Microsoft Word -tesi - Società Vegetariana
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Microsoft Word -tesi - Società Vegetariana
LUISS Libera Università Internazionale degli Studi Sociali “Guido Carli” Facoltà di Scienze Politiche Corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali Cattedra di Filosofia dell’impresa VEG-ECONOMY Fondamenti, realtà e prospettive dell’impresa “senza crudeltà” Relatore Prof. Gianfranco Pellegrino Candidata Roberta Seclì matricola 602332 Correlatore Prof. Flavio Felice Anno Accademico 2006/2007 Indice Introduzione…………………………………………………..4 Parte 1. Premesse L’inaccettabilità etica dello sfruttamento degli animali……10 • Peter Singer………………………………………………….….11 • Tom Regan………………………………………………………29 • Gary Francione…………………………………………………..62 Altri motivi per diventare vegani……………………….……87 • La salute…………………………...……………………………87 • L’ambiente………………………………………………………95 9 L’acqua…………………………………….……….…..95 9 L’inquinamento……………………………………..…..98 9 La deforestazione e la desertificazione………….…101 • La fame nel mondo…………………………………………….103 Parte 2. Lo stato dell’arte Il mercato italiano ed europeo………………………….…..106 • Alimenti…………………………………………….......………111 • Prodotti non alimentari…………………………………………112 9 La cosmetica……………………………….……..…..116 Food……………………………………………...……...……119 • Rist-Ohsawa……………………………………………..……..123 • Muscolo di grano……………………………………………….127 No-Food………………………………………………………133 • E-Blood………………………………………………………..133 • San.Eco.Vit. ……………………………………………..……136 Veg-marketing …………………………..…………………..141 2 Parte 3. Prospettive Piccolo è (sempre) bello? ………………...…………..……….151 • La Grande Distribuzione Organizzata………...………………151 • I negozi naturali………………………………..……………..155 • Altre modalità………………………………………………...157 Dall’alternativa allo standard ……………………………….160 Nuove idee per il futuro……………………………....………163 • Vegani ed ecologisti…………………………….……………163 • I nuovi vegani………………………………..………...…….165 • Verso la decrescita o un nuovo consumismo? …………..…..167 • Conclusione……………………………………………….…170 Bibliografia…………………………………………….….171 Siti consultati……………………………………………...172 3 Introduzione L’economia ‘senza crudeltà’ (più conosciuta come cruelty-free) raggruppa un insieme di attività economiche sostenute da consumatori e imprese (alimentari, cosmetiche, di abbigliamento, di accessori, ecc.) che propongono un peculiare approccio alla produzione e al consumo: i prodotti compravenduti non contengono ingredienti ricavati dall’uccisione o dallo sfruttamento degli animali (pelle, carne, latte, uova, lana, seta, ossa, sangue, altri sottoprodotti), non subiscono procedimenti che implicano l’utilizzo di sostanze generate da animali (come può accadere ad alcune sostanze alcoliche), non sono commercializzati previa sperimentazione su animali (è il caso di cosmetici, detersivi, vernici, ecc.). La motivazione che sta alla base di scelte simili è principalmente etica: gli animali hanno una dignità, proveniente dal loro essere senzienti, cioè consapevoli del piacere e del dolore al pari degli esseri umani, pertanto, come questi ultimi, non possono essere uccisi, sfruttati o anche solo costretti a un’esistenza innaturale per dei fini altrui. Le persone che modellano la propria vita sulla base di questa convinzione sono chiamate vegetaliane o, più comunemente, vegane (dall’inglese vegan, contrazione di vegetarian) e si rifiutano di acquistare prodotti con caratteristiche differenti da quelle suesposte per non alimentare l’industria dello sfruttamento animale. La maggior parte dei lacto-ovovegetariani condivide questi principi, ma si limita ad un rifiuto parziale dei prodotti derivati da animali, talvolta perché non ritiene necessariamente sbagliato uno “sfruttamento umano” che non implichi l’uccisione, più spesso per ragioni di comodità. Essi, pertanto, non sostengono le sole aziende cruelty-free: ciononostante, il fatto che i vegetariani siano molto più numerosi e conosciuti dei vegani li rende ugualmente protagonisti, seppure in tono minore, di questa analisi (si parlerà infatti di veg*ani per comprendere entrambe le categorie). La presenza e l’aumento di prodotti cruelty-free è stata resa possibile sia da nuove tecniche produttive che hanno consentito la sostituzione di materiali di ampio utilizzo tradizionalmente ricavati da animali (questo vale in particolare per sostanze di sintesi in grado di sostituire pelle e cuoio ed estratti animali utilizzati nella cosmetica e nella composizione dei farmaci), sia dall’utilizzo sempre più significativo di prodotti vegetali tipici dei paesi orientali (ciò è significativo soprattutto in ambito alimentare, in particolare per i prodotti a base di soia, sostitutivi di carne e latticini). Questo settore assiste a una progressiva crescita dei propri attori e profitti, nonostante i prodotti vengano per lo più commercializzati tramite canali dedicati, possano presentare un prezzo più alto, siano 4 meno accessibili a determinate fasce di consumatori in quanto meno pubblicizzate sui mezzi di comunicazione più importanti. I prodromi di questo nuovo settore economico, dall’età approssimativa di quarant’anni, possono essere identificati nelle nuove idee diffuse grazie alle proteste giovanili della fine degli anni 60. Molte culture originatesi in questo periodo, infatti, hanno posto una particolare attenzione all’alimentazione, al rapporto con gli esseri viventi non umani e con l’ambiente, nonché all’idea di consumo in sé, generalmente criticata a favore del recupero di una vita più sobria. Svariate idee sviluppate in ambiti anche molto lontani tra loro (filosofia, religione, scienza, ecc.) hanno contribuito a far aumentare l’interesse verso un modello di vita più vicino alla natura e basato su relazioni meno squilibrate tra animali umani e non umani. In particolare, il movimento animalista si è sviluppato dagli anni 70 in base a molteplici fattori di sviluppo: innanzitutto il sorgere e consolidarsi dei movimenti ambientalisti, che criticavano l’idea stessa del dominio assoluto dell’uomo sul resto della realtà vivente; il dibattito su questioni bioetiche, come l’aborto; la pubblicazione dei risultati di moltissimi studi sulle abilità di linguaggio di scimpanzé e gorilla; gli sviluppi dell’etologia, della sociobiologia, della fisiologia, dell’anatomia comparata, dell’ecologia comportamentale, delle neuroscienze –che hanno evidenziato la presenza di innumerevoli tratti comuni tra esseri umani e animali-; soprattutto, le prime testimonianze fotografiche della vivisezione, diffuse con i volumi di Ruth Harrison (Animal Machines, 1964) e Hans Ruesch (L’Imperatrice Nuda, 1976). Sulla base di stimoli molto differenti tra loro, è nata la temperie culturale al cui interno si è venuta definendo la questione animale1: risalgono appunto a questo periodo i primi contributi filosofici sul rapporto tra animali umani ed altri animali. A partire da un simile groviglio di spunti scientifici e idealistici, è stata inevitabile una ricaduta nel business: difatti, la diffusione crescente dei veg*ani, degli ambientalisti (termine ormai sempre meno esplicativo, utilizzato per indicare atteggiamenti fin troppo differenti), o comunque di una nuova consapevolezza nei confronti del mondo circostante ha fatto sì che nuovi bisogni dovessero trovare dei riscontri sul mercato. Sono nate le prime aziende ad agricoltura biologica, le prime imprese di cosmetica che non effettuavano i test di tossicità in vivo -sbandierati per la prima volta al grande pubblico dal famoso libro di Peter Singer (Liberazione Animale, 1975)-, i primi detersivi non testati né inquinanti. A livello ideologico, l’iniziale concentrazione di istanze -quali la tutela dell’ambiente, la protezione degli animali non umani, la nonviolenza come strategia politica- caratterizzante 1 Barbara De Mori, Che cos’è la bioetica animale, Carocci, 2007, pp. 13-16. 5 l’innovazione culturale degli ultimi anni Sessanta si è successivamente indebolita, con la nascita di numerose ONG e gruppi di pressione dedicati a rivendicazioni più specifiche: sono sorte, così, associazioni che si battono per la protezione dell’ambiente e dei soli animali in estinzione, tralasciando le condizioni di tutti gli altri; aziende agricole a conduzione biologica che non disdegnano l’allevamento intensivo di animali; organizzazioni a favore dello sviluppo dei paesi poveri che molto spesso non analizzano né la questione ambientale né quella animale. Questa polverizzazione del messaggio non è stata sicuramente positiva per nessuno dei singoli obiettivi, perché spesso non è riuscito a evidenziare il necessario legame tra loro. Conseguentemente, il messaggio animalista, ambientalista e terzomondista è spesso stato abbinato al comportamento di alcuni gruppi sociali, più ricchi, che “si potevano permettere” di pensare a questi problemi. In questo modo, la portata di ogni singolo messaggio è andata affievolendosi, giacché tali attività venivano viste solo come nuovi passatempi di benestanti scansafatiche, del tutto estranei alle necessità e agli interessi della gente. Sorprendentemente, gli anni Novanta hanno visto avvicendarsi una nuova ondata di consapevolezza sociale a favore di queste rivendicazioni; ciò è stato dovuto anche alla fine di buona parte delle contrapposizioni ideologiche del passato, che rendevano tali istanze un patrimonio esclusivo di una sinistra snob, ma soprattutto, più verosimilmente, grazie alla diffusione sempre più capillare di informazioni sulla crisi ambientale e sui maltrattamenti quotidiani degli animali (un ruolo importante ha avuto anche la crescente consapevolezza della nocività degli alimenti animali). Le vicende di “Mucca pazza” e simili, il referendum (fallito) sulla caccia, le spettacolari proteste di Greenpeace contro la caccia alle balene, l’aumento dei pets e la mole di informazioni accessibili su Internet hanno fatto sì che il rapporto tra l’uomo e gli altri animali diventasse un argomento sempre più discusso e influente, è aumentata la frequenza e l’esposizione mediatica di manifestazioni di protesta e sit-in, molte tradizioni locali incentrate su atti di tortura su animali sono state prese di mira e gettate in pasto all’indignazione del pubblico globale (la corsa dei tori di Pamplona, la “colomba di Orvieto”, ecc.). Il pensiero filosofico animalista è entrato in una seconda fase, in cui nuovi autori hanno rifiutato lo sterile approccio protezionista a favore del più risolutivo abolizionismo, dopo trent’anni di progressi pressoché irrilevanti. La crescente attenzione verso i problemi degli equilibri ambientali sta iniziando a diffondere presso il pubblico l’idea che il modello di consumo dei paesi industrializzati non sia ecologicamente sostenibile e, in particolare, che l’alimentazione basata sui cibi animali giochi un ruolo fondamentale nell’aumentare l’impronta ecologica del consumatore globale (non potendosi 6 più limitare il fenomeno all’Occidente). Il legame carne/desertificazione /fame nel mondo /scarsità d’acqua /inquinamento fatica ad affermarsi nella cultura di massa, ma le attenzioni di giornali e siti internet sull’argomento stanno aumentando, e questo fa sperare in un prossimo futuro più consapevole. Come causa ed effetto di questi stimoli, i veg*ani aumentano ovunque, si fanno sentire sempre di più e sono sempre più accettati (sebbene ciò valga per lo più per i lacto-ovo-vegetariani, secondo il principio per cui una novità sconvolgente inizialmente viene ridicolizzata, poi sottoposta a durissime critiche e alla fine accettata2; per i vegani, siamo sicuramente ancora al primo stadio). L’analisi qui proposta si concentra sul fatto per cui questo settore di mercato sembra sempre più interessante agli occhi degli operatori economici, sia per le dimensioni sempre più cospicue, sia perché, ponendo l’attenzione verso istanze “etiche” in senso lato (incluso commercio equo e solidale, agricoltura biologica, ecc.) i grandi operatori della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e molte grandi aziende agroalimentari dalle dimensioni globali, note per la storica avversione a ogni tipo di eticità del comportamento3, hanno capito di poter guadagnare molto di più: alcuni recenti studi4 mostrano che il consumatore medio diventa sempre più sensibile ai messaggi di tipo salutista, ambientalista, animalista, solidale –una buona parte del merito è da attribuire agli aumentati timori sulla sicurezza alimentare5 e al tam-tam dei medici a favore un’alimentazione meno squilibrata6. Sulla base della consapevolezza dei singoli consumatori è possibile tentare di tracciare una linea divisoria tra la veg-economy vera e propria, che si incontra nelle botteghe biologiche, è contraddistinta da marchi conosciuti nel settore che per lo più non operano anche nel “convenzionale” e propongono prezzi non elevatissimi ma di certo superiori ai prodotti che 2 “Tutti i grandi movimenti, inevitabilmente, conoscono tre stadi: il ridicolo, il dibattito, l’accoglimento”. John Stuart Mill, citazione presente in Tom Regan, I diritti animali, Garzanti, 1990, p. 16. 3 McDonald’s, ad esempio, ha fatto del suo ignorare ripetutamente ogni appello ad istanze etiche un elemento distintivo, seppure conosciuto solo da una parte del pubblico. Ultimamente sembra che invece ammantarsi di buoni propositi sia una tendenza sempre più seguita presso le grandi aziende, resesi conto del ritorno in termini di acquisti: per restare allo stesso esempio, McDonald’s effettua sempre più spesso spot incentrati sulle nuove McInsalate o che esaltano la sicurezza della propria filiera. 4 Una recente indagine Ipsos svolta in quindici paesi ha evidenziato che “complessivamente, oltre la metà dei consumatori intervistati preferirebbe acquistare prodotti e servizi da aziende che vantano una buona reputazione ambientale, anche a costo di spendere di più, e quasi l’80% ritiene importante lavorare per realtà che si dotino di politiche ambientali sostenibili. Nel caso del campione italiano si riduce sensibilmente il primo valore mentre resta confermato il secondo (rispettivamente 33% e 81%)”. L’articolo è disponibile su http://v2.promiseland.it/view.php?id=2213 . 5 Una disamina delle più recenti crisi alimentari è presente in Paolo C. Conti, La leggenda del buon cibo italiano e altri miti alimentari contemporanei, Fazi Editore, Roma, 2006. 6 Diciamo “meno squilibrata” in quanto finora l’establishment sanitario si è generalmente limitato a indicare regole molto blande e spesso contraddittorie, che non impediscono di commettere errori alimentari abnormi, in particolare riguardo al consumo di alimenti animali. 7 intendono sostituire, e quella che gravita attorno ai grandi marchi storici dell’agroalimentare, che intendono rinnovare la propria immagine in un senso “bio-eco” per cavalcare l’onda –la moda, secondo alcuni- dell’acquisto etico, propone prezzi spesso molto più elevati rispetto al biologico “puro” per prodotti dalla qualità talvolta discutibile7 e soprattutto di comportamenti aziendali complessivamente poco mutati. In linea generale, al primo ambito fanno riferimento i consumatori più informati, che non basano i propri comportamenti d’acquisto esclusivamente sulla pubblicità televisiva, sono disposti a spendere di più (anche se non necessariamente a fronte di risorse economiche superiori) per un prodotto del cui livello di qualità sono consapevoli, destinano i propri acquisti a imprese dalla reputazione migliore, compiono scelte etiche importanti anche in altri ambiti; al secondo ambito accede la clientela standard della GDO, che per lo più fonda le proprie decisioni di consumo sui messaggi veicolati dai media “generalisti”, cerca sopratutto un buon compromesso tra qualità e prezzo ma non sempre sa valutare il primo requisito, non ha ben chiara la differenza tra l’immagine che le imprese vogliono portare avanti e il loro reale comportamento. E’ evidente come il primo settore si caratterizzi per il suo costituire una nicchia di mercato, con importanti e diverse barriere all’accesso da parte della maggior parte dei consumatori, mentre il secondo costituisca un “innesto ecologico” su un corpo principale di altra natura, che risponde principalmente al solo stimolo della produzione massima. Tuttavia, è improprio pensare in termini dicotomici, dato che entrambi i fenomeni vanno assumendo elementi dell’altro, con esiti complessi da valutare attentamente. In questa situazione non mancano nuove tendenze che si aggiungono nel tempo. La vegeconomy, infatti, appare molto sensibile ai cambiamenti tecnologici, sociologici, politici, economici, giuridici, scientifici: è inevitabile che una tematica di questo tipo si incroci con altri tipi di pressioni sui consumi (come il movimento per la decrescita), con l’evoluzione filosofica nella teoria dei diritti animali (il fruttarismo), con le necessità imprenditoriali, per citare solo alcune influenze. E’ tuttavia molto probabile che la veg-economy costituirà un settore sempre più interessante nel corso del tempo, a cui le istituzioni dovrebbero prestare una maggiore attenzione affinché possa espandersi – considerando che un miglioramento della qualità della vita è interesse di tutta la società, le istanze su cui essa si fonda meritano di trovare accoglimento presso tutte le sue componenti. 7 Spesso, ad esempio, i prodotti a base di soia che si trovano nella GDO non sono biologici e, perciò, non sono ugualmente garantiti da una contaminazione da parte di OGM. 8 Parte 1. Premesse “Nascere, vivere e morire è un puro cambiamento di forme. E che cosa importa l’una o l’altra forma? Ogni forma ha la sua felicità e la sventura che ad essa spettano. Dall’elefante alla pulce, e dalla pulce alla molecola sensibile e vivente, che costituisce l’origine di ogni cosa, non c’è un punto in tutta la natura che non soffra o che non goda”. Denis Diderot8 “Tu scopri in lui gli stessi organi di sentimento che sono in te. Rispondimi, o meccanicista, la natura ha dunque combinato in lui tutte le molle del sentimento affinché egli non senta?” Voltaire, 17649 “E’ ridicolo negare una verità evidente così come affaticarsi troppo a difenderla. Nessuna verità sembra a me più evidente di quella che le bestie sono dotate di pensiero e di ragione al pari degli uomini: gli argomenti a questo proposito sono così chiari che non sfuggono neanche agli stupidi e agli ignoranti”. David Hume10 “Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono solo animali”. Theodor Adorno11 “Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale”. Arthur Schopenhauer, 185112 8 Denis Diderot, Oeuvres Philosophiques, Bordas, Paris, 1990; citato in B. De Mori, cit., p. 7. Voltaire, Dizionario Filosofico, Mondadori, Milano, 1968, p. 108. 10 David Hume, Trattato Sulla Natura Umana, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 190. 11 Theodor Adorno, citato in Charles Patterson, Un’Eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 57. 12 Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Bollati Boringhieri, Torino, 1963, p. 1056. 9 9 L’inaccettabilità etica dello sfruttamento degli animali Una parte importante dei vegetariani e vegani è divenuta tale principalmente per motivi etici: cibarsi di animali è considerato un atto immorale, contrario al senso di giustizia che tanto sta a cuore, a proposito di altre faccende, a tutta la società, la maggior parte della quale tuttavia sembra rimuovere il fatto che bistecche, uova, formaggini e scatolette di tonno non crescano sugli alberi. Sono pertanto motivazioni di natura etica che stanno alla base della nascita stessa del settore “veg-economy”: così come sarebbe considerato immorale cibarsi di esseri umani, così, sulla base del fatto che gli animali provano dolore come noi, è ingiusto alimentarsi di carni e derivati (o sfruttare gli animali per altri motivi). Negli ultimi quarant’anni è stato più semplice venire a conoscenza delle condizioni in cui gli animali sono trattati nelle nostre società e questo, unito al crescente successo mediatico di molte organizzazioni animaliste –che hanno fatto sentire la propria voce in modi sempre più eclatanti ad un pubblico sempre più vasto-, ha reso possibile una sempre più diffusa riflessione sul rapporto tra noi e gli altri animali. Questo risultato, se talvolta ha spinto alcune amministrazioni a delle modifiche legislative, ha prodotto principalmente un aumento di coloro che decidono di astenersi dai “cibi della morte”. I primi fautori dell’alimentazione vegetariana per ragioni morali –e, in generale, del trattamento rispettoso degli animali- risalgono, come minimo, all’antica Grecia (basti pensare al famoso testo di Plutarco Del mangiare carne). Successivamente, Jeremy Bentham è stato il precursore della teoria utilitarista e ha dedicato molte riflessioni al trattamento degli animali non umani; sue sono le citazioni più famose sull’argomento, ancora oggi di grande valore. Nel corso dell’Ottocento i paesi anglosassoni –in particolare, la Gran Bretagna- hanno conosciuto un vasto movimento di opinione pubblica a lungo battutosi per la diffusione del vegetarismo e il miglioramento delle condizioni di vita degli animali sfruttati dall’essere umano, che però appariva inevitabilmente limitato alla parte più istruita della popolazione. E’ solo a partire dagli anni 70 del Novecento che la questione del trattamento degli animali è diventata di dominio pubblico. 10 Peter Singer La responsabilità principale dell’improvvisa crescita di consapevolezza riguardo al trattamento degli animali e, pertanto, la spinta al mutamento in senso animalista, identificata come il principale motore della “veg-economy”, è da attribuire al lavoro di Peter Singer. Insigne filosofo australiano, ha insegnato nelle università di mezzo mondo e fatto puntualmente scalpore con ogni sua opera. Animal Liberation (1975) è da alcuni considerato il primo testo-manifesto dell’animalismo moderno, in cui sono presentate le tesi più importanti e controverse del filosofo; un altro volume fondamentale per capire la sua teoria è Applied Ethics (1989), in cui l’autore considera anche altre importanti questioni morali legate alla bioetica, tuttora attualissime nel dibattito politico. Il suo ultimo lavoro è The Ethics of What We Eat (2006), in cui analizza più da vicino la realtà delle differenti scelte alimentari. Singer parte da un insieme fondamentale di principi etici che devono gestire le relazioni tra gli esseri viventi. “Il fondamentale principio di eguaglianza, su cui poggia l’eguaglianza di tutti gli esseri umani, è il principio dell’eguale considerazione degli interessi”13. Questo, secondo il filosofo, non può essere limitato agli umani: “avendolo accettato come base morale valida per i rapporti con altri della nostra stessa specie, siamo con ciò impegnati ad accettarlo anche come base morale valida per i rapporti con quelli al di fuori della nostra specie: gli animali non umani”14. Singer motiva l’estensione del principio di eguaglianza agli animali in base allo stesso principio di eguale considerazione degli interessi: “il tener conto degli altri non deve dipendere dalla loro razza o dalle loro capacità”. Molti filosofi, secondo Singer, hanno invocato una qualche forma di eguale considerazione degli interessi come principio morale fondamentale, ma pochi si sono accorti che il principio possiede implicazioni che vanno al di là della nostra specie; tra questi, forse il più importante fu Jeremy Bentham, il padre fondatore dell’utilitarismo moderno. “In un passo anticipatore, scritto in un tempo in cui gli schiavi neri dei domini britannici venivano ancora trattati più o meno come oggi noi trattiamo gli animali non umani, scriveva: “Verrà il giorno in cui il resto del creato animale potrà acquisire quei diritti che solo la mano della tirannia ha potuto negare loro. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è una 13 14 Peter Singer, Etica Pratica, Liguori, 1989, p. 56. Ibidem. 11 ragione per abbandonare senza protezione un essere umano ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro sono ragioni ugualmente insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso fato. Che altro dovrebbe tracciare il limite invalicabile? La facoltà della ragione, o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulto sono, oltre ogni paragone, più razionali e più capaci di comunicare di un bambino di un giorno, o di una settimana, o perfino di un mese. Ma supponiamo pure che sia altrimenti, che importa? Il problema non è ‘possono ragionare?’, e neppure ‘possono parlare?’, ma ‘possono soffrire?”15 Singer attribuisce alla sensibilità (capacità di provare piacere o dolore) il peso maggiore come criterio guida nel trattamento degli altri: “La capacità di provare dolore e/o piacere o felicità non è una caratteristica come le altre: è il prerequisito per avere interessi in assoluto. Se un essere soffre, non può esserci nessuna giustificazione morale per rifiutarsi di prendere in considerazione tale sofferenza”16. E’ sulla base della sensibilità che Singer attribuisce gli interessi agli esseri viventi: “Quale che sia la natura dell’essere, il principio di eguaglianza richiede che la sua sofferenza conti quanto l’analoga sofferenza di ogni altro essere –nella misura in cui confronti di tal genere possono essere fatti. Se un essere non è capace di provare dolore, o di avere esperienza di piacere o felicità, non c’è nulla da prendere in considerazione. Ecco perché il limite della sensibilità è il solo confine difendibile per il tener conto degli interessi altrui. Tracciare questo confine mediante altre caratteristiche, quali l’intelligenza o la razionalità, sarebbe arbitrario”17. Sulla base di tale unico discrimine, Singer afferma che nei casi in cui tra un animale umano e un animale non umano non si possa quantificare una differenza nella sofferenza provata, non c’è un motivo per innalzare lo status morale dell’essere umano su quello dell’animale; l’uno non vale più dell’altro. Se si fa una discriminazione sulla base della mera appartenenza al genere umano, si compie un ragionamento specista: si mette in atto una discriminazione arbitraria funzionale al gruppo dominante, composto dagli esseri umani, così come in passato accadeva per i bianchi verso i neri e per gli uomini verso le donne. Lo specismo18 è visto come l’ultima, colossale violazione del principio di uguaglianza (considerando superate, in teoria, razzismo e sessismo)19 in quanto non accetta l’idea secondo cui il 15 Ibidem, p. 57. Ibidem. 17 Ibidem. 18 Termine coniato nel 1970 da Richard Ryder, psicologo. Richard Ryder, Victims of Science, Davis-Poynter, London, 1975, citato in B. De Mori, cit., p. 44. 19 “Il razzista viola il principio di uguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Analogamente lo specista 16 12 dolore (inteso come ‘la medesima quantità di dolore’, che può essere inflitta in modi diversi a seconda della struttura fisica dell’essere20) provato da maiali e topi non è altrettanto cattivo di quello provato dall’uomo; lo specismo è un pregiudizio che manteniamo perché (e finché) ci fa comodo21. Una critica che Singer anticipa è quella per cui gli umani hanno un consapevolezza maggiore di ciò che gli sta accadendo, sulla base della capacità di autocoscienza (di sentirsi cioè degli individui, dotati di una dimensione temporale, di un passato, un futuro, delle aspettative) e questo rende la loro sofferenza peggiore. Questo potrebbe22 essere vero, ma significa solo che dobbiamo fare molta attenzione nell’effettuare confronti tra gli interessi di specie diverse. Se, in presenza di una medesima quantità di dolore, si continua a difendere un’ulteriore distinzione tra animali ed umani, ciò è possibile solo sulla base di una preferenza moralmente indifendibile per membri della nostra specie; lo specismo, appunto. Se gli animali contano in quanto portatori del medesimo interesse umano a non soffrire, il nostro cibarcene diventa difficile da difendere, tenendo conto che nella più ampia maggioranza dei casi, la carne è un lusso e non una necessità23 e che quasi sempre (il dubbio è concesso, ma con molti indizi del contrario) la morte di un animale allevato non è permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso”. Peter Singer, Liberazione Animale, Net Edizioni, Milano, 2003, p. 24. 20 P. Singer, Etica Pratica, cit., p. 58. 21 “Se vogliamo evitare di essere annoverati tra gli oppressori, dobbiamo essere pronti a rivedere tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri gruppi, anche i più radicati. Dobbiamo considerarli dal punto di vista di chi è più danneggiato da tali atteggiamenti e dalle pratiche che da essi conseguono (…) Io credo che i nostri atteggiamenti verso i membri delle specie diverse dalla nostra siano basati su una lunga storia di pregiudizio e arbitraria discriminazione, e argomento che non vi può essere ragione –ad eccezione dell’egoistico desiderio di mantenere i privilegi che sono appannaggio del gruppo dominante- per rifiutarsi di estendere ai membri delle altre specie il fondamentale principio dell’eguaglianza di considerazione. Io vi chiedo di riconoscere che i vostri atteggiamenti verso i membri delle altre specie sono una forma di pregiudizio non meno contestabile del pregiudizio connesso alla razza o al sesso di una persona”. P. Singer, Liberazione Animale, cit., p. 13. 22 “ Se si prende una persona per sottoporla ad un esperimento scientifico estremamente doloroso o letale, essa soffrirà di un dolore addizionale, l’angoscia mentale, rispetto a quello dell’esperimento in quanto immagina cosa gli potrebbe accadere. Così non sarebbe per un coniglio, perché non immagina e non prevede cosa gli succederà (…) ma a volte gli animali possono soffrire di più a causa della loro comprensione più limitata: un prigioniero di guerra può essere rassicurato dal sapere che alla fine delle ostilità sarà rilasciato; una tigre catturata invece è terrorizzata parimenti dalla cattura e dalla morte, perché non può immaginare un futuro di libertà, perché non distinguerebbe tra la cattura e la morte (…) gli esseri umani normali adulti hanno capacità mentali che, in alcune circostanze, li porteranno a soffrire più di quanto soffrirebbero gli animali nelle stesse circostanze [ma può accadere anche il contrario, nel caso di] esseri umani neonati o ritardati mentalmente, che non potrebbero immaginare le sofferenze da patire. Dunque, dovremmo chiederci se siamo pronti anche a consentire esperimenti su neonati umani e adulti ritardati.”. Ibidem, p. 60. 23 “Gli esquimesi che vivono [anzi, vivevano] in un ambiente in cui l’alternativa all’uccisione di animali è la morte per fame, potrebbero essere giustificati nell’affermare che il loro interesse a sopravvivere è superiore a quello degli animali che uccidono. Ma la maggior parte di noi non può difendere la propria dieta abituale in questo modo. Per i cittadini dei paesi industrializzati, seguire una dieta priva di cibo animale è possibile, auspicato da una vastissima letteratura scientifica, ecologico. Perciò, mangiar carne è un lusso; il suo consumo si giustifica solo perché alla gente piace il suo sapore”. Ibidem, p. 64. 13 indolore. Mangiando animali, troviamo contrapposti un interesse umano minore (il sapore) e un interesse animale elevato (la mancanza di sofferenza, la vita), ma secondo il principio dell’uguale considerazione degli interessi non si possono sacrificare interessi maggiori a interessi minori. D’altra parte, la sperimentazione scientifica rappresenta, probabilmente, l’ambito in cui l’utilizzo di un ragionamento meramente specista è più evidente. I vivisettori, infatti, cercano di giustificare gli esperimenti sostenendo che questi porteranno a scoperte applicabili agli umani, ma, se così fosse, dovrebbe essere sottinteso che tra umani e non umani ci sono delle somiglianze su aspetti fondamentali. In realtà, contrariamente alla percezione comune, pochissimi animali sono coinvolti in esperimenti finalizzati a vitali obiettivi medici24, per cui non sussiste nemmeno uno scontro tra il sommo interesse umano alla vita e quello dei non umani; tali esperimenti non possono, pertanto, essere giustificati sulla base dell’idea per cui alleviano più sofferenza di quella che provocano. In questi casi, i benefici umani sono inesistenti o molto incerti, mentre le perdite per i membri di un’altra specie sono certe e reali: il principio di eguale considerazione degli interessi viene perciò violato25. Le reazioni e le obiezioni alla teoria appena esposta sono state, lo si può immaginare, forti; di seguito ne sono indicate alcune tra le più frequenti e ovvie. Come sappiamo che gli animali provano dolore? Ciascuno di noi ha esperienza solo del proprio dolore, e ci limitiamo a dedurre che altri lo provino sulla base dell’osservazione di comportamenti simili o assimilabili ai nostri. Se questo accade nei confronti di altre 24 La maggior parte degli animali da laboratorio è utilizzata per testare cosmetici, teorie psicologiche, alimenti, nuove sostanze chimiche dagli utilizzi più svariati. 25 Circa i casi in cui gli esperimenti fossero fondamentali per la vita umana, Singer, in base ad un’ottica utilitarista, non afferma che sarebbe meglio far morire migliaia di persone rispetto che sacrificare un solo animale. In casi di questo tenore, il sacrificio di un animale sarebbe secondo lui giustificato, in quanto l’interesse alla vita di un essere dotato di autocoscienza e di percezione del tempo è maggiore dell’interesse alla vita di un essere privo di queste caratteristiche. Ma Singer fa notare come porre in esame casi del genere sia per lo più tendenzioso, perché nessun esperimento medico ha mai avuto risultati così spettacolari, e, soprattutto, che “questa risposta include l’ammissibilità di esperimenti anche su umani orfani mentalmente ritardati: qualora ciò non fosse ammesso, si sosterrebbe una discriminazione basata unicamente sull’appartenenza di specie. Non sembrano esistere caratteristiche moralmente rilevanti che questi umani cerebrolesi posseggano e di cui manchino gli animali”. Ibidem, p. 67. Come è ovvio, Singer non incita certo gli scienziati a fare esperimenti su bambini handicappati, ma mira a far capire che non c’è una differenza morale tra questi e gli animali non umani, in quanto il grado di sofferenza sarebbe il medesimo, e sarebbe così anche tra un essere umano autocosciente e un animale non autocosciente, in quanto entrambi hanno il medesimo interesse a non soffrire –sulla base di una medesima sensibilità al dolore- :“Non è possibile scrivere in maniera obiettiva sugli esperimenti eseguiti dai ‘medici’ dei campi di concentramento nazisti su coloro che essi consideravano ‘subumani’ senza suscitare emozioni; e lo stesso vale per la descrizione di alcuni degli esperimenti oggi condotti sui non umani in laboratori degli Usa, della Gran Bretagna e di altri paesi. La giustificazione decisiva per l’opposizione a entrambi questi tipi di esperimenti, tuttavia, non è sentimentale. E’ un appello a fondamentali principi morali che noi tutti accettiamo, e l’applicazione di tali principi alle vittime di entrambi i tipi di esperimenti è richiesta dalla ragione, non dal sentimento”. P. Singer, Liberazione Animale, cit., p. 11. 14 persone, non c’è motivo per cui non debba accadere verso individui di altre specie, se non un arbitrario ragionamento specista. Gli umani possono dire che provano dolore, ma i bambini no: eppure crediamo loro. Non c’è motivo per cui ciò non debba valere anche verso i non umani. Inoltre, dato che il sistema nervoso di tutti i vertebrati è fondamentalmente simile (le parti del sistema nervoso umano coinvolte nella percezione del dolore sono comuni agli altri animali) non abbiamo motivo per credere che la percezione del dolore non sia la medesima (ferma restando la struttura fisica differente, rilevabile, come è ovvio, anche tra umani)26. Se gli animali si divorano tra loro, perché non dovremmo fare altrettanto? (o “la difesa di Benjamin Franklin”)27. Quest’argomento non è logico né etico. Normalmente non prendiamo come modello il comportamento degli animali non umani; inoltre, gli animali non umani carnivori non hanno scelta tra l’ammazzare altri animali per cibarsene e non farlo; per loro, è una questione di istinto, non di colpe o meriti. Al contrario, gli uomini possono scegliere di non farlo –sono perciò responsabili delle loro scelte- e non hanno l’istinto, per esempio, di addentare un vitello vivo. Mangiare carne è naturale. Oggi mangiare animali non è naturale, perché gli allevamenti intensivi, da cui provengono le maggiori quantità di carni, latticini, uova e pesce, non hanno nulla di naturale; ma anche se lo fosse (cioè, anche se ci fossero solo allevamenti non intensivi), non tutto quello che è naturale è giusto (ad esempio, per una donna è naturale partorire ogni anno dalla pubertà alla menopausa, ma non è giusto obbligare una donna a farlo)28, e viceversa. Inoltre, l’argomento della ‘natura’ può essere utilizzato per giustificare ogni iniquità: l’uomo è naturalmente superiore alla donna, il più forte ha sopravvento sul più debole…In realtà, come per la critica precedente, si tratta di un uso selettivo di un argomento che, in altri contesti, rigetteremmo29. Mangiare carne fa parte della cultura occidentale. Quando le pratiche culturali che la nostra società ha utilizzato in passato sono contrarie ai nostri principi fondamentali, non le difendiamo. Anche la schiavitù era parte della cultura del sud degli Usa. Anche la predominanza su donne, bambini e non bianchi è stata culturalmente significativa per 26 “Nessuna delle ragioni che abbiamo per credere alla capacità di provare dolore negli animali vale anche per le piante: non possiamo osservare comportamenti che provano dolore, e inoltre le piante non hanno un sistema nervoso organizzato come il nostro”. P. Singer, Etica Pratica, cit., p. 69. 27 Jim Mason, Peter Singer, The Ethics of What We Eat, Rodale, 2006, p. 243. 28 Ibidem. 29 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 244. 15 secoli, se non per millenni. Non per questo le difendiamo, anzi molte persone si sono battute per contrastarle30. Ci sono differenze tra umani e animali che giustificano la maggiore importanza dei primi . Innanzitutto bisogna dire che tra gli stessi umani ci sono delle rilevanti differenze, e non per questo diamo uno status differente ad alcuni umani. Uomini e donne sono evidentemente diversi, e per questo i diritti degli uni differiscono da quelli delle altre (una donna potrebbe avere il diritto di abortire, ma un uomo no); allo stesso modo, umani e non umani sono evidentemente diversi, e per questo i diritti degli uni dovrebbero sicuramente essere diversi da quelli degli altri (non avrebbe senso dare ad un cane il diritto di voto, perché, come l’uomo non può abortire, il cane non può votare), ma l’estensione da un gruppo ad un altro del principio fondamentale di uguaglianza non implica che dobbiamo garantire a tutti i gruppi esattamente gli stessi diritti. “Il principio fondamentale di eguaglianza non prescrive eguale o identico trattamento; prescrive eguale considerazione; un’eguale considerazione di esseri differenti può portare ad un trattamento differente e a differenti diritti”31. Gli esseri umani sono distinti da tantissime altre caratteristiche (intelligenza, forza fisica, bontà d’animo, ecc.) ma nessuno crede che la rivendicazione dell’eguaglianza dipenda da simili dati di fatto: “il principio dell’eguaglianza degli esseri umani non è la descrizione di una pretesa eguaglianza reale, ma una prescrizione sul modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere trattati. Dal punto di vista logico, non vi è nessuna ragione cogente per assumere che una differenza fattuale di capacità fra due persone giustifichi una qualsiasi differenza nella quantità di considerazione da attribuire ai rispettivi bisogni e interessi”32. In base al principio di eguaglianza, la parità di considerazione degli interessi va estesa a tutti, a prescindere dalla razza, dal sesso, da particolari caratteristiche o capacità, e, perciò, anche dalla specie. Per quanto riguarda le differenze tra la nostra specie e le altre, gli animali umani sono autocoscienti, possono cioè scegliere come vivere e si percepiscono in una certa dimensione temporale. Dire che gli esseri autocoscienti hanno diritto a una priorità di considerazione è ammissibile in base al principio di eguale considerazione degli interessi, perché essi possono (ma, come si è visto, non è sempre così) percepire il dolore in modo più angoscioso rispetto a chi autocosciente non è. Ma da questa premessa non discende che 30 Ibidem, p.245. P. Singer, Liberazione Animale, cit., p. 18. 32 Ibidem, p. 21. “Dovrebbe risultare evidente che le fondamentali obiezioni avanzate dei confronti del razzismo e del sessismo (basate sull’intelligenza) sono altrettanto valide nel caso dello specismo. Se il possesso di una dose superiore di intelligenza non autorizza un umano ad usarne un altro per i suoi fini, come può autorizzare a sfruttare i non umani per lo stesso scopo?” Ibidem, p. 22. 31 16 la sofferenza inferiore (un interesse meno rilevante come il gusto) di un essere autocosciente sarebbe più importante di quella superiore (un interesse più rilevante come la sofferenza) di un essere solo senziente perché si tratta di un tipo di essere di valore morale superiore33. Anche quando gli interessi sono simili, fare discriminazioni di questo tipo non è diverso dal farle sulla base del sesso o della razza: interessi simili –in questo caso, all’astensione dalla sofferenza- devono ricevere uguale considerazione34. E’ su questa base che Singer rifiuta il principio della sacralità della vita umana, che traccia attorno alla nostra sola specie un arbitrario (perciò, specista) possesso del diritto alla vita. In base al principio dell’eguale considerazione degli interessi, esseri simili sotto tutti gli aspetti rilevanti hanno un analogo diritto alla vita: di conseguenza, la semplice appartenenza alla nostra specie biologica non può costituire un criterio moralmente rilevante ai fini di questo diritto35. Visto che perciò gli esseri umani possono non essere simili sotto tutti gli aspetti rilevanti, non tutte le vite umane hanno uguale valore (il male costituito dal dolore è tale di per sé e non è influenzato dalle altre caratteristiche del soggetto –se è autocosciente o meno-; mentre il valore della vita ne è influenzato). Secondo Singer, ciò significherà che se dovessimo scegliere tra la vita di un essere umano e la vita di un altro animale sceglieremmo di salvare la vita dell’essere umano, ma solo perché assumiamo che in genere l’essere umano è autocosciente, consapevole del passato e del futuro ed ha delle aspettative e in genere gli animali non hanno tali caratteristiche, non di certo in base alla mera appartenenza alla specie umana (la nostra scelta si giustificherà una volta appurato che i due soggetti hanno proprio queste caratteristiche). Ma vi possono essere casi particolari (bambini molto piccoli o adulti cerebrolesi, ad esempio) in cui vale il contrario, perché l’essere umano in questione non possiede le capacità di un essere umano 33 “Per gli utilitaristi della preferenza, togliere la vita ad una persona sarà di solito peggio che togliere la vita ad un altro essere, perché un essere che non può vedere sé stesso come un’entità con un futuro non può neanche avere preferenze circa la propria esistenza futura. Non si vuole affermare che tale essere non possa lottare in una situazione in cui la propria vita è in pericolo, ma ciò indica solo una preferenza per la cessazione di uno stato di cose percepito come penoso e minaccioso. La lotta contro il pericolo e il dolore non suggerisce che il pesce è capace di preferire la propria esistenza futura alla non-esistenza. Il comportamento di un pesce all’amo suggerisce semmai una ragione per non uccidere i pesci con questo metodo, ma non indica una ragione, all’interno dell’utilitarismo della preferenza, contro l’uccidere i pesci con metodi più umanitari”. Ibidem, p. 86. 34 “L’inaccettabilità morale dell’inflizione di dolore a un essere non può dipendere dalla sua specie, e nemmeno l’inaccettabilità morale della sua uccisione. I fatti biologici che segnano il confine della nostra specie non hanno rilevanza morale. Privilegiare la vita di un essere solo perché membro della nostra specie ci porrebbe nella stessa posizione dei razzisti che privilegiano i membri della propria razza”. Ibidem, p. 82. “Il tipo di parità che si vuole estendere agli animali non sta nei diritti, ma nell’uguale considerazione degli interessi comparabili. Se un animale soffre, la sua sofferenza dovrebbe importare allo stesso modo della sofferenza di un essere umano (…) il dolore provato da un bambino è una brutta cosa, anche se il bambino non è più autocosciente di un maiale e non ha migliori capacità di memoria o di previsione. Dovremmo considerare simili esperienze di dolore come ugualmente indesiderabili, qualunque sia la specie dell’essere che prova dolore”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 248. 35 P. Singer, Liberazione Animale, cit., p. 34. 17 normale, o perché l’animale non umano è autocosciente (come le scimmie bonobo). Perciò non possiamo più dire che la vita degli umani debba essere sempre anteposta a quella degli altri animali36. Dal porre il discrimine circa la considerazione degli interessi in base all’autocoscienza consegue che gli esseri umani menomati devono essere posti sullo stesso gradino di considerazione dei non umani (cd.”argomento dei casi marginali”), in quanto i primi non hanno autocoscienza. La maggior parte delle persone rifiuta tale equiparazione, ma su altre basi, sempre prive di rilevanza morale: la mera appartenenza alla specie umana (gli individui vanno trattati non secondo le proprie qualità ma secondo quelle normali della specie cui appartengono) –questo argomento è sbagliato perché ogni individuo è un soggetto a sé stante, da valutare per le sue caratteristiche intrinseche, tanto che rigetteremmo tale ragionamento se fosse basato sul sesso o sulla razza- ; rapporti affettivi con gli esseri umani (che gli animali non hanno) –questo non è sempre vero, e comunque non si può basare la morale sull’affetto-; il pericolo di veder attribuire, a livello politico, status morali inferiori a categorie crescenti di persone (cd.”argomento del piano inclinato”) -non è rilevante che un governo stravolga degli obiettivi positivi, ai fini della considerazione morale degli individui, e comunque sarebbe una possibilità estremamente remota; sopratutto, non si chiedono diritti inferiori ai menomati ma diritti superiori agli altri esseri senzienti non autocoscienti37. I fautori del contrattualismo etico affermano che non abbiamo doveri verso gli animali, in quanto essi sono incapaci di averne nei nostri confronti. L’idea alla base di questo ragionamento è che la base dell’etica sia una sorta di contratto (mi astengo dal farti del male se tu ti astieni dal farmi del male) a cui gli animali non possono aderire. Ma accade lo stesso ai bambini piccoli e agli individui con importanti disabilità intellettuali: non dovremmo avere dei doveri nei loro confronti? Un altro grande problema per i teorici del contrattualismo etico si evidenzia considerando le generazioni future. Se avessimo dei doveri solo verso chi ne ha verso di noi, perché sarebbe sbagliato, ad esempio, trovare un deposito sicuro per le scorie radioattive solo per i prossimi 100 anni? Qualcuno potrebbe dire: cosa hanno fatto le future generazioni per me?38 Oppure, altri potrebbero affermare: cosa stanno facendo le popolazioni del Terzo Mondo per me –perciò, perché avere dei 36 Ibidem, p. 37. Inoltre, “chiunque troverebbe scioccante cibarsi di un bambino e non di un maiale adulto, ma non potremmo dire che la distinzione, in questo caso, si fonderebbe sul potenziale di vita che quel bambino ha; ci comporteremmo ugualmente davanti a un essere umano con disabilità intellettuali permanenti, privo di ogni potenzialità”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p.247. 37 P. Singer, Etica Pratica, cit., p. 75. 38 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 243. 18 diritti nei loro confronti-? In realtà,“basare un contratto etico (concedere cioè l’esistenza di diritti e doveri verso qualcuno) sulla reciprocità sarebbe plausibile solo in base all’autointeresse: in mancanza di un elemento universale aggiuntivo, un gruppo di persone non ha motivo di trattare eticamente un altro gruppo se ciò non è nel suo interesse. L’etica di cui disponiamo va perciò oltre la tacita intesa di esseri capaci di reciprocità”39. Visto che il discrimine dell’autocoscienza porta Singer a privilegiare, davanti a interessi comparabili, la vita di un essere consapevole di sé stesso (che per questo è chiamata “persona”) alla vita di un animale non autocosciente, è necessario chiedersi se, davvero, i non umani non sono persone. In realtà ci sono evidenti prove del contrario40, perciò non possiamo affermare che la vita umana valga di più perché siamo persone, coscienti di sé stesse; non siamo infatti gli unici41. Certo, spesso è difficile valutare se un animale non umano è cosciente, ma, così come facciamo verso gli animali umani, dovremmo concedere agli altri almeno il beneficio del dubbio (e già solo in base a tale criterio, secondo Singer, una gran parte delle uccisioni di animali non umani è da condannare). Per quanto riguarda gli altri animali, che secondo Singer sono forse coscienti ma non è possibile definire persone (si tratta, tuttavia, di una mera intuizione, non confermabile) come i pesci o i polli, il problema del se sia giusto o meno ucciderli sembra risolvibile solo in termini di utilitarismo classico. Un utilitarista si oppone alla soppressione della vita quando ciò provoca dolore (ciò, nel caso degli animali non autocoscienti, accade quando c’è un’agonia dolorosa o quando gli altri animali vicini soffrono della perdita) ma se l’uccisione non provocasse tali effetti un utilitarista non vi si potrebbe opporre; questo ragionamento viene tuttavia estremamente modulato da Singer, in quanto l’adozione di versioni diverse dell’utilitarismo può portare a conclusioni differenti42; in ogni caso, Singer 39 P. Singer, Etica Pratica, cit., p. 77. “[Ci sono] scimpanzé e gorilla che hanno imparato a parlare o che dimostrano di saper risolvere problemi complessi –che un bambino piccolo, anche in grado di parlare, non saprebbe come affrontare- che implicano la percezione di sé nello spazio e nel tempo [Singer si riferisce alle esperienze di Jane Goodall]; inoltre, l’osservazione sistematica di balene e delfini è appena cominciata, e ci sono indizi forti per intuire che questi animali hanno un livello di autopercezione molto elevato e che utilizzano un linguaggio molto complesso, a fronte di un cervello molto sviluppato; [addirittura] molte persone che vivono con cani e gatti li considerano animali razionali e autocoscienti”. Ibidem, p. 102. 41 “Alcuni animali non umani sono perciò persone, perciò è da rifiutare la teoria secondo cui la vita dei membri della nostra stessa specie ha più valore di quella dei membri di un’altra specie. Alcuni esseri appartenenti a specie diverse dalla nostra lo sono; alcuni esseri umani non lo sono. Nessuna valutazione oggettiva può attribuire alla vita di esseri umani che non sono persone maggior valore che alla vita di esseri di altre specie che lo sono”. Ibidem. 42 “Se ci si rifà alla posizione della ‘priorità dell’esistenza’ , è sbagliato uccidere tutti gli esseri la cui vita può contenere, o ha contenuto, più piacere che dolore. Questo implica che non si devono uccidere gli animali per ricavare cibo, perché essi hanno di solito avuto una vita felice prima di morire [ciò però potrebbe valere al massimo per gli animali cresciuti allo stato brado, e uccisi senza la minima sofferenza. Vedremo che questi elementi capitano molto di rado, e Singer lo ammette, eppure tiene sempre presente questa possibilità di accettare moralmente l’uccisione. Probabilmente Singer lo fa per non sembrare ‘estremista’, ma non sembra 40 19 considera che in linea di massima, tenendo conto delle circostanze più frequenti, l’uccisione di un animale non sia moralmente accettabile. Nel suo libro più recente, The Ethics of What We Eat, Singer (assieme a Jim Mason) si dedica in modo particolare alla realtà degli allevamenti intensivi. Secondo lui, il problema dell’utilizzo degli animali nell’alimentazione è stato troppo spesso messo da parte, come se i problemi per gli animali fossero altri: le azioni più eclatanti sono state concentrate su tematiche specifiche come i circhi, la vivisezione e le pellicce. Nonostante l’impatto spaventoso che tali settori impongono sulle condizioni di vita degli animali ivi utilizzati, il numero di vite sacrificate ogni anno ammonta a una percentuale insignificante del numero di esseri viventi uccisi a scopi alimentari. Se si stima che nei laboratori di vivisezione degli Stati Uniti trovino la morte ogni anno tra i 20 e i 40 milioni di soli uccelli e mammiferi, questo numero non è che il bilancio di soli due giorni di attività dei macelli americani. Ogni anno negli Usa si uccidono a scopi alimentari più di dieci miliardi di animali non umani43. In effetti, moltissime persone affermano di voler bene agli animali, di avere con loro rapporti del tutto paragonabili a quelli che normalmente si hanno con gli esseri umani, ma generalmente ciò si riferisce solo a ‘certi’ animali: cani e gatti. Altre persone inorridiscono al pensiero di un cacciatore. Alcuni genitori non portano i propri figli al circo, perché si rendono conto della crudeltà che sta dietro quegli spettacoli apparentemente piacevoli. Paradossalmente, la maggior parte delle persone rientranti in queste circostanze mangia carne, e non pensa agli animali che ‘ama’ quando affonda il proprio coltello in una bistecca una scelta felice, né coerente col suo punto di vista]. La versione ‘totale’ dell’utilitarismo invece può condurre a considerazioni di tipo diverso. Secondo questa teoria, quel che conta è l’utilità totale. Perciò, se a fronte di una uccisione di un animale (felice) ne nasce un altro che può allo stesso modo realizzare una vita felice, l’utilità totale non è diminuita. Questa teoria presuppone perciò la sostituibilità degli esseri viventi considerati. In ogni caso, tale teoria non è applicabile alla realtà odierna degli allevamenti intensivi, in quanto gli animali in essi rinchiusi sono lungi dall’essere felici. Il punto centrale è però il considerare o meno un essere vivente sostituibile. (…)Se consideriamo il caso di un individuo autocosciente, che vive e vuole continuare a farlo, l’argomento della sostituibilità non ha senso: c’è una bella differenza tra uccidere chi vuol vivere e far nascere chi non ha espresso tale desiderio. Ma nel caso di un essere non autocosciente, potremmo pensare che nell’ucciderlo non compiamo un torto verso di lui, in quanto non ha fatto progetti sulla vita che non vivrà, e la sua felicità potrà essere compensata dalla nascita di un altro suo simile. Ciò però non vuol dire che gli esseri autocoscienti non contino nulla: essi hanno interesse a massimizzare il loro benessere. Adottiamo perciò un compromesso tra le due visioni dell’utilitarismo viste. Per questo motivo, alla domanda ‘E’ sbagliato uccidere un animale?’ rispondiamo di si nel caso in cui si tratti di esseri autocoscienti, con un argomento forte. Quando si tratta invece di animali non razionali né autocoscienti, l’argomento contro la soppressione è più debole; l’unica illiceità consiste nell’interruzione di benessere, che può essere recuperata dalla nascita di un nuovo individuo. Ovviamente tali casi richiedono pesanti circostanze (una vita felice, un’uccisione indolore per sé e per altri animali, la sostituzione con la nascita di un altro essere) che quasi mai sussistono. Sebbene possano darsi situazioni in cui non è moralmente sbagliato uccidere animali, si tratta di situazioni speciali, ben lontane dal coprire i miliardi di morti premature inflitte ogni anno dagli umani ai non umani”. Ibidem, p. 109. 43 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., prefazione. 20 o succhia un’aragosta che è stata bollita viva. Questo vuol dire che il discorso della protezione degli animali è monco, perché manca di considerare proprio la fonte quantitativamente maggiore di sofferenza. In base a quale meccanismo viene operata una simile dissociazione schizofrenica? Secondo Singer, la maggior parte della gente non pensa al cibo come a qualcosa di moralmente rilevante. Probabilmente, ciò dipende dall’influenza predominante della morale cristiana, in cui gli atti di rilevanza morale sono ben altri (e spesso non hanno il medesimo peso su terzi)44, ma, soprattutto, i grandi produttori di cibo fanno di tutto per occultare la realtà –e quindi i problemi etici- sottostante ai nostri acquisti alimentari45. L’individuo medio è cresciuto in una cultura della carne46 talmente radicata che per lui è impensabile porsi, al riguardo, un dilemma etico, anche se è ovviamente consapevole del fatto che il suo pranzo è stato un essere vivente47. Se da una parte la situazione degli animali d’allevamento è peggiorata (date le innovazioni tecnologiche che hanno permesso tecniche prima impensabili e che riducono gli animali sempre più ad oggetti da stipare e sfruttare) bisogna anche evidenziare come la consapevolezza sul cibo sia aumentata48: 44 “Non pensiamo spesso a quel che mangiamo come a una questione etica. Rubare, dire bugie, fare del male è per noi moralmente rilevante; per alcuni lo è anche il coinvolgimento in attività sociali, la generosità verso persone bisognose, e specialmente la vita sessuale. Ma mangiare –attività sicuramente più essenziale del sesso, e a cui tutti partecipano- è visto generalmente in modo diverso. Provate a pensare a un politico la cui carriera è stata rovinata da rivelazioni sulle sue abitudini alimentari. (…) Non è sempre stato così. Nell’antica Grecia e a Roma l’alimentazione aveva un peso etico comparabile almeno a quello dei costumi sessuali: la temperanza e l’autocontrollo nella dieta, come in ogni altra faccenda, erano viste come delle virtù. Nella Repubblica di Platone, Socrate consiglia una dieta povera e a base di vegetali, e moderazione nel vino. Nell’etica delle tradizioni ebraica, islamica, buddista e indù le discussioni su ciò che è morale mangiare hanno un’importanza fondamentale. Invece, nell’era cristiana la rilevanza etica del cibo è drasticamente diminuita –la gola resta un peccato capitale, ma in effetti poco rilevante. J. Mason, P. Singer, The Ethics.., cit., prefazione, p. 3. 45 “Il modo in cui il cibo è venduto e pubblicizzato non aiuta. La stragrande maggioranza del cibo negli Usa è acquistato nei supermarket e i consumatori non ricevono, al loro interno, informazioni rilevanti sulle scelte etiche che circondano gli alimenti. Al contrario, l’industria alimentare spende più di undici miliardi di dollari l’anno in pubblicità per dirci solo quello che vuole farci conoscere, spesso cercando di distorcere le informazioni di rilevanza sanitaria anche attraverso pressioni illecite sui politici e in ogni caso occultando le conseguenze che le scelte alimentari provocano su “altri” (individui, ecosistema). Ibidem, p. 3. 46 Jeremy Rifkin, Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne, Mondadori, Milano. 47 “Visto che l’etica dell’alimentazione è stata una questione così trascurata nella nostra cultura, è positivo che qualcuno faccia scelte eticamente negative solo perché non si è davvero ancora concentrato su di esse, o perché non ha avuto accesso alle informazioni necessarie per fare buone scelte”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 8. 48 “La consapevolezza delle dinamiche che stanno dietro a ciò che mangiamo è cresciuta sempre più negli ultimi trent’anni: molte persone negli Usa hanno smesso di mangiare carne di vitello, dopo aver visto le immagini della detenzione disumana di questi cuccioli, e il consumo di questo tipo di carne è calato di tre quarti rispetto al 1975; i consumatori inoltre cercano sempre più prodotti biologici, per ragioni che vanno dalla tutela dell’ambiente alla volontà di evitare pesticidi nel piatto e alla ricerca di sapori più genuini”. Ibidem. 21 1) oggi gli alimenti biologici possono essere trovati facilmente nei supermercati e costituiscono il settore con la crescita più elevata di tutto il comparto alimentare49; 2) un sondaggio del 2003 mostra che negli Usa almeno il 3% della popolazione è vegetariana50, mentre i vegani costituiscono una buona parte di questi e sono ormai diffusi quanto lo erano i vegetariani trent’anni fa. In tutto il mondo occidentale sta espandendosi un movimento che si batte per un consumo alimentare etico (e che sembra sempre più influente: nel 2005 due importanti catene di supermarket naturali degli Usa, Whole Foods Market e Wild Oats, annunciarono che non avrebbero più venduto nei propri negozi uova provenienti da galline allevate in batteria, e che questo era il risultato delle richieste dei consumatori51) . L’idea di Mason e Singer è stata quella di tracciare gli alimenti acquistati dalle 3 famiglie esaminate nel libro (ognuna delle quali applica ai suoi acquisti un diverso valore etico) per ricavare informazioni circa il tipo di processo produttivo che le ha originate. Purtroppo, i tentativi di contattare le aziende coinvolte non hanno avuto buoni risultati52: esse non intendono far sapere come producono i loro “prodotti” animali –nonostante tutti possano acquistarli- ; in particolare, l’accesso ai fotografi è un’eresia53, tranne rarissime eccezioni. I motivi non sono difficili da immaginare: secondo Peter Cheeke, docente di zootecnia, “nella moderna agricoltura animale, meno il consumatore sa su quello che succede prima che la carne sia nel piatto, meglio è. Una delle migliori risultati che la moderna agricoltura animale ha ottenuto a questo proposito è che la maggior parte delle persone dei paesi 49 Per gli Usa, Nanette Hanson, “Organic Food Sales See Healthy Growth”, MSNBC News, 3/12/2004, http://msnbc..msn.com/id/6638417 ; Per l’Europa, “Ikea Embraces Organic Ingredients”, Food Navigator, 7/7/2005, http://www.foodnavigator.com/news/news-ng.asp?n=61239-ikea-embraces-organic . 50 Vegetarian Resource Group, “How Many Vegetarians Are There?”, Vegetarian Journal, 2003, no.3, http://www.vrg.org/journal/vj2003issues3poll.htm . 51 Humane Society of the United States, “Wild Oats and Whole Foods Show Compassion with Cage-Free Egg Policies”, http://www.hsus.org/farm_animals/farm_animals_news/wild_oats.html . 52 “(…) abbiamo contattato 87 aziende, affinché potessero dire la loro, ma solo 14 hanno risposto, per lo più piccole aziende biologiche. Siamo stati delusi, ma non sorpresi: fino agli anni 70 le aziende erano orgogliose di mostrare al pubblico le proprie pratiche, ora non più. Le aziende di allevamento non consentono, di fatto, ai consumatori di vedere con i propri occhi le condizioni in cui vivono gli animali che diventeranno il loro cibo. I giornalisti che hanno cercato di indagare nella produzione del cibo si sono visti sbattere le porte in faccia ogni volta”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 8 53 “Quando Moark, che aspira ad essere il primo produttore di uova della nazione, annunciò il progetto di costruire un impianto di produzione di uova da 2.6 milioni di galline a Cherokee County, in Arkansas, i residenti locali protestarono. Roger McKinney, un giornalista del giornale locale The Joplin Globe, contattò la compagnia chiedendo di vedere uno degli impianti esistenti: a McKinney fu garantito il permesso ma non fu autorizzato a portare con sé un fotografo. Secondo McKinney, un portavoce della compagnia gli disse che “la compagnia non autorizza i fotografi all’interno degli stabilimenti perché molte persone non capirebbero perché le galline sono in gabbia”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 10. “E’ accaduta la stessa cosa ad una troupe televisiva che ha cercato di entrare negli impianti di allevamento di maiali dei produttori più grandi del paese, Cargill Pork e Premium Standard Farms. (…)Un dirigente di una rivista del settore afferma: “Non posso dirvi quante volte sono stato in stanze in cui qualcuno diceva ‘Bé, il nostro obiettivo è solo stare zitti, spostarci fuori dall’occhio del pubblico il più velocemente possibile’”. Intervista a Kevin Murphy, 17/2/2005, e successiva e-mail; ibidem, p. 11. 22 sviluppati si sono allontanate molte generazioni fa dagli allevamenti e non hanno idea di come gli animali siano cresciuti e trattati”. Inoltre, “se i mangiatori di carne urbani osservassero come si svolgono tali processi, non sarebbero impressionati. La maggior parte di loro smetterebbe semplicemente di mangiare ogni tipo di carne”54. Un altro professore concorda sul fatto che “c’è un gap tra la realtà della produzione animale e la percezione della produzione animale nel pubblico americano estraneo agli allevamenti” e non crede che questo gap verrà mai colmato: “non vedrete un impianto di confezionamento di carne bovina trasparente. Non possono. Sarebbe troppo scioccante per la persona media”55. Per fortuna non abbiamo bisogno di nuove foto per immaginare le condizioni in cui sono crescono gli animali sfruttati a scopi alimentari: sappiamo già da tempo che l’allevamento intensivo infligge prolungate sofferenze alle scrofe che passano la maggior parte della loro vita in gabbie troppo strette per permettere agli animali di girarsi; alle galline in batteria, che arrivano a compiere atti di cannibalismo tanto è lo stress che devono subire; ai polli e ai tacchini da carne, costretti a crescere con un corpo mostruoso in luoghi troppo affollati e macellati in condizioni inimmaginabili; alle mucche, ingravidate di continuo e costrette a separarsi subito dal loro cucciolo, tenute in vita fino a quando la loro dolorosa produzione quotidiana di latte, immancabilmente accompagnata da mastiti, non scende. Pertanto, secondo Singer, “acquistare prodotti provenienti da allevamenti intensivi non ci sembra la cosa giusta da fare”56. Molti non vegetariani la pensano allo stesso modo e giustificano invece l’allevamento “umano” – respingendo la necessità morale del veganismo- 57, in base a diversi argomenti. In primo luogo, essi affermano che, in un contesto simile, gli animali realizzano tutte le loro necessità etologiche , sono “felici” e in molti casi la loro morte non è preceduta da terrore e angoscia; soprattutto, l’allevamento all’aperto si giustifica in quanto l’addomesticamento è stato il prodotto di un mutualismo interspecie, in cui alcune specie 54 Peter Cheeke, Contemporary Issues in Animal Agriculture, Pearson, Upper Saddle River, NJ, no.3/2004, p. 332. 55 Christy Pitney, “Gotta Believe: Food Fuels Emotion-Based Ideologies”, Food Systems Insider, 1/3/2005, http://www.vancepublishing.com/FSI/articles/0503/0503believe.htm . 56 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 241. 57 Tra questi, compaiono l’autore di un famoso manuale inglese di cucina a base di carne (Hugh FearnleyWhittingstall,, The River Cottage Meat Book, Hodder and Stoughton, London, 2004, p. 24), critici del vegetarismo (Michael Pollan, “An Animal’s Place”, The New York Times Sunday Magazine, 10/11/2002; The Omnivore’s Dilemma: A Natural History of Four Meals, Penguin, New York, 2006), difensori della caccia alla volpe (Roger Scruton, Animal Rights and Wrongs, Claridge Press, 2003), esponenti della Destra Cristiana Americana (Matthew Scully, “Fear Factories: The Case for Compassionate Conservativism -for Animals”, The American Conservative, 23/05/2005; Dominion: The Power of Man, the Suffering of Animals, and the Call to Mercy, St Martin’s Press, New York, 2003), Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger, God and the World: Believing and Living in Our Time. A Conversation with Peter Seewald, San Francisco, St. Ignatius Press, 2002, p. 78). 23 hanno scoperto, nel corso dell’evoluzione, di avere un vantaggio nello stare accanto all’uomo. Singer respinge del tutto tale argomento: • “Non c’è errore più grande, in realtà, dell’attribuire idee, scoperte o motivazioni ad una specie o a dei geni, del tutto incapaci di avere degli obiettivi. Le specie non scoprono nulla, in nessun modo. Sono i singoli individui di una specie che fanno delle esperienze (…) Non ha senso affermare che, visto che ci sono oggi solo 10.000 lupi in Nord America, ma 50 milioni di cani, dal punto di vita degli animali l’accordo –l’addomesticamento- con l’umanità è stato un grande successo: se le specie non sono capaci di scoprire nulla, non sono neanche capaci di accordarsi; si può discutere sul fatto che singoli animali possano accordarsi con altri, ma di certo non si voleva dire che ogni animale si accorda con l’allevatore cedendo il suo latte, le sue uova, i suoi piccoli e persino il proprio cadavere in cambio di un paio d’anni di protezione dai predatori. Parlare di un accordo interspecie di tale natura non può giustificare niente di ciò che facciamo oggi agli animali: sia perché un accordo di questo tipo non può esistere, sia perché, anche se potesse esistere, non avrebbe le implicazioni morali di un consenso dato individualmente”58. Argomenti di questo tipo ripropongono essenzialmente un vecchio ragionamento: ”Il maiale ha un interesse elevatissimo a che la domanda di pancetta resti elevata: se tutti fossimo ebrei, non esisterebbero maiali”59. Già a suo tempo Henry Salt, uno dei primi sostenitori dei diritti animali, evidenziò il difetto di tale tesi: una persona che esiste già può pensare che sia meglio per lui vivere che non vivere, ma per far questo deve esistere; non potrebbe esprimere questa preferenza dall’abisso della non esistenza, perché sarebbe un controsenso60”. • Se anche fosse possibile uccidere un animale non umano in modo indolore, ucciderlo comporterebbe togliergli anni di vita in cui avrebbe potuto fare esperienze piacevoli, come avere rapporti sessuali e far nascere cuccioli da accudire. Dopotutto, noi umani siamo pronti a fare qualunque cosa pur di vivere qualche anno in più, anche a morire di una morte lenta e sofferente. Roger Scruton, strenuo difensore dell’alimentazione carnea, contrattacca affermando che mentre gli umani hanno aspettative per il futuro, speranze, progetti, gli animali non umani 58 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 250. Leslie Stephen, Social Rights and Duties, 1896. 60 Henry Salt, “The Logic of the Larder”, pubblicato originariamente in Henry Salt, The Humanities of Diet, The Vegetarian Society, Manchester, 1914; ristampato in Tom Regan, Peter Singer, Animal Rights and Human Obligations, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1976, p. 186. 59 24 non pensano a nulla di tutto ciò61. Il suo argomento però, come sappiamo, implica che sarebbe permesso uccidere, su tale base, gli umani che, a causa di profonde disabilità intellettive, non sono coscienti delle loro vite e non possono fare progetti per il futuro. Chiunque trovasse questa conclusione troppo scioccante da accettare non può difendere l’uccisione di animali a scopi alimentari sul terreno delle capacità mentali62. • Anche se fosse eticamente accettabile cibarsi di animali che hanno condotto una vita “felice” e che sono stati uccisi senza sofferenza, ciò non è assolutamente facile da appurare. In alcuni allevamenti “felici”, i conigli restano in gabbia e le galline in spazi molto affollati. Non si usano sistemi diversi da quelli dell’allevamento intensivo; l’unica differenza è la terra al posto del pavimento63. Inoltre, negli USA, lo U.S. Federal Meat Inspection Act non permette ai piccoli allevatori di macellare in proprio animali diversi da conigli e polli, per cui maiali e mucche subiscono il tremendo trattamento dei macelli e del trasporto verso di essi, momenti incredibilmente angosciosi e carichi di ogni tipo di sofferenza, esattamente come gli animali provenienti dagli allevamenti intensivi. Per quanto riguarda gli altri animali, vari resoconti della macellazione in proprio non sono assolutamente rassicuranti, dal punto di vista del dolore e dell’angoscia “non necessaria”64. In realtà, fin quando gli allevatori saranno in competizione per il mercato e considereranno gli animali come meri beni economici, ci saranno conflitti inevitabili tra gli interessi degli animali e l’interesse economico dell’allevatore, che sarà sempre sotto pressione per tagliare i costi65. L’allevamento “umano” non è una scelta moralmente soddisfacente anche da altri punti di vista. Considerando l’aspetto psicologico, la linea che divide ciò che gli “onnivori coscienziosi” ammettono e quello che non ammettono è molto vaga, perciò può essere oltrepassata senza eccessivi sensi di colpa. Sopratutto, l’impatto sugli altri è molto diverso: vegani e vegetariani hanno un impatto forte sugli altri perché, tracciando una linea netta tra ciò che mangiano e ciò che non mangiano, mandano un chiaro messaggio a chi sta loro 61 Roger Scruton, “The Conscientious Carnivore” in Steve Sapontzis, ed., Food For Thought: The Debate Over Eating Meat, Prometheus, Amherst, NY, 2004, p.88. 62 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 253. 63 Joel Salatin, “Family Friendly Farming”, AcresUSA, 6/2000, “http://www.acresusa.com/toolbox/reprints/familyfriendly_jun00.pdf ; Anne Fanatico, “Sustainable Poultry: Production Overview”, ATTRA –National Sustainable Agriculture Information Service, 3/2002, http://attra.ncat.org/attra-pub/poultryoverview.html ; Herman Beck-Chenoweth, “Free Range, Pastured Poultry, Chicken Tractor-What’s the difference?”, http://www.free-rangepoultry.com/compare.htm . 64 La cronaca è narrata da George Devault, “Chicken Day’ at the Farm of Many Faces”, The New Farm, 8/2002, http://www.newfarm.org/features/0802/chicken%20day/print.html . 65 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 257. 25 intorno. Chi ammette l’uso di “animali felici” invece non traccia alcuna linea chiara: nel piatto, il prosciutto proveniente da un animale “felice” è molto simile al prosciutto proveniente da un maiale cresciuto in un allevamento intensivo. Le abitudini alimentari di questo tipo di onnivori, di fatto, rafforzano l’altrui percezione che gli animali siano beni economici da usare a proprio piacimento66 e realizzano, pertanto, una singolare eterogenesi dei fini. Alcuni “carnivori coscienziosi” difendono la pratica della caccia qualificandola come la modalità meno cruenta per ottenere alimenti animali: “la carne fornitaci dalla caccia, attraverso un colpo ben mirato, è quella che dovrebbe dare meno problemi etici”67. In effetti, gli animali cacciati vengono uccisi all’istante, senza passare per i tormenti dell’allevamento e della macellazione. Tuttavia, in pochi casi è possibile tale riscontro68. Inoltre, la caccia non appare giustificabile nemmeno nei casi in cui gli animali che si vogliono catturare stanno distruggendo l’equilibrio del loro territorio, come è accaduto per i conigli introdotti nell’Ottocento in Australia o gli opossum introdotti in Nuova Zelanda. Infatti, per limitare i danni provocati da specie estranee all’habitat originario, la sterilizzazione sembra un’alternativa sicuramente preferibile e praticabile69. Anche per quanto riguarda la caccia, Singer riscontra un ragionamento schizofrenico presso la maggior parte delle persone: infatti, nonostante, in linea di massima, la caccia provochi meno sofferenza agli animali e ne uccida sicuramente di meno, in tutti i paesi occidentali, il numero delle persone contrarie alla caccia è di molto superiore ai vegetariani. Singer conclude questa rassegna di difese inconsistenti dell’allevamento “umano” con la logica asserzione per cui diventare vegani è l’unico modo per non sostenere gli abusi perpetrati sugli animali d’allevamento (se ne rende conto, ma, per il motivo non condivisibile secondo cui a molte persone può apparire troppo difficile l’accettazione di un simile stile di vita70, continua a non escludere dall’accettabilità morale la presenza di allevamenti “felici”). I vegani sono dimostrazioni viventi del fatto che non abbiamo 66 Ibidem, p. 258. H. Fearnley-Whittingstall, The River Cottage Meat Book, cit., p. 153. 68 “Molti animali selvatici, come i cinghiali, vengono allevati come i bovini e poi messi in libertà per poi essere uccisi da cacciatori che pagano laute ricompense per esercitare tale “sport”. Inoltre, moltissimi animali non muoiono subito dopo essere stati colpiti: molti attendono ore o addirittura giorni, provando indicibili sofferenze, prima che la morte sopraggiunga. Ciò avviene molto di frequente”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…., cit., p. 260. 69 Ibidem. 70 Si tratta di una motivazione criticabile in base agli stessi argomenti utilizzati da Singer. Quando il filosofo afferma che, in base al principio di eguale considerazione degli interessi comparabili, non si può giustificare moralmente la prevalenza di un interesse inferiore –la mancanza di tempo, la scomodità- di un essere autocosciente sull’interesse superiore –alla vita e alla mancanza di sofferenza- di un animale non umano, auto-sconfessa proprio questa sua reiterata riserva. 67 26 bisogno di sfruttare gli animali per stare in salute, anzi. La dieta vegana è poi anche compatibile con le necessità dell’ecosistema, anzi è la migliore dal punto di vista dell’impatto ambientale, come si vedrà nel prossimo capitolo. Per di più, ci sono così tanti sostituti dei prodotti animali che diventare vegani non è mai stato così semplice71. Singer evidenzia, alla fine del suo volume, la presenza dell’ennesimo problema etico derivante dall’onnivorismo umano. Una proporzione rilevante degli onnivori americani, circa 1/3, è obesa, mentre 2/3 degli onnivori americani sono in sovrappeso (l’americano medio oggi ingurgita il 50% in più di prodotti animali rispetto al suo predecessore degli anni 50, e già allora l’americano medio era tutt’altro che sottoalimentato). Queste persone sviluppano una serie di malattie i cui costi vengono raramente sostenuti dal singolo individuo72, potendosi esprimere sia in una maggiorazione delle tasse che in premi assicurativi più elevati per un certo gruppo di soggetti. E’ stato infatti riportato che le persone sovrappeso con un’assicurazione privata spendono in media 1200 dollari in più rispetto alle persone normopeso73. Lo U.S. Centers for Disease Control afferma che i costi sanitari annuali attribuibili a sovrappeso e obesità aumentano di una cifra compresa tra 20 e 28 miliardi di dollari i premi assicurativi privati e di una cifra compresa tra 25 e 38 miliardi di dollari le tasse74; ogni americano perciò paga, a causa di scelte alimentari sbagliate proprie e/o di altri, 300 dollari in più in tasse. Da questo punto di vista è evidente che la scelta di una dieta non salutare non sia una questione meramente personale, in quanto produce delle esternalità negative rilevanti. Tra gli obesi ci sono sicuramente persone non golose, sofferenti di disordini alimentari o problemi metabolici difficili da controllare, ma la maggior parte di loro, semplicemente, mangia troppo, e questo, date le conseguenze che ricadono su soggetti terzi, non è moralmente accettabile: “accanto alla datata virtù della frugalità, l’idea che essere golosi è moralmente sbagliato necessita urgentemente di tornare di moda”75. L’allevamento di animali provoca un impatto ambientale che non è comparabile a quello di nessun’altra attività umana. Singer fa notare come “quando acquistiamo cibo, prendiamo parte a un’immensa industria globale. Gli americani spendono più di mille miliardi di dollari in alimenti ogni anno, più del doppio di quanto spendono in automobili o di quanto 71 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 280. Negli USA l’esternalità negativa si riflette in primis sul premio assicurativo pagato dal soggetto e dagli altri, nonché sull’intera collettività; in Europa, sulla sola collettività, essendoci un regime di sanità pubblica. 73 Kenneth E. Thorpe et al., “The Rising Prevalence of Treated Disease: Effects on Private Health Insurance Spending”, Health Affairs, vol.10, 27/6/2005, http://content.healthaffairs.org/cgi/content/abstract/hlthaff.w5.317 . 74 U.S Department of Health and Humane Services, Center for Disease Control, “Overweight and Obesity: Economic Consequences”, 2005, http://www.cdc.gov/nccdphp/dnpa/obesity/economic_consequences.htm . 75 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 281. 72 27 il governo spende per la difesa. Siamo tutti consumatori di cibo, e in qualche modo siamo tutti affetti dai problemi derivanti dall’inquinamento prodotto dall’industria dell’allevamento la quale, oltre a imporre i suoi effetti nefasti su sei miliardi di animali umani, “coinvolge” direttamente –e in ogni aspetto dell’esistenza, ridotta a un mero simulacro di vita- più di cinquanta miliardi di animali non umani l’anno76. Ulteriori miliardi di pesci e altri animali marini sono tirati fuori dal mare e uccisi affinché gli umani possano cibarsene. Mediante ormoni e sostanze chimiche diffuse nei fiumi e nei mari e attraverso lo sviluppo e la diffusione di malattie come l’influenza aviaria, l’agricolturaallevamento affligge indirettamente tutti gli esseri viventi. Tutto ciò accade a causa delle nostre scelte su quello che mangiamo. Ne possiamo fare di migliori”77. 76 77 Secondo i dati del 2003 della FAO, http://faostat.fao.org/faostat/collections?subset=agriculture . J. Mason, P. Singer, The Ethics…., cit., p. 284. 28 Tom Regan La filosofia animalista ha compiuto dei passi in avanti anche in altre direzioni. Mentre la teoria di Singer, pur se affinata nel corso degli anni, è rimasta ancorata ad una prospettiva utilitarista, Tom Regan ha proposto nel 1990 un approccio radicalmente differente incentrato sulla nozione di diritti animali (rifiutata ancora oggi da Singer e molti altri). Un mutamento d’approccio così radicale si spiega in base al fallimento della politica dei piccoli passi promossa da Singer: gli animali allevati a scopi alimentari e quelli utilizzati nella ricerca scientifica, per considerare i due casi più evidenti di sfruttamento, non versano in condizioni migliori rispetto a trent’anni fa, anzi le innovazioni tecnologiche consentono oggi ad allevatori e vivisettori di innalzare drasticamente il livello delle sofferenze patite. Quelli che vengono considerati da alcuni come “importanti innovazioni a difesa degli animali” sembrano più dei palliativi, in grado di far dormire sonni più tranquilli ad alcuni consumatori, che reali miglioramenti dalle condizioni degli animali. Il fatto che una gallina abbia 10 centimetri di spazio in più in comune con altre 5 galline non modifica in modo significativo le sue pessime condizioni di vita, il suo essere considerata “usa-e-getta” e soprattutto il suo orrendo destino. Tom Regan è un filosofo che ha affrontato con rigore e in modo innovativo il problema del fondamento filosofico dei nostri rapporti con gli animali non umani, introducendo l’idea dei diritti animali in quanto obblighi morali fondati sul principio del rispetto78. Regan è molto critico nei confronti dell’approccio utilitarista, sia da un punto di vista filosofico (ne prova l’incoerenza logica) che da quello dell’influenza sui cambiamenti sociali riguardanti gli animali. Ciò che Regan sottolinea più frequentemente è che l’utilitarismo non è cambiato molto nelle sue varie versioni; anche quello di Singer (utilitarismo della preferenza) potrebbe consentire avvenimenti che qualunque animalista (ma anche tutti coloro che si battono solo per una maggiore affermazione della giustizia presso gli esseri umani) rifiuterebbe a priori. Perciò, l’utilitarismo è una prospettiva che non aiuta l’affermazione del movimento di liberazione animale, a dispetto dei propositi di Singer. 78 Regan non è stato il primo a trattare di diritti animali; i primi tentativi di impostare una riflessione animalista sulla condizione animale in termini di diritti –da una prospettiva cristiana- furono di Andrew Linzey e Stephen Clark. Sabrina Tonutti, Diritti animali: storia e antropologia di un movimento, Forum, Udine, 2007, p. 110. 29 Regan parte da lontano per fondare le premesse alla sua teoria. In primo luogo, utilizza la teoria evoluzionistica per motivare la convinzione secondo cui la coscienza, fra le altre, non è una caratteristica riservata all’essere umano: ”Se presupponiamo, come fa Cartesio, che gli esseri umani sono coscienti, risulterebbe davvero sorprendente che la sola specie i cui membri sarebbero dotati di tale attributo fosse quella dell’homo sapiens. Darwin, per cominciare, è assolutamente categorico quando nega che gli esseri umani sotto questo profilo posseggano uno status privilegiato79. All’interno della teoria evolutiva, questa somiglianza tra la vita mentale degli uomini e quella degli animali superiori poggia su un gran numero di considerazioni strettamente collegate tra loro” [la pari complessità anatomica e fisiologica, le somiglianze che intercorrono tra gli uni e gli altri; la concezione per cui sia gli umani che alcuni animali si sono evoluti a partire da forme di vita più semplici, ancorché non necessariamente e non sempre dalle medesime]80. Regan si concentra sulla coscienza (intesa come un’articolata vita mentale) in quanto elemento giudicato fondamentale per la sopravvivenza e quindi per l’evoluzione. Visto che ce l’hanno gli umani, non c’è motivo per pensare che gli animali, o molti di essi, se siano privi81. Naturalmente, umani e animali avranno probabilmente stadi diversi di vita mentale, ma questo basta a sottolineare l’esistenza di un fondamentale elemento comune dalla medesima rilevante utilità82. Regan argomenta l’idea per cui gli animali hanno una vita mentale in base al cosiddetto “argomento cumulativo”, secondo cui: 79 “L’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina. Più umile, io credo sia più giusto considerarlo discendete degli animali. (…) Non v’è una differenza fondamentale tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori”. Charles Darwin, L’origine dell’uomo, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 35, 95 e 166. “La teoria di Darwin mina i valori tradizionali. In particolare, essa mina l’idea che la vita umana abbia un valore speciale ed unico”. James Rachels, Creati dagli animali. implicazioni morali del darwinismo, Edizioni Di Comunità, Milano, 1996, p. 5-8. 80 Tom Regan, I diritti animali, Garzanti, 1990, pp. 44-45. 81 “Ai nostri fini, il punto cruciale è costituito dal valore della coscienza ai fini della sopravvivenza. Se la coscienza non avesse tale valore, gli esseri consapevoli non sarebbero evoluti, anzi non sarebbero sopravissuti. Ma l’esistenza della specie umana mostra che di esseri coscienti ce ne sono. (…) Così, tenuto conto della teoria evolutiva, nonché della dimostrazione, fornitaci dall’esperienza umana, del valore della coscienza per la sopravvivenza, c’è da aspettarsi che la coscienza sia presente in molte specie, non solo in quella umana. Uno studioso di fisiologia animale, Donald R. Griffin, enuncia questa idea in modo particolarmente efficace: “Solo che vi si rifletta sopra, il fatto che una coscienza consapevole possa avere un grande valore adattativo (…) diventa così quasi un’ovvietà. Quanto più un animale comprende il proprio ambiente fisico, biologico e sociale, tanto meglio può finalizzare la propria condotta al conseguimento di tutti quegli obiettivi che sono importanti per la sua vita, ivi compresi quelli che contribuiscono al suo comportamento evolutivo. L’assunto fondamentale dell’ecologia e della sociobiologia comportamentale contemporanea (…) è che il comportamento viene plasmato dalla selezione naturale (…). Da questo plausibile assunto deriva che le esperienze degli animali, nella misura in cui sono significativamente intercollegate con il loro comportamento, non possono non risentire anch’esse del’influsso della selezione naturale. Nella misura in cui arrecano agli animali un vantaggio adattativo, esse verranno rinforzate dalla selezione naturale”. D. R. Griffin, The Question of Animal Awareness: Evolutionary Continuity of Mental Experience, The Rockefeller University Press, New York, 1976, p. 85. Ibidem. 82 “Argomentare che gli animali hanno una vita mentale di per sé non significa stabilire la complessità relativa di tale vita mentale. Attribuire una coscienza consapevole agli animali sulla base della teoria evolutiva significa dotarsi di un fondamento teorico per operare quell’attribuzione indipendentemente alla 30 • L’attribuzione della coscienza a certi animali fa parte della visione del mondo propria del senso comune; i tentativi di screditare questa credenza (come quello di Cartesio) si sono rivelati privi di adeguata giustificazione. • L’attribuzione della coscienza a certi animali è in armonia con il linguaggio corrente; i tentativi di modificarlo o di rimpiazzarlo con un altro si sono rivelati privi di adeguata giustificazione. • L’attribuzione della coscienza agli animali non implica né presuppone che gli animali abbiano un’anima immortale; è quindi possibile affermarla e difenderla indipendentemente dalle convinzioni che abbiamo riguardo alla sopravvivenza dell’anima. • Il comportamento degli animali concorda con la concezione che attribuisce loro la coscienza. • Una concezione evoluzionistica della coscienza ci dà un fondamento teorico per attribuire la coscienza anche ad animali diversi dagli esseri umani83. In base all’argomento cumulativo è ragionevolmente possibile argomentare che gli animali hanno una vita mentale, al pari (seppure, presumibilmente, in gradi diversi) degli esseri umani. Sulla base di ciò, affermare il contrario sembra essere un atto che rivela profonda ignoranza nel migliore dei casi, un esercizio di specismo nel peggiore84. La conclusione del loro capacità di usare il linguaggio(…) Se, come sembra ragionevole supporre, l’abilità linguistica è una capacità cognitiva di livello superiore, una capacità che presuppone la coscienza, allora l’evoluzione confermerà la nostra concezione degli altri animali come esseri dotati sia di coscienza che di altre capacità cognitive di livello inferiore da cui sono derivate per via evolutiva quelle capacità di livello superiore necessarie per padroneggiare un linguaggio. Come mette in luce Griffin, l’applicazione del principio di parsimonia [Il p. di parsimonia esige che, per spiegare un fenomeno che intendiamo spiegare, non facciamo più assunti del necessario- T. Regan, cit., p. 52-] al processo evolutivo suffraga questa concezione: “Una volta accettata la realtà dei nostri legami evolutivi con le altre specie animali, sarebbe contrario al principio di parsimonia assumere una rigida dicotomia interpretativa che insistesse nell’affermare che le esperienze mentali esercitano un influsso sul comportamento di una specie animale, mentre non ne esercitano nessuno sul comportamento delle altre. Sarebbe assurdo negare che le esperienze mentali sono componenti importanti del comportamento umano e in generale delle vicende umane”. D. R. Griffin, cit., p. 74. Se si concede tutto ciò, allora, tenuto conto dell’orientamento di fondo della teoria evolutiva, sarebbe contrario al principio di parsimonia negare che la vita mentale degli animali giochi un ruolo analogo nel loro comportamento e nella comprensione che noi ne abbiamo”. T. Regan, cit., p. 46, B. De Mori, cit., p. 30. 83 T. Regan, cit., pp. 56-57. 84 “L’argomento cumulativo offre un insieme di ragioni atte a suffragare l’idea che la coscienza non è un attributo esclusivo degli esseri umani. A sorprenderci dovrebbe essere non il fatto che si attribuisca la coscienza a questi animali, ma il fatto che ci si rifiuti di farlo. Griffin affronta il problema con lucidità e franchezza: “Spesso la possibilità che gli animali abbiano della attività mentali viene respinta come antropomorfica (…) Credere che le esperienze mentali siano attributo esclusivo di una sola specie significa non solo disattendere il principio di parsimonia, ma anche indulgere alla presunzione. La tesi secondo cui le esperienze mentali, al pari di molte altre caratteristiche, sono largamente diffuse è più probabile della tesi opposta.” D. R. Griffin, cit., p. 104. E’ particolarmente interessante che Griffin ricorra alla parola presunzione. A impedirci di riconoscere che gli animali hanno una vita mentale, egli dice, non è una loro carenza, bensì la nostra pretesa unicità, un supposto stato privilegiato indifendibile su basi scientifiche. Con la sua argomentazione, Griffin fa scoppiare il palloncino del nostro orgoglio di specie ricordandoci che esso è espressione di una presunzione che i fatti non giustificano. In questa disputa, oltre al versante costituito 31 ragionamento ci ha condotti, quindi, a riconoscere il primo elemento comune tra umani e altri animali. Se gli animali hanno una vita mentale, c’è da chiedersi se e quanto questa sia somigliante a quella umana. Occorre perciò soffermarsi sulle possibili somiglianze tra le nostre credenze e le loro (e in particolare sui contenuti di tali credenze). A questo proposito, data l’inutilità di altri approcci85, è interessante soffermarsi sull’evidenza per cui un animale riconosce il nesso esistente tra un particolare oggetto e il desiderio che può essere soddisfatto tramite il suo utilizzo: ad esempio, un cane sa che, attraverso un osso, può soddisfare il suo naturale desiderio di rosicchiare, o di avere qualcosa tra le fauci. Il cane, quando avrà questa sensazione, andrà alla ricerca dell’osso che ha sotterrato in giardino, oppure sarà contento di trovare un nuovo osso. In altri termini, “c’è una credenza che rientra nell’insieme delle credenze che definiscono il nostro concetto di osso e circa la quale abbiamo buone ragioni per sostenere che appartenga anche a Fido (…) Tale credenza riguarda la relazione tra gli ossi e i desideri e la loro soddisfazione: il fatto che, in certe circostanze, la scelta di un osso è la scelta preferita, ossia è la scelta da fare per soddisfare certi desideri o realizzare certi propositi (…) Riconoscere questa relazione significa avere una credenza riguardante gli ossi, che, inoltre, fa parte dell’insieme di credenze che definiscono il nostro concetto (…) Ma che dire di Fido? Crede nell’esistenza di questa connessione? (…) Data la situazione, per valutarlo possiamo osservare solo il suo comportamento non verbale (…) Tutto sembra indicare che Fido, di quando in quando, desidera provare un sapore e che lo trova negli ossi (…) Osservando il comportamento di Fido, possiamo inoltre notare che cosa egli scelga come mezzo per dall’accusa di antropomorfismo, ce n’è un altro spesso trascurato: la controaccusa di sciovinismo. Chi sostiene l’accusa dice: “E’ antropomorfico attribuire agli esseri non umani caratteristiche che appartengono solo agli umani”. La controaccusa ribatte:”E’ sciovinistico non attribuire certe caratteristiche agli esseri non umani che le possiedono e persistere nella presunzione che le abbiano solo gli umani”. Lo sciovinismo umano, cioè, al pari di ogni altra forma di sciovinismo, porta a non riconoscere, o a rifiutarsi di riconoscere, che le caratteristiche ritenute più importanti o ammirevoli in se stessi o nel proprio gruppo appartengano anche ad altri individui o ai membri di gruppi diversi dal proprio. E’ ciò che avviene quando lo sciovinismo maschilista non s rende conto o nega che i maschi non sono i soli a possedere certe qualità ammirevoli (…). La conclusione a cui perveniamo è che il rifiuto di riconoscere anche ai mammiferi non umani la coscienza o una vita mentale è espressione di sciovinismo umano (…). La coscienza è una caratteristica prodotta dall’evoluzione e dotata di un dimostrabile valore adattativo; una caratteristica, quindi, che è ragionevole considerare comune ai membri di molte specie e non solo ai membri della specie homo sapiens. (…) Sono coloro che si rifiutano di riconoscere la ragionevolezza della posizione che attribuisce una vita mentale non solo all’homo sapiens ma anche a molti altri animali, a essere vittime del pregiudizio; più precisamente, essi sono vittime dello sciovinismo umano, ossia della presunzione per cui noi (umani) siamo così speciali da rappresentare i soli esseri coscienti che abitano la faccia della terra”. T. Regan, cit., pp. 60-63. 85 “Non possiamo rispondere a questa domanda osservando il suo comportamento (l’abilità con cui Fido, quando incontra un osso, lo riconosce come tale non è sufficiente a rivelarci quali siano per lui le proprietà degli ossi in virtù delle quali riconosce come tali gli ossi che riconosce ), né cercando di determinare le proprietà di quegli ossi che Fido riconosce come tali (i nostri tentativi di dire quali siano queste proprietà sembrano mettere capo soltanto a una lista di proprietà a proposito delle quali non c’è alcuna ragione per pensare che Fido sia in grado di capire o anche solo di credere che appartengano agli ossi)”. Ibidem, p. 93. 32 l’appagamento del suo desiderio: non il frigorifero, né il tosaerba del vicino, bensì un osso. In virtù di questo suo comportamento, quindi, abbiamo ragione di sostenere che Fido crede che tra gli ossi e i suoi desideri ci sia la seguente relazione: gli ossi soddisfano certi suoi desideri e vanno scelti a questo scopo(…) Abbiamo solide ragioni per sostenere, sulla base di un’osservazione del comportamento animale che tenga conto dello sfondo rappresentato dall’argomento cumulativo, che a volte Fido sceglie un osso perché crede che esso soddisferà il suo desiderio di gustare un certo sapore. Ai fini dell’obiettivo che stiamo perseguendo, di Fido ci basta sapere questo, perché, sapendolo, siamo in grado di dire qualcosa di ciò che Fido crede degli ossi: possiamo cioè, almeno in parte, specificare il contenuto del suo concetto di osso”86. Questo fatto è molto importante, in quanto si tratta di una credenza comune al concetto umano di osso (Regan la chiama credenza-preferenza, cioè un’idea collegata ad una certa preferenza): da ciò consegue che, almeno in qualche misura, Fido ha il nostro stesso concetto di tale oggetto87. Regan dimostra efficacemente l’inconsistenza di eventuali obiezioni contrarie a questa conclusione88: abbiamo, pertanto, buone ragioni per attribuire 86 Ibidem, pp. 93-96. Ibidem, p. 96. 88 Contro la tesi appena enunciata potrebbero essere avanzate diverse obiezioni concernenti, rispettivamente, i concetti, le esperienze e credenze che possiamo attribuire a Fido. In primo luogo, si potrebbe obiettare che il fatto che Fido possieda soltanto una delle credenze che definiscono il nostro concetto di osso rappresenta una base teorica insoddisfacente per attribuirgli il nostro concetto. A questo proposito occorre tuttavia distinguere tra i due sensi in cui si può affermare che un individuo “non possiede le nostre credenze in numero sufficiente”: potremmo indicare il primo come senso dell’opposizione e della negazione (le credenze possedute dal soggetto negano le nostre) e il secondo come senso della non-negazione ( il soggetto non ha tutte le nostre credenze, pertanto non le nega). Alla luce dell’argomentazione appena svolta, non possiamo negare che Fido abbia il nostro concetto a meno che, oltre alla credenza-preferenza, egli non abbia sugli ossi delle altre credenze che negano esplicitamente le nostre restanti credenze o comportano logicamente tale negazione. Ma, visto che non possiamo sapere quali siano le altre credenze di Fido sull’osso, non abbiamo alcuna ragione per negare che Fido abbia il nostro stesso concetto di osso. In secondo luogo, si potrebbe obiettare che non possiamo attribuire a Fido la credenza-preferenza sull’osso perché non possiamo sapere cosa significa, per lui, sperimentare una cosa qualsiasi. Quest’argomento potrebbe fondarsi a sua volta su tre argomenti: a) siccome Fido non ha un linguaggio, e i nostri tentativi di descrivere le sue esperienze vi fanno ricorso, noi non possiamo sapere cosa significhi per Fido sperimentare qualcosa; b) non possiamo comprendere cosa significhi per Fido avere desideri perché non possiamo calarci nel suo mondo con i suoi occhi; c) non essendo Fido un membro della mia specie non posso sapere se le sue esperienze sono analoghe alle mie, nelle stesse condizioni. Tutti e tre gli argomenti non sembrano validi: nel primo caso, arriveremmo all’assurda conclusione per cui non possiamo descrivere ciò che non è dotato di linguaggio; nel secondo caso, arriveremmo all’assurda conclusione per cui non potremmo conoscere le esperienze di chiunque; nel terzo caso, dovremmo concludere che l’appartenenza a due specie diverse implica la totale distanza delle esperienze, quando le nostre comuni osservazioni e il principio di parsimonia danno indicazioni di segno opposto –ci comportiamo come se molte esperienze del cane e del gatto fossero simili, tale idea è efficace circa la nostra interazione nei loro confronti e soprattutto questa credenza quadra con il loro comportamento osservabile. In particolare, notiamo una somiglianza tra il comportamento di Fido e il nostro, in determinate circostanze: quindi, poiché il principio di semplicità richiede di non moltiplicare i tipi di esperienza al di là del necessario, ci sono buone ragioni per presumere che queste esperienze animali siano come i loro corrispettivi umani. In terzo luogo, si potrebbe obiettare che non possiamo specificare il contenuto delle credenze di Fido, sulla base dell’osservazione del loro comportamento, in quanto Fido può avere lo stesso atteggiamento (scodinzolare, ad esempio) in seguito agli stimoli più disparati. Ma questo è vero per chiunque, in molte situazioni: in realtà, se vogliamo attribuire in modo ragionevole delle credenze particolari sulla base del 87 33 al cane la credenza-preferenza, mentre c’è un modo attendibile per verificare la correttezza di tale attribuzione. Da ciò discendono importanti conseguenze: • in primo luogo, quest’argomentazione può ovviamente venir generalizzata e consentirci di cogliere molte altre credenze del cane; • in secondo luogo, il nostro cane non potrebbe avere delle credenze se non potesse ricordare le esperienze fatte (quindi, il cane ha memoria); non sapesse riconoscerle (quindi il cane sa formarsi dei concetti generali); non elaborasse delle aspettative (quindi il cane ha delle credenze sul futuro, ha un senso del futuro); non fosse capace di agire intenzionalmente (quindi il cane agisce in funzione di un obiettivo proiettato nel futuro); non fosse, perciò, un essere autocosciente (l’azione intenzionale è possibile solo per coloro che sono autocoscienti); non avesse una vita emozionale (almeno buona parte delle emozioni non sono possibili senza credenze, inoltre la tesi che attribuisce una vita emozionale a molti animali è suffragata da molti evidenti indizi)89; • in terzo luogo, questa forma argomentativa può essere generalizzata e applicata agli altri mammiferi di almeno un anno di età90. Regan afferma che il concetto di benessere animale è del tutto simile a quello del benessere umano. Infatti, nella sua valutazione vi rientrano l’autonomia91, gli interessi92, i benefici e i comportamento individuale, occorre che del comportamento stesso abbiamo una visione olistica, non segmentata, e ciò nel caso degli animali come degli umani. Questo indica che dobbiamo considerare le aspettative retrostanti un certo comportamento. Inoltre, adottare un approccio di questo tipo consente di verificare, mediante il comportamento successivo, la nostra correttezza nell’attribuire delle credenze. Ibidem, pp. 97-109. 