il killer - martino gonnelli

Transcript

il killer - martino gonnelli
IL KILLER
– Porca puttana, i pantaloni di lino!
Sarà il caldo, sarà naturale e anche logico, ma pare che il naso le scelga con premeditazione
diabolica le situazioni più sfigate, quelle dove ritiene opportuno sacrificare un capillare, onde
metterti nella merda.
È sempre stato così: il sangue dal naso ti scende solo se sei in un treno affollato, costretto in
un angolo, con un mini fazzoletto e i pantaloni chiari di lino. In questi casi, ovviamente, non
si tratta di due gocce, non schianta solo un capillare. Anche stavolta infatti ce n’è stata una
esecuzione collettiva o un suicidio di massa (“venti capillari kamikaze si immolano in un
clamoroso atto suicida”), oppure ho squarciato l’aorta che nel mio caso passa
inspiegabilmente attraverso le narici.
– Stia attento!
Di fronte, ovviamente, la signora più insofferente del globo. Non ha nemmeno finto un
accenno di solidarietà. Alle prime gocce si è limitata allo schifo e alla paura, poi si è
letteralmente ritratta nel sedile, comprimendo la massa corporea in uno spazio più piccolo,
come un frutto di mare quando ci spruzzi sopra il limone.
Di lato la ragazza più carina della storia del pendolarismo (una venticinquenne con la
frangetta, occhi nati nella galleria del vento e un fisico ritoccato al computer. Da Botticelli).
Logico che sia qui, oggi. Speravo di conoscerla in modo elegante, con classe; vaglielo a
spiegare ora, con un naso da film splatter, mentre ostacolo questa gara di rafting tra globuli
rossi, stringendo un fazzoletto che l’Avis mi pagherebbe come una pepita.
– Scusi, perché non se ne va alla toilette? – È l’uomo piccolo, con la giacca fighetta e
una montatura che ambisce al MOMA di New York. La domanda non è posta con cortesia,
suona come una critica, è una protesta per la mia clamorosa omissione di rispetto civile per
l’altrui incolumità.
Mentre mi alzo le persone intorno a me si allargano, mi fanno spazio, ma non è deferenza!
Oltre al sano orrore, al viscerale schifo, c’è un’ansia più cerebrale e moderna, alimentata dai
miei capelli lunghi e spettinati e dalla mia maglietta con il panda del WWF. Drogato e
omosessuale, mi salva dal linciaggio solo il colore della pelle. Via, dannato untore, vattene al
WC!
Mentre mi allontano sento, alle mie spalle, il piccoletto elegante che commenta, vantandosi
con gli astanti:
– Eh, scusa, se stai male te ne vai al bagno! Tanto più che di questi tempi… Giusto
signora?
– Meno male che glielo ha detto lei!
Maledetti, fino a quando il bel flusso amaranto scorreva dentro, nelle tubazioni preposte, non
avevate nulla da eccepire vero? Ma basta che uno esterni, che si riveli, che renda visibile
l’invisibile. Cosa pensavate che ci fosse a scorrere sotto le guanciotte paffute di questo
giovanotto? Acqua distillata? Miele di zagare? Brunello del ’78?
– Permesso! – Avanzo come un ferito grave verso l’uscita, sto gocciolando sui pantaloni
e a terra; mi guardo indietro lungo il corridoio e inorridisco: se non è appena passato un
serial killer col lavoro nella ventiquattrore, quella roba è tutta mia. Ho bisogno di trovare
quella toilette. Eccola, sulla sinistra, è libera. Entro.
1
® Martino Gonnelli S.I.A.E. COD.96472
Nella solitudine dello sgabuzzino metallico ritrovo una certa calma, direi quasi una rinnovata
dignità, serenità da martire, vittima emorragica ostracizzata. Massì, lasciatemi al mio destino,
chiudetemi nel cesso e mettetevi in salvo, ormai per me è finita!
Appena chiuso il chiavistello mi abbasso a guardare i pantaloni chiari di lino, uno dei capi che
preferisco quando fa caldo, chissà se va via il sangue, e con cosa poi? Candeggina? Acqua
ossigenata? Olio santo? A dire la verità abbassar la testa non è stata una grande idea, la
scaletta delle urgenze vede al primo posto l’arresto dell’emorragia. Lo attesta questo scroscio
rapido di gocce rosse sul pavimento.
