Il cucchiaio deve sporcarsi - Fondazione Federico Secondo
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Il cucchiaio deve sporcarsi - Fondazione Federico Secondo
"Il cucchiaio deve sporcarsi" Intervista immaginaria con Mastro Berardo, il cuoco di Federico II "Non penserà di accomodarsi a un tavolo e che io cominci a servirla?”. Mi dice così, da una faccia ossuta, fisico asciutto e portamento nervoso, mi rivolge questo rimprovero educatamente declinato con il lei. In effetti, aspettando Mastro Berardo, il cuoco personale di Federico II, ho preso posto a un tavolo del punto ristoro di Palazzo dei Normanni. Secondo piano. Ambientazione da locanda medievale. Mi scusi - dico, ma mi interrompe subito. “Mi scusi? Allora, mettiamo le cose in chiaro. Io sono cuoco e lei, non so bene chi. Ma di sicuro, stando a ciò che ci dà da vivere, alla penna spetta il lei e al cucchiaio il tu. Non facciamo inutili confusioni”. Veramente questa mi sembra una distinzione di classe ormai superata. “Ehi, sveglia! Guardi che io vengo dal 1200. La coscienza di classe non so neanche cosa sia. Ma, so quel che dico. La penna vuole distacco. Dalle cose che scrive, dalla vita e dai sentimenti. Il cucchiaio vuole immersione diretta. Deve sporcarsi. Assorbire i sapori. Ed è il confidente di tutti, pur essendo a suo modo riservato: li guai di la pignata li sapi la cucchiara chi li rimina”. Più che una cucina, sembra essere abituato a comandare un esercito. Avendo capito quel che dice, faccio ammenda. Do il tu e prendo il lei. Perché non è una questione di deferenza, ma di adesione al racconto. Volevo avere riguardo per l’età. Comunque, mi scuso per essermi seduto. Ma mi è venuta un po’ di fame e ho preso un tramezzino. “O Gesù, Giuseppe e Maria. Cosa devo vedere. Si alzi, per favore. No, non porti con sé quel pezzo di geometria farcito, per l’amor del cielo! Va bene che non avete più tempo per sedervi tavola ma, almeno per oggi, ricordiamo che cos’è il cibo dei re”. Scusami - mentre poso il mio pranzo, ingoio la fame e seguo quest’uomo sorprendente che ha saziato i più nobili palati e mi tratta come un garzone, quest’uomo indiscutibilmente siciliano come tutti quei siciliani che hanno girato il mondo e quando tornano a casa, sono ancora più siciliani di prima. Mi fa lasciare in fretta il punto di ristoro e ci precipitiamo nell’atrio del Palazzo, che è una corte a tre ordini di arcate, un sospiro di pieni e vuoti. Mentre saliamo e scendiamo e risaliamo girando intorno, lui comincia. “Mi hanno nascosto le cucine” Come nascosto? “Non le trovo più. Le cerco, cerco di affinare il mio fiuto per trovare una pista. Ogni tanto sento profumi familiari. L’altro giorno, per esempio, guidato dall’inconfondibile odore pungente dell’arancia, quando la tagli in due e le spremi il succo per filtrarlo in un dolce sorbetto, o spennellare un’anatra o decorare il pesce, ho cominciato a girare per il Palazzo. Ebbene, in punta di naso sono giunto qui”. Dice deluso. 1/5 "Il cucchiaio deve sporcarsi" Il suo qui mostra una deliziosa sala di gusto ottocentesco, la Sala Cinese. Una stanza interamente decorata con disegni cinesizzanti su sfondo rosso da Giovanni Patricolo, un sacerdote Palermitano che, proprio a Palermo, nei primi anni del XIX secolo studiò la pittura da quel Giuseppe Velasques che per primo restaurò l’enigmatico Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis. Tutto è fuorché una cucina, ma in effetti, contro una parete è stata allestita una buvette. “Ecco cosa ho trovato! Questo bancone, con questo aggeggio infernale per fare le spremute. Niente fuochi, né spezie, né vassoi e brocche d’argento. Dove sono le cucine?”. Sì, Berardo, temo di doverti dire che le cucine, in questo Palazzo, si sono perdute nel corso degli anni. E che, oggi, non si sa con certezza dove possono essere state alloggiate al tempo in cui tu le usavi. Anzi, speravo che tu mi avresti detto qualcosa a proposito. “Per essere sinceri”- e per la prima volta, la sua espressione è più bonaria- “nelle cucine vere e proprie non è che ci stavo molto. Perché ero addetto a soddisfare esclusivamente i desideri di Federico e di chi aveva l’onore di sedersi alla sua tavola”- Personal Chef, lo si chiamerebbe oggi, scambiando l’antichissimo per una nuova tendenza. E ora di prendere coscienza che, in questo luogo, l’innovazione è cominciata mille anni fa.-“Diciamo così, ero una sorta di architetto del cibo. La mia specifica esatta era quella di siniscalco, ovvero colui il quale, con la destrezza di un giocoliere, deve tagliare scenograficamente le carni, disossare il pollame, sminuzzare le verdure, tritare le erbe. E pensare alla scenografia della tavola”- Traducendo in termini attuali un mixer! E oltre al siniscalco quali altre figure c’erano in cucina? “Allora, alle mie strette dipendenze, c’erano: il Trinciante, che taglia con coltelli grossolani e senza arte; poi il Coppiere, una figura allegra e garbata, che doveva porgere la coppa di vino e lo Spenditore, colui che si occupava della spesa e della dispensa. E guai a far mancare qualcosa!”. Una bella squadra. Ma dimmi un po’ Berardo, era capriccioso l’imperatore in quanto a gusti? Sorride. - “Andiamo, le mostro qualcosa”- E mentre lo seguo comincia a raccontare. -“A dire il vero Federico a tavola era molto sobrio. Uno di quelli che sapevano che sì è quello che si mangia. Era solito fare un solo pasto al giorno, mangiando molta frutta, miele e biscotti. La carne solo dopo una battuta di caccia o durante i banchetti ufficiali. E il pesce. Ah, il pesce.” Fa una smorfia nostalgica, come se mentre parlasse potesse rievocare il sapore in bocca. Intanto stiamo attraversando il Palazzo e ci stiamo dirigendo verso la famosa Torre Pisana, la parte propriamente normanna dell’intero edificio. -“Questa era la tana di Federico, il luogo privilegiato e prediletto. È la Torre che i Normanni costruirono nel XI secolo, ed è detta Pisana perché materialmente vi misero mano i prigionieri della guerra contro la Repubblica Marinara di Pisa”. La porta è aperta. Una volta dentro si sente la solidità del tempo che è sedimentato sulle pareti di questa stanza, ma lo sguardo fugge subito fuori. Oltre i vetri delle finestre, Palermo. Fino al mare. E qui il tuo signore era solito anche mangiare? “Devo dirle, che a qui a Palazzo noi ci siamo stati poco, sempre in giro per l’Impero come eravamo. Qui gli ho servito i dolci di cui andava ghiotto nell’adolescenza. Quando stava sveglio fino a tarda notte per studio o per amore, gli portavo confetti e fichi che gli davano energia”. Allora non puoi raccontarmi di nessun banchetto ambientato a Palazzo? “… non puoi raccontarmi di nessun banchetto a Palazzo…ignorante”- mi fa la smorfia sottovoce, ma io lo sento. 2/5 "Il cucchiaio deve sporcarsi" “Prima di tutto, deve sapere che ambientato a Palazzo non vuol dire niente. Ogni banchetto di Federico II, di quelli per i quali ho cucinato io, era straniante. In qualunque parte dell’Impero ci trovassimo, la tavola portava in commensali in un altrove. Una volta poteva essere l’Oriente, un’altra la Sicilia, o la Roma imperiale, la foresta, il mare e, alcune volte, tutto questo insieme. I banchetti di Federico erano eventi che coinvolgevano i cinque sensi. C’era di tutto”. Tutto? “Musiche mai sentite e balli mai visti. E le tavole erano ogni volta addobbate diversamente. Una volta predominava il giallo dello zafferano e la volta successiva il rosso delle melagrane. A seconda degli umori dell’imperatore. E poi venivano serviti i piatti in modo che colpissero prima l’occhio del palato”. Che vuoi dire? “La cacciagione veniva servita come se gli animali in tavola pigliassero di nuovo vita. Ricordo ancora di come ordinavo che si tenessero da parte le piume del pavone, perché poi, una volta cotto, dovevamo ricucirle in modo che fosse più bello di prima. E così i cigni e le gru. Poi gli odori. I nasi dei commensali venivano stupiti con spezie che venivano da ogni angolo del mondo conosciuto”. Berardo, scioglimi questa curiosità. Come vi regolavate nella cottura di carni così differenti? “Ave Maria e Padre Nostro” E ora perché ti metti a pregare? “Signore mio perdonami! L’Ave Maria e il Padre Nostro erano i miei punti di riferimento per la cottura. Per esempio, il pollo per cuocerlo bene voleva due Rosari completi. Per cucinare i cavoli secundum usum imperatoris bastava scottarli bene in acqua bollente il tempo di dieci Ave Maria.” Ecco, in mancanza del timer veniva incontro la litania che scandisce il tempo dell’anima e dell’arrosto. Perdonami Berardo, ma allora perché mi hai portato in questa stanza? Che vederla così oggi, colpita dal sole che scende dalle otto finestre a sesto acuto della torre e si protende verso la città, sembra tutto ma mai una sala da pranzo. “Siete del tutto privo di fede e di pazienza. Se vi ho portato qui un motivo c’è”. E vuoi dirmelo, o vuoi che lo indovini? -“Amor è uno desio che ven da core / per abondanza di gran piacimento” È un indovinello? “… razza di asino”- sussurra- “ No. È Pier delle Vigne. Il mio verso preferito”. La Scuola poetica siciliana. “Almeno questo lo sa! Sì, la corte di poesia laica che componeva versi in volgare”. E cosa c’entra la poesia con la cucina? “Uhm… A parte che il cibo è molto simile a un componimento poetico. Cucinare, come comporre versi, è la ricerca di un equilibrio. Un piatto è una rima, mentre un’intera cena è come un poema”. È per propinarmi questa metafora che mi hai portato qui, nella torre Pisana, dove se alzi gli occhi hai bisogno di chiedere scusa al tempo perché lo ignori invece lui è là e gronda vita da ogni concio? “Adesso sembra che si sia messo lei a fare poesia!” In effetti mi sono lasciato prendere la mano… “E comunque, l’ho portata qui, perché proprio in questa stanza ho avuto l’onore di servire un banchetto privato ai più illustri rappresentati della Scuola Poetica Siciliana”. 3/5 "Il cucchiaio deve sporcarsi" Sul serio, tu hai servito l’imperatore mentre discuteva con i suoi amici poeti? “No. Non ho mai detto che c’era l’imperatore”. Sì, ma tu hai detto di essere stato il suo cuoco personale. “Ed è così. Ma mi mandò qui in Sicilia, perché fossi di supporto, con le mie pietanze, alla sua seconda moglie Iolanda che aveva una gestazione difficile, mentre lui partiva per Gerusalemme”. Capisco. Raccontami di questo banchetto privato. “Ah, gliene dirò davvero delle belle. Perché libero dalle abitudini di Federico, che voleva il cinghiale appena cacciato, i pesci di Lesina e ogni cosa cucinata alla biancomangiare, ovvero con un salsa di latte e mandorle, potetti dare sfogo alla mia creatività”. Ma chi erano i commensali? “Aspetti che le dico. Intanto deve immaginare questa stanza completamente diversa. Tanti cuscini alla maniera araba, tante candele e una tavola bassa sistemata qui, al centro della torre. E tappeti di una bellezza mai vista. Le pareti, non spoglie come le vede adesso, ma ricoperte di mosaici d’oro fin su in cima. Scene di battaglie e giardini che, con in bagliore delle fiammelle, moltiplicavano lo scintillio generale rendendo l’atmosfera quasi fiabesca. Seduti proprio qui: Pier delle Vigne, Rinaldo d’Aquino e Iacopo da Lentini. E su in alto, le stelle”. In pratica, tu hai servito il fior fiore dei poeti della corte. “Una vera antologia! Per la serata, il notaro, Iacopo da Lentini, si raccomandò personalmente con me perché seguissi un tema, le stelle appunto”. E perché proprio le stelle? Guarda che lo so che l’Osservatorio Astronomico che sta proprio sopra questa Torre è stato costruito in epoca borbonica, quindi non raccontarmi storielle per turisti! “Sono folgorato dalla sua sapienza”- è palesemente ironico, rotea gli occhi e continua-“a volte un luogo ha già nella sua anima quello che diverrà in futuro. E comunque, se avrà pazienza, le spiegherò perché proprio le stelle”. Scusa, continua a descrivere il tuo banchetto stellato. “Mi segua, vede qui questa porticina che sulla destra, poco prima della grande finestra da cui si domina Palermo, dietro questa porta feci allestire una piccola cucina e qui mi misi a preparare. Quella sera che diventò una lunga notte misi in tavola: il blaundysorye, il brodo siriano, dove galleggiavano stelline di pane abbrustolito; il pollo servito con “l’agliata”, una salsa d’aglio diluita con vino e aceto, innaffiato con un corposo rosso di Troia - servito nudo e crudo e non diluito con l’acqua come lo voleva Federico che non amava il torpore dell’ubriacatura-; aspic di pesce e le iscapecie, verdura e pesce fritti e poi affogati in una salsa agrodolce fatta con zafferano e aceto. Per finire con un trionfo di dolci presentati come un firmamento. In questo mi fu molto utile il marzapane, una di quelle magnifiche innovazioni che ci insegnarono gli arabi. Anche a tavola quindi si respirava interculturalità. “La tradizione araba fu fondamentale per raffinare la cucina siciliana. A tavola più che in ogni altro ambito le culture si incontrano. Perché a tavola si aggiunge sempre un posto e più si è eterogenei più si è ricchi. È consideri l’importanza di quanto le ho detto alla luce del fatto che la cucina tiene indissolubilmente strette natura e cultura, i poli opposti del segmento dell’evoluzione umana. Ma, torniamo a quella sera; mentre i miei ospiti si deliziavano con questi manicaretti e bevevano vino e versavano le salse, discutevano di poesia.” E perché le stelle? “Saprà che spesso parlando della struttura del sonetto siciliano si dice che esso si rifà nello schema alla poesia provenzale. Ma quella sera, con queste stesse orecchie, ebbi modo di 4/5 "Il cucchiaio deve sporcarsi" vederli studiare la matematica e l’astronomia e assommare sette file di versi di ventidue sillabe ciascuno, dopo aver fratto ventidue a sette e trovato 3,14, il p, la chiave di volta della circonferenza”. Sei sicuro che quella notte non abusasti pure tu di vino puro? “Può darsi. Ma, mi creda. Quelli erano poeti che volevano mettere in relazione la poesia con il mondo, che altro non è che una configurazione circolare in movimento”. Questo mi piace. Ma mi rattrista una cosa, visto che sai raccontare così bene potevi fare uno sforzo di immaginazione e raccontarmi che a questo banchetto c’era anche Federico. Avrei voluto che mi raccontassi come stava a tavola. “Stava a tavola come un vero re”. Elegante in tutto e per tutto? “No, come un bambino che preferisce mettersi in tasca qualcosa di dolce e delizioso e non vede l’ora di alzarsi perché ha di meglio da fare. E comunque, in qualche modo Federico quella sera fu presente”. Che vuoi dire? “Mi segua”. Apriamo la porta, quella che mi aveva mostrato prima tra la finestra e un quadro che raffigura Santa Rosalia, bella come la Maddalena. Dietro questa porta una stanzetta e poi un’altra e infine un’ultima porta che si apre su una piccola ma meravigliosa cappella che ha il fascino dello stare lì, insospettabile. “Eccoci. Ovviamente questa cappella non c’era ai tempi della mia vita. Ma l’ho portata qui per mostrarle questa che oggi viene scambiata per un acquasantiera”. E mi mostra, all’ingresso di questa chiesetta con i soffitti decorati con uno stucco delicato come un merletto, quella che ha tutto l’aspetto di un’acquasantiera, ornata di un decoro decisamente laico. Infatti, nel marmo è scolpito chiaramente Federico con il suo falcone al braccio. “Ecco, non so chi l’abbia sistemata qui, la riconoscerei tra mille. Questa è la vaschetta che Federico fece realizzare perché i suoi amici, banchettando senza di lui, prima di andarsene, si ricordassero dell’imperatore e della sua abitudine di lavarsi sempre le mani!”. Dice questo. Non so se sia vero o se, con mia licenza, mi stia pigliando in giro. Certo è che le mani di quell’uomo furono benedette, per cui oggi, con l’acquolina in bocca e senza aver toccato cibo, mi bagno in questa vasca e mi faccio il segno della croce. Eleonora Lombardo BIBLIOGRAFIA Profumi di Sicilia - Il libro della cucina siciliana di Giuseppe Coria, Vito Cavalletto Editore 1981, Palermo. Guida ai sapori perduti di Marcella Croce edizioni Kalòs 2008, Palermo Federico II di Svevia Imperatore e re di Sicilia di Claudio Alessandri - Nuova Ipsa Editore 2005, Palermo Federico II Cronaca della vita di un imperatore e della sua discendenza di Renato Russo Editrice Rotas 1994, Barletta I Normanni in Sicilia di Carlo Ruta Promo Libri 2007, Palermo 5/5