89 Ibidem, p. 119. 90 Visto che attribuiamo –e abbiamo motivi per farlo- le nostre caratteristiche agli animali più vicini a noi nella scala evolutiva, man mano che la distanza in termini anatomici e fisiologici aumenta abbiamo meno motivi per attribuire ad altri animali una vita mentale, perciò sorge il problema di dividere gli animali autocoscienti da quelli non autocoscienti. Considerando la teoria evoluzionistica, possiamo ammettere che esistano animali dotati di una vita mentale rudimentale, ma non è importante tracciare una precisa linea divisoria: l’importante è che abbiamo delle ragioni per considerare i mammiferi non umani come esseri coscienti, senzienti e soprattutto intenzionali, emozionali, autocoscienti, sicuramente da un certo punto in poi della loro vita, così come accade per gli esseri umani. “Perciò considero come dotati di una vita mentale gli umani con almeno un anno di vita, non affetti da ritardo mentale grave e che non abbiano subito ricadute drastiche del livello di vita mentale e i mammiferi non umani mentalmente normali di almeno un anno(…) Negare a creature del genere una vita mentale di questa complessità resta teoricamente possibile, ma per sostenere versioni così diverse degli uomini e degli animali occorrono argomenti che si facciano carico dell’onere della prova posto dall’argomento cumulativo”. Ibidem, pp. 119-124. Da questo momento in poi si intenderà per “animali” i mammiferi non umani di almeno un anno di età mentalmente normali. 91 “Lo spazio maggiore o minore concesso ad un animale per l’esercizio dell’autonomia delle preferenze influisce sul loro benessere, in termini di frustrazione in caso negativo, in termini di realizzazione delle attività desiderate e di soddisfazione relativa per esserci arrivati con i propri mezzi in caso positivo”. Ibidem, p. 170. 92 “Non solo gli animali manifestano interesse per diverse cose, ma vi sono anche molte cose che rientrano nel loro interesse: si distinguono perciò gli interessi-preferenze e l’interesse-benessere”. Ibidem. 34 danni creati dall’ambiente esterno93 (i danni possono essere diretti e deprivazioni: nel primo caso ci potrà essere del dolore fisico, mentre le seconde vanno intese come perdita di benefici), l’ambiente94, la morte (“se abbiamo riconosciuto che i danni possono assumere la forma di deprivazioni, possiamo capire come mai la morte possa essere un danno: essa infatti preclude qualsiasi opportunità di soddisfazione, a prescindere dal dolore che la accompagna. Sebbene vi siano esiti peggiori della morte, una morte prematura non è nell’interesse della vittima indipendentemente dal fatto che si renda conto o no della propria mortalità. (…) Perciò, i problemi etici concernenti, per esempio, l’uccisione di animali a scopo alimentare e il loro uso in campo scientifico non riguardano solo l’”umanità” dei modi con cui li si uccide”) 95. E’ pertanto possibile affermare che “animali e umani hanno entrambi interessi-preferenze e interessi-benessere di tipo biologico, psicologico e sociale; entrambi sono in grado di agire intenzionalmente in vista di ciò che desiderano; entrambi possono ricevere benefici e danni e, in quest’ultimo caso, o in virtù di ciò che si infligge loro o in virtù di ciò che si nega loro; entrambi hanno un’esistenza caratterizzata da piacere o dolore, soddisfazione o frustrazione; e il tono generale della loro vita è in relazione all’armoniosa soddisfazione di quelle preferenze che è loro interesse soddisfare. Certo, le fonti di soddisfazione consentite alla maggior parte degli esseri umani sono più numerose e varie di quelle consentite agli animali; nondimeno, al benessere animale si possono applicare le medesime categorie concettuali (interesse, beneficio, danno, ecc.) che colgono i tratti più generali del benessere umano”96. Se le analisi e gli argomenti suddetti sono validi, afferma Regan, abbiamo allora ragioni valide per negare che benessere animale e benessere umano siano diversi tra loro per natura. A questo punto Regan introduce la distinzione tra agenti morali (gli esseri umani mentalmente normali di almeno un anno dotati di una vita mentale “normale”, consapevoli della differenza tra bene e male e capaci di agire in un senso o nell’altro) e pazienti morali 93 “I primi rendono possibile il conseguimento da parte degli individui del tipo di vita buona che è alla portata delle loro capacità o accrescono le loro opportunità di farlo, mentre i secondi negano loro tali possibilità o le limitano (…). Visto che, come gli umani, anche i mammiferi non umani hanno interessi biologici, sociali e psicologici, essi ottengono dei benefici quando vivono in situazioni che si armonizzano con il complesso dei loro interessi, mentre subiscono dei danni quando tali benefici vengono meno”. Vivere bene non significa solo ricevere dei benefici, ma anche trarre soddisfazione dal fatto di disporne in modo equilibrato nel tempo: più in generale, vivere bene (per umani e non) significa a) perseguire e conseguire ciò che si preferisce, b)trarre soddisfazione da ciò, c) il fatto che questo sia nel proprio interesse. Ibidem. 94 “Ciò che non si conosce può arrecare danni anche se può non provocare dolore, perciò, l’inserimento di esseri umani o animali in un ambiente che ignora alcuni dei loro interessi non può essere giustificato dicendo che questi individui non sanno quello che perdono e quindi non possono star peggio per il fatto di esserne privi(…) L’ambiente, nella misura in cui nega i benefici necessari al benessere, è dannoso agli interessi, in ogni caso”. Ibidem, p. 171. 95 Ibidem, p. 172. 96 Ibidem, pp. 174-175. 35 (esseri umani di età inferiore all’anno o mentalmente ritardati e mammiferi non umani, incapaci di agire secondo le categorie morali di bene e male in quanto “privi della capacità di formulare principi morali, nonché di ispirarvisi nel deliberare quale sia, tra un numero di molteplici atti possibili, quello che sarebbe giusto o corretto compiere”97) e si chiede se sia corretto considerare i pazienti morali come soggetti di interesse morale diretto (cioè individui nei confronti dei quali si debbano avere diritti e doveri). Regan risponde positivamente sulla base di una “razionalizzazione” delle intuizioni che è possibile considerare comuni alle persone98: “Coeteris paribus, è moralmente sbagliato incidere negativamente sul benessere di un agente morale. Tutte queste credenze, insieme ad altre, implicano la proibizione di danneggiare gli agenti morali. Abbiamo visto che i danni possono essere positivi o sotto forma di deprivazioni. Stante questa comune caratteristica, è possibile formulare un principio generale che le unifica (il principio del danno) secondo cui noi abbiamo il dovere diretto prima facie (chiunque affermi il contrario deve poterlo giustificare in base ad altri principi morali validi dimostrando che questi ulteriori principi, in un certo caso, prevalgono moralmente sul diritto delle vittime a non essere danneggiate) di non danneggiare nessun individuo che in qualche modo possa essere danneggiato, cioè nessun individuo che abbia credenze e desideri, e che sia capace di agire intenzionalmente e di sperimentare benessere. (…) Tale principio, tuttavia, non può applicarsi ai soli agenti morali, perché anche i pazienti morali possono essere danneggiati analogamente agli agenti morali, e, in tal caso, affermare che abbiamo dei diritti verso i soli agenti morali significa contravvenire il principio dell’imparzialità –secondo cui bisogna trattare in modo analogo dei casi analoghi. (…) Abbiamo ragione di tenere per fermo che l’ambito di applicazione del principio del danno comprende anche gli animali e quei pazienti morali umani i quali, per gli aspetti pertinenti, sono come loro. Restringere tale ambito in modo da escluderne i pazienti morali non è possibile se non in modo arbitrario”99. Questa posizione si rafforza invocando i requisiti propri del giudizio morale ideale (distacco, coerenza, imparzialità, informazione, il basarsi su un principio morale corretto o valido): il principio del danno non è incoerente, ha il più ampio ambito di applicazione, è 97 Ibidem, p. 215. “Dalla circostanza che, di fatto, molte persone –forse la maggior parte- pensano che noi abbiamo dei doveri diretti verso i pazienti morali, non ne discende che ne abbiamo. Le nostre intuizioni preriflessive non sono necessariamente ragionevoli. Ma in questo caso, sebbene la loro ragionevolezza non sia garantita dal fatto che li abbiamo, è possibile addurre delle ragioni a sostegno delle loro pretese. Al riguardo, sottoponiamo le nostre intuizioni preriflessive alla procedura di controllo [ cap. 4] e saremo in grado di affermare che queste idee possiedono le credenziali necessarie per venir considerate credenze ponderate”. Ibidem, p. 259. 99 Ibidem, pp. 260-262; definizione p. 268. 98 36 preciso, è conforme alle nostre intuizioni ponderate100. Stante la ragionevolezza del principio del danno, chi negasse questa conclusione darebbe solo prova di arbitrarietà morale101. Prima di esporre la sua teoria dei diritti, Regan si dedica ad una rapida disamina delle teorie “a favore degli animali” che non fanno riferimento ai loro diritti (le “teorie dei doveri diretti”). In particolare, Regan considera la teoria della bontà e della crudeltà , spiegando come una teoria che faccia riferimento agli stati mentali per basare ingiunzioni morali non possa essere soddisfacente102, e soprattutto l’utilitarismo della preferenza di Peter Singer. Tale approccio sostiene che il nostro comportamento dev’essere improntato alla realizzazione delle conseguenze “migliori” (quelle che, complessivamente, “favoriscono gli interessi - i desideri o le preferenze- delle persone che ne risentono”)103. Secondo Singer, alcuni individui hanno, tra le altre, la preferenza di continuare a vivere, per cui uccidere queste persone è un torto fatto direttamente all’individuo ucciso perché è un atto contrario alla sua preferenza; il fatto che la vittima non sia più in grado di lamentare che la sua preferenza è stata calpestata è irrilevante104. Tale desiderio è perciò la condizione necessaria e sufficiente perché l’uccisione del soggetto in questione costituisca un’azione moralmente negativa direttamente nei suoi confronti. Regan fa però notare come, in questo modo, Singer non riesca a spiegare perché noi abbiamo il dovere diretto prima facie di non uccidere gli animali (nonché quei pazienti morali umani che, negli aspetti pertinenti, sono come loro) in quanto è molto dubbio che questi abbiano un’idea della loro mortalità e possano esprimere una preferenza per la vita. Quando Singer sostiene che uccidere gli animali autocoscienti (consapevoli di sé come entità distinte dalle altre, di avere un passato e un futuro) è un’azione moralmente negativa compiuta direttamente nei 100 Ibidem, pp. 262-266. Ibidem, p. 267. 102 “Per quanto riguarda la teoria della crudeltà e della bontà, chi ha questa concezione crede che noi abbiamo doveri positivi e negativi direttamente nei confronti degli animali e che questi doveri diretti possano venire adeguatamente spiegati facendo riferimento alla proibizione della crudeltà e all’ingiunzione della bontà. Questa concezione non fonda in modo soddisfacente né i doveri negativi né i doveri positivi verso gli animali (…) perché, in primo luogo, la crudeltà, in tutte le sue forme [c. sadica attiva e passiva, c. brutale attiva e passiva], implica necessariamente un riferimento allo stato mentale di un individuo –il provar piacere piuttosto che l’essere indifferenti davanti ad un atto di crudeltà- ma i sentimenti che una persona prova per ciò che fa sono logicamente distinti dalla valutazione morale di ciò che fa- è cioè possibile far del male agli animali senza essere crudeli nei loro confronti-; le sofferenze provocate ad un animale non si giustificano solo perché chi le procura non è crudele (…); in secondo luogo, anche la bontà implica un riferimento allo stato mentale dell’individuo, per cui, al pari della crudeltà, è possibile dire che la moralità di ciò che le persone fanno è logicamente distinta dai loro stati mentali e quindi non va confusa con essi; inoltre, la bontà non la si può pretendere, non è dovuta a nessuno; non coincide con la giustizia. Per questi motivi l’ingiunzione della bontà e la proibizione della crudeltà non possono fungere da principi su cui fondare i nostri doveri diretti verso gli animali”. Ibidem, pp. 270-275. 103 Ibidem, p. 284. 104 Peter Singer, Animals and the Value of Life, in T. Regan (a cura di), Matters of Life and Death, p. 238; citato in T. Regan, cit., p. 285. 101 37 loro confronti, non suffraga quest’affermazione con un’analisi dell’uccisione come torto fatto direttamente ad essi: infatti è estremamente improbabile che, sebbene gli animali autocoscienti abbiano dei desideri riguardanti il loro futuro, abbiano anche un’idea della propria mortalità, quindi “il desiderio di continuare a vivere”. Regan perciò suggerisce a Singer di modificare il proprio requisito, se intende continuare a sostenere che l’uccisione degli animali autocoscienti è un torto fatto direttamente a ciascuno di essi105. Regan tuttavia continua ad attaccare la teoria di Singer, in quanto, anche se i suoi presupposti venissero modificati, essa continuerebbe a soffrire del difetto fondamentale dell’utilitarismo, ossia l’idea secondo cui gli individui di diretto interesse morale sono meri ricettacoli di valore (e perciò sono sostituibili, in quanto la morte di uno di questi esseri potrebbe essere ricompensata da un aumento del piacere degli altri individui interessati)106. Inoltre, l’utilitarismo delle preferenze soffre di un altro problema: non può essere logicamente connesso al principio di uguaglianza così come Singer vorrebbe far credere; al contrario, uguaglianza e utilità sembrano non avere alcun punto di contatto107. Ai fini del 105 “La modifica più ragionevole è la seguente: una condizione sufficiente perché l’uccisione di A sia un torto fatto direttamente ad A è che la continuazione della sua vita sia negli interessi di A. (…) Così modificata, la posizione di Singer implicherà che uccidere gli animali autocoscienti è un torto diretto anche se essi non desiderano “continuare a vivere”. Ibidem, pp. 286-287. 106 In teoria Singer nega che gli individui autocoscienti (al contrario di quelli solo senzienti) siano sostituibili, in quanto hanno delle preferenze sul futuro che gli esseri solo senzienti non possono avere, ma in realtà, non potendosi allontanare dall’utilitarismo, non riesce a negare che essi siano meri ricettacoli di preferenze. Infatti: “un’azione contraria alle preferenze di un altro individuo, a meno che non si tratti di una preferenza sopravanzata da più forti preferenze contrarie, coeteris paribus, è moralmente sbagliata”; se le preferenze contrarie (il saldo aggregativo di piacere e dolore di tutti coloro che risentono dell’esito dell’azione) richiedono l’uccisione di quest’individuo autocosciente, l’utilitarismo della preferenza lo consentirà. Data la semplicità con cui questa teoria accetta l’uccisione, essa non è moralmente accettabile. Ibidem, pp. 287-291. 107 L’utilitarismo è stato spesso accusato, in base al calcolo aggregativo dell’utilità, di essere compatibile con una drammatica situazione di ineguaglianza; in base a ciò, Bentham ha coniato la famosa frase “Ciascuno deve contare per uno e nessuno per più di uno” in quanto requisito predistributivo dell’uguaglianza, necessario supporto delle teorie utilitariste. Tale principio di eguaglianza può essere considerato un principio morale fondamentale o in quanto non derivabile da altri oppure data la sua importanza morale. Singer fa spesso capire di accettare la prima idea, addirittura affermando che l’utilitarismo presuppone tale principio, ma ciò sarebbe inaccettabile per qualunque utilitarista (secondo cui “l’utilità è il solo fondamento morale della moralità”. Peter Singer, Utilitarianism and Vegetarism, p. 329) perché, se così fosse, l’utilitarismo sarebbe incoerente; nel secondo caso, derivare il principio di uguaglianza da quello di utilità potrebbe provocare uno stravolgimento del significato dell’uguaglianza, in quanto, per esempio, gli interessi di altri potrebbero risentire in modo diverso dei medesimi interessi di due soggetti in momenti diversi. In entrambi i casi, il principio di uguaglianza non può trovare posto all’interno dell’utilitarismo, se si sostiene, come fa Singer, che è un principio morale. (…) Neanche si può cercare di risolvere questo problema considerando l’uguaglianza come un principio morale formale, e non sostantivo (…). Si può cercare di considerarlo un principio formale condizionale, un principio cioè che diventa operativo solo in presenza di certe condizioni, per esempio “il naturale desiderio che i miei interessi siano rispettati” (Peter Singer, Etica Pratica, cit., p. 23). In questo modo il principio di uguaglianza verrebbe così formulato: se voglio che gli altri tengano conto dei miei interessi e li valutino equamente e se intendo assumere il punto di vista morale, allora mi impegno a tener conto degli interessi di tutti gi individui coinvolti e a valutare in egual misura gli interessi uguali. All’interno di questo ragionamento, qual è il posto del principio di utilità? Si potrebbe dire che l’accettazione dell’uguaglianza condizionale è coerente con l’utilitarismo, ma allora non ci sarebbero ragioni forti per adottare proprio l’utilitarismo e non altre teorie. Si potrebbe dire che l’accettazione del principio di uguaglianza condizionale approda logicamente al principio di utilità, o in via esclusiva oppure lasciando 38 discorso di Regan, tuttavia, il motivo più importante per cui la teoria di Singer è da rigettare come fondamento di una “morale animalista” è da riscontrare, secondo il filosofo, nella mancanza di un adeguato fondamento utilitaristico dell’obbligo di essere vegetariani. Singer spiega chiaramente di non voler adottare la nozione di “diritti”, in quanto parte da una posizione utilitarista e utilizza un argomento basato sul principio di eguaglianza, ma questi suoi argomenti non sono assolutamente fondati su tali premesse: in primo luogo, l’utilitarismo gli impone dei vincoli che non rispetta108; in secondo luogo, Regan ribadisce l’estraneità del principio di eguaglianza all’ottica utilitarista, a dispetto dei tentativi in senso contrario di Singer109; in terzo luogo, viene fatto notare il paradossale argomento aperta la possibilità di accettare altri principi morali. Quando Singer afferma che “la posizione utilitaristica è minimale, un primo gradino…Se vogliamo pensare eticamente, non possiamo non fare questo passo” (P. Singer, Etica Pratica, cit., p. 24) sembra accettare la seconda opzione, ma, se è così, si è ben lontani dall’utilitarismo, in quanto teoria secondo cui l’utilità è il solo fondamento morale della moralità; approdiamo semplicemente a un principio consequenzialistico (se partiamo dai nostri interessi individuali e assumiamo un punto di vista morale non possiamo non accettare il principio dell’uguaglianza condizionale e questo, a sua volta, non può che portarci all’accettazione dell’utilità almeno come principio morale sostantivo minimale). L’argomento, inoltre, non dimostra perché dobbiamo cominciare la nostra riflessione morale proprio a partire dalla prospettiva del proprio interesse individuale. (…) Per tutte queste ragioni, quindi, l’utilitarismo della preferenza, come versione compiuta e piena dell’utilitarismo, resta privo di supporti convincenti. T. Regan, cit., pp. 291-300. 108 Quando prescrive l’obbligo morale del vegetarismo, Singer parte affermando che i piaceri della tavola sono “futili interessi”, ma per molte persone non è così, e comunque Singer non ha dimostrato che lo siano. Egli argomenta che sostenere la pratica dell’allevamento intensivo è un obbligo morale in base agli obiettivi di questa attività (garantire i piaceri futili della tavola), ma un utilitarista dovrebbe farlo considerando le sue conseguenze, e non i suoi obiettivi. Le conseguenze dell’allevamento intensivo consentono a molte persone di vivere, perciò i loro interessi sono tutt’altro che futili: un utilitarista della preferenza dovrebbe tener conto degli interessi di tutte le persone coinvolte, e le preferenze a favore dell’allevamento intensivo sono sicuramente di più di quelle contrarie. Se si aggiungono le preferenze degli animali coinvolti la situazione rimane confusa (alcuni animali sono autocoscienti, altri no). Singer dovrebbe inoltre dimostrare, in base al principio delle conseguenze aggregative, con calcoli precisi che l’adozione del vegetarismo su base globale avrebbe conseguenze migliori di quelle della situazione attuale, e non lo dimostra (e sarebbe molto difficile farlo). Ancora, Singer non dimostra in base a criteri utilitaristici che non sarebbe giusto trattare gli animali in un modo che escludiamo per umani minorati, nonostante i primi siano sicuramente più intelligenti e autocoscienti; in altri termini, la critica allo specismo non è utilitarista. L’esigenza che, in certe situazioni, animali e pazienti morali umani, oltre a veder valutati nella stessa misura i loro uguali interessi, debbano essere trattati nello stesso modo, è un’esigenza che Singer presuppone ma non giustifica utilitaristicamente. Ibidem, pp. 300-308. 109 L’utilitarismo, a dispetto dell’enfasi posta sull’uguaglianza, se le cose si mettessero in un certo modo (cioè se la distribuzione di beni e mali in un modo che privilegia il sesso, la razza, o la specie “superiore” determinasse le conseguenze migliori in termini aggregativi) potrebbe sanzionare ogni forma riconoscibile di sessismo, razzismo e specismo, in quanto il principio di eguaglianza, essendo un principio predistributivo, quando si tratta di decidere come determinare il miglior saldo aggregativo di bene e male, ossia la maggior eccedenza aggregativa del bene sul male, non è incoerente con radicali differenze di trattamento degli individui. Per evitare lo specismo non basta tener conto degli uguali interessi, poniamo, dei suini e dei bambini; è essenziale anche che, dopo averlo fatto, trattiamo equamente sia gli uni che gli altri, ciò che il puro e semplice rispetto del principio di eguaglianza non è in grado di garantire. Singer non ci fornisce i dati empirici necessari a mostrare che, se abbandonassimo l’allevamento intensivo di animali, le conseguenze, tenendo conto degli interessi di tutti, sarebbero, tutto considerato, migliori; ne deriva che, a quanto ne sappiamo, questo trattamento potrebbe essere giustificato nell’ambito dell’utilitarismo della preferenza. Ibidem, pp. 312-316. 39 utilizzato da Singer come giustificazione morale dell’essere vegetariani110. Pertanto, Regan conclude affermando che “una posizione come quella di Singer, tutto considerato, è alquanto lontana dal darci un fondamento per un’autentica “liberazione degli animali”111. La teoria dei diritti animali di Regan si fonda su una serie di assunti fondamentali. In primo luogo, una teoria morale deve contenere giudizi imparziali, cioè coerenti con il rispetto del principio formale della giustizia (secondo cui occorre dare a tutti ciò che è loro dovuto; se trattiamo individui simili in modo diverso non ottemperiamo a questo principio); esso è detto formale in quanto in sé non specifica cosa sia dovuto agli individui. Per questo motivo, occorre un fondamento ragionevole sulla base del quale determinare cosa dobbiamo agli individui, altrimenti saremo privi di ragioni di principio per decidere quando due o più individui sono simili o dissimili in un senso moralmente rilevante e che cosa, per strette ragioni di giustizia, dobbiamo a ciascuno di loro. Necessitiamo perciò di un’interpretazione normativa della giustizia112: Regan fa sua l’interpretazione indicata come “uguaglianza degli individui”, la quale implica l’idea che certi individui hanno valore in sé stessi. Questo valore è detto “valore inerente” ed è concettualmente distinto dal valore intrinseco attribuito alle loro esperienze, non riducibile a quest’ultimo e non commisurabile ad esso. Non ci si può chiedere a che cosa equivalga il valore inerente di un individuo: esso non ha niente a che fare con il valore delle esperienze. Considerare gli agenti morali come dotati di un valore inerente significa quindi considerarli non meri ricettacoli di ciò che ha valore intrinseco, ma qualcosa di diverso e superiore. Secondo il postulato del valore inerente, gli agenti morali possiedono in sé uno specifico tipo di valore che invece non hanno secondo la concezione degli individui come ricettacoli, proposta da tutti gli utilitaristi (per i quali ad avere valore non è l’individuo in sé ma le sue esperienze/ piaceri e dolori/ preferenze –a seconda degli indirizzi-). Gli agenti morali possiedono valore inerente in eguale misura: graduare il possesso di valore inerente avrebbe infatti come conseguenza l’adozione di criteri tali da rendere accettabili delle discriminazioni ingiuste. Questa conclusione ha tre corollari. 110 Secondo Singer, il vegetariano si giustifica in base al fatto che un certo numero di vegetariani può fare la differenza circa la decisione di costruire un nuovo allevamento intensivo, o di demolirne uno esistente. Dire questo implica che, qualora i vegetariani fossero troppo pochi per avere questa influenza, i non vegetariani non si comporterebbero in modo immorale perché le conseguenze non cambierebbero in entrambi i casi. E anche se i vegetariani aumentassero fino a diventare un numero influente, i non vegetariani potrebbero sempre aumentare il consumo di carne per neutralizzare il peso dei vegetariani. Evidentemente, l’obbligo di diventare vegetariani non può basarsi su considerazioni simili. Ibidem, pp. 308-310. 111 Ibidem, p. 313. 112 Ibidem, p. 318. 40 • Non si può considerare il valore inerente degli agenti morali come qualcosa che essi possono guadagnare grazie ai loro sforzi o perdere in virtù di ciò che fanno o che non fanno. • Il valore inerente degli agenti morali non può aumentare o diminuire in relazione alla loro utilità ai fini degli interessi altrui. • Il valore inerente degli agenti morali è indipendente dal fatto che essi siano oggetto dell’interesse di altri (ciò va tenuto ben distinto dal fatto ovvio che il loro benessere ha una relazione causale con l’utilità attribuita loro dagli altri e con gli interessi di altri). La concezione secondo cui tutti gli agenti morali hanno uguale valore è quindi decisamente egualitaria e non perfezionistica. Inoltre, una volta riconosciuto che, quanto a valore inerente, tutti gli agenti morali sono uguali, se uno di essi possiede tale valore, il trattamento giusto valido per lui vale per tutti quanti. Stante il postulato del valore inerente, nessun danno arrecato a un qualsiasi agente morale può venir giustificato semplicemente sulla scorta del fatto che esso produce le migliori conseguenze per tutti coloro che risentono dell’esito: ciò significherebbe trattare questi individui come meri ricettacoli –si adotterebbe cioè una prospettiva utilitarista- e renderebbe possibili le implicazioni contro-intuitive dell’utilitarismo. Quest’analisi ha riguardato solo gli agenti morali, ma voler circoscrivere il valore inerente solo a loro sarebbe arbitrario, visto che alcuni danni arrecati ad agenti morali sono dello stesso tipo di quelli arrecati a pazienti morali e che il dovere di non danneggiare in questi modi né gli agenti né i pazienti morali è un dovere prima facie che abbiamo direttamente verso ciascuno di loro. Negare l’uguaglianza tra il valore inerente dei pazienti morali e quello degli agenti morali significherebbe confondere il valore inerente con il valore delle esperienze, il possesso di certe virtù, la loro utilità per altri, il loro essere oggetto di interesse; siccome il valore inerente è indipendente, irriducibile e incommensurabile rispetto a tali elementi, tutti gli individui che possiedono valore inerente lo possiedono in maniera uguale, siano essi agenti o pazienti morali. Dunque, per chi intenda correttamente le nozioni di “animale” e di “uguaglianza” –ossia per chi consideri animali tutti gli agenti e i pazienti morali e indichi col termine uguaglianza l’uguale possesso, da parte loro, di valore inerente- “tutti gli animali sono uguali113”. Come è già stato affermato, quello di valore inerente è un concetto categoriale, qualcosa che si ha o non si ha, che non è possibile graduare; non ci sono possibilità intermedie. Ma 113 Ibidem, pp. 322-328. 41 in base a quali somiglianze rilevanti l’attribuzione ad agenti e pazienti morali di un uguale valore inerente è intelligibile e non arbitraria? Stante la natura del problema, tali somiglianze non possono consistere in qualcosa che varia da individuo a individuo (caratteristiche fisiche, appartenenza ad una specie, altre classificazioni biologiche più generali) perché in tal caso si dovrebbe ammettere la pari variabilità anche del loro valore inerente114. Sembra difficoltoso sostenere la tesi per cui la vita dovrebbe costituire la caratteristica rilevante, sia necessaria che sufficiente, in virtù della quale attribuire pari valore inerente ad agenti e pazienti morali (non è chiaro, ad esempio, perché mai dovremmo avere dei doveri diretti verso realtà viventi come fili d’erba, patate o cellule tumorali115). Un’alternativa è costituita dal criterio del “soggetto-di-una-vita”. Affinché un individuo sia tale non basta né che sia un essere vivente, né che sia semplicemente un essere cosciente: occorre che abbia credenze e desideri, percezione, memoria, senso del futuro, una vita emozionale, sentimenti di piacere e di dolore, interessi-preferenze e interessi-benessere, capacità di dare inizio all’azione in vista della gratificazione dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi, identità psicofisica nel tempo, benessere individuale –nel senso che la sua esperienza di vita è per lui positiva o negativa in termini logicamente indipendenti dalla sua utilità per altri e dal suo essere oggetto di interesse per chiunque altro. Il criterio del soggetto-di-una-vita individua una somiglianza rilevante tra agenti e pazienti morali, tale da rendere intelligibile e non arbitraria l’attribuzione di uguale valore inerentepertanto, l’obbligo morale di non trattare tali individui come meri ricettacoli-: si tratta di una caratteristica comune e, come il valore inerente, è un criterio categoriale, non graduabile (un individuo è un soggetto-di-una-vita, oppure non lo è, e tutti quelli che lo sono, lo sono in egual misura); è un criterio che ci consente di chiarire perché abbiamo doveri diretti verso agenti e pazienti morali (perché a essi va attribuito il nostro stesso status morale) e perché abbiamo meno ragione di pensare di averne verso gli individui che non rientrano in tali categorie. A questo punto, occorre specificare che il soddisfacimento del criterio del soggetto-di-una-vita è una condizione solo sufficiente al possesso di valore 114 115 Ibidem, p. 329. Ibidem, p. 330. 42 inerente116 e che le ragioni per postulare l’eguale valore inerente di tutti gli agenti e i pazienti morali sono logicamente distinte dal criterio del soggetto-di-una-vita117. Il postulato del valore inerente non dà, di per sé, un’interpretazione del principio formale di giustizia, ma una base su cui elaborarla. Se gli individui hanno eguale valore inerente, qualsiasi principio che enunci quale trattamento dobbiamo riservare loro per ragioni di giustizia deve tener conto del loro eguale valore. Il principio del rispetto lo fa: si devono trattare gli individui dotati di valore inerente in modi che rispettino tale valore inerente118. Al pari delle interpretazioni utilitaristiche della giustizia formale, anche quella fornita dal principio del rispetto non riguarda la giustizia distributiva; tuttavia, quest’ultima, a differenza della prima, esclude in anticipo la liceità di pervenire a una distribuzione qualsiasi: non è giusto in nessun caso trattare un individuo dotato di valore inerente come mero ricettacolo allo scopo di produrre conseguenze ottimali per tutti coloro che risentiranno dell’esito119. E’ possibile sostenere e argomentare la tesi dell’accettazione razionale del principio del rispetto impegnandoci nel giudicare le nostre intuizioni preriflessive e sforzandoci coscienziosamente di pronunciare su di esse un distaccato giudizio ideale (essendo imparziali, distaccati, razionali, chiari sul piano concettuale e il più possibile informati), di modo che possiamo ottenere delle credenze ponderate. Il principio del rispetto appare compatibile con molte nostre intuizioni sia preriflessive sia ponderate: uccidere un agente morale al solo scopo di assicurare a tutti coloro che risentiranno dell’esito un saldo ottimale di beni e mali intrinseci è, ad esempio, un atto che consideriamo moralmente sbagliato. Il principio del rispetto, così, quadra con le nostre credenze ponderate circa la negatività morale dell’atto che arreca danni ad agenti morali e nel contempo fa progredire tali credenze verso una maggiore sistematicità. Ma ci sono anche altri criteri che un valido principio etico deve soddisfare: dev’essere coerente, deve avere una portata ugualmente ampia, dev’essere preciso. Il principio del rispetto li soddisfa tutti120 e, in particolare, 116 Conseguentemente, resta possibile considerare animali coscienti ma incapaci di agire intenzionalmente o anche umani in stato di coma irreversibile come dotati di valore inerente, ma riesce estremamente difficile individuare come sia possibile riuscire a rendere intelligibile e non arbitraria l’attribuzione a questi individui del valore inerente. Ibidem, p. 335. 117 Tale criterio viene introdotto dopo l’indicazione delle ragioni per postulare l’eguale valore inerente di tali individui, non prima; il suo ruolo, quindi, non è di derivare questo concetto, bensì quello di individuare una somiglianza rilevante che rende intelligibile e non arbitraria l’attribuzione a tutti i soggetti di cui si parla di un valore inerente. Ibidem, p. 337. 118 In particolare, trattare gli individui come meri ricettacoli non rispetta tale criterio; esso inoltre prescrive non solo che dobbiamo astenerci dal danneggiare tali individui, ma anche che abbiamo il dovere prima facie di soccorrere le vittime delle ingiustizie compiute da altri. Ibidem, p. 338-339. 119 Ibidem, p. 340. 120 Ibidem, pp. 350-353. 43 implica che i pazienti morali rientrano nel suo ombrello protettivo -non farlo, anche se le nostre credenze preriflessive lo indurrebbero, sarebbe arbitrario; in tal caso, le nostre credenze dovranno essere cambiate. Noi dobbiamo ai pazienti morali un trattamento rispettoso, non per bontà d’animo, né in considerazione degli “interessi sentimentali” di altri, ma perché lo esige la giustizia121. Dal principio del rispetto deriva il principio del danno: abbiamo il dovere diretto prima facie di non danneggiare gli individui in grado di sperimentare il benessere122. Sulla base di questi concetti di sfondo, Regan elabora una teoria dei diritti123 articolata in una serie di assunti fondamentali. I diritti morali124 sono universali: se un individuo ce li ha, li posseggono alla stessa maniera, e nello stesso grado, tutti coloro che, per gli aspetti rilevanti (il possesso del valore inerente), sono come lui. Un diritto morale si ha solo se il trattamento che affermiamo esserci dovuto rappresenta una richiesta che coloro dai quali lo pretendiamo possono e devono soddisfare in base ad appropriati principi morali validi. Tra i doveri non acquisiti125, il più importante è il dovere di giustizia: non bisogna trattare diversamente gli individui in assenza di differenze moralmente rilevanti. Sulla base del postulato del valore inerente, si è appena dimostrato che è intelligibile e non arbitrario concepire tutti gli individui che sono soggetti-di-una-vita come dotati di tale valore inerente in egual misura; in base a ciò, per strette ragioni di giustizia, a essi è dovuto un trattamento rispettoso di questo valore. Hanno perciò essi il diritto fondamentale a vedersi riconosciuto tale trattamento- cioè, in base a cosa affermiamo che la giustizia è un diritto/dovere? Diciamo che ognuno di noi può pretendere un trattamento giusto, in base a ragioni di giustizia, e quest’intuizione preriflessiva può essere sottoposta ad un’analisi razionale senza essere sconfitta. Perciò, diciamo che gli individui dotati di valore inerente hanno diritto ad un trattamento giusto e possono pretenderlo, direttamente o tramite altri; 121 Ibidem, p. 354. Affermare ciò non significa dimostrare che sia in ogni caso moralmente sbagliato danneggiare altri, ma che nessun danno arrecato a un agente o a un paziente morale può essere giustificato se è ingiusto (per esempio, la giustificazione di un danno non può poggiare sull’assunto per cui l’individuo danneggiato è un mero ricettacolo di valore). Ibidem, pp. 357-359. 123 La teoria è enunciata nel capitolo 8. 124 Sono distinti dai diritti giuridici, che sono il prodotto di un atto creativo di un singolo o di una collettività specifica e per questo variano nel tempo e nello spazio . 125 Sono corrispondenti ai diritti non acquisiti, cioè morali, e si contrappongono ai doveri acquisiti, nati sulla base di un atto volontario. Ogni tentativo di validare i diritti/doveri non acquisiti come diritti/doveri acquisiti sarebbe, perciò, inadeguato: è per questo che Regan afferma che i tentativi di fondare la moralità contrattualisticamente (come fa ad esempio Rawls) non possono che mostrarsi inadeguati. Ibidem, pp. 426428. 122 44 ciò è ritenuto dovuto in base al principio del rispetto. Questo diritto è morale (cioè universale -da riconoscere a tutti gli individui simili sotto gli aspetti pertinenti, cioè ad agenti e pazienti morali, indipendentemente dalle leggi di una nazione-). Da ciò consegue che trattare bene gli animali, come ogni altro paziente morale, non è un atto di bontà ma di giustizia: discende dal rispetto del loro valore inerente. Affermare che i pazienti morali non hanno diritti perché non sono in grado di avanzare pretese è arbitrario, in quanto ciò significherebbe far dipendere l’esistenza di un diritto morale fondamentale dal compimento di un atto volontario –e questo è da rigettare. Avere una pretesa valida non è la stessa cosa che avanzare una pretesa valida126. Quando, come nel caso dei pazienti morali, gli individui hanno dei diritti ma non sono in grado di difenderli, il dovere che la società ha di farlo per loro è ancora più stringente: rispettare un diritto, infatti, non vuol dire solo non trattare ingiustamente l’individuo, ma comprende anche il dovere prima facie dell’assistenza nella salvaguardia del diritto stesso. I pazienti morali si caratterizzano per il loro non poter scegliere tra agire bene o male. Per questo, non possono avere dei doveri, perché non possiedono le capacità cognitive e di altro genere che li rendono moralmente responsabili di ciò che fanno; ciò è riservato agli agenti morali, che quindi hanno diritti e doveri, tra loro e nei confronti dei pazienti morali127. Trattare con rispetto gli individui dotati di valore inerente è il precetto fondamentale della teoria dei diritti, è un diritto prima facie: da ciò discende che chiunque danneggi un altro individuo o permetta che egli venga danneggiato deve poterlo giustificare in base ad altri principi morali validi dimostrando che questi ulteriori principi, in un certo caso, prevalgono moralmente sul diritto delle vittime a non essere danneggiate128. Mentre gli agenti morali possono fare del male e del bene, perché conoscono la differenza, e possono perciò essere colpevoli o innocenti, i pazienti morali non possono essere colpevoli, perciò neanche innocenti –non possiedono la capacità di fare qualcosa di moralmente buono o sbagliato. Ma se si parla di innocenza per coloro che possiedono un dato diritto e subiscono un trattamento che lo viola senza aver fatto nulla per meritarlo, allora si può dire che i pazienti morali possono esserlo, anzi non possono che essere innocenti. Il trattamento giustificabile nei confronti negli innocenti umani si applica allo 126 Ibidem, p. 382. Ibidem, pp. 384-385. 128 Questo può avvenire in quattro casi: l’autodifesa (e ciò collima con le nostre credenze ponderate, fermo restando la necessità di proporzionalità dell’autodifesa), la punizione del colpevole (che diventa ingiusta se però tratta la persona senza rispetto del suo valore inerente), il sequestro di ostaggi innocenti, le minacce da parte di pazienti morali. Ibidem, pp. 385-395. 127 45 stesso modo agli animali129. Noi abbiamo dei doveri verso i pazienti morali perché essi sono dotati, al pari degli agenti morali, di valore inerente (di certo non abbiamo dei doveri verso qualsiasi cosa non sia in grado di agire né bene né male, come la polvere o i capelli, in quanto questi oggetti non hanno valore inerente). Di fronte all’alternativa tra danneggiare un certo numero di individui dotati di valore inerente e un numero più basso di individui simili, il principio di minimizzazione delle violazioni, derivabile da quello del rispetto, ci impone di danneggiare il gruppo più esiguo di individui quando i danni sono equiparabili130 (lo sono quando intaccano in eguale misura il benessere di uno o più individui) perché, diversamente, violeremmo un diritto uguale per molte volte mentre avremmo potuto scegliere di violarlo meno volte. Ciò è coerente col principio del rispetto: se scegliessimo di violare i diritti dei molti daremmo ai diritti dei pochi un peso maggiore rispetto ai diritti dei molti, e ciò sarebbe incoerente con il rispetto uguale che dobbiamo mostrare a tutti in base alla loro uguale dotazione di valore inerente131. Quando invece i danni subiti da due gruppi non uguali di individui non sono equiparabili utilizziamo il principio del più svantaggiato, secondo cui bisogna calpestare i diritti del gruppo per il quale i danni sono meno gravi, anche se questo gruppo è più numeroso dell’altro132. Questo principio è derivabile da quello del rispetto: se due individui hanno il medesimo diritto a non essere danneggiati ma i danni che possono subire sono di entità differente, il principio del rispetto impone che, data la medesima considerazione dei danni di entrambi, scegliamo di arrecare il danno meno grave, altrimenti daremmo a questo soggetto più di quanto gli è dovuto (considereremmo, ingiustamente, il suo danno più di quello dell’altro). Quando i danni non sono equiparabili, il numero non conta, in quanto il principio del rispetto vieta di considerare gli individui come meri ricettacoli e, perciò, di compiere una scelta solo in base alle “migliori” conseguenze aggregative per tutti coloro che risentiranno dell’esito. Quindi: il principio di minimizzazione delle violazioni e il principio del più svantaggiato sono alternativi al principio utilitaristico di minimizzazione 129 L’esempio più probabile è quello di minacce da un animale, nei confronti delle quali abbiamo il diritto di difenderci anche facendogli del male. Ibidem, p. 398. 130 “A parte considerazioni speciali, quando dobbiamo scegliere tra violare i diritti di molti individui innocenti o quelli di pochi individui anch’essi innocenti, e quando ciascuno degli individui interessati verrà danneggiato in modi prima facie equiparabili, allora dobbiamo scegliere di violare i diritti dei pochi, anziché quelli dei molti”. Ibidem, p. 410. 131 Ibidem, pp. 410-413. 132 “A parte considerazioni speciali, quando ci tocca decidere se calpestare i diritti di molti innocenti o i diritti di pochi innocenti, e quando il danno che incombe sui pochi li farebbe stare peggio di come starebbe ciascun membro del gruppo dei molti se si scegliesse un’altra alternativa, allora dobbiamo calpestare i diritti di quest’ultimo gruppo”. Ibidem, p. 414. 46 del danno (secondo cui si deve agire in modo da minimizzare il saldo aggregativo del danno arrecato a individui innocenti)133 e sono derivabili dal principio del rispetto134. La teoria dei diritti ammette molto meno rispetto all’utilitarismo: quest’ultimo non è incompatibile con il razzismo, il sessismo o lo specismo, poiché tiene sempre presente, nella determinazione dei casi in cui è giustificabile violare il diritto degli innocenti a non venire danneggiati, il saldo aggregativo di beni e mali per tutti coloro che risentiranno delle conseguenze. Tale approccio potrebbe pertanto consentire un danno a un nero perché un gruppo di bianchi ne trarrebbe giovamento; a una donna, perché un gruppo di uomini ne sarebbe soddisfatto; a un cane, perché un gruppo di esseri umani ne sarebbe divertito. Tutto ciò non è ammesso dalla teoria dei diritti: non si possono giustificare danni arrecati a qualcuno facendo appello al saldo aggregativo di beni e mali di cui godono gli altri. Grazie alla teoria dei diritti si ottiene un fondamento teorico per protestare contro l’uso degli animali nella ricerca terminale (o, parimenti, nell’allevamento): l’entità del danno rappresentato dalla morte, infatti, è una funzione del numero e della varietà di opportunità di soddisfazioni che essa preclude, perciò non vi sono ragioni credibili per sostenere che la morte di un animale normale adulto non costituisca una perdita maggiore, e quindi un danno più grave, della morte di un umano meno consapevole, ritardato, dotato di meno desideri e minori capacità di agire intenzionalmente nonché meno reattivo nei confronti degli altri e dell’ambiente in generale135; ad essere decisiva è l’entità del danno arrecato agli individui interessati. In tali casi, scegliere un animale normale adulto piuttosto che un umano mentalmente ritardato è specista, e soprattutto sarebbe giustificato dall’utilitarismo (in base alla considerazione delle conseguenze, rifiutate dalla teoria dei diritti). Evidentemente, con ciò Regan non intende consigliare l’utilizzo di esseri umani nella ricerca terminale, ma si limita a ribadire che l’uso degli umani, al pari degli animali, non può essere difeso semplicemente facendo appello alle conseguenze negative136. Per dare un fondamento filosofico ai diritti degli animali occorre abbandonare l’utilitarismo137 e le sue premesse; la teoria dei diritti si attiene a tale necessità138. Partendo da quest’approccio, 133 Ibidem, p. 406. Ibidem, pp. 413-419. 135 Ibidem, p. 422. 136 Ibidem, p. 423. 137 Ibidem, p. 424. 138 La teoria dei diritti può essere soggetta ad alcune obiezioni che danno la possibilità di chiarire il ruolo di fattori apparentemente problematici. In primo luogo, le relazioni tra amici e tra persone che si amano possono essere considerate come considerazioni speciali e possono validamente sospendere l’applicazione del principio di minimizzazione delle violazioni e del principio del più svantaggiato. In secondo luogo, i diritti e i doveri che scaturiscono da accordi o istituzioni ingiuste sono privi di rilevanza morale, perciò non giustificano la sospensione dei due principi derivanti dal principio del rispetto; di conseguenza, i diritti acquisiti (e gli atti volontari in generale) possono giocare un ruolo nella determinazione di ciò che si deve 134 47 Regan giunge alla conclusione per cui nessuna teoria etica può essere adeguata se non contiene il principio del rispetto139. Inoltre, “se la teoria è corretta, gli animali, al pari di noi, hanno certi diritti fondamentali, nei quali rientra, in particolare, il diritto di essere trattati con il rispetto che, come esseri dotati di valore inerente, è loro dovuto per strette ragioni di giustizia. (…) Resta da chiedersi se le nostre istituzioni e il nostro comportamento corrente rendano giustizia ai loro diritti”140. Regan si riferisce alle svariate modalità di utilizzo umano degli animali, ognuna delle quali si caratterizza per gravi violazioni del loro status morale –attribuito dal possesso di valore inerente. Il filosofo si concentra maggiormente sull’utilizzo degli animali per scopi alimentari e per motivi scientifici e parascientifici, esattamente i settori su cui i protagonisti della veg-economy intendono influire sempre più. Molte delle motivazioni addotte dal filosofo per i due casi sono simili; in particolare, sono da tener presenti le considerazioni circa il trattamento degli animali come meri ricettacoli e come risorse rinnovabili. Regan considera non a caso lo sfruttamento a fini alimentari degli animali come principale comportamento umano palesemente contrario al rispetto ad essi dovuto. Questa scelta sembra essere motivata non tanto da considerazioni di tipo numerico (come ha spiegato Singer nel testo analizzato precedentemente), visto che Regan ribadisce più volte che “il numero non conta”, quanto dal fatto che l’alimentazione animale è il modo più palese e quotidiano con cui la grande maggioranza delle persone partecipa ad un gravissimo atteggiamento di ingiustizia nei confronti di molti animali non umani. Di conseguenza, un cambiamento in questo ambito implicherebbe importanti modifiche nelle percezioni comuni riguardanti gli animali. Precedentemente si è ricordato come la teoria dei diritti ammetta la possibilità di disattendere il diritto dei pazienti morali (e quindi degli animali) a non essere danneggiati: perciò tale diritto non è assoluto, ma un dovere prima facie141. Allevare a scopi alimentari fare solo se si tratta di doveri concilianti col principio del rispetto, che, a sua volta, non è un prodotto di contratti o intese. Se avessimo una scialuppa di salvataggio con a bordo quattro adulti umani normali e un cane e a bordo ci fosse posto solo per quattro, pena la morte di tutti, sceglieremmo di buttare a mare il cane. Tutti e cinque i soggetti hanno uguale valore inerente e un uguale diritto prima facie di non essere danneggiati, ma l’entità del danno della morte è funzione delle opportunità di soddisfazione che essa preclude, e queste sono maggiori nel caso dell’essere umano, piuttosto che del cane (qualora uno degli esseri umani decidesse di sacrificarsi al posto del cane farebbe molto di più di quello che il dovere in senso stretto esigerebbe da lui; compirebbe cioè un atto supererogatorio). Questa credenza è giustificata dall’appello al principio del più svantaggiato. Il caso non cambierebbe se al posto di un cane ci fossero milioni di cani, o se al posto del cane ci fosse un umano mentalmente ritardato al punto da essere considerato un paziente morale. Ibidem, pp. 426-437. 139 Ibidem, p. 438. 140 Ibidem, p. 442. 141 “Il diritto degli animali a non essere danneggiati è un diritto prima facie, non un diritto assoluto: ci sono perciò delle circostanze in cui può essere giustificatamente disatteso. Poiché gli animali non sono agenti 48 degli animali, tuttavia, non rientra in nessuno dei casi ammessi dalla teoria dei diritti142; tuttavia, Regan si chiede se c’è qualche modo per difendere plausibilmente tale pratica ed elenca una serie di motivazioni che potrebbero essere addotte dai difensori di tale pratica e che si rifanno a principi morali. Molte persone difenderebbero la pratica di allevare e mangiare animali in base al principio di libertà. Esso afferma che qualsiasi individuo innocente ha il diritto di agire in modo da evitare di trovarsi in una condizione di svantaggio, anche se facendolo danneggia altri innocenti, a condizione che tutti gli individui coinvolti vengano trattati con rispetto e non ricorrano considerazioni speciali143. Allevatori e consumatori di carne, essendo entrambi autorizzati ad agire in conformità al principio di libertà, potrebbero sostenere di essere liberi di allevare animali e cibarsene, anche se per farlo si devono danneggiare gli animali o appoggiare coloro che lo fanno, in quanto non farlo vorrebbe dire porsi in una condizione peggiore di quella di qualsiasi animale d’allevamento144. Entrambe queste categorie di persone, così, pur ammettendo che altri possano scegliere di non mangiar carne, potrebbero argomentare che è nel loro diritto produrre carne e mangiarla: ciò che fanno non sarebbe moralmente sbagliato (perciò non farlo non sarebbe obbligatorio, bensì supererogatorio – andrebbe cioè al di là dei loro doveri morali-). La teoria dei diritti nega questa conclusione, pur ammettendo la validità del principio da cui la si deriva: l’argomento appena presentato sarebbe corretto solo se si riuscisse a dimostrare che la pratica di morali, la ragione per cui può essere lecito disattendere i loro diritti non può essere rappresentata dalla volontà di punire un innocente o di difendersi da lui; tuttavia, essi possono porre delle minacce innocenti ed essere usati come ‘scudi’ innocenti, e quindi vale anche per loro la regola secondo cui talvolta è lecito disattendere i diritti di un individuo innocente. Ibidem, p. 444. 142 “ Ma i danni arrecati agli animali d’allevamento (per esempio, le deprivazioni inflitte loro dai moderni sistemi di allevamento intensivo) non si possono giustificare dicendo che questi animali pongono delle minacce innocenti o si trovano nella posizione tutt’altro che invidiabile di ‘scudi’ innocenti”. Ibidem. 143 “Dire ciò significa dire che è moralmente lecito agire in questo modo. [Anche] il principio di libertà deriva dal principio del rispetto: come individuo dotato di valore inerente, io devo essere sempre trattato con rispetto e quindi non mi si deve considerare o trattare come un mero ricettacolo di valore, come una cosa che ha valore semplicemente in relazione a interessi altrui. Inoltre, poiché, al pari degli altri individui simili a me, posso provare benessere, io posso fare quanto è necessario per promuovere tale benessere, nel rispetto degli stessi vincoli morali che valgono per tutti gli agenti morali. Negarmi la libertà di perseguire il mio benessere semplicemente perché gli altri, se lo faccio, staranno meno bene significherebbe non trattarmi con il rispetto dovuto. Significherebbe presumere che il trattamento che mi è dovuto per ragioni di giustizia dipenda dalle conseguenze che ne deriverebbero agli altri, singolarmente o collettivamente. Ma il trattamento dovutomi non dipende da considerazioni simili: questo vorrebbe dire presupporre che io abbia valore solo come ricettacolo(…). Pertanto, sostenere che non posso fare quanto è necessario per evitare di trovarmi in una situazione di svantaggio, supponendo che tutti gli individui coinvolti siano trattati con rispetto e che non ricorrano considerazioni speciali, e sostenerlo in considerazione delle conseguenze che i miei sforzi avrebbero sul modo in cui se la passano gli altri, significherebbe non trattarmi con il rispetto dovutomi. (…)Tutti gli individui dotati di valore inerente, quindi, hanno un uguale diritto di fare, nel rispetto delle condizioni poste dal principio di libertà, quanto è necessario per evitare di trovarsi in una situazione di maggiore svantaggio, anche se, per farlo, devono danneggiare altri esseri viventi. Dovrebbe essere chiaro che il diritto di libertà di un individuo non è valido solo nei casi in cui gli individui che lo esercitano danneggiano direttamente altri individui. Ibidem, pp. 445-446. 144 Ibidem, p. 447. 49 allevare animali da carne e di cibarsene soddisfa tutti i requisiti posti dal principio di libertà. Secondo Regan, “Le ragioni più frequentemente addotte per giustificare il danno arrecato agli animali d’allevamento invocando il principio di libertà vertono sul presunto danno che ne deriverebbe ai consumatori qualora si astenessero dal cibarsi di carne: • La carne degli animali è gustosa e astenersi dal mangiarla vorrebbe dire privarsi di alcuni piaceri del palato. • E’ personalmente appagante mangiare piatti prelibati, perciò decidere di non mangiare più carne significherebbe privarsi di questo piacere. • Mangiare carne fa parte delle abitudini sia culturali che individuali, sicché ci riesce comodo farlo; smettere di farlo significherebbe affrontare una dolorosa privazione e notevoli disagi. • La carne è nutriente; cessare di mangiarla significherebbe compromettere la propria salute, o almeno rischiare di farlo. Ci sono poi le motivazioni che tengono conto degli interessi di tutti coloro che hanno a che fare con l’industria alimentare. Le principali sono le seguenti: • Molte persone hanno forti interessi economici nella prosecuzione dell’allevamento animale, e la qualità della loro vita, nonché della vita dei loro dipendenti, è materialmente legata alla continuazione dell’attuale commercializzazione delle carni animali. • Ad avere questo interesse non sono solo le persone direttamente impegnate nell’allevamento, ma la nazione in generale. • Gli animali sono una proprietà giuridica degli allevatori, i quali, quindi, possono trattarli come vogliono, anche se ciò è dannoso per gli animali. • Certi animali d’allevamento, ad esempio polli e tacchini, non sono direttamente coperti dai principi esposti dalla teoria dei diritti; gli allevatori quindi sono liberi di trattarli come credono, senza tener conto di quei principi – e, per ragioni analoghe, i consumatori sono liberi di cibarsene”145. Possono essere considerate inoltre motivazioni di altra natura, così riassumibili: • Gli animali devono la loro vita all’allevatore. Per questo, egli può decidere come trattarli e cosa fare della loro vita, anche qualora ciò fosse dannoso per gli animali stessi. 145 Ibidem, pp. 447-448. 50 • Quando l’imprenditore alleva animali da carne opera nel suo diritto in base al principio del più svantaggiato: dal momento che, qualora non li allevasse, finirebbe per essere più svantaggiato degli animali, gli è permesso allevarli, anche se in tal modo li danneggia. Né la prima né la seconda motivazione può, da sola o insieme all’altra, giustificare la violazione del diritto degli animali a non essere danneggiati. In primo luogo, ovviamente, nessuno ha il diritto di mangiare una cosa per il solo fatto che la trova gustosa o gli dà soddisfazione cucinarla (e se si trovasse gustosa la carne dei bambini?) In secondo luogo, non ci si chiede di scegliere tra cucinare e mangiare carne da un lato e danneggiare noi stessi privandoci dei piaceri del palato dall’altro, visto che è possibile cucinare pietanze molto saporite senza utilizzare carni. In terzo luogo, anche se rinunciare a mangiar carne costituisse un danno, esso non potrebbe venir considerato equiparabile alle sofferenze e le deprivazioni continue subite dagli animali d’allevamento; essi si trovano comunque in una situazione di svantaggio. A questo proposito, è da specificare che il danno non è solo provocato dall’allevamento intensivo: anche gli animali che fossero allevati ‘umanamente’ verrebbero uccisi prima del termine naturale della loro vita e, come si è affermato precedentemente, questo costituisce un danno prima facie anche nella (presunta) mancanza di crudeltà; la morte cancella pur sempre tutte le future possibilità di gratificazione146. La terza motivazione è palesemente poco convincente. “Essere abituati a fare qualcosa o trovar comodo farlo non giustifica minimamente la moralità di ciò che facciamo, se le nostre abitudini e l’indulgenza che, per comodità, accordiamo loro danneggiano altri individui innocenti. Al riguardo, le argomentazioni di Singer sul razzismo, sul sessismo e sullo specismo sono decisamente calzanti.(…) Le questioni di giustizia non vanno risolte in base al criterio della comodità individuale o di gruppo”147. 146 Immaginando alcune possibili controrepliche, non avrebbe senso parlare di ‘compromesso’ tra le nostre esigenze e quelle degli animali attraverso una diminuzione del consumo di carne. Questo compromesso non sarebbe equo, in quanto a contare non è il numero degli animali allevati e uccisi, ma che essi, anche uno solo di essi, muoiano anzitempo, danno evidentemente maggiore della rinuncia alla carne. Non avrebbe nemmeno senso replicare che, dato che da un singolo animale macellato molte persone possono cibarsi di carne, la sofferenza umana derivante dal non mangiarne sarebbe tanto elevata da superare il danno della morte della mucca. Così non può essere, secondo la teoria dei diritti, perché “calpestare i diritti degli individui in considerazione di simili calcoli aggregativi significa trattare quegli individui come meri ricettacoli di valore, ciò che, secondo la nostra teoria, questi animali non sono. Il totem della teoria utilitaristica (il calcolo delle conseguenze aggregativa per tutti coloro che risentiranno dell’esito) è il tabù della teoria dei diritti”. Ibidem, pp. 451-452. 147 Ibidem, p. 453. 51 La quarta motivazione attribuisce alla carne un’importanza che non ha. Essa contiene sicuramente tutti gli amminoacidi essenziali alla salute, ma li si può benissimo assumere senza cibarsi di carne148. Passando in rassegna le motivazioni di ambito economico, riguardo alla prima l’appello al principio di libertà e ai presunti doveri verso gli allevatori (dato che l’attività di sostentamento degli allevatori è appunto l’allevamento, se esso non ci fosse l’allevatore subirebbe un danno maggiore -la perdita di ogni fonte di reddito- di quello che subisce ogni animale che alleva. Per questo, egli è libero di portare avanti la sua attività, mentre noi abbiamo il dovere verso gli allevatori di non peggiorare la loro situazione rispetto a quella degli animali allevati) non sono validabili dal principio del rispetto, in particolare da quello del più svantaggiato. La clausola delle considerazioni speciali, parte di tale principio, comprende infatti, tra le varie attività, la partecipazione volontaria ad attività che comportano la perdita del diritto a non subire un peggioramento della propria condizione – si tratta principalmente delle attività ad alto rischio, di tipo competitivo, e l’imprenditorialità ne fa parte. Perciò un imprenditore deve riconoscere non solo che può correre il rischio di non ‘vincere’, ma anche che nessuno ha il dovere di acquistare i propri prodotti. Si potrebbe obiettare che i dipendenti dell’industria delle carni non hanno scelto di competere nel mercato, perciò il loro diritto a non essere collocati in una posizione di maggiore svantaggio non è sospeso come quello degli imprenditori –e quindi sarebbe giusto continuare ad acquistare carne per non far peggiorare la situazione di questi lavoratori. Tuttavia, i consumatori non hanno l’obbligo di proteggere, con i loro acquisti, il lavoro di queste persone; i dipendenti devono essere protetti contro eventuali situazioni di disoccupazione dai datori di lavoro –o dallo stato-, sicuramente non dai consumatori149. La seconda motivazione economica considera la protezione degli equilibri economici della società come un motivo sufficiente a perpetuare ingiustificabili violazioni dei diritti animali (il collasso dell’industria della carne sarebbe un collasso nazionale). A questo proposito bisogna ribadire che nessuno ha il diritto di venire protetto da un danno se tale protezione comporta la violazione dei diritti di altri, e questo è il caso dell’allevamento (di tutti i tipi). Secondo la teoria dei diritti è doveroso sforzarsi di garantire giustizia, anche a costo di provocare un terremoto economico (e naturalmente questo sarebbe estremamente improbabile, visto che i vegetariani aumentano lentamente)150. 148 Ibidem. Ibidem, 453-458. 150 Ibidem, p. 464. 149 52 Riguardo alla terza motivazione di ambito economico, bisogna dire che i limiti sul trattamento degli animali non costituiscono necessariamente una violazione dei diritti di proprietà dell’allevatore: i diritti di proprietà, infatti, non sono assoluti; ciò che scelgo di fare della mia proprietà non è solo affar mio, se quanto intendo farne avrà effetti negativi su altri. Soprattutto, il fatto che gli animali siano proprietà giuridica è da contestare: come in passato il diritto è stato arbitrario nei confronti degli schiavi, così lo è oggi verso gli animali. Ovviamente si replica affermando che, se gli animali fossero soggetti giuridici, gli allevatori non avrebbero più convenienza ad allevarli e potrebbero scomparire. In realtà, questa conclusione è lungi dall’essere indesiderabile. La teoria dei diritti ha come obiettivo ultimo proprio la totale scomparsa dell’industria degli animali così come la conosciamo. Se ciò portasse a una drastica diminuzione nel numero degli animali viventi, un evento simile sarebbe da considerare un segno di progresso e non di fallimento morale. La qualità della vita non è legata al fatto che gli individui in questione siano numerosi, anzi: questo vale per le persone, perciò non c’è motivo per cui non possa valere anche per gli animali151. La quarta motivazione economica si basa invece su una caratteristica della teoria dei diritti. Si dirà che alcuni animali d’allevamento, come alcuni di quelli utilizzati nella scienza, nella caccia, ecc. non sono mammiferi, perciò, secondo la teoria dei diritti, non rientrano nei soggetti-di-una-vita e quindi i principi riguardanti tali soggetti non si applicano nei loro confronti e verso i loro allevatori. In realtà, non è così semplice mettere in crisi la teoria dei diritti: questa difesa dell’allevamento del pollame non tiene conto di quanto sia difficile tracciare una linea divisoria tra animali che soddisfano e animali che non soddisfano il criterio del soggetto-di-una-vita (problema per cui abbiamo come minimo il dovere di concedere a questi animali il beneficio del dubbio, e trattarli come se fossero dotati di valore inerente) e, inoltre, non consente di fuoriuscire dalla nostra abitudine culturale a trattare tutti gli animali d’allevamento come risorse rinnovabili152. La medesima critica può affermare che, in base alla teoria dei diritti, gli animali appena nati, di età inferiore ad un anno, in effetti non sono soggetti-di-una-vita, perciò nei loro confronti non abbiamo doveri. In realtà, i cuccioli hanno la potenzialità di diventare soggetti-di-una-vita, così come i neonati: e siccome non esistono differenze tali da giustificare una disparità nel trattamento morale tra umani e altri animali e che noi non ammettiamo l’utilizzo dei neonati per l’alimentazione, la caccia, la sperimentazione, ecc. 151 152 Ibidem, pp. 465-467. Ibidem, p. 468. 53 allora non abbiamo motivi per non estendere tale trattamento a tutti i cuccioli non umani153. La penultima motivazione riassume l’idea secondo cui gli animali d’allevamento devono la loro esistenza agli interessi economici dell’allevatore, pertanto tali interessi determinano legittimamente come l’allevatore li debba trattare. Più esplicitamente, i danni subiti dagli animali sarebbero, in quest’ottica, il ‘prezzo’ della loro quota di esistenza. Questo argomento presuppone che gli agenti causalmente responsabili dell’esistenza di un individuo, una volta che esso sia venuto al mondo, hanno un potere sovrano su di lui. Ma questo assunto, frutto di una cultura patriarcale che immaginiamo di esserci lasciati alle spalle, manca della benché minima credibilità, sia tra umani che, in base al pari valore inerente da essi detenuto, tra animali (o tra animali ed umani)154. L’ultima motivazione presentata cerca inutilmente di aggrapparsi al principio del più svantaggiato e al principio di libertà, in quanto quest’ultimo contiene la clausola per cui “tutti gli individui coinvolti devono essere trattati con rispetto”, requisito che l’allevamento degli animali per scopi alimentari non soddisfa (né quando viene praticato su scala industriale né quando si svolge in condizioni più ‘umane’), in quanto gli animali d’allevamento sono trattati come risorse rinnovabili. “Un individuo è trattato come risorsa rinnovabile quando (…) viene ucciso per far posto ad un altro individuo simile a lui che avrà la stessa sorte. (…) Secondo la teoria dei diritti questo processo è ingiusto perché fa sì che individui dotati di valore inerente vengano trattati come se non possedessero alcun valore autonomo, ma fossero da considerare solo in rapporto agli interessi di chi dà vita a tale processo e alle preferenze di coloro che lo sostengono. Tale pratica tratta gli individui come risorse in quanto il valore che attribuisce loro vien fatto dipendere dalla loro utilità in vista degli interessi di altri; li tratta come risorse rinnovabili perché ritiene possibile rimpiazzarli senza che il fatto di ucciderli costituisca un danno prima facie. Ma gli individui dotati di valore inerente non sono risorse rinnovabili, né vanno trattati come se lo fossero. Essi hanno un tipo di valore distinto dalla loro utilità per gli interessi altrui e non è riducibile ad essa, per cui vanno sempre 153 Ibidem, p. 480. “Una volta che [un individuo] sia diventato il soggetto di una vita che per lui può essere migliore o peggiore, in un senso logicamente indipendente da noi, se vogliamo trattarlo con giustizia dobbiamo rispettare rigidi vincoli morali, fondati sul riconoscimento del suo valore inerente. Su di lui non abbiamo un potere morale sovrano. Il caso degli animali d’allevamento non differisce da quello di mio figlio in un senso che abbia rilevanza morale. [Le motivazioni per cui un allevatore ha fatto mettere al mondo nuovi animali o dei genitori abbiano fatto nascere dei figli sono del tutto irrilevanti ai fini della determinazione del trattamento da riservare agli individui in questione]. Le motivazioni o le intenzioni per cui una persona mette al mondo o adotta un bambino, quali che esse siano, non la autorizzano moralmente a fargli del male più di quanto le motivazioni e le intenzioni degli allevatori autorizzino questi ultimi a fare del male agli animali affidati alle loro ‘cure’”. Ibidem, pp. 458-459. 154 54 trattati con il rispetto dovuto al loro valore. (…) Qualsiasi pratica che permetta o faccia sì che animali dotati di valore inerente siano trattati come risorse rinnovabili, pertanto, permette o esige un trattamento che viola il principio del rispetto”155. Considerare gli animali come risorse rinnovabili è addirittura peggiore del considerarli come meri ricettacoli di valore, in quanto, nel secondo caso, i loro beni e i loro mali assumono almeno una rilevanza morale diretta nella determinazione di ciò che si deve fare (ma anche se li si concepisce così si possono giustificare i danni arrecati loro facendo appello alle “migliori” conseguenze aggregative); nel primo caso invece i loro beni e i loro danni non possono avere nessuna rilevanza morale diretta. Quale importanza abbiano, ammesso che ne abbiano, dipende dagli interessi di coloro che li trattano, appunto, come risorse rinnovabili. Considerare degli individui dotati di valore inerente come risorse rinnovabili, quindi, significa considerarli ancor meno di meri ricettacoli e ciò è ancora più ingiusto156. Secondo la teoria dei diritti, dunque, gli allevatori sono dediti a una pratica ingiusta, in quanto essi vanno al di là dei propri diritti. Regan perciò tiene a concludere evidenziando che “dal punto di vista morale, la pratica di allevare animali per scopi alimentari deve cessare, e i consumatori devono cessare di sostenerla. (…) Coloro che, acquistando carne, sostengono questa pratica vanno al di là dei propri diritti. Come acquirenti, anch’essi concorrono alla perpetuazione di una pratica ingiusta. [Perciò] il vegetarianismo non è supererogatorio: è obbligatorio”157. Ancora una volta, Regan dimostra come la teoria dei diritti riesca158 laddove l’utilitarismo fallisce: per l’utilitarista non è impossibile giustificare i danni arrecati agli animali d’allevamento; potrebbero anzi essere giustificate se le conseguenze aggregative fossero ottimali159. Al contrario, sullo sfondo della teoria dei diritti, “poiché l’industria 155 Ibidem, pp. 460-461. Questo giudizio è del tutto indipendente dalla sofferenza provata dagli individui in questione. Se c’è, essa aumenta la negatività morale aggiuntiva, ma la sua presenza o meno non elimina l’ingiustizia fondamentale connaturata al trattare individui con un valore inerente come risorse rinnovabili. Ibidem. 156 Ibidem, p. 462. 157 Ibidem, pp. 463-464. 158 Il nostro critico immaginario potrebbe pensare che la soluzione proposta, stavolta riguardo all’alimentazione, dalla teoria dei diritti nel caso, già considerato, della scialuppa di salvataggio, comprometta la solidità della nostra posizione. Se, in una situazione estrema di questo tipo, dovessimo decidere chi mangiare per far vivere gli altri, nel caso in cui l’unica alternativa fosse sacrificare uno degli individui a bordo, sacrificheremmo il cane, perché il danno rappresentato dalla sua morte non sarebbe così grave come sarebbe per uno qualsiasi degli umani. Al contrario, il nostro critico si sbaglia ancora una volta, e ciò per tre motivi: in primo luogo, nel mondo in cui ci troviamo la nostra situazione è ben diversa da quella dei sopravissuti sulla scialuppa di salvataggio; in secondo luogo, ciò che, secondo una teoria, è giusto fare in casi eccezionali non lo si può disinvoltamente generalizzare applicandolo ai casi comuni; in terzo luogo, il fatto che una teoria implichi che una cosa sia lecita in circostanze isolate ed eccezionali non comporta che la debba considerare nello stesso modo quando diventa una pratica corrente ed istituzionalizzata. Ibidem, pp. 470-471. 159 Una concezione utilitaristica è insufficiente a fondare l’obbligo morale del vegetarismo (infatti è quello che accade a Regan): essa dovrebbe fornire informazioni pertinenti e convincenti circa le conseguenze che ci 55 dell’allevamento di animali comporta la sistematica violazione dei diritto al rispetto degli animali è moralmente sbagliato acquistarne i prodotti. E’ per questo che, secondo la teoria dei diritti, il vegetarismo è moralmente obbligatorio; ed è per questo che non dobbiamo ritenerci soddisfatti di alcun altro risultato che non sia la fine completa dell’allevamento – non necessariamente intensivo- a scopo commerciale degli animali così come lo conosciamo”160. Tuttavia, Regan è molto attento a sottolineare come il dovere individuale del vegetarismo sia necessario, ma non sufficiente per raggiungere quest’obiettivo: “Per porre fine all’allevamento di animali a scopo industriale ovviamente occorre qualcosa in più della nostra adesione sono per coloro che risentiranno dall’esito del danno arrecato agli animali d’allevamento, quelle che ci sarebbero per coloro che risentirebbero dell’esito nel caso in cui tutti diventassimo vegetariani e ci dovrebbe dire, tutto sommato, se queste ultime conseguenze sono migliori delle precedenti. Queste informazioni semplicemente non ci sono. Inoltre, secondo l’utilitarismo, la positività morale del mio rifiuto di acquistare carne dipende non da ciò che faccio io ma da quante altre persone fanno la stessa cosa: al contrario, la teoria dei diritti rifiuta di fondare un obbligo morale su atti volontari. L’individuo ha ragione di non acquistare i prodotti di un’industria che viola i diritti di altri indipendentemente da quante sono le persone che fanno come lui e indipendentemente dal saldo aggregativo di beni e mali. Ibidem, pp. 469-470. 160 Ibidem. Regan non si limita ad attaccare l’industria zootecnica ma parimenti condanna le pratiche, non industriali ma dai medesimi risultati, come la caccia o la cattura di animali selvatici attraverso trappole. “La caccia e la cattura degli animali con l’ausilio di trappole per scopi di lucro commerciale o per “sport” sono pratiche moralmente sbagliate. L’appello alla tradizione non ha alcun valore morale (…); il preteso “servizio umanitario” consistente nell’uccidere gli individui che comunque morirebbero di fame lo è altrettanto sia perché non è detto che la morte per fame sia peggiore dell’uccisione [anzi] (…) sia perché le pratiche venatorie mirano ad aumentare nel tempo il numero di animali cacciabili, e in ciò non c’è nulla di umanitario. Queste pratiche sono sbagliate perché trattano gli animali come se fossero una risorsa rinnovabile il cui valore va misurato e regolato in base ai più diversi interessi umani, cosa che è falsa e che non tratta gli animali con il rispetto che è dovuto loro dal possesso di valore inerente. (…) E’ da respingere l’argomentazione secondo cui i cacciatori non fanno niente di più dei predatori. Gli animali non sono agenti morali, perciò, pur arrecando ad altri individui un danno reale, non compiono nulla di moralmente sbagliato. Ciò non vale per gli esseri umani normali. (…) Gli animali selvatici vanno semplicemente lasciati in pace dai predatori umani. (…) La teoria dei diritti non giustifica l’uccisione, a scopo di controllo, degli animali predatori [come i lupi] allo scopo di minimizzare le perdite subite dagli allevatori. (…) Lo scontro tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei predatori va risolto eliminando gli allevamenti, non sterminando i predatori. (…) L’eventuale appello ai diritti sanciti dalla legge di per sé non risolve alcun problema morale e, secondariamente, il fatto che l’attuale status giuridico degli animali di allevamento sia esprimibile in termini di proprietà di altri è una delle tradizioni che la teoria dei diritti cerca di contrastare”. Ibidem, pp. 474-481. Un’ulteriore precisazione di Regan riguarda il rapporto tra teoria dei diritti e salvaguardia delle specie in via di estinzione, nonché quei movimenti caratterizzati, per dirla con Regan, da “fascismo ambientalistico”: “la teoria dei diritti morali si occupa degli individui [solo questi hanno diritti; le specie non ne hanno]. Il fatto che un animale sia membro di una specie minacciata dall’estinzione non aggiunge nulla al suo statuto morale. (…) La teoria dei diritti non è indifferente agli sforzi volti a salvare le specie che rischiano l’estinzione, anzi li sostiene. Ma ciò accade perché [questi movimenti] soccorrono animali dotati, al pari degli altri animali e di noi umani, di pari valore inerente. Il problema si porrebbe se si incoraggiassero le persone a credere che il danno arrecato agli animali ha rilievo morale solo se colpisce esemplari di specie minacciate dall’estinzione, in quanto in tal caso le si incoraggerà anche a considerare i danni inflitti ad altri animali come moralmente accettabili. (…). Gli animali selvatici vanno lasciati stare”. (481-483). “L’etica dell’ambiente può entrare in contrasto con la teoria dei diritti qualora aderisse ad una visione eminentemente olistica della natura (…) dato che invece i diritti sono riconosciuti individualisticamente. Il “fascismo ambientalistico” [che implica che l’individuo possa essere sacrificato in nome di un maggior beneficio della comunità biotica, che ha invece importanza maggiore] è contrario alla teoria dei diritti, in quanto si rifà a considerazioni aggregative per decidere come trattare singoli individui, umani o animali. La teoria dei diritti non nega la possibilità che sistemi di oggetti naturali [come una foresta] possano avere un valore inerente [ma finora nessun contributo è riuscito a giustificare tale ipotesi]”. Ibidem, pp. 481-486. 56 individuale al vegetarismo. [Ciò] è giusto ma non basta. (…) Occorre impegnarsi per promuovere una rivoluzione dell’atteggiamento intellettuale della nostra cultura nei confronti degli animali allevati a scopi alimentari e del trattamento loro riservato.(…) Il nostro compito può venir formulato in questi termini: contribuire ad educare coloro che attualmente sostengono l’industria degli animali, affinché si rendano conto delle implicazioni del loro sostegno; contribuire ad accreditare l’opinione secondo cui questa industria, così come la conosciamo, viola i diritti degli animali e, se necessario, lavorare perché la forza della legge costringa questa industria a operare i cambiamenti necessari. (…) Per conseguire l’obiettivo della giustizia non occorre nulla di meno. Accontentarsi di astenersi personalmente dalle carni vorrebbe dire diventare un elemento del problema, anziché un elemento della soluzione”161. Il secondo “settore” di utilizzo degli animali su cui si sofferma Regan è articolato in tre ambiti collegabili alle attività scientifiche (anche se spesso il metodo scientifico non ha niente a che vedere con tali pratiche, se osservate con attenzione). Il primo ambito consiste nell’utilizzo didattico degli animali nell’insegnamento della biologia e della medicina. Ci sono molti motivi per opporsi a tali pratiche: innanzitutto gli animali in questione vengono considerati risorse rinnovabili; in secondo luogo, l’acquisizione di conoscenze non può mai giustificare l’inflizione di danni ad altri soggetti, specie se le medesime informazioni si sarebbero potute ottenere in altri modi (ed è questo che accade sempre); il fatto che molto spesso non si utilizzino mammiferi non vuol dire che si possano utilizzare a piacimento gli altri animali, perché, come abbiamo già sottolineato a proposito degli animali allevati a scopi alimentari che non rientrano nella classe dei mammiferi, non sappiamo dove porre precisamente la linea divisoria tra soggetti-di-una-vita e coloro che non lo sono, perciò è ragionevole indicare una linea d’azione che si ispiri alla cautela morale e che valga sia per le sofferenze che per la morte – per questo motivo, l’uso di anestetici non consente un utilizzo moralmente lecito degli animali nella dissezione-, soprattutto se consideriamo che gli animali utilizzati, anche se non mammiferi, hanno in comune con noi un sistema nervoso centrale, cioè una caratteristica di estrema somiglianza nei nostri confronti; inoltre, continuare a fare in modo che gli studenti si dedichino a esperimenti di laboratorio in vivo vuol dire contribuire ad accreditare la credenza secondo cui tutti gli animali non umani moralmente non contano e possono essere considerati come oggetti “usa-e-getta”. Per questi motivi, in base alla teoria 161 Ibidem, pp. 472-473. 57 dei diritti, gli esperimenti di laboratorio che permettono o richiedono la dissezione di animali vivi devono cessare162. Il secondo caso riguarda l’utilizzo degli animali nella conduzione di test tossicologici di prodotti e medicinali nuovi. E’ opportuno considerare un caso alla volta: anche se per la teoria dei diritti non c’è alcuna differenza, in quanto non si prendono in considerazione le “migliori” conseguenze aggregative per decidere quale comportamento attuare nei confronti di qualcuno, la percezione comune dà una differente importanza ai due rami di queste attività. La teoria dei diritti considera ingiusto sottoporre gli animali ai test di tossicità su sostanze non terapeutiche perché questi danno risultati poco attendibili –in quanto difficilmente estrapolabili da specie a specie, come la scienza stessa ammette-; perché spesso si testano prodotti contenenti sostanze già testate o innocue e quindi in tali casi i test sono inutili; perché, considerato che immettere sul mercato prodotti nuovi senza sottoporli ad una sperimentazione preventiva potrebbe essere pericoloso, nessuno obbliga le imprese a produrre sostanze nuove –e quindi a testarle-; perché i consumatori hanno a disposizione già enormi quantità di prodotti tra cui scegliere; perché nessun consumatore verrà a trovarsi in una situazione peggiore di quella degli animali sottoposti ai test qualora non si introducessero sul mercato prodotti nuovi. La teoria dei diritti si oppone a tali pratiche fondamentalmente perché esse violano il diritto morale fondamentale degli animali coinvolti a non essere danneggiati; moralmente, devono cessare. E’eticamente indifendibile affidarsi a test che violano i diritti degli altri, così come immettere prodotti non testati sul mercato: perciò l’alternativa praticabile è non consentire l’accesso al mercato ai prodotti la cui tossicità sia stata pre-testata sugli animali. A questo proposito, le aziende possono farsi concorrenza mettendo a punto alternative che non prevedono l’utilizzo di animali e possono spingere le agenzie di controllo a farne riconoscere la validità. Qualora non potessero farlo, le aziende possono sempre non immettere nuovi prodotti sul mercato163. Circa i test tossicologici dei medicinali nuovi164, è evidente l’immoralità di un eventuale ingresso sul mercato di un farmaco nuovo privo di sperimentazione, ma la teoria dei diritti non ammette il trasferimento di rischi su individui che non scelgano volontariamente di accollarseli. Quando una persona decide di accollarsi dei rischi, rilevanti o minori che 162 Ibidem, pp. 488-494. Ibidem, pp. 497-504 164 Peraltro, in questi casi, molto spesso gli animali utilizzati non vengono sottoposti ad alcun tipo di anestesia perché “ciò potrebbe comportare qualche inesattezza nei risultati”. Gary Lawrence Francione, Introduction to Animal Rights: Your Child or the Dog ?, Temple University Press, Philadelphia, 2000, p. 46. 163 58 siano, nessun altro ha il dovere di offrirsi come volontario per consentire a questa persona di prevederli o minimizzarli. A contare non è l’entità del danno subito dai soggetti dei test, bensì il fatto di usarli coercitivamente per individuare o minimizzare i rischi di altri. Trattare gli animali (o chiunque altro) in questo modo significa trattarli come risorse a disposizione per gli altri, ancor meno che meri ricettacoli; queste pratiche perciò violano in modo evidente i diritti fondamentali di questi animali. La teoria dei diritti non si oppone per principio agli sforzi miranti a minimizzare i rischi che l’assunzione di nuovi farmaci comporta: i testi tossicologici sono accettabili, se non violano i diritti di nessuno. Visto che la pratica di servirsi di volontari non è da incoraggiare (c’è il rischio di coercizione e di sfruttamento dei più poveri e deboli), la scienza deve intraprendere la strada della ricerca di test tossicologici alternativi all’utilizzo di esseri umani e animali, che peraltro sarebbero sicuramente meno costosi per le aziende. In tal senso le prospettive sono incoraggianti e gli scienziati dovrebbero essere stimolati a compiere dei passi in avanti in questa direzione. Il fatto che le aziende farmaceutiche subirebbero un danno economico (se anche così fosse, ma sembra improbabile) è moralmente irrilevante, in quanto resta la violazione di un diritto fondamentale. Come per le aziende chimiche, le case farmaceutiche inoltre non sono obbligate a produrre farmaci nuovi. Il fatto che le leggi di molti stati impongano la sperimentazione animale ai fini dell’immissione sul mercato di un farmaco nuovo è, parimenti, moralmente irrilevante: se una legge è ingiusta, rispettarla è ingiusto, perciò occorre fare ogni sforzo per cambiarla. E’ moralmente irrilevante fare appello ai benefici che potrebbero (e non è sempre così) generarsi dalla sperimentazione di tali farmaci: i benefici che altri riceverebbero avrebbero valore morale solo se non comportassero la violazione dei diritti di alcun individuo, ma non è così. Questi tipi di test, pertanto, devono cessare165. Circa la ricerca scientifica di base, dati i metodi con cui essa avanza di norma, secondo la teoria dei diritti necessita di una svolta radicale. A parte il fatto che non sempre è necessario ricorrere a un intervento chirurgico per stabilire le connessioni tra un certo apparato e una certa reazione fisica (è sempre possibile tener conto dell’osservazione clinica dei pazienti che hanno subito lesioni) e che spesso si sa in anticipo che alcuni esperimenti saranno inutili (altrimenti non si potrebbe scegliere quali finanziare), nonché il fatto che c’è una rilevante difficoltà nell’estrapolare i risultati ottenuti su animali per estenderli alla nostra specie, non si può giustificare nemmeno il danno arrecato ad un solo animale semplicemente aggregando tra loro i benefici che ne deriveranno agli uomini e alla 165 T. Regan, cit., pp. 504-511. 59 qualità della loro vita, altrimenti il suo valore si ridurrebbe alla sua possibile utilità agli interessi di altri. Ciò consisterebbe nella violazione di un suo diritto fondamentale. Per questi motivi, la ricerca scientifica così come la conosciamo deve cessare: per andare avanti nella scienza in un modo moralmente accettabile bisogna andare al di là della ricerca su animali; non basta dire di aver fatto tutto il possibile per evitarla e poi svolgerla: il valore degli animali è indipendente dagli sforzi compiuti per evitare di infliggere loro delle sofferenze. Il fatto che tali idee siano aprioristicamente rifiutate dalla maggior parte della gente significa che molte persone hanno dei pregiudizi e che questi vanno abbandonati. “La teoria dei diritti non si oppone all’utilizzo di conoscenze acquisite tramite coscienziosi sforzi terapeutici compiuti su animali, o umani, malati in vista di un miglioramento dei metodi terapeutici da adottare per [altri]; si oppone invece a tutte quelle pratiche che causano intenzionalmente dei danni agli animali nella speranza di porre le premesse per la scoperta di qualcosa che possa essere di beneficio agli umani e alla loro qualità della vita(…). I benefici derivanti da pratiche simili, per grandi che siano, sono irrilevanti, in confronto alla valutazione della loro tragica ingiustizia”166. La ricerca dovrebbe imboccare una strada che non preveda l’uso di agenti o pazienti morali. “Se ci sono alternative non animali, occorre adottarle; se non ci sono, occorre cercarle. (…) Sono i ricercatori che obiettano che “ciò è impossibile” ancor prima di esperire i tentativi scientifici del caso –non coloro che li invitano a farlo- a dar prova di poca fiducia nella scienza e di insufficiente impegno scientifico, ossia di antiscientificità della peggior specie”167. “La teoria dei diritti [quindi] non è affatto antiscientifica. (…) Esige solo coerenza morale”168. Le esigenze della teoria dei diritti non saranno soddisfatte se non dopo la totale abolizione della ricerca su animali, pratica che resta moralmente sbagliata perché ingiusta. Si potrebbe obiettare che l’utilizzo di mammiferi non umani di età inferiore ad un anno non rientra nel novero della teoria dei diritti, e che perciò il loro utilizzo potrebbe essere lecito: ciò potrebbe essere vero, ma innanzitutto è controverso tracciare la linea che divide i soggettidi-una-vita dagli altri esseri, e a causa di questa ignoranza su un punto di tale importanza morale dobbiamo, caso mai, peccare per prudenza, e ciò sia nel caso degli animali che degli umani: per questo è meglio accordare il beneficio del dubbio agli animali appena nati, che comunque sono soggetti-di-una-vita in potenza allo stesso modo dei bambini, e 166 Ibidem, p. 518. Ibidem, p. 519. 168 Ibidem. 167 60 rifiutare di accettare il loro utilizzo nella scienza; in secondo luogo, abbiamo sicuramente dei doveri di giustizia nei confronti degli animali che sarebbero utilizzati per far nascere questi piccoli, ed è ragionevole pensare che i loro diritti, se fossero utilizzati come “macchine riproduttrici”, non sarebbero affatto rispettati169. La sperimentazione scientifica è molto importante ai fini dell’evidenziazione delle differenze tra approccio utilitarista e teoria dei diritti: non c’è problema in cui la distanza tra le due scuole di pensiero sia così evidente come in quello dell’uso degli animali nella scienza. Per gli utilitaristi, se il danno arrecato agli animali in vista di obiettivi scientifici sia giustificato, dipende dal saldo delle conseguenze aggregative per tutti coloro che risentiranno dell’esito. La sperimentazione sarebbe moralmente sbagliata solo nel caso in cui le conseguenze fossero peggiori di quanto si sarebbe potuto ottenere agendo diversamente. Degli interessi degli animali usati per questi test si deve tener conto, certo, ma non più che degli interessi di chiunque. La teoria dei diritti adotta una prospettiva molto diversa: nessun individuo, umano o animale che sia, può essere trattato come se fosse un puro e semplice ricettacolo, ossia come se il suo valore si riducesse alla sua possibile utilità per altri. Per questo motivo, il danno arrecato agli animali in vista di obiettivi scientifici è moralmente sbagliato: quel danno potrebbe anche avere benefici reali, ma guadagni simili sono illegittimi, come tutti quelli conseguiti in modo ingiusto170. “Coloro che accettano la teoria dei diritti potranno dirsi soddisfatti solo con la totale abolizione di quell’uso degli animali nella scienza che riesce dannoso agli animali stessi: nell’insegnamento scientifico, nei test tossicologici, nella ricerca di base. Ma la teoria dei diritti non fa favori. (…) Quanto detto vale anche per quegli umani ai quali, in considerazione della nostra ignoranza e per ragioni analoghe a quelle avanzate per i non umani, va riconosciuto il beneficio del dubbio: neonati o feti prossimi alla nascita. Noi, che accettiamo la teoria dei diritti, siamo tenuti a negare a ricercatori e scienziati qualsiasi accesso a queste “risorse”. E ciò, non per opporci alla crudeltà (anche se facciamo pure questo), né per spronare alla bontà (anche se facciamo pure questo), ma perché la giustizia non richiede niente di meno”171. 169 Ibidem, pp. 521-524. Ibidem, pp. 524-525. 171 Ibidem, p. 526. 170 61 Gary L. Francione Le due teorie presentate costituiscono gli elementi fondamentali della discussione circa l’attribuzione agli animali non umani di uno status capace di proteggerli dagli orrori che l’attuale condizione permette di esercitare nei loro confronti. Sulla base di tali premesse, Gary Lawrence Francione, giurista e filosofo, ha elaborato un altro percorso caratterizzato da un approccio più realistico, che si propone di smascherare il motivo del fallimento di tutti gli sforzi, intellettuali e non, finora intrapresi allo scopo di “liberare” gli animali dalla schiavitù esercitata dal genere umano. Francione non affronta il problema tanto in termini filosofici quanto in termini prettamente giuridici, considerando pertanto gli ostacoli sostanziali alla liberazione animale, evidentemente generati da un approccio antropocentrico di origine storico-filosofica ma ormai ampiamente prevalenti su tali tipi di considerazioni. A livello formale, Francione si limita a porre alcuni aggiustamenti alla teoria di Regan (anche se sembra affermare qualcosa in più), sposandone i principi di fondo, mentre rigetta, allo stesso modo di Regan, l’approccio utilitarista di Singer. Francione parte dall’analisi dell’evidente e profonda disparità tra alcune credenze ampiamente diffuse presso l’opinione pubblica nei riguardi degli animali e il comportamento dell’essere umano medio. Da una parte, l’intera società afferma continuamente di considerare seriamente gli interessi degli animali, come diversi sondaggi riportati dall’autore testimoniano172. Dall’altra, il loro attuale trattamento si pone in stridente contrasto con queste credenze condivise circa il loro status morale. Il genere umano sottopone, difatti, miliardi di animali l’anno a innumerevoli situazioni di dolore, sofferenza e stress. Secondo il dipartimento per l’agricoltura degli Stati Uniti, ogni anno solo in questo paese sono uccisi –solo nei macelli- più di otto miliardi di animali, circa 23 milioni al giorno173; senza considerare le attività come la caccia e gli esperimenti scientifici 172 David Foster, “Animal Rights Activists Getting Message Across: New Poll Findings Show Americans More in Tune with ‘Radical’ Views”, Chicago Tribune, 25/01/1996; John Balzer, “Creatures Great and – Equal”, Los Angeles Times, 25/12/1993; Alec Gallup, “Gallup Poll: Dog and Cat Owners See Pets As Part of Family”, Star Tribune, 28/10/1996; Jeanne Malmgren, Poll Proves It: We’re Nuts about Pets”, Star Tribune, 26/06/1994. Citato in G. L. Francione, Introduction to …, cit., introduzione. 173 U.S. Department of Agriculture, National Agricultural Statistics Service, Agricultural Statistics 1999 , Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 1999. 62 (o presunti tali, come si è visto in precedenza). E’ pertanto ammissibile parlare di una sorta di “schizofrenia morale” che concerne il nostro rapporto con gli animali174. Un buon punto di partenza per analizzare questo “problema psicologico diffuso” è l’analisi di quelle che possono essere considerate le intuizioni condivise dall’opinione pubblica circa il rapporto tra umani e non umani. Francione ritiene che la maggior parte delle persone condivida queste affermazioni: • In situazioni di necessità, preferiremmo salvare gli esseri umani e non gli animali175; • E’ sbagliato infliggere agli animali sofferenze ‘non necessarie’176. Queste due affermazioni sono alla base del “principio del trattamento umanitario”, divenuto una parte fondamentale della cultura occidentale sin dalla fine del diciannovesimo secolo, in base al quale è possibile preferire l’interesse umano su quello animale, ma solo quando è necessario e nel farlo non dobbiamo infliggere agli animali sofferenze non necessarie. Questo principio è incarnato in tutta la legislazione riguardante gli animali presente nei paesi Occidentali e si spiega non solo in base al fatto che l’esercizio di violenza gratuita verso gli animali si tradurrebbe in rapporti umani violenti, ma anche in quanto crediamo che sia sbagliato nei confronti degli animali stessi. Per capire quando un particolare utilizzo degli animali vada considerato necessario in base a tale principio, occorre bilanciare l’interesse degli umani e dei non umani: quando la bilancia pende dalla nostra parte, consideriamo quell’utilizzo necessario; diversamente, lo consideriamo non necessario e pertanto non moralmente giustificabile. Evidentemente, tale bilanciamento non è un’operazione precisa e su di essa è possibile che ci sia del disaccordo tra le persone, ma, in ogni caso, se prendiamo seriamente il divieto morale di infliggere sofferenze non necessarie, dobbiamo considerare moralmente e legalmente sbagliato l’infliggere sofferenze agli animali meramente per il nostro divertimento o piacere – altrimenti il nostro divieto non avrebbe senso. Perciò, secondo il principio del trattamento 174 Una più stridente differenza di trattamento è evidenziabile considerando le cure che molti animali domestici ricevono da padroni che poi non esitano a cibarsi di altri cadaveri: da una parte si compra il cappottino al cane, antropomorfizzandolo; dall’altra, si mangiano bistecche come se fossero delle cose, quindi reificando altri animali: due estremi incompatibili tra loro. B. De Mori, cit., p. 13. 175 Se la mia casa sta andando a fuoco e all’interno vi sono imprigionati il mio cane e mio figlio, è molto probabile che, dovendo scegliere, cercherò di salvare mio figlio. E’ molto probabile che ragioneremmo così anche se quell’essere umano non fosse mio figlio, e anche se quell’individuo fosse un personaggio che non apprezziamo. G. L. Francione, cit., introduzione. 176 Una rilevante maggioranza delle persone sente che gli animali, come noi e contrariamente a quanto accade alle piante e alle pietre, sono senzienti –sono cioè coscienti e possono avere esperienze di dolore e sofferenza. Per questo, come noi, i non umani senzienti hanno un interesse nel non avere simili esperienze. Ibidem. 63 umanitario, l’utilizzo degli animali è ammesso solo quando risulta necessario –in casi di emergenza, in cui non c’è un’alternativa praticabile- e in tali situazioni si dovrebbe imporre all’animale solo la minima quantità di dolore e sofferenza. Il principio del trattamento umanitario è stato sviluppato in un contesto estremamente refrattario a riconoscere persino le più ovvie esigenze dei non umani. Fino a prima del diciannovesimo secolo, la cultura occidentale era del tutto estranea a ogni considerazione circa lo status morale degli animali e il loro permanere all’esterno della comunità morale non veniva assolutamente messo in discussione. La teoria di Cartesio, secondo cui gli animali non dovevano essere considerati diversamente da meccanismi automatici, perciò i loro lamenti e urla di dolore non erano dissimili dai rumori delle macchine non ben oleate177, dominava la scena assieme a quella di Kant, per il quale gli animali non erano delle macchine, bensì esseri senzienti, ma nei loro confronti gli esseri umani non potevano avere dei doveri in quanto si trattava di esseri non razionali, privi di coscienza, meri strumenti in mano all’uomo per raggiungere i suoi scopi178. Quest’approccio si rispecchiava nella legislazione, priva, fino al diciannovesimo secolo, di norma riguardanti il comportamento da tenere verso i non umani179, salvo talune regolamentazioni che condannavano gli atti di crudeltà verso gli animali in quanto contrari alla morale pubblica o forieri di sviluppo di comportamenti violenti verso altre persone180. Gli scritti di Jeremy Bentham costituirono una rivoluzione in tal senso: il filosofo inglese, padre dell’utilitarismo, affermò che la presenza di numerose differenze tra umani e animali è affiancata al possesso di una fondamentale capacità comune: quella di soffrire181. Tale 177 René Descartes, Discourse on the Method, Part V [1637], in John Cottingham, Robert Stoothoff, Dugald Murdoch, trad., The Philosophical Writings of Descartes, vol. 1, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 139. Teorie di questo tipo, che ripropongono un approccio di assoluta indifferenza nei confronti dei non umani, sono presenti anche nel panorama odierno. L’esponente principale del revival neocartesiano è Peter Carruthers, secondo il quale “gli animali non sono coscienti perché uno stato mentale cosciente, in quanto opposto a uno non cosciente, è solo uno stato mentale disponibile per il pensiero cosciente, laddove un pensiero cosciente è un evento che può essere a sua volta pensato consciamente”. Peter Carruthers, “Brute Experience”, in The Journal of Philosophy, 86/1989, pp. 258-269, citato in Paola Cavalieri, La Questione Animale: Per Una Teoria Allargata dei Diritti Umani, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 59. La filosofa sottolinea l’evidente circolarità e discutibilità di tali affermazioni, le cui premesse fondamentali sono state difatti criticate da molti autori. 178 Immanuel Kant, Lectures on Ethics, trans. Louis Infield, New York, Harper Torchbooks, 1963, p. 240; P. Cavalieri, cit., p. 62. 179 Gary Lawrence Francione, Animals, Property and the Law, Philadelphia, Temple University Press, 1995, pp. 121-133. 180 Si tratta della “tesi della crudeltà”: si sanzionavano alcune violenze sugli animali solo perché considerate un tirocinio per la violenza sugli esseri umani. Su questa teoria, vedi Tommaso D’Aquino, Somma Teologica I-II, Domenicani Italiani, 2002; Immanuel Kant, Dei Doveri Verso gli Animali e gli Spiriti, in Lezioni di Etica, Laterza, Roma-Bari, 1971; citati in B. De Mori, cit., p. 21. 181 Jeremy Bentham, The Principles of Morals and Legislation, cap. XVII, vol. IV [1781], Amherst, N.Y., Prometheus Books, 1988, p. 310. 64 elemento fa sì che, secondo Bentham, il dovere umano di non infliggere sofferenze non necessarie agli animali sia un dovere diretto verso di loro, non verso altri umani, e sia basato esclusivamente sul loro essere senzienti –e non su altre caratteristiche. Tali teorie sono alla base del principio del trattamento umanitario, che dalla metà dell’Ottocento in poi si diffuse in tutti gli ordinamenti dei paesi Occidentali rendendo possibile l’introduzione di norme a tutela del benessere animale ispirate ad esso182. Tali norme avevano lo scopo di proteggere gli animali dalla crudeltà e, almeno in parte, riconoscevano la presenza di doveri verso gli animali in base alla loro capacità di provare dolore. La maggior parte di queste norme, in particolare riguardo ai loro principi ispirativi, non è cambiato granché nel tempo. Il problema è che, a fronte delle due affermazioni condivise dalla gente e del principio di tutela incarnato nella legislazione, il nostro utilizzo degli animali non li rispecchia minimamente. La maggior parte degli utilizzi degli animali da parte degli esseri umani può essere giustificata solo da abitudini, convenzioni, divertimento, convenienza, piacere; esse sono pertanto completamente non necessarie in qualunque modo noi interpretiamo la nozione di necessità. Trattiamo ogni interazione umano/animale come un caso di emergenza, che richiede la scelta tra salvare degli umani e salvare degli animali, quando nella stragrande maggioranza dei casi la situazione non può essere assolutamente descritta in questi termini: è il caso della zootecnia (infliggiamo dolore e sofferenze per assaporare il gusto della carne)183, della caccia (infliggiamo dolore e sofferenza per passare il tempo libero in qualche modo)184, della pesca (infliggiamo dolore e sofferenze perché, tra l’altro, non ne udiamo i segnali)185, di circhi, zoo, rodei, corride, competizioni tra animali, spettacoli (infliggiamo dolore e sofferenza per divertirci)186, delle pellicce (infliggiamo dolore e sofferenza per essere trendy)187. Evidentemente, il nostro decidere di partecipare a tali attività (partecipandovi in prima persona o finanziandole con i nostri acquisti) non ha assolutamente niente a che vedere con un caso di emergenza in cui si debba scegliere tra salvare un umano oppure un animale. Per quanto riguarda la sperimentazione scientifica, 182 La Gran Bretagna è stato il primo paese a introdurre questo tipo di norme, che inizialmente si sono riferite alla sperimentazione scientifica. G.L. Francione, Animals, Property,…, cit., p. 7. 183 Ibidem, pp. 9-17. 184 Ibidem, pp. 17-21. 185 Ibidem, pp. 21-22. 186 Ibidem, pp. 22-28. 187 Ibidem, pp.28-30. 65 considerarla come una situazione di emergenza che implica una scelta simile è nel migliore dei casi semplicistico, se non semplicemente falso188. Francione ritiene che il motivo per cui permanga quest’incredibile incoerenza tra ciò che affermiamo e ciò che facciamo è che gli animali sono delle PROPRIETA’, delle cose che possediamo, al pari di un orologio, una sedia o un paio di scarpe: pertanto, secondo la legge, non hanno valore al di là di quello che NOI umani accordiamo loro, in base a quanto servono a produrre un certo risultato189. Lo status di proprietà degli animali non è evidentemente una novità. Quel che è interessante, anzi, è che l’evidenza storica mostra come l’addomesticamento degli animali e la loro proprietà siano stati dei processi contemporanei allo sviluppo delle stesse idee di proprietà e di moneta190. Lo status di proprietà degli animali è particolarmente importante nella cultura occidentale per due motivi: in primo luogo, i diritti di proprietà hanno uno status speciale, anzi sono forse situati tra i diritti più importanti; in secondo luogo, il concetto occidentale di proprietà è esplicitamente collegato allo status degli animali come risorsa indicato nella Bibbia, come ha evidenziato John Locke, il filosofo che più ha influenzato la nostra visione dei diritti di proprietà191. Egli sostiene che tutti i diritti di proprietà derivano dal dono divino del dominio sugli animali testimoniato dalla Genesi: la sua idea per cui un diritto di proprietà dà al proprietario il diritto di utilizzo e di controllo esclusivo dell’oggetto –il fondamento della moderna teoria dei diritti di proprietà- trae pertanto origine nel controllo e nell’uso esclusivo degli animali che Dio avrebbe dato agli umani192. Le teorie di Locke hanno avuto un’influenza straordinaria sulla common law britannica 188 Ibidem, 2°capitolo. L’interesse umano a considerare gli animali come delle proprietà è tanto forte che anche quando alcune persone si rifiutano di considerare i loro animali (per lo più cani e gatti, o altri pets) come mere “proprietà” e al contrario li riconoscono come membri della propria famiglia la legge, generalmente, rifiuta di riconoscere questa relazione. Ibidem, p. 24. 190 La parola cattle (bestiame, in inglese), ad esempio, viene dalla stessa radice della parola capitale. Il termine spagnolo che indica la proprietà è ganaderia; il termine usato per designare il bestiame è ganado. La parola latina indicante il denaro è pecunia, derivante da pecus, che significa bestiame. Jeremy Rifkin, Ecocidio: Ascesa e Caduta della Cultura della Carne, Milano, Mondadori, p. 28, citato in G.L. Francione, Animals, Property,…, cit., , p. 51. 191 Locke si rende conto che, secondo la Bibbia, Dio ha creato la terra e le sue risorse, animali compresi, per l’uso comune da parte degli umani. Ma se si trattasse solo di questo, come giustificare l’appropriazione privata di alcune di queste risorse senza infrangere la legge divina? Locke elabora perciò la teoria per cui attraverso il “lavoro” si stabiliscono “naturali” diritti di proprietà su parti della proprietà comune. John Locke, Two Treatises of Government, ed. Peter Laslett, Cambridge, Cambridge University Press, 1988. Ovviamente per gli animali vale il medesimo discorso: non sono altro che risorse come le altre, a disposizione del lavoro umano (cioè lo sfruttamento). G.L. Francione, Animals, Property,…, cit., pp. 51-54. 192 John Locke, The False Principle and Foundation of Sir Robert Filmer, and his Followers, are Detected and Overthrown (“First Treatise”), in Locke, Two Treaties of Government, cit., p. 209. 189 66 (nonché sulle norme del resto d’Europa) e, di conseguenza, sul sistema esportato negli Stati Uniti. Pertanto, visto che il concetto ormai internazionalmente condiviso di proprietà non è mutato, le nostre leggi considerano gli animali alla stregua di automobili o mobili, per quanto riguarda i diritti di proprietà su di loro. Questo status preclude ogni significativo riconoscimento del diritto degli animali a non soffrire, così come invece riconosce loro il principio del trattamento umanitario; esso, difatti, rende del tutto privo di significato ogni bilanciamento che il principio del trattamento umanitario richiederebbe, in quanto ciò che ci troviamo a bilanciare è costituito dagli interessi dei proprietari contro gli interessi della loro proprietà (vivente): ciò ci sembra palesemente assurdo, perché diamo per scontato che la proprietà non abbia diritti o doveri né sia vincolata da regole particolari193 –tranne specifiche eccezioni-. Siccome gli animali sono delle proprietà, e siccome abbiamo un grandissimo rispetto per i diritti di proprietà, abbiamo già deciso –prima di iniziare il nostro processo di bilanciamento- che risulta moralmente accettabile usare gli animali per ogni utilizzo immaginabile. Visto che gli animali costituiscono delle mere proprietà, ci permettiamo tranquillamente di ignorare i loro interessi e di infliggere loro i più orrendi dolori e le più insopportabili sofferenze, o la morte, ogni qual volta ci sembri economicamente vantaggioso. Se gli animali sono delle proprietà, sarà SEMPRE necessario decidere contro gli animali per proteggere il diritto umano di proprietà. Difatti, generalmente (attraverso le norme sulla “protezione degli animali”) non si mette in discussione la necessità o meno di utilizzare gli animali per un certo scopo, bensì solo la liceità o meno di singole pratiche facenti parte di tali utilizzi, la cui necessità non è mai in gioco194. Perciò, consideriamo necessaria’ OGNI sofferenza che possa produrre qualche tipo di risultato per gli esseri umani, anche se l’obiettivo è la mera convenienza o il piacere: visto che gli animali sono una nostra proprietà, trattiamo OGNI interazione tra umani e animali come se far vivere l’uno significasse sacrificare l’altro. Non ha alcuna importanza il fatto che ad essere “bilanciati” siano gli interessi umani più frivoli a fronte di interessi animali fondamentali, come quello a non soffrire e a non morire. Non c’è una vera scelta da fare tra il beneficio per gli animali e il beneficio per gli umani, non c’è nessun bilanciamento da compiere, perché l’esito è scontato: la scelta è già fatta in partenza in base allo status di proprietà degli animali195. 193 Jeremy Waldron, The Right to Private Property, Oxford, Clarendon Press, 1988, p. 27. G.L. Francione, Introduction to…, cit., p. 55. 195 Quando si parla di esseri umani, non tutte le loro azioni possono essere qualificate come necessarie o non necessarie. Il motivo è che gli umani hanno certi diritti che proteggono i loro interessi e tali interessi sono semplicemente esclusi dal bilanciamento. Nel caso degli animali, invece, ogni loro interesse da noi 194 67 Nonostante la presenza di normative “di protezione del benessere animale” e di regolamenti “contro la crudeltà”, le attività permesse dalla legge si situano di gran lunga al di là del significato che normalmente attribuiamo a concetti come “benessere” e “crudeltà”: tali norme pertanto non garantiscono alcun livello significativo di protezione196. La teoria a cui si ispirano le normative concernenti gli animali, che modella la loro condizione e rende possibile le più clamorose violazioni del principio del trattamento umanitario è detta welfarismo legale. Sulla base di tale approccio, le cui assunzioni fondamentali raramente sono oggetto di discussione in ambito legale197, nonostante la legge proibisca di infliggere sofferenze non necessarie agli animali e richieda un loro trattamento umanitario, questi termini vengono correntemente interpretati alla luce dello status legale degli animali come proprietà, dell’importanza della proprietà nella cultura occidentale e della tendenza, da parte della giurisprudenza, a proteggere e massimizzare il valore della proprietà. Il risultato è che le leggi regolanti l’utilizzo degli animali si limitano ad imporre le modalità di trattamento che risultano più economicamente efficienti per chi sfrutta gli animali. Il welfarismo legale si limita a riconoscere agli animali solo un “interesse” (quello a non essere usati “impropriamente” come proprietà) che è impossibile considerare un “diritto” nell’accezione specifica del termine, cioè un tipo di protezione immune da considerazioni di tipo consequenziale198. Questo fallimento può essere spiegato in base a cinque principali motivazioni: riconosciuto è soggetto al compromesso –in quanto essi non sono titolari di diritti. G. L. Francione, Animals, Property,…, cit., p. 23. 196 G. L. Francione, Animals, Property,.., cit., parte II e III. 197 Ad esempio, gli assunti secondo cui gli animali esistono solo come mezzi utilizzabili dagli umani per i propri scopi e non hanno interessi sono oscurati dal principio normativo secondo cui lo sfruttamento degli animali è senza dubbio permesso fin quando viene esercitato il più “umanamente” possibile. Ibidem, p. 12. Il welfarismo legale ha quattro componenti di base, tra loro interrelati: 1. Gli animali sono una proprietà degli esseri umani. L’unica differenza tra gli animali domestici, che, per definizione, devono essere posseduti da qualcuno, e gli animali selvaggi è che in quest’ultimo caso la proprietà degli animali è dello stato e può essere trasferita a proprietari privati. 2. Il welfarismo legale interpreta lo status di proprietà degli animali nel senso di giustificare il loro trattamento da parte degli umani esclusivamente come mezzi per fini umani. 3. Il welfarismo legale ritiene che l’utilizzo degli animali sia necessario ogni qualvolta sia parte di un’istituzione sociale generalmente accettata. 4. Il welfarismo legale non intende la “crudeltà” nel senso in cui il termine è utilizzato nel linguaggio comune; nella maggior parte dei casi, considera crudeli le sole pratiche che non facilitano, o impediscono, lo sfruttamento degli animali. Di converso, le pratiche accettate sono tutte quelle che aumentano il valore economico degli animali posseduti. La crudeltà, in quest’accezione, diventa “una questione giustificata dai costi”. Ibidem, pp. 26-27. Difatti, le linee-guida per la macellazione emanate dall’American Meat Institute affermano esplicitamente che, nonostante talune modifiche nei procedimenti di macellazione migliorino il “benessere animale”, il loro obiettivo primario è quello di raggiungere un procedimento “efficiente e profittevole”. Temple Grandin, Recommended Animal Handling Guidelines for Meat Packers, American Meat Institute, 1991, p. 1, citato in Ibidem, pp. 32-33. 198 Ibidem, p. 114. 68 • La maggior parte di queste leggi contiene delle esplicite eccezioni riguardanti le attività di sfruttamento più comuni. Pertanto, la supposta protezione si attiva esclusivamente in casi marginali199. • Anche quando queste normative non escludono esplicitamente taluni settori di sfruttamento, la giurisprudenza (statunitense e britannica) ha esteso il campo di applicazione delle eccezioni ai casi più comuni di abuso degli animali200 tramite nozioni di questo tipo: “scopo legittimo”, “diffusa credenza circa l’utilità della pratica”, “pratica comune”, “facilitazione dell’uso ordinario a cui l’animale è designato”201. • Molte leggi di prevenzione della crudeltà verso gli animali, di natura penale, richiedono che l’imputato agisca in preda ad un particolare stato mentale, che nella maggior parte dei casi è difficile da provare202. • La legge presume che i proprietari di animali agiscano nel proprio interesse (economico) non infliggendo loro più sofferenza di quanto “necessario” in quanto ciò determinerebbe una diminuzione del valore economico della loro proprietà203. • L’esecuzione delle sentenze emesse nell’ambito delle norme di protezione degli animali e delle norme anti-crudeltà risulta estremamente difficoltosa, così come la stessa applicazione della legge204. 199 Il caso più eclatante è quello della legge del Kentucky, negli Stati Uniti: è proibita l’uccisione di ogni animale –si tratta della proibizione più stringente in tutti gli Stati Uniti- AD ECCEZIONE delle seguenti attività: caccia, pesca, cattura, zootecnia o “altri scopi commerciali”, l’uccisione “per scopi umani”, l’uccisione per ogni obiettivo autorizzato, l’addestramento di cani. E’ inevitabile chiedersi cosa rimanga di rilevante in una norma siffatta. G.L. Francione, Introduction to…, cit., p. 56. 200 Molti giudici, negli Stati Uniti in particolare, hanno considerato legali molti trattamenti, palesemente crudeli, qualora questi facilitassero l’utilizzo degli animali per un obiettivo condiviso dalla società, una “tradizione”, e così via. Nel caso degli animali allevati a fini alimentari, molte corti hanno affermato che il dolore e la sofferenza inflitta è necessaria quando l’obiettivo è “rendere l’animale più facilmente utilizzabile dall’uomo”. Nel caso degli animali utilizzati nella sperimentazione scientifica, si è affermato che dolori e sofferenze inflitte dall’uomo non sono necessari solo quando lo sperimentatore agisce in un modo tale per cui la ricerca scientifica ne risulta danneggiata. Ibidem, p. 58. 201 Ibidem, pp. 58-63. 202 Nell’ambito delle leggi anti-crudeltà (penali) dei singoli stati americani, occorre provare oltre ogni ragionevole dubbio non solo che l’imputato ha imposto dolori e sofferenze all’animale, ma anche che si è comportato intenzionalmente, negligentemente, volontariamente, dolosamente, coscientemente o incautamente. Il problema è che se un imputato infligge sofferenze ad un animale nell’ambito di una pratica istituzionalizzata è molto difficile provare –soprattutto, provare oltre ogni ragionevole dubbio- che l’imputato ha agito con lo stato mentale richiesto. Ibidem, p. 64. 203 Sentenze Ford vs. Wiley (1889); Commonwealth vs. Barr (1916); Commonwealth vs. Vonderheid (1962); ibidem, pp. 66-67. 204 Fino a pochi anni fa, la maggior parte degli stati puniva le violazioni delle leggi a favore degli animali comminando pene pecuniarie, per lo più irrisorie, o al massimo con un anno di carcere; anche in questi casi, la pena massima non veniva mai erogata. Ci sono tre motivi che spiegano quest’impunità di fatto: tali norme, come si è visto, non si applicano alle fattispecie in cui gli abusi sugli animali sono più frequenti; la società appare riluttante a considerare criminale una persona in base a cosa questi ha fatto con la sua proprietà; nel caso in cui gli animali vittime dell’abuso non sono proprietà di nessuno che li valuta, essi sono senza valore, pertanto, ancora una volta, la società appare riluttante a considerare criminale chi distrugge ciò che non è 69 Sulla base del reale peso della legislazione riguardante gli animali, è evidente come il principio del trattamento umanitario non trovi una reale applicazione; appare, pertanto, inutile ai fini della protezione degli animali non umani. La legge ammette le più sadiche torture, se ciò risulta economicamente conveniente o se proviene dalla tradizione; l’unico caso in cui la legge sanziona l’inflizione di sofferenze ad un animale si ha quando quest’abuso si svolge al di fuori di pratiche istituzionalizzate, non produce benefici correlati al diritto di proprietà ed è motivato esclusivamente “dalla gratificazione di un temperamento malvagio o vendicativo”205, quando cioè si tratta di sofferenze inflitte in modo del tutto gratuito. Ma si tratta di casi inusuali, che costituiscono una parte minuscola delle vicende in cui un animale subisce dei tormenti. In particolare, il medesimo atto può essere proibito o consentito a seconda di quanto faccia parte di una pratica istituzionalizzata, o in base a chi lo attua (pertanto, tutto è possibile nei laboratori di ricerca206). La situazione è incredibilmente paradossale: nonostante una quantità rilevantissima di leggi a tutela degli animali, mai esistita prima d’ora, il loro trattamento non è mai stato così terribile (sia in termini numerici che qualitativi)207. Finché gli animali saranno una proprietà di qualcuno, non ci potranno essere legislazioni che tutelino il loro interesse a non soffrire, in quanto tali norme si porrebbero in serio conflitto con i possessori degli animali stessi. Lo status degli animali come proprietà rende privo di significato l’affermazione per cui gli animali non sono oggetti; il trattamento a loro riservato non ha nulla di differente da quello rivolto alle cose inanimate. Alla luce di tale status, non ci può essere un vero bilanciamento tra interessi umani e animali: questi ultimi hanno sempre un prezzo e possono essere commercializzati come gli oggetti; qualunque restrizione che venisse imposta nei confronti di un proprietario di animali verso i suoi “beni” non avrebbe alcun effetto positivo sul trattamento degli animali208. Di fatto, non c’è limite a quello che gli umani possono fare con gli animali senza incorrere nelle maglie della giustizia209. Secondo Francione, abbiamo solo due alternative coerenti quando affrontiamo l’argomento dello status morale degli animali: continuare a permettere gli orrori attuali e negare tale posseduto da nessuno. Un altro problema è costituito dalla possibilità di agire in giudizio (standing): gli animali sono oggetti di proprietà e non sono soggetti di azioni legali, non possono evidentemente adire il giudice a loro nome, e la possibilità che degli esseri umani –organizzazioni a difesa degli animali o singoli cittadini- adiscano il giudice per una violazione delle norme a tutela degli animali stessi è estremamente limitata. Ibidem, pp. 67-70; G. L. Francione, Animals, Property,…cit., capitolo 4. 205 Sentenza Commonwealth vs. Lufkin (1863), citata in G.L. Francione, Introduction to…, cit., ., p. 71. 206 Ibidem, pp. 70-73. 207 Ibidem, p. 75. 208 G. L. Francione, Animals, Property…, cit., p. 13. 209 G. L Francione, Introduction to…, cit., p. 80. 70 status, riconoscendo il loro valore esclusivamente in termini economici e di utilità verso gli umani (quindi abbracciando l’idea di Cartesio e di Locke ed eliminando una legislazione falsamente a favore del principio del trattamento umanitario210), oppure mantenere il principio secondo cui gli animali hanno interessi moralmente rilevanti a non soffrire, ma ciò implica necessariamente una considerazione significativa del principio del trattamento umanitario: l’inflizione di ogni sofferenza agli animali perciò va sempre giustificata sulla base di un principio moralmente valido. Se si vogliono prendere seriamente in considerazione gli interessi animali ed evitare realmente le sofferenze non necessarie, possiamo farlo solo applicando il “principio dell’eguale considerazione degli interessi” agli animali. Questo non implica che gli animali debbano essere considerati allo stesso modo degli umani, né che essi siano uguali a noi in tutti gli aspetti. Significa solo che se gli umani e gli animali hanno interessi simili –e abbiamo visto che la maggior parte di noi lo pensa- dobbiamo trattare questi interessi allo stesso modo, a meno che non ci sia una buona ragione per non farlo. Ciò significa che non dobbiamo trattare gli animali (come facciamo tra noi umani) esclusivamente come mezzi per raggiungere un fine: ed è questo che accade quando consideriamo gli animali delle proprietà. Del resto, è per questo motivo che riconosciamo agli esseri umani il diritto fondamentale a non essere la proprietà di qualcun altro; tale diritto, in base al principio dell’eguale considerazione degli interessi, dev’essere pertanto esteso agli animali. Tale principio non ha nulla di esotico o particolarmente complicato ma fa parte di ogni teoria morale e, allo stesso modo del principio del trattamento umanitario, è qualcosa che la maggior parte di noi accetta già: i casi analoghi vanno trattati in modo analogo (se tutti possiamo soffrire, allora tutti abbiamo il diritto a non soffrire). Tra gli umani c’è un’ampia gamma di interessi riguardo ai quali non ci sono neanche due persone uguali, ma tutti gli individui cerebralmente attivi e senzienti hanno un interesse a evitare il dolore e la sofferenza: è possibile credere che su questo tutti siano d’accordo. In particolare, tutti siano d’accordo nell’esistenza del diritto a evitare la sofferenza che risulterebbe dall’essere considerati la proprietà o lo strumento di qualcun altro. Difatti, il mondo è diviso da innumerevoli questioni etiche, ma almeno tutti i paesi del mondo 210 Il welfarismo legale richiede di bilanciare interessi animali non protetti da diritti e interessi umani protetti da diritti, in particolare quelli attinenti alla proprietà. In base alla legge, e in assenza di norme riguardanti l’uso degli animali di proprietà, questi ultimi sono trattati esclusivamente come mezzi per fini altrui. Regolare lo sfruttamento animale –ma anche solo la loro proprietà, se fosse possibile scindere i due elementinon crea diritti in capo alle vittime dello sfruttamento contro i loro proprietari. G. L. Francione, Animals, Property…, cit., p. 91. Le regolamentazioni riguardanti l’uso della proprietà non negano il suo valore strumentale; al contrario, tali norme mirano ad assicurare che l’uso strumentale della proprietà non interferisca con le attività di altre persone e non riconoscono in alcun modo il valore inerente del “bene”. Ibidem, p. 102. 71 proibiscono la schiavitù. E’ interessante notare come non sia proibita solo la schiavitù ‘disumana’: questa pratica impedisce di per sé di essere considerati come esseri umani. Quindi, il diritto a non essere di proprietà di altri è fondamentale nel senso che permette di esercitare tutti gli altri diritti; è una precondizione per il possesso di interessi moralmente significativi211. Il diritto a non essere di proprietà di altri implica il diritto a non essere visti esclusivamente212 come mezzi per fini altrui, come invece accade, appunto, alla proprietà, e quindi alle cose: se non riconosciamo questo diritto, nessun altro diritto ha significato, perché verremmo trattati come cose, e le cose non hanno diritti. Il diritto a non essere trattati come oggetti è un diritto di base, in quanto non riconoscendolo tutti gli altri diritti perdono significato. Non accade così con il diritto di proprietà: è possibile immaginare una società in cui esso non ha rilevanza –le società socialiste ci hanno provato, in passato- ma questo è impossibile per il diritto di base a non essere trattati esclusivamente come mezzi per il raggiungimento di fini altrui. Pertanto, un diritto non di base può essere sacrificato per assicurare un diritto di base, ma non può accadere il contrario senza che tutti i diritti siano sacrificati213. Per riconoscere alle persone l’esistenza di qualunque diritto, dobbiamo riconoscere loro l’esistenza del diritto a non essere trattati come degli oggetti, in quanto questo diritto di base è la condizione minima per far parte della comunità morale214. Il principio dell’eguale considerazione degli interessi ha tre caratteristiche: in primo luogo consiste in un principio formale, che non ci dice nulla su quali comportamenti adottare esattamente: si limita a dire che la considerazione morale dev’essere uguale in casi moralmente uguali; in secondo luogo, il principio dell’eguale considerazione degli interessi non impone di trattare tutti in modo “uguale” in tutti gli aspetti, perché ogni individuo è diverso dagli altri; in terzo luogo, tale principio è un componente necessario di ogni 211 Ibidem, p. 93. Francione ammette che l’essere considerati una proprietà di qualcuno non implica necessariamente una considerazione pari a quella di un oggetto inanimato, e che la proprietà potrebbe avere dei diritti in senso formale: si potrebbe decidere di garantire certi diritti agli animali continuando a considerarli delle proprietà. Il problema è che finché la proprietà resta, dal punto di vista legale, qualcosa che non può avere interessi o non può averne al di fuori del diritto dei proprietari ad utilizzarla, è probabile che ci sarà sempre una distanza tra ciò che la legge permette alle persone (nei confronti degli animali) e ciò che qualunque teoria morale, nonché la decenza, considera appropriato. E’estremamente difficoltoso ottenere i diritti animali all’interno di un sistema in cui gli animali sono visti come oggetti di proprietà. Ibidem, p. 14. 212 Esclusivamente perché tutti noi possiamo essere usati anche come mezzi per la realizzazione di fini altrui. Quando chiamiamo un idraulico, noi vediamo questa persona come lo strumento per risolvere un nostro problema e lo paghiamo per questo; a sua volta, l’idraulico ci vede come mezzi per soddisfare il suo bisogno di denaro. Non per questo vediamo l’idraulico come un individuo meramente strumentale; resta sempre una persona. 213 Henry Shue, Basic Rights, seconda edizione, Princeton, Princeton University Press, 1996, pp. 19-21. 214 G. L. Francione, Animals, Property…, cit., p. 95. Un altro modo per dire la stessa cosa è affermare che gli individui hanno valore inerente, come fa Regan. Si tratta solo di un altro nome con cui chiamare il criterio necessario a far parte della comunità morale. Il concetto di valore inerente riflette il fatto che tutti gli esseri umani (e molti animali) valutano sé stessi anche se nessun altro li valuta, e che essi non possono pertanto essere considerati esclusivamente come mezzi per la soddisfazione di obiettivi altrui. Alla luce di questa necessità, gli individui dotati di valore inerente ne hanno in eguale quantità. Ibidem, pp. 96-98. 72 teoria morale. Gli approcci che lo negano sono moralmente inaccettabili (lo sono idee come il razzismo, il sessismo, l’omofobia e lo specismo)215. Il principio dell’eguale considerazione degli interessi, come ogni teoria morale, include il principio del trattamento umanitario e richiede di bilanciare gli interessi degli umani e degli animali. Questi due principi sono strettamente connessi tra loro: nel momento in cui Bentham ha enunciato il secondo, ha considerato il primo (“Ognuno deve contare per uno e nessuno per più di uno”) come premessa irrinunciabile216. Pertanto, una legislazione che afferma di ispirarsi al secondo ma nega il primo, in base allo status degli animali come proprietà – che fa sì che l’interesse della proprietà non possa mai essere giudicato simile a quello del proprietario- è incoerente e inutile: ne abbiamo già avuto una prova, in passato, in quanto l’istituzione della schiavitù umana era avvolta dal medesimo principio e risultava parimenti del tutto fallimentare217. Se applichiamo il principio dell’eguale considerazione degli interessi agli animali, dobbiamo estendere loro il diritto fondamentale che riconosciamo agli esseri umani: quello a non essere trattati come cose. Perciò, dobbiamo assicurare agli animali il diritto a non essere delle proprietà in mano ad altri, utilizzabili esclusivamente come strumenti per il soddisfacimento di scopi altrui. Ma come il nostro riconoscere tale diritto agli umani ci porta a vietare non solo la schiavitù ‘non umana’ ma la schiavitù di per sé (allo stesso modo di ogni altra idea per cui degli esseri umani debbano essere considerati esclusivamente come mezzi per raggiungere dei fini altrui)218, allo stesso modo il nostro riconoscere tale diritto agli animali ci deve portare ad ABOLIRE, e non più solo a regolare in senso più ‘umano’, il nostro attuale sistema di sfruttamento degli animali per fini alimentari, ‘ricreativi’, scientifici, ecc. Se intendiamo seriamente lo status morale degli animali non c’è altra scelta da fare; non c’è una “terza via” tra il considerare gli animali come cose e il considerarli come dotati dell’interesse moralmente rilevante a non soffrire, 215 G. L. Francione, Introduction to…, cit., p. 83. Ibidem, p. 86. 217 Ibidem, pp.86-87. Nonostante le innumerevoli analogie tra l’odierno trattamento degli animali e la schiavitù del passato, i non umani si trovano in una situazione ancora peggiore dal punto di vista legale, in quanto non possono comprare la propria libertà come invece era possibile per gli schiavi. G. L. Francione, Animals, Property,…, cit., p. 112. 218 L’uso da parte dei nazisti di esseri umani in esperimenti medici portò la comunità internazionale a emanare il Codice di Norimberga, che proibì la conduzione di ricerche su persone non consenzienti. Nel 1964 la World Medical Association adottò la Dichiarazione di Helsinki, che vietò ugualmente l’utilizzo di umani come soggetti di sperimentazione in mancanza di consenso informato. Nel maggio 1997, Bill Clinton chiese scusa ai sopravissuti degli esperimenti sulla sifilide finanziati dal governo federale condotti su uomini di colore in Alabama dal 1937 al 1972. Allo stesso modo, il governo statunitense condannò gli esperimenti sulla radioattività condotti tra il 1944 e il 1974 su militari, pazienti di ospedali, bambini, donne incinte e prigionieri che non erano stati correttamente informati sulla natura degli esperimenti subiti. Michele D’Antonio, “Atomic Guinea Pigs”, New York Times, 31/08/1997, p. 38, citato in G. L. Francione, Introduction to…, cit., pp. 89-92. 216 73 quindi come “persone”219. Questa posizione è radicale nel senso che ci impone un cambiamento imponente nello status quo, visto che le nostre abitudini sono legate a doppio filo allo sfruttamento degli animali non umani; tuttavia, questa posizione si può considerare anche conservatrice, in quanto consegue da un principio morale che abbiamo già affermato di accettare –quello per cui è sbagliato infliggere sofferenze non necessarie agli animali. Se questo principio dev’essere preso sul serio, e se gli animali non sono delle cose moralmente indistinguibili dagli oggetti inanimati, allora dobbiamo interpretare il divieto di infliggere sofferenze non necessarie agli animali allo stesso modo in cui lo interpretiamo nei riguardi degli esseri umani: come non ha funzionato la schiavitù, nell’immaginare un’opzione a metà tra persone e cose, così non funziona l’attuale status legale degli animali, in quanto impedisce loro di esseri considerati in base al loro status morale220. C’è molta confusione riguardo al discorso sullo status morale degli animali: ciò deriva in primo luogo dall’opinione sbagliata, abbastanza diffusa, per cui riconoscere i diritti animali porterebbe ad assegnare agli animali i nostri stessi diritti; in secondo luogo, dal fatto che si parla di diritti animali anche quando si vogliono descrivere proposte per diminuire la sofferenza degli animali sottoposti al nostro sfruttamento. La prima opinione è errata: di certo non è possibile riconoscere agli animali il diritto di voto o quello di guidare un’auto, così come non sarebbe possibile riconoscere ad una persona ipovedente il diritto di pilotare un aereo; siamo invece moralmente obbligati a riconoscere loro solo il diritto a non essere trattati come oggetti di proprietà degli esseri umani. Il secondo elemento è ingannevole: non c’è evidenza empirica del fatto che la regolamentazione dello sfruttamento degli animali conduca all’abolizione dello sfruttamento stesso. C’è una ragione moralmente rilevante per giustificare il nostro assicurare il diritto a non essere trattati esclusivamente in modo strumentale a tutte le persone e invece negarlo agli animali, trattandoli di conseguenza come meri oggetti? Sono quattro gli argomenti più frequenti utilizzati per tentare di giustificare questa disparità di trattamento: • Gli animali non hanno per niente degli interessi perché non sono coscienti e non possono provare dolore. E’ l’argomento utilizzato per primo da Cartesio, che 219 Il termine “persona” e il termine “umano” non sono sinonimi: questa differenza si evidenzia nei dibattiti sull’aborto, in quanto di certo un embrione ai primissimi stadi del suo sviluppo è umano, in quanto le cellule di cui è composto provengono da umani, ma non è una persona, in quanto non è dotato di interessi moralmente rilevanti, dato che non può soffrire. Ibidem, p. 100. 220 Ibidem, p. 102. 74 mostra la sua totale inconsistenza davanti alla più semplice osservazione empirica221. • Gli animali sono spiritualmente inferiori agli esseri umani e, anche se possono avere l’interesse a non soffrire, Dio ci ha permesso di ignorare tale interesse, in quanto ha creato gli animali per il beneficio umano. Quest’idea proviene dalla tradizione giudaico-cristiana, che ha influenzato pesantemente la considerazione degli animali e della proprietà nei paesi occidentali (la teoria di John Locke sul diritto di proprietà si ispira proprio a questo principio), e di fatto è ancora molto diffusa. Si tratta, tuttavia, di una visione moralmente insignificante almeno per tre motivi: richiede di credere letteralmente nella Creazione del mondo così come raccontata dalla Bibbia; richiede di interpretare tale leggenda nel senso che l’affidamento degli animali all’essere umano da parte di Dio equivale a rendere lecito ogni tipo di sfruttamento umano su di essi –quando molti passi della Bibbia contengono prescrizioni a favore degli animali; richiede l’accettazione, da parte di coloro che credono in questa visione, di tutti gli altri comportamenti discriminatori considerati leciti dal racconto biblico –come la schiavitù e lo sfruttamento delle donne e dei bambini. In realtà, riferirsi alla Bibbia per trovare una giustificazione sufficiente a sostegno di una certa posizione morale è arbitrario, perciò motivazioni come queste non possono essere accettate. • Gli animali sono inferiori agli esseri umani perché questi ultimi hanno delle capacità speciali non condivise dagli animali (ragione, formazione di concetti generali, autocoscienza, linguaggio, emozioni, capacità di creare utensili, possesso delle idee di bene e male, capacità di fare contratti). Per questi motivi, tra gli uni e gli altri non c’è una mera differenza di grado, bensì di genere, che giustifica il nostro trattare gli animali esclusivamente come strumenti a disposizione dei nostri obiettivi. Ci sono due ragioni per cui queste supposte differenze moralmente non importano: in primo luogo la teoria dell’evoluzione. Darwin ha affermato chiaramente che “la differenza tra la mente umana e quella degli animali superiori, per quanto grande possa essere, è certamente una differenza di grado e non di genere” e ciò è supportato sia dal senso comune che dalla scienza222; la stessa 221 Ibidem, pp. 104-106. Donald R. Griffin, Animal Minds, Chicago, University of Chicago Press, 1992, pp. 248-249; Antonio R. Damasio, The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness, New York, Harcourt Brace, 1999, p. 16; Colin Allen and Marc Bekoff, Species of Mind: The Philosophy and Biology of Cognitive Ethology, Cambridge, MIT Press, 1997; Marc Bekoff and Dale Jamieson, Readings in Animal Cognition, Cambridge, MIT Press, 1996; Donald R. Griffin, Animal Thinking, Cambridge, Harvard 222 75 similarità è stata riscontrata a proposito del comportamento morale223. In ogni caso, tuttavia, l’essere dotati di una certa caratteristica di questo tipo non sembra avere alcuna rilevanza morale. In secondo luogo, nessuna caratteristica che noi identifichiamo con le peculiarità umane è posseduta solo dagli umani o è condivisa da tutti i membri di tale specie224. Ovviamente, noi siamo umani e gli animali no, ma il criterio specista è totalmente arbitrario e non si differenzia da ragionamenti sessisti, razzisti o omofobi. • Gli animali hanno valore inerente, ma in un grado inferiore rispetto agli esseri umani. Un giudizio simile non ha basi razionali e non si differenzierebbe da affermazioni dello stesso tenore riguardanti le donne, le persone di colore o gli omosessuali: si tratta di un giudizio di principio che esclude già in partenza l’applicazione agli animali (o donne /persone di colore /omosessuali ) del principio di eguale considerazione degli interessi e che perciò ha il solo scopo di considerare gli animali come meri strumenti. Inoltre, si tratta di un’affermazione contraddittoria: non si può allo stesso tempo avere valore morale ed essere dotati di un valore inerente inferiore, perché l’individuo dotato di valore inerente inferiore sarebbe necessariamente a rischio di essere trattato come una cosa225. Di fatto, pertanto, solo la specie distingue noi umani dagli animali, e ciò non costituisce un criterio moralmente in grado di giustificare l’enorme differenza di trattamento al pari del sesso, della razza, delle tendenze sessuali. Risulta pertanto evidente l’incoerenza delle motivazioni addotte per giustificare lo sfruttamento degli animali non umani da parte nostra. L’argomento presentato da Francione si distingue nettamente dalla teoria di Singer, rifiutata pressappoco per i medesimi motivi addotti da Regan, ma propone anche delle rilevanti modifiche rispetto alla teoria dei diritti di quest’ultimo. University Press, 1984; Carolyn A. Ristau, Cognitive Ethology: The Minds of Other Animals. Essays in Honour of Donald R. Griffin, Hillsdale, N.J., Lawrence Erlbaum Associates, 1991; Jonathan Leake, “Scientists Teach Chimpanzee to Speak English”, Sunday Times, London, 25/07/1999, Foreign News Section; Jeffrey Moussaieff Masson and Susan McCarthy, When Elephants Weep: The Emotional Lives of Animals, New York, Delacorte Press, 1995; Jeffrey Moussaieff Masson, Dogs Never Lie about Love: Reflections on the Emotional World of Dogs, New York, Crown Publishers, 1997; Jeffrey Moussaieff Masson, The Emperor’s Embrace: Reflections on Animal Families and Fatherhood, New York, Pocket Books, 1999. 223 Frans de Waal, Good Natured: The Origins of Right and Wrong in Humans and Other Animals, Cambridge, Harvard University Press, 1996, p. 218; Eugene Linden, The Parrot’s Lament and Other True Tales of Animal Intrigue, Intelligence and Ingenuity, New York, Dutton, 1999, pp. 19-20; Carl Sagan and Ann Druyan, Shadows of Forgotten Ancestors, New York, Ballantine Books, 1992, pp. 117-118. Tuttavia, occorre chiarire come non si intenda utilizzare elementi di questo tipo per giustificare la rilevanza morale degli animali non umani. G. L. Francione, Introduction to…, cit., pp. 116-119. 224 Ibidem, pp. 119-125. 225 Ibidem, pp. 127-128. 76 Francione rigetta l’utilitarismo delle preferenze in quanto, seppure Singer affermi di voler applicare agli animali il principio di equa considerazione degli interessi, non dice nulla sul loro status legale, quando invece l’estensione agli animali del principio suddetto esige di non considerarli come proprietà (cioè come oggetti). Come ha evidenziato la storia della schiavitù, infatti, è impossibile applicare il principio dell’eguale considerazione degli interessi quando tra i soggetti di una relazione vige un rapporto di proprietà: gli interessi dello schiavo varranno sempre meno di quelli del padrone, proprio perché il diritto di proprietà rende possibile l’utilizzo delle cose possedute come strumenti per il raggiungimento di un fine. Inoltre, Francione rigetta l’idea per cui animali e umani condividono l’interesse a non soffrire ma non l’interesse a continuare a vivere in quanto i non umani mancano di autocoscienza, pur essendo senzienti; per questo motivo, possono essere posseduti come proprietà e uccisi (purché senza dolore)226, mentre il loro interesse a non soffrire è protetto dal principio di eguale considerazione degli interessi. Questa prospettiva è problematica da adottare, perché se un essere è senziente, non c’è motivo per cui non sia autocosciente227, e soprattutto accetta una distinzione qualitativa tra gli umani e tutti gli altri animali che non impedisce l’utilizzo di questi ultimi come risorse rinnovabili, rendendo quindi impossibile considerare gli animali come soggetti di interesse morale –perciò, rendendo inapplicabile il principio dell’eguale considerazione degli interessi228. Difatti, non è possibile considerare 226 Ibidem, p. 133. Essere un essere senziente vuol dire avere un esperienza del benessere. In tal senso, tutti gli esseri senzienti hanno un interesse non solo nella qualità, ma anche nella quantità della loro vita. Gli animali possono non avere delle preferenze sulla quantità di anni che preferiscono vivere, ma preferiscono vivere. Infatti, l’essere senzienti non è un fine di per sé, ma è uno strumento da utilizzare allo scopo di restare in vita; è ciò che l’evoluzione ha prodotto allo scopo di assicurare la sopravvivenza degli organismi complessi. Il senso comune ci dice che se un animale lotta contro una minaccia alla sua vita, l’animale preferisce restare in vita. L’idea per cui l’essere coscienti (cioè senzienti) è distinguibile dall’essere autocoscienti suggerisce che un individuo potrebbe percepire dolore senza percepire che quel dolore viene esercitato su sé stesso: ma questo è palesemente assurdo. Inoltre, dire che un animale è autocosciente non significa dire che l’animale possiede necessariamente un’immagine di sé stesso: ci possono essere differenze tra come umani e animali riconoscono sé stessi –gli umani dall’immagine, i cani dall’olfatto, ad esempio- ma questo non significa che l’auto-riconoscimento è una peculiarità dell’essere umano. Ibidem, pp. 137-139. Differenziare gli umani sulla base dell’abilità a elaborare progetti per il futuro ignora che molti altri animali fanno la stessa cosa e soprattutto costruisce una gerarchia morale del tutto arbitraria: a livello morale, quale differenza fa la capacità di elaborare progetti per il futuro? Ibidem, p. 140. Le differenze tra esseri umani normali autocoscienti e animali autocoscienti possono essere interessanti da una prospettiva scientifica, ma non hanno alcuna rilevanza morale nel momento in cui la questione in gioco è quella di trattare gli animali e alcuni umani disabili come risorse a disposizione di altri o meno. Ibidem, p. 142. 228 Ibidem, pp. 133-134. I problemi della teoria di Singer sono molteplici: in primo luogo, per parlare di eguale considerazione degli interessi occorre avere a disposizione dei metodi per misurare le esperienze di individui di specie diverse e confrontarle, e questo è ovviamente difficoltoso; in secondo luogo, affermare che gli animali non hanno interesse a restare in vita equivale a dire che un essere umano e un animale non potranno mai stare sullo stesso piano riguardo ai rispettivi interessi a non essere trattati come risorse; in terzo luogo, il fatto che per Singer contino solo le conseguenze aggregative rende difficile affermare perché si dovrebbe abolire l’allevamento intensivo, visto che coinvolge la vita di tante persone; in quarto luogo, molte 227 77 gli animali non umani come risorse rinnovabili e contemporaneamente come soggetti dotati di interessi moralmente rilevanti229. Se Singer avesse realmente voluto applicare il principio di eguale considerazione degli interessi agli animali, avrebbe trattato casi uguali in modo uguale e accordato a questi interessi simili una simile protezione attraverso dei diritti (ma, come Regan ha già evidenziato e Francione ribadisce, l’utilitarismo in sé è incompatibile con la nozione di diritto, anche se Singer va al di là di questo problema230) . Una posizione simile richiederebbe l’abolizione dell’istituto della proprietà di animali, altrimenti, come è successo nella schiavitù umana, gli animali conteranno sempre e necessariamente meno di “uno” e l’applicazione del principio dell’eguale considerazione degli interessi agli animali sarà resa impossibile231; si continuerà ad applicare un doppio status morale verso gli animali umani e gli animali non umani: quello che Robert Nozick ha chiamato “utilitarismo per gli animali, kantismo per gli umani232”. In un situazione in cui il sistema legale mischia considerazioni fondate sui diritti con considerazioni di natura utilitaristica e una sola delle parti in causa ha dei diritti, il risultato del confronto è quasi sempre a favore del possessore di diritti e le considerazioni di natura utilitaristica servono unicamente gli interessi degli umani233. Francione riconosce alla teoria di Regan il merito di affermare l’esistenza dei diritti animali e di imporre moralmente non la mera regolamentazione bensì l’abolizione del loro sfruttamento. Tuttavia, la sua teoria non si estende a tutti gli esseri senzienti ma solo ai cosiddetti “soggetti-di-una-vita”, qualificati come tutti i mammiferi, umani compresi, mentalmente normali e di età superiore a un anno, dotati per questi motivi di importanti persone considererebbero inaccettabile l’utilizzo di anziani non coscienti e feti prossimi alla nascita o bambini piccoli come risorse a disposizione di altri; in quinto luogo, anche se la teoria di Singer portasse a un trattamento più “umano” degli animali, permetterebbe di utilizzarli in modi che non consideriamo appropriati per gli esseri umani. Gli animali, al pari degli umani, hanno l’interesse a non soffrire per niente da un loro utilizzo come risorse, a prescindere da quanto “umano” possa essere tale trattamento. Una forma di schiavitù più “umana” è meno grave di una forma meno “umana”, ma tutte le forme di schiavitù sono moralmente da condannare perché tutti gli umani hanno il diritto di non essere trattati come mere risorse a disposizione di altri, perciò a non essere di proprietà di nessuno: nessuna forma di schiavitù è “umana”. Ibidem, pp. 143146. 229 Ibidem, p. 147. 230 G. L. Francione, Animals, Property,…, cit., p. 106. Singer non ha mai trattato di diritti animali, né vi si riconosce; infatti è un utilitarista che rifiuta di ricorrere al principio e al concetto di diritto. Ma se Singer non si è prodigato a smantellare questa falsa credenza è perché, per lui, il movimento dei diritti animali è un soggetto politico e non filosofico. S. Tonutti, cit., p. 110, citazione da Gary L. Francione, Rain Without Thunder. The Ideology of the Animal Rights Movement, Philadelphia, Temple University Press, 1996, p. 54. 231 G. L. Francione, Introduction to…, cit., p. 148. 232 In base a questa posizione, gli esseri umani non possono mai essere usati o sacrificati per i benefici di altri, mentre gli animali possono esserlo solo se i benefici altrui saranno maggiori rispetto alle perdite inflitte agli animali. Di fatto, è la regola non scritta che vige attualmente –se si considera nel modo più ampio l’espressione “benefici altrui”. Robert Nozick, Anarchy, State and Utopia, New York, Basic Books, 1974, p. 39, citato in G. L. Francione, Animals, Property, …, cit., p. 105. 233 Ibidem, pp. 107-108. 78 caratteristiche moralmente rilevanti234. La teoria di Francione differisce da quella di Regan almeno per quattro caratteristiche235: • In primo luogo, non c’è motivo di restringere la categoria degli animali protetti ai “soggetti-di-una-vita”: alcuni umani e animali non hanno le caratteristiche necessarie per essere definiti in tal modo, ma, se sono senzienti, hanno indubbiamente l’interesse a non provare dolore. Inoltre, nonostante sia più facile riscontrare la costellazione di caratteristiche che Regan descrive nei mammiferi, non c’è dubbio nell’affermare che le galline, nonché altri uccelli, sono senzienti, intelligenti e dotati di esperienze mentali. Lo stesso vale per i pesci236 . Essere senzienti implica rendersi conto di un “Io” che ha esperienze soggettive. Non tutto quello che è vivo è necessariamente senziente: le piante, ad esempio, non provano dolore, a quanto ne sappiamo. Esse non si comportano in un modo tale da indicare la sensazione del dolore e non sono dotate delle strutture neurologiche e fisiologiche che noi associamo alla sensibilità negli animali umani e non umani. Inoltre, il dolore, per questi soggetti, ha una funzione estremamente pratica: costituisce un segnale di fuga dalla fonte del dolore, allo scopo di evitare danni o la morte. Gli esseri senzienti usano perciò il dolore come mezzo di sopravvivenza. Le piante non possono usare il dolore in tal modo perché non possono fuggire quando qualcuno le coglie; pertanto, vista l’inutilità di meccanismi simili, sarebbe molto difficile da spiegare una loro evoluzione in tal senso237. • In secondo luogo, Regan afferma che tutti i “soggetti-di-una-vita” sono eguali in quanto sono dotati dello stesso valore inerente, e per questo è moralmente impossibile usarli esclusivamente come mezzi per raggiungere uno scopo. Tuttavia, Regan sembra anche concludere che gli animali siano cognitivamente inferiori agli umani e che la loro morte sia pertanto un danno meno grave (nei loro stessi 234 T. Regan, cit., p. 243. Nonostante le differenze che si stanno per analizzare, l’ultimo Regan adotta un linguaggio particolarmente vicino a quello di Francione, segno della profonda vicinanza di fatto dei due autori: “La differenza tra sofferenze inutili e necessarie, tra pratiche legittime –perché regolamentate- e illegittime cade con la teoria dei diritti. Ciò che viene perseguito è l’abolizione, non la regolamentazione, delle pratiche di sfruttamento, perché, come sostiene Regan, anche la schiavitù felice è schiavitù, e l’obiettivo è di avere non gabbie più larghe, ma gabbie vuote”. S. Tonutti, cit., p. 137, citazione tratta da Tom Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Sonda, Casale Monferrato, 2005. 236 F. J. Verheijen and W. F. G. Flight, “Decapitation and Brining: Experimental Tests Show That After These Commercial Methods for Slaughtering Eel. Anguilla Anguilla, Death Is Not Instantaneous”, in Aquaculture Research, no.28, pp. 361-362, 1997; Michael W. Fox, Inhumane Society: The American Way of Exploiting Animals, New York, St. Martin Press, 1990, pp. 119-120. Citato in G. L. Francione, Introduction to…, cit., Introduzione. L’etologia evidenzia come altri mammiferi, uccelli e pesci hanno memoria e abilità di ragionamento, e questo costituisce un indizio della presenza di abilità estese di coscienza e del senso autobiografico di sé. Ibidem, p. 140. 237 Ibidem, pp.6-7. 235 79 confronti) rispetto a quella degli esseri umani. Ciò porta Regan a concludere che in una situazione di emergenza non solo si è obbligati a salvare l’umano anziché l’animale ma che si sarebbe obbligati a salvare l’umano anche di fronte alla morte di moltissimi animali238. Tale conclusione non è condivisa da Francione in quanto, secondo la sua teoria, l’unico elemento moralmente rilevante è costituito dalla capacità di provare piacere e dolore: pertanto la morte non è un danno più grave per l’umano che per l’animale, perché toglie ad entrambi la capacità di acquisire esperienze piacevoli e può essere preceduta, in entrambi i casi, da sofferenze rilevanti. In situazioni di emergenza potremmo essere giustificati nel salvare l’umano e non l’animale, ma potremmo essere giustificati anche nel fare il contrario. • In terzo luogo, la teoria di Francione si focalizza sullo status legale degli animali come proprietà, mentre Regan non affronta l’argomento. Fintantoché gli animali saranno delle proprietà alla stregua di oggetti inanimati, saranno trattati come tali, al di là di ogni considerazione di ‘umanità’, e non avranno un valore morale –né giuridico- significativo239. Gli animali devono avere solo un diritto: quello a non essere trattati come proprietà o come risorse. • In quarto luogo, Francione deriva il diritto degli animali a non essere trattati come oggetti (e quindi a non essere oggetto di diritti di proprietà) direttamente dal principio dell’eguale considerazione degli interessi; esso pertanto non richiede la complicata teoria dei diritti su cui Regan fa affidamento. L’idea di Francione è che la richiesta di abolizione dello sfruttamento animale in tutte le sue forme dev’essere parte di ogni teoria che mira ad accordare rilevanza morale agli animali non umani. Se crediamo davvero che gli animali non siano meri oggetti, e che quindi siano dotati di interessi moralmente significativi, non possiamo più pensare agli animali come a risorse (e trattarli di conseguenza). Ciò non vuol dire che preferiremmo gli animali agli umani in situazioni di emergenza, ma che non possiamo gestire tali situazioni immaginando che gli animali non siano altro che risorse a disposizione degli umani. 238 T. Regan, cit., pp. 324-325. I diritti sanciti dalla teoria di Regan dipendono dal fatto che il possessore è un soggetto-di-una-vita e un individuo dotato di valore inerente. E’ difficile capire come l’attuale status degli animali, soggetto solo al predeterminato bilanciamento del welfarismo legale, possa essere compatibile con lo status di titolare di diritti. Se la legge tratta gli animali solo strumentalmente e non li considera dei fini in sé stessi, come dei titolari almeno di taluni interessi non negoziabili, allora è difficile, se non impossibile, riconciliare tale trattamento con lo status di individui dotati di valore inerente, in quanto il loro proprietario può ignorare tali individualità e valore ogni volta che ciò rientra nel suo interesse. G. L. Francione, Animals, Property,…, cit., p. 103. 239 80 La teoria dei diritti animali, secondo cui dobbiamo abolire e non limitarci a regolare lo sfruttamento degli animali, è supportata da ragioni attendibili e da argomenti validi e si sposa perfettamente con le due intuizioni che riflettono il nostro giudizio convenzionale sugli animali, quelle per cui preferiremmo gli umani agli animali in situazioni di reale emergenza o necessità (come una casa che brucia in cui è possibile salvare o il nostro cane o nostro figlio)240 e ci sembra ingiusto infliggere sofferenze non necessarie agli animali. La teoria dei diritti animali può spiegare entrambe le intuizioni e unificarle, raggiungendo un “equilibrio riflessivo”241 tra lo status morale degli animali e il nostro senso comune su di esso. Francione non si concentra sulle capacità cognitive degli animali come criterio per riconoscere l’appartenenza alla comunità morale, come fa Regan per motivare una linea divisoria tra i soggetti-di-una-vita e coloro che non vi rientrano. Francione ritiene che tutti gli esseri senzienti –tutti coloro che possono fare esperienza del dolore- hanno una mente e sono capaci di attività cognitiva. Negare che gli animali siano senzienti, o asserire che non 240 Francione dedica un intero capitolo a spiegare i motivi per cui un’affermazione simile non costituisce un motivo per rigettare la teoria dei diritti animali. Difatti, in una ipotetica situazione di emergenza in cui si fosse costretti a scegliere tra salvare la vita di due individui, molte persone sceglierebbero il proprio figlio al figlio di qualcun altro e per salvarlo non esiterebbero a sacrificare anche molte persone; ugualmente avverrebbe per il nostro cane, a scapito del cane di qualcun altro, o di una persona che consideriamo buona rispetto a un criminale. Queste nostre scelte non implicano però che utilizzeremmo i figli di altre persone, i cani altrui, o i criminali come strumenti a disposizione di ogni nostro obiettivo. I casi di questo tipo non costituiscono la stragrande maggioranza delle vicende in cui scegliamo di infliggere sofferenze e morte ad animali; soprattutto, siamo noi stessi umani a creare tali casi. Se non si mettessero al mondo degli animali non umani al solo scopo di servire a soddisfare tutti i possibili desideri degli umani, non ci troveremmo a ragionare di tanti casi in cui non si può parlare di emergenza ma che trattiamo proprio in questi termini. Siamo noi umani a mettere il cane nella casa che va a fuoco, per usare la terminologia di Francione, e poi scegliamo di non salvarlo. Prima di chiederci cosa faremmo in situazioni di emergenza, dovremmo smettere di creare situazioni che consideriamo falsamente tali. La vivisezione non rientra nei casi di emergenza: come rifiutiamo di utilizzare esseri umani non consenzienti nella sperimentazione scientifica, pur sapendo che da loro otterremmo gli unici dati estrapolabili, e non crediamo che l’interesse dei pazienti sia in contrapposizione con quello di coloro che potrebbero prestare il proprio corpo agli scienziati, così il principio di eguale considerazione degli interessi vieta di utilizzare gli animali. Perciò, anche in questo caso dobbiamo smettere di creare falsi conflitti, abolendo tali pratiche. Davanti a un vero caso di emergenza, il fatto che preferiremmo un umano a un cane non differisce dal caso in cui uccideremmo qualcuno che sta per ucciderci, o da quello in cui uccideremmo qualcuno per non morire di fame su un’isola deserta dopo un naufragio, o da un’emergenza medica in cui un dottore deve scegliere tra salvare un ragazzo o un uomo anziano con poche possibilità di vita. Casi come questi richiedono una scelta arbitraria che non soddisfa pienamente alcun principio morale ma che riflettono semplicemente il meglio che sia possibile fare. Tali scelte, che non si incontrano nella quotidianità, non hanno pertanto significato morale e soprattutto non ci autorizzano ad abusare, nella vita di tutti i giorni, di coloro che sceglieremmo di sacrificare; di certo non costituiscono casi di specismo. Inoltre, ci sono casi in cui molte persone sceglierebbero di salvare un animale rispetto a un essere umano (se ci fosse il nostro cane e Hitler; se ci fosse un malato terminale e uno scimpanzé nel pieno delle forze) oppure sceglierebbero di non farlo soprattutto perché la loro scelta è distorta dalla percezione degli animali come loro proprietà. G. L. Francione, Introduction to…, cit., pp. 151-162. 241 La nozione di “reflective equilibrium” come alternativa al foundationalism (la teoria secondo cui i principi morali possono avere la certezza dei principi matematici) nella teoria morale fu discussa per la prima volta da John Rawls nel testo A Theory of Justice, Cambridge, Massachusetts, Belknap Press, 1971. 81 possiamo sapere se gli animali provano dolore, è assurdo così come negare che gli umani siano senzienti o asserire che non possiamo sapere se altri umani provino dolore. Le somiglianze neurologiche e fisiologiche tra umani e non umani rendono la sensibilità animale un fatto incontrovertibile, stabilito dagli stessi ambienti scientifici ufficiali242, nonché intuito fin dai tempi dell’antica Grecia243. Se gli animali fossero indifferenti al dolore, non avremmo un principio del trattamento umanitario come linea guida principale nei loro confronti. Il principio del trattamento umanitario porta ad accettare l’idea per cui gli animali sono persone e non oggetti, perciò sono dotati di interessi moralmente rilevanti. Quest’evidenza ci obbliga, tuttavia, ad applicare il principio di eguale considerazione degli interessi eliminando il loro attuale status di proprietà degli umani e quindi abolendo il loro sfruttamento istituzionalizzato. In tal modo la maggior parte dei conflitti umano-animale scomparirebbe, visto che siamo noi ad averli finora alimentati considerando gli animali come meri strumenti a disposizione di altri244. Quale può essere un’alternativa realizzabile al welfarismo legale? Se, da una parte, Francione nega che l’approccio utilitaristico “alla Singer” possa essere di alcuna utilità, potendo invece rafforzare l’idea per cui gli animali sono solo oggetti, allo stesso modo rigetta l’utilità della tendenza che, seppur molto lentamente, sembra affacciarsi presso gli ambienti scientifici- “le tre R” (ridurre il numero di animali utilizzati, raffinare le procedure di sperimentazione, rimpiazzare gradualmente gli animali sviluppando metodi alternativi di sperimentazione)245- in quanto, seppure premetterebbe di salvaguardare almeno alcuni animali da talune sofferenze, giustifica la violazione del principio dell’eguale considerazione degli interessi. Si tratta di un approccio intermedio tra quello di Singer e il welfarismo legale che giustifica l’uso di animali solo per motivi legati alla cura delle malattie; tuttavia, esso fa pendere la bilancia sempre dalla parte dell’essere umano, quando si tratta di interessi significativi: il diritto dell’animale a non soffrire e a 242 U.S. Department of Health and Human Services, National Institutes of Health, “Public Health Service Policy and Government Principles Regarding the Care and Use of Animals”, in Institute of Laboratory Animal Resources, Guide for the Care and Use of Laboratory Animals, Washington D.C., National Academy Press, 1996, p. 117; Committee on Pain and Distress in Laboratory Animals, Institute of Laboratory Animal Resources, Commission on Life Sciences, National Research Council, Recognition and Alleviation of Pain and Distress in Laboratory Animals, Washington D.C., National Academy Press, 1992. 243 Richard Sorabji, Animal Minds and Human Morals: the Origin of the Western Debate, Ithaca, Cornell University Press, 1993; Michael E. de Montaigne, “Apology for Richard Sebond” [circa 1592], ristampato in Paul A.B. Clarke and Andrew Linzey, eds., Political Theory and Animal Rights, London, Pluto Press, 1990, p. 64. 244 G. L. Francione, Introduction to…, cit., p. 165. 245 F. Barbara Orlans, In the Name of Science: Issues in Responsible Animal Experimentation, New York, Oxford University Press, 1993. La teoria delle tre R risale a W. S. Russell, R. L. Burch, The Principles of Human Experimental Technique, Methuen, London, 1959; citato in B. De Mori, cit., p. 119. 82 non morire viene superato dall’interesse umano a trovare una cura per delle malattie; ancora una volta, le conseguenze aggregative decidono del comportamento da tenere nei confronti dell’animale, perciò non è possibile parlare di tutela dei loro diritti, a proposito di questa teoria246. Secondo un altro approccio, il perseguimento del benessere animale è un passaggio necessario per raggiungere il riconoscimento e la salvaguardia dei diritti: la progressiva limitazione delle modalità di sfruttamento porterà all’abolizione in toto di tali dinamiche247. Nonostante il fascino di una teoria simile, Francione la ritiene problematica in quanto si tratta solo di un altro approccio welfarista, i cui prodromi –la legge attualenon hanno prodotto alcun risultato a causa dell’inevitabile bilanciamento degli interessi. Come minimo, sembra incongruo pensare che il considerare un individuo come un mezzo per il raggiungimento di un fine possa eventualmente portare al riconoscimento di diritti in capo a quell’individuo stesso. Inoltre, l’evidenza empirica non dà il minimo riscontro a una tesi simile: anzi, negli ultimi trent’anni la richiesta di condizioni più “umane” per gli animali è coincisa con un drastico peggioramento delle loro condizioni, almeno per quanto riguarda la zootecnia e soprattutto nei paesi emergenti; soprattutto, la presenza di fantomatiche regole a tutela degli animali non fa che aumentare la legittimità del loro sfruttamento, che continua a non avere nulla di “umano”. Se gli animali possiedono dei diritti, ignorarli adesso nella speranza poco fondata di garantirli nel futuro è del tutto inaccettabile: non accetteremmo mai un ragionamento del genere riguardo ad esseri umani; le misure riformiste, pertanto, non sono accettabili in quanto autorizzano necessariamente lo sfruttamento che aborriamo248. Tutte le versioni del welfarismo permettono lo sfruttamento degli animali, almeno in certe circostanze, in quanto non possono non ammettere l’idea del bilanciamento tra interessi umani e interessi degli altri animali e non abbandonano mai l’idea degli animali come una proprietà. Questo fa sì che tutti i maggiori responsabili dello sfruttamento stesso si dichiarino a favore del benessere animale: è difficile trovare un allevatore che, almeno ufficialmente, neghi di supportare tali regolamentazioni: ciò genera un’enorme confusione e rivela un’incredibile ipocrisia, visto che l’idea di “benessere umano” non potrebbe mai contenere eccezioni o, per restare nell’ambito del welfarismo, dei “bilanciamenti” di questo tipo. Nel momento in cui gli umani sono i soli titolari di diritti, il bilanciamento non ha senso. 246 G. L. Francione, Animals, Property…, cit., pp. 255-256. Ibidem, pp. 256-257. 248 Ibidem, pp. 256-258. 247 83 Sarebbe possibile eliminare interamente dal nostro orizzonte legislativo la nozione di diritti, per poter così bilanciare le due posizioni –è questa la proposta di Singer, che, da utilitarista, rigetta il concetto stesso di diritti morali- ma questo appare molto improbabile, visto che verosimilmente una buona parte del genere umano rifiuterebbe di considerare la rilevanza dei propri “interessi” in base a ragionamenti di tipo consequenziale (e in ogni caso non sarebbe di alcuna utilità agli animali)249. La teoria dei diritti non permette il sacrificio degli interessi animali semplicemente perché l’interesse umano se sarebbe accresciuto; al suo interno, si afferma che almeno alcuni interessi animali devono essere protetti prima facie, cioè che la loro violazione richiede una giustificazione non diversa da quella necessaria nel caso della violazione di un diritto umano250. Occorre attendere l’abolizione dell’istituto della proprietà animale per riconoscere i diritti animali o è già possibile un cambiamento in tal senso, senza che ci sia una simile rivoluzione? Ci possono, cioè, essere delle normative di regolamentazione dell’utilizzo degli animali che creino diritti, al contrario di quelle attuali? Considerando che • finché gli animali saranno delle proprietà sarà molto difficile riconoscere nei loro confronti dei veri diritti, basati sul rispetto; • l’economia mondiale è pesantemente dipendente dallo sfruttamento degli animali – e quindi dal loro status legale di proprietà- e l’abolizione di tale status appare un’impresa estremamente difficoltosa; • finché il contenuto dei cosiddetti “diritti” sarà limitato alla tutela da sofferenze “non necessarie” o alla garanzia di ricevere un trattamento “umano”, gli animali potranno essere sfruttati nei modi più terribili in modo legale; si potrebbe realisticamente costruire un sistema “pluralistico” in cui gli animali restano delle proprietà –purtroppo, ma l’eliminazione di tale realtà appare improbabile, date le scarse risorse a disposizione degli animalisti rispetto a tutti coloro che traggono giovamento dallo sfruttare gli animali- ma vengono dotati di una protezione assimilabile a un diritto. La chiave di un progetto simile è iniziare ad abolire progressivamente alcuni tipi di sfruttamento degli animali, in base al fatto che un diritto può essere definito come il divieto di comportarsi in modo da ledere il diritto stesso251, fino all’abolizione in toto. Non 249 Ibidem, p. 257. Ibidem, pp. 258-259. 251 Ibidem, p. 260. Il diritto “è una nozione morale che costruisce un muro protettivo attorno all’individuo, che (…) crea delle aree in cui il soggetto ha titolo a essere protetto contro lo stato e la maggioranza anche 250 84 tutte le proibizioni sono uguali: è molto diverso, ad esempio, vietare del tutto alcuni tipi di esperimenti –tutela che riconosce il diritto dell’animale a non essere sottoposto a quel tipo di pratica così come altri divieti riconoscono il diritto umano a non essere sottoposto a certe pratiche- dal limitarsi a vietare alcuni comportamenti all’interno di un certo esperimento –pseudo-garanzia di natura welfarista che non riconosce alcun interesse dell’animale ma solo la necessità di sfruttarlo in modo più efficiente. Il divieto di sottoporre gli animali non umani a determinate esperienze dolorose non avrebbe lo scopo di proteggere il loro valore economico, ma esclusivamente il loro diritto a non soffrire (anche se limitatamente a quel tipo di trattamento); ciò sarebbe compatibile con il loro attuale status di proprietà252 e realizzabile. Le conclusioni di Francione si collocano tra gli ultimi sviluppi della riflessione sui diritti animali. Paola Cavalieri, una filosofa italiana, ha sottolineato tuttavia come la prospettiva appena analizzata, con cui concorda253, non costituisca che un trampolino dal quale lanciare nuove idee circa il rapporto tra noi umani e gli altri animali: “La rimozione dei non umani dalla categoria delle cose non è vista come la realizzazione di un particolare diritto, ma come la condizione essenziale per una traduzione sul piano sociale delle implicazioni della teoria allargata (…) Il passaggio dalla condizione di oggetti a quella di soggetti di diritto non si configura come un punto d’arrivo, bensì come l’accesso iniziale al circolo dei possibili beneficiari di quella piattaforma egualitaristica254 da cui quando questo implica un costo da pagare da parte del benessere generale”. Bernard E. Rollin, “The Legal and Moral Bases of Animal Rights”, in Harlan B. Miller and William H. Williams, eds., Ethics and Animals, Clifton, N.J., Humana Press, 1983, p. 106. Citato in G. L. Francione, Introduction to…, cit., Introduzione. 252 G. L. Francione, Animals, Property…, cit., p. 261. 253 “Chiaramente, quella che oggi ci troviamo di fronte è una comunità morale stratificata. Sia noi che i membri delle altre specie ne facciamo parte, ma mentre noi siamo pazienti morali di prima categoria [quando altri decidono per noi] ai membri di specie diverse da Homo Sapiens viene riservato uno status di seconda classe. Espressioni come “amore per gli animali”, “essere buoni con gli animali” ben sintetizzano un atteggiamento fondato non sul rispetto ma su una più o meno benevola condiscendenza. E in effetti, nel nostro rapporto con i non umani, entrano in gioco tutti i principali aspetti della diversificazione di status. Innanzitutto, un elemento categoriale: gli animali vengono classificati come tipi di esseri cui può essere applicato un calcolo aggregativo di costi e benefici senza la protezione di vincoli collaterali. In altri termini, a differenza di quanto accade nel caso degli esseri umani, non esiste un limite ai sacrifici che possono venire imposti ai singoli individui non umani nel perseguimento di un vantaggio collettivo –di solito umano-. Ciò significa che gli animali possono essere usati come semplici mezzi per i fini altrui, e non accidentalmente il filosofo americano Robert Nozick parla di “kantismo per gli umani, utilitarismo per gli animali”. In secondo luogo, un aspetto quantitativo: quando si comparano gli interessi di umani e non, il tasso di cambio è elevatissimo. Praticamente ogni banale interesse umano (salvo forse quello alla crudeltà gratuita) ha il sopravvento sugli interessi vitali dei membri delle altre specie, che vengono danneggiati o uccisi anche per questioni di gusto, divertimento, curiosità. Infine, un elemento sostanziale: anche qualora agli animali si riconosca un (minimo) interesse al benessere, si circoscrive invece agli esseri umani l’interesse alla vita, vera chiave di volta dello status di paziente morale a pieno titolo”. Paola Cavalieri, La questione animale: Per una teoria allargata dei diritti umani, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 42. 254 La nozione di egualitarian plateau si deve a Ronald Dworkin; in Will Kimlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Feltrinelli, Milano, 1996. 85 la contemporanea filosofia politica prende le mosse per la definizione di ogni più specifico diritto individuale255”. Pertanto, abolire lo status di proprietà degli animali non costituirebbe un traguardo risolutivo, ma l’inizio di un cammino necessario per riconoscere di fatto l’uguaglianza interspecie nella fruizione dei diritti fondamentali. “Queste sono le conclusioni cui conduce un argomento che non è contingente o eccentrico, ma è la necessaria derivazione dialettica della più universalmente accettata tra le dottrine etiche contemporanee, la teoria dei diritti umani256. In tale senso, la forza normativa delle richieste della teoria allargata comporta un impegno non solo a partecipare, ma anche ad opporsi all’attuale discriminazione257. E ciò perché la negazione istituzionale dei diritti fondamentali ad esseri che ad essi hanno titolo non si limita a privare le vittime degli oggetti di tali diritti, ma costituisce un attacco diretto nei confronti dei diritti stessi. In altre parole, tale negazione non viola semplicemente ciò che è giusto, ma la stessa idea di giustizia258”. 255 P. Cavalieri, cit., pp. 168-169. “Sulla base della dottrina stessa che li fonda, i diritti umani non sono umani. Da un lato, la più o meno dichiarata accettazione dell’idea che l’appartenenza di specie non sia moralmente rilevante ha di fatto eliminato dalla migliore fondazione della teoria ogni riferimento strutturale al possesso di un genotipo Homo Sapiens. E dall’altro, l’esigenza di garantire egualitariamente diritti fondamentali a tutti gli esseri umani, compresi quelli non paradigmatici, ha fatto sì che le caratteristiche cui fare appello per giustificare l’assegnazione di tali diritti non potessero più essere quelle (considerate) tipicamente umane, ma dovessero invece collocarsi su un piano cognitivo - emotivo che risulta accessibile ad un gran numero di animali non umani”. Ibidem, p. 165. 257 Thomas Pogge, “How Should Human Rights Be Conceived”, in Jahrbuch Fur Recht und Ethik, n.3/1995, pp. 103-120, cap. 4. 258 P. Cavalieri, cit., p. 170. 256 86 Altri motivi per diventare vegani Come già è stato accennato, lo sfruttamento degli animali non è deprecabile soltanto dal punto di vista delle vittime dirette. Il problema morale appare ben più ampio, in quanto l’utilizzo a fini alimentari, scientifici e “ricreativi” degli animali crea grossi danni alla salute pubblica, all’ambiente e persino alla sicurezza alimentare. I problemi inflitti dalla zootecnia possono essere pertanto considerati anche in un’ottica più materiale, e ciò non può che aumentare, qualora ce ne fosse bisogno, la credibilità delle critiche all’attuale situazione. La maggior parte dei veg*ani è divenuta tale per non cibarsi più di animali morti e non supportarne più lo sfruttamento, ma anche le ulteriori motivazioni, qui di seguito riportate, vengono considerate molto importanti: i più importanti ambienti medici affermano con sicurezza che l’alimentarsi con cibi animali implica dei danni all’organismo; molti studiosi dei problemi ambientali hanno rilevato l’impressionante impatto delle attività implicanti l’utilizzo di animali sui più disparati ecosistemi del pianeta, giungendo a considerare allevamenti e simili come fattori inquinanti di pericolosità primaria; persino le relazioni tra paesi ricchi –o in via di rapida industrializzazione- e paesi poveri sono pesantemente influenzate dalle dinamiche (aumento dei prezzi agricoli, minacce alla sicurezza alimentare) indotte dal consumo di prodotti derivati da animali. Sono ormai innumerevoli gli studiosi, e per fortuna anche qualche giornale (da ultimo, Le Monde Diplomatique259), che sottolineano quanto sia necessario invertire la tendenza, spostandoci verso un’alimentazione basata su cibi vegetali, ecologici e sostenibili per salvare noi stessi e gli ecosistemi del pianeta. La salute Gli alimenti di origine animale vengono continuamente propagandati come componenti essenziali di una dieta equilibrata. Frasi di questo tipo provengono da molti medici, nutrizionisti, giornali, TV, nonché dalle campagne pubblicitarie avviate, in occasioni particolari, dalle agenzie governative. Il problema è che tali affermazioni non sono vere: al contrario, molti veg*ani sono tali (anche) perché intendono mantenersi in salute. Il consumo di carne, pesce e derivati è chiaramente correlato all’insorgenza di molte patologie, alcune delle quali gravi e invalidanti. Soprattutto, il consumo di tali alimenti non 259 Claude Aubert, “Verso un rivoluzionamento dei nostri modelli alimentari”, L’Atlante per l’ambiente, Le Monde Diplomatique -Il manifesto, dicembre 2007, citato in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=398&pg=1 . 87 è necessario: l’essere umano non è un animale onnivoro; alimenti di questo tipo non sono adatti alla nostra conformazione anatomica e ai nostri processi digestivi, elementi che ci rendono simili alle scimmie antropomorfe –da cui, non a caso, discendiamo- e, quindi, alle loro abitudini vegetali. Le persone che non assumono cibi animali optano per gli alimenti più adatti, che forniscono un’adeguata protezione contro moltissime malattie, rafforzando il sistema immunitario ed evitando sforzi eccessivi ai nostri organi. Questa affermazione, ampiamente confermata nei fatti dalla salute di tutti i vegetariani “di vecchia data”, è stata chiaramente avvalorata in modo definitivo nel 2003 dalla “Posizione ufficiale” sull’argomento dell’ American Dietetic Association e dei Dietitians of Canada (due tra le più importanti associazioni di nutrizionisti a livello internazionale): trattasi di un’ampia panoramica sulla nutrizione vegetariana stilata sulla base di più di 250 lavori scientifici pubblicati su riviste mediche internazionali. La “Posizione ufficiale” afferma testualmente che le diete vegetariane correttamente bilanciate sono salutari e nutrizionalmente adeguate, in quanto consentono l’assunzione di tutti i nutrienti necessari, in ogni fase della vita. Secondo quest’importante studio, tali diete consentono la prevenzione e il trattamento di una serie di importanti patologie, mentre l’assunzione di alimenti animali porta con sé un’elevata probabilità di contrarre le malattie del benessere ( quelle la cui diffusione aumenta con il miglioramento del livello di vita delle persone: finora, tutte le società passate al benessere hanno aumentato drasticamente il consumo di alimenti animali, considerati “cibo per ricchi”, diminuendo al contempo l’attività fisica)260: diabete mellito di tipo 2261, problemi renali, ipertensione, malattie cardiache, cancro, calcoli biliari, obesità262, osteoporosi. E’ da sottolineare che tali disfunzioni costituiscono le principali cause di mortalità nei paesi sviluppati, Italia compresa263. Questo autorevole “lasciapassare” non toglie però nulla ai tanti altri studi messi a punto da importantissimi studiosi della nutrizione i quali, già in tempi contrassegnati da una massiccia propaganda circa la superiorità di bistecche e derivati, sono giunti alle medesime conclusioni264. Le principali indagini scientifiche sull’argomento sono le seguenti: 260 La Posizione Ufficiale è disponibile sul sito dell’American Dietetic Association, all’indirizzo http://www.adajournal.org/article/PIIS0002822303002943/fulltext . 261 “Negli Stati Uniti quasi nove persone su cento soffrono di diabete, una malattia che dipende strettamente dalle abitudini alimentari. In Italia la percentuale di diabetici è addirittura del 9,2 per cento”. P. Conti, cit., p. 171. 262 Negli Stati Uniti, il 72,2% dei maschi adulti è sovrappeso, mentre il 32% è obeso. In Italia i maschi sovrappeso solo il 51,9% della popolazione, con un 12,2% di obesi. Ibidem. 263 Le prime due cause di mortalità in Italia sono costituite dai tumori e dalle malattie circolatorie, entrambe strettamente correlate, in negative, con un’alimentazione a base di alimenti di origine animale. Dati riferiti al 2002, disponibili su www.istat.it/dati/catalogo/20040728_00/tavole_00_02.zip . 264 1961: American Heart Association, National Health Education Committee (US); 1968: Scandinavian Government Medical Boards; 1970: Inter-Society Commission on Heart Disease Resources (US); 1971: 88 9 Secondo un rapporto dell’U.S. Surgeon General riferito al 1987, più del 70% delle morti ‘naturali’ negli Usa (1.5 milioni di persone) sono state provocate da fattori alimentari; in modo particolare è implicato l’eccessivo consumo di carne e altri cibi ad alto tasso di colesterolo e grassi saturi (pesce, latticini, uova, salumi)265, riconosciuti come la causa primaria dello sviluppo di malattie cardiocircolatorie, infarti e tumori. 9 L’American Heart Association, la National Academy of Sciences, l’American Academy of Pediatrics raccomandano di ridurre il più possibile266 il consumo di alimenti animali e di sostituirli con alimenti vegetali267. 9 Una ricerca congiunta della Harvard School of Public Health e della Oldways Preservation and Exchange Trust ha confermato l’idea per cui le diete associate a meno malattie legate all'alimentazione e a una maggior longevità sono generalmente a base vegetale, cioè ricche di cereali integrali, verdura, frutta e noci268. Diversamente, ogni dieta in cui sono presenti alimenti animali in quantità porta con sé un’alta probabilità di contrarre le malattie del benessere. 9 Un’altro studio recente ha identificato la carne, i latticini, le uova e i grassi alimentari come fonti del 63% dei grassi totali, del 77% dei grassi saturi e del 100% del colesterolo (presente nei soli cibi animali) della dieta tipica americana269. Diete ricche di calorie e grassi facilitano l'obesità , la quale aumenta il rischio di malattie cardiache, infarti, diabete e vari tipi di cancro. Queste quattro categorie di malattie sono causa di più della metà delle morti nei paesi ricchi. 9 Il più importante studio epidemiologico sull’argomento è il China Health Project, definito dal New York Times come “il Gran Premio dell’Epidemiologia”, che National Heart Foundation of New Zealand, National Heart, Lung and Blood Institute (US), 1973: International Society of Cardiology, National Advisory Council on Nutrition of the Netherlands; 1974: National Heart Foundation of Australia, United Kingdom Department of Health and Social Security; 1977: Food and Agricultural Organization/World Health Organisation (OMS), 1980, U.S. Department of Agriculture/Department of Health and Human Services. Patricia Hausman, Jack Sprat’s Legacy , Richard Marek Publishers, NY, 1981, citato in John Robbins, Diet for a New America, Stillpoint Publishing, Walpole, NH, 1987, p. 217. 265 Surgeon General’s Report on Nutrition and Health, U. S. Department of Health and Human Services, 1988, Pub. No. 88-50210, citato in J. Rifkin, cit, p. 197. 266 Tutte le autorità sanitarie del mondo utilizzano questa terminologia di fatto ingannevole (conduce le persone a credere che una piccola quantità di alimenti animali sia indispensabile, quando questo è falso) in quanto la pressione delle lobbies dell’allevamento preme in tal senso presso i governi. Infatti, “ridurre il più possibile” è un’affermazione poco significativa di fronte alla documentata preferibilità dell’eliminazione completa di tali alimenti. 267 Citato in K.A. Fackelman, “Health Groups Find Consensus On Fat In Diet”, in Science News, 3/3/1990, p. 132. 268 Gardner G., Halwell B., “Underfed and Overfed: The Global Epidemic of Malnutrition”, World Watch Institute Paper, no.150, March 2000. 269 Nestle M., “Animal v. Plant Foods in Human Diets and Health: Is the Historical Record Unequivocal?”, Proceedings of the Nutrition Society,1999, n. 58, pp. 211-218. 89 esamina gli effetti dei cambiamenti nella dieta dal 1978 al 1990 (a partire cioè dalla grande riforma economica di Deng Xiao Ping che ha traghettato la Cina nell’economia di mercato). L’esame di 8000 persone in 25 diverse province della Cina ha confermato che l’aumento delle calorie e delle proteine provenienti da alimenti animali, il cui consumo in questi anni è notevolmente cresciuto, ha provocato un aumento proporzionale di obesità, tumori, malattie cardiocircolatorie e diabete270. E’ stata evidenziata una rilevantissima correlazione tra consumo di carne e incidenza di patologie cardiache e tumorali; spesso i tassi di crescita di tali malattie appaiono di molto superiori alle percentuali aggiuntive di cibo animale introdotto nella dieta271. Secondo uno dei direttori della ricerca, “Il disastro inizia quando la gente introduce nella propria dieta gli alimenti di origine animale”272. Questo studio sottolinea come quantità di alimenti animali ben inferiori a quelle consumate in Europa o in Nord America possano avere un effetto disastroso sulla salute pubblica: pensando alla nostra situazione, pertanto, le preoccupazioni vanno moltiplicate di molte volte273. 9 Moltissimi altri studi si sono concentrati sull’influenza dell’alimentazione sulle singole malattie: infarto274, insufficienza renale cronica275, neoplasie276 -in 270 Nancy Hellmich, “In Healthful Living. East Beats West”, in USA Today, 6/6/1990. Anne Simon Moffat, “China: a Living Lab for Epidemiology”, in Science, n. 248, 4/5/1990, p. 554. 272 Ibidem, p.553. 273 John Robbins, The Food Revolution – How Your Diet Can Save Your Life and the World. Magna Publishing Co. Ltd., Book Division, Mumbai, 2001, p. 96. 274 Si tratta di una delle più importanti cause di morte nei paesi industrializzati e la prima negli Stati Uniti dove colpisce 4000 persone al giorno [Roy Wafold, Maximum Life Span, Norton, NY, 1983, p. 8]- ed è dovuto all’occlusione delle arterie da parte del colesterolo contenuto negli alimenti animali. A fronte di ciò, “una dieta vegetariana può prevenire il 97% delle occlusioni coronariche”. “Diet and stress in vascular disease”, Journal of the American Medical Association, Vol. 176, no.9, 3/6/1961, p. 806. Tratto da J. Robbins, Diet for a New America, cit., p. 247. Uno studio del 1988 sottolinea che le diete ad elevato contenuto di grassi saturi e colesterolo hanno un ruolo fondamentale nelle tre maggiori cause di morte nei paesi sviluppati: infarto cardiaco, cancro e ictus. Walter Corson, The Global Ecology Handbook. Boston, Beacon Press, 1990, p.72; Steve Connor, “This Week”, in New Scientist, 4/8/1988, p.28, citato in J. Rifkin, cit, p. 197. Un altro importantissimo studio, iniziato nel 1984 e durato 10 anni, ha evidenziato inoltre come ogni abbassamento del livello di colesterolo assunto tramite la dieta fa abbassare il rischio di attacco di cuore. Viceversa, ogni piccolo aumento di colesterolo provoca un aumento più che proporzionale del rischio stesso. Lipid Research Clinics Program, “The Lipid Research Clinics Coronary Primary Prevention Trial Results”, part I-II, in Journal of the American Medical Association, 1984, n. 251, citato in J. Robbins, Diet For a New America, cit., p. 246. Secondo uno studio più recente, il livello di colesterolo nel sangue dei vegani, che non assumono colesterolo, è del 35% più basso rispetto ai lacto-ovo-vegetariani. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 19. 275 Questo problema è la conseguenza di un superlavoro del rene, costretto a metabolizzare impossibili quantità di proteine – i cibi animali sono tra gli alimenti più ricchi di proteine, nonché di altre sostanze la cui digestione affatica i reni. E’ una malattia in costante aumento, con tassi di crescita annui che sfiorano il 7%. Rivista di scienza dell’alimentazione, n. 4/2004, p. 256. 276 Il 40% delle neoplasie, la seconda causa di morte negli Stati Uniti [R. Wafold, cit, p. 8], è provocato dalle abitudini alimentari errate come l’assunzione di cibi animali, grassi e sostanze chimiche cancerogene e la mancanza di fibre; le ultime tre sono collegabili, per la maggior parte, alla prima. National Institute of Health, National Cancer Institute, Annual Cancer Statistics Review, 1989. Recentemente il National 271 90 particolare, il cancro alla mammella277, alla prostata278, alle ovaie279, all’utero280, al colon281 e persino al polmone282-, osteoporosi283. Il consumo di alimenti animali, frequentemente contaminati da vari organismi nocivi per il corpo umano, è collegato anche alle intossicazioni alimentari: le patologie indotte dai microrganismi presenti nella carne, nel pesce o nei derivati sono estremamente diffuse e spesso invalidanti al pari dei problemi cardiocircolatori e delle neoplasie, nonché ugualmente in aumento. Le intossicazioni alimentari sono provocate da diversi organismi: Research Council of the National Academy of Sciences ha scoperto che la carne è il cibo a più alta concentrazione di erbicidi rispetto a tutti gli altri venduti negli Stati Uniti, visto che l’80% degli erbicidi utilizzati nel paese sono utilizzati su soia e mais, utilizzati principalmente per l’alimentazione animale. National Research Council, Board on Agricolture, Alternative Agricolture, p. 44; Regularing Pesticides in Food, p. 78, tavole 3-22. Carne e latticini sono, di conseguenza, gli alimenti contenenti la maggior quantità di pesticidi. Lewis Regenstein, How to Survive in America the Poisoned. Herndon, VA, Acropolis Books, 1982, p. 173. La percentuale di madri carnivore il cui latte materno contiene quantità significative di DDT è del 99%, mentre per le madri vegetariane la percentuale si assesta all’8%. “A Brief Review of Selected Environmental Contamination Incidents with a Potential for Health Effects ”, Library of Congress for the Committee on Environment and Public Works, U.S. Senate, 8/1980, pp. 173-174. Tratto da http://www.mcspotlight.org . 277 Il cancro alla mammella uccide 50.000 donne l’anno nei soli Usa [ J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 43] ed è una patologia strettamente correlata al consumo di grassi animali. J. Raloff, “Breast Cancer Rise: Due to Dietary Fat?”, in Science News, 21/4/1990, p. 245. Howe ed altri, “A Cohort Study of Fat Intake and Risk of Breast Cancer”, in Journal of National Cancer Institute, 6/3/1991. Michael Fox, Nancy Wiswall, The Hidden Cost of Beef, Washington D.C., Humane Society of the United States, 1989 p. 20; citati in J. Rifkin, cit, pp. 198-199. Documento presentato da Takeshi Hirayama, Conference on Breast Cancer and Diet, U.S.Japan Cooperative Cancer Research Program, Fred Hutchison Cancer Center, Seattle, Wa., 14-15/3/1977, citato in J. Robbins, Diet For a New America, cit., p. 265. 278 Studi citati in J. Robbins, Diet For a New America, pp. 270-272. 279 Ibidem, p. 268. 280 Ibidem, pp. 266-268. 281 Neal Barnard, “The Beef Diet: Prescriptions for Disaster”, in http://www.mcspotlight.org/media/reports/beyond.html . Alla stessa conclusione giungono gli studi citati in J. Robbins, Diet For a New America, cit., pp. 201-202, 253 e J. Rifkin, cit., p. 197. Ai fini della prevenzione della malattia, il ricercatore che ha condotto uno di questi studi, tra i più importanti sulla correlazione tre neoplasia e dieta, giunge alla conclusione che “la quantità ottimale di consumo di carne rossa è zero”. Uno studio del 1970 ha evidenziato come non esistano popolazioni nel mondo in cui a un alto consumo di carne non corrisponda un alto tasso di cancro al colon. Tratto da http://www.mcspotlight.org/media/reports/beyond.html . 282 J. Robbins, Diet For a New America, cit., p. 268 e The Food Revolution, cit., p. 46. 283 L’osteoporosi è una malattia delle ossa provocata dalla perdita di calcio. Le grandi aziende del settore caseario, supportate da una larghissima schiera di medici e scienziati –spesso del tutto estranei alla scienza della nutrizione e altrettanto frequentemente supportati, in vari modi, dalle aziende medesime- instillano nelle donne in menopausa ( il bersaglio preferito da questo problema per motivi legati alla improvvisa mancanza di ormoni) l’idea che l’assunzione di grandi quantità di latticini possa prevenire o contribuire a diminuire l’incidenza di fratture e altri problemi correlati all’indebolimento delle ossa. Pochissimi “esperti”, tuttavia, informano il pubblico della strana correlazione esistente tra consumo di proteine animali, soprattutto provenienti da prodotti caseari, sale, ormoni e l’osteoporosi stessa: nei paesi in cui il consumo di latte e derivati è maggiore (nell’ordine, Finlandia, Svezia, Stati Uniti, Gran Bretagna) compaiono i maggiori tassi di incidenza di questa malattia. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 104. Mentre la perdita media di calcio nelle donne ultrasessantacinquenni che consumano cibi animali è del 35%, nelle stesse ultrasessantacinquenni vegetariane il tasso è del 18%. The Effects of Vegetable and Animal Protein Diets on Calcium, Urat and Oxalate Excretion”, J. Brockis, in British Journal of Urology, 1982, n. 54, p. 590, tratto da http://www.mcspotlight.org . F. Ellis, “Incidence of Osteoporosis in Vegetarian and Omnivores”, in American Journal of Clinical Nutrition, 1972, n. 55, p. 555, tratto da J. Robbins, Diet For a New America, cit., p. 195. 91 Escherichia coli O157:H7.284, Campylobacter Jejeuni285, Salmonella286, Listeria Monocytogenes287. La contaminazione può avvenire tramite il contatto con le feci durante il processo di macellazione o, precedentemente, attraverso acqua contaminata. Inoltre, gli animali degli allevamenti intensivi, date le pessime condizioni di vita a cui sono sottoposti, hanno difese immunitarie pressoché inesistenti e questo rende la diffusione di batteri e virus molto agevole, anche perché gli esemplari detenuti nei capannoni sono decine di migliaia; essi sono trasportati al macello in condizioni igieniche estremamente critiche, e questo aumenta le possibilità di scambio di patogeni da un animale all’altro, mentre i metodi di macellazione, improntati a un’idea di ‘catena di smontaggio’ degna del plauso di 284 Si tratta di un ceppo particolare della famiglia di batteri E. Coli, che normalmente vive senza dare problemi nell’intestino umano e animale. Tuttavia, nel 1983, la comparsa di questo nuovo tipo di batterio, più resistente ai farmaci, ha allarmato gli scienziati in quanto, anziché vivere simbioticamente con l’intestino umano, E. Coli O157:H7 attacca il colon e i suoi vasi sanguigni provocandone la rottura e causando crampi addominali e diarrea; spesso l’ingestione del batterio provoca la morte. Le conseguenze a lungo termine sofferte da molti sopravissuti all’avvelenamento vanno dall’epilessia alla cecità e a danneggiamenti a reni e polmoni. Il micidiale batterio si ritrova nelle carcasse bovine (l’avvelenamento a esso dovuto è conosciuto negli USA come Hamburger Disease) e, per quanto riguarda gli Stati Uniti, anche in una loro rilevantissima proporzione: l’amministratore del Food Safety and Inspection Service della USDA afferma che E.Coli O157:H7 può essere ritrovato in più del 50% delle carcasse bovine macellate. Ogni anno negli USA si verificano circa 7500 casi di sindrome uremica emolitica, la causa principale di danni renali nei bambini nordamericani, e l’85% dei casi sono provocati da avvelenamento da E.Coli O157:H7. J. Robbins, The Food Revolution, cit., pp. 124- 126, 133. “Il trend complessivo delle infezioni da E. Coli 0157:H7 è difficile da determinare, a causa della sottostima da parte dei medici, ma si ritiene essere in crescita. L’incidenza di sindrome uremica emolitica, che può venire usata come marker per le infezioni da questo batterio, è in sicuro aumento negli Stati Uniti”. Physician Committee for Responsible Medicine, citato in P. Conti, cit., p. 56. 285 Questo batterio è il responsabile del maggior numero di casi di intossicazioni alimentari negli USA, provoca molti più decessi rispetto a E.Coli O157:H7 e i casi da esso indotti sono in netto aumento. Se ingerito dagli esseri umani (attraverso la carne di pollo e tacchino), Campylobacter attacca la mucosa intestinale e provoca diarrea accompagnata da febbre, dolori articolari e addominali. Tali effetti si fanno sentire circa una settimana (questo impedisce il riconoscimento della vera causa del malessere) dopo l’esposizione e nel 20% dei casi ci sono ricadute che possono essere fatali. Il 40% dei casi della sindrome di Guillain-Barré, una malattia molto pericolosa che provoca una progressiva paralisi, è stata ricondotta a precedenti infezioni da Campylobacter: questo fa sospettare che molti dei casi delle malattie autoimmuni, sempre più in crescita negli ultimi decenni, siano da ricondurre a tale infezione, non diagnosticata in tempo. E’ stato stimato che negli USA la percentuale di carcasse di volatili contaminati giunga al 70% e che ogni giorno più di 5000 persone subiscano un avvelenamento da Campylobacter. J. Robbins, The Food Revolution, cit., pp. 127-130, 133. 286 Questo microbo, molto più conosciuto dei precedenti, è un altro frequente ospite di carni avicole e uova, ma ciò che è meno conosciuto è che oggi la contaminazione avviene anche attraverso ogni altro prodotto di origine animale. Una stima afferma che un numero variabile dal 20% all’80% delle carcasse avicole negli USA sia contaminato da Salmonella. I sintomi dell’avvelenamento includono crampi addominali, febbre, cefalea, nausea, vomito e diarrea; gli attacchi sono molto pericolosi per bambini, anziani, donne in gravidanza o persone già indebolite nel sistema immunitario. Sono più di 650.000 gli americani che ogni anno contraggono la salmonellosi dalle uova e 600 quelli che ne muoiono; in particolare l’alimento più a rischio è costituito dalle uova non cotte. Ibidem, pp. 130-131. La salmonella è la principale causa di contagi di origine animale in Italia. P. Conti, cit., p. 55. 287 Questo patogeno è emerso in modo preoccupante negli ultimi decenni: il 92% delle persone infette necessita di ricovero in ospedale e il 20% di queste muore. Esso cresce e si moltiplica velocemente nei frigoriferi ed è particolarmente pericoloso per le donne in gravidanza in quanto può provocare meningiti e setticemie, nonché danni cerebrali al feto. I cibi più a rischio di provocare l’avvelenamento da Listeria sono formaggi freschi, carni bovine e avicole cucinate e pronte al consumo, uova, frutti di mare, panini imbottiti di carne non correttamente conservati, alimenti non pastorizzati. Ibidem, pp. 131-132. Stando ai dati diffusi dall’EFSA (l’Agenzia Europea per la sicurezza Alimentare, con sede a Parma), Listeria ha ucciso nel 2004 in Europa 107 persone. P. Conti, cit., p. 57. 92 Henry Ford288, sono tali da diffondere sistematicamente i patogeni da una carcassa all’altra289. L'OMS stima che in Europa circa 130 milioni di persone siano colpite ogni anno da intossicazioni alimentari e dichiara che “Il rischio maggiore sembra essere la produzione di cibo animale. E' da lì che nascono i pericoli più gravi per la salute, per esempio le contaminazioni da Salmonella, Campylobacter, E.coli e Yersinia”290. L’Italia conosce bene questi problemi: i casi di intossicazioni alimentari da microrganismi come questi sono all’ordine del giorno291, ma il sistema di monitoraggio sanitario non è efficiente come, ad esempio, negli Stati Uniti292. Un altro pericolo proveniente da alimenti animali deriva dalla possibilità di essere contagiati da malattie di cui gli animali sono portatori: è il caso dell’emergenza BSE nel 2000-2001 e dell’influenza aviaria del 2005-2006, eventi che, nonostante il silenzio di giornali e televisioni, continuano a costituire una minaccia latente293: è recentissima la notizia di due nuove giovani vittime del morbo di Creutzfeld-Jacob in Spagna294. Un recente comunicato della FAO avverte che le malattie trasmissibili dagli animali all’essere umano aumenteranno nel futuro, a causa del drastico aumento degli allevamenti intensivi e 288 Gli operai sono sotto pressione per lavorare il più velocemente possibile fino ad arrivare a macellare 330 mucche all’ora. In ognuna di queste operazioni le cavità gastriche delle carcasse sono aperte, e se qualcosa non va per il verso giusto durante il taglio gli intestini possono fuoriuscire insieme alle feci, contaminando eventualmente le carni da confezionare. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 120. 289 Il film Fast Food Nation (Richard Linklater, 2006, Usa) è incentrato sulla contaminazione delle carcasse da feci durante la macellazione. Riguardo ai polli, la prassi maggiormente incriminata in tal senso è il ‘bagno’ in cui sono immesse le carcasse appena macellate, in seguito al quale aumentano di peso: l’acqua è talmente sporca da venire chiamata, dagli addetti ai lavori, ‘zuppa di feci’. Behar R., Kramer M., “Something Smells Fowl”, Time, 17/10/94, p. 43. In mezzo a operazioni simili, anche un solo animale portatore di patogeni può trasmetterli a tutte le altre carcasse, senza considerare il fatto che generalmente in un hamburger ci sono tracce di carni provenienti da più di un animale e che perciò un solo animale contaminato può intossicare centinaia di persone. 290 Pretty J., Agri-Culture - Reconnecting People, Land and Nature. Earthscan Publications, London, 2002. 291 “La Salmonella è l’agente patogeno più frequente in Italia: secondo l’Istituto Superiore di Sanità nel 2000 si sono avuti 10.000 casi di contagio umano, ma altre fonti forniscono dati diversi. Secondo il professor Valerio Giaccone, del dipartimento di Sanità pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria dell’Università di Padova, in Italia sono stati riscontrati 45.000 casi nel 1997, 25.000 nel 2000, 35.000 nel 2003. (…) In Italia, una percentuale molto alta della carne di pollo, delle uova e dei prodotti derivati è contaminata dalla Salmonella. (…) Il numero dei contagi non regredisce perché il mercato del cibo diventa sempre più vasto e complesso. (…) L’istituto Superiore di Sanità ammette che l’incidenza reale della Salmonella sulla popolazione è di gran lunga superiore ai dati ufficiali. Trenta volte superiore, suggerisce qualcuno”. P. Conti, cit., pp. 50-51. 292 Solo nel 1994 il Vecchio Continente si è organizzato con un serio sistema di rilevazione delle malattie infettive (…) usato per monitorare la diffusione di Salmonella ed Escherichia Coli. P. Conti, cit., p. 49. 293 La vicenda ‘mucca pazza’ è scoppiata nel 1996, anche se ha assunto dimensioni molto ampie solo più tardi, ma è nota agli ambienti scientifici già da una decina d’anni. Nonostante da molto tempo non si abbia notizia di nuovi casi, i pericoli non sono del tutto da archiviare: c’è infatti da temere che, dato il lungo periodo di incubazione della malattia di Creutzfeld –Jacob, anche alcuni decenni, assisteremo ad altri casi di BSE umana. J. Rifkin, cit., Introduzione all’edizione italiana, pp. 3-9. 294 “Mucca pazza, muoiono due ragazzi”, La Stampa, 7/04/08, in http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200804articoli/31687girata.asp . 93 del numero di animali coinvolti, detenuti in condizioni del tutto disagevoli. In particolare, preoccupa molto l’aumento della domanda di carne di pollo e di maiale, due tra le specie più pericolose per quanto riguarda la trasmissione di malattie all’uomo e il cui allevamento è più automatizzato. La cattiva gestione dei reflui provenienti dai capannoni, assieme all’aumento dei trasporti di carne e all’inevitabile contatto con animali selvatici aumenta di molte volte la possibilità di scatenare pandemie su scala mondiale, specialmente quelle scatenate dai virus che non sono tenuti sotto stretto controllo come quello dell’influenza aviaria (H5N1). La preoccupazione si concentra, tra l’altro, sui virus IAV, ampiamente presenti nella carne avicola e suina in commercio295. Queste preoccupazioni vengono confermate dal Ministero della Salute italiano, che solo pochi mesi fa avvertiva: “Il problema delle epidemie che stanno colpendo in maniera diffusa i bovini europei appare serio. Dopo l'imminente periodo invernale, le malattie contagiose potrebbero riproporsi con maggiore virulenza in tutta Europa”296. Gli alimenti di origine animale sono inoltre da evitare, a vantaggio dei vegetali, in quanto le sostanze tossiche sempre più presenti nell’ambiente tendono ad accumularsi nei tessuti grassi. Più un animale è posto in alto nella catena alimentare, più è elevato il rischio di contaminazione delle sue carni e dei prodotti da esso derivati, visto che le sostanze si trasferiscono dal cibo ingerito ai suoi tessuti. A parità di inquinamento ambientale, pertanto, i cibi animali sono molto più tossici dei cibi vegetali, in cui le sostanze velenose transitano velocemente. I casi di intossicazione da agenti inquinanti attraverso cibi animali non mancano: tristemente tragico è il caso del morbo di Minamata297, la cui “versione aggiornata” è possibile rinvenire, per esempio, nel disastro ambientale e sanitario di Priolo 295 FAO Newsroom, “Dramatic Changes in Global Meat Production Could Increase Risk of Diseases”, 17/09/2007, in http://www.fao.org/newsroom/en/news/2007/1000660/index.html , citato in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=319&pg=1 . 296 Notizia comparsa su Settimanale del Ministero della Salute, 6/10/2007, citato in “Allarme epidemie animali”, Nutrition Ecology Information Center, http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=336&pg=1 . 297 In questa cittadina del Giappone, nel 1953 la popolazione, animali domestici compresi, venne colpita da moltissime gravi malattie, in particolare del sistema nervoso. La causa dell’avvelenamento di massa fu il mercurio contenuto in quantità abnormi nel pesce locale –prodotto di base dell’alimentazione del posto-, cresciuto in acque fortemente contaminate dal pericolosissimo metallo pesante scaricato in mare per decenni dalla Chisso Corporation, una grossa azienda chimica situata proprio nella baia di Minamata. Il mercurio, una volta a contatto con l’acqua marina, diventa metilmercurio, un composto che si accumula nel sedimento marino e nei pesci, in particolare in quelli più grassi e al vertice della catena alimentare (cioè carnivori). Il metilmercurio è presente in tutti i mari del mondo, come conseguenza degli scarichi industriali tossici, e contamina tutti i suoi abitanti. E’ un composto particolarmente adatto a passare dalla placenta al feto, e per questo il National Research Center for Women and Families di Washington ha vietato alle donne incinte il consumo dei pesci particolarmente grassi, limitando fortemente le quantità di tutti gli altri. Per quanto riguarda l’Italia, il pesce del Mediterraneo è molto più a rischio del pesce oceanico perché il Mediterraneo è un mare chiuso e poco profondo e i suoi pesci accumulano più mercurio più rapidamente. L’Unione Europea, inoltre, è il primo consumatore mondiale di mercurio al mondo; l’Italia, come gli altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, rilascia mercurio nell’ambiente dagli anni ‘50. P. Conti, cit., pp. 22, 41-43. 94 Gargallo, in Sicilia298; in Italia ormai non stupiscono più le notizie riguardanti sequestri di pesce o molluschi marini pescati in mari troppo inquinati299. Il preoccupante picco di patologie tumorali di varia natura rilevato in Campania è stato messo in correlazione, tra l’altro, anche con il consumo di alimenti di origine animale provenienti da pecore e bufale contaminate da mangimi contenenti diossina e altri inquinanti molto potenti, provenienti da materiali gettati sui terreni o interrati illegalmente da organizzazioni criminali dedite allo smaltimento illegale di rifiuti tossici300. L’ambiente La zootecnia non ha niente da “invidiare” all’estrazione di petrolio, alle miniere, alle acciaierie o alle centrali nucleari, quanto ad impatto ambientale. Le esternalità negative provocate dalla conduzione di ogni tipo di attività in cui si sfruttano animali sono diverse e imponenti, facendo sì che il settore costituisca una delle più insidiose minacce alla salvaguardia dei più disparati ecosistemi del mondo. Per semplicità, è opportuno analizzare separatamente i problemi indotti dalle attività zootecniche, tenendo tuttavia in considerazione il fatto che quasi sempre si tratta di problematiche concatenate in una sorta di circolo vizioso. 1. L’acqua Le attività economiche che si servono di animali o di loro sottoprodotti sono una minaccia per le fonti d’acqua locali. Innanzitutto i consumi del preziosissimo liquido, all’interno degli allevamenti intensivi301, sono impressionanti -sia perché gli animali bevono molto302, 298 Questa cittadina in provincia di Siracusa ospita uno dei più grandi poli petrolchimici italiani, che nel corso di decenni ha inquinato il mare e il territorio locale sia attraverso scarichi di mercurio in mare sia attraverso lo smaltimento illegale di quantità indefinite di rifiuti tossici –contenenti, fra l’altro, mercurio. Anche qui il pesce è un alimento molto consumato. Nei paesi vicini al petrolchimico, Priolo in particolare, la percentuale di decessi per tumore è del 33% e il tasso dei bambini che nascono malformati ha raggiunto il 6% -la soglia d’allarme è stata fissata dall’OMS all’1,5%. La situazione di Porto Marghera non è molto diversa. Ibidem, pp. 44-46. 299 Il resto del pesce è meno tossico ma di certo non è salutare. “Quello delle acque contaminate pare essere uno dei problemi fondamentali per quanto riguarda il pesce e soprattutto i molluschi”. Ibidem, p. 77. 300 Bernardo Iovene, “Terra bruciata”, Report, puntata del 7/03/2008, Rai Tre. 301 Per ricavare un kg di proteine animali occorrono quindici volte più acqua di quella necessaria a produrre un kg di proteine vegetali. Frances Moore Lappé, Diet for a Small Planet. New York, a Friends of the EarthBallantine Book, 1973, pp. 76-77. E’ l’industria della carne, per lo più bovina, il consumatore di più della metà dell’acqua consumata negli Stati Uniti. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 238. 302 Una mucca da latte beve mediamente 200 litri d’acqua al giorno. Raffaella Ravasso, Massimo Tettamanti (a cura di), Ecologia della nutrizione - Valutazione dell’impatto ambientale di diverse tipologie di alimentazione, 2005, p. 40. 95 sia perché i locali di stabulazione vengono costantemente puliti, per cercare di scongiurare il pericolo di infezioni e di contaminazione della carne. Gli sprechi più scandalosi derivano, tuttavia, dalla coltivazione delle piante destinate ad alimentare gli animali d’allevamento –i cui bisogni alimentari, artificialmente modificati per far crescere e ingrassare l’animale il più rapidamente possibile, sono poderosi-: si tratta di colture intensive, che necessitano di per sé di moltissima acqua, e soprattutto di particolari piante dai bisogni idrici spropositati, come il mais303. L’incredibile fabbisogno d’acqua richiesto dalla zootecnia viene soddisfatto sempre più attraverso il ricorso ad acque sotterranee (mettendo a rischio la sicurezza idrogeologica delle popolazioni locali e non, in quanto l’acqua diminuisce304 e la falda si abbassa305) oppure a quelle fluviali, provocandone talvolta il drammatico esaurimento306: tutto ciò è un’ottima premessa per la desertificazione, che difatti avanza più in fretta proprio nelle aree interessate dall’agrozootecnia intensiva ed estensiva307. Dei 3000 km cubi di acqua disponibili sulla Terra ogni anno, se ne utilizzano il 70% per l’agricoltura e la zootecnia308. Durante l’ultima “Settimana dell’acqua”, tenutasi a Stoccolma nell’agosto 2007, gli esperti di tutto il mondo hanno concluso che la situazione attuale è estremamente pericolosa, per quanto riguarda la disponibilità di risorse idriche accessibili alla popolazione mondiale. Pertanto, l’invito alle 303 Per produrre ogni tonnellata di mais, il cereale più utilizzato per l’allevamento di bovini, occorrono 1000 tonnellate d’acqua: si tratta del cereale che "beve" di più e di quello nella cui coltivazione intensiva sono utilizzate le maggiori quantità di fertilizzanti azotati, diserbanti e insetticidi; una perversa combinazione, terribilmente insostenibile, tra l’animale che ‘consuma’ di più e il cereale che necessita di maggiori cure . Enrico Moriconi, Nutrirsi tutti inquinando meno. Associazione Centro di documentazione di Pistoia, 1996, pp. 21-24; Marinella Correggia, Addio alle carni: Come e Perché. Supplemento alla rivista LAV ‘Impronte’, 2001, 4° capitolo; Rosella Sbarbati del Guerra, Il Vegetarianesimo. Xenia, Milano, 2001, p. 34. 304 Il caso della falda Ogallala, negli Stati Uniti, è terribilmente significativo in tal senso. Si prevede che nel 2040 la falda conterrà il 50% dell’acqua estraibile di oggi e che nel 2100 le acque saranno scese a una profondità tale da non poter più essere sfruttate; per questo motivo le aree irrigue dovranno necessariamente ridursi del 30%. Se tali allarmi non saranno presi in considerazione, la regione delle Grandi Pianure statunitensi potrebbe diventare inabitabile in pochi decenni e gli Stati Uniti potrebbero perdere gran parte del loro surplus cerealicolo, minacciando la sicurezza alimentare propria e degli altri 100 paesi che da essi importano grano. Il maggiore responsabile di questa tragedia annunciata è l’industria della carne: è stata pompata più acqua da questa falda per la produzione di manzo che per l’irrigazione di tutta la frutta e la verdura dell’intero paese. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 238; E. Moriconi, cit, p. 25; Erik Marcus, Vegan: the New Ethics of Eating. Mc Books Press, Ithaca, NY, 1998, p. 160. 305 In California, dove il 42% dell’acqua dolce è destinata all’irrigazione di cereali per alimentazione animale e al consumo diretto da parte di bovini e altro bestiame, le falde acquifere della San Joaquin Valley sono scese così in profondità che si registrano episodi di subsidenza, in alcuni punti persino di dieci metri. Paul Ehrlich, Anne Ehrlich, John Holdren, Ecoscience – Population, Resources, Environment. W. H. Freeman & Co., San Francisco, 1977 p. 29. La Cina sta rapidissimamente aumentando il consumo medio di carne e ha gli stessi problemi degli USA: le coltivazioni intensive ed estensive di cereali cinesi consumano tanta acqua che il livello della falda freatica della zona di Pechino è pericolosamente sceso(sembra che ogni anno questa falda si abbassi di 4 metri) E. Marcus, cit., p. 160. 306 In Cina, il Fiume Giallo nel 1995 è andato in secca 750 km prima di raggiungere il mare. E. Moriconi, cit, pp. 21-24. 307 Così accade in Cina, in India, nel Maghreb e in altri paesi. E. Moriconi, cit, p. 93; World Watch Institute, State of the World 1990, Washington, citato in E. Marcus, cit, p. 160. 308 E. Moriconi, cit., p. 21; J. Rifkin, cit., p. 249. 96 istituzioni di tutto il mondo è quello di spingere la popolazione a cibarsi di cibi che richiedono meno acqua – quindi, bandire gli alimenti animali309. In secondo luogo, l’acqua viene anche irrimediabilmente inquinata. Gli allevamenti intensivi producono quantità incredibili di rifiuti organici310 liquidi311, inutilizzabili dall’agricoltura in quanto pieni di sostanze chimiche (utilizzate sugli animali e per i mangimi) e di pericolosi agenti patogeni, nonché di metalli pesanti, altamente tossici312. Questi fanghi vengono inizialmente fatti decantare in ampie ‘piscine’ situate accanto ai capannoni –cosa che provoca l’inabitabilità delle aree circostanti e un drammatico peggioramento delle condizioni di vita della popolazione residente313, nonché rischi periodici di fuoriuscita dei fanghi tossici314- per essere poi smaltiti in mare e nei campi, eliminando ogni forma di vita dagli ecosistemi coinvolti315, nonché inquinando a loro volta le falde acquifere sottostanti316 e provocando, talvolta, delle gravi epidemie317. Questo 309 Nutrition Ecology Information Center, “Settimana dell’acqua a Stoccolma”, 16/08/2007, in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=289&pg=1 . 310 Gli animali allevati negli Stati Uniti producono 130 volte la quantità di escrementi prodotti dall’intera popolazione umana del paese. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 241. 311 Il contenuto in sostanza secca (quindi in elementi che, nei decenni passati, sarebbero stati nutritivi per la terra) è inferiore al 10%. R. Ravasso, M. Tettamanti, cit, p. 26. 312 I liquami costituiscono un vero e proprio rifiuto pericoloso, ricco di azoto, fosforo e potassio, endotossine batteriche, gas volatili e delle tracce di tutte le molecole sintetiche somministrate agli animali (minerali e microelementi, metalli pesanti, farmaci e loro residui, ormoni, antibiotici, anabolizzanti, disinfettanti di stintesi utilizzati per gli ambienti). Commentando un rapporto dell’U.S. Senate Agricoltural Committee del 1997, un giornalista scrive: “I rifiuti organici del bestiame, non trattati e dannosi, farciti di sostanze chimiche e microrganismi responsabili di malattie, vanno nel suolo e nell’acqua che molte persone utilizzano per bere e per lavarsi. Questi rifiuti contaminano i fiumi, uccidono i pesci e fanno ammalare la gente. Ci sono stati dei catastrofici casi di inquinamento, malattie e morti nelle aree in cui si sono concentrati gli allevamenti. In ogni luogo in cui gli impianti zootecnici vengono situati si lamentano casi di malattie ad essi connesse”. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 242. I fenomeni di inquinamento massiccio sono uguali per quanto riguarda l’allevamento di animali da pelliccia: una spiegazione dettagliata è presente su http://www.campagnaaip.net/idp/impatto_ambiente.htm e su http://pellicce.felinesoul.net/inquinamento.html. 313 J. Mason, P. Singer, The Ethics…., cit., pp. 29-32, 43-44, 64-65. 314 Ibidem, pp. 64-65. 315 In seguito all’inquinamento provocato dai rifiuti animali dei capannoni locali, nel Golfo del Messico c’è oggi una ‘zona morta’ di 11.000 km quadrati, del tutto incapace di ospitare a lungo la maggior parte delle forma di vita originarie. US Environmental Protection Agency, cit.; J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 243. Un’altra ‘zona morta’ si trova nella Chesapeake Bay, nel Delaware, uno stato orientale degli Usa. Sulla penisola Delmarva, che si affaccia sulla baia, vengono allevate 600 milioni di galline l’anno, che producono più deiezioni di quanto farebbe una città di quattro milioni di abitanti. Questi rifiuti, anziché passare dal sistema fognario come accade per le deiezioni umane, vengono sparse sui campi, che però non sono sufficienti ad assorbire tali quantità di azoto e fosforo; pertanto, il 50% di tali minerali si riversa nei fiumi o nelle falde acquifere. Un terzo dei pozzi superficiali situati nella penisola, inclusi quelli utilizzati per l’acqua potabile, presentano livelli di nitrati superiori agli standard federali. Nei fiumi e nella baia, questi nutrienti in eccesso stimolano la crescita abnorme delle alghe che, decomponendosi, sottraggono ossigeno all’acqua e quindi fanno morire i pesci e le altre forme di vita marina. La baia presenta ora una zona morta che si estende per 100 miglia al centro della baia. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., pp. 29-30. 316 Massimo Tettamanti, “L’impatto sull’ambiente degli allevamenti”, in http://www.scienzavegetariana.it/ambiente/imp_amb_vegag2004.html . 317 Dopo un violento temporale nel 1993, un focolaio di Cryptosporidium nell’acqua potabile, provocato dalla fuoriuscita di acque reflue provenienti da allevamenti, ha causato 100 morti a Milwaukee (USA) e fatto ammalare altre 400.000 persone (se la presenza di tali microrganismi supera il livello di guardia, non solo 97 avviene quando lo smaltimento dei rifiuti viene effettuato secondo le normative in vigore, ma non è raro che gli imprenditori utilizzino canali ‘alternativi’ per risparmiare –dati i costi elevati richiesti per lo smaltimento di rifiuti pericolosi come questi-318. L’industria conciaria, inoltre, costituisce uno dei settori più inquinanti in assoluto: l’utilizzo massiccio di metalli pesanti per trattare –cioè ‘mummificare’ un pezzo di carne normalmente destinato alla decomposizione- e tingere le pelli e le pellicce provoca un disastro ecologico nei corsi d’acqua situati nei pressi delle fabbriche, nonché nei terreni destinati ad accogliere i rifiuti319. Tutto questo accade in un periodo storico in cui l’acqua continua a scarseggiare320 tanto che, secondo molti analisti, costituirà la ricchezza contestata nelle guerre del prossimo futuro321. 2. L’inquinamento Gli allevamenti intensivi sono delle vere e proprie fabbriche che, oltre alle acque, inquinano con la stessa gravità l’aria e i corpi umani. Da una parte, nell’allevamento in capannone si utilizzano rilevanti quantità di minerali, antibiotici, chemioterapici, disinfettanti e persino svariate sostanze illegali – spesso presenti nelle carcasse322-, che si emergono grossi rischi per la salute ma si devono anche cercare fonti alternative di acqua potabile). J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 147. 318 Legambiente, Dossier CIAF Ambiente e Rischio Traffico Illegale di Rifiuti in Abruzzo, Lanciano, 22/03/2006, tratto da http://www.casanaturafontecampana.it/DOSSIER%20CIAF.pdf ; Rapporto Ecomafia 2006, tratto da www.legambiente.lazio.it/Dossier/rapporto%20ecomafie%20regionale%202006.doc ; le istituzioni comunitarie sono preoccupate delle dimensioni che il fenomeno dello smaltimento illegale di rifiuti sta assumendo, in particolare in Italia; su questo, http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2004_2009/documents/dt/608/608859/608859it.pdf . In generale, la presenza della criminalità organizzata nel settore zootecnico è molto rilevante, probabilmente perché attraverso manovre illecite è possibile ottenere introiti molto elevati: è il caso del traffico di ormoni, antibiotici e sostanze dopanti, della macellazione clandestina, dell’allevamento al di fuori di ogni regola – come il caso recentemente emerso delle bufale campane, il cui allevamento è, presumibilmente, in buona parte gestito da elementi vicini alla camorra-, della vendita di prodotti animali del tutto non consumabili. “Mafia, camorra e ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita hanno da poco scoperto che l’agricoltura rappresenta una preziosa risorsa. Secondo quanto riferiva nel 2003 la Direzione Investigativa Antimafia, la malavita controlla in questo settore un giro d’affari dell’ordine di 7,5 miliardi di euro”. P. Conti, cit., pp. 79-80. 319 Informazioni tratte da http://www.campagnaaip.net/idp/impatto_ambiente.htm . 320 Jean François Rischard, Conto alla Rovescia: Venti problemi globali, Vent’anni per risolverli. Sperling & Kupfer, Milano, 2002, p. 103; Lester Brown et al., State of the world 1990. Rapporto sul nostro pianeta del World Watch Institute. Edizione italiana di ISEDI, Milano, 1990, p. 81, citato in J. Rifkin, cit., p. 249; Roberto Scafuri, Pax Americana. Edizioni Nutrimenti, Roma, 2003, p. 74. 321 Il libro di Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua (Feltrinelli, 1994) mira a dimostrare proprio che la situazione dell’approvvigionamento idrico universale sarà sempre più in crisi, se non si interromperanno le perverse spirali di incessante consumo, spreco e inquinamento (oltre alla privatizzazione). Recensione di PeaceLink, in http://www.peacelink.it/ecologia/a/3725.html . 322 I frequenti ritrovamenti di depositi di sostanze proibite non sono altro che la dimostrazione di quanto queste siano utilizzate diffusamente in Italia. Enrico Moriconi, “Mangio dunque Sono”, http://www.enricomoriconi.it/html/download/Mangio_dunque_sono_06.pdf . 98 accumulano nella catena alimentare, attraverso il consumo di cibi o acque contaminate. Questi composti, se ingeriti dall’essere umano, provocano effetti a lungo termine di gravità rilevante: basti pensare all’anomalo abbassamento dell’età fertile nelle ragazzine e nei numerosi casi, riscontrati negli anni 80, di crescita nel seno nei ragazzi323 e di sviluppo precoce nelle bambine324 (fenomeni imputabili alla presenza di ormoni negli alimenti animali, di cui i ragazzi si cibano in quantità importanti), nonché nelle minacce derivanti dalla lotta sempre più faticosa ai batteri: la tanto temuta “resistenza agli antibiotici”325, che sembra essere divenuta una pericolosissima realtà. Un altro problema deriva dal numero e dalla concentrazione degli animali allevati: quelli più grandi producono quantità allarmanti di metano, un gas serra la cui pericolosità è di molte volte superiore a quella dell’anidride carbonica326; nei pressi degli allevamenti intensivi, la vita normale diventa impossibile in 323 Tale fenomeno è stato imputato al consumo di omogeneizzati contaminati da dietilstilbestrolo. Loizzo A., Gatti G.L., Macri A., Moretti G., Ortolani E., Palazzesi S., “Italian Baby Food Containing Diethylstilbestrol Three Years Later”, Lancet, n.5/1984, pp. 1014-1015; lo scandalo più clamoroso in Italia si riferiva al caso di una scuola media milanese in cui molti ragazzi avevano avuto casi di ginecomastia, alla fine degli anni 80; documento citato in http://verdi.camera.it/vecchiosito/scaffale/int17.htm . 324 Numerosi casi di telarca sono stati riscontrati nel 2000 a Torino e ancora nel 2003 i casi non accennavano a diminuire. Il primo caso in Italia è stato segnalato nel 1995 nella provincia di Vicenza. Enrico Moriconi, “Mangio dunque Sono”, in http://www.enricomoriconi.it/html/download/Mangio_dunque_sono_06.pdf . 325 Il largo uso di antibiotici negli alimenti animali, sempre più consumati, fa sì che alcuni batteri riescano ad assumere nuove caratteristiche genetiche e diventino immuni a queste sostanze, così, quando ci si ammala, i farmaci non funzionano. Per avere un’idea della quota imputabile all’allevamento del fenomeno della resistenza batterica, basta sapere che ogni anno negli USA vengono somministrate 11.000 tonnellate di antibiotici agli animali d’allevamento, quota corrispondente a circa il 70 % di tutta la produzione annua e pari a otto volte la quantità usata per curare le persone. Union of Concerned Scientists, “70 Percent of All Antibiotics Given to Healthy Livestock”, 8/01/2001, in http://www.ucsusa.org/releases/01-08-01.html . L’antibiotico-resistenza viene considerata una vera e propria minaccia globale. In un’inchiesta della House Of Lords del Regno Unito, si legge: “Esiste una minaccia continua alla salute umana derivante dall’uso imprudente degli antibiotici negli animali (…). Potremmo dover affrontare la disastrosa prospettiva di ritrovarci nell’era pre-antibiotici”. Nierenberg D., “Factory Farming in the Developing World”, World Watch Magazine, May/June 2003; House of Lords Select Committee on Science and Technology, Seventh Report: Resistance to antibiotics and other microbiological agents, HMSO, 1998. 326 I bovini che pascolano sulla Terra producono, semplicemente attraverso le loro attività metaboliche, il 1216 %326 delle emissioni totali e il 25% delle emissioni provocate da attività indotte dall’uomo di metano, gas il cui potere “serra” è di ventiquattro volte superiore rispetto all’anidride carbonica e di cui si riscontra l’aumento maggiore negli ultimi decenni. Nierenberg D., “Factory Farming…”, cit., ; J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 267. Una mucca da latte produce circa 75kg di metano l’anno, equivalenti a oltre 1.5 tonnellate di anidride carbonica. Brasile e Argentina, in testa tra tutti i paesi dell’America Latina, sono i paesi con la più alta quota pro capite di metano prodotto, a causa dell’imponenza del settore zootecnico. Le concentrazioni atmosferiche di metano sono aumentate del 150% rispetto a 250 anni fa, mentre quelle di anidride carbonica sono aumentate del 30%. United Nations Environment Programme, Unit on Climate Change, in http://www.worldwatch.org ; J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 267. “Quando le mucche ruminano (…) producono gas chiamati ‘composti organici volatili’. Quando ci sono molte mucche, si può produrre molto gas (…). La valle di San Joaquin, parte della Central Valley della California e regione agricola tra le più floride del mondo, si pone accanto a Houston e Los Angeles dal punto di vista della qualità dell’aria, la peggiore in tutti gli Usa. Negli ultimi sei anni la valle ha violato il limite federale sullo smog di ozono più spesso di ogni altra regione nel paese. I funzionari del San Joaquin Valley Air Pollution Control District ritengono che i 2.5 milioni di mucche da latte della valle siano la maggiore fonte di inquinanti che causano lo smog e stanno provando a obbligare l’industria del latte a fare qualcosa. Altri gas sono emessi dal letame e dalle ‘lagune’ in cui viene conservato. Un uomo che, conseguentemente all’esposizione ai gas ha sviluppato l’asma, ha detto: ‘I nostri polmoni non diventeranno un sussidio agricolo’. Il problema non è solo per i residenti: i gas contengono metano, che contribuisce in modo significativo al riscaldamento globale. Da 99 quanto i cattivi odori e le sostanze tossiche ivi generate si possono avvertire da chilometri di distanza327. L’agrozootecnia è poi responsabile di un utilizzo massiccio di energia, dati gli elevatissimi consumi dei capannoni e di quelli derivanti dalla coltivazione intensiva delle colture utilizzate per i mangimi –in cui fertilizzanti e pesticidi derivano dal petrolio, necessario anche per usare le macchine agricole- nonché degli impianti di macellazione, confezionamento, refrigeramento e del trasporto fino ai punti vendita328. La diffusione crescente dei banchi macelleria negli ipermercati, in cui gli acquirenti possono prendere da sé tagli preconfezionati di carne, ha fatto ulteriormente aumentare il consumo di energia imputabile alla produzione di alimenti animali, in quanto i tagli suddetti sono confezionati nel polistirolo e in altri tipi di imballaggio non riciclabili né riutilizzabili. Un recente articolo, apparso sulla rivista New Scientist, ha evidenziato che “Un chilo di manzo è responsabile della produzione di gas serra e di altri inquinanti in quantità maggiori rispetto a quanto potrebbe emettere una persona guidando l’auto per tre ore dopo aver lasciato tutte le luci di casa accese”329. Recentemente, molte associazioni ambientaliste hanno lanciato delle campagne per sensibilizzare la gente ad acquistare cibi “a chilometri zero”, per dare un segnale preciso al mondo produttivo circa la necessità di tagliare le emissioni di gas serra prodotte nella fase di imballaggio e trasporto. Se da una parte è evidente che, ad esempio, l’importazione di vegetali fuori stagione da altri continenti costituisca un comportamento criticabile dal punto di vista ecologico, dall’altra bisogna sottolineare che l’eliminazione dalla dieta dei cibi di origine animale darebbe la possibilità di risparmiare quantitativi molto più ingenti di gas serra (oltre che di acqua, terreno, cereali), visto che i consumi di energia necessari per questo punto di vista stiamo tutti pagando dei sussidi all’industria dell’allevamento”. Miguel Bustillo, “In San Joaquin Valley, Cows Pass Cars as Polluters”, Los Angeles Times, 2/08/2005, citato in J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 60. 327 Ibidem, pp. 24, 29-32, 44. “Gli allevamenti intensivi di maiali sono qualcosa di più di un fastidio. Sono anche un rischio per la salute pubblica, secondo l’American Public Health Association, il più grande ente di professionisti della salute pubblica negli USA. Nel 2003, citando una serie di malattie umane legate ai rifiuti degli animali d’allevamento e all’utilizzo di antibiotici, l’APHA approvò una risoluzione che spingeva i funzionari governativi ad adottare in fretta una moratoria sulla costruzione di nuovi allevamenti di suini”. APHA, “Precautionary Moratorium on New Concentrated Animal Feed Operations”, 2003 Policy Statements, pp. 12-14, www.apha.org/legislative/policy/2003/2003-007.pdf . 328 “L’allevamento intensivo di bovini alimentati a mais è proprio l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno: una macchina a combustibili fossili”. J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 63. Per avere un’idea della quantità di inquinanti rilasciati durante i vari processi riguardanti la carne, il rilascio di anidride carbonica provocato dalla produzione di una bistecca è pari a quello di un’automobile media in 40 km; occorrono 78 calorie di combustibile fossile per produrne una di proteine dalla carne. Alan Durning, Eating Green, Nutrition Action Health Letter From Center for Science in the Public Interest, Washington, DC, Jan/Feb 1992, p. 7; R. Ravasso, M. Tettamanti, cit., p. 39. “Il mangime per animali prodotto negli Stati Uniti necessita di così tanta energia per crescere da poter essere considerato un sottoprodotto del petrolio”. Worldwatch Institute, citato in J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 267. 329 Daniele Fanelli, “Meat Is Murder on the Environment”, New Scientist, 18/01/2007, citato in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=276&pg=2 . 100 la produzione di questi alimenti sono estremamente elevati (il trasporto incide, difatti, solo per una piccola parte sull’energia totale utilizzata per portare in tavola un determinato cibo). Uno studio della Carnegie Mellon University, apparso sulla rivista Environmental Science and Technology nell’aprile 2008, evidenzia appunto che la scelta di consumare cibi vegetali anziché animali consente un risparmio di gas serra fino a otto volte maggiore rispetto alla scelta di consumare cibi locali anziché trasportati da altri luoghi. Infatti, le emissioni di gas serra associate al cibo sono dominate dalla fase di produzione (83%) piuttosto che dal trasporto delle materie prime (11%) o dal trasporto finale dal produttore al consumatore (4% - è questo parametro che viene considerato nei prodotti a “chilometri zero”). Il risparmio energetico è evidente se si osserva che, per quanto riguarda le emissioni totali di gas serra connesse alla fase di produzione, carne, pesce, uova e latticini ne provocano il 40%, i cereali l’11%, la frutta e gli ortaggi l’11%, le bevande il 6%, gli oli il 6%, altri cibi l’8%. I ricercatori hanno anche calcolato i km-cibo per le varie categorie di alimenti e scelte di consumo. Per dare una definizione applicabile alla vita di tutti i giorni a questi risultati, hanno calcolato i “km equivalenti” dei vari tipi di scelta, cioè i km che si risparmiano, in termini di gas serra, decidendo di comprare i prodotti locali, e quelli che si risparmiano scegliendo invece certi tipi di cibo al posto di altri. • In una famiglia media, scegliendo di comprare solo prodotti locali per un anno intero, si "risparmiano" 1600 km. • Scegliendo di mangiare cibi esclusivamente vegetali anche per un solo giorno la settimana, si risparmia già di più, 1860 km. • Scegliendo di mangiare cibi esclusivamente vegetali per tutto l'anno, si risparmia molto di più: 13.000 km. Ciò significa che l'alimentazione 100% vegetale è otto volte più potente di quella locavora (cioè che prevede solo consumi di prodotti locali), in termini di risparmio di emissioni di gas serra330. 3. La deforestazione e la desertificazione Gli allevamenti intensivi non concedono un menu molto vario agli animali: accanto al foraggio, che sta divenendo una parte sempre più minoritaria dell’alimentazione, soia e 330 Christopher L. Weber, H. Scott Matthews, “Food-Miles and the Relative Climate Impact of Food Choices in the United States, Environmental Science and Technology, 16/04/2008, citato in “Effetto serra: vince l’alimentazione vegetariana sul consumo locale”, Nutrition Ecology Information Center, 25/04/2008, in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=491&pg=1 . 101 mais costituiscono la base della dieta “ingrassante”. Pertanto, stanno aumentando le aziende agricole produttrici di tali colture –quasi sempre transgeniche- dato l’inarrestabile aumento dei consumi di carni, pesci e derivati, a scapito della vegetazione originaria di molti paesi del Sud del mondo, abbattuta senza molti scrupoli per far posto alle coltivazioni; il medesimo risultato viene prodotto dal pascolo degli animali, laddove l’allevamento è di tipo estensivo (in particolare, America Centro-meridionale). A causa delle attività di pascolo331, Amazzonia332, Indonesia, Sud-Est Asiatico e altre aree della terra333 vedono inesorabilmente diminuire le aree ancora ricoperte dalla vegetazione originaria334 e il numero delle specie di flora e fauna. Le aree deforestate sono destinate alla coltivazione di derrate alimentari da inviare agli allevamenti intensivi di tutto il mondo (10%) oppure al pascolo estensivo di bovini (90%)335: in entrambi i casi, gli ecosistemi originari, dotati di uno strato di humus estremamente sottile e delicato, vengono distrutti, facendo paradossalmente avanzare la desertificazione in aree prima ricoperte da una vegetazione lussureggiante, oltre a innescare una corsa alla distruzione di ulteriori estensioni di foresta vergine, visto che la produttività di simili terreni è estremamente breve336 . Il deserto è in aumento in tutto il mondo, ma in modo particolare laddove nuove terre sono state messe a coltura per nuovi bisogni alimentari: prodotti animali in quantità337. Il pascolo è, in assoluto, la principale causa di desertificazione del suolo (nel 331 J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 270. Tra il 1997 e il 2003 il volume dell'esportazione di bovini dal Brasile è aumentato di oltre cinque volte; l'80% di questo incremento di produzione ha avuto luogo nella foresta Amazzonica. Kaimowitz D., Mertens B., Wunder S., Pacheco P., "Hamburger connection Fuels Amazon Destruction", Center for International Forestry Research (CIFOR), aprile 2003, citato in http://www.nutritionecology.org/it/panel1/intro.html . 333 In Indonesia la deforestazione è avanzata da 17.000 a 20.000 km quadrati l’anno, con una diminuzione del 50% del manto verde dal 1985; a partire dal 1960, più dal 40% delle foreste dell’America Centrale è stato abbattuto, e una quota superiore al 25% è direttamente imputabile alla volontà di far posto a pascoli per mandrie di bovini; nel contempo il numero dei contadini sin tierra è quadruplicato; tra 1960 e 1980 le esportazioni di carne bovina da El Salvador sono aumentate di quattro volte, e oggi il 72% dei bambini salvadoregni è denutrito; negli ultimi venti anni il Costa Rica ha perso l’80% della sua foresta tropicale e metà delle sue terre arabili sono state trasformate in pascolo; in Honduras il 60% della terra viene destinato a pascolo o alla coltivazione di foraggio; in Colombia più del 70% del territorio è di proprietà di poche famiglie di latifondisti e la terra viene utilizzata in massima parte come pascolo per il bestiame. J.F. Rischard, cit., p. 99; http://www.worldwatch.org ; J. Rifkin, cit., pp. 219-220; J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 287. 334 Si stima infatti che ogni hamburger importato dall’ecosistema pluviale comporti l’abbattimento e la trasformazione in pascolo di cinque metri quadrati di foresta e la perdita di 75 kg di forme viventi. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 256; J. Rifkin, cit., p. 226. 335 Kaimowitz D., cit. 336 Il 90% dei nuovi allevamenti di bestiame nel bacino amazzonico sospende l’attività entro 8 anni dall’avvio, a causa dell’impoverimento del suolo. J. Rifkin, cit., p. 227. 337 Le zone più a rischio di desertificazione sono quelle maggiormente interessate dalla piaga dell’allevamento e dell’agricoltura intensiva ad esso necessaria: la parte occidentale degli Stati Uniti, l’America Centrale e Meridionale, l’Australia, la Cina, l’India, l’Africa Subsahariana. J. Robbins, The Food Revolution, cit., p. 270. 332 102 corso degli ultimi cinquanta anni più del 60% delle pianure della terra ha subito danni a causa dell’eccesso di pascolo)338 mentre le altre possono esservi comunque ricondotte339. La fame nel mondo A tutti è capitato di vedere in televisione un primo piano con lo sguardo di un bambino di un paese povero, sofferente per la fame. Qualcuno è diventato veg*ano dopo aver saputo che tragedie di questo tipo sono indotte anche da una cattiva distribuzione delle risorse alimentari a livello globale, connessa all’incredibile domanda di derrate da destinare agli animali d’allevamento da parte dei paesi industrializzati. La zootecnia intensiva necessita di immani quantità di alimenti: gli ‘animali da reddito’ consumano il 50% della produzione cerealicola mondiale (tra cui l’87% di quella degli Stati Uniti e il 77% di quella UE)340; una mucca mangia quanto farebbero dodici persone. Molto spesso i paesi “produttori” non possono ricorrere ai raccolti interni, in quanto del tutto insufficienti, inadatti, troppo cari o destinati all’alimentazione umana, perciò si rivolgono ai fornitori esteri: moltissimi paesi poveri, del tutto incapaci di assicurare un apporto calorico minimo a tutta la loro popolazione, sono inseriti in questo commercio lucroso (attraverso il quale si raccoglie valuta forte), gestito per o più da grandi gruppi industriali341. Il risultato di un sistema simile è che molti paesi non soddisfano la propria domanda alimentare interna mentre sfamano le future bistecche altrui342: i piccoli contadini sono spesso tagliati fuori da questo processo e non hanno più un reddito, mentre le colture tradizionali –adatte a vivere in ambienti impervi, quindi bisognose di minori “attenzioni” 338 J. Rifkin, cit., pp. 228-230. La coltivazione eccessivamente intensiva della terra risulta necessaria per sfamare un numero tanto enorme di esseri umani e animali; la deforestazione è provocata per lo più dalla necessità di far spazio a pascoli o a coltivazioni intensive, e solo in minima parte dall’industria del legno; inadeguate tecniche di irrigazione, compreso l’utilizzo incosciente di falde sotterranee, sono un elemento immancabile di una coltivazione aggressiva come quella intensiva. Ibidem, p. 228. “In confronto a quella che sarebbe l’erosione puramente naturale, l’uomo ha moltiplicato globalmente per 2,5 la velocità di erosione dei suoli. L’erosione colpisce innanzitutto le zone coltivate. Le stime dicono che in queste zone essa è 8 volte superiore a quella delle zone boscose di uguale clima. Sono quindi i suoli arabili ad essere distrutti. Per rimediare a questa distruzione ci buttiamo sopra concime, li irrighiamo il più possibile: doppio disastro! Da una parte li inquiniamo, dall’altra tendiamo a ‘salarli’ e a renderli inadatti all’agricoltura. La preservazione dei suoli va quindi considerata una priorità assoluta”. Claude Allegre, Economizzare il Pianeta - Per un’Ipotesi di Sviluppo Ecologico. Franco Angeli, Milano, 1992, p. 90. 340 Database FAO, Food Balance Sheet, 2001; citato in R. Ravasso, M. Tettamanti, cit, p. 38. 341 Molto spesso si tratta dello stesso gruppo aziendale proprietario degli allevamenti, che in genere possiede le aziende di tutta la propria filiera. In questo modo, quattro multinazionali arrivano a controllare il 90% del commercio mondiale dei cereali. Trattato sulla sicurezza alimentare, art.6, in AA.VV., La Carta della Terra: il Manifesto dell’Ambientalismo Planetario – Global Forum di Rio de Janeiro 1992. ISEDI, Milano, 1993. 342 La parte maggioritaria del terreno arabile viene utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per l’alimentazione degli esseri umani. Jeremy Rifkin, “Il racket dell’hamburger”, L’Espresso, 13/06/2002, n. 24. 339 103 come acqua a profusione e pesticidi, carissimi a loro volta- costano di più, essendo prodotte in quantità inferiori. Gli animali allevati “a scopi alimentari” sono dei pessimi “trasformatori” di nutrienti; il numero di calorie e proteine utilizzato per alimentarli è di molte volte superiore alle sostanze nutritive che si ottengono cibandosi di parti di essi (in media, il rapporto è di 1:13). Si tratta di un processo di conversione “alla rovescia” che implica uno spreco inquietante e insensato di sostanze nutritive a scapito di molti paesi poveri343. Le risorse impiegate per sfamare un individuo vegetariano sono pertanto molto inferiori rispetto a quelle necessarie a fornire prodotti animali, che tolgono letteralmente il cibo dalla bocca dei poveri del mondo344. Se non ci fossero gli allevamenti da rimpinguare di soia e mais, molti paesi potrebbero coltivare qualcos’altro – e magari sfamare i propri cittadini. Il problema della disponibilità di derrate alimentari per la popolazione mondiale è divenuto, negli ultimi mesi, un problema sempre più grave: alcuni portavoce dell’Onu, qualche mese fa, hanno dichiarato: “Non possiamo sfamare il mondo”. I responsabili del programma PAM non sono più in grado di far fronte alla spesa per nutrire le 90.000 persone l’anno di cui finora si erano occupati. Josette Sheeran, direttrice del programma WFP, ha dichiarato al Financial Times che “non ci troviamo più in un mondo con un surplus di cereali”. Secondo il Dipartimento per l'Agricoltura statunitense, le riserve globali di grano hanno raggiunto il livello più basso da 25 anni a questa parte345. Il problema è che le quattro colture più utilizzate nel mondo (grano, riso, mais, soia) sono diventate molto care in pochissimo tempo a causa di uno spaventoso calo delle riserve detenute dagli stati più forti. Un fattore che i mass media prendono sempre più in considerazione per spiegare quest’improvvisa penuria di cereali è la corsa alla produzione di biocarburanti, effettivamente sempre più imponente. Tuttavia, è scandaloso che il fattore agro-zootecnico, che assorbe la metà dei cereali prodotti nel mondo e preme sulle 343 A un vitello (i bovini sono chiamati “le Cadillac dell’allevamento” a causa dei loro consumi elevatissimi di mangime) servono 13 kg di cereali e soia per aumentare di un kg, mentre ne servono 11 a un vitellone e 24 ad un agnello. I polli richiedono invece 3 kg di mangime per ogni kg di peso corporeo. Se poi si considerano le parti anatomiche scartate per l’alimentazione umana queste quantità vanno quasi raddoppiate. R. Ravasso, M. Tettamanti, cit, p. 37. 344 Un individuo, cittadino di un paese ricco, il cui fabbisogno calorico sia soddisfatto al 30% da alimenti animali consuma indirettamente 9000 calorie di cereali al giorno, mentre chi non si ciba di alcun alimento animale ne consuma in media, direttamente, 2500. E. Marcus, cit, p. 195. 345 Javier Blas, Jenny Wiggins, “UN Warns it Cannot Afford to Feed the World”, Financial Times, 15/07/2007, citato in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=279&pg=2 . 104 disponibilità agricole da moltissimi anni, al contrario dei nuovi biocarburanti, venga costantemente ignorato. Anzi, i paesi in via di sviluppo progettano di aumentare ancora la produzione di carne, pesce e altri prodotti animali. Questa politica è cieca, insensata e suicida: non solo si consumano fondamentali riserve di cereali e leguminose indispensabili per salvare dalla malnutrizione e dalla morte centinaia di milioni di persone nel mondo, ma si insiste nel peggiorare anche il problema energetico (per cui i biocarburanti dovrebbero essere una soluzione). Di fatto, si continua ad alimentare un circolo vizioso in cui sono sempre i più poveri a farne le spese (visto che i prezzi del cibo aumentano senza sosta)346. 346 “Il problema e' anche il costo di questo cibo di prima necessità: mentre i paesi ricchi potranno sempre e comunque permettersi l'acquisto anche se le scorte sono scarse, per quelli poveri non e' così, e un prezzo che e' aumentato del 50% negli ultimi 5 anni e' preoccupante. In alcuni paesi, il costo del mais e' aumentato del 120% negli ultimi sei mesi”. “Dalle Nazioni Unite: “Non possiamo sfamare il mondo””, Nutrition Ecology Information Center, 30/07/2007, in http://www.nutritionecology.org/it/news/news_dett.php?id=279&pg=2 . 105 Parte 2. Lo stato dell’arte Il mercato italiano ed europeo In Italia, la popolazione di riferimento per gli operatori della veg-economy è quantitativamente interessante, soprattutto data l’evidente tendenza all’aumento di coloro che modellano le proprie abitudini di consumo in base a motivazioni etiche. L’indagine più recente è quella condotta da AcNielsen nel 2004, i cui dati sono stati rielaborati dall’istituto Eurispes nel Rapporto Italia 2006, presentato a Roma il 27 gennaio 2006: le statistiche mostrano che il numero di coloro che si dichiarano vegetariani sarebbe pari a 5.7 milioni di persone (il 10% degli italiani, con punte del 18% nella fascia 25-35 anni347), anche se solo la metà di questi individui afferma di seguire con rigore tale dieta – i vegetariani veri ammonterebbero così a circa tre milioni di italiani, mentre gli altri tre milioni sarebbero i cosiddetti “semi-vegetariani”, coloro che assumono carni e pesce con frequenza limitata-, ma soprattutto che questo numero, già importante, sarebbe destinato ad aumentare, raggiungendo i 7 milioni nel 2010 e addirittura i 30 milioni nel 2050 (più della metà della popolazione italiana)348. Sempre secondo quest’indagine, i veg*ani italiani erano 2,9 milioni nel 2002 e 1,5 milioni a fine anni 90349. Dai dati emerge come il “veg*ano-medio” sia una donna (70%), di età compresa tra i 25 e i 54 anni (62%), con un livello di istruzione medio-alto (85%). Sempre secondo l’indagine Eurispes, i vegani italiani costituirebbero il 10% dei vegetariani e sarebbero maggiormente concentrati al Centro e al Nord, in particolare nelle città di Milano e Roma. Le regioni con la maggiore presenza di veg*ani sarebbero la Lombardia (con il 18% del totale degli intervistati), il Lazio (15%), il Piemonte e la Valle D’Aosta (13%), il Friuli Venezia Giulia 347 Vera Schiavazzi, “La carne? Preferisco di no”, 23/09/2005, in http://www.ecologiasociale.org/pg/corpo_home.html . 348 “Nel nuovo rapporto Eurispes ancora in crescita il numero dei vegetariani”, 27/01/2006, da AdnKronos Salute, in http://www.vegetariani.it/vegetariani/articles/1019.html . 349 Emanuela Barbero, “Alimentazione e impatto ambientale”, settembre 2007, in http://www.vegan3000.info/DettInfoNutrizionali.asp?Cod=430 . 106 (10%), la Sicilia (4%)350. Si stima inoltre che la metà dei vegani italiani abbia meno di quarant’anni e che il 20% ne abbia meno di trenta351. Sebbene il valore statistico di questi dati non possa essere contestato, le modalità con cui le persone intervistate sono state interrogate e la possibilità di rispondere alla domanda: “sei vegetariana/o?” in modo affermativo ma graduato fa sì che sembri opportuno prendere questi risultati come una sopravvalutazione delle dimensioni reali del mercato veg*ano, come del resto ha ammesso la stessa indagine352. In particolare, parlare di quasi 600.000 vegani, più dell’1% della popolazione italiana, risulta a tutte le persone coinvolte nell’associazionismo e nell’attivismo animalista fin troppo ottimista353. In ogni caso, il fatto che in quattro anni siano raddoppiate le persone che rispondono affermativamente ad una domanda simile mostra, come minimo, un rilevantissimo tasso di crescita di coloro che si avvicinano all’alimentazione su base vegetale, e pertanto un rilevante aumento del mercato potenziale per gli operatori della veg-economy. Le conclusioni delineate nell’indagine Eurispes vengono confermate dal database del sito www.veganhome.it , portale dedicato a coloro che si vogliono avvicinare all’etica vegan e alle persone che già hanno deciso di modificare in tal senso il proprio stile di vita. La community di VeganHome costituisce un importante punto di riferimento per i veg*ani italiani, riportando una serie di informazioni fondamentali, considerabili un “manuale di sopravvivenza” in un mondo ostile al veg*ismo, nonché un insostituibile punto d’incontro, utile per organizzare manifestazioni su tutto il territorio nazionale piuttosto che per facilitare gli incontri tra persone che condividono questa scelta. Il sito in questione è utile in quanto contiene un database costantemente aggiornato di utenti, distinti in vegetariani, vegani e persone “in transizione”. L’analisi di questi dati è importante perché gli utenti registrati costituiscono un campione abbastanza rappresentativo dei veg*ani italiani, o comunque di coloro che si interessano a tali tematiche e che probabilmente adotteranno in futuro tali scelte. Le informazioni provenienti da VeganHome (elaborate in data 22/2/2008) rispecchiano una realtà abbastanza simile a quella proiettata dall’indagine del 2006. In particolare: 350 Commento all’indagine ACNielsen, nel Dossier “Vegetariano è bello”, http://www.vitaesalute.net/pdf/200703dossier.pdf . 351 V. Schiavazzi, cit. 352 “Occorre però fare una distinzione all’interno dell’ampio gruppo dei vegetariani. Ci sono i semivegetariani che mangiano tutto ad eccezione delle carni rosse, quelli che escludono le carni animali tranne il pesce e quelli che escludono tutte le carni”. Ibidem. 353 “Ma su questa cifra siamo decisamente più scettici”, http://www.veganitalia.com/modules/xoopsfaq/index.php?cat_id=1#q6 . in in 107 Tra gli iscritti a VeganHome, le donne risultano essere 603 contro un numero di uomini pari a 364 (alcuni iscritti non hanno specificato la loro appartenenza di genere). Su un totale di 1666 iscritti, 586 persone si sono dichiarate vegan, a fronte di 342 vegetariani e di 36 “in transizione” (le altre che non hanno dichiarato il loro status possono essere verosimilmente divise all’interno di questi tre gruppi). Per quanto riguarda la collocazione geografica sul territorio italiano, gli iscritti che hanno dichiarato la loro provenienza si distribuiscono in questo modo: Numero degli iscritti Note Regione di provenienza Abruzzo 8 Basilicata 0 Calabria 7 Campania 45 Emilia Romagna 87 Friuli Venezia Giulia 19 Lazio 106 Liguria 27 Lombardia 201 Marche 29 Molise 3 Piemonte 149 Puglia 30 Sardegna 34 Sicilia 29 Toscana 63 Trentino Alto Adige 14 Umbria 12 Valle d’Aosta 2 Veneto 71 (di cui 88 a Roma) (di cui 107 a Milano) (di cui 105 a Torino) 108 Questo piccolo campione di veg*ani conferma i dati ufficiali già citati: le donne sono quasi il doppio rispetto agli uomini, la densità di veg*ani ed “interessati” è particolarmente concentrata al Centro-Nord, soprattutto nelle città di Milano, Torino e Roma, nonché nelle regioni Emilia Romagna, Toscana e Veneto -è paradossale che questi luoghi siano conosciuti, in Italia e all’estero, sopratutto in base alle produzioni alimentari locali a base di alimenti animali (latticini, salumi, pesce) e all’industria conciaria (Toscana). I dati disponibili su VeganHome non dicono nulla sul titolo di studio detenuto dagli iscritti, mentre l’età media risulta essere abbastanza bassa (tra i 20 e i 35 anni). Le motivazioni indicate sono diverse ma riconducibili, in linea di massima, alla volontà di eliminare le sofferenze patite dagli animali (prevalentemente), di migliorare la situazione ambientale, di preservare la propria salute. I dati a livello europeo (aggiornati al 2002) mostrano dati differenti da paese a paese per quanto riguarda il numero di vegetariani sul totale della popolazione354: Abitanti (milioni) Vegetariani Austria (fonte: Vegane Gesellschaft Osterreich) 8.1 243,000 | 3 % | Belgio (fonte: indagine condotta da Gaia) 10.2 204,000 | 2 % | Repubblica Ceca (fonte: StemMark Agency) 10.2 153,000 | 1.5 % | ±0.5 Croazia (fonte: sondaggio effettuato da Spem Communication Group) 4.5 166,500 | 3.7 % | Danimarca (fonte: Dansk Vegetarforening) 5.4 81,000 | 1.5 % | ±0.5 (stima) Francia (fonte: Alliance Végétarienne) 354 Tabella presente su http://www.european-vegetarian.org/lang/it/info/howmany.php 109 60 sotto i 1,200,000 | sotto il 2 % | Germania (fonte: sondaggio effettuato da Institut Produkt und Markt) 82 7,380,000 | 9 % |[il 9,8 % secondo un sondaggio di NeuePresse.de, l’11 % secondo un sondaggio STERN] Gran Bretagna (fonte: ICM Poll for the Daily Telegraph, 2001) 59.6 5,364,000 | 9 % | (la percentuale più elevata si riscontra nelle fasce di età più basse) Irlanda (fonte: Vegetarian Society of Ireland) 4.1 246,000 | 6 % | (stima) Israel (fonte: sondaggio effettuato da Israeli Ministry of Health, 1999-2001) 7 595,000 | 8.5 % | Paesi Bassi (fonte: Nederlandse Veregining voor Veganisme) 16.3 700,900 | 4.3 % | Portogallo (fonte: Nielsen survey per Centro Vegetariano) 10 30,000 | 0.3 % | Romania (fonte: Romanian Vegetarian Society) 21.7 868,000 | 4 % | Slovacchia (fonte: Vegetarianska Spolocnost) 5.4 54,000 | 1 % | (stima) Spagna (fonte: Asociacion Vegana Espanola) 40.5 1,620,000 | 4 % | (stima) Stati Uniti (fonte: Time/CNN poll, 15/07/2002) 265.9 10,636,000 | 4 % | 110 Svezia (fonte: Animal Rights Sweden) 9 270,000 | 3 % | (stima) Svizzera (fonte: Swiss Union for Vegetarianism) 7.3 657,000 | 9 % | (Secondo uno studio condotto nel 2001, il 3% degli svizzeri sarebbe vegan) La Gran Bretagna appare il paese europeo con il più alto numero di veg*ani rispetto alla popolazione ed è proprio qui che le vendite di prodotti dedicati hanno i tassi di crescita più elevati355. In mancanza di dati che registrino il numero esatto di punti vendita in cui è possibile trovare alimenti e altri tipi di beni cruelty-free356, risulta evidente come i piccoli negozi di alimentazione naturale, punti di ristorazione o negozi di vario genere dedicati o accessibili a questo pubblico vadano moltiplicandosi su tutto il territorio nazionale, ivi comprese le regioni del Sud Italia; i loro acquirenti non sono tutti veg*ani, ma di sicuro possiedono una maggiore consapevolezza alimentare e non disdegnano di acquistare cosmetici non testati, detersivi non inquinanti o alimenti sostitutivi di carne e latticini (tofu, seitan, yogurt non animale, ecc.). Alimenti Nonostante il consumatore veg*ano non costituisca che una piccola parte del pubblico, visto che i risultati dell’unica statistica ufficiale non sembrano realistici, è indubbio che, tra la popolazione, vada aumentando l’interesse per gli alimenti sostitutivi di carni e derivati. A prescindere dallo “zoccolo duro”, pertanto, le aziende che decidono di dedicarsi a prodotti compatibili con i principi etici propri dei veg*ani possono comunque contare su un mercato in espansione –anzi, viste le proporzioni, proprio il consumatore “medio” potrebbe apparire più appetibile agli occhi degli operatori economici specializzati. Difatti, 355 “Sales of vegetarian food are on the rise in meat market”, 7/07/2006, The Northern Echo, in http://www.thisisthenortheast.co.uk/business/news/display.var.822870.0.sales_of_vegetarian_food_are_on_t he_rise_in_meat_market.php ; “In Inghilterra il business del cibo meat-free è cresciuto del 38%”. Licia Granello, “Il boom dei vegetariani. In Italia sono 6 milioni”, La Repubblica, 16/03/2006. 356 Si intendono evidentemente alimenti e altri beni di consumo pensati specificamente per un pubblico veg*ano, e non tutto ciò che già in origine è privo di prodotti animali o che è prodotto senza lo sfruttamento a vario titolo degli stessi. E’ comunque possibile affermare che, in genere, i piccoli negozi di alimenti biologici (1094 nel 2005 e in aumento del 6% sull’anno precedente secondo Biobank, su http://www.biobank.it/it/BIOarticoli.asp?id=143 ) non mancano di cibi vegan. 111 i crescenti appelli, provenienti da molti medici, a ridurre, se non eliminare, il consumo di grassi animali per motivi riconducibili alla salvaguardia di condizioni ottimali di salute vengono tradotti in una maggiore attenzione ai nuovi cibi vegetali, in grado di riprodurre sulla tavola i consuetudinari piaceri dell’alimentazione tradizionale senza però comportare rischi in termini di apporto calorico, proteico o lipidico. Le preparazioni a base di proteine vegetali vengono prese sempre più in considerazione anche alla luce di una crescente preoccupazione dei consumatori nei riguardi delle crisi sanitarie connesse al consumo di alimenti di origine animale provenienti dall’allevamento ‘industriale’(mucca pazza, influenza aviaria, latticini, uova e pesci tossici). Da questo punto di vista, i “secondi vegetali” vengono per lo più visti meramente come sostituti di carne e derivati da utilizzare nelle ricette classiche, evidenziando così come i cardini delle tradizioni culinarie italiane non vengano messi in discussione da un nuovo approccio all’alimentazione. Occorre poi ricordare che talune persone –seppure in numero fortemente esiguo rispetto alla maggioranza dei “veg*ani consapevoli” seguono un’alimentazione semi-vegetariana per motivi del tutto differenti, per così dire “di scarsa rilevanza”: il fatto che dichiararsi vegetariani sia cool, la volontà di dimagrire e restare magri, l’assaggiare cucine diverse come segno della propria “flessibilità culturale”– coloro che rientrano in questa casistica mangiano vegetariano saltuariamente, così come non disdegnano stili culinari “esotici”357. Prodotti non alimentari Mentre le preparazioni sostitutive dei cibi animali si impongono sempre più sul mercato, raggiungendo anche coloro che non hanno compiuto una scelta alimentare definita, per quanto riguarda i prodotti non alimentari il discorso appare diverso. Innanzitutto, sono moltissimi i beni in cui sono presenti delle componenti ottenute dallo sfruttamento o dall’uccisione di animali: si va dalla gelatina animale utilizzata nei rullini fotografici alla lana dei maglioni, dalle candele di cera d’api alla madreperla dei bottoni più ricercati, dal detersivo per lavare i piatti al vaccino contro l’influenza, come tutti i farmaci. Si tratta di prodotti presenti negli ambiti più disparati ma che, per lo più, tutti utilizzano. Per questi beni, è difficile che il consumatore non sensibilizzato vada alla ricerca di alternative cruelty-free, soprattutto quando l’elemento animale è più occultato o quando un’alternativa è davvero difficoltosa da adottare. Pertanto, gran parte del commercio dei prodotti non alimentari cruelty-free si fonda sulle consapevoli decisioni di 357 Mario Cellini, “Vivremo Vegetariani e Contenti”, http://espresso.repubblica.it/dettaglio-archivio/165502 . 01/01/2003, L’Espresso, tratto da 112 acquisto di persone a conoscenza del problema (non solo veg*ani, ma anche persone che rifiutano solo taluni utilizzi degli animali –pellicce, piume d’oca, cosmetici testati) mentre la gran parte della gente non si trova neanche nella posizione di pensare a delle alternative. Quanto meno per quanto riguarda taluni beni non alimentari, pertanto, il mercato del cruelty-free è ancora una nicchia. Proprio per questo motivo, è difficile trovare prodotti sostitutivi nei canali commerciali tradizionali: se la domanda di un prodotto è bassa, l’offerta non ha motivo di aumentare né, tantomeno, scendono i prezzi, e questo a sua volta scoraggia altri consumatori dall’acquistare tale bene. A prescindere dalla variabile aumento del numero dei veg*ani, al momento è difficile identificare quale potrebbero essere dei fattori di crescita nella richiesta di prodotti sostitutivi. E’ invece importante il fattore innovazione, che sta già portando a un progressivo disuso di prodotti con componenti animali: ad esempio, un numero crescente di persone utilizza una fotocamera digitale al posto della classica macchina fotografica con rullino. Un altro fattore rilevante risulta essere il prezzo: ad esempio, le candele in cera d’api sono molto più costose di quelle sintetiche e per questo si vendono meno, ma parimenti a buon mercato risultano essere le candele fatte con sego animale, data l’incredibile offerta di materia prima proveniente dagli allevamenti intensivi; il discorso sulla lana è ambivalente, in quanto se il prodotto nazionale è sicuramente più caro del sostituto sintetico in paesi come l’Italia, in cui generalmente si utilizzano fibre “pregiate” per prodotti più cari, non avviene lo stesso in paesi come la Cina, in cui la disponibilità di materia prima animale è elevatissima. Pertanto, nell’abbigliamento Made in Italy la lana è più cara del sostituto sintetico, che si utilizza infatti sempre di più, mentre nelle merci importate non ci sono differenze di prezzo tali da influire sulla composizione del prodotto: tra i prodotti a bassissimo prezzo giornalmente offerti nei mercatini rionali, difatti, sono presenti moltissimi capi che, se fossero stati prodotti in Italia, costerebbero molto di più –questo vale per pelli, pellicce, lana, seta, ossa, componenti attualmente sempre più frequenti di beni di uso comune, dopo una passata tendenza alla scomparsa per motivazioni, appunto, economiche-. In alcuni casi si tratta di prodotti vietati dalla legge italiana, come le pellicce di cane e gatto –ottenute per lo più attraverso lo scuoiamento di animali vivi, e per questo bandite dopo un’accesa campagna di sensibilizzazione- o le pelli conciate mediante procedimenti obsoleti e fortemente inquinanti, che continuano a comparire nei punti vendita nostrani sotto etichette ingannevoli o del tutto assenti. 113 L’abbigliamento cruelty-free358 è più facile da reperire rispetto a qualche anno fa, soprattutto grazie alle importazioni di beni a basso costo prodotti con materiali sintetici. Tuttavia, è abbastanza frequente che i veg*ani preferiscano acquistare prodotti di maggiore qualità, composti da fibre 359 dall’abbigliamento sportivo più ricercate ed innovative, spesso provenienti : è il caso dei molti specifici sostituti della pelle360 per scarpe, borse e accessori, rintracciabili per lo più su punti vendita on-line specializzati in prodotti cruelty-free. Un’altra tendenza è costituita dalla riscoperta dei prodotti di canapa, fibra utilizzabile anche per la produzione di calzature. Data l’inevitabile presenza di sostanze inquinanti e allergeniche nella maggior parte dei pellami (metalli pesanti compresi)361, pur se prodotti in UE, anche molte persone estranee all’etica veg*ana si dedicano all’acquisto di scarpe composte da questa preziosa fibra, proveniente quasi sempre da coltivazione biologica; tuttavia, nei negozi di abbigliamento biologico/naturale si trovano spesso capi composti anche con lana e seta, fibre certamente naturali ma incompatibili con l’approccio veg*ano. La ricerca di prodotti specifici si conferma, quindi, confinata all’utenza oggetto dell’analisi. D’altra parte, alcuni beni prodotti attraverso lo sfruttamento di animali sono considerati estremamente necessari. E’ il caso dei farmaci: la legge italiana, così come quella degli altri paesi, impone alle case farmaceutiche di testare362 il preparato prima su “modelli animali” e solo in un secondo momento sull’uomo. Seppure tale pratica non costituisca 358 Si intende con questa locuzione l’insieme dei capi di abbigliamento costituiti da materiali alternativi a quelli di origine animale generalmente utilizzati per determinati prodotti: pellami per calzature, borse e guanti; lana, seta, coloranti di origine animale (rosso cocciniglia). 359 Le scarpe cinesi che si vendono nei mercatini di tutto il mondo sono sì cruelty-free ma composte dalla plastica della peggior specie, il cui processo produttivo comporta inquinamento e spreco di risorse e viene svolto in fabbriche in cui i diritti dei lavoratori non esistono. Inoltre, questi prodotti sono di pessima qualità, ideati per durare poco, e ciò appare contrario ai principi di base dell’ecologia, condivisi dalla maggior parte dei veg*ani. Per questi motivi, molti di essi cercano di acquistare prodotti in materiali specifici, forniti da aziende principalmente dirette a loro, che utilizzano materie prime caratterizzate da un minore impatto ambientale, una maggiore resistenza, un processo produttivo impeccabile. 360 Si tratta di “materiali confortevoli, traspiranti a prova di pioggia e indistruttibili. Fra questi, Vegetan e Lorica, materiale utilizzato anche nell’industria dell’arredamento per divani e per gli interni di automobili; il pile, indispensabile in un abbigliamento sportivo. I tessuti “sintetici” ottenuti in laboratorio sono ingualcibili e piacevoli al tatto, vantano qualità antistress, sono traspiranti e antibatterici ed il loro utilizzo e' vantaggioso rispetto alle fibre di origine animale: il Fibrefill, che sostituisce le piume per i giacconi invernali, li rende superiori per praticità e prestazioni. L’ Alcantara, la ciniglia di cotone, la viscosa rendono la vita facile”. Tratto da http://www.viverevegan.org/FAQclean.htm . 361 “Le sostanze pericolose e gli acidi impiegati per la lavorazione del cuoio sono causa di patologie come tumori, disordini nervosi, infezioni ed irritazioni della pelle e morte prematura. Ne sono bene a conoscenza gli abitanti dei centri urbani a ridosso dei laboratori di lavorazione delle pelli e del cuoio, in Italia particolarmente floridi nel modenese e nella zona del pisano e del senese”. “Una campagna Internazionale contro l’uso della Pelle”, PETA & Gaia Animali e Ambiente, disponibile in http://www.gaiaitalia.it/modules.php?name=News&file=article&sid=386 . 362 Se si considerano farmaci anche i vaccini, occorre considerare che lo sfruttamento degli animali è, in questo caso, doppio: oltre ad essere testati in vivo, infatti, questi preparati vengono prodotti su organi di animali (reni di scimmia, ecc.). 114 affatto una garanzia nei confronti dei pazienti, visto che le reazioni a una sostanza chimica possono variare moltissimo da specie a specie e che gli eventi infausti seguiti alla prescrizione di farmaci considerati innocui sono ormai innumerevoli (il caso del Talidomide ha fatto tristemente storia), essa è obbligatoria; per definizione, quindi, i farmaci non possono essere cruelty-free. Per questo motivo, solo gli individui sensibili alla tematica del benessere animale si pongono il problema di cercare un’alternativa, non di certo il grande pubblico. Come fanno allora i veg*ani a non usare i farmaci? In primo luogo, sembra che chi abbia adottato un’alimentazione vegetariana, in particolare i vegani, si ammali meno frequentemente. Non si tratta di un dato ufficiale, ma di una vulgata finora confermata, nei siti web incentrati sull’argomento, dai diretti interessati, che sempre più frequentemente affermano di non ammalarsi di influenza da anni e di essere in genere più resistenti alle infezioni. Sulla base delle informazioni finora raccolte, si può affermare che ciò corrisponda a verità. Soprattutto, diversi studi dimostrano la maggior resistenza dei vegani alle malattie croniche e degenerative (a fronte delle quali vengono assunte le maggiori quantità di farmaci): lo studio EPIC-Oxford363 è la più ampia indagine condotta ad oggi sui vegetariani e vegani dei paesi ricchi. I risultati suggeriscono che vegetariani e vegani seguono diete che generalmente aderiscono bene alle Linee Guida raccomandate dalle autorità scientifiche e che conferiscono alcuni benefici in termini di protezione nei confronti di sovrappeso/obesità ed ipertensione364, importanti fattori di 363 Paul Appleby, “Lo Studio EPIC-Oxford: Insegnamenti per i Vegetariani e i Vegani”, trad. di Luciana Baroni, Giugno 2004, disponibile in http://www.scienzavegetariana.it/medici/epic_ita.html#tab2 . 364 “Abbiamo confrontato il BMI [IMC, indice di massa corporea] nei 4 gruppi, aggiustato per età. I pescivori, i vegetariani e soprattutto i vegani hanno un BMI significativamente inferiore rispetto ai carnivori, in media di 1-2 punti. Le differenze nell'assunzione di macronutrienti (energia, proteine, grassi, carboidrati, fibre, zuccheri, alcol) sono responsabili di circa la metà delle differenze -aggiustate per età- nel BMI medio tra vegani e carnivori. Elevate assunzioni di proteine e basse assunzioni di fibre sono risultate i due fattori più strettamente associati con l'aumento del BMI (…). I soggetti non-carnivori, soprattutto i vegani, presentano una minor prevalenza di ipertensione e più bassi valori medi di pressione arteriosa, sistolica e diastolica, dei carnivori. Questa differenza è in gran parte attribuibile alla differenza nei valori di BMI, che è positivamente correlato con i livelli di pressione arteriosa (…). L'Insulin-like Growth Factor-I (IGF-I) è un ormone che stimola la proliferazione cellulare, ed è stato associato con un aumento del rischio di cancro della prostata nell'uomo e della mammella nella donna. Abbiamo confrontato le concentrazioni medie di IGF-I in carnivori, vegetariani e vegani di entrambi i sessi. I valori medi di IGF-I sono risultati simili nei vegetariani e nei carnivori, ma inferiori del 9% negli uomini vegani e del 13% nelle donne vegane. Questi risultati suggeriscono che i vegani possano presentare un rischio ridotto per i tumori ormono-sensibili, come quelli di mammella e prostata (…). In un’analisi preliminare, avevamo confrontato la mortalità nei vegetariani (compresi i vegani) e nei non-vegetariani. La mortalità totale nei 2 gruppi è risultata simile, sebbene la mortalità per cardiopatia ischemica (infarto del miocardio) fosse risultata inferiore del 25% nei vegetariani. Questi risultati sono simili a quelli riportati in precedenti studi. La mortalità dei vegetariani e dei nonvegetariani dello studio EPIC-Oxford è tuttavia inferiore a quella della media nazionale”. Ibidem. 115 rischio delle malattie maggiormente responsabili della mortalità nei paesi sviluppati365. E’ possibile pertanto affermare che i vegetariani in genere, e i vegani in particolare, hanno meno motivi di consumare farmaci rispetto alla media, anche perché, molto spesso, conducono uno stile di vita più sano rispetto alla media. E’ molto frequente, invece, da parte loro, l’assunzione di preparati omeopatici, a base di piante officinali, integratori, ecc., che permettono di prevenire ed affrontare piccoli malesseri senza bisogno di ricorrere a farmaci di sintesi chimica. D’altra parte, talvolta il consumo di farmaci risulta indispensabile. A fronte dell’impossibilità di astenersi dal consumare sostanze testate su animali, i veg*ani sostengono l’attività di ricerca, pressione e divulgazione delle associazioni scientifiche che promuovono metodi di ricerca alternativi alla sperimentazione animale (è da ricordare come l’interesse da esse sostenuto non sia solo quello di salvare animali dalla tortura ma anche quello di mettere a punto procedimenti più sicuri ed efficaci nella sperimentazione dei farmaci), campo in cui si stanno lanciando alcune imprese estere le quali, tuttavia, devono essere necessariamente sostenute dall’autorizzazione dei governi (nel nostro caso, l’Unione Europea) ad ammettere simili procedure sostitutive, pena l’assenza di mercati di sbocco per i loro prodotti. La cosmetica La cosmetica è stato uno dei primi settori merceologici ad essere preso di mira dall’animalismo, a partire dagli anni 70, in seguito alla pubblicazione delle prime immagini sulla vivisezione. Si avviarono contemporaneamente dei tentativi di creare prodotti non testati su animali: è sicuramente da segnalare, a questo proposito, l’esperienza dell’inglese The Body Shop, marchio ormai storico di cui buona parte del pubblico conosce il retroterra etico. Tuttavia, nonostante la fama “animalista”, quest’azienda non può essere considerata un esempio di cosmetica cruelty-free: se da una parte è vero che The Body Shop aderisce allo Standard Internazionale contro gli esperimenti su animali, di cui si parlerà di seguito, è anche vero che molti suoi prodotti contengono componenti derivati 365 “Secondo l'Annuario Statistico Italiano 2007 dell'Istat, le maggiori cause di morte in Italia sono le malattie cardiache e i tumori. I dati sono riferiti al 2002, ultimo anno disponibile per i dati definitivi sull'argomento. Si muore soprattutto per le malattie cardiovascolari: il 42% dei decessi in Italia nell'anno 2002 ha avuto questa causa. Si tratta mediamente di 415 decessi su 100 mila abitanti (382 su 100.000 per i maschi e 446 su 100.000 per le femmine). Al secondo posto ci sono i tumori, con il 29,2% per cento del totale dei decessi, con valori per 100 mila abitanti pari a 337,5 per i maschi e 236,3 per le femmine. Solo queste due patologie, dunque, sono la causa di quasi tre quarti delle morti che avvengono in Italia ogni anno (il 71,2%, per le precisione)”. Comunicazione a cura di Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana, 16/12/2007, disponibile in http://v2.promiseland.it/view.php?id=2285 . 116 dallo sfruttamento o dall’uccisione di animali (derivati animali e collagene); soprattutto, il marchio è stato recentemente acquistato da L’Oréal, tristemente famosa per l’abituale conduzione di test su animali su tutta la vastissima gamma dei suoi prodotti366. Se è vero che la conduzione delle due aziende resta affidata ad amministratori separati, è indubbio che gli utili di The Body Shop oggi vengono incassati da L’Oréal367. Nell’ambito cosmetico, classificare un marchio come cruelty-free appare non poco difficoltoso: è facile acquistare dei prodotti che riportano diciture come “Prodotto finito non testato su animali”, “non testato su animali”, “cruelty-free” o che hanno l’immagine di un coniglietto stilizzato: in realtà, simboli di questo tipo non hanno valore, data l’assoluta libertà delle case produttrici di pubblicizzare i propri prodotti nei modi più disparati. Per questo motivo, è importante tenere in conto gli sforzi volontari compiuti dalle aziende per costruirsi una reputazione attorno alla tematica dello sfruttamento animale, attraverso l’adesione a delle regole precise. E’ il caso dello Standard internazionale “Non testato su animali”, a cui le aziende possono aderire o attraverso una autocertificazione o attraverso la certificazione da parte di un organismo indipendente, in Italia l’ICEA368. Lo Standard è stato introdotto nel 1997 da una coalizione internazionale di associazioni animaliste di tutta Europa e degli Usa (in Italia, ne fa parte la LAV)369 con l’obiettivo di spingere le aziende a non effettuare test sul prodotto finito, non obbligatori, e ad acquistare materie prime da fornitori che non effettuano sperimentazione animale (caso più frequente, visto che sono pochi i casi in cui un’impresa sperimenta direttamente il prodotto pur in assenza di obblighi di legge: la Procter&Gamble rientra tra questi)370. Le aziende aderenti allo Standard si impegnano pertanto a: 366 http://www.consumoconsapevole.org/cosmetici_cruelty_free/lista_cruelty-free.html . Tra i numerosi articoli dedicati a quest’incredibile connubio dai giornali di tutto il mondo, “Body Shop's Shares Rise As Its Ethical Rating Plummets”, 17/03/2006, in http://www.ethicalconsumer.org/bodyshop_loreal.htm ; Warren McLaren, “The Body Shop Says Yes to L’Oreal Takeover”, 21/03/2006, in http://www.treehugger.com/files/2006/03/the_body_shop_s.php ; Cahal Milmo, “Body Shop's Popularity Plunges After L'Oreal Sale”, 10/04/2006, in http://www.independent.co.uk/news/uk/this-britain/body-shops-popularity-plunges-after-loreal-sale473599.html . 368 “La lista delle aziende cruelty-free è compilata tenendo conto dell'autocertificazione di adesione allo Standard “senza crudeltà” inviata alla dott.ssa Antonella de Paola, autrice della “Guida ai prodotti non testati su animali”, e/o del superamento dei controlli effettuati da ICEA (società indipendente di auditing) dietro accordo con LAV - Lega Anti Vivisezione (…) Si consiglia di preferire le aziende certificate ICEA, che hanno accettato di sottoporsi a controlli esterni anziché operare in regime di semplice autocertificazione”. “Le ditte cruelty-free”, disponibile su http://www.consumoconsapevole.org/cosmetici_cruelty_free/lista_cruelty-free.html . 369 “Lo Standard internazionale “Non testato su animali””, disponibile su www.icea.info/LinkClick.aspx?link=Doc%2FStandard+Internazionale+Non+testato+su+animali.pdf&tabid= 131 . 370 I produttori si impegnano a non usare ingredienti testati a partire da un certo anno, impegnandosi così a non incrementare la vivisezione. Visto che, in base alla direttiva comunitaria 92/32/CEE, ogni nuova sostanza chimica deve essere testata (su animali o attraverso metodi alternativi validati, al momento solo uno) 367 117 - non effettuare test sul prodotto finito e non commissionarne a terzi; - non testare i singoli ingredienti e non commissionarlo a terzi; - per gli ingredienti comprati già testati dai fornitori, dichiarare che questi test sono avvenuti prima di un dato anno a loro scelta (cut-off date) e impegnarsi a non comprare ingredienti testati dopo quell'anno. Ciò significa che l’impresa si impegna a non usare più alcun ingrediente di sintesi nuovo, mentre può usare ingredienti completamente vegetali o anche di sintesi ma già in commercio prima dell'anno scelto371. L’adesione allo Standard da parte di un’impresa non è necessariamente evidenziato sulla confezione, dove il logo ufficiale dell’iniziativa può non essere presente. Pertanto, è possibile sapere se un’azienda rispetta questo disciplinare internazionale solo consultando la lista delle aziende formalmente aderenti, costantemente aggiornata. Lo Standard, purtroppo, non considera la presenza di ingredienti di origine animale, da verificare caso per caso attraverso l’etichetta: da questo punto di vista, pertanto, ci sono aziende –molto spesso le più conosciute e facili da reperire in commercio, come L’Erbolario, Helan, Lush- che aderiscono allo Standard ma che, utilizzando sostanze animali, non possono comunque essere considerate cruelty-free372. e che la direttiva 76/768/CEE impone di utilizzare gli animali per testare i singoli ingredienti da utilizzare nella cosmetica, i fornitori, di fatto, si impegnano a non fornire che sostanze già testate in passato e non nuovamente testate. Le sostanze già testate prima del 1976 non sono pertanto soggette a nuovi test e i prodotti contenenti solo ingredienti “vecchi” sono sicuramente cruelty-free –nel senso che non promuovono ulteriori test. La pressione verso i fornitori in questo senso deve essere evidentemente portata avanti dalle aziende stesse. L’applicazione della direttiva 93/35/CEE, emendamento della direttiva del 1976, che doveva vietare la sperimentazione sugli animali anche dei singoli ingredienti per la cosmetica, sta slittando continuamente: la data attualmente decisa è il 2009 per la maggior parte dei test e il 2013 per altri, ma, dato che queste scadenze vengono posticipate da almeno 15 anni, non sembrano avere alcuna rilevanza pratica. “Cosmetici e sperimentazione animale”, in http://www.consumoconsapevole.org/cosmetici_cruelty_free/cosmetici_e_legislazione.html ; Fabrizio Zago, Massimo Tettamanti, Sauro Martella, “Cruelty Free: leggende e verità”, in http://www.promiseland.it/images/news/2006/promiseland_crueltyfree.pdf . 371 “Lo Standard internazionale “Non testato su animali” e le etichette”, in http://www.consumoconsapevole.org/cosmetici_cruelty_free/standard_internazionale.html . 372 Ibidem. Il caso di Lush va considerato in particolare: impegnata fin dalla sua nascita nell’offensiva contro i test su animali (da questo punto di vista, la garanzia nei confronti dei fornitori è elevatissima e sicuramente le dimensioni dell’azienda sono tali da influenzare molti altri operatori; la politica dell’azienda in materia di test su animali è pubblicata su http://www.lush.it/files/docs/53/lush_test_sugli_animali.pdf ), continua ad utilizzare latte, uova e derivati dall’alveare in taluni prodotti (adatti, pertanto, ai vegetariani ma non ai vegani), seppure in quantità molto limitate. Questa “pecca” viene da molti considerata non troppo grave, tant’è che si tratta di un marchio molto conosciuto e utilizzato da animalisti ed ecologisti, specie in Gran Bretagna, in particolare dopo la delusione di The Body Shop (sono significativi in proposito i commenti all’articolo “The Body Shop Says Yes to L’Oreal Takeover”, cit.). 118 Food In tutto il mondo, l’industria sta sempre più prendendo atto del fatto che i vegetariani rappresentano un target molto interessante373. Negli ultimi tempi, infatti, grandi marche del settore agroalimentare stanno cercando di farsi spazio all’interno di un mercato sempre meno di nicchia: lo testimoniano le vicende statunitensi, paese in cui i vegetariani sono più di 10 milioni e i vegani più di 2 milioni e mezzo, il volume d’affari degli acquisti alimentari “verdi” ha raggiunto nel 2003 un ammontare di 1.6 miliardi di dollari (con spettacolari prospettive di crescita)374 e colossi del calibro di Kraft, Kellogg e General Mills hanno recentemente acquisito piccole aziende specializzate in cibo veg*ano, lanciando poi alcune linee di prodotti dedicati375, cercando di guadagnare la fiducia di un consumatore finora lontanissimo da esse. Anche in Europa il consumatore medio sta mostrando un interesse crescente per i prodotti alternativi alla carne e ai latticini: risulta evidente la progressiva crescita delle vendite dei prodotti a base di soia -frutto, tra l’altro, di un’accurata campagna di marketing che negli ultimi anni ha esaltato le virtù salutistiche del legume376, tanto che oggi rappresenta il più famoso caso di “alimento funzionale”377. E’ da considerare anche la crescente attenzione delle imprese alimentari per le necessità di gruppi particolari di consumatori -come i sempre più numerosi individui intolleranti al lattosio- per spiegare l’accresciuto spazio dedicato ai prodotti privi di ingredienti animali, nonché la tendenza a proporre combinazioni alimentari tipiche della cucina mediorientale o asiatica, spesso prive di ingredienti di origine animale. 373 Eurispes, Rapporto Italia 2006, parte 6°, p. 90, in http://www.eurispes.it/visualizzaRicerche.asp?val=4 . Roberta Pasero, “La tribù dei vegetariani integralisti del verde”, Il Giornale, 28/07/2005, su http://www.peacelink.it/animali/a/12163.html . 375 Eurispes, cit. 376 Gli europei utilizzano sempre più i prodotti a base di soia, sempre più presenti –e differenziati- nei punti vendita del continente. Dopo una crescita del 10% nel 2002 rispetto al 2001, bevande a base di soia, dolci, tofu e alternative alla carne sono ancora cresciute nel 2003, raggiungendo un valore pari a 1,5 miliardi di euro, secondo la Prosoy. Gli analisti di mercato si aspettano ulteriori aumenti di questa portata tra 2004 e 2006. Le alternative ai latticini a base di soia restano la categoria più dinamica nelle vendite, con una crescita vicina al 20% nel 2003. “Meat alternatives from ADM slice into growing soy market”, 17/11/2004, in http://www.foodproductiondaily.com/news/news-NG.asp?n=55961-meat-alternatives-from . Limitandoci all’Italia, Valsoia, l’azienda maggiormente rappresentativa dei prodotti sostitutivi nella GDO, ha registrato nel 2007 un tasso di crescita dei ricavi di vendita rispetto al 2006 pari al 7,9%. Dati presenti su http://www.trend-online.com/?stran=izbira&p=irs&id=170903 . 374 377 Ruth DeBusk, “Cibi Funzionali”, trad. di http://www.andrews.edu/NUFS/functionalfoods.html . Luciana Baroni, originale disponibile in 119 In Italia, fino a qualche anno fa, l’acquisto di alimenti compatibili con l’etica veg*ana non era semplice. Le merci, provenienti per lo più da Germania e Olanda, potevano essere reperibili solo in determinati negozi e a prezzi abbastanza elevati. I ristoranti che offrivano portate vegetali alternative ai classici primi e secondi erano davvero pochi, in genere abbastanza costosi e rivolti ad un pubblico molto ristretto (forse è da questo che viene l’idea, ancora molto diffusa in Italia, secondo cui i veg*ani sono gente ricca che si sforza di essere alternativa e può “permettersi” di mangiare in un modo lontano dalle abitudini dell’italiano medio); un tipico esempio è il ristorante vegetariano “Il Margutta RistorArte” a Roma, attivo sì dal 1979 ma davvero poco accessibile ai più, dal punto di vista dei costi378. Nei supermercati più piccoli, allo stesso modo che nei grandi punti vendita delle catene della GDO, la richiesta di prodotti sostitutivi come latti vegetali, tofu, hamburger vegetali e seitan non trovava riscontro in un’offerta adeguata. Solo recentemente questi prodotti sono comparsi nella maggioranza dei negozi italiani379, visto che il numero dei veg*ani è divenuto consistente da una decina d’anni, soprattutto in seguito allo scandalo di “Mucca pazza”. Dagli anni Novanta, essere vegetariano è diventato qualcosa di non eccezionale (cosa che ancora non si può dire per i vegani, non ancora socialmente accettati e rispettati); di conseguenza, se da una parte sono cresciute le aziende italiane che hanno deciso di rivolgersi a questo pubblico sempre più vasto, per lo più privilegiando la distribuzione nei negozi specializzati in alimentazione naturale, è parimenti cresciuta la disponibilità di prodotti animal-free nella GDO, che invece è andata rivolgendosi prevalentemente verso grandi aziende estere già presenti in questo mercato (Alpro, Céréal, Valsoia - un’importante eccezione-), mentre in alcuni casi delle grandi marche hanno lanciato linee di prodotti totalmente vegetali380. Nel primo caso, è più probabile che i nuovi prodotti incontrino il favore di persone già sensibili al tema dell’alimentazione naturale; nel secondo e nel terzo, le preparazioni proteiche vegetali si fanno invece conoscere per la prima volta al grande pubblico. Si deve pertanto riconoscere un importante ruolo di diffusione del prodotto al secondo canale di vendita, mentre il commercio su Internet copre un’altra quota importante del commercio di prodotti per veg*ani381. 378 Informazioni sul “Margutta” sono disponibili sul sito http://www.ilmargutta.it . Il lancio dei prodotti a base di soia è datato 1991. Tratto da http://www.confesercenti.it/documenti/doc_uffici/fiesa_trentennale.pdf , p. 43. 380 E’ il caso dei gelati alla soia, recentemente proposti anche da Carte D’Or. 381 “Una fetta consistente del business appartiene agli Internet store: “The Bio Shop” e “Spesa Bio” vendono online in tutto il Paese a circa 5.000 amanti dell’alimentazione naturale”. Eurispes, cit. 379 120 Ci sono importanti progressi anche sul fronte della certificazione dei prodotti per veg*ani: a questo proposito, è importante citare l’iniziativa dell’Associazione Vegetariana Italiana, che ha creato un suo marchio “concesso solo a quei “prodotti realmente vegetariani”, cioè che escludono in ogni fase della propria realizzazione l’impiego di derivati ottenuti con l’uccisione degli animali e che sono privi di ingredienti ottenuti da organismi geneticamente modificati” (adatti solo ai lacto-ovo-vegetariani)382. Sono ormai circa 500 i prodotti in commercio contrassegnati dalla “V”, mentre ne è prevista una versione modificata per identificare i prodotti vegani383. Quest’ultima categoria è soggetta anche a una seconda, specifica certificazione, il bollino della Vegan Society, apposto su una serie di prodotti, non solo alimentari, di alcune aziende italiane –in base ad un progetto che, per la parte italiana, vede la collaborazione dell’Associazione Vivere Vegan384. Nell’ambito dell’alimentazione veg*ana, è importante considerare la ristorazione, anche perché tutte le ultime indagini indicano una progressiva tendenza degli italiani a mangiare sempre più frequentemente fuori casa385e quindi è importante che si registri la presenza di locali in cui trovare piatti a base vegetale. I ristoranti vegetariani crescono in tutta Italia e sono sempre più frequentati, mentre è Milano la città con la più alta percentuale di locali dedicati386. Nell’ambito HoReCa (Hotel-restaurant-café) si registrano importanti successi, che testimoniano un progressivo avvicinamento tra ristorazione e veg*ani, spesso grazie alla collaborazione di importanti associazioni di settore: è il caso di AVI (Associazione Vegetariana Italiana) e di Vegan Italia, che hanno portato a termine due iniziative parallele allo scopo di promuovere la ristorazione veg*ana e identificare i locali veg*an-friendly: “Nel 2003 l’AVI ha avviato il progetto del Network Vegetariano al fine di promuovere l’alimentazione vegetariana e sviluppare una maggiore attenzione del servizio di ristorazione. Essa ha un suo marchio che concede a quei ristoranti che si uniformano alla guida del Network Vegetariano. L’identificazione di questi locali avviene attraverso l’uso di una vetrofania che riporta il logo 382 Ristoverde, ho.re.ca. e vegetariani”, 17/10/2007, tratto da http://www.veganitalia.com/modules/news/article.php?storyid=1256 ; “Per questo, grazie alle legittime pressioni dell'Associazione Vegetariana Italiana (Avi) il mondo dell'industria ed il marketing si stanno gradualmente adeguando, cominciano a capire che i vegetariani rappresentano un target piuttosto appetibile e lanciano sul mercato, anche negli autogrill o nei supermarket, prodotti e piatti a base di verdure o di cereali, di seitan o di tofu, di soia e di hummus, di riso integrale e amido di mais, molti dei quali contraddistinti da una lettera «V» verde per evitare ai seguaci di questa dieta di perdere ore a cercare se tra gli ingredienti c'è anche un solo colorante, addensante o conservante imparentato con buoi o vitelli”. R. Pasero, cit. 383 Eurispes, cit., p. 90. Le caratteristiche di prodotto necessarie ad ottenere la certificazione sono contenute nel “Disciplinare tecnico per la certificazione dei prodotti destinati ai consumatori vegetariani e vegani” (contraddistinti dal marchio AVI), in http://icea.info/Portals/0/Doc/DTR_0300_Vegetariani.pdf . 384 “Perché la certificazione vegan”, su http://www.viverevegan.org/certificazione/certificazione_1.htm . 385 Dati presenti su http://www.confesercenti.it/documenti/doc_uffici/fiesa_trentennale.pdf , p. 6; dati Istat citati su http://www.ermesagricoltura.it/wcm/ermesagricoltura/rivista/2006/marzo/ra0603053s.pdf . 386 Eurispes, cit. 121 dell’Associazione Vegetariana Italiana, un germoglio verde, riconosciuto, secondo un’indagine inglese, dal 96% dei vegetariani nel mondo, anche perché utilizzato in molti altri paesi europei ed extraeuropei per identificare prodotti e locali adatti ai vegetariani. Ad esempio in Svizzera il germoglio è utilizzato in una cinquantina di punti di ristoro gestiti da Migros, che così garantisce ai propri clienti la composizione vegetariana al 100% di tutte le materie prime utilizzate per la preparazione dei piatti. Tra gli aderenti al Network Vegetariano (finora in tutto sono 156) c’è Autogrill, che da tempo collabora con l’AVI per la creazione di prodotti vegetariani e vegani. Nel 2003 l’associazione Vegan Italia, nata nel 2002 per promuovere un’informazione completa e critica, per fornire la possibilità di decidere senza preconcetti sullo stile di vita e sull’alimentazione da seguire e per incentivare la ristorazione ad offrire l’alternativa vegetariana, ha creato, in collaborazione con la società di comunicazione Next Italia, il circuito dei Ristoranti Verdi, ovvero un network di locali, bar, ristoranti e alberghi in cui si può mangiare anche vegetariano (possono farvi parte anche agriturismi, pizzerie e mense aziendali). Questi, attualmente 42 in Italia387, pur contraddistinti dalla propria cucina specifica, sono in grado di rispondere alle esigenze di una clientela attenta alla salute e/o vegetariana. Le caratteristiche essenziali di un Ristorante Verde, redatte dal comitato tecnico del progetto, sono la conoscenza delle linee-guida di base per l’individuazione all’interno della carta, oltre ai contorni, di almeno tre piatti vegetariani, con preferenza per un menù completo (realizzato senza ingredienti di provenienza animale), la sottolineatura di questi piatti nel menù con l’apposito logo e l’esposizione in evidenza della vetrofania “Qui si mangia anche Vegetariano”. Tra le ultime attività, entrate a far parte di questo circuito, ci sono l’hotel Imperia di Jesolo Lido, il diciottesimo nel Veneto. “Entrare a far parte dei Ristoranti Verdi – ha spiegato Angelo Faloppa, uno dei titolari dell’hotel Imperia – per noi significava conferire un importante valore aggiunto alle nostre proposte: offrire ai nostri clienti un’alternativa vegetariana e vegana è, secondo noi, segno di attenzione nei confronti di chi ha scelto uno stile di vita sano e rispettoso degli animali e dell’ambiente” 388. 387 Informazioni aggiornate tratte dal sito http://www.ristorantiverdi.it . “Ristoverde, ho.re.ca. e vegetariani”, 17/10/2007, tratto da http://www.veganitalia.com/modules/news/article.php?storyid=1256 . 388 122 Rist-Ohsawa Una prova lampante di come l’alimentazione cruelty-free possa incontrare il favore di settori crescenti di consumatori si riscontra nel progetto Rist-OhSawa389, una catena di ristoranti attiva in alcune regioni del Nord Italia e, recentemente, anche in Svizzera. L’idea nasce nel 1998 da un’idea di Michela Glisenti (già ristoratrice) e Maurizio Berlinghieri. Vegetariani fin da piccoli, i due attivissimi coniugi si rendono conto, col passare del tempo, dell’inesistenza di ristoranti “di qualità” adatti ad un pubblico che rifiuta ingredienti animali ma anche procedimenti insalubri di preparazione del cibo; in particolare, riscontrano la mancanza di luoghi in cui soddisfare il palato accanto alla salute e all’etica, nonché l’automatico accostamento tra cucina vegetariana/macrobiotica e il concetto di rinuncia, privazione del gusto, frugalità, “malattia”. Per questo, a partire da un’attività di ristorazione già avviata in ambito familiare, la coppia prova a realizzare il proprio desiderio: un locale in cui “mangiare bene” in tutti i sensi, riuscendo a coniugare arte culinaria e attenzione alle proprietà nutrizionali dei piatti. Nasce così nel 1998, a partire da una dotazione irrisoria di capitale, Ohsawa390, locale-pioniere in cui i due “inventori” sperimentano un nuovo tipo di cucina compatibile sia con la filosofia vegan che con quella macrobiotica, ma soprattutto contraddistinta dall’attenzione al sapore e alla qualità. Il piccolo ristorante, situato sulla sponda bresciana del Lago di Garda, ha un successo strepitoso e riesce a conquistare molti estimatori, attirati dall’inusuale combinazione tra salutismo, etica e innovazione culinaria costituita dalla cucina “GlisBer391”, insieme di modalità di preparazione, cottura e abbinamento dei cibi messo a punto dalla stessa coppia e, dopo una felice sperimentazione, diffuso attraverso gli altri locali della rete. Questo metodo non dà solo la possibilità di creare delle portate adatte a vegetariani, vegani e macrobiotici, come tengono a precisare i due entusiasti creatori, ma si 389 Le informazioni sul progetto Rist-Ohsawa sono ricavate da un intervista con i due titolari, Michela Glisenti e Maurizio Berlinghieri, in data 27/02/2008. 390 “Il nome fa riferimento a George Ohsawa (Nyoíti Sakurazawa, Giappone - 1893-1966), ideatore della filosofia e dieta Macrobiotica. Ohsawa, a seguito di tragedie e malattie familiari e personali, iniziò giovanissimo a studiare gli antichi segreti della medicina orientale, dichiarata fuorilegge dal governo giapponese, che all'epoca curava con metodi occidentalizzati i propri cittadini senza ottenere risultati soddisfacenti. Si rese ben presto conto che le dimensioni della differenza tra pensiero occidentale e filosofia orientale erano immense e la concezione del mondo era diametralmente opposta. Trascorse quindi la propria vita a perfezionare e a divulgare le sue teorie in ogni dove “perché aveva sentito il pianto disperato della medicina ufficiale occidentale e non poteva più restare indifferente”. