà di Dio, e caldamente raccomandandosi al Signore resterà senza dubbio illuminata, e spero che mai più sarà per resistere al volere del suo Superiore.
E per toglierla da un altro errore, ben è che le faccia parimente sapere, come presentemente che siamo
pochi, benché si permette il potersi far guidare nelle cose di spirito da altri che non sono di codesta comunità, non per questo il Superiore non resta Superiore, potendo egli non ostante dimandare conto di
coscienza, e modificare come meglio stimerà egli nel Signore anche nel caso istesso che ella facesse il voto
che disse voler fare di ubbidire al suo Direttore. Confido in Dio e nella sua buona volontà di voler incontrare in tutte le cose il divino volere, che sarà per fare quanto qui le ho scritto, come ne la priego …16.
Questo dunque dovette esser il tenore della lettera perduta – piuttosto ripetitiva, e tutta imperniata sull’ubbidienza dovutagli – che il Ripa scrisse al Sarnelli, il quale a sua volta il 6 febbraio 1730 rispondeva al Superiore senza negarsi a una franca discussione:
In quanto poi alli lamenti che V. S. fa di me, per gloria di Dio benedetto e per sua soddisfazione conviene che io risponda […]. In quanto a quello che V. S. dice esser illuso, spero nella Misericordia di
Dio di no, secondo il parere di tanti Santi, e savii uomini di questa città17.
Il Sarnelli precisava poi che «dalla parlata che ebbimo in quella notte» – ricordata dal Ripa nella
sua lettera – non si poteva inferire che egli volesse abbandonare il Collegio, ma solo «che io in questo
Collegio desiderava vivere da Convittore e non esser del Corpo», cioè non aderire alla Congregazione
della Sacra Famiglia di Gesù Cristo, e ne precisava le ragioni:
I motivi poi che mi hanno mosso a vivere da Convittore, e come tale desidero esser riputato in questo Collegio, sono moltissimi. Tra gli altri essendo io sempre per lo più infermo e di non troppa complessione non posso addossarmi molti pesi, ma mi conviene vivere con minor peso che sia possibile, essendo debole e spesso infermo, e vivendo come del corpo, ogni momento avrei dovuto farmi
dispensare mille cose e mi sarebbono facilmente venuti mille scrupoli.
Il Rodriguez, cui fa riferimento il Rip, è senza dubbio il gesuita spagnolo Alonso Rodriguez (1537-1612), autore di un ponderoso trattato di morale dal titolo Exercicio de perfecion y virtudes christianas, edito per la prima volta a Siviglia nel 1609, tradotto in varie lingue (tra cui l’armena, l’araba e la cinese) e più volte ristampato tra Seicento e Ottocento. V. A. e A. De Backer,
Bibliothéque de la Compagnie de Jésus, (nuova ed. a c. di Carlos Sommervogel, Bruxelles-Paris 1895, ad vocem). Nell’ultima
sezione di questo best seller, il Trattato V, dedicato alla virtù dell’ubbidienza, si legge che è necessario «confermar il giudicio e
l’intelletto nostro al giudicio del Superiore, avendo non solamento un’istesso volere, ma anche un’istesso sentire col
Superiore»: cito dall’ed. veneziana del 1726 di A. Poletti, p. 286 della III parte (l’intero volume supera pagine 1700).
16
Zibaldone, ff. 169-170.
17
Le citazioni che seguono sono tratte da Oreste Gregorio, Il Ven. p. Sarnelli e l’abate Ripa, cit., pp. 246-249 e passim.
15
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Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
Suona davvero strana quest’insistenza sulla gracilità della propria salute – che effettivamente non
era per niente florida, se ricordiamo che il Sarnelli, come si è già detto, morì a soli quarantadue anni –
da parte del sodale di Alfonso Maria de Liguori, che nella congregazione fondata poi da quest’ultimo
non si sarebbe risparmiato afflizioni, tormenti e macerazioni, a detta di tutti i suoi biografi. Molto probabilmente le motivazioni che egli accampava per giustificare il proprio rifiuto erano solo di facciata:
la verità era semplicemente che il Sarnelli non voleva legarsi al Ripa, del quale aveva avuto modo di sperimentare l’inflessibile autoritarismo.
Agli appartenenti alla congregazione, scriveva poi il Sarnelli, erano preclusi benefici o cappellanie,
e questa limitazione lo scoraggiava. Non sappiamo quanto il giovane fosse sincero in proposito, considerando il suo assoluto disinteresse e la vita di stenti che volontariamente conduceva:
Di più da qui a cento anni dopo morto mio padre non sarà molto ampia la mia posizione, e Dio
benedetto vuole che ogn’uno pensi (benché senza sollecitudine) a procurarsi con mezzi leciti il suo
mantenimento onesto.
Il Sarnelli era perplesso anche sulla proibizione, imposta dalle regole del Ripa, di iscriversi in futuro ad altre congregazioni. E all’ex missionario che lo aveva definito un illuso, egli replicava ricordandogli che uomini d’eccezione, come Tommaso Falcoja, vescovo di Castellammare e suo primo padre
spirituale, così come il suo attuale direttore di spirito, il gesuita Domenico Manulio, gli avevano consigliato di restare nel Collegio come semplice convittore, senza far parte della congregazione della Sacra
Famiglia:
Veda dunque che non è così facile l’esser illuso, essendomi posto nelle mani, e regolandomi col consiglio di sì grandi uomini.
L’accenno a «sì grandi uomini» indirettamente, ma di fatto, sminuiva il Ripa, quasi che lui non
appartenesse a questa schiera eletta. Dal contesto della lettera si comprende, poi, che il Sarnelli fosse
stato invitato, o piuttosto obbligato dall’ex missionario a collaborare alla sua istituzione impartendo
lezioni ai collegiali – col tacito accordo di pagare in cambio una retta più modica, come vedremo – ma
il giovane, che pure si era adattato a far da maestro a uno degli ospiti, il ginevrino Pitard, e qualche
volta anche agli alunni cinesi, non voleva accollarsi quest’altro onere in via permanente:
gli Cinesi possono aver assai miglior sodisfazione e accudimento essendo insegnati da altri; io non
ho prattica di dar lezione, né l’ho fatto mai; m’indussi a farlo al Genevrino, conoscendone la gran
necessità e che era meglio quel poco che poteva che niente.
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
L’esigenza del Ripa di gravare di incombenze il giovane convittore contrastavano col desiderio di
questi di dedicarsi ad altre attività di edificazione spirituale. Il Sarnelli, che stava per ascendere al sacerdozio, avvertiva la necessità di prepararsi per il suo ministero, e temeva che l’adesione alla congregazione ripiana gli avrebbe tarpato le ali, assorbendo tutto il suo tempo libero; se ne ha una conferma in
alcuni passi rivelatori di questa lettera:
Io ho studiato sino all’altro giorno scienze del mondo inutili: ho preso questo santo stato non più
che un anno e mesi .... ho necessità positivissima di studiare qualche cosa del mio stato, ho da passare per ignem et aquam per tanti esami. Veda perciò V. S. che se voglio applicarmi con tanti pesi, e
in tante cose non mi resta tempo di studio. Per questi, e per altri motivi mi convien esser Convittore.
In definitiva, il Sarnelli ribadiva che voleva rimanere nel Collegio, senza però affiliarsi alla congregazione. Ma la lettera del Sarnelli è importante perché vi troviamo espressa, sia pure en passant, la
prima testimonianza giovanile di quella che sarebbe stata l’ossessione di tutta la sua vita, e cioè l’abominazione delle donne pubbliche, contro le quali egli avrebbe in seguito ingaggiato una feroce, e, come
si è detto, perdente battaglia. In una lettera che si riferisce al Carnevale del 1730 se ne trova una fuggevole traccia; sia pure sotto forma di un rapido flash – quasi una foto scattata in un interno, o un quadretto d’ambiente del tempo – attraverso cui emergono confusamente non solo i volti sbiaditi dei giovani cinesi ospitati a Napoli fra le mura di quel Collegio che da loro prese il nome, ma anche i loro desideri e le loro frustrazioni:
Filippo [Huang 黃] sta infermo con tosse e dolor di petto, e da molti giorni non fa lezione. Lucio
[Wu 吳] la fa quando sta bene. Filippo sta molto attaccato e vuole andare a vedere i carri di Bacco;
Don Vincenzo [Mandarini] saviamente non li diede licenza, sì perché queste scene non convengono
sempre a’ Missionarii, sì anche perché le strade del mondo sono in questi tempi specialmente piene
di schifezze, e di scandali, cioè di donne pubbliche e di donne vestite da uomini, di parole sporche,
di risse, ecc. Insomma trionfa per ogni via satanasso, e trionfa il gentilesimo in questi giorni anche
in mezzo ai Cristiani. Esso volea domandar licenza a V.S. Io che glielo vedo così attaccato, non ostante che glielo avessi dissuaso, anche ho voluto scriverne a V. S.; se le pare non gliela dia.
Gennaro Maria Sarnelli aveva allora ventotto anni, e solo quattordici da viverne ancora, nel corso
dei quali avrebbe scritto diverse migliaia di pagine contro la piaga della prostituzione, non tanto per
abolirla – la disponibilità sessuale di queste peccatrici contribuiva in fin dei conti a tenere sotto controllo la libido di soggetti che altrimenti l’avrebbero sfogata ai danni di onorate vergini o di rispettabili matrone – quanto piuttosto perché questa attività si esercitasse in appositi quartieri periferici, o,
come si diceva allora, extra moenia.
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Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
Ma proseguiamo nella lettura del carteggio tra Ripa e Sarnelli, davvero emblematico del sistema di
relazioni in vigore nel Collegio dei Cinesi ancor vivo il fondatore. In una Risposta al sig. Sarnelli, datata 11
febbraio 173018, il Ripa ribadiva l’ubbidienza più assoluta dovuta al superiore, rifiutando di condividere la
propria autorità con chiunque altro, fosse anche il più santo dei direttori spirituali, attenendosi alle indicazioni dei quali un giovane inesperto come Gennaro Maria Sarnelli poteva facilmente cadere in errore:
né è questa la mente del suo direttore [e cioè che il Sarnelli abbandonasse la congregazione del Ripa],
perciò non bisogna lusingarsi, ma intendendo che questo è secondare il proprio giudizio e parere,
cioè a dire secondare la tentazione, e perciò dissi e dico che in questo ella è illuso.
Senza tanti giri di parole, l’ex missionario comunicava seccamente al Sarnelli che alla sua comunità
non conveniva tenere come convittore un soggetto come lui, che, tra l’altro, aveva quanto meno già formalmente promesso, se non addirittura assunto l’impegno solenne, di affiliarsi alla congregazione. Infatti,
l’ex missionario faceva esplicito riferimento alla cassazione del giovane dal numero dei congregati, il che
presupponeva che un formale impegno fosse stato preso dal Sarnelli, anche se in verità questi non aveva
mai usato nella sua lettera il termine così impegnativo che gli attribuiva con qualche forzatura il Ripa:
Al punto di voler esser cassato dal numero de Congregati e restar costà per Convittore, le dico che
cotesta minima nascente Congregazione è fondata colla porta aperta, e perciò uno puole uscirsene
ogn’ora che vuole. E chi non volesse sottomettersi alle sue regole, fundamento delle quali è l’ubbidienza, ne sarà licenziato.
Dobbiamo osservare che sia la prima, che la seconda affermazione del Ripa sarebbero state smentite dalla sua successiva condotta: un alunno insofferente della disciplina come Lucio Wu non trovò mai
le porte aperte per andarsene, ma dovette fuggire, e per questa fuga venne perseguitato vita natural
durante dalla vendetta del Ripa e dei congregati19.
Anche da altre frasi dello Zibaldone (e da una successiva lettera dello stesso Sarnelli) abbiamo la
conferma che questi si fosse tirato indietro dopo avere promesso di affiliarsi all’istituzione del Ripa,
come sottolineava l’ex missionario:
Se ella sul principio fosse venuto per Convittore, sarebbe stato il Padrone, avendole io proposto l’uno
Zibaldone, f. 179.
Giacomo Di Fiore, Un cinese a Castel Sant’Angelo. La vicenda di un alunno del Collegio di Matteo Ripa fra trasgressione e reclusione, in Aldo Gallotta, Ugo Marazzi (a c. di), La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, vol. II, t. I,
Napoli 1989, pp. 381-432.
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
o l’altro partito, ma dopo essersi ascritto alla Congregazione e dopo averlo detto anche alli signori
canonici […] non par che ora convenga tenerla per convittore20.
Ma il Ripa contestava anche le scusanti – come la precaria salute – che adduceva il Sarnelli per
recedere dal suo proposito iniziale di far parte della congregazione:
Essendo io (sono sue parole) sempre per lo più infermo e di non troppa complessione non posso
addossarmi molti pesi, ma mi conviene vivere con minor peso che sia possibile, essendo debole e
spesso infermo, e vivendo come del corpo, ogni momento avrei dovuto farmi dispensare mille cose
e mi sarebbono facilmente venuti mille scrupoli.
Rispondo: La regola, com’ella sa, è d’elezione, non obliga a verun peccato, e l’infermi sono dispensati dallo stesso jus.
Dunque, perché tanto zelo indiscreto? Nessuno gli aveva ordinato tutte quelle mortificazioni:
Se ella è infermo, e non puol fare un’ora di orazione che è quanto prescrive la regola, perché vuol
farne quattro in tempo d’infermità, e che positivamente l’ammazza? Perché vuol andare a dimorare
per più ore .... nell’Incurabili, in tempo che ella appena puol reggersi in piedi? Perché vuol fare tante
astinenze e digiuni... e tante altre cose che non solo non sono prescritte dalla Regola, ma proibitele
dal Superiore in tempo d’infermità per essere positivamente nocive alla sua salute?
Il Ripa aveva buon gioco nel rilevare le incongruenze della posizione del Sarnelli, il quale accampava la propria cattiva salute per esimersi dall’entrare nella Congregazione, ma nello stesso tempo si
sottoponeva a tali mortificazioni che la peggioravano ancor più:
Caro don Gennaro, di grazia, non crede che col fatto stesso ella si contradice? Quali sono state tutte
le doglianze del Superiore e di tutta la comunità se non questa di non voler essere ella discreto?21.
Quanto tormentata e meditata fosse stata questa lettera che il Ripa indirizzò al Sarnelli lo testimoniano le numerosissime cancellature dello Zibaldone, e la presenza nel testo dei passi più importanti
della lettera del Sarnelli che il Ripa aveva trascritto per meglio confutarli. Per esempio, come abbiamo
già rilevato, il giovane convittore aveva osservato che «quelli del corpo non possono aver cappellanie e
benefici», il che costituiva per lui un ulteriore impedimento a aderire alla Congregazione. Possiamo
immaginare con quanta irritazione il Ripa scrivesse nel suo Zibaldone: «la priego a volermi significare
20
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Zibaldone, cit., f. 180.
Ibidem, ff. 180-181.
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
dove sta questo punto di regola che proibisce tal cosa? Io ho scritto la regola, e questo punto non l’ho
scritto mai!».
Ci sia consentita ora una breve digressione a proposito delle regole della Congregazione redatte dal
Ripa. Quale secondo lui fosse il ruolo sacrale del superiore lo comprendiamo nella sezione intitolata
Dell’ubbidienza e maniera che dobbiamo portarci co’ Superiori, che costituisce il capitolo VII:
L’ubbidienza è quella virtù, per cui principalmente le Comunità sono ordinate adunanze, imperocché all’ora l’ordine in tutte le cose e la pace fra tutti e lo spirito di veri Congregati in Giesù fioriscono nelle Comunità, quando tutti, spogliati del proprio parere e volontà, che sono l’origine e la sorgiva copiosa d’ogni disordine e disturbo, unicamente seguitano i comandi e il parere del Superiore,
e in tutto ciò che ordina e prescrive, si persuadono di sentir Giesù che comandi, e senza altro scrutinio l’ubbidiscono pienamente, e seguitano a chiusi occhi le ordinanze da lui prescritte con esecuzione sollecita e pronta22.
Il Ripa era pienamente convinto – e non poteva essere diversamente al suo tempo – del supremo
valore della gerarchia, nel senso etimologico di sacro comando: infatti, sempre in questo capitolo sull’ubbidienza, si legge:
Chi opera senza la guida dell’ubbidienza, ma secondo il proprio parere e piacimento, et inclinazione, ancorché metta mano all’opera di cose grandi, si espone a pericolo di non secondare in quelle
opere il divino volere, e di essere illuso23.
Dunque secondo il Ripa solo il superiore ha un filo diretto col Signore ed è l’interprete del suo
divino volere, o, per dirla in altro modo, il volere del superiore è quello del Signore. Come se non fosse
ancora chiara l’assoluta importanza che il Fondatore attribuiva all’indiscussa autorità del superiore,
questa veniva ribadita nello stesso capitolo, con una terminologia che ricorda il perinde ac cadaver degli
odiati gesuiti:
Tutti coloro che si ascriveranno in questa adunanza della Sagra Famiglia devono prima d’ogni altra
cosa lasciare la propria volontà fuori della porta di questa Casa, e vivamente immaginarsi di esser
morti [si noti l’ossimoro] ad ogni proprio lor parere e volontà, e perciò dover in ogni cosa esser pienamente regolati e mossi dalla pura volontà del Superiore e dovranno interamente abbandonarsi alla
pura ubbidienza senza replica e mormorazione.
22
, MH, 1-1, Regole e costituzioni della Congregazione e Collegio della Sagra Famiglia di Giesù Cristo, (d’ora innanzi: Regole e
costituzioni), f. 19.
23
Ibidem, f. 20.
31
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
Ci fermiamo qui per non tediare il lettore con l’esaltazione, da parte dell’ex missionario, dell’ubbidienza, fondamentale virtù che ora veniva messa in discussione dal riottoso Sarnelli. Questi rispose
alla lettera del Ripa il 19 febbraio 1730, ribadendo in sostanza ancora una volta la propria intenzione
di restare nel Collegio come semplice convittore al pari di Alfonso Maria de Liguori.
Nella lettera, tuttavia, il Sarnelli era piuttosto vago, per non dire ambiguo, circa l’effettiva promessa che avrebbe fatto di iscriversi alla Sacra Famiglia:
Vostra Signoria dice che io entrai sotto titolo della Congregazione, e perciò conviene che tale io resti.
Rispondo che io nel venire in questo Collegio ebbi intenzione di ritirarmi dalli tumulti del mondo
per darmi maggiormente al servizio di Dio, ed agli studii, non sapendo né l’obbligazioni di quelli
della Congregazione, né le sue regole.
Il giovane ricordava che «quelle offerte che V. S. fece a me, anzi molto maggiori, venne il barone
Ripa, suo fratello, in casa e le fece a detto mio padre, e detti miei fratelli», e che egli non aveva escluso
di affiliarsi in seguito alla congregazione del Ripa, «e così dunque non entrai con animo fermamente
risoluto di esser specialmente del corpo, anzi da’ primi giorni andava tra me ruminando voler esser
convittore».
Dal punto di vista del Sarnelli sembra, dunque, che egli avesse più che altro subìto la sollecitazione a entrare in qualche modo nella nascente istituzione del Ripa, e che, pur non avendo scartato la prospettiva di farne parte, neanche aveva però formalizzato la propria adesione, «tanto più che questa
comunità non può dirsi veramente comunità, né già finora è stabilita Congregazione». Come poteva
dunque dirsi che egli fosse stato del numero dei congregati, se l’istituzione non aveva ancora alcun riconoscimento ufficiale?
Eppure in qualche modo egli ammetteva di essersi compromesso:
E poi V. S. ben sa che è cosa dell’uomo prudente il mutar consiglio, col consiglio degli direttori dotti,
santi e discreti … non è cosa pregiudiziale che i Signori Canonici avessero inteso dire sei o sette mesi
fa voler essere io del corpo, ed ora per ottime, sante e ben fondate ragioni col parere de’ savi ho risoluto altrimenti ….
In fin dei conti, concludeva il giovane, egli poteva benissimo restare nel Collegio senza dar fastidio
a nessuno, e anzi aiutando con qualche lezione i collegiali. Bisognava badare al sodo: «poco si curi V. S.
del resto, e dei titoli Congregazione e di Convittore».
A indispettire il Ripa fu sicuramente proprio questa ostentata non-chalance, oltre ai riferimenti più
propriamente giuridici (il Sarnelli prima di farsi prete era stato avvocato). Poiché la lettera di risposta
del Ripa è andata perduta, vale la pena, per ricostruirne approssimativamente il contenuto, di soffer-
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Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
marsi sugli appunti, anche se purtroppo scarni, che ci rimangono dell’ex missionario. In detti appunti
il Ripa annotava al f. 186 dello Zibaldone:
Tre punti contiene quest’ultima lunghissima di V. S. de 19 febbraio – osservava il Ripa con una evidente punta di fastidio, trascurando evidentemente che anch’egli era stato a sua volta prolisso e ripetitivo quando vantava insistentemente la virtù dell’ubbidienza - e sono gli stessi che anche a lungo
descrisse nell’altra sua antecedente...
Nel primo mi fa sapere come i suoi Padri Spirituali Gesuiti avendo considerato le sue ragioni, le
hanno consigliato ad uscire da cotesta Congregazione; nel secondo poi dice che i medesimi Padri le
hanno consigliato a restarsene costà da semplice Convittore; e nel terzo, che vorrebbe V. S. servire
cotesta Casa da Maestro di scuola per così non pagar più che 30 carlini il mese24.
Si può ben immaginare quale concetto avesse il Ripa di questi invadenti gesuiti napoletani, dopo
essersi scontrato per tanti anni coi loro confratelli in Cina. Non sfugge dunque l’ironia con cui si riferiva a loro nella risposta che scrisse al Sarnelli, improntata del resto tutta a malcelato sarcasmo, che
riversava anche sulle contraddizioni del giovane, il quale chiedeva ora di essere utilizzato come maestro di scuola, mentre nella precedente lettera aveva dichiarato di essere troppo occupato a studiare per
impartire lezioni:
Or in risposta de detti tre punti, io dico che aderendo al savio consiglio de suoi direttori, e secondando il volere di V. S., in vigor di questa io la dichiaro cassato da cotesta Congregazione; e perché non
converrebbe che uno che è stato cassato resti per Convittore, nonostante per riguardo della sua persona e di sua casa, io l’ammetto per Convittore. Ma circa il voler servire cotesta Casa per maestro di scuola, dico che non rende conto a cotesta Communità di servirsi di V. S. per maestro. Primo, perché V. S.
è continuamente infermo, e la Casa vuole maestri sani. Secondo, perché V. S. non vuole ubbidire al
Superiore, e la comunità vuole maestri docili e che l’ubbidiscono alla cieca; e così sì per questi, come
per varii altri giustissimi motivi io non posso servirmi di V. S. per maestro di scuola.
Un altro appunto, cancellato ma leggibile, probabilmente non fu inserito nella lettera che poi il
Ripa scrisse al Sarnelli:
Secondo, perché sin’ora che V. S. è stato congregato s’è sempre scusato con dire che non sa insegnare: or se da congregato dice di non sapere per sua stessa confessione insegnare, è certo che ne pure
saprà insegnare da Convittore. E così si è per questi, come per vari altri giusti motivi, io non voglio
servirmi di V. S. per maestro di scuola.
Zibaldone, f. 186: Risposta alla lettera del Sig. Sarnelli colla quale viene escluso da Perrozzo [o Pirozzoli: è un altro nome della
zona di Napoli in cui sorgeva il Collegio]. 10 marzo 1730.
24
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
Dopo questa cancellatura, il testo riprende con tono duro, sarcastico e, a tratti, poco riguardoso:
Ma perché non voglio servirmi di V. S. come maestro di scuola, per tanto dal punto che riceverà questa lettera cominciarà a pagare li soliti sei ducati al mese che pagano li Convittori di cotesta Casa.
Che se poi non li potesse o non li volesse pagare i detti sei ducati al mese, in tal caso si compiacerà
consegnare la chiave della sua stanza al sig. don Vincenzo Mandarini. Al motivo di risparmio che poi
adduce allegando che V. S. magna una volta il giorno, poco o niente beve vino, ed io aggiungo che di
più spesso digiuna, dico che questi sono motivi da addursi all’oste, non ad una Casa Religiosa, la
quale all’ora appunto gode, quando vede che tutti egualmente magnano e bevono quello che loro dà
la communità, senza spirito di singularità, che è peste delle congregazioni25.
Così veniva liquidato il Sarnelli. Ma la sgradevole vicenda avrebbe avuto qualche altro strascico,
anche se non col diretto interessato. Nello Zibaldone del Ripa si riscontrano infatti un paio di ulteriori
riferimenti al suo ex convittore. Il primo lo troviamo nella minuta di una lettera diretta a Vincenzo
Mandarini, che fungeva da economo della congregazione: il Ripa si lascia andare a un tono confidenziale che si sarebbe ben guardato dall’adoperare, se avesse saputo che lo stesso Mandarini di lì a poco
avrebbe a sua volta abbandonato l’istituzione da lui fondata per seguire Alfonso Maria de Liguori e lo
stesso Sarnelli nella concorrente congregazione prima del Santissimo Salvatore e poi del Santissimo
Redentore.
Fo sapere a V. S. – il Ripa – come il sig. Sarnelli con due lunghissime mi ha fatto sapere che i suoi PP.
spirituali Gesuiti lo hanno consigliato a volere uscire da cotesta nostra Congregazione, e restarsene
da semplice Convittore, ed io aderendo al consiglio di detti Direttori ed eludere esso sig. Sarnelli
nella risposta che li ho dato, l’ho dichiarato cassato dal numero de Congregati, e lo lascio per semplice Convittore. V. S. dunque da oggi in avanti lo consideri come Convittore, senza mai imporli cosa
alcuna di servizio della Casa, dal di che riceverà quanto esigo da lui un tarì al giorno, cioè sei ducati al mese per tutto il tempo che seguirà a vivere in cotesta Casa. In tutte le sue lettere mi ha fatto
istanza di voler servire cotesta Casa da maestro di scuola, per così pagare sol 30 carlini il mese, ma
considerando io la continua sua infermità e sopratutto il non volere ubbidire che al suo confessore,
vedendo che non rende conto a cotesta casa di tenere per maestri cotesti soggetti infermi, indocili e
niente ubbidienti, non ho voluto accettarlo per maestro di scuola. Quindi egli che non ha più che 5
ducati il mese assegnatili da suo Padre, non potendo pagare li ducati sei, sarà costretto andarsene in
casa sua, ed io incarico V. S. a non volerlo distogliere, ma lasciarlo andare via, e l’istesso dica in confidenza a tutti gli altri nostri signori, essendo di servizio di cotesta Casa che se ne vada, tanto più che
se ne va per suo puro volere, sotto un mal titolo però, cioè per non ubbidire al Superiore. Il povero
25
34
Ibidem, f. 187.
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
però resta burlato, perché credeva che coll’uscire dalla Congregazione uscisse dall’ubbidienza, e
restando in casa da Convittore restasse coll’intiera sua volontà da poter fare tutto quello che le piace,
senza obbligo di ubbidire al Superiore, e non avendo io voluto accettarlo per maestro, non potendo
pertanto egli pagare li sei ducati, resta astretto andarsene in casa sua, ch’è quanto io desidero per il
bene di cotesta Casa che non vuole disubbidienti e uomini di proprio parere26.
Non sappiamo immaginare come avrebbe reagito l’astioso e vendicativo superiore – pensiamo
solo a quel malcelato trionfalismo del «povero resta burlato» – se il Sarnelli avesse accettato di restare,
pagando la retta che gli veniva richiesta: con tutta probabilità il fondatore avrebbe escogitato qualche
altra scusa per liberarsi del suo riottoso convittore, sia pure salvando ipocritamente la forma e senza
ricorrere a gesti traumatici o eclatanti.
L’altro accenno al Sarnelli si trova ancora nello Zibaldone: l’ex missionario non voleva che per
causa sua si guastassero i buoni rapporti che intercorrevano tra la famiglia dei baroni Sarnelli e quella
di suo fratello, il barone Lorenzo Ripa, al cui interessamento, come si è visto, si dovette l’ingresso del
giovane Sarnelli nel Collegio.
Del resto, nella già menzionata lettera del 6 febbraio 1730, Gennaro Sarnelli aveva fatto un preciso riferimento al fratello dell’ex missionario per rafforzare la legittimità della propria intenzione di
restare nel Collegio solo come convittore:
…tanto più che mi ricordo che tanto V. S. quanto il barone Ripa suo fratello, prima che io venissi in
questo Collegio, dissero chiaramente a miei parenti che io fossi qui vivuto come più mi piaceva, e
pareva da Convittore o in altro modo; e tali promesse e favore anche mi diedero la spinta a venirvi
più volentieri, e senza molta riflessione e molto studio27.
Ecco quello che il Ripa scriveva in quella che con ogni probabilità doveva essere, salvo ripensamenti, la minuta della lettera diretta al fratello per giustificare l’allontanamento del Sarnelli dalla sua
Fondazione:
Scrivo la presente a V. S per giustificare le mie operazioni avanti V. S. e la S.ra Baronessa, quanto
avanti il Sig. Barone e Baronessa Sarnelli. Le fo pertanto sapere, come, dopo di avere inutilmente procurato in varii modi di ridurre a discrezione la indiscreta vita del Sig. D. Gennaro Sarnelli che li fa
perdere la salute, e poco prima di partire per Roma avendolo veduto in pessimo stato di salute, stimai esser proprio ufficio del mio dovere di dare un passo più efficace per ridurre il sig. D. Gennaro
26
27
Ibidem, ff. 188-189: Al Sig. Mandarini circa il S. Sarnelli uscito dalla Congregazione.
Oreste Gregorio, Il Ven. p. Sarnelli e l’abate Ripa, cit., p. 248.
35
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
dentro i limiti della discretezza, quindi l’ultima sera della mia partenza qui avanti tutti li altri miei
Compagni e come Superiore del luogo fortemente imposi al Sig. D. Gennaro che durante la sua grave
infermità sotto la quale penava, non volesse abbassare [sic] in chiesa, che era fredda, e di gennaio
farsi due ore in circa d’orazione in genocchioni, ma che se ne stesse sopra nell’oratorietto segreto
seduto, e col foco avanti sentendo intra dal fenestrino la S. Messa. Di più l’imposi che non facesse
più di mezz’ora d’orazione mentale il giorno, potendo poi di quando in quando alzare dolcemente
la mente a Dio. Di più che non andasse più all’ospedale. E per finire, che non facesse nessun digiuno, o altra mortificazione, sin a tanto che non avesse ricuperata la sanità. Ad ordini sì discreti per il
bene della sua salute il sig. Sarnelli non volle ubbidire, sotto pretesto di volere ubbidire al suo Padre
Spirituale Gesuita, asserendo che tanto le veniva consigliato da esso Padre. Belle massime di spirito!
Sarebbero rovinate tutte le comunità, se i sudditi negassero l’ubbidienza a’ loro Superiori, sotto il
pretesto di volere ubbidire alli loro Padri Spirituali. A tal resistenza all’ora per all’ora io averei dovuto licenziarlo, e mandarlo in sua casa, ma la considerazione d’esser figlio delli Signori Baroni e
Baronessa Sarnelli mi fece dissimulare, e gionto qui in Roma, da qui li scrissi una lettera, acciò si ravvedesse, ma la risposta fu di scrivermi che li suoi Padri Spirituali Gesuiti lo consigliavano a volere
uscire dalla Congregazione della Sagra Famiglia (per così uscire dall’obligo d’ubbidire al Superiore),
e restare in Casa per puro Convittore, i quali non sono obbligati all’ubidienza del Superiore. Almeno
a questa lettera io subito averei dovuto licenziarlo, e per i detti riguardi de signori Barone e Baronessa
Sarnelli anche mi trattenni, e le risposi facendole vedere il male che faceva, e che averei pregato Dio
circa quello che dovevo fare.
A detta mia il sig. D. Gennaro ha risposto, ed ha replicato l’istesso, cioè di volere uscire dalla
Congregazione e restare per Convittore, allegando il consiglio delli suoi Direttori Gesuiti. Or a questa seconda sua io non posso più tener sospesa la risoluzione, onde in questo ordinario le ho risposto che, aderendo al consiglio de suoi Direttori, e secondando il suo volere, lo dichiaro cassato dal
numero de’ Congregati; e benché affatto non converrebbe lasciarlo nel numero de Convittori, pure
lo lascio a riguardo de suoi degni Genitori.
Perché il sig. Sarnelli sa, che volendo vivere da Convittore, deve pagare sei docati il mese, e non 30
carlini come ha fatto sin’ora, ch’è vissuto da Congregato, ed egli non puole pagare sei docati il mese,
stante che il Sig. suo Padre non glie ne somministra più di cinque, perciò si è offerto di servire la
comunità da Maestro di scuola, e così pagare soli 30 carlini il mese. Ma sopra questo considerando
io la continua infermità di esso sig. Gennaro e soprattutto la sua durezza in ubbidire al Superiore,
perciò affatto non posso servirmi di lui per Maestro di scuola, volendo io un Maestro di scuola che
mi ubbidisca, che sia docile e pieghevole, e di salute sano, e non lui, infermo e che si è dichiarato di
non volere ubbidire. Or non servendomi di lui da Maestro di scuola, e restando da Convittore come
egli ha voluto, non potendo pagare sei docati il mese, perciò sarà costretto andarsene in casa sua,
restando così burlato, perché egli si credeva che io l’accettassi per maestro di scuola, ma una volta
che egli ha voluto uscire dalla Congregazione, ancorché stasse sano, io non devo [cancellato: voglio]
servirmi di lui e so quanto mi occorre su questo fatto, che gliel’ho scritto a distinzione, acciò sia nota
a lor Signori la mia condotta, e così non abbino a lagnarsi di me [cancellato: circa questo affare, aven-
36
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
do avuto col sig. D. Gennaro Sarnelli quella pazienza e dissimulazione che con nessun altro avevo
avuta]28.
Dopo quest’ultimo riferimento, Gennaro Sarnelli riapparve all’orizzonte mentale del Ripa solo nel
1738, quando il fondatore rilevava, non senza un certo compiacimento, quelle che gli sembravano le
tappe fallimentari delle velleitarie nuove fondazioni messe in opera dai transfughi dal Collegio.
II. La vita quotidiana secondo le regole
Come in tutte le comunità, così anche nel Collegio dei Cinesi di Napoli una delle prime preoccupazioni del Fondatore e dei suoi successori fu l’adozione della distribuzione delle ore. Prevedere per le
24 ore del giorno il tempo da dedicare allo studio, all’audizione delle lezioni, ai tre pasti – prima colazione, pranzo e cena – alle funzioni religiose, alle preghiere, agli esami di coscienza, nonché alla ricreazione, ai bisogni fisiologici e al sonno era un impegno, cui non si poteva derogare, soprattutto in presenza di giovani provenienti da diverse parti del mondo, quindi con abitudini e costumi diversi, con
pulsioni personali e segrete, non da tutti controllabili, uniti, tuttavia, nello studio di alcune discipline
obbligatorie nei seminari: storia sacra e profana, teologia dogmatica e morale, cui si aggiungeva, per i
giovani cinesi, lo studio della lingua latina, in cui si impartivano le lezioni e che essi dovevano imparare a leggere e a scrivere, anche perché in latino essi erano obbligati a corrispondere con i superiori del
Collegio e con Propaganda Fide una volta ritornati in Cina come missionari. Grazie alla segnalazione
di uno studioso, che è tra gli autori dei saggi premessi al percorso della presente Mostra29, si è trovato
un regolamento sulle ore, che riproduciamo qui sotto integralmente:
Esercitij ed impieghi quotidiani per gli Colleggiali Cinesi di Napoli
Doppo sette ore di riposo la notte si dà il primo segno dell’Oratione e tutti
(eccetto gl’infermi, e convalescenti) sono obligati a levarsi da letto.
Dal detto primo segno sino al secondo si dà mezz’ora di tempo, acciò si vestino, agiustino il letto,
faccino gl’atti soliti di Cristiano, ed altre cose corporali necessarie.
Doppo la detta mezz’ora tutti intervengono al luogho destinato per l’oratione, dove si fa mezz’ora
di oratione mentale in commune, finita la quale si mettono a studiare per un’ora la lettione da recitarsi nell’istessa mattina al Maestro.
Ibidem, ff. 190-92: Al Sig. Barone Ripa giustificazione per la licenziata del Sig. Sarnelli.
Ci corre l’obbligo di ringraziare il Prof. Eugenio Menegon, dell’Università di Boston (Massachussets), che ci ha segnalato il
documento.
28
29
37
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
Prima d’incominciarsi la scuola si dà la colazione a chi la desidera, e doppo si principia la lettione,
la quale dura per un’ora, e mezza in circa.
Finita la lettione, doppo un quarto d’ora di svario vanno alla messa; doppo la quale sino al pranzo
non vi é altro di Regola che debbano fare; ma resta al loro arbitrio il divertirsi come gli pare.
Ad ore diece sette e mezza suona di questi tempi la prima tavola, alla quale tutti i Colleggiali intervengono (eccetto gl’infermi ai quali si porta il mangiare in stanza, o nel letto, secondo il bisogno) e
si dà egualmente a tutti ogni mattina a pranzo: la minestra, l’allesse, l’antipasto, ed i frutti.
Terminata la tavola si recitano in commune alcune poche orationi vocali per li Benefattori vivi, e
defonti, e doppo immediatamnte vanno al luoco della ricreatione, o al giardino, o alla loggia, o vicino al fuoco quando è freddo; dura la ricreatione per lo spatio di un’ora.
Doppo l’ora suona il segno del silentio, e del riposo, e tutti si ritirano in camera, dove o dormono, o
si spassano in qualche esercitio manuale con silentio. Doppo un’ora di riposo suona la sveglia che è
anche il primo segno della conferenza spirituale.
Dal detto segno sino al secondo vi passa un quarto d’ora per commodo di chi dorme, ed indi s’incomincia la detta conferenza, la quale dura per mezz’ora o sopra le regole, o sopra qualche libro spirituale ad elettione del Superiore.
Finita la detta conferenza, è finita tutta l’occupatione del giorno, e si esce a spasso per la campagna,
e quando il tempo non lo permette si spassano dentro all’istesso colleggio.
Il segno dell’Ave Maria è il segno del silentio nelle stagioni d’inverno, e da allora sono obligati a studiare sino ad un ora di notte, perchè ad un ora s’incomincia la seconda lettione, che dura sino a due
ore di questi tempi.
A due ore di notte suona l’oratione, e tutti v’intervengono e dura mezz’ora.
A due ore e mezza si va a cena, e si dà a tutti una minestra di bianco, un’antipasto di carne o di pesce,
secondo le giornate, ed i frutti, il pane, ed il vino si pone senza misura d’avanti a tutti; ma però a
Domenico Ciao proibì il Superiore di bere vino, o per meglio dire il medico della casa; perchè in
Cina avea patito di dolore di petto, e per il viaggio in Pariggi avea anche sputato sangue.
Doppo la cena si recitano alcune brevi orationi vocali ed indi si va alla ricreatione, la quale dura tre
quarti d’ora.
Doppo finalmente si fa l’esame di coscienza in commune, e si va a letto.
I cinesi sono dispenzati dal venire al coro, quando vi è messa cantata, acciò quel tempo l’applichino
allo studio.
Sono dispenzati dalle conferenze delle colpe, che si fanno dalla communità avanti il Superiore in
tutti i venerdì a sera, e finalmente da tutto ciò che può apportargli fatiga, o distrattione dallo studio,
venendo in tutto serviti da quelli della Congregatione e dall’istesso Superiore il quale è obbligato nel
loro primo arrivo a lavargli anche i piedi, come già si praticha30.
30
38
APF, Collegi vari, Collegio dei Cinesi della Sagra Famiglia in Napoli, b. 8, ff. 76-76v.
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
Ci sembra opportuno, data la scarsa dimestichezza delle generazioni attuali con l’hora italica, rendere con alcune nostre chiose intelligibile la distribuzione delle ore, che, altrimenti, assumendo come
metro il modo odierno di contare le ore, sembrerebbe astrusa.
Nel documento compare un solo riferimento cronologico diretto: «Ad ore diece sette e mezza
suona di questi tempi la prima tavola». L’inciso «di questi tempi» è importante: dal momento che in
seguito si prescrive un’ora di studio alla prima ora di notte ed un’ora di lezione da impartire entro la
seconda ora di notte, l’ipotesi più attendibile è che il regolamento delle ore sia stato pensato per una
stagione autunno-invernale quando l’hora prima italica (la prima ora di notte) corrispondeva mediamente alle 16,30-17,30 secondo l’hora anglica e alle 4,30-5,30 pomeridiane secondo l’hora gallica. Se la
nostra interpretazione del regolamento studiato secondo l’hora italica è esatta, le attività scolastiche
avevano termine alle 18,30. Alle 19, dopo l’orazione che aveva la durata di mezz’ora, si andava a cena.
A questo punto è difficile da stabilire quando suonava l’ora del letto, perché il documento prevedeva
dopo la cena tre momenti: 1°) brevi orazioni vocali; 2°) ricreazione di tre quarti d’ora; 3°) esame di
coscienza in comune o, in alternativa, messa cantata. Supposto che la cena avesse la durata di un’ora, le
orazioni e la ricreazione coprissero un’altra ora, si arriva alle nostre ore 21 o 9 pomeridiane. Calcolato
un esame di coscienza collettivo di un’altra mezz’ora, alle 21,30 suonava la campana per il riposo notturno, al massimo alle 22 quando si celebrava la messa cantata.
La sveglia avveniva in corrispondenza delle 4,45-5 di mattina, dopo 7 ore fissate per il sonno. Le
operazioni previste dopo la sveglia erano il riassetto del letto, la vestizione, le preghiere del buon cristiano, i bisogni fisiologici (mezz’ora), in modo da arrivare alle 5,15-5,30 antimeridiane, quindi mezz’ora di orazioni in comune e alle 6-6,15 iniziava l’ora dedicata allo studio. Alle 7 veniva offerta la prima
colazione a chi ne faceva richiesta e la prima ora di lezione durava dalle 7.30 alle 9; quindi un quarto
d’ora di svago (9,15), poi ancora la messa e alle 17,30 (hora italica) corrispondente alle 10 del nostro
orario suonava la campana per il pranzo. Alle 11,30-12, concluse preghiere per i benefattori e
ricreazione, veniva dato il segnale della siesta pomeridiana che si prolungava fino alle 13,45, quindi
mezz’ora di conferenza spirituale e dalle 14,30 fino alle 16,30 collegiali e convittori erano liberi di
passeggiare nella campagna circostante e nei due giardini che erano parte del complesso ai Pirozzoli.
Ad una prima impressione sembra trattarsi di un regolamento molto liberale con un tempo abbastanza modico previsto per lo studio – maggiore comunque per i cinesi (2-3 ore) rispetto ai convittori
(2 ore) – e con un tempo altrettanto modico contemplato per le lezioni (2,30 ore). Non vi è cenno di
punizioni per trasgressioni, atti di indisciplina e comportamenti disdicevoli. Ma a quando risale detto
regolamento? Anche a questo proposito abbiamo una spia importante nel passo che recita: «il pane, ed
il vino si pone senza misura d’avanti a tutti; ma però a Domenico Ciao proibì il Superiore di bere vino,
o per meglio dire il medico della casa; perchè in Cina avea patito di dolore di petto, e per il viaggio in
Pariggi avea anche sputato sangue». Sicuramente, allora il regolamento è posteriore alla morte di
Matteo Ripa e posteriore anche al ritorno di Domenico Ciao in Cina via Parigi e il porto di Lorient. In
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
che periodo si colloca il soggiorno nel Collegio di Zhao Ximan 趙 西满, nella romanizzazione all’italiana del tempo chiamato Simone Ciao? Ad un grande maestro cinese, Guo Dongchen 郭棟臣 (noto
in italiano come Giuseppe Maria Kuo), uomo di vasti saperi, che padroneggiava non solo la sua lingua,
ma anche l’italiano e il latino, dobbiamo i dati biografici essenziali riferiti a Simone Ciao. Questi era
nato nella cittadina di Jingzhou 荊州, provincia dell’Hubei 湖北, nel 1722 ed era giunto a Napoli il 15
maggio 1738, all’età di 16 anni. Dopo un lungo e travagliato soggiorno di circa 13 anni, non privo di
contrasti con il Fondatore e non sempre in buone condizioni di salute – avendo contratto una forma
lieve di tubercolosi – aveva preso la via del ritorno il 26 luglio 17531. Quindi sicuramente la distribuzione delle ore è posteriore a questa data.
Eppure nel regolamento mancano informazioni più precise e dettagliate relative ai convittori. Dal
carteggio Sarnelli-Ripa è risultato che i convittori pagavano una retta mensile di sei ducati. Ma tutti
potevano essere ammessi, pagando quella retta? Oppure si procedeva ad una selezione? E gli ammessi
dovevano dotarsi di un corredo? Dovevano in ogni caso seguire un curriculum di studi per essere ordinati sacerdoti e votarsi poi alle missioni? Oppure, dopo la permanenza nel convitto erano liberi di scegliere il proprio futuro? Tra il breve Nuper pro di Clemente XII Corsini, datato 7 aprile 1732, che
«approva» solennemente il Collegio dei Cinesi, e il decreto del ministro della Pubblica Istruzione,
Angelo Bargoni, datato 28 settembre 1869, che ufficialmente ne sanziona la trasformazione in Real
Collegio Asiatico – anche se quest’ultimo era stato inaugurato ufficiosamente il 24 novembre 1868 –
corrono 137 anni, durante i quali si avvicendano quattro forme di governo: 1a) viceregno austriaco
1707-1734); 2a) regno borbonico (1724-1806); 3a) decennio francese (1806-1815); 4a) restaurazione
borbonica (1815-1860). In questi susseguirsi di forme diverse di governo politico non abbiamo tenuto
conto della breve parentesi repubblicana che si svolge nell’arco di tempo compreso tra il gennaio e il
giugno del 1799. In tutti questi anni si trasforma anche il Collegio dei Cinesi: basti pensare all’equiparazione, avvenuta nel 1811, re di Napoli Gioacchino Murat, del convitto a uno dei tanti collegi-licei
d’impronta napoleonica. Fatta questa premessa, bisogna anche ricordare che in linea di massima
rimangono alcune costanti fisse. Abbiamo trovato un documento che contiene alcune regole per l’ammissione al convitto, che in parte non si discostano dai requisiti richiesti dal Ripa. Per esempio, la retta
è aumentata di 2/3 rispetto a quella prevista da Matteo Ripa:
Si pagano per ogni Convittore ducati 60 anticipati in ogni semestre; e se alcuno uscisse dal Collegio
prima che terminassero i sei mesi non riceverà alcuna cosa del denaro già deposto, tranne il caso che
l’Alunno fosse mandato via, perché indegno di rimanervi.
[Giuseppe Maria Kuo, alias Guo Dongchen 郭棟臣], Elenchus alumnorum, decreta et documenta, quae spectant ad Collegium
Sacrae Familiae Neapolis, Chang-hai 1917, pp. 2-3.
31
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Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
Ma nel testo appaiono nuove esigenze di una gioventù di condizione sociale borghese, per la quale
le due ore di ricreazione giornaliera nella campagna circostante la sede ai Pirozzoli sono chiaramente
insufficienti. Ora si parla di villeggiatura e di gite nel mese di ottobre:
In ogni mese di ottobre gli Alunni si recano a villeggiare in Portici in una casina di proprietà del
Collegio … Nell’ingresso di ciascun Alunno pagansi ducati 6, e ducati 4 in ogni autunno per la villeggiatura, i quali serviranno ancora, e per trasporto dei mobili alla casina, e per qualche altra straordinaria gita che si accorda durante l’ottobre.
Per l’alimentazione quotidiana si registra un menù non molto diverso da quello descritto nel regolamento di metà Settecento:
Il cibo che si dà è salubre, ed abbondante. La colazione è di un pane, e frutta. Il desinare quotidiano è di
una zuppa [di] due pietanze, e frutta con pane, e discreta quantità di vino. La cena di una zuppa, o insalata, una pietanza, e frutta. Nei giorni di solenne festa vi si aggiunge un’altra pietanza, o pasticceria.
Ma vi sono passaggi, tuttavia, che dimostrano un carico maggiore di spesa per i convittori. Quando
accedono nel convitto essi devono munirsi di un corredo, compresa l’uniforme estiva ed invernale, di
stoviglie e di un mobilio costruito secondo un identico disegno:
Ogni Alunno si provvederà di due vesti, l’una di saia di regno per casa, e l’altra di zurigo con mantello, per l’inverno di due zimarre, l’una di saia per casa, e l’altra di panno, di una berretta, due collari coverti della medesima roba della veste, di un numero sufficiente di collaretti bianchi, di calze
bianche, e due paja di calze nere di bavella. Porterà inoltre un bacino di rame, una posata di metallo, pettini, spazzole, e i pannilani in discreta quantità, aggiungendo a questi una cotta riccia per le
funzioni di Chiesa.
Il letto, la lucerna di ottone, gli abiti, il comò, e la piccola libreria debbono essere al modello del
Collegio, ed all’uopo nell’annessa litografia se ne mostra il disegno.
Ma compare una novità importante: anche se i convittori vestono da prete, studiano discipline di
un’età ormai secolarizzata. Il riferimento alla religione cristiana come fondamento di ogni sapere è
d’obbligo, trattandosi di una «comunanza religiosa … fondata da quello spirito gentile, e santo di
Matteo Ripa». Ma il programma scolastico, che la «comunanza» propone ai convittori, non è molto
diverso da quello di una pubblica scuola secondaria di tipo liceale:
Essa [comunanza] adunque si propone di mettere la sua opera nell’educazione de’ giovanetti con
quella maggiore sollecitudine che possa. Nell’ammaestramento letterario da una salda istituzione di
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Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
lettere latine non andran disgiunte le greche, e particolarmente la bellissima nostra favella. Con essa
andran di brigata le storie, la lingua francese, e la calligrafia. A chi il voglia sarà pure insegnata la lingua inglese, il disegno, la musica, e la declamazione, ma per queste lezioni si paga un mensile particolare.
Quanto alle scienze, cominciando dalla Geografia, verrem per insino alla Filosofia, all’intero corso
di Matematica, ed alla Fisica, nella quale ci gioveremo di tutti i trovati, e miglioramenti moderni,
guarderemo di non rimanere addietro all’età in tutto quello che ha di buono, ma schiveremo la sua
leggerezza, e quella sua smania di belletti, ed appariscenze senza fondo.
Tutto l’impianto programmatico ci riporta a quella che abbiamo definito «secolarizzazione» iniziata con il decennio francese. Ma per la datazione più precisa del documento abbiamo altri punti di
riferimento. Il testo del Programma inizia con queste frasi.
Se in ogni tempo fu da tenere in gran pregio una istituzione savia e disciplinata, ed un saldo, e non
leggiero ammaestramento nelle scienze, e nelle lettere, sguardando soprattutto ad informar gli animi
giovanili negli insegnamenti religiosi l’età nostra più di tutte le precedenti il richiede, la quale corre
piena di tanti rischi, e diffondonsi da maestri subdoli, e perversi dottrine pestilenti, e disperate. Ché
per fermo il soqquadro della civil compagnia è in gran parte ingenerato dalle torte ed efferate speculazioni di cui tanti oggi si fan banditori, le quali bevute cupidamente da una gioventù calda, innamorata delle novità, e dei pensieri smisurati, e superlativi, e presa dall’esca della fama di certi nomi,
adoperano che quella si faccia sdegnosa d’ogni freno, intemperante d’ogni voglia, ritrosa d’ogni soggezione, e riverenza32.
La temperie, alla quale si allude, ci sembra corrispondere senza dubbio all’atmosfera post-1848,
quando una gioventù «innamorata di novità», si lasciava sedurre dalle «torte ed efferate speculazioni»
messe in giro da alcuni «banditori» di «fama».
III. Le tentazioni della carne: resistenze e cedimenti
Nell’età compresa tra l’adolescenza e la prima giovinezza, quando gli stimoli sessuali sembrano
essere irrefrenabili, riuscire a contenerli non era e non è impresa facile. Anche se i giovani convittori e
collegiali erano controllati sia dai congregati che dai cosiddetti «fratelli laici» e più tardi da istitutori, le
Collegio diretto dai PP. Cinesi. Programma, s. d. e s. l., in Biblioteca Nazionale di Napoli, Misc. 252/11. Si tratta di pp. 4 (non
numerate), più una immagine. Dalle stesso opuscoletto sono tratte le precedenti citazioni.
32
42
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
occasioni per cedere alle tentazioni della carne si presentavano in modo particolare nelle due ore di
ricreazione nelle campagne o nelle zone che circondavano l’edificio ai Pirozzoli e nelle sette ore destinate al riposo. Ma anche in questo caso, bisogna distinguere tre tempi: 1°) il tempo di Matteo Ripa; 2°)
l’arco di tempo che comprende il secondo Settecento; 3°) l’età della secolarizzazione. Il tempo di
Matteo Ripa è quello della macerazione della carne e della mortificazione dello spirito. Era opinione
corrente a quel tempo che i digiuni e l’autoflagellazione del corpo con la «disciplina» fossero la terapia
del dolore più efficace per allontanare le tentazioni. A tanto si uniformarono sia lo stesso Ripa sia
Alfonso Maria de Liguori, il quale – come si è già ricordato – visse come convittore nel Collegio dal giugno 1729 al novembre 1732. Quando fece il suo ingresso nel complesso ai Pirozzoli il de Liguori aveva
33 anni compiuti, essendo nato a Marianella nei pressi di Napoli il 12 settembre 1796. A quell’età le tentazioni non erano scomparse, anzi erano avvertite più prepotenti che mai. Ecco come il suo più autorevole biografo, Antonio Maria Tannoja, sulla scorta della testimonianza di Gennaro Fatigati, successore del Ripa nella carica di superiore, descrive gli accorgimenti messi in atto dal futuro santo per respingere gli assalti del «demonio»:
Vedevasi Alfonso in questo collegio cinto di continuo in tutto il corpo con varii ordigni, ma troppo
aspri, di catenette di ferro: più volte al giorno flagellavasi, e spesso a sangue, come rilevavasi dai suoi
pannilini, che vedevansi tutti intinti di sangue, ed inzuppati: scarsissimo era il cibo che prendeva, e
quel poco, attossicato di mirra, e da altre polveri amare. La centarea e l’assenzio erano per esso le
ordinarie confetture: frutta poche o niente se ne vedeva: ogni sabato in onore della Vergine passavalo in pane ed acqua: quasi di continuo non cibavasi che ginocchione o stramazzone a terra. Questo
anch’è poco. Nella stanza non vedevasi mai seduto, ma studiava in piede, e col libro fra le mani. Di
più, dentro le scarpe aveva delle petruzze, per isperimentare un continuo tormento. Soleva dire
monsignor Coppola vescovo di Cassano che era consapevole di queste e altre sue austerità, e lo diceva con enfasi: «Le penitenze di Alfonso Liguori sono tali, che sapendosi, supereranno di molto anche
quelle di s. Pietro di Alcantara»33.
Si potrebbe ritenere che le usanze del Collegio non avessero attinenza con queste penitenze, e che
esse partissero da una iniziativa personale del de Liguori, già aduso a mortificare la sua carne: lo stesso biografo infatti ricorda, che, quando il futuro santo viveva ancora nella casa paterna:
… nella notte, dubitando tra’l sonno qualche involontario toccamento con se stesso, che offeso avesse la santa purità; mettendosi a letto, mi disse D. Gaetano suo fratello, che restringeva le proprie mani
33
Antonio Maria Tannoja, Vita ed istituto di S. Alfonso Maria de Liguori, vol. I, cit., p. 70.
43
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
in una manetta di cartone ben grossa, fatta a borza, per così evitare a se stesso, anche dormendo, ogni
toccamento non puro34.
Queste abitudini di mortificare il proprio corpo con discipline e penitenze sarebbero state seguite
dal futuro santo anche nella nuova congregazione che fondò, dove egli e i suoi compagni gareggiavano
a tormentarsi, sottoponendosi a volontari e fantasiosi supplizi elencati dal Tannoja. Un gentiluomo che
si era aggregato alla brigata, tal Vito Curzio, «che deposta la spada già vestiva una lacera tonaca, facendo da cuoco senza saper di cucina, anch’egli ci aggiungeva del suo: ora si aveva la minestra o scotta, o
salsa in estremo, ed ora o cruda o scondita». E la cosa curiosa è che una volta che questo maldestro
cuoco, non sappiamo se intenzionalmente o per sbaglio «impastò il pane senza lievito», i maggiorenti
e la nobiltà di Scala – il paese sulla costiera amalfitana, prima sede della congregazione fondata da S.
Alfonso – presi da edificanti velleità emulative, «per divozione ne vollero essere a parte»35, come se questo fosse il vero mezzo per guadagnarsi la salvezza eterna.
Ma le penitenze e mortificazioni, cui si sottoponeva il de Liguori non erano affatto eccezione o
stravaganza nell’istituzione fondata dal Ripa, dove se ne praticavano di non dissimili. Infatti, lo stesso
Tannoja aggiunge che «oltre di queste penalità che Alfonso volontariamente si addossava, ve n’erano
ancora in congregazione delle indispensabili e comuni», passando poi a descrivere più minutamente la
vita grama che si menava nel Collegio, a partire dal miserabile vitto quotidiano, degno più della ciurma di una galera che degli ospiti di un istituto religioso che vi soggiornavano, ironia delle parole, come
convittori:
In quel tempo tutto era patimento, e miseria. Benché per lo vitto stabilito ne fosse minestra e lesso,
carne poco o nulla se ne provava; e quella che si aveva, non era che delle rimasuglie avanzate ne’
macelli, o carnaccia di bufalo, o vacca stantìa, non più che a grana sei il rotolo. Tante volte in luogo
della carne si compravano delle ossa, per ritrarne un misero brodo.
Se questo era il regime normale, figurarsi la quaresima. L’economo della congregazione, il cosiddetto spenditore, doveva evidentemente essere allenato a farsi regalare scarti e rifiuti dalla carità dei
negozianti, e comunque ad acquistare solo i prodotti più infimi. Del resto le Regole della congregazione ripiana prescrivevano senza equivoci a quali criteri dovesse attenersi l’economo:
… il Compratore dovrà essere diligente in comprare tutto quello che le sarà ordinato, per l’uso quo-
34
35
44
Ibidem, p. 13.
Ibidem, p. 83.
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
tidiano della comunità, e dovendo andare più lontano per comprare cose migliori e con risparmio
non sia trascurato di farlo36.
Ma riprendiamo la lettura del Tannoja:
Nella quaresima non vedevasi pesce: molto meno in altri giorni, ma una saraca sopra la minestra
faceva la lautezza di ognuno, o se prendevasi del pesce una volta o al più due in quaresima, non avevasi che quando era dell’ultimo prezzo.
Essendosi sementato di ravanelli un orticello, che si aveva di fianco al collegio, non si ebbe per minestra per più mesi, che ravanelli cotti, e non altro, o, se si comprava, non era che di bietole unite con
altre erbe di poco valore. Tal volta si faceva pasto ne’ giorni di magro con una saraca ed un poco di
semola condita con olio. Anche il pane era nero, e della farina la più ordinaria37.
A questo triste canovaccio quotidiano, tuttavia, bisognava aggiungere il pasto, se così possiamo chiamarlo, serale; e perfino il Tannoja si concede l’ironia di precisare che «di sera la cena non era meno lauta»:
In quel brodo di ravanelli o delle bietole, che avanzava la mattina, si mettevano ad ammollire avanti tempo dentro un caldaio a fuoco lento biscotti duri, e neri, che risultavano dalla crusca un po’ più
raffinata, e di questa zuppa così delicata se ne dava per cena un cocchiarone a soggetto38.
Lo stesso fondatore, come si legge negli atti della sua causa di beatificazione, aveva dedicato il mese
di marzo alla Sacra Famiglia, e «in detto mese si facevano delle preghiere quotidianamente, e nei venerdì
si digiunava mangiando una sola vivanda seduto a terra». Il Ripa aveva poi istituito «il pio uso di digiunare in tutte le vigilie delle feste principali della Vergine mangiandosi un solo piatto a terra». Del resto,
egli non faceva altro che seguitare una pratica cui era aduso fin da giovane: «il Servo di Dio era contento
di mangiare pane e cipolla nel viaggio alla Cina, il che fu motivo di disturbo con qualche compagno»39.
Un capitolo specifico delle Regole (il XVII), conteneva l’elenco di digiuni e discipline in vigore nel
Collegio. Il digiuno era prescritto non solo il venerdì «in onore della passione e morte di Nostro
Signore Giesù Cristo», ma anche «ogni sabato in onore di N. S. e di tutta la S. Famiglia». Bisognava
digiunare anche la vigilia di innumerevoli altre feste, da quella di Natale a quella di S. Giuseppe, da
Regole e costituzioni, f. 83.
Antonio Maria Tannoja, op. cit., p. 52.
38
Ibidem.
36
37
Neapolitanae beatificationis et Canonizationis Servi Dei Matthaei Ripa…summarium, Neapoli 1874, pp. 162 e 251, testimonianze di Francesco De Cristofaro e Tommaso Chang [alias Zhang Tianyi 張天義].
39
45
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
quella di S. Gioacchino a quella di S. Anna, oltre a quelle di S. Carlo Borromeo, S. Francesco Saverio, S.
Filippo Neri, S. Teresa, S. Tommaso, e perfino S. Giovanni Nepomuceno. Il venerdì, poi, oltre al digiuno (escluso nel solo mese di marzo, allorché i congregati «seduti per terra, mangeranno una sola cosa
calda»), era il turno della disciplina; l’autoflagellazione tuttavia era resa più tollerabile dalla sua brevità, perché essa «dovrà durare un Miserere, un De Profundis, ed una Salve Regina cantati»40.
Nemmeno per gli ospiti furono fatte eccezioni. Un vecchio missionario in Cina, Antoine Guigue,
del Seminario delle Missioni Estere di Parigi, che ebbe occasione nel corso della primavera del 1735 di
soggiornare per qualche mese nel Collegio, in una lettera diretta a un suo connazionale, il Combette,
scriveva che egli vi aveva trascorso «une vie dure au corps pour la nourriture, mais douce à l’esprit»41.
Il vecchio missionario non entrava in particolari riguardanti il menù, ma, se le usanze del Collegio
erano ancora quelle che abbiamo appreso dal Tannoja, è da supporre che quel soggiorno primaverile
napoletano avesse per lui coinciso con una salutare cura dimagrante. C’è da domandarsi allora quanta
contezza della cucina del Collegio dei Cinesi avesse Giovanni Zambecchini, archivista di Propaganda,
quando –informato dallo stesso Ripa – criticava Guigue per non avere avuto «la discretezza di contribuire per i suoi alimenti»42. Ma, se è innegabile che Guigue avrebbe dovuto avere la sensibilità di non
gravare sulle finanze del Collegio, va anche detto che queste non rischiavano certo di andare in dissesto, vista l’infima qualità del vitto propinato a coloro che avevano la disavventura di esservi ospitati.
Del resto, se il Collegio divenne ben presto «carcere per ecclesiastici scostumati» e vero e proprio soggiorno penitenziale, era evidente che la fama dello stretto rigore che vi imperava doveva avere oltrepassato le sue mura. Il Ripa ricordava nelle proprie memorie che l’arcivescovo di Napoli nel 1738 gli aveva
ordinato, senza che egli potesse resistere a questa sgradita intimazione, di accogliere «alcuni suddiaconi e diaconi, che per i loro trascorsi era stato loro impedito l’ordinarsi, ed alcuni sacerdoti che meritavano castigo, acciò, menando fra noi la nostra vita, s’imbevessero d’un vero spirito ecclesiastico»43.