Per prima cosa butto il fazzoletto dentro al cesso, un blob rosso e grumoso che si appiccica
sulla ceramica gialla. Poi comincio a bagnarmi i polsi e la fronte. L’acqua fredda fa miracoli
in questi casi, ricordo che da piccolo la mamma mi curava così l’epistassi. Apro a manetta il
rubinetto e comincio a prendere piccoli pugni d’acqua e a passarmeli sulla fronte. Non riesco
a portare che poche gocce a contatto con la pelle del viso, ma credo che l’importante sia la
temperatura. È un lavoro che va fatto con convinzione, con ritmo. Una, due, tre, dieci piccole
manciate di liquido gelato, senza alcun controllo, senza paura di schizzare a terra, sul
minuscolo specchio, sulla parete di acciaio, sul finestrino a sinistra: l’importante è che la
temperatura scenda. E la temperatura scende, certo che scende, sento la fronte che si distacca,
prende le distanze dal resto della faccia. Funziona. Intanto la piccola nicchia bianco-giallastra
del lavabo si è riempita di rosso stemperato, con venature che degradano dal rosato al
marrone, senza passare dal rubino, niente a che fare col Gutturnio o la Bonarda, un Brunello,
direi. Non so se del ‘78 o meno.
Adesso i polsi. Tutti e due, uniti sotto il getto della manichetta, meno male che il rubinetto è a
pedale! Li ruoto come se dovessi cuocerli a vapore, voglio che l’acqua li circondi del tutto,
muovo le mani spalancate come un pazzo, un giocatore sleale di calcio balilla, adrenalina su
un flipper virtuale.
Mentre mantengo le mani in posizione sollevata, mi accorgo di stare scomodo sulle gambe,
con il peso mal distribuito e la testa in una posizione innaturale, dolorosa. Pazienza. Adesso
sembra che possa bastare. Mi sottraggo lentamente dal flusso dell’acqua, ancora non sono
sicuro di essere guarito del tutto (ma non cadono gocce rosse da un po’). Tiro via le mani
fradice dal lavabo e le incrocio sopra la testa. Aspetto qualche secondo con gli occhi chiusi. Li
riapro e mi guardo intorno.
È un macello.
La piccola cabina di metallo e plastica sembra aver ospitato un rito sacrificale. Inquadratura
alla Fincher, iperrealismo trendy, affatto edulcorato, ma non privo di stile. Chi ho placato?
Probabilmente il Dio dei ferrotranvieri era assetato di sangue. Penso allo scarico della toilette
che si riversa sui binari e immagino la scia di sangue fumante. È il sacrificio mancato di
centinaia di individui altrimenti condannati a finire schiacciati tra le lamiere. Il piccoletto con
gli occhiali di design mi dovrebbe ringraziare, la ragazza con la frangetta dovrebbe
abbracciarmi al grido di “mio-eroe!” e strapparmi via la maglietta col panda e baciarmi
ovunque. Con la mia clamorosa epistassi ho sventato l’ennesima tragedia ed il prezzo pagato
è assai modesto. E sono vivo, Santo, ma non Martire.
Cerco di pulire il lavandino. L’acqua fredda intanto continua il suo lavoro, sulle mani e sui
polsi. Invece la fronte, coi capelli fradici, tenta un riavvicinamento termico al resto della
faccia.
2
® Martino Gonnelli S.I.A.E. COD.96472
Già la faccia. Butto un’occhiata obliqua allo specchietto per spiarla e intravedo un muso
grigio e slabbrato, allungato verso il basso. Muso da asino impegnato e solerte, asino che si dà
da fare tendendo all’umano, senza arrivarci.
Non importa, via con la carta igienica! C’è un altare da ripulire.
In pochi secondi ho generato una palla di cellulosa enorme che funziona: ripulisce, cancella e
asciuga. Uno scricchiolante matassone grigio di un etto buono, perfetto per le pulizie e con un
rapporto qualità/prezzo decisamente conveniente. L’inox satinato della paretina frontale
sembra più lucido e pulito di come l’ho trovato, il lavandino è okay, lo specchietto ha giusto
qualche alone (ma non ho i prodotti giusti).
C’è solo il pavimento in finte piastrelline di PVC bianco che non so come affrontare e
francamente mi spaventa un po’. Là, il micidiale cocktail di fango, sangue e orina, tiene a
debita distanza la mia mano fasciata dal guantone di carta, ora appoggiato senza riguardo al
pantalone. Mi giro attorno, sento un rumore insolito. È un respiro pesante, greve, sibilante, da
maniaco. Il mio.
Riprendo fiato. Il compendio positivo del lavoro fatto mi restituisce fiducia e stimola la
creatività. Ecco la soluzione, lascio cadere a terra il matassone igienico e con la scarpa lo
muovo a destra e a sinistra, cercando di cancellare almeno il sangue (fango e orina non sono
di mia competenza). Raccolgo con due dita il Mostro zuppo di schifi e lo faccio volare nella
tazza del cesso. Ci siamo, in pochi secondi ho reso accettabile il piccolo anfratto
prefabbricato. Il sibilo della frenata fa eco alle mie congratulazioni: posso essere soddisfatto,
ho terminato il lavoro in tempo per tornare tra gli esseri umani; guarito, accettabile,
nonostante i capelli lunghi e la maglietta col panda.
Tolto il chiavistello con cautela, mi affaccio lentamente allo spiraglio della porta, sporgo la
mia testa asinina fuori dalla cabinetta e allargo le narici, prova su strada del lavoro fatto dalle
piastrine.
Scricchiolano i residui raggrumati del naso, speriamo che le guarnizioni tengano, la superficie
lavica appena rappresa nasconde ancora il magma pulsante del plasma, so che basta un attimo
ad innescare nuovamente il disastro. Esco e mi schiaccio con la schiena contro la porta appena
richiusa. C’è un’oasi di spazio intorno a me, evidentemente alle due fermate precedenti sono
scesi molti passeggeri.
In questa nuova tranquillità cerco di darmi un contegno. Erigo bene la schiena ed il collo,
cerco di ritoccare con tratti di intelligenza, l’espressione del viso, poi passo con cautela il dito
indice appena sotto le narici, controllando. Tocco le piccole creste rapprese. Con aria
indifferente, addirittura mugolando una canzonetta, abbasso il braccio e nascondo la mano
dietro il culo, mentre strofino il dito indice contro il pollice, in caccia di eventuali presenze
liquide. Niente. Rassicurato chiudo gli occhi e mi rilasso. Sono tranquillo adesso, in fondo
capita. Può capitare a chiunque, anche se l’ho visto capitare solo a me.
Altra stazione. La signora che avevo seduta di fronte, mi transita davanti, preparandosi alla
discesa. Mi guarda con un po’ di disprezzo. Mi sento ingiustamente in imbarazzo, ma cerco di
dissimulare. Il suo profumo medievale mi penetra ovunque, comprese le narici, attraverso i
pori della pelle, nella bocca, negli angoli umidi degli occhi. Sento la radice dei capelli
drizzarsi: ho capito, sono allergico alla signora! È colpa sua. Temo per una ricaduta, speriamo
che le toppe reggano, che non si strappi il tessuto non tessuto della mia patch organica.
Starnutisco. Ma è uno starnuto normale, da naso omologato.
3
® Martino Gonnelli S.I.A.E. COD.96472
Scende anche il piccoletto con gli occhiali, passa senza neanche guardarmi, mi ha rimosso o
finge di averlo fatto. Ne approfitto per effettuare un altro controllo, stavolta più esplicito,
sfodero due dita della mano destra, le passo di nuovo sotto le narici osando spingermi un po’
in dentro. Terminato il lavoro di sondaggio esamino da vicino la punta del medio, cercando di
interpretare. Tutto sotto controllo.
Ed Eccola. Adesso sta transitando la ragazza carina, ha uno sguardo strano, alieno. Fa una
scansione del viso, ma non dà peso al naso. Anzi. Quegli occhioni mi scivolano sul mento, sul
collo, sul petto. E lì si bloccano. Fissandomi. Illuminandomi. Per un bel po’.
Penso alla silhouette sagomata dalla mia t-shirt aderente e sento i muscoli sotto le clavicole
che si contraggono. Valuto di non essere brutto, di poterle piacere, la mia pancia se ne sta
bene in dentro, sotto il promontorio virile dei pettorali. Lei sale con gli occhi e torna a
guardarmi in faccia, poi fa uno strano sorriso. Le sorrido anch’io.
Ecco la differenza tra lei e gli altri: non ha mai provato schifo LEI. Non si è impaurita, né
imbarazzata per la mia situazione. Non ha urlato lo scandalo delle mie menomazioni, dei miei
problemi. Non è scappata, non mi ha condannato, né si è ritratta schifata come la Signora.
Questa meraviglia estetica è fatta così anche di dentro. A lei piace il mio petto. Adora il mio
sterno.
La seguo sin sull’orlo dei gradini, lei scende senza voltarsi. Poi la porta si richiude. Oltre le
luci della stazione di Camerlata, nel buio della sera, i vetri tornano ad essere specchi. La mia
immagine si riflette con chiarezza sul cristallo dello scorrevole. Corro con gli occhi proprio là,
sul petto, dove mi fissava la dea con la frangetta.
E capisco.
C’è un panda colpito a morte. Sulla bianca fronte, proprio fra gli occhioni neri, una goccia
amaranto lo condanna.
4
® Martino Gonnelli S.I.A.E. COD.96472