Qualche anno dopo, il cardinale arcivescovo Spinelli, dovette ricredersi sull’efficacia della correzione
dei costumi di tali ecclesiastici nel Collegio dei Cinesi. Una nota del Ripa ci mette a giorno non solo
dell’incorreggibilità di quegl’individui, ma anche dell’ambiente che circondava la casa ai Pirozzoli:
Seppi da varie persone di questo contorno e dalla stessa gente di Casa che tre di essi ordinandi facevano spesso per una finestra, e per molto tempo anco al lume della luna, segni ad una certa donna
Regole e costituzioni, ff. 44-45.
Giacomo Di Fiore, Gesuiti e giansenisti negli anni Trenta del Settecento. Pierre de Goville, Antoine Guigue e gli Anecdotes sur
l’état de la religion dans la Chine, in Michele Fatica, Francesco D’Arelli (a c. di), La missione cattolica in Cina tra i secoli XVIIIXIX . Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi. Atti del Colloquio Internazionale di Napoli, 11-12 febbraio 1997, Napoli 1999, p. 434.
42
Ibidem, p. 435.
43
Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione …, cit., cap. 53, sotto la data di Napoli 29 luglio 1738.
40
41
46
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
del vicinato e che facevano altre consimili leggierezze da non potersi tolerare da noi. A me dispiacque dentro l’anima lo scandalo, ma per evitare i scandali maggiori, stimando esser questa l’apertura
datami da Dio per liberarmi, senza offesa del Sig. Cardinale, da essi convittori, subito per lettere diedi
parte ad esso Sig. Cardinale, che stava a Roma, acciò ordinasse al canonico Borgia ne prendesse l’informo per licenziarli da questa Casa. Così fece il Sig. Cardinale e così eseguì esso Sig. canonico,
ch’avendo ritrovato esser tutto vero quanto io scritto avevo … li licenziò44.
Ma il rigore che caratterizzava gli esordi dell’istituzione ripiana subì un radicale mutamento dopo
la morte del fondatore.
A prestar fede a una sequela di lettere anonime indirizzate a Propaganda Fide agli inizi degli anni
Sessanta del XVIII secolo, l’austero Collegio di qualche decennio prima sarebbe divenuto luogo di banchetti luculliani, ma solo per i congregati e i loro parenti. Costoro, infatti, indulgevano alle delizie della
gola, sfruttando le risorse dell’istituzione ripiana, mentre i giovani collegiali menavano vita grama.
Inoltre i congregati fruivano individualmente anche di più di una camera, mentre i ragazzi erano
costretti a vivere tutti insieme in due camerate poco salubri. Scarseggiavano le coperte, la biancheria di
ricambio, e le condizioni igieniche erano tanto precarie che «l’ultimo collegiale di nazione bulgaro ...
non portava altre mutande di quelle che aveva indosso». Ben cinque dei giovani collegiali erano morti
nell’edificio che li ospitava. Queste notizie le ritroviamo non solo nelle lettere anonime, ma in un
memoriale del collegiale bulgaro Pietro Delvesi, forse lo stesso autore di quelle missive senza firma, il
quale, recatosi a Roma per sostenere l’esame finale di missionario, ebbe il coraggio di presentare ai vertici di Propaganda Fide l’articolata denuncia delle magagne del Collegio, dove era morto, fra incuria,
indifferenza e cattiva amministrazione, anche suo fratello Stefano45.
Nessun provvedimento, a quanto ci risulta, fu tuttavia preso da Roma. All’inizio del secolo XIX i
costumi si sono adeguati ad una sorta di rilassatezza generale. Il complesso sorgeva nella parte forse più
degradata del Borgo dei Vergini di Napoli, dove non mancavano donne di malaffare, frequentate da fratelli laici, i quali, non avendo ricevuto gli ordini, non erano sottoposti all’obbligo della castità. Le malefatte a volte non erano solo dei fratelli laici, ma anche di qualcuno degli stessi congregati. Ce lo racconta nel 1816 il giovane collegiale cinese, Luca Phan [alias Pan Lujia 潘路加]46, in un latino approssimativo, ma molto efficace. In una lunga lettera indirizzata al papa, egli parla una «solecitationem mulie-
Ibidem, cap. 59, sotto la data di Napoli, agosto 1939.
Giacomo Di Fiore, Lettere di missionari dalla Cina, Napoli 1995, p. 12.
46
Nato il 22 giugno 1772 nella città Lechang 樂昌, nella provincia Guangdong 廣東, giunse a Napoli il 23 luglio 1795.
Ordinato sacerdote il 29 giugno 1806, lasciò il Collegio il 25 marzo 1817: [Giuseppe Maria Kuo, alias Guo Dongchen 郭棟臣],
Elenchus alumnorum, decreta et documenta ecc., cit., pp. 4-5.
44
45
47
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
bri ad turpem etiam factam fuisse a congregato nostro sub praetextu confessionis, cum verbis et tactibus», che fa il paio con il tentativo di un fratello laico di coinvolgerlo nei suoi raids per le case di malaffare («Praetera laicus saepe saepissime perduxit me ad meretrices a quibus ad copulam fui vocatus: sed
per gratiam Dei nunquam eis consentivi»)47. Qui i vertici vaticani sembrarono non prestar fede alla
denuncia del giovane, sottolineandone invece «la stravagante e scandalosa condotta» non altrimenti
specificata, ma che, nel reticente linguaggio dell’epoca, faceva sicuramente riferimento a comportamenti sessualmente devianti. Tuttavia ciò che qui interessa, è che Propaganda Fide avviò una inchiesta
sul Collegio per verificare le accuse che Luca Phan aveva lanciato contro i congregati e contro i fratelli
laici, ma che si concluse lasciando indenne l’istituzione ripiana e disponendo il rimpatrio del giovane48.
Della decadenza progressiva del Collegio abbiamo ancora qualche testimonianza, a distanza di
circa un secolo dalla sua fondazione. In un foglio, anonimo e senza data, ma risalente presumibilmente intorno al 1835 per la sua collocazione, si legge quanto forte fosse il disagio dei giovani cinesi che vi
erano ospitati, e che erano i più diretti interessati alla buona gestione dell’istituzione che da loro prendeva il nome. Da questo documento apprendiamo che «tutti i cinesi ritornati da Napoli dal 1806 sino
al giorno d’oggi si lamentano del loro Collegio dicendo che non si osservano più le regole» e che si trovano a praticare «gente tutta ignorante e bassa», che vi gravitava attorno (si trattava per lo più di servi
o barbieri, come specificava l’anonimo autore). Questi sottolineava poi che i giovani cinesi «non possono non sentire le orrende bestemmie napoletane», mentre passavano davanti a lupanari, da dove
ammiccavano loro le meretrici, le quali non si contenevano nei loro ridotti, come imponeva la legge,
ma sciamavano per le strade della città in numero di più di ventimila, precisava l’anonimo autore, evidentemente ben documentato in proposito. I futuri missionari rimanevano poi scandalizzati nel vedere i preti (presumibilmente, dal contesto, proprio i congregati) «mangiare, camminare, scherzare ed
abitare con donne. Sanno quanto sono le rendite, e mormorano dicendo che i Padri di detto Collegio
si mangiano tutto, essendo denaro per i Cinesi»49.
APF, Collegi vari, Collegio dei Cinesi della Sagra Famiglia in Napoli, b. 12, ff. 280-295. Le due citazioni sono tratte dai ff. e
282v e 288v.
48
APF, Lettere della Sacra Congregazione e Biglietti di Monsignor Segretario, 1816, vol. 297, ff. 341r, 361r, 496r; ivi, anno 1817,
vol. 298, f. 73v.
49
APF, SOCP (1833-1840), vol. 76, f. 486.
47
48
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese
commissionata da Kangxi
ANDREINA ALBANESE
Università degli Studi di Bologna
I. Vaghi e sporadici accenni di Matteo Ripa alla sua attività di incisore
Sembra di certo sorprendente che nelle sue dettagliate memorie Matteo Ripa abbia accennato solo
di sfuggita alla calcografia della carta geografica dell’impero cinese, che il mancese Kangxi 康熙, l’imperatore della Cina, alle cui dipendenze si era trovato a lavorare per più di dieci anni, gli aveva commissionato sin dai primi tempi della sua permanenza a Pechino e che verosimilmente aveva portato a
termine tra il 1717 e il 1718. La reticenza a ricordare il suo talento di pittore ad olio e la sua perizia di
incisore su rame, virtù per le quali era stato invitato a corte, si spiega con la finalità precipua assegnata alle sue memorie. Quando, il 26 maggio 1743, a meno di tre anni dalla morte – finirà i suoi giorni il
29 marzo 1746 – cominciò a rielaborare i suoi appunti per comporre i 5 tomi intitolati Giornale de viaggi…1, egli guardava alle glorie mondane come prodotti dell’effimero e di un deplorevole amor di sé, e
se nei suoi appunti scritti in contemporanea aveva attribuito uno spazio, sia pure non eccessivo, alla sua
produzione di pittore e di calcografo, ora gli premeva, sotto il peso degli acciacchi di una senescenza
precoce, scrivere «tutto quello che possa essere d’istruzione ed edificazione de’ nostri». Quindi ne era
scaturita un’opera didascalica ed edificante per «quelli che fra nostri andranno a missionare in Cina»2.
Eppure si trattava di sicuro di un’opera di cui andare sotto molti aspetti fiero, almeno da quanto si può
L’opera porta il titolo lunghissimo: Giornale de viaggi fatti da D. Matteo Ripa in tre parti. Nella prima si tratta del suo viaggio
fatto da Napoli sino alla imperial corte di Pechino. Nella seconda si parla della dimora fatta in quella gran Corte Imperiale de suoi
viaggi in Tartaria e della varietà degli eventi, che accaddero in quella missione in tutto il tempo che vi dimorò e specialmente di
quelli che accaddero in Pechino a causa della condanna de riti cinesi. Nella 3a finalmente si descrive il suo viaggio fatto nel ritorno
da Pechino in questa Città di Napoli. Nel 1832, in previsione del processo di santità del Ripa, che avrà inizio, senza esito, solo
nel 1874, i congregati della Sacra Famiglia di Gesù Cristo, assemblarono detto manoscritto con un altro dello stesso Ripa intitolato Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione e Collegio della Sagra Famiglia di Giesù Cristo, e pubblicarono in
3 tomi la Storia della fondazione della Congregazione e del Collegio de’ Cinesi sotto il titolo della Sagra Famiglia di G.C. scritta
dallo stesso fondatore Matteo Ripa, opera apocrifa, piena di tagli, manipolazioni e falsificazioni, su cui si rinvia a Matteo Ripa,
Giornale (1705-1724), vol. I (1705-1712), introduzione, testo critico e note di Michele Fatica, Napoli 1991, intr. passim.
2
Matteo Ripa, (Giornale (1705-1724), vol. I (1705-1712), cit., p. 1.
1
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
agevolmente rilevare dagli esemplari di tale carta pervenutici, ed in particolare di quello rintracciato
alcuni anni or sono nella Biblioteca Universitaria di Bologna3.
II. I cartografi e i matematici occidentali che lavorarono alla confezione della carta generale
dell’Impero di Cina
In primo luogo vale la pena di accennare alle vicende che portarono alla confezione della carta.
L’imperatore Kangxi era senza dubbio una persona singolare: mancese di nascita, trovatosi adolescente
a governare l’impero cinese – al cui trono era assurto nel 1662 – essendo d’intelligenza vivace e pronta,
aveva studiato appassionatamente la cultura del paese su cui regnava, e per propensione personale e per
una serie di fortuiti e fortunati eventi aveva potuto studiare altrettanto appassionatamente alcuni aspetti della cultura occidentale, grazie agli insegnamenti – in gran parte di tipo scientifico – impartitigli, sin
da quando era giovanissimo, da alcuni padri gesuiti che risiedevano a Pechino. Visto che desiderava
approfondire le sue conoscenze sull’Occidente, la Francia, che mirava ad allargare la propria influenza
in Indocina ed in Cina, tra gli anni 1685-97 gli aveva inviato scienziati, alcuni dei quali di grande valore4. In seguito l’imperatore aveva chiesto al pontefice di poter disporre anche di artisti europei. L’arrivo
di Ripa in Cina, infatti, è da collegare proprio al desiderio dell’imperatore di avere accanto a sé musicisti e pittori occidentali ed al talento di pittore ad olio del sacerdote originario di Eboli (Salerno), ove era
nato il 29 marzo 1682. La sua chiamata a corte era stata preceduta da una verifica delle sue capacità, verifica conclusasi con un giudizio più che lusinghiero di Kangxi. Quindi, il sacerdote ebolitano, dopo una
permanenza a Canton di 5 mesi circa (3 luglio-27 novembre 1710) per imparare i rudimenti della lin-
Andreina Albanese, Cronaca di un ritrovamento inaspettato, in Istituto Universitario Orientale, «Annali», 52, 3 (1992), pp,
309-27, e La carta geografica di Matteo Ripa: caratteristiche dell’esemplare della Biblioteca Universitaria di Bologna, in Michele
Fatica,? Francesco D’Arelli, (a c. di) Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi, Atti del Colloquio Internazionale, Napoli, 11-12 febbraio
1997, Napoli 1999, pp. 135-183.
4
Sei erano i famosi «matematici del re», mandati in Estremo Oriente nel gennaio 1685 da Luigi XIV. Di questi ne arrivarono
in Cina nel 1688 cinque: i gesuiti Bouvet, de Fontaney, Gerbillon, Le Comte e de Visdelou. Nel 1699 sarebbero arrivati altri
religiosi (una decina, tra cui Parrenin, de Prémare e Régis): v. David E. Mungello, Curious Land: Jesuit Accomodation and the
Origin of Sinology, Stuttgart 1985, p. 256; John W. Witek, Understanding the Chinese: a Comparison of Matteo Ricci and the
French Jesuit Mathematicians Sent by Louis XIV, in Charles E. Ronan, Bonnie B.C. Oh (eds.), East Meets West. The Jesuits in
China, 1582-1773, Chicago 1988, pp. 62-102 (pp. 74 s.,), Louis Pfister. Notices biographiques et bibliographiques sur les jésuites
de l’ancienne mission de Chine, 1552-1773, rep. San Francisco 1976, p. 42.
5
Theodore N. Foss. A Western Interpretation of China: Jesuit Cartography, in Charles E. Ronan, Bonnie B.C. Oh (eds,), East
Meets West, cit., pp. 209-51 (pp. 222 s., nn. 33-35).
3
50
Andreina Albanese
gua parlata, arrivò a Pechino nel febbraio 1711. All’epoca il progetto di promuovere con i sistemi cartografici occidentali la rilevazione di tutto il territorio dell’impero – suggerito all’imperatore dal gesuita
Gerbillon5 – era già decollato, e dal 4 giugno 1708 diverse équipes di religiosi stavano già attivamente
lavorando sul campo, intente alla raccolta di dati che sarebbero serviti per la compilazione delle mappe.
Si trattava di abili uomini di scienza, in gran parte francesi, e quasi tutti gesuiti, a parte l’agostiniano
Guillaume Bonjour Favre, sgraditissimo compagno di viaggio di Ripa, che si unì agli altri solo nel 17116.
Le mappe che i missionari si accingevano a comporre non erano certo le prime che religiosi occidentali confezionassero della Cina, ma indubbiamente sotto alcuni aspetti sarebbero state molto diverse da quelle precedentemente prodotte. Da molto tempo i missionari sinologi riproducevano il territorio cinese: i gesuiti Ricci, Ruggieri, Aleni, Semedo, Martini, Boym – solo per citarne alcuni – insieme a
religiosi di altri ordini, in precedenza avevano compilato numerose carte geografiche7, rifacendosi alla
grande tradizione esistente nel paese sin dal III secolo dell’era volgare. In particolare si erano rifatti ad
alcune versioni a stampa di una mappa manoscritta, costruita mediante l’usuale metodo cinese del reticolo8, chiamata Yutu 輿圖 (Mappa del mondo), in cui era rappresentata la Cina ed i territori limitrofi.
La mappa, fatta da Zhu Siben 朱思本, il più grande cartografo cinese di tutti i tempi, risaliva ai primi
Si trattava dei padri Jartoux, Régis, de/du Tartre, de Mailla, dell’alsaziano Hinderer, del portoghese Cardoso, dell’austriaco
Fridelli. In merito v. Joseph Dehergne, Répertoire des Jésuites de Chine de 1552 à 1800, Roma-Paris 1973, pp. 131 s., 213 s., 264,
163 s., 126 s., 44 s., 102. Per Régis, eccezionale cartografo, che probabilmente aveva portato dalla Francia nuovi strumenti per
le mappazioni e che viaggiò nelle zone più impervie, v. Shannon McCune, Jean-Baptiste Régis, S. J., an Extraordinary
Cartographer, in Chine et Europe: évolution et particularités des rapports est-ouest du XVI au XXe siècle («Variétés sinologiques»,
n. s., 73), Taipei-Paris-Hong Kong 1991, pp. 237-248 (p. 238). Per Bonjour-Fabre, v. Theodore N. Foss, A Western
Interpretation…, cit., p. 245 n. 55.
7
Dopo che in Europa erano state accettate le idee di Matteo Ricci in merito alla posizione territoriale della Cina, i missionari
avevano cominciato ad inviare mappe sempre più precise, effettuate migliorando i dati della tradizione occidentale tramite
informazioni desunte da fonti cinesi (in cui erano citate anche le regioni dell’Asia centrale). Gradualmente si dette ampio
riconoscimento alla validità dei dati forniti dalla tradizione cinese, che fu fatta conoscere agli Europei. Costoro però continuarono a lungo a nutrire alcuni dubbi sulla attendibilità dei dati forniti: non a torto, dal momento che spesso arrivavano loro
versioni del tutto diverse dei territori rappresentati (ed in effetti conformazioni e proporzioni dei continenti erano ben lungi
dall’essere riportate con verosimiglianza). Sanson d’Abbeville ad es. nel 1658 nella seconda edizione del suo Asie, facendo
riferimento a quattro mappe da lui esaminate, sottolineava criticamente come secondo Semedo la Cina avesse le stesse dimensioni dell’Europa, secondo Martini fosse grande il doppio, secondo Boym il triplo e secondo Ruggieri il quadruplo (Boleslaw
Szczesniak, The Seventeenth Century Maps of China: an Inquiry into the Compilation of European Carthographers, in «Imago
Mundi», XIII (1956), pp. 116-136 (pp.133-136).
8
Questa mappa, a detta del suo autore, era imprecisa per le zone del sud-est asiatico e per la Mongolia nel nord-ovest. Anche
se non era stata mai stampata (pur essendo già documentata dal 1155 l’usanza in Cina di stampare carte), secondo la
tradizione avrebbe rappresentato l’Africa sorprendentemente con la punta orientata a sud, mentre nello stesso periodo gli
Europei la immaginavano volta verso est: Joseph Needham, Science and Civilisation in China, v. III, Cambridge 1959, p. 552.
6
51
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
due decenni del sec. XIV, ed una volta ampliata e molto migliorata da Luo Hongxian 羅洪先 e stampata nel 1555 in un atlante Guangyu tu 廣輿圖 (Mappa generale del mondo)9, sarebbe stata – se pur con
modifiche – riproposta in molteplici edizioni sino ai primi anni del sec. XIX. Sulle versioni del Guangyu
tu si basavano le carte che i missionari cominciarono ad inviare in Europa, spesso modificate e corrette tramite dati rivisti con osservazioni dirette, con l’uso dell’astrolabio e con la consultazione di materiale cinese di varia natura. I metodi dei religiosi differivano da quelli cinesi sotto due aspetti: i dati rilevati venivano costantemente migliorati con nuovi controlli, più che altro di tipo astronomico, e le loro
mappe non seguivano lo schema cinese del reticolo rettangolare o quadrangolare, slegato da riferimenti a coordinate celesti10, e costruito senza tener conto della curvatura della terra. I religiosi europei dalle
carte cinesi ripresero fra l’altro i segni convenzionali, che usarono per indicare alcune specificità territoriali (città di diversa importanza, fortificazioni ed altro), che probabilmente furono i primi elementi
iconici di questo tipo che fossero usati nella cartografia occidentale.
Gli Occidentali nel tempo ampliarono sempre di più i dati in loro possesso, riuscendo a fornire
rappresentazioni in piano della superficie della Cina piuttosto accurate, anche se per forza di cose
Nell’atlante di Luo c’erano anche 44 carte di territori cinesi e non (costruite usando scale diverse), quattro delle quali riguardanti Corea, Annam, Mongolia e Asia Centrale. Il Guangyu tu fu stampato numerose volte (anni 1555-58, 1561-66, 1572, 1579, 1799),
anche con vistose varianti (ad es. la Corea rappresentata come un’isola nella prima edizione, ed in seguito modificata, tanto che
Martino Martini la disegnò come penisola). Nell’edizione del 1579, la più usata, la griglia quadrangolare, accuratamente disegnata da Luo, per colpa di un copista fu trasformata in rete rettangolare: Theodore N. Foss, A Jesuit Encyclopedia for China: A Guide
to Jean-Baptiste du Halde’s Description … de la Chine (1735) volume I, Dissertation University of Chicago 1979, p. 176 n.1.
10
In Cina furono anche adoperate carte – all’apparenza assai simili ai portolani occidentali – stampate nel sec. XVII ed utilizzate per la navigazione, in cui furono usati riferimenti a fenomeni celesti. In queste, che si basavano su criteri assai differenti
da quelli occidentali (non comparivano ad es. linee lossodromiche arbitrarie, come nei portolani), in relazione ai siti segnati
erano forniti i rilievi effettuati con la bussola, e fornite notazioni relative alla posizione della stella polare: Joseph Needham,
Science …, cit., p. 560.
11
Molti di questi rilevamenti, però, una volta inviati in Europa, avevano suscitato il più che legittimo sospetto che le carte fino
ad allora compilate fossero tutt’altro che esatte. Il matematico Riccioli, che a Parigi aveva già lavorato su dati basati sulle osservazioni effettuate nelle missioni d’oltremare, alla fine del secolo aveva rivisto e calcolato a tavolino la posizione in latitudine e
longitudine di molte città cinesi. Le misure che riguardavano le longitudini continuavano, però, ad essere ancora non esatte, e
solo alla fine del sec. XVIII sarebbero stati risolti i problemi connessi alla loro misurazione. In effetti sin dai tempi di Tolomeo
(120-170 d. C.) calcolare le longitudini, difficilmente verificabili, aveva rappresentato un problema, che sarebbe stato superato
solo con l’adozione del cronometro marino, inventato e perfezionato nei secc. XVII-XVIII, strumento con il quale sarebbe stato
possibile registrare la differenza di orario tra un meridiano e l’altro (differenza già preconizzata da Roger Gemma Frisius nel
1530). Sin nel lontano 1636 Galileo aveva proposto di osservare col telescopio i movimenti dei quattro satelliti di Giove, ma il
Papato non aveva incoraggiato tale idea, quando però i gesuiti effettuarono i loro rilievi per le nuove mappazioni i tempi erano
cambiati, ed i religiosi utilizzarono anche questo metodo per controllare i dati che andavano raccogliendo: David E. Mungello,
Curious Land …, cit., p. 122 n.45; Theodore N. Foss, A Jesuit Encyclopedia …, cit., pp. 88 s., p. 107 n. 4, p. 221.
9
52
Andreina Albanese
imprecise. I religiosi continuavano attivamente ad effettuare rilevamenti astronomici11, ed all’inizio del
sec. XVIII erano state già fissate le posizioni delle più grandi città cinesi. Non va sottovalutato, poi, che
quando Ripa arrivò in Cina i missionari che operavano a corte erano per la maggior parte francesi, e
non era certo casuale che lo fossero. In Francia negli ultimi decenni del secolo XVII, sotto l’egida di
Luigi XIV e di Colbert, erano stati realizzati studi avanzatissimi in campo scientifico in collegi, in cui
l’insegnamento di matematica e geometria, astronomia e cartografia era completamente affidato ai
gesuiti. I religiosi francesi, che erano stati inviati in Cina, non solo avevano portato con sé nuovi supporti scientifici, ma erano anche addestrati ad utilizzare nuovi metodi, che avrebbero usato con profitto per la compilazione delle mappe che sarebbero confluite in seguito nel grande atlante del 1721.
Dalle testimonianze pervenuteci, relative ai sistemi usati nei rilevamenti territoriali ed astronomici,
preliminari alla preparazione delle mappe (sistemi che sarebbero stati compendiati nel 1946 dal gesuita
Henri Bernard)12, si evince che il metodo fondamentale per ottenere latitudini e longitudini si basava
sulla triangolazione del territorio, integrata – per la latitudine – con l’osservazione del meridiano del sole
e delle stelle del polo, ed a volte, per la longitudine, con le osservazioni delle eclissi di luna e dei satelliti
di Giove. Non di rado, però, gli strumenti adoperati si rivelavano non del tutto adeguati13, ed indubbiamente più lontane erano le località da Pechino, usato come meridiano 0, e più vistosi erano gli errori14.
I moltissimi dati, che furono assemblati, a volte furono ottenuti e verificati personalmente dai religiosi, a volte ottenuti attraverso la mediazione di altri, dal momento che in alcuni casi vi furono impedimenti di vario genere che non ne permisero l’acquisizione diretta (ad es. per il Tibet – al tempo chia-
Henri Bernard, Note complémentaire sur l’Atlas de K’ang-hi, in «Monumenta Serica», XI (1946), pp. 191-200 (pp. 198 s.).
In una lettera di Gaubil, datata 1728, sono descritti alcuni sistemi utilizzati dai Padri: Renée Simon (ed.), Antoine Gaubil,
Corrispondance de Pékin 1722-1759, Genève 1970, p. 214. La triangolazione era il metodo più in uso per misurare distanze e
direzioni: si trattava di un sistema sviluppato in Francia alla fine del sec. XVII, che consisteva nel calcolare le distanze in una
data regione suddividendola in un reticolo di triangoli. Determinato tramite corde un lato di un triangolo, facendo riferimento a postazioni preminenti (picchi di montagne, in pianura una bandiera, una costruzione o un palo) attraverso calcoli
trigonometrici venivano calcolati gli altri due. Estendendo questo metodo, attraverso il calcolo di altri triangoli l’area veniva
allargata e poi completamente coperta. I religiosi però erano ben consci che le osservazioni astronomiche (che servivano da
controllo), da loro effettuate con e senza telescopio, non sempre erano esatte.
14
Come rilevava Richthofen (cit. in Henri Bernard, Les étapes de la cartographie scientifique pour la Chine et les pays voisins
dupuis le XVI à la fin du XVIIIe siècle, in «Monumenta Serica», I (I935), pp. 428-477 [p. 461]), per quanto riguardava la Cina le
zone riprodotte con maggior precisione furono le province costiere, quelle delle rive del Yangzijiang 揚子江 – dai Cinesi chiamato Lungo Fiume 長江 – ed in particolare le province dello Yunnan 雲南 e del Bei Zhili 北直隸 (= Hebei 河北). Di fatto le latitudini erano tutte troppo spostate verso nord, mentre le longitudini erano abbastanza esatte. Per le località non cinesi, da quanto è possibile valutare, secondo le zone gli errori variavano da 30’ a 120’ in latitudine ed in longitudine. Nella Description … de
la Chine di Jean-Baptiste du Halde, stampata a Parigi nel 1735, le misure delle latitudini – corrette e revisionate dal cartografo
d’Anville anche sulla base di ulteriori dati forniti nel frattempo dai gesuiti – sarebbero state più vicine a quelle effettive.
12
13
53
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
mato Lazang 拉藏] e le aree ad esso adiacenti15, per la Corea – Zhaoxian 朝鮮16 – per le zone abitate dall’etnia Miao 苗 nelle aree di confine tra le province di Guizhou 貴洲 e Guangxi 廣西, e Guangxi e
Huguang 湖廣 [>Hunan 湖南 e Hubei 湖北]17 e per Taiwan 臺灣18. I lavori preparatori si sarebbero
conclusi dopo il gennaio 1717 quando, essendo state rilevate 641 posizioni (504 della Cina vera e propria, 137 delle altre località), l’imperatore con un editto ordinò che si assemblasse un atlante19. Nello
stesso anno per le carte furono fatte 28 matrici in legno20.
Nel 1718, dopo il mese di giugno, vennero completate 32 carte manoscritte, eseguite a Pechino sotto
la direzione di padre Jartoux21, ed il 1° aprile 1719 in un editto l’imperatore riconobbe l’importanza del
lavoro compiuto dai gesuiti. Il 17 dicembre 1720 avrebbe emanato un altro editto per la revisione dei toponimi del Tibet, e finalmente nel 1721 sarebbe stata effettuata una seconda tiratura su matrici di legno per
le 32 mappe che avrebbero costituito il Huangyu quanlantu 皇輿全覽圖 (Atlante dettagliato completo
della geografia dell’impero), in cui le carte separate (fentu 分圖) avrebbero avuto la scala di 1:2.000.00022.
Per questa regione già nel 1704 erano stati effettuati rilievi che avevano integrato i dati forniti da mappe preesistenti, compilate sulla base di racconti fatti da viaggiatori. Nel 1711 vi si recarono i padri Régis, Jartoux e Fridelli ed i loro rilevamenti
fornirono ulteriori dati che furono usati per le mappe nn. 16, 17, 18 del 1717, ma – poiché Régis non ne era rimasto soddisfatto ed aveva deciso di migliorarle – furono inviati tra gli anni 1714/5-17 alcuni lama tibetani, che raccolsero ulteriori dati
che sarebbero serviti per la compilazione di altre mappe (nn. 9, 12, 13, 14, 15). In merito alle mappe in questione v. Walter
Fuchs, Der Jesuiten-Atlas der K’anghsi-Zeit, Peking 1943. È da notare che l’attuale Tibet, Xizang 西藏, è meno della metà del
territorio tibetano del tempo di Ripa.
16
La carta coreana era la rielaborazione di una carta copiata nel palazzo reale. La Corea sarebbe stata finalmente conosciuta
in Europa secondo tale versione, che pur non del tutto corretta, era molto più attendibile di altre circolate in precedenza
(Shannon McCune, Jean-Baptiste Régis ..., cit., p. 245). In genere nelle carte cinesi la Corea era rappresentata solo attraverso il
profilo delle coste, forse perchè – inviando tradizionalmente questo regno come tributo alla Cina carte geografiche – in Cina
non era stata mai sentita l’esigenza di farne altre: Boleslaw Szczesniak, Matteo Ricci’s Maps of China, in «Imago Mundi», XI
(1954), pp. 127-35 (pp. 130 s.).
17
Nella Carta di Ripa queste aree sono tra le poche che presentano note manoscritte piuttosto estese; nelle mappe dei gesuiti,
che non ebbero la possibilità ad entrare nelle zone in questione, invece le stesse aree risultano completamente prive di indicazioni topografiche.
18
Theodore N. Foss, A Western Interpretation …, cit., p. 248 n. 86, in cui è citato de Mailla.
19
La scala usata nel 1717 fu di 1:1.000.000. In merito alle carte ed alle mappazioni effettuate tra gli anni 1708-17 v. la tavola
riportata in Walter Fuchs, Der Jesuiten-Atlas …, cit., p. 9.
20
Ibidem, pp. 7, 14-18, 60. In queste matrici non erano incluse le mappazioni del Tibet e della Mongolia occidentale (v. Henri
Bernard, Note complémentaire …., cit., p. 191).
21
Probabilmente si tratta delle carte citate da Cordier, che le ricorda montate su supporto, circondate da seta blu e con l’aggiunta di scritte rosse manuali (conservate negli Archivi degli Affari Stranieri a Parigi), le cui matrici sarebbero state fatte in
giada, rame e legno (Henri Cordier, Bibliotheca Sinica, 5 voll., Paris 1904-24, no. 184).
22
Albert Herrmann, Die Karte on 1718, in Sven Hedin, Southern Thibet, vol. VIII, Stockholm 1922, pp. 288-90 (p. 289) e
Theodore N. Foss A Jesuit Encyclopedia…, cit., p. 116-117..
15
54
Andreina Albanese
Complessivamente dell’Atlante sarebbero state fatte quattro edizioni tra gli anni 1717-2623, secondo diversi progetti (due dei quali probabilmente riconducibili a Ripa, di cui solo uno portato a termine).
III. Caratteristiche della mappa generale dell’Impero di Cina incisa su rame da Matteo Ripa
Ma tornando ad occuparci di Ripa e della sua carta, in quale relazione collocarla con l’operato dei
gesuiti? Secondo quanto affermato dallo stesso sacerdote in alcuni passi del suo diario scritto in Cina e
del suo Giornale, tutto sarebbe dipeso dal desiderio di Kangxi, manifestatogli già nel 1714, di veder
finalmente stampata una carta geografica di tutto il territorio dell’impero (comprensiva quindi sia delle
province «tartare» che di quelle cinesi24. Nell’Avvertimento / Per l’intelligenza dell’Indice de Nomi delle
Città ed altri Luoghi principali / notati nella Carta Geografica della Cina / Tartaria e Corea, contenuto in
un fascicolo che accompagna l’esemplare, già citato, della Biblioteca Universitaria di Bologna, esiste
una notizia del seguente tenore:
[L’imperatore] Non contento di avere la Carta Geografica del suo Imperio descritta colla penna,
volle altresì che fosse delineata in rame col Bolino, per trarne molti Esemplari...25.
Secondo Ripa Kangxi avrebbe quindi desiderato avere molti esemplari stampati di questo grande
lavoro, presumibilmente senza che se ne dovessero rifare spesso le matrici. Tale informazione è in qualche modo confermata dalle parole di un altro imperatore, Qianlong 乾隆, nipote di Kangxi, che amanWalter Fuchs, Der Jesuiten-Atlas…, cit., p. 60. Le carte dei gesuiti per la Cina e per parte della «Tartaria» (le attuali province
Nei Menggu 內蒙古, Xinjiang Uygur 新疆維吾爾, Qinghai 青海 e Xizang 西藏 della RPC, e la Mongolia Esterna) sarebbero
state usate fino agli ultimi anni del sec. XIX (v. Theodore N. Foss A Jesuit Encyclopedia …, cit., p. 145).
24
Nel suo diario scritto in Cina, sotto la data del 22 maggio 1714, egli scrive che, mentre soggiornava nella «villa della perenne
primavera» [Changchunyuan 昌春園], l’imperatore gli chiese di «intagli[are] la mappa universale di Cina e Tartaria, sendo la
misura data da me di due palmi di lungo et uno e 4 di largo»: ACGOFM, MH, 15-2, p. 348; in sintesi i dati sono confermati
in Matteo Ripa, Giornale, vol. II, cit., p. 136.
25
Questo fascicolo (una sorta di manuale, di cm. 29 per cm. 43, costituito da fogli di dimensioni e di argomenti diversi) è contenuto nell’incartamento in cui si trova la carta geografica (catalogato A M B 1 9), assieme ad altro materiale non omogeneo,
né per contenuto, né per datazione, sicuramente messo assieme in un arco di tempo posteriore all’anno 1735, dal momento
che in esso si fa riferimento alla prima edizione, stampata appunto in quell’anno, della Description di Jean-Baptiste du Halde.
Nelle prime pagine di questo manuale, sotto l’intestazione TAVOLE GEOGRAFICHE DELLA CINA TARTARIA E COREA /
Formate nel principio del Secolo XVIII per ordine di / Cang-Hi Secondo Imperadore della Dinastia Tsing, sono brevemente narrate le vicende anteriori alla compilazione della carta e spiegati i criteri usati per adattarla; nelle ultime 24 pagine, scritte
verosimilmente da qualche collaboratore di Ripa, è anche fornito un Indice toponomastico.
23
55
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
te della poesia e lui stesso poeta, nell’introduzione all’atlante del 1761 avrebbe ricordato con toni lirici
la carta di Ripa, alludendo tra le righe al desiderio del nonno di avere qualcosa di più duraturo e di più
efficace – in merito ai risultati – di matrici di legno:
鑴以銅版
jian yi tongban
垂諸永久
chui zhu yong jiu
fu inciso su rame per dare alle stampe [una carta]
perché fosse sospesa per l’eternità26.
Una delle caratteristiche della carta affidata all’esecuzione di Ripa sarebbe stata, quindi, quella di
essere stampata utilizzando la calcografia, una tecnica introdotta in Cina in tempi allora ancora relativamente recenti da Matteo Ricci, che per primo l’aveva usata per riprodurre immagini sacre27, tecnica
ovviamente differente da quella xilografica – utilizzata poi per l’atlante del 1721 – che, nota da tempo,
aveva avuto il suo apogeo tra i secoli XV-XVII. Rispetto alla xilografia, la calcografia forniva stampe più
nitide, e permetteva numerose tirature senza dover rifare spesso le matrici, come avveniva con quelle
in legno usate per xilografare, elementi che confermano le parole di Ripa. Il missionario ebolitano confessa di avere appreso la tecnica calcografica a Roma, dove soggiornò dal 30 novembre 1705 al 13 ottobre 1707, ma solo dopo vari e faticosi tentativi era riuscito nel 171328 a riprodurre 36 vedute della grande villa imperiale del Jehol [Rehe 熱河, attuale Chengde 承德], che erano state particolarmente apprezzate a corte. Queste riproduzioni forse possono essere considerate una specie di prova propedeutica per
l’esecuzione della carta: di sicuro mentre Ripa era costretto a fare pratica nell’arte calcografica, i religiosi stavano ancora raccogliendo i dati cartografici.
Il missionario di Eboli per effettuare la calcografia della carta geografica dovette, quindi, usare
matrici di rame, i cosiddetti «rami», in merito al cui numero le versioni sono discordanti: Ripa nelle
sue memorie lo quantificava in 44; Walter Fuchs, invece, che negli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso in Manciuria vide della carta una ristampa completa ed una serie incompleta di nove carte ne
contò 4129. Dal momento che alcuni dei fogli, ottenuti dai «rami», ai fini della rappresentazione dei ter26
Walter Fuchs, Materialen zur Kartographie der Mandju-Zeit, in «Monumenta Serica», I (1935), pp. 386-427 (p. 398). La
traduzione è mia.
27
Jacques Pimpaneau, Histoire de la litterature chinoise, Paris 1989, pp. 161-162.
28
Adolfo Tamburello, Matteo Ripa ed il Collegio dei Cinesi, in «Annuario dell’Istituto Universitario Orientale. Anni accademici 1967/68-1982/83», Napoli 1987, pp. 85-109 (p. 90).
29
Walter Fuchs, Der Jesuiten-Atlas…, cit., pp. 25 s., 40.
56
Andreina Albanese
ritori risultano del tutto superflui, in quanto privi di mappazioni e caratterizzati solo dalla presenza di
coordinate geografiche, questi – essendo più o meno conteggiabili – rendono incerta la quantificazione
delle matrici effettivamente usate, fatto da cui potrebbe derivare la discrepanza tra i dati di Ripa e
Fuchs. Fra l’altro va notato che l’esemplare napoletano della carta riporta in basso a destra una scritta
che recita: Yujin DaQing yitong quantu 御進大清一統全圖(Carta geografica completa [del territorio
sottoposto all’autorità] dei Grandi Qing, fatta per ordine imperiale), sotto la quale sono elencati i nomi
di vari distretti e fornite informazioni di tipo geografico30. Si tratta di dati palesemente aggiunti in un
secondo tempo, riportati su fogli ovviamente anch’essi stampati usando «rami», e tali «rami», essendo
anch’essi più o meno conteggiabili assieme agli altri, complicano ulteriormente la situazione, rendendo del tutto soggettiva ed aleatoria la quantificazione delle matrici utilizzate. Dal momento poi che uno
degli esemplari della carta, quello di Vienna, è costituito da quaranta fogli isolati e non uniti tra loro,
pare saggio non insistere ulteriormente su tale aspetto, e limitarsi a rilevare che in media (in percentuale dell’86%) ogni «rame», probabilmente doveva misurare circa cm. 67 x 40,6031.
Matteo Ripa non era certo un cartografo, e del lavoro di preparazione del grande atlante conosceva solo quelle poche notizie di cui era venuto a conoscenza quando era arrivato in Cina, e da quanto è
possibile dedurre dalle brevi note riportate nel secondo volume del suo Giornale, se ne doveva essere
interessato molto poco, tanto da non sapere neppure con esattezza quando fossero iniziati i lavori di
rilevazione dei dati, né quanto tempo fossero durati. Quando su invito imperiale fu costretto ad occuparsene, si dovette basare su materiale non solo a lui poco noto, ma che non era personalmente in
grado né di verificare né di controllare scientificamente: fatto di per se stesso relativamente importante, se gli fosse stato richiesto solo un lavoro di tipo manuale ed artigianale, una mera e meccanica trasposizione di dati, che da manoscritti dovessero essere semplicemente riprodotti a stampa. In realtà si
trattava di un lavoro assai più complesso e complicato, per il quale aveva bisogno di un’équipe di collaboratori sia per la parte scritta in caratteri cinesi sia per la parte scritta in alfabeto mancese32.
Luciano Petech, Una carta cinese del secolo XVIII, in Istituto Universitario Orientale, «Annali», n. s., V (1953), pp. 185-187
(p. 187). Lo studioso considera a parte i riquadri contenenti la scritta cinese, tanto che attribuisce proprio ad essi la discrepanza tra i dati di Ripa e Fuchs nel conteggio dei ‘rami’ usati per calcografare la carta.
31
Da riscontri effettuati sull’esemplare della Biblioteca Universitaria di Bologna, ogni foglio da parallelo a parallelo risulta
misurare cm. 39, tenendo conto anche della numerazione dei meridiani, calcografata sotto il parallelo inferiore, i centimetri
diventano 39,30. Nel complesso - sopra e sotto - i bordi dei fogli, privi di stampa, misurano cm. 3,40, probabilmente quindi
le dimensioni standard di un rame dovevano essere all’incirca di cm. 67 x cm. 40,60.
32
Nel suo diario scritto in Cina, sotto la data del 22 maggio 1714, egli scrive che, oltre ai collaboratori che già aveva, al momento di accettare l’invito di Kangxi ad incidere su rama la carta dell’Impero di Cina, gli furono dati altri due collaboratori:
ACGOFM, MH, 15-2, p. 348; in sintesi i dati sono confermati in Matteo Ripa, Giornale, vol. II, cit., p. 136.
30
57
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
Le rilevazioni dei gesuiti erano di tipo tematico: i religiosi, dopo il mese di gennaio 1717, avevano
cominciato a disegnare mappe per così dire a soggetto (15 per le singole province cinesi, ancora ripartite secondo la suddivisione d’epoca Ming 明, e le restanti per le vaste zone «tartare», alcune delle quali
da poco annesse all’impero dei Qing 清)33. Ovviamente questo tipo di mappazione, pur utilissima per
la lettura di territori circoscritti, è meno utile per la visione complessiva di una nazione, e faticosissima
poi per quella di un impero, del quale – attraverso una rappresentazione così frammentata – è ben difficile cogliere l’estensione completa. La carta di Ripa rispetto all’atlante dei gesuiti si presenta, invece,
quale mappazione ad andamento continuo (baitu 拜圖), fatto che implica che gli fu affidata l’esecuzione di un’opera con caratteristiche molto diverse da quelle che avrebbe presentato l’atlante del 1721,
che sarebbe stato costituito da mappe, come già detto, disegnate con la scala di 1:2.000.000 (quella usata
dai religiosi nel 1717 era stata di 1:1.000.000). La carta di Ripa si differenzia, dunque, da quelle monotematiche dei gesuiti anche per la diversa scala adottata (di 1:1.400.000): chiaro indizio di come il lavoro da lui effettuato non dipendesse solo dalla sua abilità nell’incidere col bulino.
Il missionario ebolitano, cimentandosi quasi nella ricomposizione di un grande puzzle, dovette,
quindi, riunire i dati forniti dalle numerose mappe dei gesuiti: lavoro relativamente semplice per il
territorio cinese vero e proprio, ma non sempre di facile esecuzione per alcune zone non cinesi, i cui
dati, forniti in mappe differenti, a volte si sovrapponevano e non coincidevano, lasciando adito a
dubbi ed incertezze. Per riprodurre alcune località «tartare» quindi fu inevitabile per Ripa operare
scelte, che – vista la sua conoscenza della lingua mancese orecchiata dai suoi collaboratori che conoscevano quella lingua – è poco verosimile fosse in grado di effettuare da solo, senza ricorrere alla consulenza di quelli.
I numerosi particolari oroidrografici della carta, differenti rispetto a quelli delle mappe più tarde
del 1721 – probabilmente ancora in fase di ridifinizione quando operava Ripa – attestano inequivocabilmente che i dati presi come riferimento furono proprio quelli del 1718, come d’altronde da lui stesso affermato. In alcune mappazioni (riguardanti le aree grosso modo comprese tra i paralleli 39°-27°
N ed estese in longitudine tra 23°-12° W), infatti, ne furono usati alcuni che – escludendo l’uso delle
28 mappe del 1717 (chiari sono i riferimenti alle carte disegnate dai gesuiti sulla base delle inforLe province cinesi dal 1676 in realtà erano diventate 18 (Shaanxi 陝西 > Shaanxi 陝西 e Gansu 甘肅, Huguang 湖廣 >
Hunan 湖南 e Hubei 湖北, Nan Zhili 南 直隸 /Jiangnan 江南 > Jiangsu 江蘇 e Anhui 安徽), e Mukden (Shengjing 盛京),
considerata provincia e non città, come l’attuale Shenyang 瀋陽, corrispondeva al Liaoning 遼寧. Da notare che sotto i Ming
lo Shandong 山東 comprendeva anche il Liaodong 遼東 (Theodore N. Foss, A Western Interpretation …, cit., p. 242 n. 20 e p.
244 n. 40). Dopo il trattato di Ner™insk, stipulato con la Russia nel 1689, gli interessi cinesi per i territori attraversati
dall’Amur (Heilongjiang in cinese 黑龍江– «Fiume del drago nero»/Sahaliyan ula in mancese) erano indubbiamente aumentati, tanto che nei territori in questione erano state stabilite postazioni strategiche.
33
58
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
mazioni avute dai lama tibetani tra gli anni 1714/15-17)34 e non presentando i miglioramenti propri
delle carte stampate nell’atlante del 1721 (alcuni dettagli geografici modificati della Cina centrale, la
revisione dei nomi tibetani) – è inevitabile concludere fossero attinti dal sacerdote ebolitano dalle 32
mappe manoscritte, completate alla metà del 1718. Ulteriore conferma di questa congettura è la forma
da lui proposta per il Tengri-nor, ben più accentuata di quanto sarebbe stata nella carta n. 13 dei
gesuiti35, la rappresentazione a forma di lago di quello che nella carta n. 14 sarebbe comparso come il
corso sinuoso di due fiumiciattoli posti l’uno di fronte all’altro36; le catene montuose e l’improbabile
corso del Gange, ai confini del Ladakh con il Kashmir, più squadrato di quanto sarebbe stato raffigurato nella carta n. 1537.
Che sulla conformazione territoriale della «Tartaria» mongola ancora non si fosse ben sicuri emerge poi chiaramente nella riproduzione del Tarim, che risulta parzialmente omesso nel suo corso medio
(tra 40°-39° N di latitudine, e 32°-31°30’ W di longitudine), mentre invece sarebbe stato riportato nella
sua interezza nella carta n. 11 del 1721 (forse un errore di incisione da parte di Matteo Ripa? In effetti
la sua mappazione si arresta con il primo ‘rame’ ed il secondo risulta completamente privo di notazioni cartografiche). Tra 17°-11°30’ W di longitudine, tra 40°- 39° N di latitudine poco al di sopra della
Gran Muraglia, ai confini con l’attuale Mongolia Interna (Nei Menggu 內蒙古) invece sono riprodotti i laghi Gaxun-nor (/Sara Omo/Juyan) e Sogo-nor (/Hara Omo), chiaramente disegnati non sulla base
34
Le mappazioni di Ripa, che riportano le zone comprese tra 40°-25° di latitudine, si rifanno alle carte nn. 9, 12, 13, 14, 15,
appartenenti alla serie manoscritta in 32 esemplari (che sarebbe stata riproposta nel 1721 con alcune correzioni topografiche
e toponomastiche), carte che corressero ed integrarono i dati di quelle eseguite nel 1711 (nn. 16, 17, 18: 16>9, 17-18>12 con
l’aggiunta dei nn. 13, 14, 15). Le cinque nuove carte, che riproducono complessivamente la conformazione del territorio
tibetano e di aree adiacenti, abbracciano la latitudine compresa tra 40°-26° N, e la longitudine compresa tra 44°-11° W – ovviamente calcolata quest’ultima sul meridiano di Pechino –. Come è possibile arguire da questi dati, dal momento che in realtà
Pechino è situata a 116° 25” di longitudine e quasi 40° di latitudine, sia latitudini che longitudini sono sfasate di alcuni gradi
(circa 2° calcolati in più di longitudine e 2° in meno di latitudine, anche se ovviamente si tratta di sfasature non sempre costanti e regolari). Mentre in una fase iniziale Ripa probabilmente si era rifatto alla prima stesura in 28 carte (v. Walter Fuchs, Der
Jesuiten-Atlas …, cit., pp. 14-18), in seguito senza dubbio si rifece a quella del 1718.
35
Il lago è situato circa a 31°30’-32°40’ N di latitudine, tra 28°-25° 30’ W di longitudine, nella carta dei gesuiti n. 13 (LazangTibet) invece risulta meno esteso.
36
Nella carta n. 14 (Yalu Zangbujiang 雅魯藏布江/ Brahmaputra-corso superiore), in cui c’è lo sfasamento di circa 2° in latitudine (calcolati in difetto), nella parte superiore, situato al 31° parallelo a circa 31° di longitudine, nel Tibet centro-settentrionale in
una zona caratterizzata dalla presenza di laghi, in una miriade di piccoli affluenti del Brahmaputra si trovano disegnati due piccoli
corsi d’acqua. Questi sono stranamente rapportati tra loro, in maniera tale da suggerire la forma di un lago, tanto che sbagliata ne
sembra la riproduzione che appare nella carta dei Gesuiti e non quella – di fatto erronea - contenuta nella Carta di Ripa.
37
La carta n. 15 (G’andis alin/monti Kailas), sfasata di circa 2° di longitudine e 1°30’ in latitudine, riporta una mappazione del
tutto immaginaria.
59
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
dei dati della mappa n. 19 (che riporta, in maniera abbastanza precisa, questa zona limitrofa al deserto del Gobi, una sorta di altipiano, la cui modesta altezza – 800 metri o poco più – è curiosamente rappresentata da increspature che ricordano ali spiegate di uccelli in volo)38, ma sulla base dei dati riguardanti i confini settentrionali del Gansu riprodotti nella carta n. 24 (Shaanxi [-Gansu]), in cui il territorio risulta però in quel punto completamente appiattito, probabilmente poiché sommariamente
mappato, in quanto non appartenente allo Shaanxi. Un paio di gradi più a est di longitudine, tra 39°38° di latitudine, tuttavia le suggestive increspature dei gesuiti, raffigurate questa volta sempre nella
carta n. 24, si trovano nella mappazione di Ripa rese con i simboli iconici di solito usati per indicare
alte cime di montagne. Una tale scelta di dati, anche se non sempre definibile felice, senza dubbio presuppone che a fianco di Ripa ci fosse qualcuno a cui tali zone erano abbastanza note: forse di Fridelli
che vi si era recato, prima nel 1711 con Bonjour e Jartoux, e poi nel 1716 da solo.
Gli elementi iconici, rintracciabili nella mappazione di Ripa, rappresentano senza dubbio un’altra
specificità della sua carta, in quanto risultano utilizzati per indicare particolarità topografiche di varia
natura (piccoli quadrati di dimensioni diverse per sottolineare i tre diversi gradi di importanza delle
città, derivati dalla tradizione cinese ed occidentale di Cina, piccoli templi per indicare luoghi di culto,
silhouettes di alberi per rappresentare zone particolarmente boscose, etc.)39, mentre nell’atlante dei
gesuiti gli unici elementi iconici presenti sono quelli strettamente relazionabili ad aspetti geografici ed
ambientali (quali ad es. le già citate increspature, simili ad ali di uccelli in volo, per indicare altipiani).
Il compito di Ripa dovette essere quindi tutt’altro che facile, ed a renderlo ulteriormente difficoltoso fu di sicuro il fatto che gli fu anche richiesto di fornire una toponomastica bilingue, differenziata secondo le zone: per quelle «tartare» effettuata mediante grafia e lettura mancese (con l’eccezione
della Corea, in cui la trascrizione mancese ripropone una lettura cinese), e mediante grafia e lettura
cinese ovviamente per le aree cinesi. L’atlante dei gesuiti pervenutoci, come noto, è invece scritto completamente in cinese (usato anche per le zone «tartare» per trascrivere toponimi mancesi, mongoli e
tibetani da leggere secondo pronuncia mancese). È improbabile che in precedenza nelle carte manoscritte i religiosi avessero anch’essi usato questo duplice codice, ma è verosimile e logico supporre che,
raccogliendo i dati riguardanti la toponomastica «tartara», prima di trascriverli in cinese ne avessero
preso nota scrivendoli in mancese. Per risiedere in Cina sotto i Qing era loro richiesta la conoscenza del
cinese e del mancese, e quindi erano perfettamente in grado di farlo.
Questo tipo di iconicità si trova nelle carte dei gesuiti, usata appunto per indicare altipiani: v. ad es. le carte nn. 7, 8 per
alcune località dell’attuale Nei Menggu e Xinjiang Uygur, quali l’Ordos e lo Shamo (il deserto sabbioso [del Gobi]).
39
Alcuni di questi simboli erano stati già usati dai missionari che avevano riprodotto carte della Cina (nel Novus Atlas Sinensis
di Martini del 1655 fra l’altro risultano essere più numerosi di quelli della carta di Ripa), e sarebbero stati utilizzati anche nella
Description … di Jean-Baptiste du Halde.
38
60
Andreina Albanese
Ripa, che molto probabilmente del mancese aveva una conoscenza molto approssimativa, ebbe
senza dubbio la possibilità di accedere a tali dati, e/o di usufruire della consulenza di qualcuno a cui
fossero ben noti. Indubbiamente però in alcuni casi la mappazione del Ripa ne fornisce una versione
assai singolare, che presuppone un uso estremamente diversificato e selettivo del materiale a disposizione. Ad es. per il territorio di Hami (attuale regione autonoma Xinjiang Uygur), che venne
riprodotto tramite dati rintracciabili anche in tre carte del 1721 (la n. 19 per la parte settentrionale, le
nn. 10 e 11 rispettivmente per la zona meridionale e per la parte occidentale)40, per quanto riguarda le
zone ricollegabili alle carte nn. 19 e 10 i toponimi mancesi in Ripa risultano essere più numerosi di
quelli che figurano – scritti in cinese – sulle carte in questione. È evidente, quindi, che la rielaborazione
dei dati cui Ripa fu costretto, non si limitò solo in un’operazione diretta a far combaciare gli uni con
gli altri, ma anche in una lettura ragionata del materiale messogli a disposizione. Proponendo una
toponomastica diversa da quella che sarebbe stata stampata sull’atlante del 1721, è verosimile che egli
si rifacesse a quella usata nelle carte manoscritte del 1718, anche se non è dato sapere in quale misura.
Tutte le caratteristiche sopra elencate, proprie della carta calcografata dal missionario ebolitano
(alcune delle quali sicuramente impostegli, ed altre forse da lui scelte), indicano inequivocabilmente
che l’opera, la cui esecuzione gli era stata affidata, era sotto molti aspetti diversa dall’atlante che sarebbe stato xilografato dai Gesuiti. Ripa sorprendentemente a tale atlante non avrebbe mai fatto cenno,
perché dalle scarse notizie che egli fornisce sul suo lavoro si potrebbe congetturare che esso sia di molto
precedente alla versione xilografata dei missionari della Compagnia di Gesù e che addirittura procedesse a tappe, mano a mano che le mappe delle varie regioni pervenivano a Pechino41.
La carta n.19 (Hami), compilata sui dati raccolti nell’estate 1711 dai padri Jartoux e Fridelli, a cui si era aggiunto l’agostiniano Guillaume Bonjour-Fabre, rappresenta il territorio grosso modo compreso (secondo le coordinate dei gesuiti) in longitudine tra 49°-39° N ed in latitudine tra 31°-12° W. Pur poco precisa per il meridione e per la parte occidentale, ed utilizzata
solo per la zona compresa tra i paralleli 49°30’- 44° N ed i meridiani 25-12 W (zona che in Ripa presenta una nomenclatura
più cospicua), questa carta sarebbe stata stampata nel 1721. Le carte nn. 10, 11 (che portarono a 32 il numero complessivo
delle carte del 1721, in merito alle altre di questa serie vedi sopra n. 32), compilate sulla base dei dati raccolti da Fridelli nel
1716, rappresentano rispettivamente i territori di Hami-Gas (ovvero di Hami e dei ‘tartari’ Gas, compreso tra 47°-37°30’ W in
longitudine e 27°-13° N in latitudine) e di Zewang RabTan (Zungaria e Kashgar, comprese tra 47°-37°30’ W in longitudine e
39°30’-24°30’ N in latitudine). Per queste due carte (che insieme forniscono una visione unitaria e priva di sovrapposizioni)
le coordinate date vanno riferite ai valori massimi riguardanti le zone di più ampia estensione dei territori in questione. Le
coordinate da me fornite ovviamente sono date in maniera approssimativa e non scientificamente controllata. In merito v.
anche Walter Fuchs, Der Jesuiten-Atlas …, cit., p. 16.
41
La congettura sembra avvalorata da quanto il Ripa scrive sotto del 20 ottobre 1716: «… nell’intagliare la carta geografica,
già er[a] gionto alla gran muraglia, che divide la Cina dalla Tartaria»: Matteo Ripa, Giornale, vol. II, cit., p. 223.
40
61
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
IV. Gli esemplari della carta generale dell’Impero di Cina di Matteo Ripa conservate nelle biblioteche europee
Fino a pochissimi anni fa si reputava che ne esistessero solo due: uno, conservato a Napoli, non
rifinito con aggiunte manuali e ridotto nelle dimensioni (cm. 317 di larghezza x 295 di altezza)42 ed uno,
attualmente custodito nella Map Room della British Library, che fu donato nel settembre 1724 a
Giorgio I, re d’Inghilterra, quando l’abate fece tappa a Londra durante il viaggio di ritorno in Europa43.
Niente lasciava supporre che ne esistessero altri, dal momento che nelle sue memorie Ripa non ne aveva
mai fatto cenno. Di fatto però esistevano, e solo di recente sono stati individuati: uno nella Biblioteca
Universitaria di Bologna, uno in quella che una volta era la Biblioteca Imperiale di Vienna, ed uno,
incompleto, nell’Institut Vostokovedenija di San Pietroburgo44. Da quanto scritto di proprio pugno
dallo stesso Ripa in alcune pagine del già citato fascicolo, che accompagna l’esemplare bolognese, della
loro esistenza il sacerdote ebolitano però era ben consapevole:
… tentò egli l’Impresa, e doppo varj esperimenti fatti prima coll’acqua forte, e poi col bolino, le riuscì finalmente di intagliarla col Bolino, ed indi impressa al modo Europeo presentarla
all’Imperadore, ritenendo per se pochissimi Esemplari, dei quali uno è il presente …45.
Ripa quindi non poteva certo ignorare che quattro, dei sei esemplari attualmente noti – ivi compreso quello conservato nella biblioteca della Società Geografica Italiana46 – erano stati sottoposti a rielaborazioni ed a volte ad abbellimenti manuali, più o meno ben eseguiti (coloriture varie, trascrizioni
in italiano di toponimi, scritte di diversa natura per indicare confini, nomi di territori e di popolazioni, scarne spiegazioni riguardanti alcune località). Allora perché non parlarne, ed accennare solo en
passant a quello londinese? Personalmente ritengo che la reticenza di Ripa in merito alla sua impresa
sia spiegabile non solo con la finalità prevalentamente didascalica ed edificante assegnata al suo
Giornale, ma anche con la complessità del suo lavoro.
Luciano Petech, Una carta cinese …, cit., p. 185. Nella carta napoletana, oltre alla Cina, sono riprodotti il Tibet orientale, il
Qinghai, la Mongolia, la Manciuria e la Corea.
43
Matteo Ripa, Storia della fondazione della Congregazione e del Collegio de’ Cinesi sotto il titolo della Sagra Famiglia …, cit., t. II,
p. 188 (si cita da questo testo, nonostante l’avvertenza inziale, perché il Giornale, t. V, che contiene la notizia è ancora inedito).
44
In merito a questo esemplare, identificato in epoca molto recente, v. Giovanni Stary, Nota sul ritrovamento a San Pietroburgo
di un «Atlante» di Matteo Ripa, in «Scritture di storia» (Quaderni diretti da Luigi Cortesi e Michele Fatica), n. 2, Napoli, maggio 2001 pp. 123-126. L’esemplare in questione, costituito da quattro rotoli, anche se per ora solo sommariamente studiato,
sembra essere strettamente collegabile a quello di Vienna.
45
V. la prima pagina non numerata dell’Avvertimento, cit., di mano di Ripa, annesso all’esemplare di Bologna.
46
Li Xiacong 李孝聪, A Descriptive Catalogue of pre-1900 Chinese Maps Seen in Europe 欧洲收藏部分中文古地图叙录,
Beijing 1996, pp. 160-163.
42
62
Andreina Albanese
Quando la carta geografica fu affidata alla sua esecuzione, ebbe inizio un’impresa, che nacque di
sicuro sotto una cattiva stella. Il missionario ebolitano lavorò splendidamente: il suo fu sicuramente un
lavoro difficoltoso e lungo (fra l’altro – secondo Fuchs – la versione da noi conosciuta della carta sarebbe il frutto solo di un secondo tentativo da lui fatto)47, ma alcuni dati che stava utilizzando, in particolare quelli di alcune zone «tartare» (quali ad es. Tibet, Mongolia, Xinjiang), sarebbero stati ben presto
aggiornati dai gesuiti sulla base di informazioni più precise, acquisite nel frattempo. Nella versione
xilografata dell’atlante del 1721 ad esempio sarebbe stata riprodotta una nomenclatura dell’area tibetana completamente revisionata, con varianti anche riguardanti la topografia dell’area in questione.
Gli stessi religiosi in seguito, ben consapevoli che anche l’atlante del 1721 era tutt’altro che perfetto, nell’inviarne riduzioni in Europa avrebbero suggerito che le mappe, che du Halde voleva inserire
nella Description, fossero ulteriormente migliorate tramite informazioni tratte da fonti di varia natura
(tra cui le memorie dei padri Verbiest e Gerbillon, le osservazioni di padre Régis, le relazioni del capitano Bering). Nel 1725 Fridelli e Régis – che sin dalle prime fasi avevano preso parte ai lavori preparatori dell’atlante, e che anche dopo la morte di Kangxi avrebbero continuato ad occuparsi di cartografia – basandosi su resoconti orali forniti da viaggiatori, avrebbero fatto una mappazione più esatta e più
particolareggiata delle regioni che si estendevano tra lo Shaanxi e il Mar Caspio, e Régis, da solo, l’anno seguente, forse rifacendosi a fonti mancesi, avrebbe effettuato un’ulteriore mappazione del Tibet,
molto più accurata rispetto a quella del 172148.
È verosimile che Ripa, quando ancora si trovava in Cina, forse avesse l’occasione di vedere l’atlante,
e che fosse più o meno consapevole che i gesuiti non ne erano del tutto soddisfatti. Di ritorno in Europa
probabilmente ritenne però di non doversene eccessivamente preoccupare: la carta, da lui calcografata
facendo riferimento ai dati del 1718 (che di sicuro sapeva per alcune zone «tartare» inevitabilmente essere ancor meno soddisfacenti di quelli più tardi), nel complesso poteva essere ritenuta accettabile. Non
solo non era molto diversa da quella dell’atlante, ma quest’ultimo, che si trovava in Cina, di sicuro non
era facilmente visionabile dai quei dotti Europei, sempre avidi di notizie su quel lontano paese.
Forte probabilmente di questo convincimento – non poteva certo prevedere che nell’arco di pochi
anni i religiosi sarebbero riusciti a migliorare notevolmente i dati in loro possesso ed a comunicarli a du
Halde – ancor prima di porre piede sul Vecchio Continente, aveva cominciato forse a curare l’arrangia-
Walter Fuchs, Der Jesuiten-Atlas …, cit., pp. 14-18, 60.
V. Jean-Baptiste du Halde, Description …, cit., t. IV. In merito a queste mappe si trovano alcune informazioni nelle lettere
inviate da Gaubil in Europa: Renée Simon (ed.), Antoine Gaubil, Correspondance…, cit., pp. 302 s., 668). Anche una memoria
di De Mailla, arrivata a Parigi nel 1726, sarebbe stata abbondantemente ripresa da du Halde, che nel complesso avrebbe citato ben 27 gesuiti, tra gli autori delle opere da lui consultate (v. Shannon McCune, Jean-Baptiste Régis …, cit., p. 246; Theodore
N. Foss, A Jesuit Encyclopedia …, cit., p. 63).
47
48
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Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
mento e l’elaborazione manuale dei pochi esemplari che aveva tenuto per sè: con scritte ed abbellimenti
di vario genere probabilmente pensava di riuscire in qualche modo a compensarne carenze ed imprecisioni. Per far pratica – per non rischiare di rovinarne altri migliori – aveva scelto un esemplare costituito
da fogli non perfetti: non uniformi nel colore (alcuni chiari, altri molto scuri), ed in parte maldestramente stampati, tanto da risultare in alcuni punti del tutto illegibili. Aveva cercato di unirli (spesso in maniera non perfetta), e li aveva incollati su un supporto di tela, in modo da fornirne una lettura razionale. Alla
fine aveva ottenuto una carta tripartita, la cui suddivisione, effettuata non in maniera ottimale, ne avrebbe reso di fatto la consultazione tutt’altro che agevole, ma che – se pur in forma di trittico disarmonico –
avrebbe offerto una visione relativamente organica di alcuni settori del territorio dell’Impero49.
È verosimile che si trattasse di una sorta di prova, di un primo arrangiamento, approssimativo e
sommario, che – corredato manualmente con scritte esplicative (per lo più rosse e non infrequentemente scarsamente interpretabili) e con coloriture, la cui gamma abbraccia più che altro varie tonalità di
rosso e giallo con raro uso di altri colori (quali verde e rosa) – era tutt’altro che perfetto. A volte fra l’altro i nomi delle province risultano non segnati, alcuni toponimi scritti e poi cancellati, e – nei punti di
giuntura – spesso è ben visibile che i paralleli sono stati tracciati sopra a matita. Malgrado il risultato tutt’altro che esaltante, stranamente questo fu l’unico esemplare citato nel Giornale di Ripa, se pur di sfuggita, l’unico la cui esistenza fosse nota sin da quando egli, di ritorno dal Celeste Impero, nel settembre
1724 ne fece dono al re d’Inghilterra. A parere di chi scrive Ripa quell’esemplare così deludente, quella
sorta di prova preliminare, aveva intenzione di tenerlo per sé, ed avrebbe fatto volentieri a meno di
donarlo al re, se le circostanze in qualche modo non ve lo avessero costretto. Altrettanto volentieri presumibilmente avrebbe fatto a meno di parlarne, ma per forza di cose non potè esimersi dal farlo50.
In tre ripartizioni sono riportate sezioni con mappazioni che comprendono 55°-20° N di longitudine. Due sezioni a ductus orizzontale (catalogate China CXVI 15 e CXVI 15b) riportano i territori di Mongolia, Cina + isola di Hainan 海南島, Manciuria,
Corea, Sakhalin; l’altra (CXVI 15a), a ductus verticale (grosso modo nella forma non omogenea avvicinabile ad una piramide
rovesciata ed inclinata verso destra), riguarda più che altro la così detta Tartaria occidentale. Questa sezione, con la mappatura
più ricca di dati, compresa tra 35°-25° N di latitudine, riporta il Tibet occidentale con i territori confinanti, e quello centrale.
50
Quando Ripa tornò in Europa è verosimile che l’esemplare, attualmente conservato a Londra, fosse l’unico che avesse già subito
adattamenti. È lo stesso abate che indirettamente ce ne fornisce la prova, quando racconta come – per trarsi d’impaccio – lo affidasse, qualificandolo quale dono per il re, ai severi doganieri inglesi che, dopo aver compiuto una minuziosa ispezione dei suoi
bagagli, lo stavano confiscando, dal momento che il possesso di carte geografiche era interdetto: Matteo Ripa, Storia della
Fondazione …, cit., t. II, p. 188. Se gli altri esemplari, che l’abate è presumibile avesse con sé, durante la perquisizione non corsero
un rischio analogo, l’unica spiegazione ragionevole è che – essendo probabilmente ancora in forma di fogli scollegati tra di loro
e non sottoposti a rielaborazioni – non si capì che anche essi erano mappazioni. Le circostanze così particolari, in cui l’esemplare
(non di buona fattura, né per materiale cartaceo, né per arrangiamento effettuato) fu frettolosamente qualificato quale dono per
il re, mi inducono inoltre a sospettare che Ripa avesse tutt’altra intenzione in merito alla sua destinazione, e che donarlo al re non
fosse altro che un escamotage, escogitato al momento, per superare l’imbarazzante situazione in cui si era trovato.
49
64
Andreina Albanese
Superato questo, che personalmente definerei un incidente di percorso, Ripa continuò a curare
l’elaborazione anche di altri esemplari, di sicuro aiutato da qualche collaboratore. Chi fosse non lo sappiamo, e l’abate di S. Lorenzo in Arena non ne ha lasciato testimonianza. È probabile che egli non fosse
al corrente che i gesuiti francesi, che avevano in gran parte contribuito alla riuscita dell’impresa, a causa
dei difetti e delle carenze dell’atlante stavano persino rallentando la stampa in Europa delle mappe
inviate a du Halde, mentre si davano da fare per migliorare i dati ritenuti inesatti, pur temendo che i
Portoghesi, in continuo contrasto con loro – attraverso Cardoso –51, li battessero sul tempo.
La carta di Ripa, rispetto anche a quelle di pochi anni successive, sarebbe stata quindi per forza di
cose lacunosa ed imprecisa per quasi tutti i territori «tartari», alcuni dei quali – specialmente quelli alle
estreme frontiere – presentano vaste zone le cui conformazioni sono quasi abbozzate, se non addirittura omesse (ad es. la mappazione della fascia territoriale compresa tra i paralleli 50-45 N, che pur
iniziando al meridiano 52 W, di fatto riporta i primi dati al 38° W52 e quella compresa tra i paralleli 4540, che iniziando nominalmente a 47° W termina a 43° E, ma che effettivamente riporta dati da 40° W
a 23° E). Indubbiamente le carte disegnate da d’Anville per du Halde, a pochi anni di distanza (la prima
edizione della Description, come già detto, venne stampata nel 1735)53, per il Tibet e la Mongolia sarebbero risultate ben più nutrite di nomi e particolari geografici, anche se nomi e collocazioni territoriali
a volte furono proposti molto liberamente dal cartografo, il quale – pur scrupoloso ed attento – nell’arco di sette anni compilando le carte della Description a volte variò alcune denominazioni da carta a
carta54.
51
Theodore N. Foss, A Jesuit Enciclopedia …, cit., p. 144. I rapporti tra i religiosi portoghesi e quelli di altre nazionalità erano
sempre stati conflittuali. La missione portoghese aveva pesantemente esercitato su tutti i religiosi il così detto ‘padroado’, in
virtù dei diritti che il Papato aveva riconosciuto al re del Portogallo sin dai primi decenni del sec. XVI sui territori conquistati nelle Indie, in Africa e Brasile e sulla sede episcopale da cui questi territori sarebbero dipesi, con privilegi particolari ai missionari che in quei luoghi si sarebbero recati. Solo nel novembre del 1700, nominato Padre Gerbillon vice-provinciale per i
Gesuiti francesi di Cina con le funzioni di superiore generale per la missione di Francia, grazie ad uno statuto speciale questa
si era potuta staccare da quella portoghese, tuttavia i rapporti non erano migliorati (v. Henri Chappoulie, Rome et les missions
d’Indochine au XVIIe siecle, v. I. Paris 1943, c. IV; Joseph Dehergne, Répertoire des Jésuites …, cit., p. 336).
52
Sopra al parallelo 50 il primo meridiano riportato risulta essere il 52°, sotto al parallelo 45° il meridiano iniziale, per questioni di incurvatura, è il 47°. Poiché i religiosi usarono proiezioni coniche, e nella riproduzione mantennero sempre Pechino
come meridiano 0, più lontane da questo meridiano sono le località riprodotte e maggiore è l’incurvatura (a scapito ovviamente delle proporzioni).
53
Theodore N. Foss, A Jesuit Encyclopedia …, cit., pp. 126-127.
54
Ibidem, p. 123-24 in merito alla meticolosità di d’Anville. Circa le differenti trascrizioni usate dal cartografo in carte diverse
per indicare gli stessi nomi, sono esemplari quelle adoperate per l’etnia mancese nota come «tartari dalla pelle di pesce», che
nella carta generale della Tartaria cinese (1732) del t. IV è indicata come Yupi Ke tchen, e nella carta generale della Cina,
Tartaria cinese e Tibet (1734) del t. I come Yupi Ke tching.
65
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
Ripa continuò, molto probabilmente ancora ignaro di quanto stesse avvenendo, ad arrangiare i
suoi esemplari. Quello di Vienna fu donato, assieme ad altri oggetti cinesi, all’imperatore Carlo VI
d’Asburgo, che lo ricevette in udienza il 21 agosto 172655. L’arrangiamento dell’esemplare in questione,
per qualche ignoto motivo (forse legato all’urgenza del momento), una volta iniziato non fu portato a
termine, e pertanto si presenta suddiviso in quaranta fogli isolati, solo parziamente rielaborati da Ripa.
È verosimile che in un secondo tempo ne fosse prevista la ricongiunzione, ma ovviamente non è dato
sapere in quale forma; pur nel loro parziale arrangiamento di sicuro mostrano varianti rispetto
all’esemplare di Londra. Le scritte manuali, che compaiono sui fogli, risultano infatti essere ormai prive
dei precisi riferimenti storici precedentemente usati (ad es.: Jehol. villa imperiale dove l’Imperadore
defunto Kanghi ogn’anno andava à diporto)56. Probabile testimonianza di una fase più avanzata, tendente a decontestualizzare storicamente la lettura della Carta? È verosimile, dal momento che tale scritta è
assente anche nell’esemplare di Bologna, che – tipologicamente avvicinabile a quello di Vienna – quasi
sicuramente rappresenta una tappa ancor più avanzata nell’iter rielaborativo. I quattro rotoli di San
Pietroburgo, che sembrano mostrare precise rispondenze con l’esemplare di Vienna (relative ad
aggiunte manuali, trascrizioni e note esplicative), in mancanza di riscontri più precisi, si può solo ipotizzare siano in qualche modo assimilabili a questo, e per proprietà transitiva quindi anche all’esemplare bolognese. Quando Ripa mise mano all’arrangiamento dell’esemplare in questione, l’ultimo a noi
noto tra quelli sottoposti a rielaborazioni, senza dubbio aveva raggiunto un’esperienza tale, da essere
in grado di effettuare un ottimo lavoro, ed in effetti l’arrangiamento fattone è di altissimo livello, portato a termine con abilità ed accortezza davvero eccezionali.
Secondo un’indagine, effettuata in data 11 dicembre 1991 da un esperto dell’Istituto della
Patologia del Libro (che in precedenza si era già occupato della carta di Napoli), è risultato che i singoli fogli, stampati coi «rami» su carta molto leggera, probabilmente cinese, erano stati incollati senza
soluzione di continuità su sette supporti di carta europea filigranata molto resistente (precedentemente già giuntata), in maniera che si potrebbe definire quasi perfetta, dal momento che è difficilissimo
individuarne a prima vista i punti di giunzione. Operando in tal modo fu magistralmente ottenuta una
suddivisione della carta in sette lunghi fogli – alti circa cm. 43, se si includono i margini non calcogra-
55
Matteo Ripa, Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione e Collegio della Sagra …,cit., sotto la data del 21 agosto
1726, scrive: «Alli 21 fui nuovamente a piedi dell’imperadore, al quale presentai alcune bagattelluccie di Cina e Sua Maestà,
dopo averle considerate una per una, con gran suo piacere mi disse: “io vi resto obbligato”»: Michele Fatica, Matteo Ripa, Carlo
VI, la Compagnia di Ostenda e il progetto di fondazione a Napoli di un Collegio dei Cinesi, Napoli 1997, p. 24.
56
Tale notazione, fortemente datata, presente nell’esemplare di Londra, è assente negli altri esemplari, sui quali non si trovano
neanche riscontri di alcuni toponimi. È da sottolineare che le trascrizioni, usate per indicare le stesse località, nei tre esemplari
spesso non coincidono.
66
Andreina Albanese
fati – ognuno dei quali riporta ovviamente una mappazione continua, ripartita per fasce territoriali
comprese entro sei gradi di latitudine (nel complesso i gradi vanno da 55 a 20, con l’aggiunta di un piccolo riquadro per l’isola di Hainan, compresa tra 20°-18°). I fogli sono di lunghezza variabile secondo
l’estensione delle zone mappate (il più corto, il foglio n. 7, misura cm. 265, il più lungo, il n. 5, cm. 462),
e pertanto i gradi di longitudine riprodotti, conteggiati – come già più volte sottolineato – prendendo
come riferimento il meridiano 0 posto a Pechino, variano nel numero in ognuno di essi57.
Su queste mappazioni continue a ductus orizzontale, per sottolineare i confini delle province cinesi e delle coste, con estrema maestria in molteplici tonalità furono effettuate colorazioni a tempera suggestivamente sfumate (ancor oggi di estrema brillantezza), in inchiostro rosso tracciate scritte in corsivo minuscolo tuttora ben leggibili, che poste vicino alle località più importanti ne forniscono una
trascrizione secondo una lettura italiana (non omogenea, secondo la prassi dell’epoca), ed in grandi
caratteri maiuscoli in inchiostro nero quelle che – attualmente circondate da aloni scuri dovuti all’ossidazione – forniscono i nomi delle province e notizie di varia natura.
Ripa di proprio pugno in elegante corsivo appose le grandi scritte che segnalano le zone «tartare».
Vicino ai toponimi, in particolare a quelli scritti in mancese, a volte fornì spiegazioni succinte (non
infrequentemente però superflue e pleonastiche). A fianco di località importanti le notizie date, se pur
molto sintetiche, spaziano in vari ambiti (storico, geografico ed anche economico) ma, in moltissimi
casi, quando riguardano le zone non cinesi – a causa anche di sviste e fraintendimenti del Ripa – risultano del tutto inattendibili. Per la zona di confine del Tibet estremo occidentale (Ladakh) con il
Kashmir, tanto per fare un esempio, nel foglio n. 5 è segnalato un regno fantasma (confini del regno
detto Lompapitì), collocato più o meno a 46°-45° N di latitudine e 32°-30° W longitudine, di cui nell’atlante del 1721 non vi sarebbe stato alcun riscontro: fatto che evidenzia inequivocabilmente la scarsa
I dati dei fogli sono i seguenti: foglio n. 1 (cm. 267) da 19° W a 30° E, con i territori attraversati dai fiumi Amur e Selenga,
l’isola di Sakhalin e parti di Mongolia Esterna; foglio n. 2 (cm. 400) da 38° W a 25° E con Russia, Manciuria, Jehol, Mongolia
Esterna, Zungaria, Kashgar; foglio n. 3 (cm. 393) da 40° W-23° E con Corea, Manciuria, Jehol, Mongolia Interna, Zungaria,
Kashgar e le province cinesi di Zhili e Shanxi; foglio n. 4 (cm. 408) da 38° W a 14° E con Tibet, Qinghai, Corea e le province
di Zhili, Shandong, Shanxi, Shaanxi (odierne Shaanxi e Gansu) e Henan; foglio n. 5 (cm. 462) da 51° W a 19° E, con Tibet,
Corea e le province di Shaanxi, Henan, Jiangnan (/Nan Zhili = Jiangsu e Anhui), Zhejiang, Sichuan; foglio n. 6 (cm. 376) da
45° W a 5° E, con Tibet e le province di Jiangnan, Zhejiang, Jiangxi, Huguang (= Hubei e Hunan), Fujian, Guangdong,
Guangxi, Guizhou, Sichuan e Yunnan; foglio n. 7 (cm. 265) da 28° W a 7° E, con le province di Fujian, Guangdong, Guangxi
e Yunnan. Come rilevava Richthofen (cit. in Henri Bernard, Les Etapes de la cartographie …, cit., p. 461), a prescindere dalle
province costiere, quelle dello Yangzi jiang, lo Yunnan e il Bei Zhili (= Hebei), per la Cina le latitudini risultano essere spostate
tutte verso settentrione, le longitudini invece sono abbastanza esatte. Per le località «tartare», da quanto mi è stato possibile
valutare, secondo le zone gli errori variano da 30’ a 120’ in latitudine ed in longitudine. In genere più ci si allontana dal meridiano di Pechino e più gli errori sono evidenti (v. Louis Pfister, Notices biographiques …, cit., p. 534).
57
67
Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
dimestichezza del sacerdote ebolitano con la lingua mancese (che forse nel tempo, non avendo più al
suo fianco esperti di quella lingua, si era andata ancor più accentuando). Ripa, interpretando e leggendo maldestramente la scritta da lui stesso calcografata (Momba Bidi aiman-i jecen = genti di confine
dello Spiti), ne dette un’interpretazione del tutto improbabile58, lasciando ben intuire come in passato
– nel proporre una toponomastica bilingue – per le zone «tartare» fosse stato per lui indispensabile
usufruire della consulenza di qualcuno che conoscesse bene il mancese.
Non possiamo certo sapere in quale periodo colui che era noto in Italia e in Europa anche come
l’abate Ripa si dedicasse all’arrangiamento dell’esemplare di Bologna, che sicuramente dovette richiedere parecchio tempo. Forse però proprio mentre se ne occupava, in Europa qualcuno già affrontava o
era in procinto di affrontare un compito più o meno analogo. D’Anville, che avrebbe compilato le 42
mappe della Description di du Halde, avrebbe infatti riprodotto le 15 province cinesi tra gli anni 17281729; ed in seguito, tra gli anni 1730-1735, avrebbe fatto altrettanto per i territori di Corea, Tibet e del
resto della Tartaria. Mentre Ripa non poteva far altro che cercare di migliorare manualmente i dati già
stampati da tempo sulla carta, integrandoli e fornendo su di essi sporadici commenti, il cartografo
francese, accurato e pignolo59, non solo usava per alcuni territori quei dati che nel frattempo i gesuiti
avevano corretti ed ampliati, ma era anche in grado – per quanto era possibile, visto che si trovava in
Francia – di effettuarne verifiche, e se non lo convincevano, anche di modificarli. Du Halde nella
monumentale Description avrebbe fornito anche ampie informazioni sugli argomenti più disparati,
mentre Ripa, potendo far ricorso solo a scarne notazioni manuali, per qualche località era in grado solo
di aggiungere brevi flash informativi, che non sempre però – come si è detto precedentemente – erano
i più appropriati.
Quando il fondatore del Collegio dei Cinesi si rese conto che l’esemplare di Bologna, arrangiato
così magistralmente, sarebbe stato, o forse già era, superato dalle nuove mappazioni di d’Anville, possiamo solo ipotizzarlo. Dal momento però che nel manuale bolognese, nel far riferimento alla riprodu-
Nel foglio di Ripa, da quanto è possibile arguire, in questa zona risultano segnalati, scritti in mancese, tre nomi: Momba Bidi
aiman-i jecen, Momba Niondi aiman-i jecen, e Bidi hembo dagaban (in Jean-Baptiste Du Halde, correttamente, se pur parzialmente riportati, come Mompa Piti/Pitai, Mompa Niontai e Piti hempo), di cui solo gli ultimi due sarebbero stati riproposti
nella carta n. 15 dei gesuiti per indicare rispettivamente le genti della valle di Kulu (Niondi = Nyung-ti, il nome tibetano per
la valle di Kulu) e la catena montuosa dello Spiti (Bidi = Spiti), situata a S-E del Ladakh. Dal momento che Momba
(trascrizione mancese del tibetano Mon o Mon-pa) = popolazioni di confine del versante meridionale hymalaiano, aiman =
gente, jecen = zona di confine, è più che evidente che Ripa, parlando di un regno, non avesse la minima idea di quello che in
realtà la locuzione mancese volesse dire, e che nel fare tale identificazione probabilmente si basasse su ricordi ormai imprecisi
o su vecchi appunti mal interpretati. Tutte le identificazioni toponomastiche delle località più o meno di confine dell’area
tibetana mi sono state segnalate dal Prof. Luciano Petech, che ringrazio vivamente.
59
Theodore N. Foss, A Jesuit Encyclopedia …, cit., pp. 123-27.
58
68
Andreina Albanese
zione della stele di Xi’an 西安 (contenuta nello stesso incartamento), viene esplicitamente citata la
prima edizione del 1735 della Description in pagine che vengono subito dopo quelle in cui è fornito un
breve resonto della genesi della carta e date informazioni sulla sua consultazione, è più che evidente che
Ripa – che scriveva di suo pugno le note riguardanti sia la stele sia la carta – ne conoscesse molto bene
il contenuto. Non poteva quindi ignorare che nel corposo tomo IV di du Halde facevano bella mostra
di sè per il Tibet e per la Tartaria più di venti mappazioni, molto più documentate, complete ed esatte
delle sue. Non poteva certo non essere consapevole che l’esemplare della carta, pur sottoposto a rielaborazioni, mostrava vistose lacune ed imprecisioni, sia per quanto riguardava i dati stampati, che quelli aggiunti a mano. Per questo forse non si curò di revisionare l’Indice, che scritto con poca accortezza
da qualche scrivano, mostra palesi incongruenze, e riporta trascrizioni toponomastiche di cui non si ha
riscontro in nessuno degli esemplari sottoposti a ritocchi manuali attualmente noti60. Per questo forse
non corresse nemmeno le parole da lui stesso vergate relative ai criteri tramite i quali utilizzare l’Indice
in questione, che sembrano non rispecchiare del tutto l’arrangiamento effettuato sulla Carta bolognese, a cui s’accompagna61: forse non è neppure da escludere che tale Indice dovesse in realtà servire a facilitare la consultazione di qualche altro esemplare, arrangiato in altra maniera, di cui attualmente non
si ha riscontro.
Nell’arco di poco più di dieci anni, l’esemplare a cui Ripa aveva dedicato tempo e fatica era diventato improponibile: bello, ma obsoleto, arrangiato magistralmente, ma stampato con dati imprecisi e
corredato manualmente con notizie sbagliate. È probabile che Ripa, dopo essersene reso conto, decidesse di toglierlo dalla circolazione: certo era preferibile che non fosse visto da qualcuno che di Cina si
interessasse e di Cina sapesse. In quale maniera fosse attuato tale proposito non sappiamo, ma di sicuro sappiamo che fu portato a Bologna, ove fu conservato in forma anonima per quasi tre secoli in un
incartamento62, assieme ad altri documenti che riguardavano la Cina, tutti documenti che per vari
Sono erroneamente segnalate ad es. quattro ‘zone’ abitate dai Miao, fornendo tra parentesi per due di esse – connotate da
identiche coordinate – informazioni contrastanti (una è detta non soggetta all’Imperatore di Cina e l’altra invece soggetta),
anche se in realtà si trattava della stessa zona. Alcune trascrizioni di toponimi non coincidono con quelle degli esemplari di
Vienna e di Londra (la tipologia di quest’ultima esclude, però, qualsiasi collegamento con l’Indice); va sottolineato però che
l’uniformità delle trascrizioni non era certo un problema che l’abate si ponesse (come d’altronde facevano quasi tutti i sinologi dell’epoca), dal momento che nelle sue memorie vi sono ampie dimostrazioni di quanto poco ne tenesse conto.
61
Nell’Avvertimento è scritto: Tutta questa gran Carta è divisa in sette parti...Per ogni grado di Latitudine vi sono notate le lettere
Majuscole A.B.C., e per ogni grado di Longitudine a.b.c., Nell’esemplare di Bologna le sette parti in effetti sono chiamate fogli,
e le longitudini sono indicate con lettere maiuscolette.
62
L’attuale Biblioteca Universitaria in origine era la Biblioteca dell’Istituto delle Scienze, particolarmente curata da Benedetto
XIV, prima (1731-1740) e dopo la elezione al soglio pontificio (1740-1758). È verosimile che a lui sia ascrivibile l’accessione
di tale incartamento, purtroppo però le documentazioni relative alle accessioni avvenute in quel periodo sono incomplete.
60
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Matteo Ripa e la carta geografica dell’Impero Cinese commissionata da Kangxi
motivi costituivano materiale, la cui esistenza è presumibile si preferisse celare più che rendere nota63.
L’unica carta che Ripa tenne presso di sé a Napoli, come noto, venne ridotta nelle dimensioni e non
fu sottoposta ad alcun intervento manuale. Qualsiasi abbellimento sarebbe stato inutile, e qualsiasi
nota ormai – il missionario ebolitano doveva averne la consapevolezza – sarebbe risultata ridicolmente breve, e poco e malamente informativa, rispetto alle doviziose notizie riportate nella Description.
Ripa rendendo l’esemplare napoletano omogeneo nelle misure (forse anche per agevolarne la sistemazione a parete), ne eliminò alcune aree: Tibet occidentale con zone adiacenti, Tibet centrale, Xinjiang.
Si trattava proprio di quelle la cui rappresentazione era approssimativa e poco precisa. Fu un escamotage intelligente e funzionale o solo un caso? Indubbiamente la carta, così ridotta, era molto meno criticabile e molto più maneggevole, e nessuno certo avrebbe potuto trovare a che ridire per una tale sistemazione. Nelle sue memorie, pur sottolineando il compito affidatogli dall’imperatore, l’abate l’avrebbe nominata solo di sfuggita, senza mai porla in relazione con l’atlante dei gesuiti, a cui non avrebbe
mai fatto esplicitamente cenno. Forse per un inconscio meccanismo di rimozione, o per evitare di attribuire troppa importanza al loro operato? Chi mai potrà saperlo?
Oltre alla carta di Ripa, nell’incartamento si trovano tre esemplari, non uguali, della Tabula Chronologica del gesuita
Foucquet, ed uno schema in bianco ad essa riconducibile; quattro esemplari completi e quattro parziali del Gang-Jian jiazi tu
綱鑑甲子圖 («Tavola accordata al jiazi», basata sul Zizhi tongjian gangmu 資治通鑑綱目) di Nian Xiyao 年希堯 (v. su quest’ultimo Elisabtta Corsi, Perspectiva iluminadora e iluminación de la perspectiva. La versión del arte occidental de la perspectiva de Nian Xiyao (1671-1738 en los prólogos a la Ciencia de la visión, in «Estudios de Asia y África», vol. XXXVI, 2001, pp. 375418; Andreina Albanese, La Cina secondo il figurismo di Foucquet (1665-1741) in alcuni documenti dell’epoca, in Giusy
Tamburello ( a c. di), L’invenzione della Cina, Lecce 2004, pp. 39-53) a cui Foucquet si era ispirato per la compilazione della
Tabula, ed una riproduzione della stele di Xi’an, quasi sicuramente calcografata, e con molta probabilità attribuibile anch’essa a Ripa (Andreina Albanese, La stele di Xi’an, i gesuiti e Ripa, in Maurizio Scarpari, Tiziana Lippiello (a c. di), Caro Maestro.
Scritti in onore di Lionello Lanciotti per l’ottantesimo compleanno Venezia 2005, pp. 73-83). Le idee di Foucquet sulla Cina erano
molto criticate, tanto che una volta morto nel marzo 1741, Benedetto XIV ordinò che tutto quanto da lui scritto fosse tolto
dalla circolazione e conservato nella Biblioteca Vaticana (v. John W. Witek, Controversial Ideas in China and in Europe: a
Biography of Jean-François Foucquet S.J. (1665-1741), Rome 1982, p. 326); altrettanto foriera di problemi poteva essere una
riproduzione della stele di Xi’an, in quanto attestava l’esistenza di un monumento, la cui pretesa falsificazione – attribuita ai
gesuiti – era da tempo una sorta di baluardo per i loro denigratori (v. Paul Pelliot, L’inscription nestorienne de Si-ngan-fou [ a
c. di Antonino Forte], Kyoto-Paris 1996, pp. 147-166).
63
70
Sulla toponomastica mancese
dell’atlante di Matteo Ripa
GIOVANNI STARY
Università degli Studi di Venezia
L’atlante inciso da Matteo Ripa evidenzia, meglio di ogni altro documento, le due anime della
dinastia mancese: da un lato l’impero cinese di prevalente etnia Han 漢, dall’altro i vasti territori periferici, che con la Cina vera e propria avevano in comune solo il governo centrale mancese. Questi territori costituivano le cosiddette tulergi golo («province esterne»), per la cui amministrazione fu creato
il Tulergi golo be dasara jurgan («Ministero per l’amministrazione delle province esterne»), più noto
con il nome cinese di Lifan yuan 理藩院.
L’uso della lingua mancese per la toponomastica di questi territori sottolinea anche che non facevano parte del territorio cinese vero e proprio, al quale erano legati solo dalla comune casa regnante.
Questa sottile distinzione emerse chiaramente al momento del crollo della dinastia nel 1911, quando i
feudatari khalka della Mongolia esterna reclamarono l’indipendenza, asserendo di essere stati legati alla
dinastia, ma non all’impero.
Nella visione politica mancese l’impero era infatti distinto in quattro «aree culturali», che si riferivano alle vicissitudini storiche che avevano portato alla sua formazione:
1) l’area cinese han 漢, che comprendeva la Cina vera e propria, nei limiti territoriali dell’impero
Ming (明, 1368-1644), la cui conquista veniva «giustificata» sin dai tempi di Nurhaci, fondatore del
casato imperiale (1559-1626), con la perdita da parte della dinastia Ming del «mandato celeste», di cui
si era mostrata indegna, e il suo passaggio – per volontà del cielo – alla futura dinastia Qing 清.
2) L’area coreana. La Corea, sottomessa dopo la campagna del 1636/37, era vista con presupposti
diversi da quelli che avevano «giustificato» la guerra mossa contro la Cina dei Ming. La Corea, infatti,
doveva essere soggiogata, perché «mai avranno fine le [sue] mire di provocare malanni» (jobolon be
cihalame jing nakarakû ofi)1, come conseguenza della sua fedeltà alla dinastia Ming, che ormai aveva
perduto il «mandato celeste». Al re coreano Lichong, assediato nella cittadella di Nanhan a sud di Seoul,
alla fine non rimase altra via d’uscita che chiedere la resa e «potersi sottomettere con lo stesso ‘rango’
degli altri regni» (geren gurun-i jergi de bahafi, dosici wajiha)2. Con questa richiesta la Corea s’inseriva
1
2
Daicing gurun-i doro neihe bodogon-i bithe [Sulla fondazione dell’impero dei Grandi Qing], Pechino 1789, cap. XXIII, p. 3a [9].
Ibidem, cap. XXIII, p. 23b [9].
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
allora tra le «province esterne» allo stesso livello dei principati mongoli, e ciò probabilmente giustifica
l’uso della scrittura mancese per la sua toponomastica. Per le sue caratteristiche particolari la posizione della Corea, tuttavia, si distinse sin dagli inizi del suo vassallaggio da quella delle altre «province
esterne».
3) L’area tibetana e dell’arco mongolo (Tibet, Mongolia, Xinjiang 新疆), era stata inclusa nel
dominio mancese con presupposti e criteri diversi da quelli che avevano caratterizzato l’area cinese e
coreana. Essa si basava essenzialmente sulle lotte intermongole, in particolare sull’egemonia dell’impero zungaro, sia nei confronti delle altre confederazioni mongole, sia nei confronti del Tibet, in seguito
alle mire espansionistiche dei capi ölöt Galdan e Zewang Rabtan3. L’intervento imperiale consistette,
quindi – usando il linguaggio mancese – nel «portare la pace» (elhe obumbi) alle popolazioni sofferenti che «si sottomisero con gratitudine» (huk£ehei dahanjihe), e nell’«acquietare e pacificare» (necihiyeme toktobumbi) le regioni in questione. Le operazioni militari si conclusero con la creazione de facto del
protettorato mancese sul Tibet e sulla Mongolia esterna (khalka) e con la creazione di una «nuova provincia» (Ice Jecen), più nota col nome cinese di Xinjiang 新疆.
4) l’area russa, che si era formata in seguito al trattato russo-mancese di Ner™insk del 1689 (stilato in latino, russo e mancese, ma non in cinese), con cui vasti territori tra il fiume Amur e la catena
montuosa Stanovoj venivano assegnati all’impero mancese, di cui fecero parte fino al 1858, anno in cui
furono ceduti alla Russia col trattato di Aigun. Non sorprende quindi che parte della Siberia sud-orientale (dal lago Bajkal fino all’isola di Sakhalin) fosse inclusa nell’atlante del Ripa4.
Il mancese, lingua tungusa del ramo altaico, polisillabica e agglutinante, con la sua scrittura alfabetica derivata dal mongolo e quindi scritta in righe verticali, costituisce un mezzo molto più preciso
per rendere i nomi geografici di origine turco-mongola e tibetana, rispetto alla monosillabicità del
cinese e alla sua scrittura ideografica. Pare, però, ormai accertato che il Ripa avesse una conoscenza
limitatissima del mancese, sebbene ne conoscesse – inevitabilmente, dato l’ambiente in cui svolgeva la
sua opera – alcune tra le locuzioni più comuni. Si giustificano così i numerosi casi di errata trascrizione posti accanto a toponimi di tutt’altro significato, che dimostrano la sua ignoranza della scrittura
mancese e fanno ritenere probabile il ricorso a un «interprete». Sintomatica è a questo proposito la trascrizione di Julgei Hoton, le cui cinque occorrenze sono trascritte tutte in modo diverso: Ccjulcchei,
Ciolcche, Cjulchi, Cjulghe, Cjulghei. La definizione hoton («città») è quasi sempre omessa e nei rari casi
in cui Ripa la aggiunge al nome si presenta con numerose varianti: hotton, huotton, huot, hottõ, huottõ;
Arthur W. Hummel (ed.), Eminent Chinese of the Ch’ing Period (1644-1912), Washington 1943-1944, pp. 265-268 e 757-759.
D.P. Bolotin, A.P. Zabyjanko, T.A. Pan, S.E. Anichovskij, «Man’chzhurskij klin»: Istorija, narody, religii [«Il cuneo mancese»:
Storia, popoli, religioni], Blagoveshchensk 2005 (il lavoro traccia una recente storia di questi territori).
3
4
72
Giovanni Stary
particolarmente significativo è il caso di Sahaliyan ulai hoton («Città del Fiume Nero»), dove l’omissione di hoton trasforma il nome in un insensato genitivo «del fiume nero». La maggior parte dei toponimi mancesi è accompagnata dalla loro definizione (bira = fiume, alin = «monte», ga£an = villaggio,
ecc.), che però Ripa trascrive solo in pochissimi casi. Il suo sistema di trascrizione del mancese si avvicina molto a quello usato in quell’epoca dai gesuiti, ma viene ulteriormente modificato dal Ripa in base
alla pronuncia italiana – p. e. ga£an = cascjan, ecc. 5.
Romanizzazione attuale
Romanizzazione Ripa
Aidam Hoton
Eitan
Aidung Hoton
Aai tong
Aiha Hoton
Aiha
Aihûn Hoton
Aihun
Aizung Hoton
Ai tsun
Alcukû Hoton
Alcjuhu
An Hai
Gan hai
An Jeo
Ngan ceu
Ba Hoton
Pa huotton
Baidi Hoton
Paiti
Baikal Omo
Peiccal omò
Bangse Hoton
Pãgse
Baras Hoton
Paras
Barin
Parin
Per un’ulteriore analisi linguistica, v. Giovanni Stary, Manchu Toponomy in the Atlas of Matteo Ripa, in Michele Fatica,
Francesco D’Arelli (a c. di), La missione cattolica in Cina tra i secoli XVIII-XUX. Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi, (Collana
«M. Ripa», XVI), Napoli 1999, pp. 185-193.
5
73
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
74
Bedune Hoton
Petunè
Bi Dung Hoton
Pitung
Bi Hoton
Pihuot
Bidi Hoton
Piti
Biloohai Hoton
Pilohai
Bolhori Omo
Polhori
Boro Hoton [1]
Por hotton
Boro Hoton [2]
Poro hottõ
Buir Omo
Puer omo
Burgatu Hoton
Purhattu
Burim i Dakla Hoton
Purim i tala
Buru Hoton
Pur Hotton
Butha Uli Hoton
Putha uli
Cagan Hoton
Ccjahan
Cagan Subargan Hoton
Ccjahan suparhan
Cang Ceng Hoton [1]
Suo ceo [sic!]
Cang Ceng Hoton [2]
Ccjang ccing
Cang Jeo
Ljao [sic!]
Cehede Hoton
Ccehete
Ceng De
Ccingte
Cing Jeo
Tsing ceu
Ciowan Jeo
Cchjuen ceu
Ciyagar Hoton
Zziang ccar
Giovanni Stary
Ciyan Wei Hoton
Tsjen yuei
Col Hoton
Ccjol
Cuigiya Purang Hoton
Tsung chja ppuram [sic!]
Cumurdi Hoton
Cchumurti
Cusur Hoton
Ccjosur
Da ‹ui G’ao Hoton
Tascjuicao
Daba Tukza Hoton
Ta pa tucsah
Dakbu i Guru Namgiya Hoton
Tac pu i curù nam chjai
Dakbu Tong£ung Hoton
Tac pu ttong scjan
Dakbu i Lasui Hoton
Tappu i la sui
Dakbu i Na Hoton
Tac po i na
Dakbu i ‹ai Hoton
Tac po i scjài
Darzung Hoton
Tattsu~g
Decin Hoton
Tetsin
Di Gu El Hoton
Ticul
Dimu Hoton
Timu
Ding Jeo
Ting ceu
Dinggiya Hoton
Tingchja
Dongger Hoton
Tunggar
Dozung Hoton
To tsung
Dui Ma Doo
Pei ma tao [sic!]
Dung Ging Hoton
Tungchin
Dung Guwan Hoton
Ttu~g quan
75
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
76
Dungg’arzung Hoton
Tungcherzu~g
Eijeo Hoton
I cju
Fa Deng Hoton
Fateng
Fang ‹an Pu Hoton
Fang scjan ppu
Fang Tan Hoton
Fãgttan
Fe Funghûwang Ceng Hoton
Fo fu~ghuang ccing
Fe Ningguta Hoton
Fo ning guttà
Fujeo Hoton
Fu Ceu
Funghûwang Ceng Hoton
Fung huãgccing
Furdan Hoton
Furtan
Fu£en Hoton
Foscin
Gedergû Hûcin
Che dercgu
Geo El Ho Hoton
Ceul Huo
Gi Jao
Chi ceu
Gin Jeo Hoton
Chin Ceu
Ging Jeo
Cing ceu
Girin Ula i Hoton
Chirin ulà
Giya ‹an Hoton
Chja scjan
Giyamcan Hoton
Chjamcjam
Gu Fu
Cu fu
Guge i Wasi Lonboze Hoton
Chuche wasiè lumboze
Gung Jeo
Cung ceu
Gungbu Jamdan Hoton
Cumg pu Cjamta
Giovanni Stary
Gungbu Jumu Hoton
Cung pu cju mu
Gungbu i ‹og’e Hoton
Cung pu cjò che
Gungbu i Zablang’ang Hoton
Cungpu i zap la cang
Gungjoozung Hoton
Queicjiaotsun
Gûrban Subargan Hoton
Urban Suparahan
Guwang Jeo [1]
Quan ceu
Guwang Jeo [2]
Quan ceu
Guwang Ning Hoton
Quang ning
G’akbo i ‹urdung Hoton
Cac Po i scjur tung
G’ao Ling Hoton
Cauling
Hada Hoton
Hata
Hai Jeo
Hai ceu
Hai Jeo Hoton
Hai Ceu
Han Ma ‹an
Han ma scjan
Handu Hoton
Han tao
Hara Hoton
Hara huotton
Hei ‹an Doo
Hei scien tao
Hingga Dabkû
Hingga
Hiong Yoo Hoton
Hju~g jao
Hûi Ning Hoton
Huei ning
Hûng Jeo
Hung ceu
I Jeo Hoton
Iceu
Io Tun Wei Hoton
Jeo ttõg gwei
77
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
78
Jang Abing Hoton
Cjang a ping
Jang Giyei Hoton
Cjang chje
Jang Laze Hoton
Cjanglaze
Jasig’ang Hoton
Cja si cang
Jeku Hoton
Ceccu
Jen Wei
Cingue i
Jin Jeo
Tsin ceu
Jiowei Ing Doo
Chju ing tao
Jirung Hoton
Zirum
Jiyangze Hoton
Chjangtse
Julgei Hoton [1]
Ccjulcchei
Julgei Hoton [2]
Ciolcche
Julgei Hoton [3]
Cjulchi
Julgei Hoton [4]
Cjulghe [correz. di Cjalghe, cancellato]
Julgei Hoton [5]
Cjulghei
Jung Ceng Hoton
Jung ccing
Jung Ciyan ‹o Hoton
Cjung tsjien scjo
Jung Heo ‹o Hoton
Cjg heu sciò
Je Ho
Gehol
Jidi Hoton
Giti
Jig’anio Hoton
Gicanien [sic!]
Jig’ase Hoton
Gicose
Kara Hoton [1]
Ccara hottõ
Giovanni Stary
Kara Hoton [2]
Ccara huotton
Keyen Hoton
Cche’in
King Hing Hoton
Ccing hing
King Yuwan Fu
Gjuen fu [sic!]
Kuisun Tolohai
Quei scjun tto lo hai
Kulun Omo
Cculu omò
Kûtuktu Hoton
Ccutucttu
K’ai Cang Fu
Ccai cjang fu
K’ai Jeo Hoton
Cai Ceu
K’ai Yuwan Hoton
Ccai juen
K’aldan Punsuk Ling Hoton
Caltan ppon sucling
K’ardum Hoton
Ccarttung
Lan Gu Hoton
Lan cu
Langga Omo
Langhà
Ledang Miyoo
Letan miao ‘Tempio di Idoli’
Ling Jeo
Ling ceu
Lioi Giya Langza Hoton
Liu chjen lang tsa
Lioi Jeo
Liu ceu
Lioi ‹un Hoton
Liu scjuen
Li San Hoton
Lisan
Liyan ‹an Pu Hoton
Ljen scjan ppuo
Liyang Yung Hoton
Ljang jung
Liyoo Gu El
Liaocul
79
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
80
Liyoo Yang Hoton
Ljaojang
Lo Jeo
Luo ceu
Lonjoo Zung Hoton
Lungceu tsung ho
Man Pu Hoton
Manppu
Mapam Dalai Omo
Mappamtala
Meng Ciyan Jen Hoton
Mung tsjen ccing
Mergen Hoton
Merghen
Mila Miyoo
Mila miao ‘Tempio di Idoli’
Modon Hoton
Motuon
Mom Zok Hoton
Mom zoc
Momba Moma i Aiman i Jecen
‘Confini della terra detta’ mongpa
momai aiman ni
Momba Zomlang ni Aiman Jecen
‘Confini della Terra chjamata’
Soms(g)lang aiman Cjeccin [(g) can
cellato]
Momba i G’adi Aiman i Jecen
‘Confini detti’ mompa i cati aiman ni
Cjeccin
Moo ‹an Hoton
Mao scjan
Mu Cang Hoton
Muccjang
Mudun Furdan Hoton
Mutuen Furtã
Mukden Hoton
Mugden
Nan Doo Fu
Nan too fu
Ni Doo
Ni tao
Giacomo Di Fiore • Michele Fatica
Nibcu Hoton
Nipcju
Ning Yuwan Jeo Hoton
Iting juen ceu [sic!]
Ningguta Hoton
Ningutta
Nio Juwang Hoton
Njeu cjuang
Niyalma Hoton
Nialma
Noyan Hoton
Nuojen
Odeng Hoton
Otang
Odoli Hoton
Otoli
Ohe Dakza Hoton
Oche tacsà
Pangdu Hoton
Pangtu
Parizung Hoton
Pparitsum
Pilentu Ga£an
Ppilentu cascian
Ping ‹an Ing
Pping scjan ing
Puho Hoton
Pouhuo
Rudo Hoton
Rutò
Sahaliyan Ulai Hoton
Sahalien ulai
Sangga Congzung Hoton
Sanga ccjung sung
Sangri Hoton
Sangri
Sarhû Hoton [1]
Sarhu
Sarhû Hoton [2]
Sarhu
Sengge Hoton
Sengnge
Si ‹ui Lo Hoton
Si scjui lo
Sing Jeo
Sin ceu
81
Vita di relazione e vita quotidiana nel Collegio dei Cinesi
82
Sio Yan Hoton
Sjeu jen
Sira Mûren Susai Boo Giyamun
Siram morin susè po chjamen
Siye ‹an Hoton
Sje scjan
Siyoo Gioi Lio Hoton
Sjao chju ljeu
Siyoo Nung Hoton
Sjaonu~c
Siyoo Pi Hoton
Sjaoppi
Siyun Jen Hoton
Hju cin
Sok Hoton
Soch
Surmang Hoton
Surmang
‹a Heo ‹o Hoton
Scjaheoscio
‹a Ho Hoton
Scja huo
‹a Jeo
Scja Ceu
‹an Jang Hûi Hoton
Scjãjãhuei
‹ang Namring Hoton
Scjangnamring
‹i Ho I Hoton
Sci Ho I
‹o Jeo
Scjue ceu
‹owang ‹o Pu Hoton
Scjaãg scjuo ppuo
‹ubando Hoton
Scju pan tuo
Tang San Hoton
Ttãgsan
Tangg’arzung Hoton
Ttangcherzung
Teldeni Hoton
Ttelteni
Tenggiri Omo
Ttengherì omò
Tiye Ling Hoton
Ttje ling
Giovanni Stary
Tung Fu
Ttu~g fu
Ulan Hoton
Ulan
Urumci Hoton
Urumtsi
Uyuk Lingke Hoton
Uiuc lin cche
Wargi Solho Hoton
Varghi Scjol
Wehe Hoton
Woho
Wei Yuwan
Guei juen
Wen Ceng Hoton
Wenccing
Yaksa Hoton
Jacsà
Yang Jeo
Jang ceu
Yehe Hoton [1]
Jeho huottõ
Yehe Hoton [2]
Jeho
Yenden Hoton
Inten
Yengge Hoton
Ingo
Yerkim Aiman i Jecen
‘Confini del Regno detto’ Jerchim
Yerku Hoton
Irccu
Yoo Jeo Hoton
Cjao Ceo
Yung Da Hoton
Ju~g ta
Yung Deng
Jungteng
Yung Ning Fu
Jung ning ceu fu
Yung Ning Giyan Hoton
Jung ning chjen
Za Zorgang Hoton
Za Zor chen
Zebrung Hoton
Zapirung
83
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
Due esempi
Specimen 1, dal meridiano 0 (Pechino) fino al meridiano est (dong 東) 14 / paralleli 50-54, corso superiore del fiume Sahaliyan Ula («Fiume nero», in cinese «Fiume del drago nero» Heilongjiang 黑龍江, l’Amur).
Al centro del foglio risalta la
parola «Jacsà», con ogni probabilità di
mano dello stesso Ripa, cioè la trascrizione del mancese Yaksa (hoton) =
«Città di Yaksa» [yaksa = insenatura di
un fiume]; per i Russi questo era l’insediamento fortificato di «Albazin», il
cui nome è derivato dal capo tribale
indigeno Albaza. L’insediamento fu
assediato due volte dalle truppe mancesi nel 1685 e nel 1686 e fu quindi
raso al suolo dopo la vittoria mancese.
Risalendo il fiume si nota (tra i
meridiani est 1-2) una figura con accanto la parola bei = stele»: si tratta di una delle tante steli, oggi
scomparse, erette per marcare la frontiera russo-mancese. L’unica testimonianza visiva giunta fino ai
giorni nostri è un disegno pubblicato nel 1826 da J. Klaproth6 , che reca l’iscrizione mancese jecen-i ba
= «posto di frontiera».
A sinistra della stele troviamo l’indicazione Amba Gerbici bira («Grande fiume Gerbici»), cioè il
fiume Gorbica menzionato nel primo articolo del trattato di Ner™insk come punto d’inizio della frontiera («...rivulus nomine Kerbici...»). Un’identificazione diversa è possibile in base al cosiddetto «Atlante
di Qianlong» (Qingdai yitong ditu, 清代一統地圖) dove tutti i toponimi sono in cinese) del 1760, dove
la stessa stele viene definita eerdeng’e wohe 額爾登額倭赫 – trascrizione cinese del mancese eldengge
wehe «pietra [stele] splendente [gloriosa]»7. Potrebbe quindi trattarsi di una delle steli che recavano incise il trattato di Ner™insk in tre lingue, come era previsto dal paragrafo finale del trattato: «Demun et iuxta
hoc idem exemplar eaedem conditiones Sinico Ruthenico et latino idiomate lapidibus incidentur, qui lapides in utriusque Imperii limitibus in perpetuum ac aeternum monumentum erigentur»8.
Jules Klaproth, Mémoires relatifs à l’Asie, I, Paris 1826, tra le pp. 25-26.
Ristampa Taipei 1966, p. 64.
8
Per la storia dei primi rapporti russo-cinesi e il trattato di Ner™insk, v. Giovanni Stary, I primi rapporti tra Russia e Cina,
Napoli 1974.
6
7
84
Giovanni Stary
Se invece – sempre partendo da «Jagsà» – si scende lungo il fiume, si nota un’ampia ansa definita
in mancese Ulusu Mudan – letteralmente «ansa completa». Più a sud, al bordo del foglio, si osserva la
trascrizione «Aihun» (in mancese Aihûn Hoton – «Città di Aihûn») e a sinistra «Sahalien ulai» – in
mancese Sahaliyan Ulai Hoton («Città del Fiume Nero»), le attuali città di Blagove£™ensk e Heihe 黑河.
Tutte le altre iscrizioni sono nomi di fiumi, le cui definizioni bira (fiume»), birgan («fiume minore») o
ula («grande fiume») sono aggiunte a ogni idronimo – con le seguenti eccezioni:
– nel rettangolo delimitato dai meridiani est 13-14 e paralleli 54-53, è indicato il lago (omo)
«Engguri omo»;
– sul meridiano est 9 (paralleli 53-52) e nell’angolo formato dal meridiano est 10 / parallelo 52
sono indicati i picchi (hada) Cahayan Hada e Doose hada;
– sul bordo del parallelo 50, tra i meridiani est 7-9, e nel rettangolo delimitato dai paralleli 51-52
/ meridiani 5-6, sono indicati i monti (alin) Gelbur alin e Ilhûri alin.
– Immediatamente sotto il monte Ilhûri è indicata la sorgente (sekiyen) del fiume Non, il fiume
Nonni o Naun dei documenti occidentali (Non sekiyen).
Specimen 2: meridiani est 12-22, paralleli 45-40 che corrisponde alla zona di Vladivostok.
Il foglio è dominato dal lago Hingga dabkû, correttamente trascritto dal Ripa con «Hingga Lago»,
oggi diviso in due dalla frontiera russo-cinese. Il nome russo è Chanka (Xanka), quello cinese Xingkai
興凱. Situata ad est del territorio d’origine della dinastia mancese, la zona risulta cartografata in modo
molto dettagliato e numerose sono anche le trascrizioni dei toponimi aggiunte dal Ripa. L’intero foglio
contiene circa 250 toponimi e idronimi, tra i quali notiamo l’indicazione di
«guadi» (dohon), di «stazioni postali»
(giyamun), di «fiumi» (bira), di
«monti» (alin), di «picchi» (hada), di
«acque» (muke), di «sorgenti»
(sekiyen), di «fonti» (£eri), di «villaggi»
(ga£an), di «città» (hoton), di «gole»
(holo), di «fiumi minori» (birgan), di
«foci» (angga), di «catene montuose»
(dabagan), di «foreste» (weji). Di particolare interesse è la posizione di Odoli
hoton (nella trascrizione di Ripa:
Otoli), tra il 44° e 43° parallelo, a sini-
85
Sulla toponomastica mancese dell’atlante di Matteo Ripa
stra del 12° meridiano: si tratterebbe – il condizionale è obbligatorio – della residenza dei primi antenati della casa imperiale, di cui si parla nel ben noto mito sull’origine del clan Aisin Gioro9.
Giovanni Stary, L’origine della dinastia imperiale mancese: realtà e leggenda di un mito, in Istituto Universitario Orientale,
«Annali», XXXI (n. s. XXI), 1971, pp. 263-275.
9
86
Parte 5:Catalogo
4-07-2013
14:09
Pagina 87
Ricercato numero uno: la vita avventurosa tra Europa ed Asia
di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi*
EUGENIO MENEGON
Department of History
Boston University, USA
I. Ordine imperiale di cattura contro Cai Bo-duo-lu
Il 30 aprile del 1785, l’uomo più potente della terra, l’imperatore Qianlong 乾隆 della dinastia
Qing 清 (regno 1735-96), assieme ai fidati ministri del Gran Consiglio, inviò un editto alle autorità
provinciali dell’impero cinese. Dall’autunno dell’anno precedente era in corso una campagna governativa contro la Chiesa cattolica in Cina, una organizzazione clandestina proibita per decreto imperiale
fin dal 1724, e, malgrado rilevanti successi nell’arresto di preti stranieri e di cattolici cinesi, alcuni dei
criminali ricercati dalla giustizia rimanevano latitanti. In particolare, il ricercato numero uno, Cai Boduo-lu 蔡伯多祿, era ancora uccel di bosco:
此案西洋人赴各省傳教。業經據該督撫陸續獲犯解京。審明定擬完結。其在逃之蔡
伯多祿。最為要犯。至今尚未就獲。該犯係赴粵起意接引伴送之人。前屢降旨令各
督撫嚴密查拏。迄今半載有餘。乃本案已經辦竣。而要犯轉致潛逃。可見辦理全不
認真。
* Ringrazio per il supporto finanziario ricevuto in questa ricerca l’Università di Napoli “L’Orientale” (UNO) e la Boston
University. In particolare, sono grato al Prof. Rodolfo Fattovich e ai suoi collaboratori Dr. Andrea Manzo e Dr.ssa Cinzia
Perlingieri (UNO), al Sig. Luigi Cuozzo (UNO-CISA), e al Dr. Ben DeWinter e alla Sig. Roberta Turri (Boston University,
Office for International Programs), per aver facilitato la mia permanenza a Napoli nel quadro dello scambio tra L’Orientale e
la Boston University. Il Prof. Michele Fatica, curatore dell’Archivio UNO, è stato un ospite di grande gentilezza e sostegno
morale e materiale, sia a Napoli che a Roma. Un ringraziamento pure al personale dell’«Academia Belgica» di Roma, al Prof.
Nicolas Standaert e al Dr. Ad. Dudink (Katholieke Universiteit Leuven), al personale dell’Archivio della Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli a Roma (in particolar modo alla Dr.ssa Raffaella Tibalducci), e al p. Pedro Gil OFM, archivista
della Curia Generalizia dell’Ordine dei Frati Minori a Roma, per l’ospitalità e l’aiuto prezioso prestatimi.
SIGLE: ACGOFM Archivio della Curia Generalizia dell’Ordine dei Frati Minori, Roma, MH: Missione di Hankou.
APF: Archivio della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, o “De Propaganda Fide”, Roma.
AUNO: Archivio dell’Università di Napoli “L’Orientale”.
SC: Scritture riferite nei Congressi (sezione in APF).
SOCP: Scritture originali della Congregazione Particolare della Cina e delle Indie Orientali (sezione in APF).
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Ricercato numero uno: la vita avventurosa tra Europa ed Asia
di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
Gli occidentali coinvolti in questo caso, che sono penetrati nelle provincie per propagare la loro religione, sono stati tutti arrestati dai governatori-generali e governatori, e mandati a Pechino. Sono
stati processati e condannati, e il loro caso è concluso. Ma il fuggitivo Cai Bo-duo-lu, il più importante criminale, non è ancora stato catturato. Questo è l’uomo che andò in Guangdong ed ebbe l’idea
di invitare e scortare [alcuni occidentali all’interno del paese]. Abbiamo inviato ripetutamente
decreti ai governatori-generali e governatori, e ordinato che si impegnassero con zelo nella cattura
di quest’uomo, ma sono passati più di sei mesi, e mentre il caso è chiuso, si è permessa la fuga di quest’importante criminale. Questo prova che la faccenda è stata trattata con negligenza1.
Il decreto continuava con una non tanto velata minaccia contro i funzionari preposti nelle province di Guangdong, Fujian ed Huguang: «In caso [i funzionari] pensino che questo sia un ordine d’arresto generico e formale a causa dei ritardi accumulatisi nel caso, la loro condotta verrà giudicata come
volontaria negligenza, e saranno imputati d’incapacità»2. In altre parole, l’imperatore prometteva
severe punizioni qualora il fuggitivo non fosse stato celermente assicurato alla giustizia. In risposta al
decreto, sembra che in Guangdong i funzionari locali abbiano posto una taglia di tremila taels d’argento sulla testa di Cai, più tardi portati a quattromila. Ma questo era solo l’ultimo atto di una caccia
all’uomo che si protraeva da mesi, e che aveva visto coinvolti i governatori di parecchie province, creato
un caso diplomatico con i Portoghesi di Macao e con gli altri mercanti stranieri a Canton, e procurato
grandi perdite finanziarie ai mercanti cinesi di Canton.
II. Chi era Pietro Zai (alias Cai Ruoxiang 蔡若祥)
Ma chi era Cai Bo-duo-lu? Bo-duo-lu è la fonetizzazione cinese del portoghese e spagnolo Pedro,
le due lingue allora più usate nella missione, e corrisponde al latino Petrus, all’italiano Pietro. Dunque,
questo era il nome battesimale del fuggitivo, il prete cinese conosciuto nelle fonti occidentali come
Pietro/Pedro/Petrus Zai (anche Chay, Z’ai, o Zay). Cai Ruoxiang 蔡若祥 (anche 蔡如祥; nome di cortesia Minggao 鳴臯, 1739-1806) – il suo nome alla nascita – aveva vissuto e studiato nel Collegio dei
Cinesi di Napoli dal 1761 al 1767, e la sua vita rappresenta un interessante compendio delle opportu-
Bernward Willeke, Imperial government and Catholic missions in China during the years 1784-1785, New York 1948, pp. 133134, traduzione dal «清高宗實綠 Qing Gaozong shilu», juan 1227, p. 8a.
2
Ibidem, p. 134, v. «Qing Gaozong shilu», juan 1227, p. 8b:
若以案延日久。
漸視為海捕具文。
1
則是該督撫等有心
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疎玩。恐不能當其咎也。
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nità e dei rischi che l’educazione nel Collegio offriva ai propri alunni. Non era il primo della sua famiglia ad intraprendere il lungo viaggio dalla nativa Cina a Napoli: suo fratello maggiore Paolo (Cai
Wenan 蔡文安, 1720-1782), infatti, aveva completato gli studi al Collegio già nel 1750 circa, dopo quasi
undici anni nella città partenopea3.
Pietro Maria Cai Ruoxiang era nato nel giugno del 1739 nella contea di Longqi 龍溪, nella provincia meridionale del Fujian 福建, quando il cattolicesimo era già una setta fuorilegge. Veniva da una
famiglia che si era convertita da tempo, probabilmente agli inizi del periodo Qing. La contea di Longqi
si trovava ai confini dell’antica prefettura e attuale città di Zhangzhou, non lontano da Xiamen
(Amoy), e Zhangzhou 漳州 era una antica missione dei gesuiti fin dal tardo periodo Ming (prima
metà del Seicento), affidata in seguito ai domenicani spagnoli e poi parte del vicariato apostolico del
Fujian verso la fine del Seicento. Per certo, sappiamo che i genitori di Pietro, Giovan Battista Cai e
Maria Siu (Xu?), erano cattolici. Pietro fu battezzato nel 1742 «nella terra di Lintung [Lingdong 嶺東]
della città di Lunghi hien [Longqi xian 縣, i.e. contea]» dal prete cinese Mattia Fu di Xinghua (Fujian),
sacerdote secolare educato dai missionari delle Missions Étrangères de Paris nel loro seminario in
Siam4.
Suo fratello Paolo Cai era stato inviato a Napoli dal vicario apostolico Pedro Sanz OP (16801747), ed è assai probabile che anche Pietro vi giungesse all’età di 21 anni circa per simili ordini del vicario di allora, Francisco Pallas OP5. Pietro arrivò a Napoli il 19 maggio del 1761, e fece la vestizione al
Collegio il 26 luglio dello stesso anno. Il 26 marzo 1762 fu confermato nella chiesa del Collegio da monsignor Niccolò Borgia, allora vescovo di Cava, e dopo aver pronunciato i voti il 3 febbraio del 1765,
Anche se la differenza in età tra i due (19 anni) sembra notevole, il Libro della recezione de Collegiali e una lettera del procuratore di Propaganda Fide, Emiliano Palladini (1737-1793) conferma la parentela: v. Liber collegialum et aggregatorum. Libro
della recezione de Collegiali alla prima pruova. 1717-1887, in ACGOFM, MH 23-4, f. 8r: «il Collegiale Pietro Zai, fratello germano del nostro missionario Apostolico Paolo Zai»; e Risposta alla memoria del Sig. Proc. della Congr. di P.F. in data 29 gen.
1771, Macao, 30 gennaio 1772, APF, SOCP, vol. 59, 1773, f. 21r, dove viene citata una lettera di Paolo Cai dall’Huguang dell’agosto 1771, nella quale quest’ultimo si riprometteva «d’istruire pratticamente suo fratello D. Pietro nel ministero
Apostolico». Sul Palladini v. Francesco D’Arelli, Adolfo Tamburello (a c. di), La missione cattolica in Cina tra i secoli XVII e
XVIII; Emiliano Palladini (1737-1793) congregato della Sacra Famiglia, procuratore della Sacra Congregazione de Propaganda
Fide a Macao. Atti del Convegno: Lauria, 8-9 ottobre 1993, Napoli 1995.
4
Ringrazio il Dr. Zhang Xianqing 張先清 (Istituto di Antropologia, Università di Xiamen, Cina) per aver confermato l’esistenza del villaggio di Lindong, ancor oggi popolato dal lignaggio della famiglia Cai. La comunità locale conta attualmente
circa 300 cattolici.
5
Lettera del 1743 da Sanz a Paolo Cai (ricevuta a Napoli nel 1745), citata in José Maria González, Misiones dominicanas en
China (1700-1750), vol. 2, Madrid 1958, pp. 80-81.
3
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di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
ricevette la tonsura e gli ordini minori il 21 aprile 1765 nella stessa chiesa dalle mani del Borgia, divenuto vescovo d’Aversa6. Venne ordinato prete nel 1767, e apprendiamo che in quello stesso anno, domenica 10 maggio, assieme a tre compagni, Pietro venne esaminato a Roma con ottimi risultati da una commissione d’esame presieduta dal papa in persona, Clemente XIII, e formata dal prefetto di Propaganda
Cardinal Giuseppe Maria Castelli, dal segretario della Congregazione Mario Marefoschi, da alcuni
esaminatori esterni, e da Gennaro Fatigati e Giuseppe Jaccarino del Collegio di Napoli. Leggiamo in
una nota scritta poco dopo che «… D. Pietro Zai d’anni 28. Della Provincia Fochien [Fujian] della città
di Ciancu [Zhangzhou 漳州] da 7 anni in Collegio, già Missionario Apostolico esaminato, approvato,
e spedito con Patente della Sac. Congr.ne di Propaganda Fide per la Cina» era sul piede di partenza per
la missione7.
Negli anni di formazione al Collegio, oltre a ricevere educazione teologica e filosofica, Pietro
dovette studiare il latino, mantenere il suo cinese, e apprendere della questione dei riti e della posizione
[Giuseppe Maria Kuo, alias Guo Dongchen 郭棟臣], Elenchus alumnorum, decreta et documenta, quae spectant ad Collegium
Sacrae Familiae Neapolis, Chang-hai [Shanghai] 1917, pp. 2-3; e il Liber collegialum et aggregatorum …, f. 8r, nota di Michele
Galdo, Congregato e Segretario: «Nel suddetto dì, mese, ed anno [19 maggio 1761] giunse ancora il Collegiale Pietro Zai, fratello germano del nostro missionario Apostolico Paolo Zai, nato da Gio. Batta, e da Maria Siu cattolici, nel mese di giugno
dell’anno 1739. Fu battezzato nella terra di Lintung della città di Lunghi hien della provincia Fuchien dal missionario Sig. D.
Mattia Fù nell’anno 1742. Non ancora è stato confermato, siccome da lettera del nostro Missionario D. Pio Maggiore Lieu, ed
in detto dì, mese ed anno fu ammesso nel nostro Collegio con l’altri Collegiali. Di più fò fede che a 26 luglio 1761 fu vestito
degl’abiti soliti darsi agl’altri Collegiali. Il 26 marzo 1762 il suddetto Collegiale nella nostra chiesa fu confermato dall’Ill.mo
Mgr. Borgia Vescovo di Cava, suo Padrino D. Giacomo Letizia. Il 21 Aprile 1765 nella nostra chiesa dal detto Ill.mo Mgr.
Borgia Vescovo d’Aversa è stato ordinato di prima tonsura ed ordini minori».
7
Sul suo esame, vedi APF, SC, Registro dell’esame de Missionarj, vol. III, 1757-1809, ff. 26r-v: «Die dominico 10 Maij Anni 1767/
Examinati fuerunt coram SS.mo D. N.ro et E.mo ac R.mo Card.li Castelli Praefecto nec non R. P. D. Mario Marefusco Sec.rio,
a RR.PP. Fran.co Dugnani, Cerboni, Fran.co a Caprarola, Leoni, et a RR. PP. Januario Fatigati et Josepho Jaccarino examinatoribus/ In.pti Alumni Collegij S.ae Familiae Neapolis pro missionibus in imperio Sinarum: D. Franciscus Zen Provinciae Xensi
Annorum 28 et Coll. 13, qui se gessit optime; D. Emmanuel Ma Provinciae Cantonensis Annorum 26 et Coll.13, qui se gessit
optime; D. Petrus Zai Provinciae Fochien Annorum 27 et Coll. 7, qui se gessit optime; P. Barnaba Xang, Provinciae Huguam,
Annorum 26 et Coll. 7, qui se gessit optime». Sfortunatamente in APF non vi è traccia del verbale completo dell’esame.
Ringrazio Michele Fatica per questo riferimento. Per la nota in italiano, v. Nota degli Alunni attualmente esistenti nel Collegio
della Sacra Famiglia di Napoli, 1767, in APF, SC, Collegi Vari, Collegio dei Cinesi della Sagra Famiglia in Napoli, vol. 10, f. 67r.
8
Ne fa fede uno zibaldone formatosi nel tempo con note manoscritte di diversi collegiali, di Paolo Zai in particolare, dove troviamo documenti sulla questione dei riti, liste di vocaboli latini con traduzioni cinesi e note di grammatica latina : v. ACGOFM,
MH, 19-2 Miscellanea, nota a fronte: 1743. Ad usum Pauli Zai Fukiensis. Il manoscritto contiene: De quaestione Rituum, (pp.
415-485); Linguistica (pp. 1-297); Praedicabilia (pp. 299-355); Historia (Matteo Ripa; pp. 467-480). Sulla formazione dei collegiali, v. Francesco D’Arelli, I cinesi del Collegio della Sacra Famiglia di Gesù Cristo di Napoli: dal Ritus vestiendi alla partenza per
le missioni di Cina, in Michele Fatica, Francesco D’Arelli (a c. di), La missione cattolica in Cina tra i secoli XVIII-XIX . Matteo
Ripa e il Collegio dei Cinesi. Atti del Colloquio Internazionale di Napoli, 11-12 febbraio 1997, Napoli 1999, pp. 195-266.
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ortodossa da tenere in Cina attraverso gli scritti raccolti dal fondatore Matteo Ripa8. Tutto questo era
in preparazione al suo viaggio e missione in Cina, i cui eventi sono riflessi nel buon numero di lettere
di Pietro conservate negli archivi.
III. Le lettere di Pietro Cai
Le lettere sono tutte scritte in latino, e coprono il periodo tra la sua partenza da Napoli nel 1767 e
l’ultima fase della sua vita (dal 1785 al 1804), quando assunse il nuovo nome di Giovanni Maria Ly per
evitare ulteriori problemi con la giustizia imperiale. Esse attendono di essere studiate in dettaglio.
Nell’archivio storico dell’Università di Napoli “L’Orientale”, alla busta no. 15, troviamo ventisei lettere
del nostro, scritte ai superiori del collegio napoletano tra il 1767 e il 1803, tre anni prima della morte.
Tra le carte della Procura di Canton-Macao-Hong Kong negli archivi di Propaganda a Roma si conservano altre venticinque lettere a nome di Pietro Cai, e nove a nome di Giovanni Maria Ly, indirizzate da
diversi luoghi ai procuratori della missione propagandista in Cina. Alcuni altri suoi rapporti originali
si rinvengono pure nella corrispondenza ordinaria di Propaganda (per esempio nella serie delle
Scritture Originali della Congregazione Particolare delle Indie Orientali e Cina). Nell’Archivio della Curia
Generalizia dell’Ordine dei Frati Minori a Roma, infine, si conservano cinque copie ottocentesche di
sue lettere (codice Missioni, no. 53), e probabilmente vi sono altre sue lettere sparse in archivi ecclesiastici e governativi. L’unica lettera in lingua cinese di Pietro Cai che ho potuto rintracciare (probabilmente una copia clericale di un originale), catturata dalla polizia imperiale durante la campagna anticristiana del 1784-85, si conserva negli archivi della Città Proibita a Pechino (Archivio Storico Numero
Uno della Cina, Zhongguo diyi lishi dang’anguan 中國第一歷史檔案館), ed è stata pubblicata di
recente9. Una lettura attenta di questo piccolo corpus fornirebbe senza dubbio dettagli sulla vita quotidiana delle missioni, e sulle difficoltà finanziarie in cui si dibattevano continuamente i missionari nativi
propagandisti. Qui mi limiterò ad utilizzarle per ricostruire i movimenti di Pietro Cai nel corso dei suoi
anni di peregrinazioni tra Europa ed Asia.
La prima lettera di Pietro al superiore del Collegio risale al settembre 1767, da Madrid, dove si sta
preparando al viaggio transatlantico attraverso il porto di Cadice con destinazione le Filippine. Un’altra
9
中國第一歷史檔案館 Zhongguo di yi lishi dang’anguan (a c. di), 清中前期西洋天主教在華活動檔案史料 Qing zhong
qianqi Xiyang Tianzhujiao zai Hua huodong dang’an shiliao, vol. 1, Beijing 2003, p. 357, doc. 270, lettera di Pietro Cai, con
istruzioni ad un destinatario sconosciuto riguardanti il viaggio da lui compiuto con alcuni missionari stranieri per incarico
del procuratore di Propaganda nel 1784; v. Bernward Willeke, Imperial government …, cit., p. 51. Questa collezione contiene
numerosi memoriali connessi al nostro Pietro Cai.
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Ricercato numero uno: la vita avventurosa tra Europa ed Asia
di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
lettera di inizio dicembre rivela che si trova ancora a Madrid. La lettera seguente è di due anni dopo,
da Macao, e riferisce di spese di viaggio e di debiti incorsi durante una sosta del viaggio a Batavia, la
città coloniale olandese nell’isola di Giava, corrispondente all’attuale Djiakarta in Indonesia. Altre sue
lettere contemporanee menzionano il passaggio da Manila, dopo un penoso viaggio di 18 mesi dalla
Spagna, e l’arrivo a Macao nell’ottobre 176910.
A differenza dei tre compagni di viaggio collegiali napoletani, che si recano nella missione
dell’Huguang 湖廣 (antica provincia formata dalle odierne provincie centrali di Hubei 湖北 e
Hunan 湖南), Pietro riceve l’ordine di recarsi subito nel nativo Fujian per sbrigare un’incombenza
delicata per Propaganda nella regione di Fuan 福安, al nord della stessa provioncia, sede dell’antica
missione dei domenicani di Manila e del locale vicariato apostolico. Secondo un rapporto del procuratore di Propaganda a Macao, Emiliano Palladini, Pietro lascia la colonia lusitana il 12 ottobre 1769 per
il Fujian, da cui rientrerà solo un anno più tardi, il 18 ottobre 177011.
Durante quell’anno di permanenza, oltre a visitare la famiglia nella parte meridionale della provincia, egli deve occuparsi di una faccenda poco piacevole nella piccola comunità di frati domenicani
spagnoli e cinesi di Fuan. Nel 1753, come consuetudine un nuovo vicario apostolico è stato nominato
da Roma tra i membri della provincia dominicana di Nostra Signora del Santissimo Rosario delle
Filippine nella persona di Francisco Pallas OP (1706-1778). Professore di diritto canonico al Collegio
di Santo Tomás di Manila, Pallas ha raggiunto la missione cinese nel 1757, già cinquantenne, troppo
avanti negli anni per apprendere bene la lingua locale. Uomo rigido e legalista, senza alcuna esperienza
di Cina, Pallas crea negli anni seguenti grande subbuglio nel vicariato12. Le sue dure posizioni in materia di riti, usura e assegnazione al ministero pastorale, portano ad un vero e proprio «scisma» tra un
gruppo di missionari spagnoli di lunga esperienza e domenicani cinesi nativi del Fujian da un parte, e
il vicario e alcuni nuovi arrivati dall’altra. La popolazione cristiana locale per lo più si schiera dalla
parte degli scismatici. A complicare le cose intervengono scandali sessuali: Pallas e i suoi collaboratori
apprendono in confessione da donne locali che alcuni degli scismatici hanno abusato di loro, commettendo il reato di sollicitatio ad turpia. In questa guerra di veleni e interrogatori segreti, accuse di simile
Lettere di Cai al superiore del Collegio dei Cinesi del 9 settembre 1767 (Madrid), 1 dicembre 1767 (Madrid) e 8 ottobre 1769
(Macao), in AUNO, busta 15, inc. 7.
11
APF, SOCP, vol. 57, 1771, ff. 102r-112r, rapporto di Emiliano Palladini, Macao, 31 ottobre 1770, f. 104v: «D. Pietro Zai a’ 12
di ottobre dell’anno passato [1769] partì di qui per andare a sua casa, e non è ritornato che a 18 del presente ottobre [1770];
onde partirà per Houguan [Huguang] in compagnia del sig. Zen».
12
Biografie piuttosto agiografiche di Pallas in José Maria González, Historia de las misiones dominicanas de China, Madrid
1967, pp. 541-551; Hilario Ocio, Eladio Neira (a c. di), Misioneros dominicos en el Extremo Oriente, vol. 1, Manila 2000, pp.
321-322.
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natura contro il vicario apostolico stesso vengono ben presto lanciate dagli scismatici, e perfino da parti
neutrali, e non tardano a raggiungere Roma. Nel 1770, un voluminoso carteggio si è già accumulato
negli archivi di Propaganda, con libelli e lettere delle due parti, incluse petizioni in cinese firmate da
centinaia di cristiani locali in difesa dei loro pastori.
Pietro Cai raggiunge il 9 febbrario 1770 il villaggio di Muyang 穆陽, nella contea di Fuan, e nella
casa del cristiano Raymundo Fung [= Feng 馮] Ngi, legge al domenicano cinese Pedro Ngien [= Yan
嚴] una lettera del maestro generale dell’Ordine, Juan Thomas de Boxadors OP (generalato 17561777), datata 27 ottobre 1768, nella quale il superiore ordina al missionario scismatico di recarsi immediatamente a Manila in attesa di istruzioni13. Yan si oppone all’ordine, rilevando che i cristiani locali non
lo avrebbero mai lasciato partire, e che probabilmente i suoi memoriali a Roma sono stati ignorati. Più
tardi, Cai trasmette la lettera del maestro generale ad un altro scismatico, Pedro Meu [= Miao 繆] de
Santa Rosa OP (?-1797)14.
Conclusa la sua ambasceria, Cai rientra a Macao, e di lì si reca alla missione assegnatagli
nell’Huguang, dove suo fratello Paolo lo attende. Le lettere del procuratore Emiliano Palladini fanno
spesso riferimento al comportamento problematico di Paolo. Scontento di vivere in una zona povera e
montagnosa della Cina, con pochi «rozzi» cristiani che parlano altro dialetto, e lontano dal suo nativo
Fujian, Paolo richiede costantemente di poter essere trasferito nella sua «patria». Palladini, invece, lo
vuole mandare nelle missioni dello Shaanxi e Shanxi, promettendo in cambio di inviare «annue pezze
15 di soccorso caritativo» alla sua famiglia15. Pietro sembra essere un più docile soggetto. Da una lettera
del 1771, apprendiamo che è allora con Paolo, che si occupa «d’istruire pratticamente suo fratello D.
13
Pedro Yan (Nien o Ngien) de Santo Domingo (1728-1797), proveniva da una antica famiglia cattolica della regione di
Zhangzhou, era figlio del martire cristiano Antonio Yan Dengguan 嚴登觀
(?-1764), e discendente del famoso convertito Yan Mo 嚴謨 del tardo periodo Ming. Pedro si recò a studiare nel Collegio di San Juan de Letrán a Manila nel 1737, e
professò come domenicano nel convento di Santo Domingo della stessa città nel 1744. A causa di una dura repressione governativa della missione del Fujian in quegli anni, rientrò in Cina attraverso Macao solo nel 1753, assieme ad alcuni confratelli.
Nel corso del 1754 si recò alla missione assegnatagli a Gu-ting-chieng (?) e più tardi fu nella missione di Fuan, v. José Maria
González, Historia de las misiones …, cit., pp. 298, 423-24, 434.
14
APF, SOCP, vol. 57, 1771, ff. 90r-v, lettera di Pietro Cai a Emiliano Palladini, Macao, 27 novembre 1770. Pedro Miao (Meu)
de Santa Rosa raggiunse la missione di Fuan nel corso del 1759. Il vicario Pallas lo definì immediatamente uomo di «poche
abilità e talento»; v. José Maria González, Historia de las misiones …, cit., vol. , p. 427, nota 33.
15
APF, SOCP, vol. 59, 1773, Emiliano Palladini, Memoria pel Sig. D. Francesco Zen, Macao, 29 gennaio 1771, f. 19r.
16
APF, SOCP, vol. 59, 1773, Emiliano Palladini, Risposta alla memoria del sig. Proc. della Congr. di P.F. in data 29 gen. 1771,
Macao, 30 gennaio 1772, f. 21r: «D. Paolo Zai con sua del mese d’Agosto 1771 mi scrisse, che motivo d’istruire pratticamente
suo fratello D. Pietro nel ministero Apostolico, differirebbe per ora l’andata alla sua patria: e che quando averà dato sesto alle
necessità domestiche, ritornarebbe a Huquang. Devesi però avertire che D. Simone Ciao mi disse, essersi ad esso alterata
alquanto la fantasia, per cui spesse volte fà delle stravaganze; onde sembrar meglio farlo restare in sua casa».
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di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
Pietro nel ministero Apostolico»16.
La prima lettera diretta ai superiori napoletani dalla residenza missionaria dell’Huguang, divenuta
la sua base di operazioni, è del 1777. In quegli anni, Pietro si dedica alla cura dei pochi cristiani della
zona, in una situazione economica sempre precaria, dipendente dagli scarsi fondi inviati dai procuratori di Macao. Nel 1781, Pietro osserva che «la missione assegnatami gode di uno stato di pace» («missio mihi signata gaudet statu pacis») anche se apostati «antichi e moderni» disturbano di tanto in tanto
i cristiani locali, come vera zizzania17.
IV. Ricercato dalla polizia imperiale
Questo stato di relativa pace viene infine interrotto dai fatti del 1784, che iniziano una rocambolesca fase nella vita di Pietro. Il nostro missionario viene richiamato in quell’anno a Canton da un
nuovo procuratore di Propaganda, monsignor Francesco Giuseppe della Torre (1732-1785)18, cui l’imperatore aveva concesso nel 1781 di risiedere nella capitale del Guangdong, anzichè, come consuetudine, a Macao19. Nella casa del procuratore si sono riuniti in segreto dieci missionari propagandisti,
pronti a raggiungere le loro missioni all’interno. Il ruolo di Pietro, come prete nativo, è quello di preparare l’itinerario di viaggio di quattro francescani italiani verso le provincie di Shanxi e Shaanxi, e far
sì che raggiungano la meta incolumi. Dopo aver scartato un itinerario attraverso lo Shandong per mancanza di barcaioli, Pietro decide di mandare i missionari attraverso l’Huguang, e di farli scortare da cattolici cinesi. Viaggia all’interno per organizzare il viaggio, e ritorna a Canton, dove rimane dopo la partenza assai circospetta dei missionari e delle loro guide cinesi. Sfortunatamente, i quattro vengono scoperti ed arrestati il 27 agosto 1784 nello Hubei, e trasferiti a Pechino. Ad ottobre l’imperatore in persona chiede una investigazione su possibili connessioni tra questi occidentali e una rivolta musulmana
allora scoppiata nel nord-ovest del paese. La faccenda si fa seria.
Gli interrogatori dei cinesi coinvolti rivelano che l’organizzatore del viaggio è tale Cai Bo-duo-lu.
Il governatore-generale mancese dello Huguang, Te-cheng-e 特成額, si convince che costui sia il traitAUNO, busta 15, inc. 7, lettera di Pietro Cai a Gennaro Fatigati, Huguang, 6 agosto 1781, f. 1v.
Genovese di nascita, fu procuratore di Propaganda Fide dal 1781 al 1785, anno in cui morì in carcere a Pechino.
Appartenne, come il suo successore Marchini, alla Congregazione di San Giovanni Battista, nota anche come quella dei
«Battistini»: Josef Metzler, Das Archiv der Missionsprokur, in Aldo Gallotta, Ugo Marazzi (a c. di), La conoscenza dell’Asia e
dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, vol. II, t. I, pp. 93-95.
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Bernward Willeke, Imperial government …, cit., p. 19 nota 7. Ad eccezione di nuovi materiali archivistici e citazioni di fonti
primarie che specificherò nelle note, la narrativa dei fatti del 1784-85 offerta nelle pagine seguenti è basata sulla ricerca esaustiva di Bernward Willeke, cui rimando il lettore interessato.
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d’union con i ribelli musulmani. Ordini sono immediatamente impartiti in Guangdong per l’arresto di
Cai, e la caccia all’uomo comincia in tutta la provincia, con arresti di cristiani locali. Pietro sfugge per
miracolo alla cattura nella casa di un farmacista cristiano a Canton, e ripara segretamente a Macao il
26 settembre 1784, dove viene ospitato nel convento dei francescani. Le autorità cinesi sospettano la
cosa, ed inviano due funzionari al Senato della colonia portoghese, con una richiesta di estradizione
immediata. I Portoghesi, ancora ignari della presenza del fuggitivo, negano sia in città. Qualche giorno
dopo, le autorità cinesi ci riprovano, dopo aver catturato il barcaiolo che ha trasportato Pietro al
convento francescano. Ma nel frattempo, in vesti occidentali, questi si è trasferito nella casa del procuratore delle Missions Étrangères di Parigi, e poi al convento degli agostiniani.
Il governatore del Guangdong minaccia allora un embargo sulla città. Il Senato risponde di non
avere giurisdizione sui sudditi cinesi, ma questo non placa i funzionari cinesi. L’embargo viene applicato, e ben presto la città patisce per mancanza di vettovaglie. Molti lavoratori cinesi, impauriti, lasciano la colonia. Il commissario giudiziario di Canton alla fine di ottobre annuncia di voler visitare
Macao e richiede una seduta speciale del Senato. Tutti dovranno stare in piedi durante la sua visita
appositamente studiata per impartire una lezione di umiltà al governo coloniale. I Portoghesi rifiutano
di aderire a queste condizioni, e il commissario si ferma in un tempio fuori Macao, e ordina l’estradizione del fuggitivo entro ventiquattr’ore. Nel frattempo, dopo una ispezione cursoria dei monasteri cittadini fatta per placare i cinesi, i Portoghesi passano a maniere forti per rompere l’embargo.
Requisiscono una cargo di riso, e bombardano un’imbarcazione sospettata di lasciare la città carica di
cereali. Il cannoneggiamento convince il commissario che la faccenda potrebbe esplodere in una caso
diplomatico più fastidioso, e questi ritorna a Canton a dar relazione al governatore.
La situazione si fa imbarazzante per le autorità locali cinesi. Malgrado vi sia una taglia sulla testa di Cai,
e un suo ritratto sia stato fatto circolare nella regione, non vi è traccia di lui. L’imperatore, ignaro come i suoi
funzionari del fatto che Cai sia un prete, si fa impaziente, e così tuona in un editto del 14 novembre 1784:
蔡伯多祿[…]係此案要犯。何以至今未獲。該犯素與夷人熟識。見緝拏緊急。自必
仍逃往廣東。或竟在澳門藏匿。[…]飭屬嚴密設法踩緝務獲。解京審辦。毋得日久
疎懈。致令遠颺。
Cai Bo-duo-lu … è un importante colpevole in questo caso. Perchè non è stato arrestato?
Quest’uomo conosceva bene i barbari. Quando ha visto che gli arresti si stavano allargando, dev’essere scappato in Guangdong, e ora deve essere nascosto a Macao. … Trovate il modo di scovarlo, così
che possa essere arrestato e mandato a Pechino per essere processato e punito. Non perdete tempo e
non siate negligenti, per evitare la sua fuga20.
Bernward Willeke, Imperial government…, cit., p. 70, traduzione dal «Qing Gaozong Shilu 清高宗實綠», juan 1216, pp. 7a7b.
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di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
Alla fine di novembre, nuovi emissari del governatore del Guangdong visitano Macao, e ispezionano il monastero degli agostiniani, senza risultato. I mercanti cinesi di Macao, spaventati dalla piega
degli eventi, pregano il Senato di consegnare Cai. Piuttosto che cedere, i Portoghesi decidono infine di
approfittare della presenza in porto della nave reale Fidelissima, pronta a salpare per Goa, e vi imbarcano Pietro Cai e il catechista ricercato Bartolomeo Xie, che lasciano finalmente la Cina la notte del 30
novembre 1784. Apparentemente, la decisione viene presa su consiglio del nuovo vescovo di Pechino,
Alexandre de Gouvea (1751-1808), allora a Canton e in viaggio verso la capitale.
V. La fuga in India, Malesia ed Indonesia
Apprendiamo da lettere scritte da Cai e dalle autorità ecclesiastiche goane che dopo essere giunti
in India, i fuggitivi vengono ospitati a spese della corona portoghese nel seminario reale di Rachiol, nei
pressi di Goa. In contropartita, i due si impegnano per iscritto a non rientrare mai più a Macao.
Ovviamente, le autorità portoghesi non vogliono guai col governo imperiale cinese21. Le conseguenze,
in effetti, si sono fatte sentire anche nei circoli commerciali cinesi e stranieri delle «fattorie» di Canton.
I potenti mercanti del monopolio di stato cinese (conosciuti come Hong), che hanno l’incombenza di
gestire i traffici con gli occidentali, hanno dovuto sborsare nel febbraio 1785 una multa di 120.000 taels
d’argento come punizione per non aver saputo controllare i movimenti di Pietro Cai e dei suoi complici nella regione di Canton22. Dunque, Pietro non ha speranza di rientrare in Cina con l’appoggio dei
Portoghesi o di altre potenze occidentali. Anche gli spagnoli gli vietano il passaggio a Manila. Dovrà
ingegnarsi da solo, sfidando i governi degli imperi cinese, portoghese e spagnolo.
Intanto, le autorità cinesi, all’oscuro della partenza di Cai per l’India e sferzate dagli ordini imperiali, continuano la ricerca del fuggitivo sul territorio cinese. Viene ricercato nello Hubei, dove i francescani sono stati catturati, e nel suo nativo Fujian, in particolare nella contee di Longqi e Fuan. In risposta all’editto imperiale del 30 aprile 1785 citato all’inizio di questo saggio, il governatore del
Guangdong fa un ultimo tentativo di scovare Cai a Macao, con un nuovo embargo. Assicurato dai
Portoghesi che Bo-duo-lu non è nella loro città (questa volta non mentono!), il governatore comunica
infine a Pechino che Cai è scomparso. Dal novembre 1785, le autorità imperiali perdono interesse nei
suoi confronti, e la caccia si interrompe.
Bernward Willeke, Imperial government…, cit., p. 71; e AUNO, busta 15, inc. 7, lettera di Romualdus Ansaloni, rettore del
seminario reale di Rachiol, Goa, al governatore di Goa, in portoghese con traduzione italiana, 9 marzo 1787.
22
Bernward Willeke, Imperial government…, cit., p. 66 nota 74, cit. da Hosea Ballou Morse, The chronicles of the East India
Company trading to China, Cambridge, 1929, p. 107.
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Intanto, Pietro diviene insofferente della vita inoperosa a Goa. Il rettore del seminario, l’arcivescovo di Goa e il governatore gli chiedono di diventare istruttore di cinese nel seminario di Goa oppure in
quello di Macao: ma egli non può accettare simili incarichi senza permesso dei superiori, e desidera
tornare alla sua missione. Pietro continua a scrivere ai procuratori di Propaganda a Macao, alla
Congregazione a Roma e ai superiori di Napoli, con notizie sui suoi tentativi di rientrare in Cina, e
richieste di raccomandazione a Manila e altrove23. Ma adesso si firma per lo più Giovanni Maria Ly, il
nuovo nome che usa per confondere chiunque possa intercettare la sua corrispondenza, siano occidentali o cinesi. E a confondersi sono pure gli storici. Proprio a causa di questo cambio d’identità alcuni
studiosi hanno perduto le sue tracce a Goa, e l’hanno creduto morto in India: l’Elenchus Alumnorum
dei collegiali di Napoli curato da Giuseppe Maria Kuo (1917), per esempio, semplicemente lo dice
morto e sepolto a Goa, senza una data precisa24. Anche negli archivi, la corrispondenza firmata da
Giovanni Maria Ly si trova separata da quella di Pietro Cai, come si trattasse di due individui diversi.
Le motivazioni addotte dalle autorità di Goa per trattenerlo sembrano speciose, e forse nascondono
una gelosia istituzionale verso Propaganda, oltre ad un timore che il fuggitivo metta i Portoghesi di
nuovo in imbarazzo in Cina. Fortunatamente, Cai incontra il nuovo vicario apostolico del Siam, monsignor Arnaud-Antoine Garnault MEP (1745?-1811), che si sta recando a Pondichéry per la sua consacrazione25. Cai e il vicario passano per Cochin (in Kerala, India, allora un forte olandese). Ripartono di
lì il 12 maggio 1787 e raggiungono Pondichéry il 4 giugno: il catechista Bartolomeo Xie procederà per
Manila, mentre un mercante francese locale, tale Montignes, offre al nostro Pietro Cai un passaggio su
un piccolo vascello diretto a Canton. Temendo per l’incolumità dell’equipaggio e anticipando una possibile espulsione da Malacca (Melaka nell’odierna Malesia, allora un porto olandese e tappa obbligata
attraverso gli stretti), Cai preferisce un’altra opzione: proseguire il viaggio con il vicario fino al «regno
23
V. per esempio una lettera di Pietro Cai a Propaganda da Goa (Collegio di Rachiol), 16 maggio 1786, in APF, SOCP, vol. 65,
1787-88, f. 234v, riassunto del segretario: «Piermaria Zai scrive che il Governatore di Goa non gli vuol dare il permesso di partire da quel porto, obbligandolo a trattenersi per insegnare la lingua cinese; che spera di ottenere la licenza per mezzo di quel
mons. Arcivescovo di portarsi a Manila, dove potrà trattenersi con sicurezza, finchè la Sacra Congregazione disponga altrimenti di lui; onde supplica di qualche raccomandazione all’Arcivescovo di Manila». Ibidem, f. 235v, riassunto del segretario:
«Piermaria Zai soggiunge aver avuto per risposta da quel Mons. Arcivescovo [di Goa] che il Governatore non gli vuole in
maniera alcuna accordar la licenza di partire, perchè pensano di valersi di lui per insegnare nel nuovo seminario di Macao, e
già ne hanno scritto alla Regina di Portogallo gran cose. Egli però non potendo accettare questo carico senza una espressa
facoltà di questa Sacra Congregazione si rimette veramente al di lei arbitrio».
24
[Giuseppe Maria Kuo, alias Guo Dongchen 郭棟臣], Elenchus alumnorum, decreta et documenta …, cit., p. 3.
25
Adrien Launay, Mémorial de la Société des Missions-Étrangères, deuxième partie 1658-1913, Paris 1916, pp. 266-267; secondo
Launay, Garnault fu consacrato vescovo a Pondichéry il 15 aprile 1787, una data che contrasta con le date dei movimenti descritti nelle lettere di Cai.
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di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
di Queda» (l’odierno stato malese di Kedah), di dove spera recarsi ad un porto sulla costa orientale della
penisola malese, quattro o cinque giorni di distanza a dorso d’elefante («per operam elephantis»), e
imbarcarsi su navi commerciali siamesi dirette in Tonchino, vicino al confine cinese. Nel frattempo, darà
assistenza al vicario nel ministero della comunità cattolica cinese dell’isola di Penang26.
Evidentemente questi piani debbono essere cambiati nei mesi a venire. Nel luglio 1787 Pietro si
trova a Madrasta (Madras, oggi Chenai, a nord di Pondichéry) da dove vorrebbe partire per Macao o
le Filippine: ma i capitani gli rifiutano il passaggio per timore che i governatori Portoghesi o spagnoli
li puniscano27. Mentre è a Madras, viene trattato benevolmente dal frate cappuccino francese «Fra’
Ferdinando» e rimane in compagnia di monsignor Garnault. Apprendiamo da una lettera al nuovo
procuratore di Propaganda a Macao, Giovan Battista Marchini, datata 28 gennaio 1788, che Cai si è nel
frattempo recato con il vicario all’isola di Penang («Pulopinang» oggi Pulau Penang), da cui però è
ripartito in poco tempo, da solo, il 9 dicembre 1787, per arrivare a Malacca il 15 dicembre. Di lì, ha in
mente di recarsi a Batavia, e quindi trovare un passaggio per Chaozhou (Guangdong), vicino alla nativa
Zhangzhou, o forse direttamente per Xinghua (Fujian). Queste destinazioni rivelano che Cai, convenientemente, pianifica di utilizzare la fitta rete di trasporto privato di persone e merci che sosteneva
l’economia tra la Cina meridionale (in particolare il Guangdong e il Fujian), e le colonie cinesi d’oltremare dell’Asia sud-orientale. Ancor oggi, i cinesi della Malesia e dell’Indonesia considerano come loro
patrie ancestrali le regioni di Chaozhou e del Fujian meridionale28. Il 16 giugno 1788, Cai scrive al procuratore Marchini con notizie fresche sui suoi spostamenti. Dopo essere rimasto a Malacca fino al 12
febbraio di quell’anno, ospite di un cattolico siamese di nome «Francisco de Lobo», Cai ha deciso di
lasciare la città a causa dei sospetti che lo circondano per la sua fuga dalla Cina. Si reca, dunque, all’isola
di Giava. Timoroso di venire intercettato dai pirati, raggiunge finalmente Batavia il 3 giugno 1788. Qui
si mette in contatto con conterranei del Fujian, e organizza il suo ritorno in patria per la fine di luglio29.
APF, SOCP, vol. 65, 1787-88, ff. 271r-v e 274r-v [sic]: Lettera di Pietro Cai a Propaganda, da Madrasta, 29 giugno 1789; ibidem, f. 276v, sommario del segretario: «Monsignor Garnault, Vicario Apostolico del Siam scrive d’essere stato consacrato a
Pondichery, e che ora ritorna in un’isola del regno di Queda, dove da un anno si ritirò con tutti i suoi cristiani. Aggiunge che
conduce in sua compagnia D. Pietro Zai, per assistere ai Cinesi del suo Vicariato, non avendo egli potuto ottenere di portarsi
in Manila. Lo stesso Zai scrive, che non essendogli mai riuscito di poter entrare nella missione assegnatagli, per non vivere
ozioso, se ne andava con Monsignor Garnault».
27
APF, SOCP, vol. 65, 1787-88, f. 270r: lettera di Pietro Cai a Propaganda, da Madrasta, 19 luglio 1787.
28
APF, Archivio Procura Macao, lettera firmata da Giovanni Maria Ly (alias Pietro Cai), a Marchini, da Malacca, 28 gennaio
1788, f. 1r. Marchini, come il suo predecessore era membro della Congregazione di San Giovanni Battista. Era stato nel 1785
a Canton come assistente di monsignor Della Torre, divenendone poi il successore. Nel 1786, trasferì nuovamente l’ufficio del
procuratore a Macao, carica che ricoprì a lungo; Bernward Willeke, Imperial government…, cit., p. 24, nota 34.
29
APF, Archivio Procura Macao, lettera firmata da Giovanni Maria Ly (alias Pietro Cai) a Marchini, da Batavia, 16 giugno
1788, ff. 1r-v.
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VI. Il ritorno da clandestino in Cina
La seguente lettera al procuratore lo vede già in Cina: scritta il 14 novembre 1788, la missiva
contiene l’accettazione di un nuovo incarico in una missione all’interno del paese, Hanzhong (漢中,
provincia dello Shaanxi 陝西), dove si recherà in incognito attraverso le provincie di Huguang e
Sichuan30. Di lì a qualche anno, apprendiamo dei suoi progressi nel nuovo incarico: Cai collabora con
il confratello alunno del Collegio di Napoli Simone Ciao (趙西滿, 1722-?) nel territorio di Hanzhong,
dove si impegna a combattere «superstizioni locali», causa di difficoltà continua al suo ministero. Le
cose sembrano migliorare col tempo: nel 1797, Cai dichiara che la sua missione conta circa seimila cristiani, e chiede l’invio di nuovi preti nativi da Napoli31.
Ma all’inizio del nuovo secolo, le sue lettere riflettono tempi grami sia in Europa che in Cina. Cai
apprende nel 1801 dell’occupazione napoleonica di Roma e dello stato di guerra in Europa, e riporta
al tempo stesso di rivolte locali e di carestie in Cina, che contribuiscono alla miseria della missione e in
qualche caso alla morte violenta dei suoi cristiani32. La sua ultima lettera al procuratore Marchini,
datata 13 giugno 1804, rivela che gli acciacchi della vecchiaia stanno avvicinandolo alla morte: si
lamenta di essere sovente malato, ma ringrazia pure per l’invio di cioccolato e di un orologio da
taschino33. Nel 1805 una nuova campagna governativa anti-cristiana voluta dal nuovo imperatore
Jiaqing 嘉慶 – il cui regno copre l’arco di tempo 1796-1820 – lo costringe a cercare rifugio a Macao,
dove però, apparentemente, non si trattiene a lungo a causa della sua notorietà. La morte lo raggiunge
nel 1806, a Canton, dove si era recato per affari della missione34.
Ibidem, lettera firmata da Giovanni Maria Ly (alias Pietro Cai) a Marchini, Kian In sub Fozen hien (?), 14 novembre 1788,
ff. 1r-2v.
31
Ibidem, lettere firmate da Giovanni Maria Ly (alias Pietro Cai) a Marchini, Hanzhong, 16 febbraio, 1791, ff. 1r-2v; ibidem,
da Hanzhong, 27 dicembre, 1797, ff. 1r-v. Secondo [Giuseppe Maria Kuo, alias Guo Dongchen 郭棟臣], Elenchus alumnorum, decreta et documenta …, cit., pp. 2-3, Simone Zhao/Ciao sarebbe morto nel 1788; ma le lettere di Cai suggerirebbero
invece che quest’ultimo fosse ancora in vita nel 1791.
32
APF, Archivio Procura Macao, lettere firmate da Giovanni Maria Ly (alias Pietro Cai) a Marchini, da Hanzhong, 26 giugno
1801, ff. 1r-v; ibidem, Siao Zai (?), 20 giugno 1802, ff. 1r-2v.
33
APF, Archivio Procura Macao, lettera firmata da Giovanni Maria Ly (alias Pietro Cai) a Marchini, da Hanzhong, 13 giugno
1804, ff. 1r-v.
34
Informazioni sui suoi due ultimi anni in », Paris, Séminaire des Missions-Étrangères, 1818-1823, vol. IV 4, pp. 234-235, citate
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Ricercato numero uno: la vita avventurosa tra Europa ed Asia
di Pietro Zai (Cai Ruoxiang 蔡若祥, 1739-1806), alunno del Collegio dei Cinesi
VII. Conclusione
La vita di Pietro Cai, alunno del Collegio dei Cinesi, potrebbe sembrarci piena di opportunità eccezionali per un suddito dell’impero cinese nel secolo XVIII. Al tempo stesso, però, ci appare anche satura
di miserie. Il lungo viaggio di Pietro e la sua residenza a Napoli, il suo ritorno penoso per mare in Cina,
le sue peripezie nella missione e la sua fuga in India ed Asia sud-orientale per sfuggire alla polizia imperiale, fino alla morte a Canton di nuovo reduce da una campagna governativa anti-cristiana, tutto suggerisce una vita in continuo movimento, caratterizzata da povertà di mezzi, ma anche da una ferrea
volontà di proseguire nella missione affidatagli.
Possiamo certamente stupirci della tempra di Pietro Cai. Per lo storico è di maggior interesse e più
vasto significato osservare la partecipazione dei missionari, in special modo di quelli cinesi, ad una circolazione delle persone, delle idee e delle merci che si estendeva dall’Europa all’America e all’Asia, e che
utilizzava circuiti non solo europei, ma anche asiatici: cinesi, malesi, indiani, siamesi, o tonchinesi.
Pietro Cai viaggiò su vascelli spagnoli e portoghesi, fu invitato ad utilizzare una imbarcazione francese
da Pondicherry, ma al tempo stesso solcò le acque asiatiche su giunche cinesi, pensò d’attraversare la
penisola malese a dorso d’elefante, e sfuggì alla polizia imperiale sui traghetti fluviali nella Cina meridionale. Oggi si parla spesso di globalizzazione: uno sguardo all’archivio dell’antico Collegio de’ Cinesi
offre prezioso materiale per riscostruire la partecipazione di italiani e cinesi ad una globalizzazione
ante-litteram, attraverso il prisma delle vitae di uomini come Pietro Cai.
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Arte e storia nella chiesa e collegio
della Sacra Famiglia ai Cinesi
UGO DI FURIA
Studioso di storia dell’arte
I. Il sito e le trasformazioni del complesso nel tempo
Quando nel 1729 Matteo Ripa acquistò dagli Olivetani il complesso religioso ubicato sulla collina
dei «Pirozzoli»1 per utilizzarlo come sede della Congregazione della Sacra Famiglia, la chiesa era dedicata, assieme al monastero, a Santa Francesca Romana. Gli Olivetani vi si erano insediati una ventina
di anni prima, dopo aver trasformato in convento una fabbrica di uso civile, costruita presumibilmente agli inizi del XVII secolo. Edificata in luogo ameno per la felice posizione sul punto più alto e panoramico del borgo dei Vergini, essa era quanto mai adatta ad essere destinata a residenza extracittadina
per ricche famiglie napoletane, anche per la favorevole esposizione a mezzogiorno e la salubrità del
luogo; unico difetto il suo isolamento dalla città per la mancanza di strade carrozzabili che la rendevano raggiungibile solo a piedi o in portantina. Fu probabilmente questo il motivo per cui vi si erano, in
meno di un secolo, avvicendati numerosi proprietari. Tra i primi la principessa di Gallicane, seguita da
Beatrice Folliero, duchessa di Boiano, e successivamente, dal 1655 per circa 40 anni, diversi membri
della famiglia Carafa, fra cui Carlo, duca di Noja. Nel 1689 vi era subentrata Vittoria Capano, duchessa di Mesagne, poi, nel 1696, Benedetta Maria de Angelis e, infine, Benedetto Valdarano, che, a sua volta,
intorno ai primi anni del secolo XVIII, lo aveva ceduto agli Olivetani2.
Una volta venuti in possesso della villa, i padri cercarono di adattarla alle loro esigenze, operandovi alcune modifiche, tra le quali la realizzazione di un porticato munito di loggia sul lato meridionale
del complesso, che, senza particolari stravolgimenti, conservò la caratteristica pianta a «C rovesciata».
1
Raffaele D’Ambra, Napoli Antica, Napoli 1889, commento alla tavola XC (S. Severo. Cinesi): «Di lato alla chiesa di S. Severo
si monta ai Pirozzoli, così detti per un’antica villa de’ signori di tal cognome, un vico della quale oggi porta il nome del dotto
canonico Cagnazzi che qui si ritirò, poiché vide che l’odierna libertà, uguaglianza, e fraternità, non eran quelle predicate alle
turbe».
2
Per la successione delle diverse proprietà e le relative fonti documentarie, v. Maria Rosaria Guglielmelli, Da casa palaziata a
complesso religioso: il collegio dei Cinesi in un rilievo inedito del 1729 in Alfredo Buccaro (a c. di), Il Borgo dei Vergini, Napoli
1991, pp. 287-290.
Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
La vista che vi si godeva doveva
essere superba, così come annotato dall’atto di vendita al Ripa3:
«…si gode la maggior parte
della città con vista di mare, e di
monti, e altri luoghi deliziosi
alla vista…; seguitando a linea
di detto portone si ritrovano a
sinistra undici pilastri con base
di piperno… e una loggia che
mira a mezzogiorno… da dove
si vede la maggior parte della
città…». Dalla stessa fonte apprendiamo poi che il tutto era
allietato da una serie di giardini,
per lo più coltivati a frutteto: dal
portone di accesso dalla via vicinale (la «Porta Maggiore» che si
Pianta topografica del quartiere Stella del 1813 in ASNa,
apre tutt’oggi da Salita Cinesi
Raccolta piante e disegni, cart. 11.
15) «si entra in un atrio grande
scoperto bislungo a destra dell’edificio con alcuni piedi di agrumi»; da alcuni ambienti del piano ammezzato si accede in un altro giardinetto molto più grande «diviso in quattro quadri.. fruttato di diversi frutti, con piedi…di pigne e
3
Una descrizione del complesso prima della sua destinazione a convento olivetano è nell’atto di vendita alla duchessa di
Mesagne del 2 gennaio 1689 siglato dal notaio Andrea Damiano, mentre quella relativa alla sua trasformazione in complesso
religioso è contenuta nell’atto di vendita al Ripa del 1729, sottoscritto dal notaio Nicola Marciano. Entrambi i documenti sono
riportati da Maria Rosaria Guglielmelli, Da casa palaziata a…, cit., pp. 287-290, e da Carmela Fedele, La zona dei Cinesi, nucleo
originario dell’Istituto Universitario Orientale, in Alfredo Buccaro (a c. di), Il Borgo dei Vergini, Napoli 1991, pp. 193-197. Sulla
particolare amenità del sito si sofferma anche Salvatore Palermo, curatore dell’edizione del 1792 della guida di Carlo Celano
(Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per gli signori forastieri, raccolte dal canonico Carlo Celano
napoletano divise in Dieci Giornate, quarta edizione, a cura di Salvatore Palermo, Napoli 1792, giornata VII, p. 165): «La casa
finalmente è amenissima con vedute di Città di mare, e di campagna: gode di un aere saluberrimo: e se avesse modo di potersi ampliare in fabbrica (giacché luogo ne tiene spaziosissimo) potrebbe accogliere un assai maggior numero di Congregati,
Collegiali, e Convittori in gran vantaggio della Religione, ed universal profitto del Clero, e de’ Prossimi»; v. anche Giuseppe
Sigismondo nella Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, Napoli 1789, pp. 56-57: «La Casa poi,…è situata in luogo amenissimo, scorgendosi dalla medesima tutto il nostro cratere, e le nostre belle campagne.»
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Ugo Di Furia
cisterne…» Al termine del porticato è annotato nella pianta allegata all’atto di vendita, uno «spiazzato
con spalliera di agrumi» a monte del quale, con accesso dal «quarto mezzano», vi era un «Giardino d’
Agrumi» che occupava l’area compresa tra la fabbrica olivetana e quella domenicana di S. Maria della
Sanità; infine, verso nord con accesso dal «Cortile Maggiore» e dalla «Via Pubblica» (l’ingresso secondario da Vicoletto dei Cinesi oggi murato), si estendeva il «Giardino Maggiore».
Ma la modifica certamente più impegnativa fu la costruzione della chiesa, che venne eretta intorno al 1710, sfruttando un lungo atrio scoperto, di forma rettangolare, posto sulla destra dell’ingresso
principale della fabbrica. Non conosciamo l’architetto che la progettò; tuttavia è stato ipotizzato l’intervento di Arcangelo Guglielmelli, anche sulla base di un documento che attesta una sua perizia per la
costruzione di un muro divisorio, conseguente all’acquisto nel 1714 di un terreno appartenuto al vicino monastero domenicano di S. Maria della Sanità4.
Eppure, a non molti anni dall’acquisto ed a lavori non ancora ultimati (da poco erano stati completati i dormitori), gli Olivetani decisero di sbarazzarsi della loro casa di villeggiatura ai Pirozzoli; le motivazioni sono anch’esse contenute nel succitato documento di vendita: il sito era raggiungibile «senza
comodo di carrozza e molto difficilmente per essere lontana dalla città ed essendo luogo aspro per la salita»…; inoltre la zona era mal frequentata in quanto «abitata da minuta gente e di poco decoro».
Matteo Ripa, con l’aiuto di Domenico Borgia e della principessa di Sannicandro, acquistò la fabbrica per 6300 ducati con atto notarile del 7 aprile 1729 e vi si trasferì il successivo 14 aprile, accompagnato da cinque cinesi e dai primi congregati della comunità religiosa da lui fondata ed alla quale diede il
titolo di Sacra Famiglia di Gesù Cristo. Il giorno 16 il fratello, monsignor Mattia Ripa, benedisse la chiesa e le nuove campane, mentre il successivo dì di Pasqua, Matteo Ripa vi officiò la prima messa. Nasceva
così il Collegio dei Cinesi, degli Indiani e di altre nazioni infedeli, governato dalla Congregazione della
Sacra Famiglia, composta da sacerdoti secolari preposti ad educare i seminaristi cinesi e i giovani convittori provenienti da famiglie agiate, disposte a pagare una retta di sei ducati mensili.
Non molte dovettero essere, almeno all’inizio, le modifiche apportate alla costruzione. La difficile
accessibilità del sito venne attenuata dalla realizzazione, circa trent’anni più tardi, delle rampe fra piazzetta S. Severo e la salita dei Cinesi, che resero il percorso finalmente carrozzabile5. Ma la costruzione
Giosi Amirante, Architettura napoletana tra Seicento e Settecento. L’opera di Arcangelo Guglielmelli, Napoli 1990, pp. 262 e 273.
Allievo di Dionisio Lazzari, fu architetto, disegnatore e scultore. Della sua attività napoletana si ricordano tra l’altro i lavori
in S. Restituta nel duomo, alle facciate di S. Giuseppe dei Ruffi e del Gesù delle Monache, e la grande sala della Biblioteca dei
Gerolomini (oggi sala Vico); inoltre, sempre a Napoli, operò a S. Maria della Stella, S. Antonello a Port’Alba, S. Carlo all’Arena,
Rosariello alla Pigna, S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone.
5
Sulle vicende relative alla realizzazione delle rampe ed al contenzioso conseguentemente sorto fra i padri della vicina chiesa di S. Severo e quelli del Collegio dei Cinesi v. Albina Arpaia, La sistemazione delle rampe dei cinesi come compromesso tra la
proprietà religiosa e pubblica utilità, in Alfredo Buccaro (a c. di), Il Borgo dei Vergini, cit., pp. 283-285.
4
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Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
del Corso Napoleone (attuale Corso Amedeo di Savoia) tra il 1807 e il 1809 dovette certamente stravolgere i rapporti fra il borgo ed il resto della città. La Salita dei Pirozzoli – odierna Via Cagnazzi –
venne tagliata in due, con l’isolamento del tratto occidentale che va verso la strada e il cavone di S.
Gennaro dei Poveri, ancora oggi visibile sotto la rampa omonima. Il secondo tratto, ad est del Corso,
fu invece innalzato per creare un raccordo con quest’ultimo.
A quasi un secolo e mezzo di distanza dalla sua fondazione, in seguito al real decreto del 12 settembre 1869, che confermava la parziale laicizzazione dell’istituto avvenuta di fatto già l’anno precedente, il Collegio dei Cinesi, dopo essere stato riconosciuto ente morale alle dipendenze del Ministero
della pubblica istruzione, mutò il nome in Reale Collegio Asiatico di Napoli. E non molti anni dopo,
nel 1888, una nuova legge soppresse in maniera definitiva il collegio missionario, e di fatto anche la
Congregazione della Sacra Famiglia, trasformando il Real Collegio Asiatico in Regio Istituto Orientale6.
La prima conseguenza di tali mutamenti fu l’abbandono della vecchia sede e la vendita del complesso
al demanio. Nel 1896 i locali vennero utilizzati provvisoriamente come ospedale militare per i feriti
della guerra coloniale abissina. In seguito fu acquistato dalle suore della Congregazione di S. Rosa
dell’Arte della lana, che qui vi tennero un conservatorio di fanciulle, al quale si aggiunse quello dell’Ecce
Homo per le orfane dell’epidemia di colera del 1884. Ma anche questa nuova destinazione ebbe vita
breve. Dopo essere stato nel frattempo aggregato ai Collegi Riuniti delle Opere Pie, già ai primi anni
del secolo successivo cadde quasi in abbandono, non ospitando che poche vecchie suore insieme ad
una scuola municipale7.
Nel 1910, soprattutto per volontà del Pio Monte della Misericordia, che nel frattempo l’aveva ottenuto in enfiteusi, l’edificio venne trasformato in quello che sarà poi la definitiva destinazione:
l’Ospedale Elena d’Aosta8. L’insediamento del nuovo nosocomio, destinato inizialmente agli infermi
cronici, determinò una serie di trasformazioni che a poco a poco finirono per stravolgere il primitivo
complesso. Oltre alla creazione di superfetazioni, nuovi volumi di fabbrica occuparono le aree destinate a giardino. E soprattutto, con la realizzazione del laboratorio di analisi, si venne a determinare la parziale tompagnatura del porticato e la chiusura del suo ultimo tratto, privandolo così del bellissimo
panorama a mezzogiorno della città, oggi visibile solo dai piani alti. Nel dopoguerra verrà infine creato l’attuale ingresso da via Cagnazzi 29, ricavato dal viale d’accesso all’ex villa Fiorita (fino a non molti
anni fa proprietà del Pio Monte della Misericordia, che la destinò ad ospizio per anziani), oggi Hotel
Ranieri; ma l’accesso diretto dal Corso Amedeo di Savoia e la chiusura, in pratica definitiva, dell’ingres-
Michele Fatica, Le sedi dell’Istituto Universitario Orientale, Napoli 2002, pp. 5-16.
Vincenzo Onorati, Dal Monastero degli Olivetani all’Ospedale Elena d’Aosta, Napoli 1911.
8
La gestione dell’ospedale da parte del Pio Monte della Misericordia cesserà nel 1971: Maria Grazia Rodinò di Miglione,
Notizie sulla Quadreria del Pio Monte della Misericordia in Napoli, Napoli 1975, p. 14.
6
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so primitivo da Salita Cinesi 15, pur rendendo più agevoli i collegamenti, lo isoleranno definitivamente dall’antico borgo9.
Abolito in anni recenti l’ospedale, l’edificio svolge oggi principalmente funzioni di poliambulatorio dell’ASL Napoli 1.
La chiesa, utilizzata in precedenza come cappella ospedaliera e chiusa al pubblico dopo il sisma del
1980, versa oggi in stato di grave abbandono.
II. Il sagrato, il portico e l’androne
La chiesa della Sacra Famiglia è preceduta da un cortile quadrangolare, del quale occupa il lato settentrionale, che fungeva contemporaneamente da sagrato e da atrio per l’intero complesso10. Ad est di
esso si apre il portone principale dell’Istituto, oggi chiuso, prospiciente alla Salita dei Cinesi, mentre ad
ovest vi è l’accesso, attraverso un secondo portone posto dopo la prima campata, al già menzionato porticato11. Superata la metà di quest’ultimo, sulla destra, si accede ad un androne che conduce al resto del
complesso, in cui particolarmente interessanti sono gli affreschi che ne ricoprono la volta. Eseguiti presumibilmente nella prima metà del XVIII secolo da un pittore ignoto12, rappresentano lo stemma della
confraternita ideato verosimilmente dallo stesso Ripa13. Al centro dello scudo coronato, sostenuto ai lati
da una coppia di angeli e circondato da decorazioni fitomorfe, campeggia una croce con ai piedi i simboli della passione (i chiodi e la corona di spine) che emerge dal globo terrestre avvolto dal fuoco della
fede. Dal centro della croce, come da una fiamma, si originano due nastri che scendono sul mondo, sui
quali si legge la scritta volo ut accendatur («voglio che sia acceso»). Ai lati della scena i due caratteri Sheng
聖 e Jia 家 indicanti in cinese la Sacra Famiglia. Nel bordo la frase evangelica: Ite in universum mundum,
Carmela Fedele, La zona dei Cinesi…, cit., pp. 193-197.
Che il sagrato ed il portico, inteso come via coperta, fossero vissuti come ambienti esterni al Collegio e quindi in qualche
modo pubblici, è testimoniato dalla loro pavimentazione che, a tutt’oggi, è formata da basoli in pietra, identici a quelli delle
strade vicine, in perfetta continuità con il borgo circostante.
11
Il secondo portone è attualmente sormontato dallo stemma del Pio Monte della Misericordia. Il porticato, tompagnato in
modo parziale per permettere il passaggio di luce attraverso i sottarchi, è formato da undici pilastri ed è praticabile fino all’androne. Il suo tratto occidentale venne chiuso per ricavare nuovi ambienti da destinare all’ospedale.
12
Potrebbe trattarsi di Francesco Malerba, pittore finora poco studiato, che collaborò all’esecuzione degli affreschi per la grande sala della Biblioteca dei Girolamini progettata dal Guglielmelli. Infatti, nei registri contabili dell’Archivio dell’Istituto
Universitario Orientale (AUNO), si conservano tracce di una collaborazione del Malerba con il Real Collegio, di cui si parlerà più in avanti.
13
V. la descrizione che ne fa Louis Moréri in Le Grand Dictionnaire Historique, ou le Mélange curieux de l’histoire Sacrée et
Profane, à Paris 1743-1759, tome VI, pp.884-886: sub voce Congrégation de la Sacrée Famille de Jésus-Christ.
9
10
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praedicate evangelium omni creaturae («Andate in tutto il mondo. Predicate il Vangelo ad ogni creatura»,
Marco, 15, 16). Su due cartigli che spiccano dall’apice inferiore dello stemma si leggono le parole vi non
vincitur («con la violenza non si vince»). Fortemente suggestivi ed in parte di oscuro significato gli affreschi illusionistici dipinti ai lati della volta, attraversati da una finta ringhiera a colonnine al di sopra della
quale appaiono seduti o appoggiati, in atteggiamento giocoso, sei putti. Due di essi agitano delle banderuole, i due centrali sono intenti a salutare dall’alto i passanti e l’ultima coppia sembra indicare con la
mano la giusta via. Fra di essi alcuni animali, anch’essi in numero di sei: un’aquila, un cane, un ibis, una
civetta, un pappagallo ed un falco. Agli angoli, sotto forma di mascheroni che soffiano in altrettante otri,
i quattro venti principali, in rappresentazione delle quattro parti del mondo14. I mascheroni sono deco-
Cesare Ripa, Iconologia, riedizione del testo originale edito a Roma nel 1603, curata da Piero Buscaroli, Milano 1992, pp.
457-458.
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Ugo Di Furia
rati con cartigli pressoché illeggibili (solo in uno sembra di poter distinguere le parole evangeliche hoc
fac et vives («fa’ questo e vivrai», Luca, 10, 28, dalla parabola del Buon Samaritano), mentre all’interno
di ciascuna otre ricompare in piccolo il globo con la croce.
Nello stesso androne, nel quale ai lati si apprezzano due belle porte con battenti lignei dipinti di
fattura ottecentesca, sono murate alcune lapidi. Due di esse, datate 1910 e 1911 ricordano l’importante ruolo svolto nella fondazione dell’ospedale da parte del Pio Monte della Misericordia e del prefetto
napoletano marchese Francesco de Seta. Una terza, probabilmente coeva alle prime due, menziona i
benefattori del nosocomio. Le ultime due, molto più recenti, elencano i governatori, soprintendenti e
commissari succedutisi dalla fondazione fino al 1970. Risultano invece scomparse due iscrizioni in latino citate dal Sigismondo un tempo poste all’ingresso15.
Al centro del sagrato, su una alta base quadrangolare, è posto un busto di marmo raffigurante
Matteo Ripa, eseguito dallo scultore molfettese Leonardo De Candia16 nel 1714, come ricorda una scritta posta nel lato sinistro in basso dello stesso.
A destra della chiesa una porticina laterale dà accesso ad una cappella funeraria costruita nel XIX
secolo per contenere le tombe della Famiglia Galatola, benefattrice della Congregazione17. Presenta una
volta a botte decorata da lacunari e, oltre alle lapidi, conserva un semplice altare marmoreo. A lungo
adibita a cappella mortuaria dell’ospedale, attualmente è ridotta a deposito.
III. La chiesa
La facciata è a doppio ordine. In quello inferiore si apre il portale, preceduto da una scalinata composta da sette gradini e sormontato da un timpano spezzato, nel cui centro si inserisce un medaglione
Giuseppe Sigismondo, Descrizione della città… cit., pp. 54-55. Nella prima, posta «prima di entrare nell’atrio su d’una specie di arco» era scritto: Sacrae Iesu Christi Familiae / quo Siriis [sic!], Indis Aliisque Infidelibus Regionibus / Facilius Christiana
fides Inferatur, et Plagarum / Illarum Neophiti Praesbiteris Saecularibus in Sacros / Mustas [sic!] Formentur Benedicti XIII. P. M.
Apost. Pecunia / Suppeditante Imperat. Carolo VI. Rege censum annuum / ……………. suamque in fidem recipiente Congregatio
ac Collegium Ann. Domini MDCCXXXII. Nella seconda, collocata «sulla porta della chiesa» (forse era dipinta nel medaglione
a volute ancora esistente, al centro del timpano spezzato che sovrasta l’ingresso): D.O.M. / Templum sub faustis Jesu Christi
Familiae auspiciis dicatum / Ann. Christ. Aerae ⊂I⊃Ι⊃⊂⊂Χ Χ ΙΧ .
16
Nato a Molfetta (Bari) nel 1878 e morto nel 1959; è tra l’altro autore del busto di Vito Fornari, abate filosofo anch’egli molfettese, eseguito nel 1911 e posto nella Villa Comunale di Napoli (TCI, Guida d’Italia. Napoli e dintorni, Milano 2002, p. 290).
17
Le quattro lapidi tombali, tutte in stile neoclassico, sono di Marianna (1860), Gennaro (1858), Giuseppe (1859) ed Antonio
(1854). Antonio Galatola, membro di spicco della famiglia, nato nel 1791, entrò nella Confraternita il 1 maggio 1810 e fu
superiore dal 1833 fino alla morte.
15
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a volute; ai lati due coppie di lesene. Il secondo ordine, separato dal primo per mezzo di una doppia
cornice aggettante, è caratterizzato da un ampio finestrone rettangolare, posto anch’esso fra lesene e
sormontato da un timpano triangolare terminale.
L’interno della chiesa18, ad aula unica, presenta una pianta rettangolare che non subirà modifiche
negli anni a venire, a prevalente sviluppo lungo l’asse longitudinale, essendosi dovuta adattatare, come
si è già detto, ad uno spazio predeterminato. Dalla prima descrizione che possediamo, riportata in una
perizia effettuata dal tavolario del Regio Sacro Consiglio M. de Blasio e corredata da una dettagliata
pianta del complesso olivetano19, è bene evidente la successione tipicamente barocca di vari ambienti,
tutti caratterizzati da contorni curvilinei; il vano centrale quadrato, ad angoli arrotondati, è preceduto
e seguito da due ambienti di forma ellittica. La navata è conclusa da un presbiterio circolare absidato,
completato dal coro a semicerchio, dietro l’altare maggiore. La cupola a semivolta che ricopre il vano
centrale, e che risulta schiacciata dalla presenza di un alto lanternino, indurrà il D’Ambra a definirla
«imperfetta» e a considerare la chiesa «non molto bella, per la cupola nel mezzo della croce fatta quasi
a semivolta grandemente ammattita che la rende di poca luce»20.
Le pareti interne sono dipinte ad imitazione di marmi policromi ed adornate con pilastri polistili
su cui si impiantano, separati da un cornicione dentellato, fortemente aggettante, ed inframmezzati da
ampi finestroni, i grossi risalti delle volte; queste ultime sono intonacate di bianco e lilla, con semplici
ornati a chiaroscuro.
I libri contabili della Congregazione, tutti inediti, conservati nell’Archivio dell’Università degli
Studi di Napoli “L’Orientale” che ha sede nello storico palazzo Du Mesnil di Via Chiatamone, riporta-
Per l’accesso alla chiesa oggi viene utilizzato l’ingresso secondario, posto all’inizio della navata sinistra, che si raggiunge dall’interno del complesso, dopo aver attraversato un ambiente moderno che funge da sala di attesa di un ambulatorio; dallo
stesso ambiente si può accedere anche alla ex sagrestia.
19
Una riproduzione della pianta, pervenuta attraverso una foto tratta da un disegno originale perduto, conservata in AUNO,
è pubblicata in Maria Rosaria Guglielmelli, Da casa palaziata a …, cit. p. 288, fig. 148.
20
Subito dopo però aggiunge: «è essa chiesa nondimeno bastevolmente grande, e assai pulitamente tenuta. Ha nel dinnanzi
un atrio che la fa’ ridente, siccome il resto della casa, per l’eminente sito dove si trova collocata»: Raffaele D’Ambra, Achille de
Lauzières, Descrizione della città di Napoli e delle sue vicinanze in XXX giornate a cura di Gaetano Nobile, Napoli 1855, vol. I,
p. 662. La parte relativa al Collegio dei Cinesi, compresa nel capitolo dedicato al quartiere della Stella, fu curata dal D’Ambra.
Qualche anno dopo, il Chiarini riprese quasi integralmente le notizie fornite da questo autore per aggiornare la vecchia guida
del Celano: (Carlo Celano a cura di Giovan Battista Chiarini, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli,
Napoli 1856-60, vol. V, pp. 216-220). Diverso invece il giudizio del Palermo che la definisce bella, anche se piuttosto inadeguata nelle dimensioni (Carlo Celano, a cura di Salvatore Palermo, Delle notizie del bello… cit., p. 164): «La Chiesa fu aperta nel
1729 è bella, e divota, ma piccola, spezialmente in riguardo de’ continui Esercizj di devozione della Consulta della Casa, la
quale deve pesatamente regolarsi colle rendite, che per mezzo della fervorosa pietà de’ fedeli vorrà la Divina Provvidenza far
concorrere alla conservazione, e dilatamento dell’ardua sì, ma profittevole impresa».
18
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no in data 30 aprile del 1766 una spesa da parte dell’istituzione di ducati 436, grana 1 e tarì 5 per la
«costruzione del nuovo coretto, e finestroni fatti di nostra chiesa»21. Purtroppo i superstiti e inediti libri
maggiori e di esito della congregazione partono dalla seconda metà degli anni ’40 del Settecento; pertanto i primi e certamente più significativi anni di vita della chiesa restano privi di documentazione per
ciò che riguarda le opere che vi furono realizzate.
Il pavimento della navata è a quadrelli di marmo bianco e grigio, cosparso da diverse lapidi tom22
bali . La più importante è quella di Matteo Ripa, ormai quasi illeggibile, posta di fronte all’altare maggiore nel 174623. Più indietro ritroviamo quelle di alcuni illustri congregati come Niccolò Borgia, vescovo di Cava e poi di Aversa, morto nel 1779 a ottant’anni24, Liborio Pisano, vescovo di Massalubrense
AUNO, vol. 31, f. 304r. e v. Tra i conti di fabbrica più interessanti contenuti in archivio ci sono i pagamenti al regio ingegnere Pietro Cimafonte, che collaborò ai lavori di numerosi beni immobili del Collegio dal 1749 al 1782. Sono pochissime le
notizie sul Cimafonte; forse membro della omonima e più celebre famiglia di marmorai, collaborò con Nicola Tagliacozzi
Canale alla realizzazione di Palazzo Trabucco in Via Toledo: Franco Strazzullo (a c. di), Settecento Napoletano, Documenti,
Napoli 1982, vol. I, p. 179. A metà degli anni ottanta subentrò nell’incarico Salvatore Cimafonte (il figlio?) ed alla morte di
quest’ultimo, avvenuta nel 1795, divenne ingegnere della Congregazione Antonio de Sio (AUNO, vol. 35, f. 246 v.), che conservò la carica fino ai primi anni del secolo successivo.
22
Nel 1772 lavorarono al pavimento della chiesa il «marmorario» Crescenzo Trinchese e il «riggiolaro» Ignazio Attanasio,
come attestano i seguenti documenti di pagamento (AUNO, vol. 32, f. 280 v.): 1) «a 31 maggio 1772 d. 40 per tanti pagati a
Crescenzo Trinchese marmoraro, in conto de lavori di marmo fatti nella nostra Chiesa, come da nota»; 2) «a 30 settembre
1772 ducati 105, grana 1, tarì 6, per Banco dello Spirito Santo, polizza di nostra Congregazione pagarla a Crescenzo Trinchese,
à complimento di ducati 145 e grana 26 per importo, così del materiale, che del magistero per li lavori di marmo fatti nella
nostra chiesa giusta la misura del nostro Regio Ingegnere D. Pietro Cimafonte»; 3) «a 31 dicembre 1772 ducati 102, grana 1,
tarì 19, per Banco e polizza nostra ad Ignazio Attanasio mastro riggiolaro per prezzo di tutti li quadrelli e riggiole poste in
opera nel pavimento di nostra Chiesa per la misura del Regio Ingegnere Cimafonte»; 4) «a 30 giugno 1775 ducati 6, grana 1,
tarì 3 per tanti pagati à Crescenzo Trinchese Marmoraro per aver fatto la lapide nuova di marmo bianco sopra la prima sepoltura della nostra chiesa giusta il certificato del Regio Ingegnere». Negli stessi archivi esistono anche documenti che attestano
una collaborazione fra la confraternita e Ignazio Chiaiese, membro della celebre famiglia di «riggiolari» che operò a Napoli
(in rivalità con l’altrettanto celebre famiglia Massa) per tutto il XVIII secolo, restando in attività fino alla metà di quello successivo (tra le loro opere sicuramente documentate, i lavori per le chiese napoletane dei SS. Marcellino e Festo, S. Caterina da
Siena e S. Luigi di Palazzo). Si conservano, infatti, alcune attestazioni di pagamento per «Ignazio Chiaiese riggiolaro», relativi
a lavori eseguiti presso una casa di proprietà sita nella rua Catalana per ducati 24 e grana 25 (AUNO, vol. 38, f. 97v.), e nella
strada di Chiaia, con due pagamenti di ducati 21 e grana 54 in data 19 giugno 1797 e di ducati 31 e grana 42 in data 8 ottobre 1798 (AUNO, vol. 39, ff. 193v. e 206v.).
23
Come riporta il Palermo, il testo dell’epigrafe fu dettato da Carlo Nardi, uno dei primi collaboratori del Ripa; Carlo Celano, a
cura di Salvatore Palermo, Delle notizie del bello …, cit., p. 164: «In essa chiesa à piè dell’Altar Maggiore è sepolto il medesimo
fondatore Ripa con quello breve, e schietto epitafio, dettato da D. Carlo Nardi, uno de’ primi Socj di esso Fondatore, e de’ primi
Preti della Congregazione, Soggetto per altro ben conosciuto nella Repubblica Letteraria per le sue dotte, ed erudite stampe».
24
Nacque a Trani il 6 maggio 1700, figlio di Domenico, alto patrizio nonché magistrato. Divenne vescovo di Cava dei Tirreni
nel 1751 e di Aversa nel 1765: Gaspare De Caro, Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 12, Roma 1970, pp. 729-730.
21
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morto nel 1756 e Francesco Saverio Maresca morto nel 1855, al quale è dedicata anche una stele posta
alla base del pilastro alla sinistra dell’ingresso25.
Nulla sappiamo delle opere esistenti in chiesa all’epoca degli olivetani. È probabile però che già vi
fossero alcuni elementi decorativi e dell’arredo, come si evince dal citato documento notarile in cui si
definisce la chiesa «tutta ornata di stucchi con tre altari, coro in noce, orchestra e confessionali»26.
Quando Matteo Ripa celebrò la prima messa nel giorno di Pasqua del 1729, fece mettere in venerazione una piccola statua lignea dell’Immacolata Concezione che gli era stata donata nel 1709 da fra’
Giovanni, superiore e parroco del villaggio di Bagumbay presso Manila, nelle isole Filippine. La statuetta era stata sfregiata dai pagani ed era priva di un dito; per tale motivo la volle intitolare Regina dei
Martiri e le attribuì poteri taumaturgici27. Essa risulta da tempo dispersa, così come molte altre opere
una volta conservate in chiesa28.
Ai lati dell’ingresso, addossati alla controfacciata, vi sono due bassorilievi ottocenteschi di marmo
raffiguranti: a sinistra, Mosè che fa sgorgare l’acqua dalla rupe e a destra un altro episodio della vita di Mosè
di oscura interpretazione; le sculture facevano da dossale per due acquasantiere a forma di conchiglia in
marmo bardiglio, trafugate assieme a molte altre opere d’arte nella notte fra il 24 e il 25 ottobre 198929.
Nei pilastri della cupola, al centro della navata, sono collocate, ognuna all’interno di una nicchia,
quattro statue in rame raffiguranti S. Giuseppe, S. Gioacchino, S. Anna e S. Elisabetta. Secondo il
Francesco Saverio Maresca (1809-1855) trascorse gli ultimi 15 anni della sua vita in Cina, dove scelse il nome di Ma Zixiu
馬自修. Oltre ad aver ricoperto l’incarico di amministratore della diocesi di Nanchino, nel 1847 divenne vescovo titolare di
Sola: Michele Fatica, Le sedi… cit., p. 15. In chiesa sarebbe stato sepolto anche il duca di S. Teodoro Tommaso Caracciolo,
morto nel 1765 (Francesco Ceva Grimaldi, Memorie storiche della città di Napoli dal tempo della sua fondazione fino al presente, Napoli 1857, p. 485), del quale però non abbiamo individuato la tomba.
26
Maria Rosaria Guglielmelli, Da casa palaziata a …, cit., p. 288.
27
Francesco Ceva Grimaldi, Memorie Storiche …, cit., p. 483. L’autore riferisce anche che improvvisamente, nel 1837, «si trovò
la statuetta miracolosamente cresciuta di un dito».
28
La sua presenza in chiesa è documentata dal Palermo (Carlo Celano, a cura di Salvatore Palermo, Delle notizie del bello …,
cit., p. 164) che la colloca «in una Cappella al corno dell’Epistola», ma verrà ignorata dalle guide successive. Non ve n’è traccia nelle schede più antiche della chiesa compilate a cura della soprintendenza alle Belle Arti intorno agli anni ’30 del ‘900. La
conosciamo nel suo aspetto originale, prima che vi fossero aggiunte una serie di figure di contorno, grazie ad un disegno eseguito in epoca imprecisata e stampato a scopo devozionale su un’immaginetta di cui esistono ancora diversi esemplari, pubblicata in Michele Fatica, Le sedi …, cit., p. 14.
29
Già nell’aprile del 1984 era sparita dalla cantoria della chiesa una tela del XVII secolo, copia da Raffaello di una Visitazione.
Nel corso della stessa notte, oltre alle due acquasantiere, ne fu rubata una terza dalla sagrestia; furono inoltre sottratti alcuni
crocifissi, una poltrona da cerimonia in legno dorato del XVIII secolo con lo stemma della congregazione e due coppie di putti
in marmo dai due altari laterali. Il 1 gennaio dell’anno seguente ci si accorse della mancanza di cinque dipinti (Sacra Famiglia,
Fuga in Egitto, Episodio della vita di S. Giuseppe, Cristo e la Maddalena e un Ritratto di Matteo Ripa) e di alcuni oggetti liturgici: Fabio Maniscalco, Ugo Di Furia, Furti d’autore, Napoli 2000, pp. 105-106.
25
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Sigismondo30, esse furono eseguite su disegno del Solimena, notizia ripresa successivamente dalla maggior parte delle guide napoletane31. Il dato è attendibile in quanto il Solimena, al pari di altri pittori
attivi a Napoli tra i secoli XVII e XVIII (come ad esempio Paolo De Matteis, Francesco De Mura,
Giacomo del Po) eseguì modelli per sculture in materiale vario, in particolare busti reliquiario d’argento: del Solimena, ad esempio, sono noti due disegni preparatori di statue d’argento conservati in collezione privata a Richmond raffiguranti i busti di S. Antonio Abate e S. Francesco di Paola. Inoltre, da un
documento contabile del 1718 risulta il pagamento all’argentiere Andrea de Blasio per due statue, un
S. Bartolomeo e un S. Andrea, da realizzarsi «secondo il modello, e il disegno dell’Abbate Francesco
Solimena32».
Pochi gli altri oggetti meritevoli di attenzione e per lo più risalenti al XIX secolo. Tra questi due
teche marmoree entrambe poste in basso, a ridosso delle pareti laterali, immediatamente prima del presbiterio. Quella di sinistra, sormontata dal pulpito ligneo (nel mezzo del quale ricompare, in ottone, il
logo della congregazione), è decorata con due anfore a bassorilievo poste ai lati. Quella di destra reca i
simboli della passione e si trova al di sotto di una grande nicchia, coronata in alto da un Eterno Padre
in stucco. Entrambe prive di iscrizioni, la prima contiene un presepe moderno, mentre l’altra risulta
attualmente vuota; forse destinate a contenere reliquie, non se ne conosce la funzione originaria.
La grande nicchia posta di fronte al pulpito contiene tracce di affresco ed in particolare sulla volta
presenta un ovale nel quale si intravedono i busti dipinti di due personaggi non identificati (una donna
con il capo fasciato da una sorta di turbante e al suo fianco un uomo anziano con una fluente barba
canuta: S. Anna e S. Gioacchino?). All’interno di essa, una statua della Madonna della Misericordia
quasi a grandezza naturale, protettrice del Pio Monte della Misericordia, di cui esiste un’identica versione sull’altare maggiore della cappella delle terme di Casamicciola, che rientrano nel patrimonio del
sodalizio, donata nel 1896 da un tal Carlo Del Pezzo. Il tutto è probabilmente frutto di una ristrutturazione avvenuta all’inizio del XX secolo, in coincidenza dell’acquisita enfiteusi da parte del Pio Monte.
In fondo alla navata, al di là della bella balaustra marmorea, chiusa da un cancello di bronzo su cui
sono raffigurate le allegorie del Vecchio e Nuovo Testamento, l’altare maggiore. Realizzato con una ricchezza di intarsi marmorei policromi, presentava una originale decorazione bronzea al centro del
Giuseppe Sigismondo, Descrizione della città …, cit., vol. III, p. 56.
Mentre il Palermo (Carlo Celano, Delle notizie del bello…, a cura di S. Palermo, cit., p. 165) definisce «belle» le quattro statue, Galante, all’opposto, (Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra della città di Napoli, Napoli 1985, p.
308) le considera «poco lodevolmente eseguite». Ancora più negativo il giudizio del D’Ambra: «… le quali per la verità non
son sì belle, sopra tutto perché non molto felicemente piantate, e per lo stile quasi caninamente sentito: ma con tutto ciò non
si vuol trascurare di far sapere che’elleno furon fatte sopra disegni del Solimena»: Raffaele D’Ambra, Achille de Lauzières,
Descrizione della città …, cit., p. 663.
32
Elio Catello, Francesco Solimena disegni e invenzioni per argentieri, in «Napoli Nobilissima», XXIV n. s. (1985), pp. 108–111.
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paliotto: la croce, simbolo della Congregazione, con ai lati i due caretteri cinesi (Sheng e Jia) già presenti nel logo dell’androne, indicanti la Sacra Famiglia. Scomparsa la croce a seguito del furto dell’ottobre 1989, restano i due caratteri cinesi, anche se quello di destra risulta danneggiato. Il tabernacolo
è impreziosito da uno sportello d’argento sul quale è raffigurato il Sacro Cuore di Gesù, mentre i due
angeli reggifiaccola posti a capoaltare sono attribuiti ad Angelo Viva33.
IV. Le tele del presbiterio
L’altare maggiore è sormontato dalla grande pala raffigurante la Sacra Famiglia, firmata e datata in
basso a destra «Ant.us Sarnelli 1769». Di chiara ispirazione giordanesca, si tratta di una delle opere
migliori di Antonio Sarnelli, eseguita all’età di 57 anni. Il quadro fu un dono del pittore, come risulta
ora grazie al ritrovamento dei documenti contabili della Congregazione della Sacra Famiglia relativi
all’anno 1769. I congregati vollero poi ricambiare in parte il favore ricevuto, regalando al Sarnelli in
occasione del Natale di quell’anno la modesta somma di sei ducati34.
La composizione pone al centro la Vergine – seduta su una nube dalla quale in basso fanno capolino teste di cherubini – con in braccio Gesù Bambino in atteggiamento benedicente e lo sguardo rivolto allo spettatore; gli occhi della Madonna, invece, guardano verso il basso, mentre il capo è volto a
destra, di tre quarti. Ai lati sporgono dalle nuvole, in secondo piano, i busti di S. Anna, a sinistra, e di
S. Giuseppe e S. Gioacchino, a destra, tutti con gli occhi rivolti al Bambino. Ma l’elemento più singolare della raffigurazione, in basso a sinistra, è dato dalle figure di due giovani cinesi nei loro costumi
nazionali, che sembrano invocare la protezione della Sacra Famiglia.
Il quadro, menzionato per la prima volta dal Sigismondo35, verrà poi riportato da diverse guide ottocen-
L’attribuzione di Gian Giotto Borrelli è riportata da Ileana Creazzo, in Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida
sacra …, cit., p. 321, nota 109. Il Viva, allievo di Giuseppe Sammartino, fu attivo a Napoli fra il 1772 e il 1818. Ha lasciato opere,
tra l’altro, nelle chiese napoletane della SS. Annunziata, S. Paolo Maggiore, SS. Trinità dei Pellegrini e S. Maria di Portosalvo.
34
In un primo documento del 22 dicembre 1769 è contenuta la seguente deliberazione: «ducati 6 à D. Antonio Sarnelli pittore per un regalo fattogli con Ordine della Consulta per un atto di Gratitudine per il quadro della Sagra Famiglia, che il medesimo ha fatto e donato alla nostra Chiesa come da sua dichiarazione, che si conserva in filza» (AUNO, vol. 52). Del successivo 31 dicembre è l’analoga annotazione nel giornale di esito della Congregazione (AUNO, vol. 51), riportata in modo identico anche nel relativo libro maggiore (AUNO, vol. 31, f. 436 r.): «Ducati 6 a D. Antonio Sarnelli pittore per regalo fattoli per
ordine della consulta per atto di gratitudine attento il quadro della Sacra Famiglia dal medesimo fatto, e donato alla nostra
chiesa siccome dalla sua dichiarazione».
35
Giuseppe Sigismondo, Descrizione della città …, cit., p. 56; l’autore si limita a ricordare il quadro e il soggetto, ma non il suo
artefice.
33
112
Ugo Di Furia
tesche. Fra queste il D’Ambra36, che individuava nei due giovani cinesi i primi alunni condotti dall’oriente
nel 1724 presso il nuovo collegio fondato dal Ripa. Secondo il Nardi, si tratterebbe di Lucio Wu – Wu Lujue
吳露爵 – e Giovanni In – Yin Ruwang 殷若望37. Giovanni, che abbandonò la Cina per seguire il Ripa contro il volere dei genitori, vi ritornerà nel 1735, morendo poche settimane dopo lo sbarco a Macao, colto forse
da malaria, nel mentre in barca tentava con altri compagni di raggiungere la missione. Lucio Wu, invece, non
vi farà più ritorno. Considerato dallo stesso Ripa inadatto al lavoro apostolico, in quanto «gracile di costituzione, debole d’ingegno e di indole poco buona», si era spesso reso colpevole di comportamenti poco edificanti, fuggendo più di una volta dall’istituto di Napoli; pur essendo stato ordinato sacerdote nel 1741 conobbe anche il carcere sotto l’accusa di diserzione dal Collegio e falsificazione di lettere dimissioriali38.
La Sacra Famiglia non fu però la sola opera eseguita dal Sarnelli per la nostra chiesa. Un tempo
sugli altari laterali vi erano due grandi quadri, oggi conservati nei depositi comunali di Castel Nuovo39.
E si tratterebbe, tra l’altro, delle due ultime opere firmate e datate del pittore, che morì a 88 anni nei
primi mesi dell’anno 1800.
La prima delle due, che era collocata a destra, firmata Ant.us Sarnelli 1792, rappresenta la Vergine
con Bambino e Santi: questa, circondata da angeli, ha ai suoi piedi in primo piano S. Filippo Neri e S.
Teresa. In secondo piano, sulla destra, altre due figure di santi di cui si intravedono solo i busti.
Il secondo quadro, che era posto a sinistra, firmato Ant.us Sarnelli 1793, raffigura il Cristo Risorto
circondato anch’egli da un volo d’angeli, con ai piedi più figure di santi fra i quali spicca a destra S.
Francesco Saverio Borgia; a sinistra si erge una figura alata che sorregge un’urna fiammeggiante, forse
S. Michele ed al centro, seduto, S. Giuda Taddeo con la lancia del martirio.
L’impressione che si ha dalle vecchie foto in bianco e nero conservate presso la fototeca di Castel
S. Elmo (non ci è stato, infatti, possibile visionare gli originali) è quella di trovarsi di fronte alle ultime
opere di un pittore ormai anziano e stanco, che ripropone in maniera monotona e ripetitiva il vecchio
schema figurativo piramidale ormai obsoleto, mostrando alla rinfusa e in un’atmosfera cupa figure di
difficile identificazione, dagli atteggiamenti ieratici e manierati. Il giudizio critico è reso comunque
arduo dal cattivo stato di conservazione dei quadri e dalle ridipinture subite.
Raffaele D’Ambra, Achille de Lauzières, Descrizione della città …, cit., p. 662.
Gennaro Nardi, Cinesi a Napoli. Un uomo e un’opera, Napoli 1976, disacalia a tavola fuori testo.
38
Giacomo Di Fiore, Un cinese a Castel Sant’Angelo. La vicenda di un alunno del Collegio di Matteo Ripa fra trasgressione e reclusione, in Aldo Gallotta, Ugo Marazzi (a c. di), La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, vol. III, t. I,
Napoli 1989, pp. 381-432.
39
Dei due quadri, riportati dalle principali guide ottocentesche, si persero le tracce nel secolo successivo. L’identificazione delle
due tele, conservate in Castel Nuovo, con quelle descritte dalle fonti si deve a Paola Artiaco nella tesi di laurea, I dipinti delle
ex II. PP. AA. BB. Collegi Riuniti di Napoli ed Istituti di Istruzione e Assistenza Femminile, Univ. Federico II di Napoli, relatore
Prof. Vincenzo Pacelli, anno acc. 1999-2000, pp. 45-52.
36
37
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Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
Strana la sorte toccata a queste due opere che dovettero scomparire piuttosto presto dalla chiesa.
Citate già dal Sigismondo che le attribuiva stranamente a un fantomatico «Gennaro la Mura», fratello
del più noto Francesco De Mura40, saranno assegnate al Sarnelli, sulla base della firma, dalle successive
guide ottocentesche fino a quella del Galante41. Si deve notare, però, che l’anno di edizione della
Descrizione di Napoli di Giuseppe Sigismondo (1788-89) precede di circa quattro anni le date apposte
sulle tele. L’incongruenza temporale, non essendoci motivi per dubitare dell’autenticità delle due datazioni apposte accanto alla firma, può essere spiegata solo in due modi; o i «due quadri uno col
Francesco De Mura nacque a Napoli, nella parrocchia di S. Maria della Scala dal commerciante di lane Giuseppe Di Muro,
nato a Scala ed abitante in via Orto del Conte, e Anna Linguito (Giuseppe Ceci, Lo “studio” di Francesco De Mura, in «Rassegna
Storica Napoletana», 1933, n. 2, pp. 107–118). Nessuna fonte sembra documentare l’esistenza di un fratello di nome Gennaro,
tanto meno pittore. Una verifica dei registri dei battezzati, al momento resa difficile dalla problematica fruibilità dell’archivio
parrocchiale, potrà forse almeno in parte chiarire la questione.
41
Erasmo Pistolesi, Guida metodica di Napoli e suoi contorni, Napoli 1945, p. 107; Raffaele D’Ambra, Achille de Lauzières,
Descrizione della Città …, cit., p. 854; Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra …, cit., p. 308.
40
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Ugo Di Furia
Redentore, l’altro colla Vergine in gloria, e varj Santi al disotto» citati dall’autore furono realmente realizzati in ambito demuriano e sostituiti successivamente, per ragioni che non conosciamo, da due tele
di analogo soggetto eseguite dal Sarnelli tra il 1792 ed il 1793; oppure, come ipotizzò Vincenzo
Onorati42 (questa seconda tesi ci appare comunque meno probabile rispetto alla precedente), essi furono semplicemente restaurati dal Sarnelli; un compito, questo, per lo più assegnato ai pittori, il cui
metodo spesso consisteva nel ridipingere gran parte della tela rispettandone solo lo schema compositivo e talvolta siglandola al pari dell’autore.
Le già citate guide della città collocavano i quadri sui due altari laterali della chiesa43. Ma in effetti
ciascun altare laterale, di fattura ottocentesca, è sormontato da una teca marmorea a forma di tabernacolo44, contenuta in una prospettiva riproducente il frontale di un tempio del quale si distinguono le
lesene corinzie ai lati, l’abside a lacunari ed il sovrastante architrave coronato da un timpano triangoVincenzo Onorati, Dal monastero degli Olivetani…, cit., p. 16. La verifica di tale ipotesi potrebbe realizzarsi solo attraverso
una attenta analisi delle due tele, resa finora impossibile da problematiche situazioni logistiche ed ambientali dovute alle difficili condizioni in cui versano i depositi del Museo Civico di Castel Nuovo. In effetti Antonio Sarnelli, al pari di molti altri
artisti, fu più di una volta incaricato di ritoccare dipinti realizzati da altri autori: si veda ad esempio un documento inedito
conservato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli da noi recentemente ritrovato: «10 dicembre 1781, Al conto suddetto per pagamento ad Antonio Sarnelli per aver ritoccato il quadro della SS. Concezione che sta sopra la porta di Nostro Banco,
ducati 12» (ASBNa, Banco di S. Giacomo, libro maggiore di terze, vol. IX, f. 373): di tale opera non vi è più traccia.
43
Così, da ultimo Vincenzo Onorati, Dal monastero degli Olivetani …, cit., p. 16, che edita il suo saggio nel 1911. Non si può
tuttavia escludere che l’autore riferisca in maniera imprecisa notizie riportate dalle vecchie guide del secolo precedente, non
verificate personalmente.
44
Degli altari e delle soprastanti teche marmoree (che potrebbero anche non essere coeve) non si conosce la data precisa di
costruzione. Le teche, contenenti statue lignee (Immacolata e Cuore di Gesù) del XIX secolo, sono delimitate ai lati da colonnine corinzie con fusto scanalato; agli angoli superiori poggiavano due coppie di puttini marmorei, trafugati nel 1989: Fabio
Maniscalco, Ugo Di Furia, Furti d’autore, cit., pp. 105-106. Negli archivi della Confraternita esiste un’attestazione di pagamento al «marmoraro» Raimondo Belli, datata 30 marzo 1818, della significativa somma di 402 ducati per non meglio precisati
«lavori di marmo in chiesa» eseguiti a spese di un certo Giuseppe Pisano (AUNO, vol. 37, f. 279v.). Potrebbe trattarsi proprio
degli altari in questione. Inoltre, pochi anni prima, vi fu una ristrutturazione della chiesa (di cui però non è stata trovata traccia negli archivi del Collegio), come attestato da un’epigrafe marmorea posta all’inizio della navata sinistra, sopra l’ingresso
secondario della chiesa; nel testo, riportato dal Pistolesi solo per i primi sette righi, riguardanti la fondazione del tempio, si fa
riferimento a lavori tenutisi nel 1814 grazie alla generosità di Domenico M. Ventapane, alunno e prelato della Congregazione
(Erasmo Pistolesi, Guida metodica…, op. cit, p. 107): D.O.M. / Templum Hoc / Quod a Clemente XII. P. M. concessum / Instituto
Caroli VI. Imp. Auspiciis / Pro Sinensibus Ceterisque Orientalibus / Presbyterorum Collegio / Sub Fausto Jesu Christi Familiae
Nomine / Matthaeus Ripa ex Baronibus Planchetellae / et Balbae Abbas S. Laurentii ex Arena / Maximis Exhaustis pro Tanti
Operis Institutione Laboribus / Redux e Sinis Feliciter Dedicavit An. MDCCXXXII / Caroli III. ac Benedicti XIV. P. M.
Munificentia Abbadia Auctum / Eorumdem Presbyterorum Opera in Formam Elegantiorem Redactum / Dominicus M. Ventapane
Olim Ejusdem Collegii Alumnus / Nunc Metrop. Ecclesiae Neap. Can. Prespyter E.pus Tienensis / SS. D. N. Pii. PP. VII. Praelatus
Dom. Et Solio Assistens / Solemni Ritu Consecravit XVII. Kal. Aprilis An. MDCCCXIV. / Nec Non Anniversario Consecrationis
Die sub Rit. D. I. Cl. Cum Oct. Quadragenas Dierum Fidelibus Illud Pie Devoteque Visitantibus.
42
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Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
lare. Questa soluzione architettonica sembrerebbe, quindi, escludere l’eventualità che i due grandi quadri potessero trovarsi sui due altari, a meno che questi ultimi non siano stati realizzati successivamente o in coincidenza con lo spostamento delle tele. Una seconda possibilità è che le due opere del Sarnelli
siano state invece poste sin dall’inizio ai lati della tribuna, e più precisamente al di sopra dei confessionali, e sotto le due tele della Visitazione e dell’Annunciazione di cui si parlerà più avanti.
In un inedito inventario della chiesa, compilato il 2 luglio 1881 e conservato presso l’archivio della
Congregazione45, le due tele del Sarnelli non sono più menzionate. Inoltre, in un precedente e anch’esso inedito inventario dell’intero complesso datato 187846 (ma purtroppo alquanto sommario), è riportato che sulla scalinata che immette al convitto laico vi è un «Quadro in tela ad olio raffigurante la
Resurrezione e vari Santi» che può essere a ragione identificato con quello eseguito nel ’93, posto sul
lato destro della navata.
Una traccia successiva riguardante entrambe le tele, viene ritrovata in due schede manoscritte (nn.
23 e 24) relative al convitto del Carminiello al Mercato, compilate verosimilmente negli anni ’30 del
secolo scorso a cura della allora Soprintendenza ai Monumenti di Napoli e conservate presso il catalogo della Soprintendenza con sede in Palazzo Reale. Divenute di proprietà del «primo gruppo Opere
Pie», erano custodite nel salone del convitto, complete di cornici dorate. In epoca imprecisata i quadri
subirono un nuovo trasferimento presso l’Albergo dei Poveri. Infine, dopo il sisma del 1980, furono
consegnate ai depositi comunali di S. Lorenzo Maggiore per poi passare nel 1990, con la costituzione
del Museo Civico, nella sede attuale di Castel Nuovo.
Di autore ignoto sono invece i due grandi quadri rettangolari, ai quali abbiamo già accennato, collocati in alto sulle due pareti della tribuna. Si tratta di una Visitazione a sinistra e di una Annunciazione
a destra, entrambi ispirati agli analoghi lavori eseguiti da Francesco De Mura per la cappella
dell’Assunta nella chiesa della Certosa di S. Martino. Questi ultimi, simili per dimensioni e impianto
figurativo, oltre a presentare una qualità di gran lunga superiore, rivelano una maggior ricchezza compositiva, sia per il numero di personaggi che per i dettagli degli sfondi. Realizzati intorno al 175747, furono entrambi preceduti da due versioni che l’autore fece per l’Annunziata di Capua48, e per la chiesa
napoletana di S. Nicola alla Carità49; un’ulteriore versione della sola Visitazione fu invece realizzata nel
AUNO, busta n. 28, fasc. 5. Questo inventario, al pari degli altri, pur citando ogni singolo oggetto, non ne riporta i particolari (ad esempio raramente sono citati i soggetti dei quadri e mai gli autori). Tra le cose più singolari di cui si è persa traccia,
due «scarabattoli» di mogano con le reliquie di S. Alfonso Maria de’ Liguori e di S. Filomena, queste ultime di proprietà del
p. Luigi M. Falanga.
46
AUNO, busta n. 28, fasc. 2.
47
Lilia Rocco, in Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra …, cit., p. 284, nota 231.
48
Mario Alberto Pavone, Pittori Napoletani del Primo Settecento, Napoli 1997, p. 189.
49
Flavia Petrelli in Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra…, cit., p. 230, nota 220.
45
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1753 per l’omonimo monastero di Madrid50. I due splendidi dipinti di S. Martino dovettero rappresentare negli anni a seguire un preciso riferimento per gli artisti napoletani della seconda metà del XVIII
secolo, come attestano le numerose tele di analogo soggetto ad esse ispirate. Tra le più significative
l’Annunciazione di Pietro Bardellino nella chiesa di S. Maria delle Vergini di Scafati51 e quella dipinta da
Giacinto Diano per la Cattedrale dell’Assunta di Ischia52. Delle due opere dei Cinesi, piuttosto modeste
ed in precario stato di conservazione, non conosciamo né l’autore, né l’epoca in cui furono realizzate;
di esse infatti non vi è cenno nelle fonti bibliografiche, essendo state sistematicamente ignorate da tutte
le guide antiche della città53.
IV. La cantoria, la sagrestia ed altri ambienti del complesso
La porta d’ingresso della chiesa è sormontata da una grande
cantoria in muratura che ricopre completamente il primo settore
della navata e che è illuminata dal grande finestrone centrale.
Ridotta a deposito, essa conserva ancora il pavimento maiolicato
settecentesco che probabilmente un tempo doveva essere presente
in tutta la chiesa. Alla parete destra un prezioso organo firmato
«Mancini 1792-1793»54, purtroppo non più funzionante, sulla cui
cornice, in alto, poggia uno scudo ligneo finemente intagliato, con
ancora l’argentatura originale; al suo interno ricompare, dipinto, il
logo della Congregazione. Verso il lato sinistro della cantoria,
accanto ad un armadio contenente oggetti liturgici, vi è un organo
più piccolo di fattura più recente. Da molto tempo vi sono provvisoriamente collocate, assieme a varie suppellettili (tra queste alcune vecchie panche con il simbolo del Pio Monte), due statue lignee
(S. Anna e S. Michele Arcangelo) e due tele seicentesche (Incontro tra
Gino D’Alessio, Nuove osservazioni sulle committenze reali per Francesco De Mura tra Napoli, Torino e Madrid, in
«Prospettiva», 1993, n. 69, pp. 70-87.
51
Antonio Braca, La pittura del sei-settecento nell’Agro Nocerino Sarnese in AA.VV., Architettura ed opere d’arte nella Valle del
Sarno, Nocera Inferiore 2005, p. 422.
52
Elena Persico Rolando, Dipinti dal XVI al XVIII secolo nelle chiese di Ischia, Napoli 1991, p. 93.
53
Sono invece riportate nel citato inventario del 1881 (v. nota n. 45).
54
Stefano Romano, L’arte organaria a Napoli, Napoli 1979, pp. 371-374 e 462-463: secondo l’autore si tratterebbe di Raffaele
Mancini, membro di una famiglia di organari forse di origini pugliesi.
50
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Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
il Cristo e il Battista, copia del celebre quadro di Guido Reni nella chiesa dei Girolomini55 e una Sacra
Famiglia con San Giovannino), tutte in pessime condizioni di conservazione. Fino all’aprile del 1984 vi
si trovava anche una tela raffigurante una Visitazione, copia di un quadro di Raffaello conservato al
museo del Prado di Madrid, eseguito per la cappella Branconio in S. Silvestro all’Aquila56.
L’ampia sagrestia, che fino ad alcuni anni fa ospitava la biblioteca dell’Ospedale, è attualmente
ridotta a deposito. Un tempo ricca di opere d’arte57, oggi contiene ancora un lavabo con lo stemma del
Pio Monte, un ovale marmoreo raffigurante in altorilievo una Madonna con Bambino contornata da
cornice in marmo scuro, attribuita alla scuola di Giuseppe Sammartino58 e due tele settecentesche. Una
ovale con la Sacra famiglia, di modesta qualità59. L’altra, delle dimensioni di una pala, parafrasando il
quadro dell’altare maggiore, raffigura due bambini, uno asiatico e l’altro africano, sotto la protezione
della Sacra Famiglia; di qualità non eccelsa, è stata collocata in ambito demuriano60.
In alcuni angusti ambienti, un tempo destinati ad alloggio del cappellano61, sono messi a deposito
un insieme eterogeneo di oggetti di varie epoche, alcuni dei quali meritevoli di attenzione. Fra questi
L’originale del Reni, che ebbe molta fortuna fra i contemporanei e del quale esistono numerose copie, è conservato sull’altare della sagrestia dei Gerolamini: vedi Roberto Middione, in N. Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra …,
cit., p. 126, nota 313.
56
Angela Schiattarella, Ida Maietta (a c. di), Furti d’Arte, Napoli 1994, p. 18. Il prototipo del Prado, oggetto recentemente di
un attento restauro, fu realizzato da Raffaello intorno al 1520 (anche se alcuni autori ritengono sia in gran parte stato eseguita dal suo allievo Giovan Battista Penni detto «il Fattorino» che operò anche a Napoli, dove morì nel 1528) per l’amico Giovan
Battista Branconio, che la espose nella sua cappella patronale. Fu trasferita in Spagna nel 1655 sotto il viceregno di Pasquale
d’Aragona. La copia della Visitazione (di cm. 150 x 120 ca), così come l’Incontro tra il Cristo e il Battista del Reni, si trovavano
un tempo in sagrestia, assieme ad altri quadri oggi dispersi, come riportato da Erasmo Pistolesi in Guida metodica …, cit., p.
107: «…In sagrestia vi sono buoni quadri, cioè l’adorazione dei Magi: la visita di s. Elisabetta: Cristo col Battista: la mietitura
in istile fiammingo: una fiera che potrebbe dirsi del Bassano».
57
V. nota precedente.
58
Ileana Creazzo, in Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra …, cit., p. 321, nota 113.
59
Francesco Ceva Grimaldi, Memorie storiche della città …, cit., p. 483: «Tra i napoletani [benefattori dell’istituzione] non conviene obbliare i nomi del duca Borgia regente del consiglio collaterale che lasciò il quadro della Sacra Famiglia che sta nella
sacrestia della chiesa…». La modesta qualità del quadro e la contemporanea e ben documentata presenza un tempo in sagrestia di una Adorazione dei Magi donata dai Borgia di cui si parlerà più avanti, ci fa lecitamente pensare che l’autore abbia fatto
confusione tra le due opere e che quindi la notizia debba essere considerata un refuso. Altra possibilità è che i quadri donati
dal Borgia fossero più di uno e che la Sacra Famiglia, a cui si riferisce il Ceva Grimaldi, sia quella conservata sulla cantoria di
cui già si è detto.
60
Fara Caso, in AA.VV., Napoli Sacra. Guida alle chiese della città, Itinerario 14, 1996, p. 890.
61
L’accesso all’ ex alloggio del cappellano si trova all’inizio della navata destra, di fronte all’ingresso secondario, simmetricamente a quest’ultimo. Da qui è anche possibile, tramite una scala in muratura, accedere alla cantoria. Sulla porta che dalla
chiesa dà accesso ai suddetti ambienti vi è un’epigrafe di marmo, in parte abrasa: Sacellum Deo Nomini Dicatum / Alma
Deiparae Genitrix Ne ….ncas / Quisquis Haec Limina Adiverit / Praesenti Ope Refectum / Se sentiat.
55
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una interessante tela raffigurante la Fuga in Egitto. Il quadro, forse per le insolite dimensioni (cm. 29 x
85) destinato a fare da sopraporta, venne rubato nel 198962; circa dieci anni dopo, periodo in cui era
stato anche sottoposto ad un accurato restauro, venne ritrovato e restituito dai carabinieri del nucleo
tutela per il patrimonio artistico di Venezia.
Ad esso faceva da contrappunto una seconda tela di identiche dimensioni, e probabilmente dello
stesso autore, raffigurante forse l’Incontro fra Giacobbe e Rachele63.
Fabio Maniscalco, Ugo Di Furia, Furti d’autore, cit., pp. 105-106.
V. nota precedente. Nella denuncia del furto, il soggetto del quadro che nella scheda della Soprintendenza figurava come
«Episodio della vita di Giuseppe» fu erroneamente trasformato in «Episodio della vita di S. Giuseppe». Nelle due tele l’elemento in assoluto predominante è il paesaggio; al suo interno compare come elemento secondario la scena, affidata a figurine poco più che abbozzate. Sembrano potersi collocare in ambito napoletano della seconda metà del XVII secolo.
62
63
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Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
Nello stesso luogo si conservano altre piccole tele, quali un S. Vincenzo de Paoli, una Addolorata di
ambiente solimenesco e una mediocre Madonna del Carmine. In grandi armadi lignei sono poi stipati
un gran numero di oggetti sacri, alcuni dei quali in argento, paramenti, reliquiari e pastori di presepe.
E in una cornice dorata, una testa di Ecce Homo in terracotta policroma a grandezza naturale probabilmente ottocentesca.
Un tempo era conservato nel salone della Congregazione un ritratto di Matteo Ripa circondato da
quattro giovani asiatici. Secondo il D’Ambra64, il quadro fu realizzato sul finire del XVIII secolo da
Giovanni Scognamiglio, pittore a noi quasi del tutto sconosciuto65, che si sarebbe avvalso della maschera di cera dello stesso Ripa e dell’assistenza di un non meglio precisato membro della famiglia Borgia66,
«molto intendente di pittura» al punto da realizzarne egli stesso una piccola copia che si conservava in
sagrestia67.
Il quadro, sempre a detta del D’Ambra, sarebbe stato poi ritoccato da Paolino Girgenti68 «valente
disegnatore e dipintore» che «diede a questo quadro un’ultima mano, apponendovi una certa patina di
scuro per determinarvi meglio le ombre; e per tal modo seppe fare, che il quadro prese una certa faccia di antico, che lo fa molto pregevole». Passato in proprietà dell’Istituto Orientale, dopo essere stato
sottoposto a restauro negli anni ’80, è stato collocato nel Rettorato. Sul retro della tela si legge: «A divozione del Padre D…/do…a 18 Febraro 1818/Giovanni Scognamiglio dipinse»69.
Raffaele D’Ambra, Achille de Lauzières, Descrizione della città…, cit., p. 663.
Il Galante, oltre a confermare la paternità del quadro ed il restauro successivo del Girgenti, cita il «pittore Scognamiglio»
come restauratore del ritratto su tavola dell’Arcivescovo Umberto d’Ormont attribuito a Lello da Orvieto, conservato presso
la Curia Arcivescovile. Non ci risultano altre notizie bibliografiche su questo oscuro artista: Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro
Aspreno Galante. Guida sacra…, cit., p. 14.
66
L’unico Borgia, vissuto tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, congregato della Sacra Famiglia
di Gesù Cristo, fu Giovanni Maria Borgia, nato a Napoli il 27 maggio 1760 e ivi morto il 20 febbraio 1836: [Giuseppe Maria
Kuo, alias Guo Dongchen 郭棟臣], Elenchus alumnorum, decreta et documenta, quae spectant ad Collegium Sacrae Familiae
Neapolis, Chang-hai 1917, pp. 24-25 (n. 109).
67
Da considerarsi ora dispersa. Non sembra possibile identificarla con il Ritratto di Matteo Ripa raffigurato a mezzo busto con
in mano un Crocifisso datato 1746 (cm. 63 x 76 ) e conservato nella direzione sanitaria dell’ospedale, il cui furto venne denunciato il 1 gennaio 1990: Angela Schiattarella, Ida Maietta (a c. di), Furti d’Arte, cit., pp. 37-38.
68
Paolino Girgenti, siciliano, allevo di Guglielmo Morghen, fu incaricato nel 1790 da Ferdinando IV di realizzare una serie di
disegni dei più importanti quadri della Galleria di Capodimonte destinati ad essere incisi, e cinque anni dopo di farne delle
copie ad olio. Agli inizi del secolo successivo divenne poi professore della Reale Accademia di Disegno (Angelo Borzelli,
L’Accademia del Disegno durante la prima restaurazione borbonica in «Napoli Mobilissima», X n. s. (1901), pp. 1-5, 22-26, 5356, 65-71, 105-107, 124-126, 138-141). Tre suoi disegni con episodi della vita di Gioacchino Murat datati 1815 si conservano
nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. Morì nel 1819.
69
La notizia è riportata da Ileana Creazzo, in Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante. Guida sacra…, cit., p. 321
(nota 113).
64
65
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Certamente molto più numerose dovevano essere le opere d’arte custodite un tempo nel complesso e poi disperse a causa di furti (gran parte dei quali probabilmente mai documentati), trasferimenti
o distrutti dall’incuria e dall’ignoranza. Quasi totalmente perduto, ad esempio, è il vasto patrimonio di
oggetti provenienti dall’Oriente – di cui per primi riferirono il Sigismondo70 ed il Palermo71 – che in
parte confluì nel museo etnografico dell’Istituto Orientale per poi disperdersi definitivamente dopo
l’ultimo conflitto mondiale72.
Oltre alla chiesa e alla sua sagrestia che doveva considerarsi una piccola pinacoteca73, erano presenti nel complesso altri ambienti sacri, quali ad esempio la cappella del Noviziato, come riportato da alcuni documenti di pagamento74. Infine, vi è notizia dell’esistenza di una quadreria interna al Collegio dei
Cinesi da una sua sommaria descrizione e valutazione effettuata dal pittore Filippo Palizzi, allora presidente dell’Accademia di Archeologia, Lettere ed Arti75. Buona parte della collezione era costituita da
decine di ritratti di allievi e membri della congregazione che venivano sistematicamente eseguiti all’ingresso di ciascuno nel collegio e che sono registrati nei documenti contabili, anche se il più delle volte
non è citato il nome del pittore76.
70
Giuseppe Sigismondo, Descrizione della città…, cit., vol. III, p. 56: «La Casa poi, nella quale conservansi delle speciose robbe
portate dalla Cina, ed altri luoghi Orientali, è situata in luogo amenissimo, scorgendosi dalla medesima tutto il nostro cratere, e le nostre belle campagne».
71
Carlo Celano, Delle notizie del bello…, a cura di S. Palermo, cit., giornata VII, p. 165: «Ed in essa Casa si conservano, ed a’
curiosi si mostrano molte belle cose, e rare galanterie della Cina portate già dal fondatore Ripa; ed anderan crescendo colle
altre, che o manderanno i Missionarj (non potendo mai più per espresso voto, che ne fanno ritornare in Europa gli Alunni)
quando saran di ritorno in questa Città».
72
Michele Fatica, Le sedi dell’Istituto… cit., p. 55. Una più dettagliata descrizione degli oggetti rari un tempo conservati dal
collegio, è riportata dal Pistolesi (Erasmo Pistolesi in Guida metodica …, cit., p. 107): «…vi sono non pochi oggetti rari della
Cina: cioè un canestro con coperchio d’avorio, per modo intagliato, che sembra un ricamo, raro sì pel lavoro, che per avere
un palmo e mezzo di diametro. Una guglia similmente in avorio con nove divisioni: negli ambulacri vi passeggiono i bonsi; è
alta un palmo. Un ventaglio d’avorio di gastigato lavoro; direbbesi fatto a stampa. Un piatto con sottocoppa di tartaruga, de’
vasi da tè, pitture, suppellettili ec.»
73
Come riportato da Erasmo Pistolesi in Guida metodica,…, cit., p. 107.
74
AUNO, vol. 52, p. 5: «Per pittura fatta nella soffitta della Cappella del Noviziato e per inchiodature della tela, ed altre fatighe
fatte dal pittore [non ne viene indicato il nome] ducati 5». Inoltre, nel complesso olivetano descritto nell’atto di vendita al
Ripa del 1729, già si rilevava l’esistenza di una piccola «Cappella» a cui si accede dal «3° ballatoio» e di «una camera con soffitta all’antica ad uso di cappella»: Maria Rosaria Guglielmelli, Da casa palazziata a …, cit., pp. 289 e 290.
75
AUNO, Verbali del Consiglio di Amministrazione, verbale n. 18 del 26 maggio 1890, f. 55r. e v.
76
Riportiamo alcuni tra i documenti che ci sono parsi più significativi: a 1 nov. 1760 pagato al pittore Natale per li ritratti di
D. Emiliano, D. Filippo e D. Giovanni ducati 5 (AUNO, v. 30, p. 12); a 15 sett. 1764 pagato a Si. Natale S. Maria Pittore per
complimento di d. 4, d. 2. grana 8 per due ritratti fatti delli Signori D. Antonio Xiao [Xiao Anduo 蕭安多] e D. Cassio Taj
[Dai Deguan 戴德冠] (AUNO, v. 30, p. 70). Diversi sono invece i nomi di pittori che ricorrono nei documenti di archivio relativamente a conti di fabbrica. Si tratta per lo più di pittori ornamentalisti che lavorarono per la congregazione o per le nume-
121
Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
V. La tavola con l’Adorazione dei Magi
A dispetto di tante dispersioni riteniamo di aver individuato una delle opere di maggior rilievo,
anche da un punto di vista storico, un tempo custodite nel Real Collegio. Si tratta della tavola con
l’Adorazione dei Magi citata dalle fonti come il quadro più prezioso conservato in sagrestia, dono della
famiglia Borgia. Il dipinto è ricordato da Pistolesi, Galante e D’Ambra, ma è quest’ultimo a fornirci il
maggior numero di informazioni, riportandone le dimensioni («circa palmi sette per sette»), la paternità («della scuola di Andrea da Salerno») e il donatore, probabilmente Niccolò Borgia («regalato alla chiesa da uno della famiglia Borgia stato alunno del collegio»), aggiungendo che lo stesso ne avrebbe poi
fatto porre una copia nella sua cappella gentilizia nella chiesa di S. Giovanni Maggiore77. Il quadro, ritenuto perduto, si conserva nella pinacoteca del Pio Monte della Misericordia che evidentemente lo rilevò per arricchire la sua quadreria già molti decenni fa78. Si tratta senza alcun dubbio di quello citato dal
D’Ambra, dal momento che coincidono perfettamente sia le dimensioni che la precisa descrizione della
scena («E’ notevole la graziosa scena di questa pittura e il Bambolino ripiegato sopra sè stesso che di su
le gambe della Vergine colla sinistra afferra la cima del vaso che gli viene offerto dal Magio dinanzi a lui
rose case di cui era proprietaria. Ci limitiamo ad elencarli qui di seguito indicando, tra parentesi, gli anni in cui risultano pagamenti a loro favore: Gennaro Rossi (1789), Gennaro Ruggia o Ruggi (1790 e 1791), Leonardo d’Onofrio (1791), Vincenzo
Cangiano (1800 e 1804), Alessandro Roselli (1803 e 1805), Vincenzo di Viva (1805). L’unica eccezione è rappresentata forse
da Francesco Malerba che dovette esercitare anche in qualità di pittore di cavalletto in quanto iscritto alla Corporazione dei
Pittori Napoletani già dal 1692; continuò a farne parte almeno fino al 1699, anno in cui partecipò, assieme ad altri, alla decorazione della relativa cappella (F. Strazzullo, La Corporazione dei Pittori Napoletani, Napoli 1962, pp. 10 e 28). Di lui possediamo due documenti: 1) «à 17 maggio 1752 pagato al Sig. Francesco Pittore à conto dè freggi carlini venti complimento di detti
quattro» (AUNO, v. 147, p. 140); 2) «à 2 giugno 1752 pagato al Sig. Francesco Malerba ducati quattro, e grana 8 a complimento di ducati 8:80 per saldo de’ freggi fatti nelli due cameroni del 2° piano» (AUNO, v. 147, p. 141). Francesco Malerba lavorò
anche nel palazzo del marchese della Ripa nel Borgo di Chiaia nel 1735 (Giuseppe Fiengo, Organizzazione e produzione edilizia a Napoli all’avvento di Carlo di Borbone, Napoli 1983, p. 140) e soprattutto dipinse, in collaborazione con Cristoforo Russo,
la sala grande della biblioteca dei Girolamini (oggi sala Vico) realizzata dal Guglielmelli nel 1736, in cui, nel contesto di un
imponente progetto decorativo, si inserisce il grande riquadro centrale con Il trionfo della Fede sulla Scienza e sulle Virtù
(Enrico Mandarini, I codici manoscritti della Biblioteca Oratoriana di Napoli, Sommario, par. II, pp VII-XIX, Napoli 1727;
Antonio Bellucci, Il trionfo della Fede sulle Scienze e sulle Virtù, in «Roma», 2 luglio 1927, p. 3).
77
Raffaele D’Ambra, Achille de Lauzières, Descrizione della città…, cit., p. 663.
78
Un’auspicabile indagine negli archivi del Pio Monte della Misericordia, oltre a fornirci maggiori dettagli sul trasferimento
della Natività, potrebbe rivelare l’esistenza nella pinacoteca di altre opere provenienti dal collegio dei Cinesi, cosa possibile, ad
esempio, per un’ Annunciazione attribuita al De Mura, proveniente dalla abolita casa di riposo Villa Ranieri di via Cagnazzi,
adiacente all’ex ospedale Elena d’Aosta: vedi Maria Grazia Leonetti Rodinò, Il Pio Monte della Misericordia. La storia, la chiesa, la quadreria, Napoli 1991, sch. 136.
122
Ugo Di Furia
chinato, che è cosa affatto poetica e capricciosa»). Peraltro, risulta evidente l’assoluta identità della raffigurazione al confronto con la versione, di
eguali dimensioni, un tempo conservata nella cappella Borgia a S.
Giovanni Maggiore ed oggi nei depositi della Soprintendenza. La tavola,
attribuita da Raffaello Causa a Giovan Filippo Criscuolo (Gaeta 1500 ca Napoli 1584) sulla base di somiglianze stilistiche con le Natività del polittico di Novi Velia e di Capodimonte, entrambe firmate e datate79, è stata
più di recente assegnata da Leone de Castris a Girolamo Ramarino (documentato a Napoli fra il 1514 ed il 1521), detto «Girolamo da Salerno»80.
Interessante il distico che si legge sul cartiglio dipinto in basso a sinistra:
partus et integritas discordes tempore longo Virginis in gremio foedera pacis
habent (il parto e la verginità inconciliabili tra loro a lungo, si conciliano
come patto di pace nel grembo della Vergine)81. Mentre la tavola oggi al
Pio Monte è stata recentemente oggetto di restauro, pessime sono le condizioni della versione di S. Giovanni Maggiore; un intervento su quest’ultima sarebbe auspicabile anche per consentire un corretto raffronto fra le
due opere. Essa si trovava sull’altare maggiore della IV cappella a destra
dedicata alla Natività, di patronato della famiglia Borgia, ma che in preceRaffaello Causa, Opere d’Arte nel Pio Monte della Misericordia a Napoli, Napoli 1970, p. 92: «Opera tipica dell’artista da situarsi tra il polittico di Novi Velia (f. e d. 154) e quello dei depositi del Museo di Capodimonte egualmente firmato, e datato ’45. La
marcata dipendenza dagli esempi di Andrea Sabatini da Salerno non cancella le predilezioni per le esperienze antiche, protocinquecentesche, con richiami alla bottega operosa nel Chiostro del Platano, alle prove ancora tanto suggestive dello
Pseudobramantino ed ai precedenti illustri di Cesare da Sesto. E però, il tutto, in una parlata di corrente di timbro provinciale».
80
Paola Giusti, Pierluigi Leone de Castris, Il polittico di Cava, Girolamo da Salerno, Cesare da Sesto nelle due discese al Sud ed
Andrea Sabatini, in «Forastieri e regnicoli». La pittura moderna a Napoli nel primo Cinquecento, Napoli 1985, pp. 139-172, spec.
148-9 e nt. 27.
81
Il distico, dettato dal Sannazzaro per la sua chiesa di S. Maria del Parto a Napoli [v. Gennaro Borrelli, La basilica di S. Giovanni
Maggiore, Napoli 1967, p. 88; Paola Giusti, Pierluigi Leone de Castris, Il polittico di Cava …(v. nota precedente), 148-149] sarebbe
presente anche nella basilica divi Mathie apostoli a Trier (così nel ms. di Trier nr. 814 (Katalog 804) [Trierer Mönches Hubert von
Köln f. 772]: Gall Morel, Lateinische Hymnen des Mittelalters, Einsiedeln 1868, 7 n. 13 ex cod. Engelberg 102 saec. XIII). L’epigramma
sancte Marie virginis (sic) riportato nel Liber de epitaphiis (De laude atque epitaphiis virorum illustrium compendiosus et dilectabilis
tractatus), trasmesso quest’ultimo da alcuni esemplari di incunaboli (Darmstadt, Stuttgart [su quest’ultimo, in migliori condizioni,
si basa l’editore]) è stato pubblicato da Ludwig Bertalot, Die älteste gedruckte lateinische Epitaphiensammlungen, in Collectanea variae
doctrinae Leoni Olschki oblata, München 1921 = Studien zum italienischen und deutschen Humanismus (ed. P.O. Kristeller), I, Roma
1975, p. 269-301, spec. 284 n. 32. Si v. H. Walther (bearb. von) Initia carminum ac versum Medii Aevi posterioris Latinorum.
Alfabetische Verzeichnis der Versanfänge mittellateinischer Dichtungen, Göttingen 1959, nr. 13740.
82
Per la storia della cappella e sulla presenza dei Borgia nella chiesa v. Gennaro Borrelli, La basilica di… cit., pp. 88 – 89.
79
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Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
denza era appartenuta a quella dei Ruffo82. Secondo il Borrelli anche il quadro in epoca imprecisata fu
ereditato dai Ruffo, benché neppure questi ultimi ne fossero stati i primi possessori. Sappiamo infatti da
Pietro de Stefano, autore nel 1560 di una guida sacra della città83, che l’Adorazione dei Magi, da lui esattamente descritta, si trovava nella cappella del «Capitano Funato». Sulla base di tale notizia il Borrelli
ritiene che il Re Magio in ginocchio sia proprio il Funato: ciò sia per l’insolita presenza della spada al suo
fianco, sia per la consuetudine da parte del committente – nel caso, appunto, di una Natività – di farsi
raffigurare fra i Magi e la propria famiglia. Inoltre, i ruderi che fanno da sfondo alla scena non sarebbero dei semplici elementi decorativi ma riproporrebbero l’antico abside semidistrutto con la parte centrale della tribuna, appartenenti alla stessa chiesa di S.
Giovanni Maggiore.
In epoca imprecisata, la lapide tombale di
Domenico Borgia, padre di Niccolò (morto nel 1736)
unitamente al bassorilievo con la sua effige, che si trovavano su un pilastro di detta cappella, furono trasferiti nei pressi dell’ingresso secondario e murati sulla
parete di destra84.
VI. L’Arciconfraternita dell’Assunta
Confraternita di tipo laicale, la sua fondazione
risalirebbe agli anni in cui il Ripa era ancora in vita85 e
si formò a latere della Congregazione della Sacra
Famiglia di Gesù, su iniziativa di otto nobili gentiluomini del borgo e con l’aiuto di insegnanti ed educatori, alcuni dei quali provenienti dall’università federiciana. Essa ottenne poi nel 1787 il riconoscimento diocesano con decreto del cardinale Giuseppe Capece
Zurlo e quello civile con regio assenso controfirmato
Pietro de Stefano, Descrittione dei luoghi sacri della città di Napoli …, Napoli 1560, f. 20v.
Per il testo della lapide borgiana v. Giulio Gagliardi, La Basilica di S. Giovanni Maggiore in Napoli e la sua insigne Collegiata,
Napoli 1888, pp.137-140.
85
Michele Fatica, Le sedi dell’Istituto …, cit., p. 12.
86
Antonio Lazzarini, Confraternite Napoletane, Napoli 1995, pp. 187-190.
83
84
124
Ugo Di Furia
dal ministro Tanucci86. Continuò la sua attività anche dopo il 1888, anno in cui il Real Collegio Asiatico
si trasformò in Regio Istituto Orientale, ottenendo anche l’uso dell’adiacente chiesa. La trasformazione del complesso in ospedale rese però più difficile l’attività statutaria che per molti anni si svolse prevalentemente nella vicina parrocchia di S. Severo. Ciò determinò il progressivo abbandono della cappella e culminò con la sua annessione da parte dell’ospedale che la utilizzò come deposito e spogliatoio per dipendenti. Devastata da furti87 e dall’uso improprio, è attualmente chiusa e versa in una condizione di estremo degrado.
L’arciconfraternita, ubicata sulla sinistra della Chiesa, si sviluppa su un piano inferiore rispetto ad
essa88. Il portale d’ingresso, con una targa a semiluna indicante il nome della congrega come rosta, è sormontato da una cornice di stucco di forma ovale, decorata da un cartiglio, nella quale è affrescata l’immagine della Madonna Assunta. È ad aula unica a pianta rettangolare coperta da una volta a botte.
Quest’ultima è decorata a lacunari nei quali ci sono resti di affreschi molto guasti raffiguranti angeli e
putti forse in origine settecenteschi, ma ampiamente ridipinti. In fondo vi è l’altare coevo di marmi
policromi, preceduto sul lato sinistro da un altarino marmoreo ottocentesco. Bello il pavimento maiolicato del XVIII secolo. Non più in loco la pala settecentesca dell’Assunta di ambito solimenesco, sono
invece ancora presenti sulla parete di fondo e in posizione laterale due piccole tele coeve di forma triangolare, raffiguranti a destra la Vergine Annunziata ed a sinistra l’Arcangelo Gabriele.
Sulla destra dell’altare maggiore vi è una porta che conduce in un ambiente attiguo che doveva
fungere da sagrestia che dà a sua volta accesso ad una seconda stanza che faceva probabilmente da ufficio. Nella prima di esse due nicchie ovali con cornice mistilinea contenenti i busti in stucco dell’Ecce
Homo e dell’Addolorata, a grandezza naturale, e un’altra più elaborata con mensola e cornice in piperno di forma rettangolare, con S. Giuseppe e il Bambino. Sempre alle pareti tre lapidi. Una ricorda l’impegno da parte dei sacerdoti della Sacra Famiglia di curare la celebrazione di una messa ogni domenica per l’anima di un tal Gennaro Bracco, datata 10 maggio 176189. Un’altra epigrafe ricorda l’obbligo di
celebrare un certo numero di messe per Gennaro Vilardo, datata 1832, mentre l’ultima fu posta a testimonianza del privilegio di indulgenze concesse al sodalizio da Leone XIII, nell’anno 1893.
Nel corso dello stesso furto che interessò la chiesa della Sacra Famiglia il 25 ottobre 1989 furono rubati dalla confraternita
dell’Assunta alcuni oggetti sacri. Successivamente, il 20 dicembre 1993, furono asportate alcune suppellettili lignee: Angela
Schiattarella, Ida Maietta (a c. di), Furti d’Arte, cit., pp. 37 e 55.
88
Il portale della chiesa della Sacra Famiglia è infatti preceduto da sette gradini, mentre quello della Confraternita dell’Assunta
è posto ai piedi della scalinata, all’ altezza del sagrato.
89
A tal proposito Antonio Lazzarini (cit., p. 190) riporta il contenzioso sollevato dai congregati contro l’amministrazione
dell’Istituto Orientale che, dopo essere subentrato al Real Collegio Asiatico nel 1888, non aveva ritenuto di attenersi a tale
obbligo (che era stato ottenuto nel 1761 mediante il pagamento di duecento ducati), considerandolo estinto con il passaggio
di proprietà. Con sentenza del 1895, il tribunale diede regione ai congregati.
87
125
Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
VII. Antonio Sarnelli
A completamento di quanto finora esposto sul complesso dei Cinesi e sul patrimonio storico-artistico in esso contenuto, si ritiene utile fornire alcune notizie essenziali su Antonio Sarnelli, artista che
maggiormente ha lasciato tracce di sé nella chiesa della Sacra Famiglia, sia per quanto riguarda le opere
che i dati documentari. Ciò è oggi possibile grazie ad una approfondita ricerca sulla famiglia dei
Sarnelli, ormai in fase molto avanzata, che ha permesso non solo di ricostruirne, per la prima volta, la
vasta ed il più delle volte inedita produzione, ma anche di ottenere un’ampia messe di elementi biografici, laddove fino ad oggi mancavano persino dati fondamentali, quali i luoghi e gli anni di nascita e
morte90.
Domenico Antonio Sarnelli, figlio di Onofrio, Re d’Armi di Sua Maestà, e di Angela Viola, nasce a
Napoli, nel territorio parrocchiale di S. Anna di Palazzo il 17 gennaio 171291. Sulla scia del fratello maggiore Gennaro, promettente pittore formatosi nella bottega del De Matteis, ma morto all’età di soli 27
anni il 3 febbraio 173192, entra anch’egli nella stessa bottega assieme al fratello minore Giovanni93; ma
la giovanissima età dei due (rispettivamente 16 e 14 anni nel 1728, anno di morte del maestro) lascia
Le uniche scarne notizie biografiche su Gennaro, Antonio e Giovanni Sarnelli, ci sono fornite da Bernardo De Dominici,
Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani IV, Napoli 1742-45, p. 547, nel capitolo dedicato agli allievi di Paolo De Matteis:
«Gennaro Sarnelli, il quale studiò molto nella scuola di Paolo, ed avrebbe fatto gran profitto, mediante la sua naturale, e continua applicazione, ma per questa medesima divenne tisico nel più bel fiore degli anni suoi, e se ne passò presto all’altro
mondo. Vivono oggidì i suoi fratelli Antonio e Giovanni Sarnelli, che fanno onore al maestro, ed a loro medesimi, nelle opere
che dipingono con studio e con amore».
91
Arch. Parrocchiale di S. Anna di Palazzo, Libri dei Battezzati, XVIII (1700-1713), f. 229 r.
92
Gennaro morì il 3 febbraio 1731 (Archivio Parrocchiale di S. Marco di Palazzo, Libri dei defunti, VI, f. 80v.) e fu sepolto nella
chiesa di S. Croce di Palazzo. Del pittore, del quale a lungo si era ritenuto non ci fossero pervenute opere: v. ad es. Dizionario
enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani dal XI al XX secolo, X, Torino 1977, p. 165: «Sarnelli Gennaro (attivo a
Napoli nella seconda metà del XVIII secolo) fratello di Antonio e Giovanni, fu allievo di Paolo de Matteis; morì in giovanissima età; non si conoscono sue opere» – abbiamo di recente individuato tre tele firmate e datate, realizzate tra il 1727 ed il
1730 (Ugo Di Furia, Gennaro Sarnelli: un pittore ritrovato, cds. in «Napoli Nobilissima», 2007).
93
Nato il 23 giugno 1714 nel territorio parrocchiale di S. Marco di Palazzo (Archivio Parrocchiale di S. Marco di Palazzo, Libri
dei Battezzati, XII, f. 52 r.). Attivo dal 1738 al 1887, la sua produzione, per almeno la metà inedita, non fu tuttavia molto ampia,
avendo operato più spesso in collaborazione con Antonio. Nonostante un indubbio talento che lo portò a dipingere a livelli
di qualità che non lo discostano di molto dal fratello, molto più prolifico, e con il quale può essere facilmente confuso, non fu
mai pittore «a tempo pieno». Nel 1747 diventerà, infatti, «re d’armi» al posto del padre Onofrio (ASN, tesoreria generale antica, scrivania di razione e ruota dei conti, vol. 18, f. 2 r.) carica che manterrà fino alla morte che sopraggiunse il 27 maggio 1793
all’età di 79 anni. Fu sepolto nella Chiesa di Montecalvario (Archivio parrocchiale di S. Matteo, Libri dei defunti, 1779-1780,
f. 143v.).
90
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Ugo Di Furia
dedurre che il periodo di apprendistato fu piuttosto breve.
Il 7 luglio 1741 sposa Caterina Grillo, la cui sorella Maddalena convolerà a nozze circa sei mesi
dopo con il cognato Giovanni94. Fino al 1760, anno in cui Caterina muore in conseguenza dell’ultimo
parto (la coppia ebbe dodici figli di cui diversi morti prematuramente), i due fratelli coabiteranno con
le rispettive famiglie95, insieme anche al fratello maggiore Ferdinando, segretario e razionale del Banco
di S. Giacomo. Nel 1762 sposa in seconde nozze Elisabetta D’Aprile, dalla quale avrà altri sette figli.
Morirà nei primi mesi dell’anno 1800 (non abbiamo la data precisa ed il luogo della morte) alla veneranda età di 88 anni.
L’ampia produzione di Antonio, che si è realizzata in un arco di oltre sessant’anni attraversando la
gran parte del XVIII secolo96, si svolse spesso in collaborazione con Giovanni, con il quale dovette costituire una sorta di bottega97.
Tale attività si espresse sopratutto nell’ambito di una pittura di soggetto religioso98, ben adattandoArchivio Storico Diocesano, processetti matrimoniali, anno 1741, lettera D e anno 1742, lettera G.
In circa 20 anni cambieranno più volte abitazione senza però mai abbandonare la zona fra S. Anna di Palazzo e Pizzofalcone.
Probabilmente privi di una vera e propria bottega, esercitavano in casa la loro attività.
96
Per una parziale panoramica sulle opere di Antonio Sarnelli vedi al momento: Pietro Napoli Signorelli, Gli artisti napoletani della seconda metà del secolo XVIII, in «Napoli Nobilissima», III n. s. (1922), pp. 26-27 (si tratta della pubblicazione di un
manoscritto inedito del 1798 sugli artisti del Regno di Napoli al tempo di Ferdinando IV, integrato da note di Giuseppe Ceci);
Giuseppe Ceci, Sarnelli Antonio, in Ulrich Thieme, Felix Becker, Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler, Lipsia 1935,
XXIX, p. 468; Rosario Pinto, Storia della pittura napoletana, Napoli 1997, pp. 226-227; Umberto Fiore, Presenze pittoriche
nell’Agro in Mario Alberto Pavone (a c. di), Angelo e Francesco Solimena nell’Agro Nocerino-Sarnese tra continuità ed alternative, Salerno 2002, pp. 63-100; Ugo Di Furia, Due opere inedite di Antonio Sarnelli in Santa Maria del Pozzo, in «Summana»,
63, 2005, pp. 14-19; Antonio Braca, La pittura del sei-settecento nell’Agro Nocerino Sarnese. Il Settecento in Antonio Braca,
Giovanni Villani, Carmine Zarra (a c. di), Architettura ed opere d’arte nella Valle del Sarno, cit., pp. 385-430. La prima opera
conosciuta di Antonio è una inedita Madonna con Bambino in collezione privata; di piccole dimensioni; fu eseguita su rame
all’età di 19 anni ed è firmata e datata 1731. (Una tela dello stesso anno raffigurante una Madonnina fu segnalata da Franco
Strazzullo nella chiesa di S. Arcangelo a Baiano, ma risulta dispersa: Franco Strazzullo, Postille alla “Guida Sacra della città di
Napoli” del Galante, Napoli 1962, p. 8).
97
La ricostruzione dell’attività dei Sarnelli, anche dal punto di vista cronologico, è agevolata dalla puntualità con la quale essi
firmano e datano quasi costantemente le loro opere. I quadri «di bottega», cioè frutto della collaborazione di Antonio e
Giovanni, sono facilmente riconoscibili in quanto firmati con il solo cognome, senza anteporre cioè la sigla del nome di bat94
95
tesimo (Antus e Gionni). Tutto ciò ha in passato spesso ingenerato confusione nelle attribuzioni, assegnando il più delle volte
ad Antonio anche opere eseguite da entrambi o addirittura firmate dal fratello. Il sodalizio, iniziato nel 1735 con le dieci tele
di soggetto religioso del Museo di Taverna (Catanzaro), si concluderà nel 1781 con la Madonna e Santi della chiesa di S.
Francesco a Matera. Il primo ad intuire il significato dalla firma apposta con il solo cognome è stato Gianluigi Trombetti in
uno dei rari articoli dedicati ai Sarnelli: I Sarnelli e la chiesa della Maddalena in Memorie riscoperte. Mostra di Opere d’Arte
Restaurate dalle chiese della Maddalena e del Carmine, Morano Calabro 1995, pp. 111-114.
98
Nicola Spinosa, Pittura sacra a Napoli nel ‘700, Napoli 1980, pp. 15-16.
127
Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
si a quel gusto definito «devozionale», mescolando sapientemente lo stile dematteisiano del maestro, a
sua volta ricco di influssi giordaneschi, alle più attuali connotazioni solimenesche e demuriane.
Nonostante una certa ripetitività, tipica d’altronde degli artisti «minori», Antonio Sarnelli seppe affinare una tecnica di buon livello che si espresse sia su tela che in affresco e persino a guazzo, realizzando Angeli, Madonne e figure di santi di aspetto delicato, talvolta anche piuttosto lezioso, che dovettero
trovare un discreto successo, soprattutto fra coloro che nella raffigurazione ricercavano principalmente l’elemento mistico e l’invito alla preghiera. Le sue tele, ebbero un’ampia diffusione in tutte le province del Regno. Le troviamo nell’area vesuviana come nell’Agro Noverino-Sarnese, nella zona di Caserta
e di Benevento, e ancora nel Cilento come in Calabria e Basilicata e persino in Abruzzo (Villamagna) e
nel Lazio (Itri). Ma se la committenza della Provincia e dei centri minori, meno abbiente e soprattutto
meno esigente, può apparire tutto sommato scontata per un pittore ritenuto di secondo piano rispetto alle grandi figure di artisti che operavano nella capitale, appare, al contrario, sorprendente constatare quanto sia stata vasta e variegata la produzione destinata a chiese e monasteri napoletani99. Oltre
all’infaticabile attività su tela, non furono poche le occasioni in cui Antonio Sarnelli si cimentò anche
nella tecnica dell’affresco, talvolta con risultati tutt’altro che trascurabili, come nel Trionfo della Chiesa
sull’Eresia nel soffitto della biblioteca della casa professa dei Gesuiti di Napoli (oggi Istituto magistrale
Pimentel Fonseca) eseguiti nel 1750 in collaborazione con Giovanni100.
Il soggetto religioso, come è stato detto, fu il tema prevalente nell’attività artistica di Antonio che,
insieme alle grandi pale realizzate per chiese e cappelle, si assicurò anche un mercato parallelo rivolto
ai privati, testimoniato dalla frequente presenza sul mercato antiquario di opere di piccole dimensioni,
talvolta anche su rame o tavola, sempre di soggetto mistico, ma destinate alle pareti domestiche.
Eppure, sebbene più di rado, Antonio si cimentò anche in temi profani, come testimoniano alcune tele
di recente passate sul mercato antiquario e, soprattutto, il ritrovamento di numerosi documenti, inediti ma di prossima pubblicazione, che attesrano i lavori eseguiti per i palazzi di importanti famiglie
Tele di Antonio Sarnelli sono disseminate in un numero amplissimo di complessi religiosi di ogni ordine. Come dato puramente orientativo ne diamo qui un elenco largamente incompleto: S. Maria del Carmine, Rosario di Palazzo, S. Pasquale, S.
Pietro Martire, SS. Marcellino e Festo, S. Caterina a Chiaia, S. Giuseppe dei Ruffi, Gesù e Maria, S. Giuseppe a Chiaia,
Concezione al Chiatamone, S. Pietro ad Aram, S. Giuseppe dei Vecchi, S. Francesco degli Scarioni, S. Maria del Popolo agli
Incurabili, S. Maria delle grazie a Caponapoli, S. Gregorio Armeno, S. Antonio a Port’Alba, S. Lucia al Monte.
100
Per quanto ne sappiamo, l’attività come freschista fu esercitata prevalentemente a Napoli. Altri esempi sono in S. Maria degli
Angeli a Pizzofalcone (1743), nella cappella D’Avalos in S. Anna dei Lombardi (1772), a S. Chiara (1770 e 1779) e S. Pietro
Martire (quelli in S. Chiara e a S. Pietro Martire vennero distrutti dagli eventi bellici nel 1943).
101
Ci riferiamo a varie polizze di pagamento che si aggiungono a quelle già pubblicate dal Rizzo, riguardanti lavori per il
Palazzo del duca Spinelli di Laurino in Via Tribunali (Vincenzo Rizzo, Documenti sul Palazzo Spinelli, in «Napoli Nobilissima»,
XXVII n. s. (1988), pp. 216 e 218) e il palazzo del duca Baldassarre Coscia (oggi Partanna) nell’odierna Piazza dei Martiri
(Vincenzo Rizzo in Nicola Spinosa (a c. di), Le arti figurative a Napoli, Napoli 1979, p. 232, doc. n. 35).
99
128
Ugo Di Furia
napoletane101. Ciò si realizzò soprattutto tra la metà degli anni ’40 e i ’50, periodo sicuramente molto
felice per l’artista, in cui più fresche erano le reminiscenze del breve apprendistato dematteisiano e
forti, contemporaneamente, dovevano essere le spinte dettate dalla prepotente ascesa del De Mura.
Dopo le prime timide committenze napoletane per il Rosario di Palazzo e S. Pietro Martire, intervallate da alcune felici prove extracittadine102, una svolta decisiva per la carriera di Antonio fu rappresentata dall’importante incarico ricevuto dal duca Baldassarre Coscia e dal di lui fratello, il cardinale
Niccolò, che alla metà degli anni ’40 iniziarono la costruzione del loro palazzo fuori la porta di Chiaia,
sotto la direzione del regio ingegnere Mario Gioffredo. I lavori durarono circa dieci anni, e Antonio,
con l’aiuto di Giovanni, vi fu impegnato dal 1748 al 1751. Purtroppo dei loro dipinti realizzati sia in
affresco che a guazzo, e di cui conosciamo in buona parte i soggetti, non restano che poche tracce103. Ma
alcune tele provenienti dallo stesso edificio, recentemente comparse sul mercato, stanno a testimoniare il buon livello che essi dovettero raggiungere ed il discreto successo che ne conseguì104. Fu così che nel
1750 arrivò l’importante incarico per la Biblioteca della Casa Professa dei Gesuiti di Napoli a cui abbiamo già accennato, dove forti sono i riferimenti all’opera di analogo soggetto relizzata dal De Matteis
per la chiesa di S. Ferdinando. Seguirono a breve distanza di tempo altri incarichi significativi presso
le chiese dei SS. Marcellino e Festo, a S. Pasquale a Chiaia (con ben quattro tele) e all’Annunziata di
Capua, dove contemporaneamente ad Antonio lavorarono Francesco De Mura, Sebastiano Conca,
Alessio d’Elia e Paolo de Majo105.
Tra le prove più significative nel corso degli anni seguenti ci limitiamo a citare alcune opere napoletane quali la dolcissima Madonna dell’Ulivo in S. Giuseppe dei Ruffi (1759), gli otto ovali con Virtù
della Concezione al Chiatamone (1760) e le due tele, Annunciazione e Sogno di S. Giuseppe, nella conIn assoluto il primo quadro d’altare di Antonio risale già al 1733 e si trova in una sala interna al convento di S. M. del
Carmine di Napoli. La firma e la data sono state chiarite da un recente restauro. In precedenza il quadro, raffigurante la Vergine
fra i SS. Giovanni Battista ed Evangelista era stato assegnato erroneamente a Giovanni per la contemporanea presenza in chiesa di alcuni dipinti firmati da quest’ultimo: vedi Aurora Spinosa, in Nicola Spinosa (a c. di), Gennaro Aspreno Galante – Guida
sacra… cit., p. 203, nota 48. Per quanto riguarda il Rosario di Palazzo: Renato Ruotolo, Notizie inedite sulla chiesa del Rosario
di Palazzo in «Napoli Nobilissima», XVI n. s. (1977), pp. 60-65.
103
Ciò è dovuto ai rifacimenti dell’edificio avvenuti nel secolo successivo ed ai gravi danni subiti nell’ultimo conflitto mondiale; i restauri del dopoguerra eseguiti dal pittore Ezechiele Guardascione, finirono per ricoprire quasi completamente quanto di superstite era rimasto.
104
Ci riferiamo in particolare ad una Divina Pastora di notevoli dimensioni (cm. 170 x 117) erroneamente transitata sul mercato come S. Genoveffa. (Semenzato Venezia, 27 febbraio 2005, lotto 6). Del quadro, firmato Sarnelli 1748, fu pubblicato nel
1979 il relativo documento di pagamento da Vincenzo Rizzo ( Le arti figurative …, cit., p. 232, doc. n. 35). Sette anni dopo,
Antonio (stavolta da solo: Ant.us Sarnelli 1755) dipingerà nuovamente lo stesso soggetto per la chiesa di S. Caterina a Chiaia,
nella quale tornerà a più riprese.
105
Per quanto riguarda i documenti relativi alle tele dell’Annunziata di Capua vedi Mario A. Pavone, Pittori napoletani del
‘700, nuovi documenti, Napoli 1994, p. 44-45.
102
129
Arte e storia nella Chiesa e Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi
trofacciata di S. Giuseppe a Chiaia (1765).
Nel 1769, anno in cui il pittore realizzò la pala per la chiesa della Sacra Famiglia, era da poco reduce da un’altra importante committenza ricevuta dal duca Spinelli di Laurino. Nel palazzo di Via
Tribunali, Antonio, tra il 1767 ed il 1768 oltre ad affrescare la cappella privata e a dipingere i soffitti di
alcune stanze, realizzò anche gli affreschi della scala, utilizzando i disegni eseguiti da Jacopo Cestaro106.
Essi rappresentano due figure allegoriche (Pietas ed Eruditio) appena leggibili, in quanto versano purtroppo in pessime condizioni di conservazione.
Nel 1772 ancora una prova ad affresco (probabilmente una delle ultime), stavolta nella cappella
D’Avalos della chiesa di Monteoliveto, con un’Annunciazione ed una Fuga in Egitto, inserite fra i
Quattro Evangelisti. In questo stesso anno, il pittore inviò una supplica al Re chiedendo di poter essere
inserito nel gruppo di artisti che di lì a poco avrebbe atteso ai lavori della costruenda Reggia di Caserta.
Dai carteggi tra il Marchese Tanucci ed il direttore dei lavori Luigi Vanvitelli deduciamo che alla richiesta fu opposto un rifiuto, probabilmente per il giudizio negativo espresso dallo stesso Vanvitelli107. Ma,
nonostante lo smacco, le richieste di lavoro non subirono alcuna flessione; al contrario, per tutto il
decennio, e fino ai primi anni ’80, Antonio si dimostrò estremamente prolifico, lavorando soprattutto
per la provincia, ed aiutato dai prezzi, sempre piuttosto contenuti, delle sue opere. Ma con il passare del
tempo, la sua produzione, sostanzialmente sempre uguale a sé stessa, incapace di adeguarsi alle novità
e di rispondere ai profondi mutamenti che si erano imposti già da alcuni decenni nel dinamico panorama artistico nazionale, finì per allontanare anche la clientela più tradizionalista e meno sensibile al
rinnovamento.
Il caso di palazzo Spinelli è più fortunato in quanto sopravvivono, sebbene molto guasti, gli affreshi della volta della cappella, ed in condizioni discrete, al piano nobile, un soffitto con il Trionfo della Fede. Un altro dato interessante ci viene rivelato da un documento inedito riguardante gli affreschi della scala che si riteneva fossero stati dipinti da Jacopo Cestaro. Infatti,
era già stato ritrovato dal Rizzo un documento di pagamento di ducati 63.2.10 a quest’ultimo artista per aver eseguito, tra
l’altro, «due disegni di figure o siano Virtù fatte nella grada»: Documenti sul Palazzo Spinelli …, cit, pp. 216 e 218. In realtà,
così come è indicato nella causale di pagamento, il Cestaro si limitò a realizzare soltanto i disegni, in quanto l’esecutore materiale degli affreschi fu Antonio Sarnelli: Banco di S. Giacomo, giornale di cassa, mtr. 1738, 26 settembre 1768, p. 305, 5987: «
A D. Troiano Spinelli duca di Acquara Ducati trenta a fede 13 settembre 1768 e per esso a Don Antonio Sarnelli e sono per
le pitture di figure da lui fatte nella scala nobile di suo palazzo che sta fabbricando ad Arco, ed alcuni disegni di puttini per
detto suo palazzo restando intieramente soddisfatto senza dover altro conseguire in detta sua né qualunque altra causa però
li pagherete con sua firma autenticata e per esso con autentica del Notaro Vincenzo Montella di Napoli, a detto Todesco».
107
V. in particolare Nicola Spinosa, Luigi Vanvitelli e i pittori attivi a Napoli nella seconda metà del Settecento: lettere e documenti inediti, in «Storia dell’Arte», 14, 1972, p. 290.
106
130
Ugo Di Furia
Gli anni finali della carriera di Antonio vedranno così il progressivo diradarsi della produzione che
sarà sempre di più caratterizzata da composizioni cupe e monocordi, costruite con figure perennemente congelate nelle medesime ripetitive fisionomie, in una lenta agonia che si trascinerà fino ai due ultimi quadri dei Cinesi.
131
意大利马国贤与中国学院研究在中国
中国社会科学院
歷史研究所
万明
中国与意大利,两国之间的文化联系源远流长。中国的知识传统引人注目地传入意大利,
应该说是始自马可·波罗,而西方的知识传统进入中国宫廷,则始自利玛窦。从知识传递的谱
系来说,马国贤是利玛窦的一个重要的继承者。他于清康熙年间来华,是经罗马教廷传信部派
遣,教皇特使多罗推荐,进入清宫服务的3名非耶稣会士之一。他不仅在绘画方面为西方铜版
画传入中国做出了贡献,而且在清宫中生活了13年,具有教士,画家,翻译和宗教与文化传播
者多重身份。与利玛窦不同的是,利玛窦为文化传播献身,从此没有能再踏上故国的土地,而
马国贤于雍正初年归国后,历尽艰辛,在故乡意大利那不勒斯创办了欧洲第一所中国学院。他
们殊途同归,作为文化交流的中介人,为中西文化交流与传播做出了重要贡献。
关于马可·波罗和利玛窦,在中国已经家喻户晓,有着丰硕的研究成果。马国贤与他所创办的
中国学院的研究,迄今为止已经过了半个多世纪的历程,下面根据目前所见的有关材料,对马
国贤于中国学院研究在中国情况做一简略回顾,概述如下1。
1
需要说明的是,由于马国贤是罗马教廷传信部派遣来华的传教士,一些关于礼仪之争和基督教传教史论著,如罗
光《教廷与中国使节史》、《阎宗临史学文集》等大都对他有所涉及,但是一般来说不属于对马国贤与中国学院的
研究,故在此均未收录。
Le ricerche in Cina sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
WAN MING
Istituto storico dell’Accademia
Cinese di Scienze Sociali
Le relazioni culturali tra Cina e Italia hanno una storia molto lunga. È stato Marco Polo il primo
ad attirare la generale attenzione dell’Italia sul livello delle conoscenze e delle usanze cinesi, mentre le
scienze e le tradizioni occidentali sono entrate nella corte del Paese di Mezzo grazie a Matteo Ricci.
Sotto il profilo dell’albero genealogico dei diffusori delle scienze [occidentali], Ripa è un importante
successore di Ricci. Egli giunse in Cina al tempo dell’imperatore Kangxi della dinastia Qing, inviato
dalla romana Congregazione de Propaganda Fide (教廷传信部), raccomandato da Duoluo (多罗)
[Carlo Tommaso Maillard de Tournon] ambasciatore straordinario e plenipotenziario del papa
(Jiaohuang teshi 教皇特使). Fu uno dei tre non appartenenti alla Compagnia di Gesù al servizio della
corte mancese. Durante i 13 anni di permanenza alla corte dei Qing, egli non solo contribuì ad introdurre in Cina la pittura ad olio e l’incisione occidentale all’acquaforte su rame, ma dimostrò una complessa personalità di missionario, pittore, traduttore e diffusore di religione e cultura. Egli fu diverso
dal Ricci, in quanto questi si dedicò alla diffusione della cultura e non ritornò mai nel suo paese natale, mentre il Ripa all’inizio del regno di Yongzheng fece ritorno in patria. Dopo aver sofferto molte difficoltà, finalmente fondò il Collegio dei Cinesi a Napoli, che fu il primo in Europa. Il loro itinerario fu
diverso, ma il risultato fu uguale: sono stati mediatori di relazioni culturali e hanno dato un contributo importante alla diffusione e allo scambio tra la cultura cinese e quella occidentale.
Per quando riguarda Marco Polo e Matteo Ricci, in Cina sono molto famosi dappertutto e sono
stati oggetto di molti studi. Le ricerche su Ripa e il suo Collegio dei Cinesi sono iniziate più di mezzo
secolo fa e qui di seguito sono elencate le ricerche che noi conosciamo, le quali possono riassumere la
situazione degli studi su Ripa e sul Collegio dei Cinesi in Cina1.
È necessario spiegare che il missionario Matteo Ripa fu mandato in Cina dalla Sacra Congregazione de Propaganda Fide e alcuni libri relativi alla questione dei riti [cinesi] e alla storia della diffusone del cristianesimo, come le opere di Luo Guang, Storia dei
rapporti diplomatici tra il Vaticano e la Cina, Raccolta di studi storici di Yan Zonglin, riguardano appunto il Ripa, ma di solito questi libri non riguardano gli studi su Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi, pertanto in questo saggio non ne parliamo.
1
意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
二、研究的开拓阶段
中国关于意大利马国贤与中国学院的研究,主要由方豪先生所开创,开始于半个多世纪
以前的20世纪30年代。方豪先生在研究中国天主教史时开始关注到马国贤与中国学院。1936
年方豪先生于《磐石杂志》第四卷第一、二期(1936年1-2月)发表《中国初期留
学史拾遗》一文,对留学发起人的事迹作了专门研究论述,其中着重对马国贤创办圣家书院
,也即中国学院,以及学院的中国留学人员如郭栋臣等进行了研究。他指出,1890年洪勋
《游历闻见录》卷十三专章谈到《中国修院》,是中国人关于中国学院最早的记述。方豪先
生此文后经两度修改,定名为“同治前欧洲留学史略”,收入《方豪六十自订稿》上册,196
9年在台湾出版。
1936年,还有傅任敢“雍正年间意大利的中国书院”一文,发表在《中华教育界》第23
卷9期,文中简略介绍了马国贤于清朝雍正年间在意大利创办中国学院的事迹,以及中国学院
的大致情况。
20世纪70年代,方豪先生著《中国天主教史人物传》,于香港公教真理学会出版。其中
《马国贤传》,是在全面收集中外文献资料基础上对作为传教士的马国贤的生平事迹的系统
研究论述。这部书于1988年在北京由中华书局再版,在中国学术界有相当大的影响,成为中
国学者研究马国贤和中国学院的必读书。
70年代初,郭永亮发表“那不勒斯中国学院创办人马国贤在华史简介”一文于《大陆杂
志》第44卷5期,比较全面地论述了马国贤在华活动以及回国后创办中国学院的历程。作者高
134
万 明 / Wan Ming
I. Gli studi nella fase iniziale
In Cina, è stato il signor Fang Hao 方豪 ad iniziare più di mezzo secolo fa, negli anni Trenta del
Novecento, le ricerche sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi nel contesto della storia del cattolicesimo cinese. Nel 1936, egli pubblicò il saggio 中国初期留学史拾遗 Zhongguo chuqi liuxueshi
shiyi («Storia dei cinesi che hanno studiato all’estero nel primo periodo») nel quarto volume (gennaio
e febbraio 1936) della rivista 磐石杂志 Panshi zazhi («Rivista di antichità»), dove descrisse i pionieri
cinesi che si formarono nei paesi stranieri e trattò di Ripa e del Collegio della Sacra Famiglia da lui fondato, cioè il Collegio dei Cinesi, e degli studenti cinesi che vi soggiornarono, come Guo Dongchen
郭栋臣 ed altri. Egli sostenne che il primo a parlarne fu Hong Xun 洪勋 nel tredicesimo capitolo intitolato 中国修院 Zhongguo xiuyuan («Il seminario cinese») del libro 游历闻见录 Youli wenjianlu
(«Cose viste e sentite nei viaggi»). Fang sottopose a revisione due volte il suo saggio, dandogli il nuovo
titolo di 同治前欧洲留学史略 Tongzhi qian Ouzhou liuxue shilüe («Storia dei cinesi che studiarono in
Europa prima dell’imperatore Tongzhi»), inserito nel primo volume 方豪六十自定稿, Fang Hao liushi zidinggao («Scritti scelti per i 60 anni di Fang Hao) pubblicato a Taiwan nel 1969.
Nel 1936 apparve anche il saggio su 雍正年间意大利的中国书院 Yongzheng nianjian Yidalide
Zhongguo shuyuan («Il Collegio dei Cinesi in Italia negli anni dell’imperatore Yongzheng») di Fu
Rengan 傅任敢, pubblicato nel nono numero del XXIII volume di 中华教育界, Zhonghua jiaoyujie
(«Mondo educativo cinese»), il quale presentava in sintesi l’iniziativa di Matteo Ripa di fondare il
Collegio dei Cinesi in Italia negli anni dell’imperatore Yongzheng della dinastia Qing, descrivendo
sommariamente la situazione del Collegio.
Negli anni Settanta del XX secolo, Fang Hao scrisse 中国天主教史人物传 Zhonguo Tianzhujiaoshi
renwu zhuan («Le biografie dei personaggi eminenti nella storia del cattolicesimo cinese»), pubblicato
dall’Accademia della religione della verità a Hong Kong. In questa opera compare la biografia di Matteo
Ripa, dove l’Autore espone i fatti relativi alla vita del sacerdote Matteo Ripa sulla base di dati estratti da libri
cinesi e da libri stranieri. Questo libro, che è stato ripubblicato dalle 中华书局 Zhonghua shuju («Edizioni
cinesi») nel 1988 a Pechino, ha esercitato una grande influenza sugli ambienti accademici cinesi ed è diventato un riferimento d’obbligo per gl’intellettuali cinesi, che studiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi.
All’inizio degli anni Settanta, Guo Yongliang 郭永亮 pubblicò 那不勒斯中国学院创办人马国贤
在华史简介 Nabulesi Zhongguo Xueyuan Chuangbanren Ma Guoxian zai Hua shi Jianjie («Breve storia
del soggiorno in Cina di Matteo Ripa, fondatore del Collegio Cinese a Napoli») nel quinto numero del
XLIV volume della «Rivista della Cina continentale» un saggio, dove si racconta con più che sufficiente precisione l’attività di Ripa in Cina e le vicende che portarono, dopo il suo ritorno in Italia, alla fondazione del Collegio dei Cinesi. L’autore ha valutato molto positivamente il contributo dato da Ripa
135
意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
度评价了马国贤对中西文化交流所作的贡献,指出:“假若我们从历史方面,看每一个国家对
中西文化交流工作所作重要的贡献与影响,意大利方面则马国贤的事迹,是不可不提的”。
二、研究的发展阶段
20世纪80年代中国改革开放以后,中国学者对于中西文化交流史,特别是16-
18世纪中国与欧洲直接接触时期来华西方传教士的研究开展起来。80年代以来,对于16-
18世纪耶稣会士及其他传教士来华活动,并由此产生的西方绘画对中国画坛的影响等有关课
题,已经引起了中国学者的重视。
20世纪90年代左右,随着中西文化交流史研究的不断趋于升温,中国学者对马国贤与中
国学院的研究进入了发展阶段。这一阶段的特点表现在两个方面:一方面是研究论著和翻译
增多,另一方面是相关重要中文文献的整理出版,两方面结合,推动了学术研究的向前发展
。下面按照时间顺序,分别加以概述。
(一)、研究论著与译著:
研究进入了发展阶段,首先表现在翻译西方文献方面,20世纪80年代末至90年代初,英
文本马国贤回忆录由邢维贤和刘晓明部分地翻译成中文,在《承德民族师专学报》和《紫禁
城》杂志上连载,现据笔者所见胪列如下:
马国贤神父回忆录-清宫服务十三年/邢维贤译 承德民族师专学报.1986,(4)
马国贤神父回忆录-清宫服务十三年/邢维贤译 承德民族师专学报.1987,(1)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(一)/刘晓明编译 紫禁城.-1989,(1)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(二)/刘晓明编译 紫禁城.-1989,(2)
136
万 明 / Wan Ming
allo scambio culturale sino-occidentale, affermando: «Sotto l’aspetto storico, vediamo che tra quanti
hanno operato per lo scambio culturale tra Cina e Occidente, sicuramente l’azione dell’italiano Matteo
Ripa è stata importante sia per l’influenza che ha esercitato e sia per il contributo che ha dato».
II. Lo sviluppo degli studi
Negli anni Ottanta del XX secolo, dopo la politica dell’apertura e delle riforme, gli storici cinesi
studiosi dello scambio culturale sino-occidentale, hanno sviluppato le ricerche soprattutto sul contributo diretto dei missionari venuti in Cina nel periodo tra il XVI e il XVIII secolo. Dopo gli anni
Ottanta, l’attenzione dei suddetti studiosi si è rivolta all’attività dei Gesuiti e dei missionari delle altre
comunità religiose nei secoli XVI-XVIII, in particolare al tema della nascita dell’influenza della pittura
occidentale sulla pittura cinese.
Negli anni Novanta del XX secolo, mentre lo studio della storia dello scambio culturale sino-occidentale s’intensificava, hanno fatto progressi anche le ricerche su Matteo Ripa ed il Collegio dei Cinesi.
Due sono gli aspetti caratterizzanti questo periodo: in primo luogo, la mole delle traduzioni e dei libri
di ricerca; in secondo luogo, la pubblicazione e la classificazione di importanti documenti in lingua
cinese; i due aspetti confluiscono, imprimendo una forte spinta allo sviluppo degli studi accademici.
Qui sotto seguono in ordine cronologico e in forma sintetica:
1) le traduzioni e i libri di ricerca
Lo sviluppo prima di tutto delle traduzioni dei testi occidentali si è registrato dalla fine degli anni
Ottanta all’inizio degli anni Novanta del XX secolo: la traduzione parziale in cinese delle memorie in
lingua inglese di Matteo Ripa è stata eseguita da Xing Weixian 邢维贤 e da Liu Xiaoming 刘晓明 e
pubblicata a puntate sulle riviste 承德民族师专学报 Chengde Minzu Shizhuan Xuebao («Giornale
accademico del Collegio degli insegnanti di Chengde per nazionalità») e 紫禁城 Zijin Cheng («La città
proibita»), di cui diamo sotto i titoli:
Memorie del padre Matteo Ripa. Tredici anni di servizio nella corte dei Qing, tradotte da Xing
Weixian, in 承德民族师专学报, 1986 (4).
Memorie del padre Matteo Ripa. Tredici anni di servizio nella corte dei Qing, tradotte da Xing
Weixian, in 承德民族师专学报, 1987(1).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1989 (1).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城,1989 (2).
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意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(三)/刘晓明编译 紫禁城.-1989,(3)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(四)/刘晓明编译 紫禁城.-1989,(4)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(五)/刘晓明编译 紫禁城.-1989,(5)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(六)/刘晓明编译 紫禁城.-1989,(6)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(七)/刘晓明编译 紫禁城.-1990,(1)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(八)/刘晓明编译 紫禁城.-1990,(2)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(九)/刘晓明编译 紫禁城.-1990,(4)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(十)/刘晓明编译 紫禁城.-1990,(5)
清宫十三年-马国贤神甫回忆录(十一)/刘晓明编译 紫禁城.-1990,(6)
1993年,耿昇译《明清间入华耶稣会士和中西文化交流》一书,由巴暑书社出版。这是
法国学者关于中西文化交流的一部论文集。其中,乔治﹒洛埃尔“入华耶稣会士与中国园林
风靡欧洲”一文,论及马国贤于1724年自中国返回意大利途经伦敦,马国贤将避暑山庄铜版
画带到英国,从而成为英国园林中国风格的发展基点。
在编译马国贤回忆录的基础上,刘晓明为《清代人物传稿》中撰写了《马国贤》,是关
于马国贤生平的一篇简传。收入《清代人物传稿》第七卷,上卷,1994年由中华书局出版。
由于马国贤对于中西绘画艺术交流的特殊贡献,关于马国贤绘画,特别是马国贤将铜版
画传入中国方面的研究,成为中国学者关注的一个热点。这方面主要有以下几篇论文:
莫小也“马国贤与避暑山庄三十六景图”,刊于《新美术》1997年第3期。论文根据台北
现存的一套铜版画《避暑山庄三十六景图》,参照中国同一主题与内容的木板组画,对马国
贤来华的绘画活动以及《避暑山庄三十六景图》铜版画的特点和价值作了初步探讨,认为马
国贤首先引进铜板技术到中国,并培养了第一批中国人学习铜板技法,他在中国绘画史上应
予以一定地位,是东西方美术交流史上的杰出人物。
沈定平“传教士马国贤在清宫廷的绘画活动及其与康熙皇帝关系述论”一文,刊于《清
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万 明 / Wan Ming
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城,1989 (3).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城,1989 (4).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1989 (5).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1989 (6).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1990 (1).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城,1990 (2).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1990 (4).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1990 (5).
Tredici anni di servizio nella corte dei Qing. Memorie del padre Matteo Ripa, tradotte da Liu
Xiaoming, in 紫禁城, 1990 (6).
Nel 1993, Geng Sheng 耿昇 tradusse dal francese la raccolta di saggi sullo scambio sino-occidentale intitolata I gesuiti venuti in Cina tra la dinastia Ming e la Qing e lo scambio culturale sino-occidentale, 明清间入华耶稣会士和中西文化交流, pubblicata dalla Società letteraria Ba Shu. Tra i saggi, il
testo di Giorgio Löhr 乔治 洛埃尔 «I gesuiti venuti in Cina e i giardini cinesi diffusi in Europa», tratta del ritorno di Ripa in Italia attraverso Londra nel 1724 e delle sue incisioni su rame del «Parco tra i
monti per evitare la calura estiva» lasciate in Inghilterra, che hanno costituito il punto di partenza per
la creazione dei giardini inglesi secondo la moda cinese.
Sulla base delle memorie di Ripa tradotte in cinese, Liu Xiaoming 刘晓明 ha scritto la voce Matteo
Ripa per la prima parte del VII volume delle Biografie di figure ragguardevoli della Dinastia Qing, pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Cina 中华书局.
Poiché Matteo Ripa ha contributo allo scambio culturale nel campo della pittura e soprattutto dell’incisione su rame da lui introdotta in Cina, questa tecnica è diventata il tema a cui gli studiosi cinesi
hanno dedicato maggiore attenzione. E i testi più importanti in materia sono i seguenti:
Mo Xiao 莫小, Matteo Ripa e l’incisione delle 36 vedute del Parco tra i monti per evitare la calura
estiva, saggio pubblicato nel numero 3, 1997, della rivista «Nuove Belle Arti». Sulla base di un confronto tra l’unica copia originale delle vedute incise su legno conservata a Taipei e il lavoro del Ripa,
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意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
史研究》1998年第1期。论文叙述马国贤进入清宫作为宫廷画师的过程,评价马国贤是将西洋
铜版画传入中国的第一人,并就马国贤在礼仪之争的态度、表现以及他与康熙皇帝、雍正皇
帝的关系进行了探讨。
李孝聪“马国贤与铜板康熙《皇舆全览图》的印制—兼论早期中文地图在欧洲的传布与
影响”一文,刊于台湾东吴大学《东吴历史学报》1998年第4期。论文指出马国贤对中国地图
在欧洲的传布,起了不可低估的作用。在论述了马国贤参与铜板康熙《皇舆全览图》印制的
经过以后,说明是他把铜板法印制地图的技术介绍给中国人,印制了铜板中国全图,并回传
西方,才孕育出欧洲人更加准确的东方地图。
柯孟德译《马国贤回忆录》的法文本,90年代由耿昇翻译成中文,可惜至今在商务印书
馆,尚未出版。这里应该提到的是,柯孟德于1988年第3期台北《艺术家杂志》刊登的中文论
文“比郎世宁更早来到中国的清廷艺术家马国贤”。由于作者是《马国贤回
忆录》的法文本翻译者,比较全面地论述了马国贤的艺术生涯。特别是文中发表了多幅图像
资料,包括:马国贤画像、原版存于台北故宫博物院的马国贤所刻《御制避暑山庄图詠》画
、原版存于巴黎国立图书馆的马国贤所刻《御制避暑山庄图詠》画、存于罗马芳济各会善本
堂的马国贤回忆录手稿之一,以及马国贤从意大利到英国的路线图和马国贤从澳门到北平路
线图等。此文为中国学者研究马国贤提供了宝贵的图像资料及其线索。
随着中国与意大利两国文化关系的发展,中西文化交流的主题在中国和意大利都成为研
究的热门课题。在意大利,1997年意大利那不勒斯东方大学主办“纪念马国贤逝世250周年国
际会议”,会后,由樊米凯教授和弗朗西斯科·德阿雷里教授合编《马国贤与中国学院》论
文集,于1999年出版于意大利那不勒斯。论文集中包括有中国学者的论文4篇:
罗红波、林岷“中国官方文献对马国贤的记载及中国对马国贤的研究”。
韩琦“从中西文献看马国贤在宫廷的活动”。
沈定平“马国贤在中国的绘画活动及其与康熙、雍正皇帝关系述论”。
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万 明 / Wan Ming
l’Autore dimostra il progresso indotto in Cina dall’italiano sia riguardo al disegno che alla tecnica dell’incisione.
Il saggio di Shen Dingping 沈定平, L’attività del missionario Matteo Ripa pittore alla corte dei Qing
ed il suo rapporto con l’imperatore Kangxi, pubblicato sul primo numero, 1998, della rivista «Ricerche
storiche sui Qing», oltre a ribadire che Ripa è stato il primo a introdurre in Cina la tecnica occidentale di incisione su rame, tratta della sua posizione sulla questione dei riti e del suo rapporto con gl’imperatori Kangxi e Yongzheng.
Il contributo di Li Xiaocong, Matteo Ripa e l’incisione su rame della “Carta generale dell’Impero” di
Kangxi, apparso sul numero 4, 1998, della «Rivista storica» dell’Università di Dongwu di Taiwan, si sofferma sulla diffusione e sull’influenza delle prime carte geografiche della Cina in Europa, sottolineando il ruolo importante che il Ripa ha giocato a questo proposito, elaborando il processo di stampa della
«Carta generale dell’Impero» di Kangxi, tecnica che insegnò ai cinesi; inoltre precisa che il Ripa dopo
il suo ritorno in Occidente offrì all’Europa un’immagine geografica più precisa dell’Oriente.
Negli anni Novanta Christophe Comentale 柯孟德 tradusse in francese le Memorie di Matteo Ripa,
che Geng Sheng volse in lingua cinese per le Edizioni Commerciali, le quali non le hanno ancora pubblicate. Il Comentale è famoso soprattutto per il saggio in cinese intitolato. Un artista alla corte dei Qing venuto in Cina prima di Giuseppe Castiglione: Matteo Ripa, pubblicato a Taipei sul numero 3, 1988, della «Rivista
degli artisti». Poiché l’autore conosce molto bene il Ripa attraverso le memorie da lui tradotte, ricordate
sopra, il testo è ricco di documenti e di immagini, come: il ritratto di Ripa, l’album delle 36 vedute del Parco
fra i monti per evitare la calura estiva, di cui il Comentale ha visto sia l’originale conservato nel Museo della
Città Proibita di Taibei sia l’altro originale custodito nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Egli ha visto anche
uno dei manoscritti contenenti le memorie del Ripa, depositato nel Sancta sanctorum dell’Ordine dei
Francescani a Roma; ha tracciato l’itinerario del missionario dall’Italia all’Inghilterra, dall’Inghilterra a
Macao e da Macao a Pechino, offrendo prezioso materiale agli studiosi cinesi di Ripa.
Mentre le relazioni culturali tra Italia e Cina diventavano più intense, anche il tema dello scambio
culturale sino-occidentale si è trasformato in un argomento di studio sia in Cina sia in Italia non più
limitato ad una piccola cerchia. In Italia, l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” organizzò un
colloquio internazionale in occasione del 250’ anniversario della morte di Matteo Ripa, del quale il
Prof. Michele Fatica e il Dott. Francesco D’Arelli pubblicarono gli atti nel 1999 sotto il titolo di Matteo
Ripa e il Collegio dei Cinesi.
Segnaliamo di questo testo quattro saggi, fra i quali quelli di Shen Dingping e di Li Xiaocong sono
stati già descritti in precedenza, in quanto ripubblicati in riviste cinesi con lo stesso titolo e poche
varianti, per cui citiamo solo gli studi che sono apparsi soltanto nel libro citato:
Luo Hongbo 罗红波 e Lin Min 林岷, Citazioni di Matteo Ripa nei documenti ufficiali cinesi e gli
studi in Cina su Matteo Ripa.
141
意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
李孝聪“马国贤与铜板康熙《皇舆全览图》的印制—兼论早期中文地图在欧洲
的传布与影响”。
由于论文集中文论文的后两篇已在本文前面述及,故下面对前两篇略作介绍。
罗红波、林岷“中国官方文献对马国贤的记载及中国对马国贤的研究”一文,从马国贤
来华的时代背景谈起,利用中国官方文献,对马国贤受教皇派遣来华,很快掌握了汉语,在
清宫中施展绘画才能,以及礼仪之争中的马国贤进行了比较全面的探讨,并且在论文的最后
部分涉及中国对马国贤的研究,在指出“在很长时间内,中国大陆对马国贤的作品翻译及对
他在华活动的研究几近空白”之后,总结了产生这种情况的原因,认为主要有改革开放前研
究受到限制,意大利与拉丁语言的障碍和中国的记载少三个方面。
韩琦“从中西文献看马国贤在宫廷的活动”一文,主要分为三个部分。论文以绝大部分篇
幅论述了马国贤与铜板印刷的传入中国和马国贤获准返回欧洲的事迹,并利用关于北京回民历
史的著作《冈志》中的记载,对马国贤在清宫中作为御用画家结识清朝宫廷回回医生赵世英,
就发生在他们之间的一段长篇对话中马国贤介绍给中国人的伊斯兰文化作了专门叙述。
在中国,1998年中国中外关系史学会与杭州大学主办了“中西文化交流史国际研讨会”
,会上,万明发表论文“意大利传教士马国贤与中西文化交流”,指出以往以中文发表的研
究论文不多,学术界对马国贤的研究大都集中在清宫中的绘画方面,缺乏全面考察。论文揭
示了马国贤在清宫中作为传教士、画家、翻译、和宗教与文化传播者的多重身份,全面地论
述了马国贤的生平事迹,提出应该加强传教士中的非耶稣会士的研究,并首次指出由于英文
节译本的失误,英语世界普遍存在对马国贤卒年的错误认识,应予澄清。此文后刊于黄时鉴
主编《东西交流论谭》第二辑,上海:上海文艺出版社2001年。同年,即1998年,万明访问
意大利那不勒斯东方大学,得到东方大学教授、《马国贤日志》的整理研究专家樊米凯教授
的帮助,见到现藏意大利威尼斯圣米切尔修道院的“中华书院学长郭栋臣等数人”为中国学
142
万 明 / Wan Ming
Han Qi 韩琦, L’attività di Matteo Ripa a corte attraverso i documenti cinesi e occidentali.
Luo Hongbo e Lin Min fanno il punto sulla situazione all’epoca in cui Ripa venne in Cina, inviatovi dal Papa, sul rapido apprendimento del cinese da parte del missionario italiano, sulla sua abilità di
pittore alla corte dei Qing, sulla sua partecipazione alla contesa sui riti. Nella parte finale le due studiose si soffermano sugli studi intorno a Ripa in Cina, precisando che per un lungo periodo di tempo nella
Cina continentale sono praticamente mancate le traduzioni e gli studi sull’attività di Matteo Ripa in
Cina e complessivamente ciò è stato causato da una difficile situazione, attribuibile, a giudizio di Luo
Hongbo e di Lin Min, al fatto che prima della politica di apertura e di riforme gli studi risentivano di
alcune restrizioni, inoltre fattori concorrenti erano la barriera della lingua italiana e di quella latina,
nonché la scarsità di documenti.
Il saggio di Han Qi, è diviso in tre parti. Nella prima e nella seconda parte l’Autore si dilunga sulla
calcografia in Cina e sul permesso di ritornare in Europa concesso al Ripa, mentre nella parte finale,
specialmente attraverso i documenti del Gang Zhi 冈志 – libro famoso sulla storia dei musulmani che
vivevano a Pechino – egli scrive che Ripa, mentre era pittore ufficiale alla corte di Qing, conobbe Zhao
Shiying 赵世英, medico ufficiale musulmano nella stessa corte, il quale ebbe con lui lunghi dialoghi e
lo introdusse alla cultura dei cinesi seguaci dell’Islam.
Nel 1998, la Società di ricerche storiche sui rapporti sino-occidentali e l’Università di Hangzhou
organizzarono in sinergia un Seminario internazionale sulla storia dello scambio culturale sino-occidentale, dove Wan Ming presentò un contributo sul tema Il missionario italiano Matteo Ripa e lo scambio
culturale sino-occidentale, col quale lamentava la scarsità delle pubblicazioni in cinese sull’attività complessiva del Ripa, limitandosi gli accademici a studiarne solo la figura di pittore di corte. Il saggio dimostrava che il Ripa era impegnato su diversi fronti: era prete, pittore, interprete e missionario. Wan Ming
invitava a intensificare gli studi sui missionari non appartenenti alla Compagnia di Gesù, precisando
per la prima volta che la traduzione inglese delle memorie di Ripa presentava inesattezze da correggere, come la data di morte. In seguito questo saggio fu pubblicato nel secondo volume della «Tribuna
dello scambio Oriente-Occidente», per le Edizioni di Lettere ed Arti, Shanghai 2001.
Nello stesso anno, cioè nel 1998, Wan Ming visitò a Napoli l’Università degli studi “L’Orientale”,
ottenendo l’assistenza del Prof. Michele Fatica, esperto dell’edizione integrale del Giornale di Matteo
Ripa, e nel convento di S. Michele in Isola a Venezia prese visione della petizione del direttore degli
studi del Collegio dei Cinesi, Guo Dongchen, e di altri collegiali, diretta all’inviato imperiale Xue
Fucheng 薛福成 sull’affare del Collegio. Ella ha utilizzato questo documento insieme ad altri di prima
mano su Ripa e sul suo Collegio per comporre il Breve saggio sul missionario italiano Matteo Ripa, pubblicato sul numero 2, 1999, della rivista «Cultura tradizionale e modernizzazione».
Matteo Ripa ha fondato il Collegio dei Cinesi, cioè l’istituto che ha preceduto l’Orientale di Napoli,
pertanto Yang Huilin 杨慧林 nel 1998 ha scritto il saggio L’Orientale di Napoli in Italia e lo studio del
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意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
院事递交清朝钦差大臣薛福成的《具禀书》,补充了有关马国贤与其创办的中国学院的第一
手资料,回国后发表《意大利传教士马国贤论略》一文,刊于《传统文化与现代化》1999年
第2期。
马国贤在那不勒斯创办的中国学院,即意大利那不勒斯东方大学的前身,对东方大学及
其汉学研究加以关注的,1998年有杨慧林的“意大利那不勒斯东方大学及其汉学研究”一文
,发表在《世界汉学》创刊号。此文简述了马国贤与那不勒斯东方大学的渊源关系,并对东
方大学的汉学研究现况作了概括的介绍,指出“多年以来,那不勒斯东方大学一直被视为意
大利的汉学研究中心”。
近年学者关注清代的欧洲留学生问题,有谭树林“清初在华欧洲传教士与中国早期海外
留学”,刊于《历史教学》2002年第6期;和肖朗“清代初期至中期的留欧学生及其教育”,
刊于《西北师大学报》2005年第2期,二文均概述清代中国人欧洲留学事迹,其中部分有关马
国贤的中国学院。
进入21世纪以后,马国贤回忆录英译本有了新的中译本。2004年,李天纲译《清廷十三
年:马国贤在华回忆录》于上海古籍出版社出版,正文后附有《康熙与罗马使节关系文书》
。译者李天纲是研究中西礼仪之争的专家,著有《中国礼仪之争》。在译本前面的“康乾中
梵交往及其世界史意义:《清廷十三年马国贤在华回忆录》导言”中,译者主
要就马国贤和“中国礼仪之争”以及清朝康熙时代的对外关系和对外交往礼仪等进行了论述
,特别指出尤其关于中国的报道大部分出于耶稣会士描述的情况下,马国贤的回忆录代表了
一种非耶稣会士的观点,它提供了当时最新的东方情况,描述了“康熙大帝”及其时代清廷
对外交往的许多细节,从而阐示了马国贤回忆录的重要学术价值。
144
万 明 / Wan Ming
cinese, pubblicato sul numero 1 del periodico «Lo studio del cinese nel mondo», ove rappresenta la
situazione odierna dello studio della lingua sinica nell’Orientale, precisando che «da tanti anni,
l’Orientale di Napoli è stato sempre il centro dello studio del cinese in Italia».
In questi anni gli studiosi hanno concentrato il loro interesse sul problema del soggiorno degli
europei venuti in Cina nell’epoca dei Qing e Tan Shulin 谭树林 ha scritto I missionari europei in Cina
all’inizio dei Qing e il primo periodo di soggiorno all’estero dei cinesi, pubblicato sul numero 6, 2002, di
«L’insegnamento della storia»; Tan, insieme con Xiao Lang 肖朗 autore de Gli studenti cinesi in Europea
per motivi di studio dall’inizio alla metà della dinastia Qing, pubblicato sul numero 2, 2005 del
«Giornale dell’Università Xibei Shi», racconta degli studenti cinesi in Europa per motivi di studio
durante la dinastia Qing e menziona anche il Collegio dei Cinesi di Matteo Ripa.
All’inizio del XXI secolo, nel 2004, è uscita una nuova traduzione in lingua cinese della memorie
di Matteo Ripa in inglese. La traduzione è opera di Li Tiangang 李天纲 e la casa editrice è quella dei
Libri Antichi di Shanghai; il titolo è, Tredici anni alla corte dei Qing. Ricordi di Matteo Ripa. Alla fine
della traduzione l’Autore aggiunge in appendice Documenti sulle relazioni tra l’imperatore Kangxi e
gl’inviati romani. Li Tiangang, infatti, è un esperto studioso delle dispute sui «riti cinesi», su cui ha
scritto un saggio intitolato La lotta intorno ai riti in Cina. La traduzione è preceduta da un’introduzione intitolata Le relazioni fra la Cina e il Vaticano da Kangxi a Qianlong e la loro importanza nella storia
mondiale, nella quale il traduttore sottolinea il ruolo rilevante svolto dal Ripa nella disputa sui riti
anche sotto il profilo diplomatico. Le sue memorie presentano un punto di vista non gesuitico e rendono la situazione nuovissima nell’Oriente di allora, danno conto dell’imperatore Kangxi e dei caratteri della diplomazia nella corte del tempo, mentre rivestono un valore importante nei circoli accademici.
2) Bibliografia sintetica essenziale sulla pubblicazione e classificazione di documenti in lingua
cinese:
Le pubblicazioni cinesi più importanti sull’argomento a partire dagli anni Trenta del XX secolo
sono le seguenti:
Archivio del Museo di Palazzo (a c. di), «Rivista decadica di documenti storici», nn. 1-39, Beiping,
Museo di Palazzo 1930-1931.
Museo di Palazzo, Documenti in fac-simile sulle relazioni tra Kangxi e gl’inviati di Roma, Beiping,
Museo di Palazzo 1932.
Xue Fucheng, Raccolta generale di Yong’An, Taipei, Casa Editrice in Lingua cinese 1971.
Xue Fucheng, Diario di un diplomatico in quattro paesi, Changsha, Casa Editrice del Popolo di
Hunan 1981.
Xue Fucheng, Diario di un diplomatico in quattro paesi: Inghilterra, Francia, Italia e Belgio,
Changsha, Casa Editrice Yuelu 1985.
145
意大利马国贤与中国学院研究在中国 / Le ricerche in CIna sull’italiano Matteo Ripa e il Collegio dei Cinesi
(二)相关重要中文文献整理出版略述
现将自20世纪30年代以后相关重要中文文献的整理出版胪列如下,以供参考:
故宫博物院《康熙与罗马使节关系文书影印本》北平:故宫博物院 1932
故宫博物院文献馆编《史料旬刊》1-39期 北平:故宫博物院1930-1931
薛福成《庸盦全集》 台北:华文书局 1971
薛福成《出使四国日记》 长沙:湖南人民出版社 1981
薛福成《出使英法义比四国日记》长沙:岳麓书社 1985
[俄] 尼古拉·班蒂什-卡缅斯基编著 《俄中两国外交文献汇编(1619-1792)》
北京:商务印书馆 1982
中国第一历史档案馆编《清代中俄关系档案史料选编》第一编 北京:商务印书馆 1982
中国历史档案馆编《康熙朝汉文朱批奏折汇编》 北京:档案出版社 1985
北京市政协文史资料研究委员会 编《北京牛街志书冈志》 北京:北京出版社 1990
中国历史档案馆编《康熙朝满文朱批奏折全译》北京:中国社会科学出版社 1996
中国第一历史档案馆编《英使马戛尔尼访华档案史料汇编》北京:国际文化出版公司 1996
刘托、孟白主编《清殿版画汇刊》北京:学苑出版社 1998
中国第一历史档案馆译编《雍正朝满文朱批奏折全译》 合肥:黄山书社 1998
曲延钧主编《中国清代宫廷版画》 合肥:安徽美术出版社 2002
中国历史档案馆、承德市文物局合编《清宫热河档案》北京:中国档案出版社 2003
《薛福成日记》(上下),蔡少卿整理2 长春:吉林文史出版社 2004
2
此本值得注意,是薛福成日记的原稿本,现藏南京图书馆。通过笔者对照刻本,发现关于中国学院的记载有所不
同,此本记载“余乃决计中缀,乃婉谢之”,查《出使英法义比四国日记》刻本无此,值得研究。
146
万 明 / Wan Ming
Nicola Pandic Kaminskij (a c. di), Raccolta di documenti diplomatici sulle relazioni tra la Russia e la
Cina (1619-1792), Pechino, Casa Editrice Shangwu 1982.
Primo Archivio Storico di Cina (a c. di), Selezione di documenti storici di archivio sulle relazioni
diplomatiche tra la Cina dei Qing e la Russia, I quaderno, Pechino, Casa Editrice Shangwu 1982.
Archivio Storico di Cina (a c. di), Selezione di decreti imperiali scritti in cinese con l’inchiostro rosso
durante il regno di Kangxi, Pechino, Casa Editrice Dang’An 1985.
Commissione per la ricerca di materiale storico-culturale del Consiglio della Municipalità di
Pechino (a c. di), Documenti storici relativi al quartiere musulmano di Pechino, Gang Zhi, Pechino, Casa
Editrice di Pechino 1990.
Archivio Storico di Cina (a c. di), Traduzione completa dei decreti imperiali scritti in mancese con
l’inchiostro rosso durante il regno di Kangxi, Pechino, Casa Editrice Cinese di Scienze Sociali 1996.
Primo Archivio Storico di Cina (a c. di), Selezione di documenti storici di archivio della legazione
dell’inviato inglese Macartney in Cina, Pechino, Società Editrice di Cultura Internazionale 1996.
Liu Tuo, Meng Bai (dir. di), Selezione di calcografie del laboratorio Qing, Pechino, Casa Editrice
Xueyuan 1998.
Primo Archivio Storico di Cina (trad. a c. di), Traduzione completa dei decreti imperiali scritti in
mancese con l’inchiostro rosso durante il regno di Yongzheng, Hefei, Casa Editrice Montagna Gialla 1998.
Qu Yanjun (dir. di), Calcografie della corte dei Qing in Cina, Hefei, Casa Editrice delle Belle Arti
dell’Anhui 2002.
Archivio Storico di Cina, Assessorato dei siti archeologici della municipalità di Chengde (a c. di),
Archivio del Parco imperiale di Jehol, Pechino, Casa Editrice Dang’An 2003.
Cai Shaoqing (a c. di), Diario di Xue Fucheng, voll. I e II, Changchun Casa Editrice di materiale
storico-culturale di Jilin 20042.
Traduzione in lingua italiana
di Zhang Haizi 张海兹
Attenzione: l’originale di questo libro ora è conservato nella Biblioteca Nazionale di Nanchino. Ho confrontato una copia di
questo libro con l’originale e, a mio giudizio, ho trovato che i due testi presentano differenze sul Collegio dei Cinesi di Napoli.
2
147
Iconografia
La famiglia,
le aderenze familiari,
l’ascesa sociale,
la caduta
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig.1. Fede di nascita di Giovanni
Filippo Ripa. Il testo recita: Il 21
maggio del 1636 fu battezzato da
me don Giovanni Tommaso Gallo,
parroco di questa Chiesa di S.
Nicola di Prepezzano e Ansa, il figlio
dei signori coniugi Diego Ripa, dottore in diritto canonico e civile, e di
Bonaventura Gallo, nato il 15 dello
stesso mese, a cui fu posto il nome di
Paolo Giovanni Filippo e colei che lo
sollevò dal fonte battesimale fu
Claudia Candicchia, moglie del
signor Liberato D’Alessandro.
Fonte: ASDSa, b Z 20: Prepezzano
ed Ansa, Parrocchia di S. Nicola,
libro dei battezzati dal 21 maggio
1636 al 10 maggio 1637.
Fig. 2. Composizione della famiglia
di Diego Ripa, nonno di Matteo,
abitante ancora in Prepezzano nel
1659: il padre di famiglia conta 55
anni, sua moglie Bonaventura
Gallo, conta 47 anni; seguono i figli
maschi Giovan Filippo, Scipione,
Domenico Antonio e la figlia femmina Felice (altrove nominata
anche: Felicia) rispettivamente di
anni: 23, 21, 15, 7.
Fonte: ASDSa, b Z 20: Prepezzano
ed Ansa, Parrocchia di S. Nicola.
153
I Sezione
Fig. 4
3. Una delle prime documentazioni della residenza in Eboli, in casa presa in affitto dal vicario della chiesa di S. Pietro Apostolo,
della famiglia di Giovan Filippo Ripa come viene registrata nel Liber tertius status animarum dell’anno 1675. Il testo recita: Nella
casa presa in affitto dal vicario della chiesa di S Pietro Apostolo abitano il dottor fisico Giovanni Filippo Ripa, padre di famiglia, figlio
di Diego, di anni 39; Antonia Luongo, sua moglie, figlia di Simeone, di anni 29; I loro figli: Tommaso, di anni 19; Mattia, di anni 17;
Pietro, di anni 3; Caterina, di anni 4; Faustina Cozzolino, figlia del fu Giacobbe, di anni 31, loro domestica.
Fonte: ASDSa, b. Y 33 (ora: b.): Eboli, Parrocchia di S. Maria ad Intra: 1657-1702.
Fig. 4, 5. Protocollo dell’atto notarile rogato in data 13 settembre 1669, ottava indizione, che assegna per un biennio a Giovanni
Filippo Ripa, padre di Matteo Ripa, la cura medica degli abitanti della terra di Eboli per un salario di duecento ducati annui erogati quadrimestralmente in rate di 66 ducati e grana 61. Per l’Università ebolitana i garanti sono i delegati del governo, magnifici Cesare Martuccio e Giuseppe De Clario.
Fonte: ASSa, Protocolli notarili, notaio Francesco Maria Maleno, atti del 1669.
154
Fig. 5
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
155
I Sezione
Fig. 6. Protocollo e testo
dell’atto rogato in data 4
settembre del 1671 che
conferma a Giovan Filippo
Ripa la cura medica degli
abitanti dell’università di
Eboli. I garanti per la comunità ebolitana sono
Giuseppe De Cristoforo e
Giuseppe De Clario. L’ufficio di medico fu confermato a Giovan Filippo Ripa per ancora sette bienni,
fino a quando nel 1885 fu
eletto maestro ed economo dell’ospedale dei poveri di Eboli.
Fonte: ASSa, protocolli
notarili, notaio Francesco
Maria Maleno, atti del
1671 e bienni seguenti.
156
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig. 7. Nei Libri parrocchiali della chiesa di S. Maria ad Intro sono contenuti gli stati delle anime con il registro dei battezzati,
coniugati e defunti, compilati da don Diego Troiano per essere consegnati alla curia vescovile di Salerno. Nell’anno 1682 si trova
la fede di battesimo di Matteo Ripa.
Fonte: ASDSa, b Y 33: Eboli, Parrocchia di S. Maria ad Intro.
157
I Sezione
Fig. 8. Fede di nascita e di battesimo di Matteo Ripa tratta dal libro dei battezzati, dei defunti, dei matrimoni e dello stato delle anime
del 1682. Recita il testo: Nell’anno del Signore 1682, 30 marzo, io canonico don Diego Troiano, economo di questa chiesa parrocchiale di S.
Maria de Intro, della terra di Eboli, battezzai un fanciullo nato il 29 dal dottor fisico Giovan Filippo Ripa e da Antonia Luongo, coniugi di
questa parrocchia, a cui fu posto il nome di Matteo, Bernerio, Secondo, la comare fu Bartolomea Austelli, figlia di Giovanni Battista di questa parrocchia.
Fonte: ASDSa, b Y 33: Eboli, Parrocchia di S. Maria ad Intro.
158
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig. 9. Uno dei primi documenti che testimoniano il grado dottorale acquisito da Mattia Ripa, fratello di Matteo, curato della chiesa parrocchiale di S. Maria ad Intro dal 1693: Stato delle anime e Libri Parrocchiali della chiesa di S. Maria ad Intro di Eboli, che
bisogna portare alla curia arcivescovile di Salerno da me Mattia Ripa, dottore in diritto civile e diritto canonico curato di detta chiesa
parrocchiale in quest’anno 1706.
Fonte: ASDSa, b. Y 33: Eboli, Parrocchia di S. Maria ad Intra: 1657-1702.
159
I Sezione
Fig. 10. Composizione della
famiglia di Giovan Filippo
Ripa nell’anno 1706:
Nella casa di Donato De
Cristoforo abitano il dottor
fisico Giovan Filippo Ripa,
figlio del fu Diego dottore in
diritto canonico e civile, di
anni 69, nativo della terra di
Giffoni, e i figli di lui nonché
della defunta Antonia Longo
un tempo sua moglie: il dottor
fisico Tommaso Andrea Ripa,
di anni 41; il reverendo curato
Mattia Ripa, di anni 39;
Caterina Ripa, di anni 39; e i
nipoti del medesimo dottor
Giovan Filippo: Bonaventura
Ripa, figlia di Scipione, di
anni 12; Domenico Antonio
Ripa, di anni 7; e i loro domestici Pietro Massimilla, figlio
del fu Gennaro, di anni 48,
nativo della Calabria; Apollonia Marino, figlia di Giulio,
di anni 13.
160
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig. 11. Marcantonio III Doria nacque a Genova ai primi
di febbraio del 1702 da Giovan Carlo e da Maria
Geronima de Mari (L.
Storchi, Formazione e organizzazione di un archivio gentilizio: l’archivio Doria
d’Angri tra XV e XX secolo, in
AA.VV., Per la storia del
Mezzogiorno medievale e
moderno. Studi in memoria di
Iole Mazzoleni, Roma 1998,
pp. 559-560). Più tardi assumerà il titolo di V principe di
Angri, V duca di Eboli, IV
conte di Capaccio, ecc.; il suo
nome è legato alla costruzione dell’imponente palazzo
di famiglia, il cui balcone
affaccia sulla piazza dello
Spirito Santo, oggi piazza
Sette Settembre a memoria
del saluto che da quel balcone Garibaldi rivolse ai napoletani il 7 settembre 1860.
Diego Ripa, fratello di Matteo, che aveva conosciuto lo
zio del neonato, Giacomo
Doria, ad Eboli, chiamò a
raccolta gli intellettuali napoletani più noti per celebrarne la nascita. Tra questi
spiccano i nomi di Bartolomeo Intieri e del carmelitano
Carlo Sernicola. Alla data del
19 febbraio 1702, il fratello di
Matteo Ripa vantava già
amicizie di alto livello sociale
e intellettuale. L’opuscolo è
conservato nella BNNa, sala
6a Miscell. B. 2419.
161
I Sezione
Fig. 12. Alla morte, avvenuta il 12 maggio 1725, di Antonia
Caracciolo, duchessa di Airola, furono rese pubbliche le
disposizioni testamentarie che escludevano dall’eredità il
coniuge Giovan Battista di Capua, principe della Riccia, e
dichiaravano erede il nipote minorenne Bartolomeo di
Capua, conte di Montoro, sotto la tutela di Lorenzo Ripa,
fratello di Matteo. Il testamento, unito a due codicilli, assegnava la rendita di 2300 ducati ricavati dal feudo di Valle
Maggiore ai fratelli Lorenzo, Tommaso Andrea e Diego
Ripa. Le disposizioni suscitarono scandalo e strascichi giudiziari che misero sotto accusa soprattutto Lorenzo Ripa,
che avrebbe subornato la duchessa di Airola. La difesa
stampata ad uso interno dei tribunali si conserva nella
BNNa, B. Branc. 24 D69.
Fig. 13. Un passo della difesa stampata da Lorenzo Ripa e
Orazio Rocca sottolinea la buona condizione sociale dei
fratelli Ripa di cui tre ecclesiastici (Tommaso Andrea,
Mattia e Matteo Ripa) e il cospicuo stato patrimoniale della
famiglia Ripa.
162
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig. 14. La risposta della madre del piccolo Bartolomeo di Capua, la contessa di Montoro Anna Cattaneo, fu affidata al principe
del foro Domenico Caravita. La causa si concluse con una transazione per la quale i fratelli Ripa rinunziarono a gran parte dei
lasciti testamentari di Antonia Caracciolo. La difesa, stampata solo ad uso interno, si conserva nella BNNa, B. Branc. 24 D69.
163
I Sezione
Fig. 15. Di Mattia Ripa, nato a Prepezzano, casale di Giffoni, il 25. XI. 1667, sappiamo che fu parroco della chiesa ebolitana di S.
Maria ad Intra dal 1693 almeno fino al 1706, quando conseguì anche il titolo di doctor utriusque iuris. Hierarchia Catholica, V, p.
217 registra la sua consacrazione a vescovo titolare di Hebron nel 1729. La lapide che qui riportiamo, collocata a sinistra dell’altare maggiore della chiesa di S. Francesco da Paola a Cosenza, dà esatto conto della data della sua morte e nella traduzione italiana recita: PER MATTIA RIPA, PATRIZIO BRINDISINO E VESCOVO DI HEBRON, CHE COLTIVÒ SENZA RISPARMIARSI LA
PIETÀ DEI SANTI E SI APPLICÒ AD IMITARNE LA SANTITÀ DEI COSTUMI IN TUTTE LE ATTIVITÀ DELLA SUA VITA,
STRAPPATO AI VIVI NEL COMPIANTO QUASI GENERALE A COSENZA, IL 25 GENNAIO NELL’ANNO DEL SIGNORE
1733, IN QUESTO LUOGO SEPOLTO GLI AFFLITTI FRATELLI TOMMASO ANDREA, DIEGO, MATTEO (MISSIONARIO
APOSTOLICO IN CINA PER 18 ANNI ED ORA FONDATORE DEL COLLEGIO NAPOLETANO SOTTO IL TITOLO DELLA
SACRA FAMIGLIA),LORENZO, BARONE DI CHIANCHETELLA E BALBA, [QUESTA LAPIDE] POSERO AD IMPERITURA
MEMORIA DEL DILETTISSIMO FRATELLO.
164
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig. 16. Nell’opera manoscritta intitolata Istoria o sia relazione dell’erezione
della Congregazione e collegio della
Sagra famiglia di Giesù Cristo, iniziata
da Matteo Ripa nel 1734 e aggiornata
fino al 1744, compaiono notizie
tagliate nei tre volumi a stampa intitolati Storia della Fondazione della
Congregazione del collegio de’ Cinesi
sotto il titolo della Sagra famiglia di
G.C. scritta dallo stesso Fondatore
Matteo Ripa, Napoli 1832. Tra le
informazioni omesse nel terzo volume dell’opera stampata citata (p.
324), ricordiamo il passo relativo ai
«tanti debiti lasciati da mio fratello
defonto, in somma tanto esorbitante
che se l’altro fratello don Diego non
supplisse col suo, dall’eredità lasciata
molti creditori in somme grosse restarebbero esclusi; cosa in vero ch’ha
fatto trasecolare ogn’un che l’ha inteso, non potendosi capire in che abia
possuto spendere tanti danari, essendo stato un uomo senza vizj, e si crede
che nella partenza dei Tedeschi da
Napoli, l’avesse lor prestati su la speranza che dovessero subito ritornare».
Il decesso di Lorenzo Ripa era avvenuto in data 21 febbraio 1739.
Fonte: ACGOFM, MH 9-2.
165
I Sezione
Fig. 17. Non solo la morte di Lorenzo Ripa ma anche quella di Diego, che era stato medico e uomo di fiducia di Antonio
Caracciolo, testimoniò la parabola discendente di due dei fratelli di Matteo Ripa, che pure erano saliti ai vertici della società napoletana. La fine più ingloriosa toccò proprio a Diego, deceduto a Napoli il 4 maggio 1742 (era stato battezzato ad Eboli il 21 febbraio 1677), perseguito da mandato del giudice criminale per accuse connesse alla sua amministrazione dei Sali in Cosenza. In
questo caso la storia a stampa, di cui si riporta il frontespizio, non tralascia notizie che oscurarono la buona fama del fratello di
Matteo Ripa.
166
La famiglia, le aderenze familiari, l’ascesa sociale, la caduta
Fig. 18. Matteo Ripa, in polemica mai esplicita col genitore e con i fratelli, non nutrì forte ambizione di ascesa sociale, ma già prima
di essere ordinato sacerdote fu accolito della Congregazione dei Pii Operai, che aveva sede nella chiesa di S. Giorgio Maggiore, nel
cuore del popoloso quartiere di Forcella. Lì, tra la gente minuta, svolse attività di catechista e di predicatore. Il preposito generale della ricordata Congregazione usa parole molto elogiative nei suoi confronti. Ludovico Sabatini o Sabbatini (1656-1724) diresse i Pii Operai dal 1699 al 1705, su lui si può leggere la biografia scritta dal nipote Lodovico Sabbatini d’Anfora, Vita del padre D.
Lodovico Sabbatini della Congregazione de’ Pii Operari, Napoli 1730.
167
I Sezione
Fig. 19. Attestato dell’arcivescovo di Salerno, Bonaventura Poerio (Taverna, Catanzaro, 1648 - Salerno, 1722) dei Minori Oservanti,
relativo all’ordinazione sacerdotale di Matteo Ripa avvenuta il 28 marzo 1705 nella cappella arcivescovile del duomo cittadino. La
frase «die Sabbati ad sitientes» si riferisce all’antico rito di celebrare l’ordinazione nella notte del sabato di Pasqua al modo con
cui si amministrava il battesimo ai catecumeni.
168
Da Roma
a Portsmouth
a Macao
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 1. Il 26 novembre 1705 Matteo Ripa partì da Napoli diretto a Roma, segnalato al pontefice Clemente XI dal p. Antonio Torres,
preposito generale dei Pii Operai, come sacerdote idoneo a svolgere attività di missionario in Cina. Egli dovette attendere a Roma
dal 30 novembre 1705 al 13 ottobre 1707 prima di partire per la Cina insieme ad una delegazione formata dai preti secolari
Onorato Funari e Gennaro Amodei, nonché dai religiosi Guglielmo Bonjour Fabre (OSA), Giuseppe Cerù (CCRRMM) e
Domenico Perrone (OMD), incaricata di portare la berretta cardinalizia a Carlo Tommaso Maillard de Tournon, legato a latere
presso l’imperatore Kangxi. Nei circa due anni di permanenza a Roma Matteo Ripa conobbe personaggi di rango elevato e prima
d’iniziare il lungo viaggio terrestre (tappe a Bologna, Colonia, Nimega, Dordrecht, Rotterdam, Harwich, Londra, Portsmouth) ed
oceanico, chiese ed ottenne lettera commendatizia da Vincenzo Grimani (Mantova, 1655 - Napoli, 1710) in data 9 ottobre 1707.
Il Grimani, di nobile famiglia veneziana, fu creato cardinale per intervento dell’imperatore Leopoldo I d’Asburgo da papa
Innocenzo XII Pignatelli il 16 maggio 1698 con il titolo di diacono di S. Eustachio. Prima di essere nominato da Carlo VI
d’Asburgo vicerè di Napoli nel maggio del 1708, fu a Roma in qualità consigliere di cesareo e «comprotettore» della nazione germanica e dei domini ereditari asburgici.
Fonte: ACGOFM, MH 9-20, 50.
171
II Sezione
Fig. 2. Altra conoscenza di rango elevato fatta dal Ripa durante il suo soggiorno romano fu quella di Francesco Barberini junior
(1662 - 1738), appartenente alla potente omonima famiglia che aveva dato alla Chiesa un papa – Urbano VIII, sul soglio di Pietro
dal 1623 al 1644 – e numerosi cardinali. Il Barberini, conosciuto dal Ripa, ottenne il cappello cardinalizio dal pontefice Alessandro
VIII Ottoboni, il 27 novembre 1690, fruendo di molteplice benefici. Grazie alla sua protezione il Ripa ottenne, nel marzo 1707, di
predicare il quaresimale a Capradosso, dipendente dalla badia di Farfa, di cui il cardinale era abate commendatario [Giornale, I,
pp. 19-22]. In questa lettera responsiva, datata da Roma 14 aprile 1708, il cardinale manifesta il suo gradimento per la notizia
comunicatagli dal Ripa, giunto a Londra sin dal 6 gennaio 1708, di avere, il 10 febbraio, «già ottenuto la licenza necessaria per la
imbarcazione». In realtà la sosta a Londra durò molto più del previsto, anche a causa delle complicazioni collegate al conflitto per
la successione spagnola e alla requisizione forzata di marinai per le navi da guerra. Sicchè la partenza dei componenti la comitiva, fatta eccezione per il Funari, colpito da apoplessia a Bressanone il 13 novembre 1707, avvenne solo il 4 giugno 1708.
Fonte: ACGOFM, MH 3-20, 52.
172
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 3. Appena il 4 giugno 1708 il
vascello inglese Donegal prese il
largo, i componenti la delegazione,
incaricata di portare la berretta cardinalizia al legato a latere presso
Kangxi, si trovarono ad affrontare un
lungo e tedioso viaggio, le cui giornate non potevano essere riempite
neppure dalle orazioni e dagli uffici
religiosi, perché i missionari non
rivelarono mai la loro appartenenza
alla Chiesa cattolica e viaggiavano
sotto veste secolare. Parte delle ore
diurne furono impiegate da Matteo
Ripa a scrivere una sorte di diario di
bordo, sulle cui pagine egli delinea
sagome e particolari di esemplari
della fauna e della flora marina. Sono
gli unici disegni che di lui ci sono
pervenuti. Sotto la data del 26 giugno 1708 egli disegna la sagoma di
un calamaro in lingua inglese chiamato squid (Ripa usa la grafia squit).
173
II Sezione
Fig. 4. Sotto la data di luglio 1708,
Matteo Ripa disegna il profilo del
vascello Donegal, indicando i tre
alberi di poppa, mediano e di prua
come alberi rispettivamente di mezzana, di maestro e di trinchetto. La
parte superiore viene designata
rispettivamente: di contromezzana,
di pappafico e di parrocchetto. La
vela del bompresso viene indicata
come vela del sivandero.
174
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 5. Tra la fauna marina ignota, perché non aveva potuto
osservare a Napoli, la curiosità
del Ripa fu attratta dal pescecane che egli designa anche con
ittionimi: castigliano, pesce
perro; portoghese, tubarão;
inglese, shark, specificando che
la pronunzia è sciach. È notevole anche la descrizione di alcuni
dettagli dello squalo.
175
II Sezione
Fig. 6. Nel suo Diario di bordo Ripa annota: «Quando sta col ventre su la terra non si possono vedere né l’occhi, né la bocca, né le
narici; tutte poi si vedono, quando sta sottosopra, col ventre che guarda il cielo, nella quale vedrassi nei luoghi A. A. le narici, C.
C. gli occhi, H. la bocca ch'è smisurata. [...] Ha tre ordini di denti, uno dietro l'altro, quali non si possono osservare, se non s’apre
ben ben la bocca, e sono grandi et acuminati nel modo che si vede nella detta pagina 36, lettera Q». Accanto al pescecane Ripa
disegna anche quei pesci più piccoli che si attaccano agli squali chiamati in italiano «remore». Egli precisa che dai marinai sono
chiamati «socchin fish» precisando che si scrive «sucking fish», in italiano «pesce succhione». Volgarmente in inglese sono oggi
chiamati «live sharksucker». Secondo la nomenclatura di Linneo l’esemplare si chiama «echeneis naucrates».
176
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 7. Alla pagina 38 del suo
Diario di bordo Matteo Ripa
scrive: «La mattina per molto
tempo furono veduti alcuni
pesci quali l’Inglesi li chiamano delfini, dicendo che li
Francesi et Italiani s’incannano
in chiamar delfino un altro
pesce e non questo. Li francesi
chiamano questo pesce dorada, così ancor i Spagnuoli [...].
Quando sta nel acqua ha il
corpo e la testa di color gialloverde ma assai vivo e lucido
[...], fuor dell’acqua poi non
saprei dire che colore ha perché ne ha un altro sopra un
iride in tutto il corpo e nella
panza un pezzo d’oro». Probabilmente trattasi di un pesce
secondo la nomenclatura di
Linneo denominato «valenciennea sexguttata» che appartiene alla famiglia dei gobidi.
177
II Sezione
Fig. 8. Nel Giornale, I, al foglio 51
Ripa rielaborando gli appunti del
suo giornale di bordo, scrive: «Alli
27, stando nel grado 26 e minuti di
latitudine, cominciammo a veder i
pesci volanti, benchè pochi. Dieci
gradi però di qua e di là della linea
equinozziale di continuo se ne
vedono in gran quantità, amando il
caldo. Mi dissero che questi pesci
siano di cinque specie diverse, ma
noi ne viddimo due specie solamente, e queste poco varianti fra
loro. L'una e l'altra specie rassomiglia tanto al cefalo, che sembrano
essere cefali alati. Hanno le ali non
già di piume, ma di cartilagine,
come un pipistrello, l'estremità
delle quali giungono sino al principio della coda». Secondo la nomenclatura di Linneo trattasi del excocetus volitans della famiglia degli
excocetidi.
178
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 9. Alla pagina 54 del suo
Diario di bordo, sotto la data di
venerdì 7 settembre 1708 il Ripa
scrive: «Prima di calar a terra
delineai la veduta del Capo,
stando io sulla popppa del
vascello A (veduta) semprava da
qui ovata la baia; ma, salito poi,
calato a terra sul Monte di
Lione, viddi che era della forma
descritta in due disegni nella lettera L-B. Il Monte chiamato del
Vento, e non senza raggione,
perché quando fra esso e il
Monte della Tavola (C) si vedono alcune nubbi, subito soffia
gran vento D et E è il Monte di
Lione, e benché da questa veduta semprano due monti uno più
principale dell’altro, tuttavia in
verità uno, l’E è tutto verde e
erboso, D è sassoso nella punta,
da dove, quando si vede qualche
vascello che viene, alzano bandiera come anche fanno ad E et
all’isola chiamata Roben, dove
vanno li malfattori quale è affatto sterile. F ha fortezza, quale
sarebbe una delle mediocri
d’Europa, fortissima però per
non avere i nemici vicini [...].
Dietro l’abitato H è il giardino.
179
II Sezione
Fig. 10. Nel Giornale, I, f. 91v Ripa rielaborando il suo Diario di bordo scrive: «La
sudetta isola di S. Paolo si trova situata
nel 38 grado e minuti 12 di latitudine. La
delineai nel mio Giornale alla pagina 91
ed a quella veduta non era lunga di quattro nostre miglia italiane. In fatti tutti
concordemente mi dissero essere molto
piccola. Nella parte nella quale la viddimo, non aveva alberi, ma era bensì piena
di cespugli in alcuni luoghi et in altri
d’erbe. È deserta d’uomini et abitata da
cani marini. I nostri, che v’andarono a
pescare e discesero a terra, dissero avervi
inteso il belare delle pecore e della capre,
et è probabile che ve ne siano, atteso che
fu in costume de Portoghesi lasciarvene
alcune in tutte le isole che discovrivano,
acciò, moltiplicandosi colla generazione,
nei casi poi che v'avessero dovuto col
tempo nuovamente approdare, avessero
potuto farsi le loro proviste». Nel
Giornale, I, f. 93v sotto la data del 4
novembre 1708 si legge: «Il dopo pranso,
essendo il mare quasi in calma, si vidde
una tartaruca che dormendo stava a galla
dell'acqua, alla quale pesca spiccatavisi la
barchetta a due remi, la rivoltarono sottosopra (ch’è il modo di prenderle), indi
legateli i piedi di dietro e tiratala su d'essa barchetta, la condussero nel nostro
vascello e trovossi che pesava 160 libre
inglesi di sedici oncie l’una. In altri giorni se ne viddero delle altre e tutte si presero nella sudetta conformità. Sono esse
di due specie: una di color verde e l’altra
oscura. L’una e l'altra sono buone a mangiare. La verde, però, è molto migliore.
Sul dorso di esse tartaruche si trovano
alcune conchiglie di mare (in Roma chiamate telline e tonninole in Napoli) a
quattro o cinque attaccate insieme, siccome si vede delineato nella pagina 91 del
mio Diario nella lettera A».
180
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 11. Sotto la data del 14
novembre 1708 alle pagine pp.
94 e 95 del suo Diario di bordo
Ripa scrive: «Viddi un ucello
chiamato Ucello del tropico, così
chiamato perché solo dentro i
Tropici si vedono. È questo di
grandezza quanto un palombo
sotto di color bianco. S’accostò
su la poppa del nostro vascello
e sopra l’altri girava. La coda è
così secca e lunga».
181
II Sezione
Fig. 12. Sotto la data del 23 novembre, alla pagina 97 del suo
Diario di bordo Ripa annota:
«Verso la sera si venne a posare
sopra il pennone della mezana
un ucello chiamato boobi, cioè
ucello pazzo, ed in effetti li si
compete quel nome perché si
lascia prendere come un matto.
La grandezza è d’una gallina,
però picciolo in carne, tutto di
colore biango, fuor dell’estremità delle ale di color nero; il
rostro, la sera mi parve giallo, la
mattina poi lo ritrovai azurro,
credo così perché morto. L’ali
erano lunghe 6 palmi con 4
piegature come quelle che dissi
dell’albitros. Ne delineai solo la
testa e il pié dritto».
182
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 13. Sotto la data del 28 novembre, alla pagina 98 del suo Diario di
bordo Ripa annota: «Il giorno si
prese un scerch o pesce cane. Io l’osservai tre ordini di denti, e sono
grandi e della forma A. Li detti tre
ordini stanno uno dietro l’altro
tanto che non s’osservano se non
s’apre ben bene la boca. L’occhio
non è più grande di B di quella
forma. Il filo d’intorno è di colore
verdaccio o tinto di terra d’ambra
solo a quella striscia lunga e nera. Se
li ritrovò in corpo un piccolo albicor, dico tondo». Nella didascalia il
Ripa precisa che in portoghese il
tonno è chiamato huocora.
183
II Sezione
Fig. 14. Sotto la data del 26 di
novembre 1708 al 2° di latitudine
il vascello Donegal fu sfiorato da
una tromba d’aria nel suo
Giornale, che rielabora il Diario di
bordo, p. 111 il Ripa così la descrive: «Aveva il suo principio nelle
parte superiore della nubbe, nel
sito A, nel quale era più larga, indi
si andava restringendo sino a
mez'aria nel sito B, nel quale si
perdé di vista; forsi a causa dell'aria dell'orizonte, che da parte di
dietro era chiara. Dentro di sé si
vedeva chiaramente una grand'abbondanza d'acqua, che, come
a ruscelli serpeggianti, ascendeva
e descendeva; e sotto di sé, nel sito
dell'acqua ne la quale andava a
terminare esercitando la sua
virtù, si vedeva una gran fumata,
dentro la quale et intorno la quale
si vedeva uno spruzzamento d'acqua, come un fonte dal mare».
Sotto la data del 6 dicembre 1708
il Ripa osserva un gruppo di isolette, che egli chiama Isole del
Cocco, il cui profilo delinea nello
stesso margine dove è rappresentata la tromba d’aria. In lingua
malaia corrispondono presumibilmente al toponimo Pulau
Pulau Kokos.
184
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 15. Disegno di un pesce
«remora» da altra angolazione. In questo caso il Ripa
offre ulteriori dettagli sulle
singolarità anatomiche del
pesce, scrivendo nel suo
Giornale: «Tutti sono del
color dell'anguilla e, come
l'anguilla, senza squame.
S'attaccano ancora alli fianchi della nave et in tempo di
calma si distaccano e vanno
nuotando attorno di essa con
divertimento di chi li guarda,
et all'ora si prendono coll'amo. In alcuni luoghi ve ne
sono gran quantità, quando,
attaccandosi alla nave, sono
di remora al di lei corso veloce (Giornale I, p. 57)».
185
II Sezione
Fig. 16. Altri dettagli anatomici dei
pesci «remore» (Giornale I, intra p. 58).
186
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 17. Sotto la data del 7 maggio 1709 il vascello ispanico
Nostra Signora di Guadalupe su
cui viaggia il Ripa, imbocca il
famoso stretto di Malacca pericoloso per le correnti e i predoni
di mare in agguato. Egli scrive:
«Alli sette si gionse alla bocca
dello stretto e ci cominciammo a
vedere attorniati da un gran
numero di isole e tutte verdegianti, una dietro l'altra, che non
si vedeva il camino che si doveva
tenere, e chi non sapesse il camino, pensando non poter andare
più avanti, voltarebbe al certo la
prora in dietro per ritornare
dond'è venuto. [...] Qui si mandò a far acqua in un'isola grande,
segnata colla lettera A., quale con
sottil filo di terra è continente
alle altre due B. e C., e stando la
nave nel punto D. ed essendo la
bocca non più di tre miglia nel
sito E., pareva che le era precluso
ogni camino da poter andare più
avanti, vedendosi da ogni parte
circondata da terra, come in un
seno o porto di mare. Stando la
nave in esso sito, venne un battello d'Indiani a cambiar pesce
secco per riso. Sono questi
{Indiani} Malaj di setta maomettana, soggetti al re di Gioro, e
sono uomini de' quali le navi che
passono, non se ne possono fidare, essendosi dato il caso di averle più volte predate» (Giornale I,
pp. 153-154).
187
II Sezione
Fig. 18. Sotto la data del 18
maggio 1709 attraversando lo stretto di Malacca,
Matteo Ripa registra nel
suo Diario di bordo la cattura di alcuni pesci che
egli chiama cicciar – italianizzazione dello spagnolo
cicharro –. Si tratta di un
ittionimo portoghese e
spagnolo – egli viaggia
sulla già citata nave ispanica Nostra Signora di
Guadalupe – di un pesce
appartenente alla famiglia
dei carangidi il cui nome
secondo la nomenclatura
del Linneo è il trachurus
trachurus. Accanto al
cicharro egli delinea anche
la sagoma di un altro
pesce, chiamato in spagnolo ruvio e in portoghese
ruivo, la cui identificazione
è molto difficile perché l’ittionimo indica un pesce
generico di colore rosso,
nei paesi mediterranei corrispondenti alla triglia.
188
Da Roma a Portsmouth a Macao
Fig. 19. Sotto la data del 6 dicembre
1708 Matte Ripa descrive l’assalto di
alcuni marinai del Donegal agli abitanti di una delle Isole del Cocco. Il
bottino era costituito di utensili di
legno e di ferro, di alcune conchiglie,
di generi alimentari e di dodici monete d’oro, come sono disegnate sul
margine superiore destro del suo
Diario di bordo alla p. 108. Alla stessa
data egli scrive: «Essendo stata questa
la prima volta ch'io viddi il cocco e
perché mi fu di gran maraviglia in
vedere in un sol frutto la varietà di
tante cose per lo sostentamento di
quelli Indiani, cioè: cibo, bevanda,
oglio, butiro, canape etc., perciò lo
delineai nel mio Giornale, pagine 107
e 108. Et acciò ogn'uno alzar possa la
mente a Dio e benedirlo per aver
creato un frutto di tanto uso al genere umano, perciò voglio prendermi la
pena di farne qui una distinta descrizione» (Giornale I, pp. 99-100).
189
II Sezione
Fig. 20. Nel retro di questo documento in
caratteri cinesi Matteo Ripa scrive il
seguente appunto: «10 novembre. Viceré
ordina che a’ 28 della luna piccola, 18 del
mese partiamo». Il testo cinese può essere così tradotto: «Questo decreto [del
viceré] ordina al mandarino distrettuale
di eseguire immediatamente l’incombenza seguente, provvedere alla partenza dei
tre occidentali: Guillaume Bonjour Fabre
(Shan Yaozhan 山遙瞻), Matteo Ripa (Ma
Guoxian 馬國賢), Teodorico Pedrini (De
Lige 德理格).
Questi partiranno alla direzione di
Pechino il giorno 28. Dopo avere preso
visione del decreto il mandarino dovrà
registrare la data della loro partenza in un
rapporto e consegnarlo all’ufficio competente. Gli occidentali dovranno essere
accompagnati dalle famiglie. Non devono
ritardare. Scritto il 20 del mese IX».
Fonte: ACGOFM, MH, 6-3.
為此牌仰該縣官吏急事理即速傳催西
烊人山遙瞻馬國賢德理格三人務於二
十八日起身進京文到先將起程日期具
報以憑轉報院憲差家人伴送毌得遲違
九月廿日
190
Ripa alla corte di Kangxi
Le incisioni su rame
Sotto la data del 24 aprile del 1714 Ripa scrive: «Terminai di intagliare le 36 vedute della villa imperiale
di Gehol in Tartaria et impresse ne presentai in questo dì alcuni libri a Sua Maestà il quale ne godè
molto et ordinò ne imprimessi un buon numero che le servivano per donarle alli suoi figli, nepoti ed
altri signori» (Giornale II, p.136). Alcune copie dell’Album relativo alle 36 vedute furono dal Ripa
colorate ed altre copie ancora contengono versi forse scritti dall’imperatore Kangxi. Le vedute qui a
fianco sono ricavate dall’album conservato nella BAV, mss. Barberini Orientali, n. 147. Matteo Ripa
scrisse anche le didascalie di suo pugno sotto ciascuna delle 36 vedute. Tali didascalie si possono leggere nell’esemplare che contiene soltanto 35 vedute conservate nella BNNa, ms. I G 75.
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 1. Albero nero e pietre verdi; casa da diporto in alto sul monte, da cui si vede da altra angolazione un monolite che si vedrà
anche nella tavola 5.
193
III Sezione
Fig. 2. Acqua limpida di sorgente che circonda le pietre; altre dimore delle concubine.
194
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 3. Sole che risplende su bellissime ninfee; casa da diporto, nel cui secondo appartamento un orologio batteva i quarti e le ore;
davanti ad esso giardino fiorito.
195
III Sezione
Fig. 4. Via simile alla famosa erba ji (
196
) e riva simile alle nubi del cielo; ponti sui quali passava l’imperatore a cavallo o in portantina.
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 5. Monte pendente che guarda giù; casa e veduta di monolite a forma di colonna con il vertice più ampio della base; dalla cima
del monte si gode la vista di tutta la villa.
197
III Sezione
Fig. 6. Vita di ruscello, la cui acqua strepitante vien giù dal monte; casetta da diporto di fronte a isola sul fiume.
198
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 7. Vista di pesci alla scogliera; casa da diporto.
199
III Sezione
Fig. 8. Acqua di fiume e nubi sui monti che ricreano lo spirito; case, ove l’imperatore si recava in barca col seguito delle sue donne,
per pranzare dopo aver trattato gli affari di Stato.
200
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 9. Monti, valli e foreste di pini; case, ove l’imperatore trattava gli affari di Stato, quando non digiunava.
201
III Sezione
Fig. 10. Acqua di sorgente e pietra di roccia; parete di monte su cui l’imperatore ha fatto scolpire, per elogiare il luogo, quattro
caratteri, che qui di seguito si trascrivono nell’ordine cinese di scrittura da destra a sinistra:
= quanyuan shibi.
202
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 11. Acqua serpeggiante, ninfee profumate e casa da diporto.
203
III Sezione
Fig. 12. Nuvole rosse all’alba dalla montagna occidentale e casa da diporto.
204
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 13. Cielo sereno e veduta del tempio degli idoli, dove ufficiavano i daoshi (
), sacerdoti eunuchi.
205
III Sezione
Fig. 14. L’aspetto singolare della Grande Mappa dell’Impero di Cina incisa su rame da Matteo Ripa tra il 1714 e il 1717 è dato dalle didascalie in lingua italiana manoscritte dal sacerdote ebolitano. L’esempio più notevole è offerto dalla carta dello Shandong che Ripa romanizza all’italiana come Sciantung. All’interno di questa provincia sono romanizzati i caratteri, scritti dall’alto in basso o da destra a sinistra, secondo la pronunzia italiana. Più importante di tutte è la didascalia che recita: «In questa città, chiamata Cihin feu hien, stà sepolto il famoso Confugio».
206
Ripa alla corte di Kangxi • Le incisioni su rame
Fig. 15. Di fronte alle coste della provincia Zhe Jiang (Ripa scrive Cechjang), è disegnata quella che il sacerdote ebolitano chiama Ttai
wan dall’Europei chiamata Formosa.
207
III Sezione
Fig. 16. La parte meridionale della Cina, le cui coste sono bagnate dal Mar Giallo, è la più conosciuta dagli Occidentali perché
dinanzi alla città, dagli Europei chiamata Canton e dai Cinesi Guangzhoufu, si trovava l’encalve portoghese chiamata Macao dagli
Occidentali dai Cinesi Aomen. Nel dedalo delle isolette di fronte a Macao trovò la morte, come precisa Ripa, Francesco Saverio
nell’anno 1557.
208
Le polemiche con i Gesuiti
Echi sulla stampa napoletana
L’attività di interprete
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Fig. 1. Dal suo arrivo a Macao ai primi di
gennaio del 1710 fino alla sua partenza da
Pechino con permesso dell’imperatore
Yongzheng nel dicembre 1723, Matteo Ripa
fu sempre in contrasto, talora molto aspro,
con i missionari della Compagnia di Gesù
presenti alla corte cinese. Il contrasto ebbe il
suo culmine quando il missionario gesuita
Kiliano Stumpf pubblicò a Pechino nel 1717
il pamphlet del quale si riproduce a fianco il
frontespizio.
211
IV Sezione
Fig. 2. Matteo Ripa, attaccato
violentemente nella Informatio pro Veritate, rispose punto
per punto alle «accuse e
calunnie», che, a suo parere
erano contenute nel pamphlet. Di tutto il missionario
ebolitano inviava informazione alla Congregazione del
Propaganda Fide e al pontefice Clemente XI, al secolo
Giovan Francesco Albani.
212
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Fig. 3. Nel fondo Albani, custodito nell’Archivio Segreto Vaticano, è conservata un’imponente documentazione che comprende anche copie in
lingua cinese dei decreti degli imperatori Kangxi e Yongzheng, dei contrasti tra i missionari europei sulla questione dei «riti cinesi». In questo
fondo si trovano numerosissime lettere e documenti inviati alla Santa
Sede da Matteo Ripa.
213
Fig. 4
IV Sezione
214
Fig. 5
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Figg. 4, 5. La stampa napoletana, che al tempo non era quortidiana, ma trisettimanale,
dedicò un certo spazio alle
notizie che Matteo Ripa inviava a Roma dalla Cina. È questo
un aspetto assai singolare dell’attività missionaria del sacerdote ebolitano. A volte troviamo perfetto riscontro tra queste corrispondenze molto sintetiche, e alcuni documenti
conservati in diversi archivi
sparsi in alcune città italiane
(soprattutto a Roma, ma in
qualche caso anche a Firenze e
a Venezia). Lo spazio dedicato
a tali notizie sono anche una
testimonianza del grande interesse che le classi elevate dell’Europa Occidentale del
Settecento nutrivano per la
Cina, secolo per eccellenza
sinofilo.
215
IV Sezione
Fig. 6. Nell’Avviso del 18
dicembre 1714 tra le notizie
più notevoli è registrata
quella proveniente dalla
Cina del «Dottor Ripa» relativa alla fine della persecuzione contro i Cristiani.
216
Fig. 7
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Fig. 7
217
Fig. 8
IV Sezione
Figg. 7, 8. Nell’Avviso del 23 novembre
1717 viene pubblicato un messaggio
inviato a Roma da Matteo Ripa dalla
Villa Imperiale di Changchun Yuan
(
). Tra le tante notizie presenti nel messaggio sono notevoli quelle
che si riferiscono a calamità naturali,
all’interesse dell’imperatore Kangxi
per la matematica e la pittura, all’impegno dello stesso Ripa per diffondere
la religione cristiana a mezzo di due
catechisti e alla composizione da parte
del sacerdote ebolitano della vita del
sacerdote calabrese Gennaro Amodei,
morto a Canton il 24 luglio 1715.
218
Fig. 9
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
219
Fig. 10
IV Sezione
Figg. 9, 10. Nell’Avviso del 15 ottobre
1720 sono riassunti più messaggi inviati
da Matteo Ripa a Propaganda Fide. Tra
le notizie di rilievo si parla dell’attesa da
parte dell’imperatore Kangxi di un
nuovo legato a latere inviato dal Papa in
Cina e delle persecuzioni subite dallo
stesso Ripa per la sua fedeltà ai decreti
del Tournon e alla costituzione Ex illa
die. Di assoluta importanza è il riferimento alla costituzione di una scuola
per collegiali cinesi di cui riferisce alcuni nomi tra i quali ricordiamo quello di
Tommaso Wu, padre di quel Lucio Wu,
che tante angustie procurerà a Napoli
allo stesso Ripa.
220
Fig. 11
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
221
Fig. 12
IV Sezione
Figg. 11, 12. Sull’attività di interprete
svolta da Matteo Ripa insieme ad
alcuni Gesuiti della legazione diretta
da Lev Vasil’evic Izmailov’ abbiamo
notizie da diverse fonti sia russe, sia
cinesi. È davvero singolare che sia
giunta fino a Roma e a Napoli informazione dettaglaita sui problemi
creati dall’ambasciatore russo di rifiutare il rito delle nove genuflessioni
dinanzi all’imperatore Kangxi. Lo
stesso problema si porrà anche per la
legazione britannica diretta da George
Macartney nel 1793-1794. L’Avviso di
Napoli del 21 ottobre 1721 offre ragguagli dettagliati sulle difficoltà della
legazione russa superate anche dalla
capacità diplomatica di Matteo Ripa.
222
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Fig. 13. L’Avviso del 28 novembre
1724 dà notizia del ritorno di Matteo
Ripa a Napoli accompagnato da 5
cinesi. È di grande importanza il particolare che si riferisce al fratello
avvocato e barone Lorenzo Ripa.
223
Fig. 14
IV Sezione
224
Fig. 15
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
225
Fig. 16
IV Sezione
226
Fig. 17
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Figg. 14, 15, 16, 17. Negli anni di
permanenza a corte dal 1712 al 1723,
Matteo Ripa non solo imparò a parlare e a conversare in lingua cinese,
ma, grazie al suo talento artistico,
poté contare sempre sulla stima dell’imperatore che pure riponeva la sua
fiducia nei Gesuiti sempre in aperta
polemica con lo stesso Ripa, come
Kangxi ben sapeva. Forse per offrire
un’immagine di imparzialità l’imperatore volle che tra gl’interpreti dell’ambasciatore di Pietro il Grande,
Lev Vasil’evič Izmailov, giunto a
Pechino il 29 novembre 1720, figurasse anche il missionario di Eboli.
Gli altri interpreti furono: il portoghese Jião Mourão, i francesi Joseph
de Moyriac de Mailla e Dominique
Parrenin (conoscitore anche della
lingua mancese), il bavarese Ignatius
Kögler (tutti della Compagnia di
Gesù). A questi Kangxi volle che si
aggiungesse anche il gesuita cinese,
Fan Shouyi che aveva preso i voti in
Italia come discepolo di Antonio
Provana, e rientrato da poco in Cina
dopo un viaggio avventuroso
dall’Italia che aveva visto la morte
dello stesso Provana. Le due pagine
del Giornale, IV, di Matteo Ripa, riferiscono l’ingresso trionfale in
Pechino dell’Izmailov e la scelta degli
interpreti. Esse danno conto anche
dei criteri adoperati per l’edizione del
1832, dove si notano chiaramente
con altra grafia le correzioni al manoscritto del Ripa, mentre la linea verticale sul primo foglio significa che il
testo non doveva essere pubblicato.
227
IV Sezione
Fig. 18. L’arrivo a Pechino il 26 dicembre 1720 di Giovanni Ambrogio Mezzabarba – secondo legato a latere inviato dal pontefice Clemente XI Albani
presso l’imperatore per risolvere la questione dei «riti cinesi» – segue di poco
l’arrivo nella capitale della Cina dell’ambasceria russa guidata da Lev
Vasil’evič Izmailov. In previsione del
prossimo arrivo del legato pontificio,
Kangxi aveva pensato di usare gli stessi
interpreti per le due missioni diplomatiche, ma in seguito aveva cambiato
idea. Matteo Ripa nel suo Giornale, IV,
dedica numerose pagine alle udienze
concesse dall’imperatore al Mezzabarba, pagine leggibili con difficoltà e la
lettura diventa ancor più faticosa per le
numerose cancellature, modifiche e
aggiunte dei revisori del testo per l’edizione del 1932. Anche nel lavoro di traduzione emersero le posizioni divergenti, e in qualche caso opposte, degli
interpreti gesuiti e di Matteo Ripa. Non
appena il partito antigesuitico europeo
ebbe in mano i resoconti delle udienze,
trascritti dal servita Sostegno Viani, vi
fu una corsa alla loro pubblicazione.
Così mentre a Parigi la Société des missions étrangères, vera fucina di scritti
contrari alla Compagnia di Gesù, pubblicava a Parigi nel I734 il resoconto
della missione Mezzabarba nel IV vol.
anonimo degli Anecdotes sur l’état de la
religion dans la Chine, Giovanni Lami,
ignorando il precedente parigino, pubblicava, a suo giudizio per la prima
volta, nel 1739 a Milano, ma sotto il
falso luogo di Parigi, per i tipi della
Società Palatina di Filippo Argelati, ma
nel frontespizio veniva indicato un inesistente Monsù Briasson, il testo di cui
si riproduce il frontespizio.
228
Le polemiche con i Gesuiti • Echi sulla stampa napoletana • L’attività di interprete
Fig. 19. Nella pagina qui riportata la
traduzione delle domande di Kangxi e
delle risposte del Mezzabarba, nell’udienza del 14 gennaio 1721, viene
affidata a Matteo Ripa. I gesuiti presenti, i portoghesi Jião Mourão, José
Pereira e Pedro de Meireles, il francese
Joachim Bouvet, nonché Teodorico
Pedrini, della Congregazione della
Missione, devono controllare l’esattezza della traduzione dal cinese in italiano e dall’italiano in cinese di
Matteo Ripa non solo per la grande
difficoltà di rendere il cinese in altre
lingue, ma anche per la diffidenza che
esiste tra i missionari delle diverse
comunità religiose che sono sempre in
sospetto di inganni e trappole da parte
dei colleghi di comunità diverse.
229
IV Sezione
Fig. 20. Nella pagina qui riportata viene
riprodotto un dialogo fra il padre Tomacelli, del seguito del Mezzabarba, e il gesuita, Dominique Parrenin, i quali, dopo
uno spettacolo di fuochi artificiali della
sera del 22 gennaio 1721, ripresero una
polemica, già avviata il 16 precedente,
nella quale il Parrenin aveva definito «sparate» del papa le due legazioni di Carlo
Tommaso Maillard de Tournon e dello
stesso Carlo Ambrogio Mezzabarba. Secondo gli avversari dei Gesuiti il Parrenin
ricorreva ad operazioni riduttive per sminuire la figura del papa di fronte all’imperatore e si ricordava un episodio, riportato dal Ripa nel suo Giornale, IV, sotto la
data del 26 dicembre 1720, in cui il gesuita francese aveva presentato l’estensione
dello Stato pontificio inferiore «alle minime» province cinesi.
230
Il problema della fondazione del Collegio dei
Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del
7 aprile 1732 del Papa Clemente XII Corsini
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
Fig. 3
Fig. 2
Fig. 1
Fig. 1. Matteo Ripa nel gennaio 1724 partiva da Pechino sotto i migliori auspici: in
primo luogo portava con sé una lettera di
Giuseppe Castiglione (Milano, 1688 Pechino, 1766), il quale svolse attività di
pittore e di architetto in Cina al servizio di
tre imperatori (Kangxi, Yongzheng,
Qianlong), lasciando cospicue tracce delle
sue opere firmate sotto il nome cinese di
Lang Shining. La lettera prova gli ottimi
rapporti tra il Ripa e il Castiglione, che
nella Compagnia di Gesù entrò solo come
fratello laico.
Fonte: ACGOFM, MH, 14-2, ff. 348-349.
Figg. 2, 3. Matteo Ripa partiva da Pechino
portando con sé il passaporto rilasciatogli
dal Bing Bu (Ministero della guerra), il
quale raccomanda alle autorità di prestare
aiuto al latore del documento. Veniva
ricordato che Ma Guoxian (nome cinese
del Ripa) era seguito da 5 servitori e portava con sé prodotti diversi che venivano
elencati
Fonte: ACGOFM, MH, 1-3, f. 91.
233
V Sezione
Fig. 4. Il ritorno di Matteo
Ripa in Italia fu visto con
molto sospetto dalle autorità
pontificie. Egli aveva abbandonato la missione senza chiedere l’autorizzazione di Propaganda Fide; inoltre, egli sbarcava a Napoli il 20 novembre
1724, dopo le polemiche suscitate dalla pubblicazione del
libro di Pietro Giannone,
Istoria civile del Regno di
Napoli (aprile 1723 per i tipi di
Niccolò Naso), che dimostrava
l’inconsistenza delle pretese
papali di considerare Napoli
feudo della Chiesa. Quindi la
proposta di fondare un seminario per preparare al sacerdozio alunni cinesi, inviata a
Benedetto XIII (al secolo
Pietro Francesco Orsini, in OP
Vincenzo Maria), per il tramite del cardinale Giuseppe
Sagripanti, prefetto di Propaganda Fide, nel dicembre del
1724 fu accolta con molta freddezza dal pontefice che scaricò
tutto il problema sul vicerè di
Napoli Michele Federico von
Althann. La lettera a questi indirizzata porta la data del 4 agosto
1725 e in calce porta il nome di
“Carolus Archiepiscopus Emessensis” ovvero Carlo Maielli/Maiello (Napoli, 1669 - Napoli, 1739), consacrato nel
1724, vescovo in partibus di
Emesa e nominato da Benedetto XIII nel giugno 1724 segretario dei brevi ai principi.
Fonte: ASNa, Collaterale, Consulte originali, vol. 7, inc. 20, f.
518.
234
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
Fig. 5. La freddezza di
Benedetto XIII sul progetto di
fondazione del Collegio dei
Cinesi emerge anche dalla lettera inviata dal segretario di
Stato Fabrizio Paulucci de’
Calboli (Forlì, 1651 - Roma,
1726), che porta a conoscenza
del sacerdote ebolitano che il
Papa può soltanto «pagare i
frutti per 5.000 ducati» da
prendere a prestito da qualche
banco napoletano. Nel restante la lettera del Paulucci contiene soltanto frasi di convenienza, alludendo al presidente del Consiglio Collaterale
Gaetano Argento, grande fautore del progetto del Ripa.
Fonte: ACGOFM, MH, 1-2.
235
V Sezione
Fig. 6. Conosciuta la freddezza del Papa sul
progetto di fondazione del Collegio dei
Cinesi, Matteo Ripa si rivolse al vicerè di
Napoli Michele Federico von Althann, il
quale doveva, prima di concedere un suo
benestare al progetto del sacerdote ebolitano, ottenere un parere («notamento») del
Consiglio Collaterale. Nella prima domanda
Matteo Ripa chiede «beneplacito e protezione» per l’istituendo Collegio che riuscirà
utile sia ai «fedeli di questo regno», sia agli
«infedeli del vasto impero della Cina e regni
a lei adiacenti».
Fonte: ASNa, Collaterale, Consulte originali,
vol. 7, inc. 20, ff. 517r/v.
236
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
Fig. 7. In un secondo momento, Matteo Ripa,
come aveva promesso nel breve memoriale inviato al vicerè, elencò i tre motivi che giustificavano
la fondazione del Collegio. In primo luogo egli
escludeva trattarsi di un «nuovo monastero di
religiosi», fondazioni proibite nella città di Napoli
da prammatica dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. In secondo luogo segnalava essere la fondazione «unica in tutta l’Europa». Infine, sottolineava
l’utilità di avere missionari conoscitori della lingua cinese, che avrebbero potuto svolgere utili servizi a favore della Compagnia di Ostenda, fondata
il 19 dicembre 1722 con il titolo “compagnia
imperiale e reale”. Poiché tale compagnia aveva
scali commerciali anche in India, Matteo Ripa si
impegnò, in seguito, a formare interpreti e sacerdoti anche indiani.
Fonte: ASNa, Collaterale, Consulte originali, vol. 7,
inc. 20, ff. 508r/v.
237
V Sezione
Fig. 8. Le risposte interlocutorie del Consilgio Collaterale e
quelle evasive del Cappellano
Maggiore indussero Matteo
Ripa a recarsi a Vienna, dove
soggiornò dal 5 luglio 1726
fino al giugno 1728. Fu ricevuto dall’imperatore Carlo VI
d’Asburgo il 9 e il 21 agosto
1726. L’imperatore si dimostrò
favorevole alla fondazione del
Collegio dei Cinesi, alla condizione che la sede fosse ubicata
«en los contornos dela ciudad
de Napoles y que no deva
poner per motivo alguno la
mano la Congregacion de
Propaganda Fide y solo en el
caso de ir a Indias los missionarios». Si spiegava inoltre che
l’opposizione papale derivava
dalla «Doctrina de Napoles
poco sano» con allusione alla
difesa della reale giurisdizione
e alle polemiche suscitate dall’opera del Giannone.
Fonte: SAW, Italien - Spanischer
Rat, Neapel, Collectanea, 13, fas.
166.
238
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
Fig. 9. Lettera scritta da Gabriele Longobardo, medico dell’imperatrice vedova, Amalia Guglielmina di Braunsweig-Lüneburg, consorte del defunto (1710) imperatore Giuseppe I d’Asburgo, fratello di Carlo VI, da Vienna a Matteo Ripa, in data 25 maggio 1727.
Mentre Carlo VI, pur favorevole alla fondazione del Collegio dei Cinesi, mostrava qualche perplessità, perché non capiva bene la
differenza tra la regia protezione, richiesta con insistenza dal Ripa, e il regio patronato, Amalia Guglielmina di BraunsweigLüneburg, non esitò a concedere la sua protezione all’erigendo collegio, anche se tale protezione non contava molto rispetto alla
fonte del potere costituita dall’imperatore. A dimostrazione della sua approvazione dell’idea del Ripa, mise a disposizione della
fondazione 200 fiorini “alemanni” e, per mezzo del suo medico personale, invitò il sacerdote ebolitano a passare, prima della sua
partenza per Napoli, per la sua corte, nota come “Amalientrakt”, per chiedere alla sua cameriera maggiore, Maria Teresa
Maddalena degli Obizzi, la cui famiglia possedeva un palazzo a Vienna tuttora esistente, una lettera commendatizia diretta alla
principessa di Cariati, Maria Emanuela d’Heryl y Fernandez, per ottenerne un contributo per l’erigendo collegio.
Fonte: Matteo Ripa, Zibaldone, ACGOFM, MH 31-88.
239
V Sezione
Fig. 10. Il temutissimo catalano, Raimund Vilhana Perlas, marchese di Rialp, favorito di Carlo VI d’Asburgo, ricevuta la carica ufficiale di «Segretario del Dispaccio universale e Consigliere», esercitò un grande potere, perché »tutte le grazie, e l’arbitrij
dell’Imperatore per le di lui mani passavano» (R. Ajello, Racconto di varie notizie, 1700-1732, Napoli 1997, p. 107). Egli scrive a
Gaetano Argento, già noto per essere sostenitore del progetto di Ripa, che cumulava le cariche di reggente del Collaterale, delegato della Real Giurisdizione e presidente del Sacro Regio Consiglio o Consiglio di S. Chiara, a nome non di Carlo VI, ma della citata «Imperadrice N.ra Augustissima» che ha assunto «la protezzione del Colleggio, che a tenore de Cesarei ordini deve fundarsi per
le missioni straniere». A Gaetano Argento tocca il compito di “spianare qualunque difficultà”.
Fonte: Matteo Ripa, Zibaldone, ACGOFM, MH 31-88.
240
Fig. 11
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
241
Fig. 12
V Sezione
Figg. 11, 12. Atto di acquisto della sede del Collegio dei Cinesi, rogato in data 7 aprile 1729 da notaio Nicolò Marciano nel sommario in margine al rogito si descrive la «Emptio Stabilium cum iardenis pro Collegio missionis Cinensium [sic] sub titulo Sacrae familiae
Jesu Christi». Prima di attendere l’approvazione e il riconoscimento papale, Matteo Ripa si preoccupò di acquistare una sede stabile
per il Collegio dei Cinesi per mettere le autorità ecclesiastiche dinanzi al fato compiuto. In seguito all’intervento del cardinale
Cienfuegos, ministro di Carlo VI accreditato presso il papa Benedetto XIII, che aveva assicurato il pontefice sulla dotazione annua di
800 ducati da attribuire al Collegio dei Cinesi dalle rendite dei vescovati di regio patronato (Cassano, 200 ducati; Reggio in Calabria,
300 ducati; Tropea, 300 ducati), l’atteggiamento papale nei confronti di Ripa si era abbastanza mitigato, tant’è che la promessa di
pagare i frutti su 5.000 ducati si era trasformata nel versamento una tantum di tutta la somma per l’acquisto della casa, la quale fu
inaugurata privatamente con la messa officiata da Mattia Ripa, fratello del fondatore, il 16 aprile, giovedì santo, nel momento stesso
in cui si scioglievano le campane per salutare la resurrezione di Cristo.
Fonte: ASNa, Notai del Settecento, 1729, scheda 90, protocollo 19, notaio Nicolò Marciano.
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Fig. 13
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
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Fig. 14
V Sezione
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Fig. 15
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
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Fig. 16
V Sezione
Figg. 13, 14, 15, 16. Nella lunga lettera autografa inviata a Giuseppe Villasor, conte di Montesanto, presidente del Consiglio di Spagna
nel 1729, sotto la data del 12 luglio di quell’anno, Matteo Ripa descrive l’ufficiale inaugurazione, avvenuta il 10 luglio 1729, della sede
del Collegio dei Cinesi e dell’annessa Chiesa che, come tutte le proprietà e i benefici della nuova fondazione, rientrava sotto la regia
giurisdizione. Il sacerdote ebolitano nella lettera, infatti, sottolinea che l’ordinario, ovvero l’arcivescovo di Napoli Giuseppe Pignatelli,
venuto a far la visita della Chiesa, non pose ne meno il piede nella soglia del Collegio. Il Ripa lamenta anche il mancato riconoscimento papale.
Fonte: SAW, Italien - Spanischer Rat, Neapel Collectanea, fas. 13.
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Fig. 17
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
247
Fig. 18
V Sezione
Figg. 17, 18. La richiesta del cardinale Alvaro Cienfuegos, vescovo
di Monreale in Sicilia e ministro
plenipotenziario di Carlo VI
d’Asburgo presso la Santa Sede,
porta la data del 5 aprile 1731. Il
testo fa riferimento ad una precedente autorizzazione papale a fondare quello che egli chiama
«Colleggio della sacra famiglia di
Gesù Cristo». In realtà tale autorizzazione non vi era mai stata. È
vero al contrario che Carlo VI
d’Asburgo aveva assicurato la sua
protezione all’istituto fondato da
Matteo Ripa dotandolo di una
rendita annua di 800 ducati di
moneta napoletana alla condizione che il Collegio dei Cinesi e degli
Indiani conservasse sempre il suo
prioritario scopo di educare missionari provenienti dalla Cina e
dall’India e intenzionati a ritornare nelle loro terre a diffondere il
Cristianesimo. Il Papa accoglierà
la richiesta di «confermare la fondazione» di Matteo Ripa alla condizione che sia soggetta in toto al
vescovo ordinario tranne che per i
beni acquisiti e da acquisire.
248
Fig. 19
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
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Fig. 20
V Sezione
250
Fig. 21
Il problema della fondazione del Collegio dei Cinesi a Napoli: promotori e oppositori
L’acquisto della sede e il breve Nuper pro del 7 aprile 1732 del Papa Clemente XVI Corsini
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Fig. 22
V Sezione
Figg. 19, 20, 21, 22. Il breve, in sintesi recita, che il Papa
Clemente XII Corsini approva o conferma la fondazione
extra moenia di una congregazione di preti secolari sotto il
titolo della Sacra Famiglia, il cui scopo è l’educazione di collegiali cinesi e indiani perché ritornino nelle loro patrie a
diffondere il Vangelo di Cristo e che vivano del loro patrimonio senza gravare sulle risorse del Collegio che è dotato
di regia protezione e delle entrate di 800 ducati in moneta
napoletana da ricavare per 300 ducati dalla diocesi di
Tropea, per 200 dalla diocesi di Cassano e per 300 ancora
dalla diocesi di Reggio.
Fonte: ASV, Secr. brevium, 2791, data 7 Aprilis 1732.
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La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi
e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 1. La facciata del Collegio come appariva nel 1897 quando fu venduta. Anche se si godeva di una bellissima vista della città di
Napoli dalle finestre dell’edificio prospiciente il mare, era circondato da una realtà urbana e sociale al quanto degradata. Al tempo di
Matteo Ripa vi si accedeva in portantina o a dorso di muro o a piedi e, in qualche caso la gente del vicinato pose problemi di compatibilità con il Fondatore. Questa immagine è tratta da Vincenzo Onorati, Dal Monastero degli Olivetani all’Ospedale Elena d’Aosta.
Fig. 2. Dal 1729 al 1894, il Collegio dei Cinesi, anche dopo le trasformazioni avvenute nel 1869 e nel 1888, ebbe la sua sede nel complesso situato extra moenia sul poggio della Montagnola, zona dei Pirozzoli, borgo dei Vergini. Questa, invece, è un fotograma del
film Ieri Oggi e Domani, di Vittorio De Sica, 1963.
255
Fig. 4
Fig. 3
VI Sezione
Figg. 3, 4. L’emblema della Congregazione della sacra famiglia di Gesù Cristo si
può ammirare ancora affrescato sotto la volta dell’androne dell’attuale presidio
sanitario Elena d’Aosta. Matteo Ripa, tutto preso dalla organizzazione del Collegio
da lui fondato, non dimenticò di essere un pittore e di conoscere molto bene i
caratteri cinesi. Quindi disegnò l’emblema della sua istituzione costituito da due
angeli che sorreggono uno scudo formato da un globo su cui si erge una croce con un
cartiglio triangolare dove a mala pena si legge la scritta volo ut accendatur. Con grande
chiarezza emergono in questa immagine sfocata i caratteri a partire dalla destra
.
Attorno allo scudo si legge la scritta tratta dal Vangelo di Marco [64]: “Ite in universum
mundum et praedicate evangelium omni creaturae!...”.
256
La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 5. Gouache, senza data e senza autore, che rappresenta la chiesa dei Cinesi, l’arciconfraternita di Maria SS. Assunta in Cielo ai
Cinesi, ingresso all’androne del Collegio dei Cinesi. Dal costume di un personaggio che appare sullo sfondo si potrebbe datare ai
primi del XIX secolo.
Fonte: Collezione del notaio Sabatino Santangelo.
257
VI Sezione
Fig. 6. Immagine ed iscrizione ancora oggi a stento
visibili della «Reale Arciconfraternita di M. SS.
Assunta in Cielo ai Cinesi». Tale arciconfraternita
risultava fondata già in vita di Matteo Ripa ed ancora attiva nel 1888, anno in cui un regio decreto, del 9
febbraio, ne sciolse l’amministrazione. La figura
della Madonna che ascende in cielo, insieme a due
angeli, che si vedono al suo fianco e ai suoi piedi, è
una delle poche testimonianze del talento pittorico
di Matteo Ripa.
Fonte: Fototeca dell'Università degli Studi di Napoli
“L’Orientale”.
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La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 7. Molte iscrizioni adornavano le pareti dell'androne e il muro esterno della chiesa dei Cinesi. Alcune di queste, provvisorie ed
occasionali, andarono perdute già Matto Ripa vivente, altre, incise su marmo, furono distrutte dopo la vendita, avvenuta nel 1896,
di tutto il complesso situato ai Pirozzoli, sede storica del Collegio dei Cinesi. Il sacerdote ebolitano, nel suo manoscritto intitolato
Istoria o sia Relazione dell'erezione della Congregazione e Collegio della Sagra Famiglia di Giesu Cristo (ACGOFM, MH, 9-2) si sofferma sui festeggiamenti promossi nei giorni 25, 26 e 27 luglio 1732 per la solenne ed ufficiale inaugurazione della Congregazione,
stante il Nuper pro di conferma, che Ripa definisce di «approvazione». A questo proposito egli scrive: «… ne fu ancor fatta commemorazione ne' publici avvisi stampati. E per conclusione, fra le varie iscrizioni che si vedevano appese in varii luoghi, trascrivo qui
solo quella che si leggeva su la prima porta di fuora pria d'entrare alla chiesa, che diceva …»:
Il sacro sodalizio di preti, avviato per fondare e governare un collegio, a modo di seminario, di cinesi, di giapponesi e di altri barbari di
tutte le regioni orientali, sotto i fausti auspici della sacra famiglia di gesù cristo, con l'approvazione del sommo gerarca della chiesa, con
la protezione di carlo vi cesare augusto e con il plauso di tutta la chiesa, lieta celebra la sua inaugurazione e trascorre giorni di grandi
festeggiamenti.
259
VI Sezione
Fig. 8. A Dio Ottimo Massimo. In onore di Benedetto XIV, pontefice massimo, per avere con mano generosissima riassestato, rinsaldato e consolidato con ricchissimo beneficio , attribuito giuridicamente in perpetuo, sotto il titolo di S. Pietro, principe degli apostoli, in Eboli, questo Collegio, sì da potersi chiamare a buon diritto Benedettino – Collegio fondato al fine di trasmettere con
sommo zelo il calore della pietà nei Cinesi, Indiani ed altri alunni provenienti da altre nazioni e di istruirli con massima cura nelle
sacre discipline affinché presto con tali predicatori, propagatori e propugnatori la sacrosanta fede di Gesù Cristo senza ostacoli
possa essere accolta, diffusa e custodita presso tutte le genti dell’immenso pianeta quanto più lontane tanto più immani – gli alunni di questo Collegio non solo, ma i congregati tutti della Sacra Famiglia, questa iscrizione concordi posero a perenne testimonianza di gratitudine nell’Anno del Signore 1743.
Fonte: iscrizione tratta da I. Moréri, Le grand Dictionnaire historique ou le Mélange curieux de l'histoire sacrée et prophane, t. VI, Paris,
1744, pag. 886.
260
La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 9. Ai piedi dell’altare è sepolto il corpo di Matteo Ripa coperto dalla lapide in latino che si può così tradurre: A Dio Ottimo
Massimo. Qui giace il corpo di Matteo Ripa, che dopo avere trascorso 18 anni in Oriente per propagare la fede di Cristo, condusse in
Europa alunni cinesi per prepararli all’apostolico ministerio e fondò, per educarli, la Congregazione e il Collegio della Sacra Famiglia
di Gesù Cristo con l’approvazione di Benedetto XIII e di Clemente XII, sommi pontefici, dopo aver concluso il corso della sua esistenza, fermo nella fede, si levò in volo verso il Signore, nello stesso giorno in cui nacque, il 29 marzo dell’anno 1746, 64° della sua vita.
261
VI Sezione
Fig. 10. All'interno della chiesa dei Cinesi
sono sepolti molti dei congregati della Sacra
Famiglia: tra questi Francesco Saverio
Maresca (1809-1855), che fu in Cina dal 1840
al 1855, ricoprendo anche l'incarico di amministratore della diocesi di Nanchino. Sul
monumento funebre si notano le insegne
episcopali – mitra e pastorale – perché il
Maresca fu nel 1847 insignito del titolo di
vescovo di Sola in partibus infidelium.
L'iscrizione in latino, in qualche parte poco
leggibile, recita: SI GLORIA EST PERVAGATA MULTORUM/ VEL IN SUOS VEL IN
PATRIAM VEL IN OMNE/ GENUS HOMINUM FAMA MERITORUM/ FRANCISCUS
XAVERIUS MARESCA/ APOSTOLATU
SUO VERAM CHRISTIANI HOMINIS/
GLORIAM SIBI COMPARAVIT [Se è gloria
la fama diffusa di molti meriti nei confronti
dei propri connazionali, della patria e di tutto
il genere umano, Francesco Saverio Maresca
si procurò con il suo apostolato la vera gloria
del cristiano].
262
La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 11. Tra le figure più insigni sepolte sotto il pavimento della Chiesa dei Cinesi, figura Niccolò Borgia (Trani, 1700 - Napoli
1779) il cui epitaffio in latino recita: A Niccolò Borgia, dei duchi di Valle Mediana, uomo di grande pietà, che qui a Napoli un tempo
fu di grande utilità, che governò integerrimo le diocesi di Cava e di Aversa, che animò e sostenne il Collegio napoletano, del cui fondatore fu amico egualmente premuroso, che questa Sacra Famiglia aiutò con le sue opere e i suoi consigli, i padri della stessa Famiglia
questa lapide posero concordi nel giorno stesso della sua morte avvenuta il giorno dopo le none (6) di aprile dell'anno del Signore 1779,
quando egli aveva 79 anni.
263
VI Sezione
Fig. 12. Tra l’arredo interno della chiesa dei Cinesi, Matteo Ripa attribuiva un agrande importanza alla statua lignea sopra riportata, che riteneva taumaturgica e che gli fu donata durante la sua sosta a Manila nel dicembre 1709.
Fonte: Matteo Ripa, Giornale, vol. I (1705-1711), Introduzione, testo critico e note di Michele Fatica, Napoli 1991, p. 178.
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La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 13. Collocate ai lati della tribuna le due tele rettangolari raffigurano a sinistra (fig. in alto) l’Annunciazione e a destra (fig. in
basso) la Visitazione. Non se ne conosce l’autore, ma sembrano comunque ispirate a Francesco De Mura (1696-1782), in particolare alle due tele di analoghe dimensioni da lui eseguite intorno al 1757 per la cappella dell’Assunta situata nella Chiesa annessa alla
Certosa di S. Martino. Nella Visitazione sono rappresentate Maria (sulla destra) ed Elisabetta (sulla sinistra) che manifestano il loro
giubilo per i rispettivi nascituri (Giovanni Battista e Gesù) che portano in grembo. Sullo sfondo emergono i coniugi delle due
donne, a sinistra la figura maestosa di Zaccaria, a destra Giuseppe, che si intravede con l’asinello. Nell’Annunciazione il messaggio
portato dall’arcangelo Gabriele coglie la Vergine in una pausa di preghiera (è disegnato con nettezza di particolari l’inginocchiatoio) e di lavoro (sullo sfondo si nota lo sgabello con il cesto della materia grezza). Gabriele indica in alto con l’indice della mano
destra la colomba bianca, simbolo dello Spirito Santo.
265
266
Fig. 15
Fig. 14
VI Sezione
La sede del Collegio, la chiesa dei Cinesi e l’arciconfraternita di Santa Maria Assunta
Fig. 17
Fig. 16
Figg. 14, 15, 16, 17. Nei pilastri della cupola al centro della navata sono collocate, ognuna in una nicchia di marmi e stucchi, 4 statue di
rame, alte circa m. 1,40, raffiguranti S. Gioacchino (fig. 14), S. Elisabetta (fig. 15), S. Anna (fig. 16) e S. Giuseppe (fig. 17). Secondo
Giuseppe Sigismondo, Descrizione della città di Napoli e dei suoi borghi, vol. III, Napoli 1789, p. 56, furono eseguite su disegno di
Francesco Solimena (1657-1743). Tale notizia è attendibile in quanto il Solimena, così come altri celebri pittori, operanti a Napoli tra i
secoli XVII e XVIII, eseguirono modelli per statue in materiale vario, in particolare busti reliquari: dello stesso Solimena si conoscono i
disegni preparatori per i busti d’argento di S. Antonio Abate e S. Francesco da Paola. Si è ritrovato anche un documento di pagamento
all’argentiere Andrea de Blasio per l’esecuzione di due statue (S. Bartolomeo e S. Andrea).
267
VI Sezione
Fig. 16. L’Adorazione dei Magi che oggi si conserva nella pinacoteca del Pio Monte della Misericordia in via dei Tribunali a Napoli, è tra
le opere più interessanti un tempo conservate nella sacrestia del Collegio della Sacra Famiglia ai Cinesi. Essa fu donata da Niccolò Borgia.
Una copia identica del quadro, oggi nei depositi, si conservava nella cappella di patronato della famiglia Borgia nella chiesa di S. Giovanni
Maggiore. L’identificazione dell’Adorazione dei Magi, situata nella sacrestia della chiesa dei Cinesi, con quella del Pio Monte, che dovette rilevarla molti anni fa per arricchire la sua quadreria, è stata possibile grazie alla precisa descrizione che ne fa il Chiarini. Attribuita da
Raffaello Causa a Giovan Filippo Criscuolo, è stata di recente assegnata da Leone de Castris a Girolamo da Salerno.
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Scritti di Ripa,
da Ripa,
su Ripa
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 1. Nella sua Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione
e Collegio della Sagra Famiglia di Giesu Cristo, ms. in ACGOFM, MH,
9-2, Matteo Ripa, al cp. 25, pp. 267-268, sotto la data di Napoli, ottobre 1731, scrive del suo ritorno programmato a Roma nel mese di
novembre: « dopo che l’aria si sarà rinfrescata, dovendo andarvi per
tre motivi: 1°) per ubidire al commando del Papa che colà mi voleva
per conto d’un dizionario latino-cinese che pensava dare alle stampe,
acciò io colla mia opera vi dassi la mano; 2°) per prendere possesso
d’un’altra casa e chiesa che colà avevamo avuto; e 3°) per trattare la
spedizione del breve approvativo della fondazione. Per piena intelligenza dei sudetti accennati tre, sono a dire com’era stata regalata al
Papa una copia del dizionario latino-cinese del padre fra’ Basilio di
Gemona, francescano riformato, che per molti anni fu missionario e
vicario apostolico in Cina, e perché nella detta copia vi mancava l’anima, cioè i caratteri o siano gerolifici cinesi, in numero più di 40mila,
commandò a me la Santità Sua che gliele agiungessi, come io feci fare
qui in Napoli da’nostri alunni cinesi con tutt’esattezza e polizia, e di
più per via di questo Monsignor Nunzio gliela rimandai. Piacque al
Papa la fatica e, desiderando dare alla luce quest’opera, desiderava la
mia persona a Roma, siccome mi mandò a dire, acciò assistessi agll’intagli dei geroglifici ed alla rivisione dell’opera, ma considerando io
che quest’applicazione – che sarebbe stata di uno o due anni almeno
– averebbe molto distolto me e questi nostri alunni dalle nostre applicazioni, perciò, giunto che fui in Roma, trovai modo di esimermi da
questa fatica e distrazione». In realtà il Ripa aveva preparato anche
l’istruzione per l’uso del vocabolario, di cui qui si riporta l’incipit.
271
Fig. 2
Fig. 3
VII Sezione
Fig. 2. Uno dei primi manoscritti composti dal Ripa per essere letti, almeno da un pubblico sia pure esiguo, fu la Istoria o sia relazione dell’erezione della Congregazione e Collegio della Sagra Famiglia di Giesu Cristo, conservato in ACGOFM, MH, 9-2, di cui riportiamo il frontespizio. Molto eloquente l’incipit: «Alli Signori Aggregati della Congregazione della Sagra Famiglia di Giesu Cristo.
Essendo cosa giusta ch’io soddisfaccia al lor pio desiderio con una relazione distinta dell’origine e progressi di questa nostra minima
radunanza, acciò Iddio, che tutto ha fatto, resti glorificato et edificato ogn’un di loro, perciò, col commando espresso avutone dal
direttore del mio povero spirito, oggi 2 febraro del 1734 dò principio al ragguaglio,cominciando dal primo impulso che n’ebbi da
Dio». L’opera fu aggiornata dal Ripa, fino a che le forze non gli vennero meno, cioè fino all’inizio di marzo del 1744.
Fig. 3. Se durante la sua dimora alla corte di Kangxi Ripa fu in costante polemica coi Gesuiti sulla questione dei «riti cinesi», dai missionari della Compagnia di Gesù interpretati come «riti civili» e da Ripa, insieme agli altri evangelizzatori inviati in Cina da
Propaganda Fide, intesi come «riti superstiziosi», al suo ritorno in Italia non aveva potuto parlarne, perché la problematica sembrò
interessare molto poco Benedetto XIII Orsini. Con la elezione di Clemente XII Corsini al soglio di Pietro (12 luglio 1730) il clima
nella curia di Roma cambiò totalmente. Il 7 aprile 1732 il nuovo papa appose il suo sigillo al breve di approvazione del Collegio dei
Cinesi, quindi il Ripa venne chiamato a Roma per volere dello stesso pontefice, dove si trattenne per 9 mesi (26 giugno 1737-15 marzo
1738), durante i quali egli svolse il ruolo di consulente del Sant'Uffizio sulla questione delle cosiddette «permissioni» del Mezzabarba.
Dopo questa lungo soggiorno romano, ritornò a Napoli, dove scrisse la sua opera Dissertazione…, nella quale ribadiva tutti i motivi
della sua avversione ai «riti cinesi», concludendo con la relazione sui «riti cinesi», che già aveva presentato al Sant'Uffizio. Giuseppe
Maria Kuo, che trasportò in Cina tutte le opere del Ripa, lasciò questo manoscritto, dove tuttora si conserva: AUNO, busta 14.
272
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 4. Tra i primi alunni ospitati nel
Collegio dei Cinesi, Matteo Ripa nutrì
affetto e ammirazione particolari per
Gabriel Belisario de Angelis, filippino
di nascita, ma appartenente a famiglia
giapponese, riparata a Manila dopo le
persecuzioni contro i cristiani, che,
senza soluzioni di continuità, si susseguirono nel paese del Sol Levante, nella
prima metà del secolo XVII. Nel suo
manoscritto, più volte citato, Istoria o
sia relazione dell’erezione …, sotto la
data del 27 novembre 1738, il Ripa,
nello stesso giorno in cui il giovane trapassava – era nato il 6 aprile 1713 – ne
rilevava due qualità: « [l’applicazione]
alli studi e alla pietà cristiana» e «l’ammirabile abilità per apprendere le lingue, sapendo, oltre la lingua panpanga
del suo paese, assai bene la lingua spagnola appresa in Manila, la portoghese
appresa in Macao. Sapeva di più mediamente bene la lingua cinese appresa in
Cina, la francese appresa su la nave
nella quale venne, e l’italiana appresa da
un fiorentino, al quale da Pariggi s’accompagnò fino a Livorno. Della latina,
però, ne avea, quando giunse, sol qualche sapere».
273
VII Sezione
Fig. 5. Una della maggiori preoccupazioni del Ripa fu quella di scrivere le regole della Congregazione della Sacra Famiglia. Egli in
primo luogo voleva evitare che i congregati gravassero sulle rendite della istituzione; in secondo luogo voleva impedire ad ogni costo
le fughe in altre comunità religiose di quanti avessero fatto parte della sua comunità. Il modello che egli ebbe in mente per il primo
aspetto furono i preti delle due Congregazioni, dell’Oratorio e dei Pii Operai. Relativamente al secondo punto egli temeva fortemente il passaggio di suoi congregati alla Compagnia di Gesù; quindi, inserì la clausola che stabiliva il divieto tassativo di passare ad altro
ordine, congregazione, collegio, seminario, istituto a meno che da tale divieto non si fosse ottenuta la dispensa da lui o dai suoi successori. Il breve pontificio del 16 aprile 1736 approvava senza difficoltà la parte disciplinare delle regole scritte da Ripa, ma conferiva alla commissione sugli affari della Cina e dell’India, costituita in seno a Propaganda Fide, la facoltà di permettere il passaggio ad
altre comunità religiose. Ripa impiegò più di una anno per ottenere la cancellazione di questa clausola, la quale fu eliminata solo il
1° settembre 1737, dopo che il Sant’Uffizio aveva manifestato il suo gradimento al parere del Ripa sulle otto «permissioni» del
Mezzabarba. Numerose pagine della sua Istoria o sia relazione dell’erezione …, (in particolare il cap. 39) sono dedicate alla questione
delle regole.
274
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 6. L’ultima e più impegnativa opera manoscritta di Ripa è costituita dai cinque tomi intitolati Giornale de viaggi …. Come scrive nella prefazione dedicata A’ congregati e collegiali della Sagra Famiglia di Giesù Cristo, egli si decise a comporre quest’opera solo tre
anni prima della morte. In tale prefazione si legge: «… invocando di tutto cuore l’assistenza e l’ajuto del grande Dio, della Sagra
Famiglia e di tutti gli altri Santi nostri protettori, incomincio quest’oggi, 26 maggio 1743, nel quale corre la festa del nostro San
Filippo Neri, a mettere in nota e distendere la relazione de’ miei viaggi, intendendo e volendo che tutto sia a maggior gloria di esso
benedetto Signore, ad istruzione et edificazione de’ nostri». Quindi l’opera aveva una finalità squisitamente didascalica per il piccolo pubblico di lettori costituito dai preti della Congregazione della Sacra Famiglia e per i collegiali cinesi. Anche se egli promette di
descrivere nella terza parte «il suo viaggio fatto nel ritorno da Pechino in questa Città di Napoli» il quinto tomo del Giornale si arresta, per le gravi condizioni di salute in cui versava, al suo soggiorno londinese nel settembre 1724.
275
VII Sezione
Fig. 7. La Société des Missions
Étrangères di Parigi era una comunità religiosa, che nutriva una forte
avversione nei confronti della
Compagnia di Gesù. I missionari
della Société in Cina – Artus de
Lyonne, Charles Maigrot, Nicolas
Charmot – convinti che i «riti
cinesi», in quanto supersiziosi,
dovevano essere vietati ai cinesi
convertiti al cristianesimo, si erano
distinti per la loro intransigente
opposizione alla metodologia
evangelizzatrice dei Gesuiti. Appena entrarono in possesso del Giornale della Legazione Mezzabarba,
scritto dal servita Sostegno Viani,
di precipitarono a pubblicarlo,
precedendo l’edizione milanese
curata da Giovanni Lami, Istoria
delle cose operate nella China da
Monsignor Gio. Ambrogio Mezzabarba, patriarca d'Alessandria…,
di cinque anni. Così come nell’edizione italiana, anche in quella francese il ruolo di Ripa, come difensore della purezza della «Santa Fede»,
emergeva contro i Gesuiti, responsabile di avere estorto al Mezzabarba le famose «otto permissioni».
276
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 8. Nel momento in cui in
Portogallo la campagna contro
la Compagnia di Gesù raggiungeva il suo acme per la pretesa
congiura contro il sovrano
ordita dal gesuita Gabriele
Malagrida, e il primo ministro
Sebatião José Carvalho e Melo,
conte di Oeiras e non ancora
marchese di Pombal, aveva proceduto alla espulsione dei
seguaci di Sant’Ignazio da tutti i
territori sottoposti alla sovranità di Sua Maestà Fedelissima,
un cappuccino, noto in Europa
come l’abbate Platel e nell’ordine come fra’ Norbert de Bar-leDuc, che già si era distinto per i
suoi pamphlets contro la
Societas Jesu, fu presumibilmente chiamato a Lisbona dallo stesso primo ministro per sostenere e giustificare per mezzo
della stampa la sua campagna.
Ne uscirono in lingua francese i
Mémoires historiques in sette
tomi, in cui le argomentazioni
contro i gesuiti erano appoggiate a lettere e documenti del
Ripa, inviati a Propaganda Fide,
e raccolte nella Biblioteca Corsiniana da Domenico Passionei.
277
VII Sezione
Fig. 9. Nel 1841 un diplomatico britannico, Parish Woodbine, soggiornò a
lungo a Napoli per trattare col governo
borbonico la questione degl’indennizzi
ai commercianti inglesi, danneggiati
dal contratto di monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano concesso
dal governo delle Due Sicilie ad una
società francese. Memore del ruolo
svolto dai Cinesi del Collegio di Napoli
durante la legazione di George
Macartney presso l’imperatore Qian
Long nel 1794-95, il Woodbine visitò i
padri della Congregazione della Sacra
Famiglia, dai quali ebbe in regalo i tre
tomi intitolati Storia della fondazione
della Congregazione della Congregazione
e del Collegio de’ Cinesi sotto il titolo
della Sagra Famiglia di G. C. scritta dallo
stesso fondatore Matteo Ripa, Napoli
1832, ed una mappa di Pechino recentemente pubblicata dallo studioso cinese Li Xiaocong. Il Woodbine, che conosceva la lingua italiana, si riprometteva
di esrarre un abridgement in lingua
inglese dai tre tomi. Gl’impegni diplomatici non glielo permisero ed egli
passò l’incarico ad una singolare figura
di esule piemontese a Londra, Fortunato Prandi, che aveva già esperienze
di traduzione in inglese di opere in italiano e in francese. Nel 1844 la traduzione fu pubblicata in prima edizione
ed ebbe un tale successo da essere
ripubblicata più volte. Anche se si trattava solo di «condensation», come il
Prandi stesso precisava nella sua
Preface, le conoscenze del mondo intero su Ripa e il Collegio dei Cinesi sono
basate sul testo «selected and translated
from the italian by Fortunato Prandi»,
compresa la data erronea di morte nel
testo del Prandi collocata al 1745 mentre il Ripa morì nel 1746.
278
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 10. L’unica traduzione del Giornale di Matteo Ripa, aderente al testo,
è quella contenuta nei tomi IV-VII dei
Mémoires de la Congrégation de la
Mission, pubblicati anonimi a Parigi
tra il 1863 e il 1866. Purtroppo, giacché i congregati della Sacra Famiglia,
per la loro edizione del 1832 avevano
sovrascritto la loro grafia a quella del
fondatore Ripa, Gabriel Perboyre,
CM, che eseguì la trascrizione a
Napoli, orientato ed aiutato dall’oratoriano Augustin Theiner, non si curò
di distinguere il testo di Ripa dalle
sovrascritte dei congregati. Comunque egli copiò anche i passi – espunti
dall’edizione napoletana del 1832 –
relatavi alle violente polemiche tra
Ripa, sostenuto dal lazzarista Tedorico
Pedrini, e i Gesuiti. Nessuno si è
accorto delle somiglianze fra il testo
italiano del 1832 e il testo francese del
1863-1866. Comunque la pubblicazione dei Mémoires suscitò una forte
reazione dei Gesuiti, che minacciarono di denunziarli al Sant’Uffizio. La
polemica tra i padri della Congregazione della Missione e i Gesuiti, si
concluse con la promessa da parte dei
primi di ritirare l’opera dalla circolazione. Più tardi, nel 1911, i Lazzaristi
operarono una sintesi in tre volumi
che sopprimeva tutte le polemiche
con i Gesuiti. Un altro lazzarista A.
Thomas J.-M. Planchet, con lo psedudonimo di A. Thomas, pubblicò una
Histoire de la Mission de Pékin, t. I,
Depuis les origines jusqu’à l'arrivée des
Lazaristes, Paris 1923; t. II, Depuis l'arrivée des Lazaristes jusqu’à la revolte
des Boxeurs, Paris 1926, che riprendeva alcuni passi, anche di Matteo Ripa,
in un’epoca in cui l’interesse per i «riti
cinesi» si era ormai raffreddato.
279
Fig. 11
VII Sezione
280
Fig. 12
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Figg. 11, 12. Louis Moréri (Bargemont,
1643 - Parigi, 1680), ecclesiastico, pubblicò nel 1674 a Lione Le grand
Dictionnaire historique ou le Mélange
curieux de l'histoire sacrée et prophane,
che ebbe un'enorme fortuna, testimoniata dal numero delle edizioni
ampliate ed aggiornate, che al 1759
avevano superato il numero di 20. È
significativo che questa edizione del
1747, uscita un anno polo la morte di
Matteo Ripa, contenga notizie così dettagliate sul Collegio dei Cinesi e la
Congregazione della Sacra Famiglia di
Gesù Cristo.
281
VII Sezione
Fig. 13. La biografia di Matteo Ripa e la storia della congregazione da lui fondata,
apparse prima come lavoro a sé (Storia della
Congregazione e Collegio della Sacra
Famiglia di Gesù Cristo colla vita del fondatore D. Matteo Ripa, Napoli 1789) e poi
entrate nel quarto tomo dell’opera curata
da Flaminio da Latera, Storia degli ordini
regolari con la vita de' loro fondatori accresciuta di altre vite dal canonico N. Gangemi,
tt. 4, Napoli 1796, sono importanti, perché
l’autore lesse i due manoscritti autobriografici del Ripa (Istoria o sia Relazione … e
Giornale de viaggi …) prima delle cancellature e modifiche apportatevi dai congregati
per l’edizione del 1832. È la sola opera,
prima dell’edizione critica dei primi due
tomi del Giornale curati da Michele Fatica,
a sottolineare l’antigesuitismo di Matteo
Ripa. Ma il Gangemi fu anche uno dei primi
a diffondere la leggenda sul titolo nobiliare
del padre di Matteo, Gianfilippo Ripa.
282
Fig. 14
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
283
Fig. 15
VII Sezione
Figg. 14, 15. Cesare Malpica (Capua,
1801 - Salerno, 1848) fu uno dei più
prolifici scrittori della prima metà
dell'Ottocento napoletano. La sua produzione spazia dai resoconti di viaggi
in Campania, Basilicata, Calabria,
Puglia, Roma, Umbria, Toscana) agli
opuscoli pedagogici destinati ad un
pubblico «popolare». Non poteva
mancare la sua collaborazione al
«Poliorama pittoresco», periodico
ricco di illustrazioni fondato nel 1835
da Filippo Cirelli per un pubblico di
lettori del ceto medio e da lui stesso
diretto. Il suo interesse per Matteo
Ripa fu motivato non solo dalla sua
vena di divulgatore delle grandi figure,
italiane ed europee, entrate nella «storia», ma anche dalla ricerca di documentazione per un'opera di respiro
più grande pubblicata nel 1841 in tre
tomi sotto il titolo Panorama dell'universo. Storia e descrizione di tutti i
popoli, Napoli 1841, di cui un tomo,
poi ripubblicato a parte nel 1844, era
dedicato alla «China».
284
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 16. Gherardo De Vincentiis, personalità di rilievo fra i docenti prima del
Collegio Asiatico e quindi dell'Istituto
Orientale, di cui fu direttore facente
funzione nel biennio 1899-1900, che
insegnò la lingua neopersiana dal 1872
al 1907, anno della sua morte, fu il
primo a compiere ricerche sistematiche
nell'Archivio di Stato di Napoli e nella
sezione manoscritti della Biblioteca
Nazionale. Nel libro che qui si presenta
pubblicò una serie di documenti inediti soprattutto relativi alla polemica di
Matteo Ripa con i Gesuiti sui «riti cinesi» e alle pressanti istanze indirizzate
dal missionario ebolitano ai viceré di
Napoli per ottenere l'autorizzazione a
fondare il Collegio dei Cinesi. Egli intuì
anche che i tre tomi attribuiti a Matteo
Ripa e pubblicati nel 1832 sotto il titolo di Storia della Fondazione della
Congregazione e del Collegio de' Cinesi
…, erano un falso. Non poté dimostrarlo perché i manoscritti autografi
del fondatore erano stati portati in
Cina ai primi degli anni Novanta del
XIX secolo da Giuseppe Maria Kuo.
285
VII Sezione
Fig. 17. Nicola Nicolini (1905-1975),
che insegnò per molti anni storia
moderna nell'Istituto Orientale di
Napoli, studioso scrupoloso e di
grande probità, fu il primo a condurre serie ricerche nell'Archivio
Segreto Vaticano, dove scoprì nel
fondo Segretaria di Stato, Lettere di
particolari, una serie di documenti
inediti e autografi di Matteo Ripa,
che pubblicò nelle pp. 76-105 dell'opera che si espone. Egli, inoltre,
raccolse tutti i testi di tutti gli statuti e delle riforme degli studi
dell'Istituto Orientale fino ala riordinamento del 1941.
286
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Fig. 18. Il primo studioso a vedere i manoscritti autografi, Istoria o sia Relazione … e Giornale
de viaggi …, di Matteo Ripa, fu il sacerdote
Gennaro Nardi. Egli si rese conto che i tre tomi
del 1832 erano stati «compilati unendo le due
opere manoscritte», ma nel risultato delle sue
ricerche, apparso nel 1976 sotto il titolo di
Cinesi a Napoli. Un uomo e un’opera, non
approfondì i criteri adoperati dai congregati
nell’utilizzo dei manoscritti. Comunque si tratta del primo lavoro fondato sopra un’ampia
documentazione.
287
Fig. 19
VII Sezione
288
Fig. 20
Scritti di Ripa, da Ripa, su Ripa
Figg. 19, 20. I primi due tomi del Giornale de viaggi … di
Matteo Ripa sono stati pubblicati nel 1991 e nel 1996 per la
prima volta in edizione critica da Michele Fatica, docente di
storia moderna dal 1978 dell’attuale Università degli Studi
di Napoli “L’Orientale”. Il curatore ha cercato di ricostruire il
testo autografo dell’autore, collocando a pie’ di pagine le
modifiche, correzioni e soppressioni operate dai congregati
per l’edizione del 1832.
289
VII Sezione
Fig. 21. Il volume in lingua
tedesca del Rivinius, sacerdote
della Societas Verbi Divini, è
una testimonianza dell’interesse che a livello mondiale – dalla
Cina alla Germania – suscita
oggi Matteo Ripa e il suo
Collegio dei Cinesi. Il Rivinius
ha rivolto la sua attenzione alla
istituzione napoletana, perche
in Sankt Augustin la Societas
Verbi Divini ha inaugurato un
seminario per la formazione
del clero cattolico cinese. Nella
stessa cittadina viene pubblicata la rivista di sinologia intitolata «Monumenta serica».
290
Dal Collegio dei Cinesi
al Real Collegio Asiatico
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
Fig. 1. Il cambiamento dinastico avvenuto nel 1734 con Carlo di Borbone, anche se restituì dignità di regno a Napoli, vanificò la precedente promessa di Carlo VI d'Asburgo di erogare al Collegio dei Cinesi la rendita di 800 ducati annui. sicché il Collegio si trovò a
vivere una stagione precaria, durante la quale le entrate furono assicurate soprattutto dalle elargizioni di nobili benefattori. Tutto ciò
fu fatto presente dal Ripa a Benedetto XIV Lambertini, il quale nella bolla In sacro del 31 agosto 1743, si rese conto del fatto che l’istituzione « … dispone[va] di rendite così esigue da essere riconosciute insufficienti al sostentamento dei predetti fanciulli e adolescenti [cinesi e indiani]…». La concessione delle rendite dell'abbazia di S. Pietro Apostolo in Eboli era sottoposta a due condizioni: 1a) nunc
pro tunc, ovvero la decorrenza del godimento della rendita sarebbe stato effettiva solo alla morte del beneficiario vivente, Mario
Mellini/Millini, uditore di Rota; 2a) che dalla rendita, valutata a 1.700 ducati, fossero detratti 500 ducati annui come pensione da assegnare a persona da nominare. La successiva bolla, Misericordia Dei, del 6 ottobre 1747, papa Lambertini, sopprimeva la clausola della
pensione annua di 500 ducati, alla condizione che nel Collegio dei Cinesi fossero ammessi 4 giovani cristiani provenienti da Valacchia,
Bulgaria, Serbia ed Albania (regioni soggette al Gran Turco). Il testo della bolla in mostra, non privo di refusi – il più clamoros è quel
debitos della quinto rigo che sta per debitores – è ricavato da Giuseppe Maria Kuo [alias Guo Dongchen 郭棟臣], Elenchus alumnorum, decreta et documenta quæ spectant ad Collegium Sacræ Familiæ Jesu Christi, Changhai 1917, pp. 62-66.
293
Fig. 2
VIII Sezione
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Fig. 3
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
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Fig. 4
VIII Sezione
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Fig. 5
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
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Fig. 6
VIII Sezione
298
Figg. 2, 3, 4, 5, 6. Il testo iniziale di una
due bolle pontificie in mostra, emanata dal papa Clemente XIII Rezzonico,
la Quanta Ecclesiæ Dei del 24 aprile
1760, arricchì, sempre con la formula
nunc ex tunc – il beneficiario vivente
era l'assistente al soglio pontificio
Nicola Saverio Santamaria – il Collegio dei Cinesi di nuove entrate (tenuta di S. Pietro a Colonnello detta volgarmente la Petruccia con ulteriore
rendita di 1.200 ducati) provenienti
dalla divisione dell'abbazia benedettina di S. Maria Madre di Dio in provincia di Salerno alla condizione che il
numero di 16 alunni, fissato dalla precedente bolla Misericordia Dei di
Benedetto XIV, fosse portato a 20: dei
quattro alunni in più due dovevano
essere di origine cinese o indiana, i
rimanenti due dovevano provenire
dai territori sottoposti al Turco. Con
una seconda bolla Docendi omnes del
13 agosto 1764 lo stesso papa stabiliva
che i collegiali della istituzione napoletana dovessero essere in numero di
28 con l'ammissione di altri otto cinesi, in previsione di un intensificato
lavoro missionario da svolgere nel
Paese di Mezzo. Infine, la bolla Præ
cæteris del 23 luglio 1775, portante il
sigillo di Pio VI Braschi, assegnava alla
istituzione l'intero ammontare delle
rendite della summenzionata abbazia
di S. Maria Madre di Dio (la Petruccia
con in più Santa Cecilia), portando a
32 il numero dei collegiali, di cui quattordici dovevano essere Cinesi o
Indiani. La formula di conferimento
del beneficio era sempre quella nunc
ex tunc, dal momento che il beneficiario era Nicola Saverio Santamaria, che
morirà solo il 26 agosto 1776.
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
Fig. 7. A partire dal 1812 il Collegio dei Cinesi fu trasferito alle dipendenze della Direzione generale dell'istruzione pubblica, istituita da Gioacchino Murat, che realizzò una riforma delle scuole pubbliche e private del Regno di Napoli, ispirandosi al criterio
dell'uniformità. Nell'istituto fondato da Matteo Ripa, pertanto, la sezione «convitto» fu equiparata ai licei-collegi voluti in Francia
da Napoleone I, e vi furono introdotti i programmi scolastici per questo tipo di scuole, che prescrivevano l'insegnamento di
«grammatica, umanità, rettorica, lingua greca, geografia, istoria, geometria e filosofia», nonché di «arti cavalieresche». Nel rispetto della sua tradizione e della sua storia nel nuovo «convitto» fu istituita una «scuola speciale» per l'apprendimento della lingua
cinese. Gli allievi erano in numero limitato, ma tutti qualificati. I loro compiti e i loro opuscoli – tra cui la Gramatica chinese di
Gennaro Maria Terres – si possono leggere in una speciale fascicolo conservato dell'ASNa, Ministero dell'interno, Seconda appendice, fascio 1344. Il lavoro del Terres può essere considerato la prima grammatica cinese in lingua italiana.
299
Fig. 8
VIII Sezione
300
Fig. 9
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
301
Fig. 11
VIII Sezione
Figg. 8, 9, 10. Dopo l'unificazione italiana i congregati della Sacra Famiglia nutrirono forti timori circa la soppressione della comunità religiosa fondata da Matteo Ripa. Tuttavia il legame tra la congregazione dei preti secolari e il Collegio dei Cinesi era così
stretto che la scomparsa della prima avrebbe comportato anche il dissolvimento del secondo. Sulle decisioni dei governanti liberali di operare il salvataggio di congregazione e Collegio non influì tanto il precedente murattiano – che aveva operato una separazione netta tra seminario religioso e scuola laica – quanto la riflessione sulla opportunità di utilizzare i missionari italiani o
conoscitori della lingua italiana – come i Cinesi educati nel Collegio di Napoli – per creare zone d'influenza culturale e commerciale in paesi lontani, come la Cina, dove l'Italia non aveva le risorse economiche e gli armamenti idonei, come Francia e Gran
Bretagna, per farsi valere. È molto significativo che una personalità influente all'interno del Ministero degli affari esteri, come il
liberale Cristoforo Negri (1809-1896), manifesti queste idee sopra un periodico cattolico, il «Museo delle missioni cattoliche»,
diretto dal canonico Giuseppe Ortalda (1814-1880), che presenta il collaboratore liberale come «chiamato a rappresentare il
nostro Sovrano a Pekino», anche se successivamente il governo italiano decise di utilizzare al suo posto altra persona per stipulare un trattato di amicizia e di commercio con il Celeste Impero (1866).
302
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
Fig. 11. La legge del 7 luglio
1866, che sopprimeva gli ordini
e le congregazioni religiose,
diede la sensazione che ne escludesse la Congregazione della
Sacra Famiglia. In realtà il governo della «sinistra storica» nominò una commissione, che tenne
le sue riunioni a Firenze – nuova
capitale d'Italia – dal 5 marzo al
27 aprile 1867 per discutere il
destino e l'eventuale riordino
dell'antico Collegio dei Cinesi.
Facevano parte della commissione, fra gli altri, Cristoforo
Negri, quale autorevole membro
interno, ed il congregato Giovanni Maria Falanga, come consulente esterno. La commissione
fu unanime del deliberare la
conservazione di un istituto
«unico in Europa» e nel raccomandare «che per uso del pubblico s’apra infin da ora una
scuola a carico del Collegio
medesimo, ove s’insegni, a tutti i
giovani che vorranno impararla,
la lingua cinese». Prima di attendere eventuali decreti del
Ministero della pubblica istruzione, su istruzione del prefetto
di Napoli, Filippo Gualterio,
lavorarono alla trasformazione
del Collegio dei Cinesi di Napoli
in Collegio Asiatico, l'orientalista Giacomo Lignana, e due congregati della Sacra Famiglia,
Giuseppe Gagliano, superiore, e
il già ricordato Giovanni Maria
Falanga. Per l'inaugurazione fissata al 25 novembre 1868 fu preparato un invito, sottoscritto dal
superiore, che parlava un linguaggio chiaramente liberale.
303
VIII Sezione
Fig. 12. In qualità di superiore della Congregazione della Sacra Famiglia, citata nella fattispecie come Congregazione de' Cinesi, il
sacerdote Giuseppe Gagliano – per un refuso
di stampa indicato come Galiano – tenne il
discorso inaugurale per l'apertura del
Collegio Asiatico. Alcuni passaggi del suo
Discorso meritano di essere segnalati: 1°) la
funzione di veicolo di trasmissione della cultura cinese in Europa, cui avevano assolto nel
passato i collegiali, ricordando quanto Domenico Cirillo fosse debitore a Gatano Siù
[Xu Geda 徐格達] per la sua esposizione
della sfigmica cinese nel suo Tractatus de pulsibus (1783), e il contributo di Antonio Tan
[Tang Duoni 唐多尼] al «gran Dizionario
della lingua Cinese … in adempimento degli
ordini dati dal primo Napoleone». In questo
caso il Gagliano si riferiva al Dictionnaire chinois, français et latin, pubblicato a Parigi nel
1813, del quale si era attributa impropriamente la totale paternità Christian Louis
Joseph de Guignes. 2°) L’auspicio che la
nuova scuola riuscisse «di grande ed immediata utilità ed alle nostre missioni e commerci ed agli studii stessi e le ricerche scientifiche
dell'Asia Orientale». Nel ringraziare le personalità del governo italiano – tra cui il
«Commendatore Negri … e il Professore
Lignana» – che avevano prestato mano a fondare il Collegio Asiatico, il Gagliano e i congregati filoliberali della Sacra Famiglia furono
riguardati con sempre maggiore sospetto
dalle gerarchie cattoliche.
304
Fig. 13
Dal Collegio dei Cinesi al Real Collegio Asiatico
305
Fig. 14
VIII Sezione
Figg. 13, 14. L'impulso maggiore a conservare l'antico Collegio dei Cinesi ed a
fondare il nuovo Collegio Asiatico era
venuto, oltre che dalle personalità altrove
ricordate, dai ministri Domenico Berti,
Michele Coppino e Cesare Correnti. Il
cremonese Angelo Bargoni, che resse la
Pubblica Istruzione per un brevissimo
periodo (13 maggio-14 dicembre 1867),
non risulta essersi interessato al problema, ma si trovò costretto a presentare al
re Vittorio Emanuele II due decreti in
data 12 settembre 1869 – l'uno relativo
alla trasformazione del Collegio dei
Cinesi in Collegio Asiatico e l'altro contenente il regolamento interno del nuovo
istituto – per il motivo che a Napoli si era
inaugurato il Collegio Asiatico senza nessuna autorizzazione ufficiale ministeriale. La «Collezione celerifera delle leggi,
dei decreti e delle istruzioni e circolari»,
XVIII (1869), p. IIa, pp. 1573-1574,
riportava una Relazione del Bargoni che
spiegava al re lo spirito che aveva ispirato
la riforma: 1°) la conservazione di un collegio missionario era motivata dal fatto
che «la Russia, l'Inghilterra, la Francia si
fanno precedere ed aprire la via dai loro
missionari; l'Italia non può fare minore
assegnamento sopra le sue Missioni» e
che «Cinesi e Indiani … solo la forza delle
religione induce ad abbandonare per
lungo tempo le loro lontane sedi». 2°) La
scuola pubblica per l'apprendimento
delle lingue orientali doveva avere lo
scopo di «offerire il mezzo di acquistare
la cognizione pratica delle lingue che si
parlano nell'Oriente». Quindi insegnamento delle lingue parlate e viventi per
utilità di «coloro che si danno ai commerci o alle missioni diplomatiche in
quelle regioni».
306
I Cinesi a Napoli
Napoli in Cina
Fig. 1
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
309
Fig. 2
IX Sezione
Figg. 1, 2. Nella raccolta apparsa nel 1731 a
Napoli per i tipi di Felice Mosca sotto il titolo di
Funerali nella morte del Signor Duca D. Gaetano
Argento … celebrati nella Real Chiesa di S.
Giovanni a Carbonara, con Varj Componimenti
in sua lode di diversi Autori, curata da Vincenzo
D'Ippolito, veniva pubblicato un canto funebre
– propriamente un wange 輓歌 – nel quale i collegiali del Paese di Mezzo volevano esprimere il
loro dolore per l'uomo scomparso – la trascrizione in cinese di Argento è resa con quattro
caratteri: 亚而占哆 Ya-er-zhan-duo – che tanto
si era battuto per promuovere il seminario in
cui erano ospitati ed educati. Di questo canto si
riproduce solo la pagina iniziale con la corrispondente traduzione in lingua latina.
La traduzione in lingua latina è molto approssimativa. La traduzione in lingua italiana potrebbe essere la seguente:
«Rispettosamente un canto funebre offre Napoli
ad Argento, il grande custode delle leggi. Perché
un nero miasma è venuto ad oscurare un bel
mattino [il cielo] della bellissima [multicolore]
città, lasciando sgomenti gli uomini di ogni ceto
sociale? Il pennello affranto ruba un pezzo del
libro di condoglianze per esprimere il suo
lamento; anche la gente più oscura della reggia è
sconvolta per il crollo della trave portante.
Nessuno ritiene cosa ineducata trattenere le
amare lacrime sulle guance. Come potremmo
noi non versare lacrime per la circostanza?».
310
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
Fig. 3. Benedetto XIV Lambertini volle porre fine all’aspra polemica sui «riti cinesi», vietando, con la sua bolla Ex quo singulari
dell’11 luglio 1742, agli ordini e alla congregazioni religiose di farne solo parola. Secondo uno stile tipicamente europeo egli stabilì per i convertiti al cristianesimo nel Celeste Impero anche la forma dei funerali «ortodossi» non contaminati dalle «superstiziose» cerimonie funebri siniche. Commissionò, pertanto, all’alunno del Collegio di Napoli, Domenico Zhao (Zhao Duoming
趙多明, 1717-1754) l’incarico di tradurre la parte relativa ai riti funerari. Il frontespizio è concepito all’uso cinese: nella colonna
di destra è indicata la data – Tianzhu jiangsheng yiqianshiqibaisishiernian天主降生一千十七百四十二年 (Anno della nascita del
Signore 1742) – nella colonna centrale è riportato il titolo – Shengjiao Sangli 聖教喪禮 (Cerimonie funebri della santa religione)
– nella colonna di sinistra è riassunto il contenuto del testo: Benduo dishisi weijiaohuawang shengzhi
本多第十四位教化皇教旨(Santo decreto del Sommo Pontefice Benedetto XIV). Tale traduzione si conserva in BAV, Vat. lat., ms.
n. 13672, con la seguente intestazione: Ritus Cæremoniæque circa funera Sinensium Christianorum celebranda, stabilita a Sancta
Sede Anno 1742. Ex Bulla Summi Pontificis Benedicti XIV. Datum Romæ apud Sanctam Mariam Majorem, quinto Iduum Julii, Anno
Domini 1742. Pontificatus Anno secundo. Conversum in linguam Sinicam a Patre Dominico Chiao, Sinensi.
311
IX Sezione
Fig. 4. Nel 1835 usciva a Napoli «litografice impressa» una Grammatica linguæ Sinensis Auctoribus PP. Varo et de
Cremona [sic] ex Hispanico in Latinum
idioma translata, et aucta: il titolo cinese è 初學間徑 Chuxue Jianjing, ovvero
Guida rapida allo studio iniziale. Questo testo fu segnalato come irreperibile
per la prima volta da Henri Cordier
nella sua nota Bibliotheca Sinica (vol.
III, Paris 1906-19072, col 1657), quindi,
dopo un’indagine più approfondita,
come canservato nella Biblioteca
Vittorio-Emmanuele III di Roma, tra i
manoscritti della sezione Varia, 54
(Bibliotheca Sinica, Supplement et
Index, Paris 1922-1924, coll. 16571658). In questo fondo è stata da noi
trovata la copia di cui presentiamo il
frontespizio. Il testo del domenicano spagnolo Francisco Varo (1627-1687) – noto
anche per un Vocabulario de la Lengua
Mandarina, pubblicato di recente nelle
monografie dei «Monumenta Serica»,
serie LIII/1-2 – pubblicato a Canton nel
1703 sotto il titolo di Arte de Lengua
Mandarina, era un testo di base sul quale
i missionari europei iniziavano lo studio
del cinese. Gli anonimi collegiali fecero
anche tesoro del vocabolario di Basilio
Brollo da Gemona, conservato nella
biblioteca del Collegio dei Cinesi, sul
quale aveva cominciato a lavorare il Ripa
nel 1734, per pubblicare la loro Grammatica. L’errore de Cremona, invece che
de Clemona, era errore dei congregati
napoletani, che avevano scambiato
Clemona per Cremona (Storia della
Fondazione …, t. II, Napoli 1832, p. 458).
Gli anonimi autori cinesi avevano scritto
correttamente 克賴毛納 Kelaimaona
(Clemona).
312
Fig. 5
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
313
Fig. 6
IX Sezione
314
Fig. 7
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
315
Fig. 8
IX Sezione
Figg. 5, 6, 7, 8. Prima che l’alto funzionario imperiale Hong Xun 洪勳 e l’ambasciatore di Cina in Italia Xue Fucheng 薛福成 facessero conoscere ai primi degli anni Novanta del XIX secolo, alla cerchia dei letterati e dei politici del loro paese, l’esistenza di un Collegio
dei Cinesi a Napoli in Italia, Guo Liancheng 郭連城 (1839-1866), nel suo «Breve resoconto del viaggio in Occidente» (Xiyou Bilüe
西遊筆略) – di cui gran parte è dedicata all’Italia visitata tra il 1859 e il 1860 – offriva nel 1863, anno di stampa del suo libro in Cina
– (Tongzhi ernian xinke 同治二年新刻) – ai lettori cattolici del suo paese, ma non solo a quelli, una presentazione del fondatore e
dell’istituzione. L’opera ebbe tre edizioni, di cui si mostrano i frontespizi. Presentiamo della terza edizione – Shanghai 2003 – in caratteri semplificati, curata da Zhou Zhenhe 周振鹤 per la casa editrice Shudian chubanshe 书店出版社, le pp. 94-95 – dove si parla del
fondatore del Collegio dei Cinese e del prestigio di cui gode l’istituzione – che si possono tradurre nel modo seguente in italiano:
«All’epoca di Kangxi don Ma Madou [Matteo Ripa], italiano, raggiunse la Cina dopo un viaggio di 3 anni; quindi aprì una scuola a
Pechino, diventando famoso come pittore e astronomo. L'imperatore lo trattò con molta cortesia ed egli lo accompagnò spesso nei
suoi spostamenti. Fu onorato ed amato a tal punto da fondare una scuola a corte. Dopo la morte dell'imperatore don Ma Madou
[Matteo Ripa] chiese il permesso di ritornare in patria. Il sovrano gli chiese conto dei suoi progetti ed egli rispose che desiderava fondare una scuola per i talenti eccezionali. L'imperatore credette opportuno dargli il suo assenso. Dopo di che egli tornò a Napoli dove
trattò con prudenza con il sovrano l'affare della fondazione del collegio. Il sovrano lo autorizzò a costruire all'interno della città una
prestigiosa scuola, con il nome di Collegio della Sacra Famiglia, ovvero la famosa scuola di studi cinesi. Finora ininterrottamente vi
sono venute generazioni di individui senza che ve ne fosse mai carenza».
316
Fig. 9
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
317
Fig. 10
IX Sezione
318
Figg. 9, 10. «Fin dal 1869, quando si tentava la
prima volta una riforma in senso laico dell’antico
Collegio dei Cinesi, un valente alunno indigeno
di esso, statomi più caro collega nell’insegnamento ed ora ritornato da più tempo nel suo nativo
Hu-pé, il P. Giuseppe Maria Kuo, autografava, qui
in Napoli il San cê c’ing, aggiungendo al testo, in
pie’ d’ogni pagina, la trascrizione e la versione
[latina] di ciascun carattere». Queste parole di
elogio e di amicizia il professore di lingua neopersiana, Gherardo de Vincentiis, liberale e massone, usava nei confronti del sacerdote Guo
Dongchen 郭棟臣, noto in Italia come Giuseppe
Maria Kuo, ristampando nel 1900 il testo cinese
con la traduzione italiana del Classico trimetrico.
I dati biografici scarni ci parlano del suo arrivo a
Napoli il 31 dicembre 1861, proveniente dalla
provincia dell’Hubei 湖北, dove era nato l’11 febbraio 1846 nel distretto di Qianjiang 潛江, dei
voti presi a Napoli il 30 luglio 1871, della sua
ordinazione sacerdotale il 22 settembre 1872, del
suo ritorno in Cina l’anno seguente. Sappiamo
che fu richiamato in Italia da Propaganda Fide
nel 1886 e che fece nuovamente ritorno in Cina
nel 1892. Morì ad Hankou 漢口il 2 gennaio
1923. La sua cultura era eccezionale: oltre al cinese letterario e volgare – di lui si conserva
nell’Archivio OFM di S. Michele in Isola a
Venezia un Dizionario cinese volgare-italiano in
tre volumi – conosceva l’italiano e il latino. Nel
frontespizio il titolo Sanzi Jing 三字經 Classico
trimetrico, si legge nella colonna centrale, in alto
da destra a sinistra si legge xin juan 新鐫, nella
colonna di destra vengono indicati la data e l’autore Tongzhi banian Chubei Guo Dongchen ding
同治八年楚北郭棟臣訂, nella colonna di sinistra è scritto Naboli Shuyuan Cangban
納玻里中華書院臧本. La traduzione completa
potrebbe essere: «Guo Dongchen dell’Hubei,
alunno del Collegio dei Cinesi di Napoli, finì di
stampare il Classico trimetrico nell’anno ottavo
dell’imperatore Tongzhi (1869)».
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
Fig. 11. Nello stesso anno, 1869, in cui
Giuseppe Maria Kuo pubblicava il
testo del Classico trimetrico, veniva alla
luce per opera dello stesso autore
l’Huaxue Jingjin 華學進境, titolo tradotto dallo stesso Guo come Saggio di
un corso di lingua cinese. Da notare che
rispetto al frontespizio del Sanzi Jing,
compaiono novità: prima di tutto
sotto il titolo nella colonna centrale, in
caratteri più piccoli compare la scritta
Juan wu 卷五 («parte quinta»); a
destra compare una doppia colonna: la
più interna è identica a quella del Sanzi
Jing, quella esterna recita: luoyeji ce yi:
落葉集冊一 («raccolta fior da fiore,
parte prima). Il testo aveva anche un
frontespizio in lingua italiana, traduzione dal cinese, che recitava: «Saggio
di un corso di lingua cinese per
Giuseppe M. Kuo (alunno del Collegio
Cinese). Parte quinta. Crestomazia,
fascicolo primo. Napoli 1869». Il testo
conteneva Nozioni preliminari allo studio della lingua cinese, ma anche brani
scelti dai classici confuciani.
319
Fig. 12
IX Sezione
320
Fig. 13
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
321
Fig. 14
IX Sezione
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Figg. 12, 13, 14, 10. Nel 1868 per la
prima volta Pechino inviò una delegazione ufficiale in Europa, composta dall’americano Anson Burlingame, che ne assunse la guida, e da
due alti funzionari del governo
imperiale, il mancese Zhigang 志 剛
e il cinese Sun Jiagu 孫家穀. Dopo
avere visitato molti Stati europei, tale
delegazione soggiornò anche nel
nostro paese e fu ricevuta da Vittorio
Emanuele II a Firenze, allora capitale d’Italia, il 10 giugno 1870. Il 13
seguente giunse a Napoli, guidata dal
mandarino mancese, essendo morto
già da qualche tempo il Burlingame.
Il quotidiano «La libertà cattolica»
nel suo numero del 19 giugno 1870
fu l’unico giornale napoletano ad
offrire un lungo resoconto della visita compiuta il giorno 15 dall’ambasceria al Collegio dei Cinesi, dove gli
alunni del Paese di Mezzo cantarono
in suo onore un inno composto per
l’occasione e musicato dal maestro
Luigi Teseo. Giuseppe Maria Kuo, nel
dare il benvenuto ai suoi connazionali, pronunziò il discorso ufficiale
in cui chiedeva la fine delle persecuzioni contro i cristiani. Nella sua
risposta Zhigang affermò che il
governo cinese rispettava tutte le
religioni, ma fece presente che spesso
i missionari si attiravano odio per i
loro giudizi sui Cinesi come «barbari, incivili disumani», facendo riferimento alle «esagerate relazioni della
Santa Infanzia», che rappresentavano i «Cinesi che mangiavano la loro
prole, o gittano sulle vie, come simboleggiano pitture europee». Le
parole innescarono una lunga polemica sull’operato della Santa
Infanzia in Cina.
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
Fig. 15. Le accuse lanciate dal capodelegazione Zhigang 志剛 durante la sua visita al Collegio dei Cinesi contro la Santa Infanzia, che
avrebbe rappresentato i cinesi come o espositori o divoratori della loro prole, avevano qualche fondamento? In realtà le città europee
di quel tempo erano piene di brefotrofi, che raccoglievano esposti o proietti. Mancando in Cina brefotrofi con la loro ruota, potevano
verificarsi casi di neonati abbandonati sul ciglio della pubblica via. Erano casi isolati, ma non fenomeni di massa, né mancavano in
Cina famiglie benestanti «caritatevoli» che raccoglievano gli esposti. Per la mania di attribuire agli altri colpe che sono anche nostre, il
fenomeno dei proietti, che potevano essere anche divorati da animali, veniva enfatizzato per la Cina. Era – come dimostra la figurina
esposta – un pezzo forte della propaganda della Santa Infanzia, opera pontificia fondata nel 1843 da Charles de Forbin-Janson, vescovo di Nancy, con lo scopo specifico di salvare non solo la vita dei neonati cinesi abbandonati lungo le strade, ma anche la loro anima
somministrando loro il battesimo. L’opera, infatti, raccoglieva offerte per sostenere le attività dei missionari europei nel Paese di Mezzo.
In seguito l’Opera Pontificia della Santa Infanzia fu invitata dai pontefici ad occuparsi dei bambini indigenti di tutto il mondo.
323
IX Sezione
Fig. 16. La pubblicazione nel
2004 da parte della casa editrice
Guji Chubanshe di Shanghai
della traduzione, ad opera di Li
Tiangang, dell’abridgement di
Fortunato Prandi, il cui sottotitolo inglese è riportato in copertina, con riferimento alla permanenza di Matteo Ripa (in
cinese Ma Guoxian) alla corte di
Kangxi, costituisce una testimonianza dell’interesse recente
degli studiosi della Cina popolare per l’istituzione fondata,
ancora senza autorizzazione
papale, dal Ripa a Napoli nel
novembre del 1724 al suo ritorno dalla Cina.
324
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
Fig. 17. La formazione dei sacerdoti cinesi prevedeva un curriculum studiorum
difficilissimo. Essi dovevano imparare in
primo luogo la lingua latina, in cui venivano tenute le lezioni dei maestri e che
era la lingua universale della Chiesa cattolica. Quindi dovevano studiare teologia dogmatica e teologia morale, storia
sacra e storia profana; soprattutto non
dovevano dimenticare la lingua e le lettere del loro paese. I più anziani e preparati dovevano esaminare i più giovani sulle
antologie in uso nelle scuole cinesi, contenenti estratti dai classici confuciani e
altri testi di base. Una di queste antologie, conservata ancora nell'Archivio
Storico dell'Università degli Studi di
Napoli “L'Orientale”, è un manuale per
affrontare gli esami il cui frontespizio
contiene sul primo rigo orizzontale la
data col sistema dei 12 rami terrestri e
dei 10 tronchi celesti (lettura classica da
destra a sinistra): 道光 壬寅冬鐫
Daoguang renyin dong juang [Incisi nell’inverno 1842 durante il regno di
Daoguang]; la colonna centrale contiene
dall'alto in basso il titolo: 考卷精銳
Kaojuan jingrui [Testi scelti per gli
esami]; la colonna di destra l'autore e il
luogo di edizione: 鎮洋呂芸莊編次
Zhenyang Lü Yunzhuang bianci [nella
città di Zhenyang (oggi: Taicang 太倉)
in serie da Lü Yunzhuang; la colonna di
sinistra: 姑蘇桐石山房藏板
Gusu
Tongshishanfang Cangban [nella provincia Gusu (designazione letteraria
della provincia del Jiangsu) dalla casa
editrice Tongshishan nella sua collezione. La difficoltà maggiore era costituita
dalla lettura dell’anno del regno di
Daoguang attraverso il sistema dei 10
tronchi celesti e dei 12 rami terrestri
[壬寅].
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IX Sezione
326
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
Fig. 18. Il Dottor Fausto De Mattia dell’Archivio di Stato di Napoli,
nel riordino del fondo Segreteria di azienda, scoprì due documenti in
caratteri sinici, di cui uno, indirizzato al superiore della
Congregazione della Sacra Famiglia, Gennaro Faticati, fu pubblicato
in Ministero per i Beni Culturale e Ambientali, Ufficio Centrale per
i Beni Architettonici, Gentium memoria archiva. Il tesoro degli
Archivi, Roma 1996, p. 148. Il documento che si espone è, invece, una
supplica indirizzata al papa – del quale non si scrive mai il nome
perché viene chiamato genericamente solo Shengfu 聖父 (Santo
Padre) oppure Shengjiaozong 聖教宗 (pontefice). In effetti alla data
all’uso cinese che qui di seguito si trascrive:
«乾隆三十六年八月初二日具稟 Qianlong sanshiliunian bayue
chuerri juping: Supplica scritta nell’anno 38 del regno di Qienlong,
ottavo mese, giorno secondo iniziale (9 settembre 1771) il pontefice
era Clemente XIV Ganganelli, ma probabilmente i cristiani
della.«frontiera occidentale» xichui 西垂[identificata con la provincia del Gansu 甘肅] pensavano a Clemente XIII Rezzonico, che
aveva gratificato di un nuovo beneficio la Congregazione della Sacra
Famiglia, scritta correttamente in caratteri sinici Shengjia zhi Hui
聖家之會. Nel documento i cristiani fanno presente la triste situazione della loro provincia, priva di sacerdoti che amministrino i
sacramenti, e chiedono al papa di rimediarvi. La lettera viene consegnata nelle mani del missionario Guo 郭, educato nel Collegio dei
Cinesi di Napoli – che nella supplica non viene mai nominato esplicitamente – e richiamato nella città (du 都) dal papa. La lettera fu
trascritta molto in fretta da qualche alunno cinese – la fretta si nota
anche dal fatto che uno dei 9 mittenti, Li Basi 李巴斯, viene ripetuto senza motivo – e tradotta in latino, aggiungendovi molte cose che
nel testo cinese mancano. Il latore della lettera viene indicato nel
testo solo come Guo duode (郭鐸德: l’insegnante di virtù Guo) e
corrisponde a Vitale Guo (郭云性 Guo Yunxing, 1718-1778). Non si
esclude che trattandosi di documento ufficiale indirizzato ad un
capo di Stato, i responsabili del Collegio dei Cinesi, nel rispetto della
politica giurisdizionalistica vigente nel Regno di Napoli, ne abbiano
inviato copia a Bernardo Tanucci».
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IX Sezione
Fig. 19. La storia del Collegio dei Cinesi
di Napoli è legata in apertura alla fortissima personalità di Matteo Ripa, mentre
la sua chiusura è segnata dalla personalità altrettanto notevole di Giuseppe
Maria Kuo, che amò l’istituzione nella
quale operò a lungo forse più del fondatore e che fece ogni sforzo per conservare, sensibilizzando sulla sua sorte tutti i
primi funzionari imperiali che passavano per l’Italia. Pervenuto alla soglia di
chi sente non lontana la fine, volle
lasciare una testimonianza del suo
attaccamento al Collegio dei Cinesi,
pubblicando anonimo a Shanghai nel
1917 l’Elenchus alumnorum, decreta et
documenta quæ spectant ad Collegium
Sacræ Familiæ Neapolis, primo repertorio biografico che contiene l’elenco dei
collegiali provenienti dal Paese di Mezzo
e dall’Impero Ottomano, nonché quello
dei congregati e superiori della Sacra
Famiglia, il testo dei brevi e delle bolle
pontificie con i documenti più importanti relativi alla storia della istituzione.
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Fig. 21
Fig. 20
I Cinesi a Napoli • Napoli in Cina
Figg. 20, 21. Le tre monete esposte provengono dal fondo numismatico orientale, non ancora riordinato, del Museo Archeologico
Nazionale di Napoli. Presumibilmente facevano parte della raccolta delle monete orientali del cardinale Stefano Borgia (1737-1804), fondatore di quel museo con sede a Velletri, sua cittadina natale, che andò disperso tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Era un museo
che vantava una collezione, unica al mondo, di rarità provenienti da tutto l'Oriente. Nella sua qualità di segretario della Sacra
Congregazione de Propaganda Fide dal 1770 al 1789, quindi di proprefetto (1798-1800) e prefetto (1802-1804) della stessa congregazione, ebbe un intenso rapporto con i padri della Sacra Famiglia [Francesco D'Arelli, Stefano Borgia e il Collegio dei Cinesi di Napoli: studi
religiosi e orientali, in Marco Nocca (a c. di), Le quattro voci del mondo: arte, culture e saperi nella collezione di Stefano Borgia 1731-1804,
Napoli 2001, pp. 280-294] e con i collegiali del Paese di Mezzo, a cui chiedeva reperti della loro patria per il suo museo (BAV, Borgia
cinesi, mss. n. 343 e n. 287). Le tre monete appartengono al regno di Kangxi 康熙 (1662-1722), a quello di Yongzheng 雍正 (1723-1735)
e a quello di Qianlong 乾隆 (1736-1796). I caratteri che designano i tre imperatori si leggono sulla colonna verticale delle tre monete
il carattere di destra uguale in tutte e tre si legge tong 通, quello di sinistra bao 寶, i caratteri complessivamente significano: «moneta
legale del regno di … (seguono i nomi degli imperatori)». La trascrizione del mancese, operata dal Prof. Giovanni Stary è: boo ciowan
(boo a sinistra, cioé le tre «palline», ciowan a destra, la parola più lunga). Si tratta della trascrizione mancese di baoquan, cioé la forma
abbreviata di baoquanju 寶 泉居, che si può tradurre «zecca dello Stato».
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Finito di stampare
nel mese di settembre 2006
dalla Zaccaria s.r.l.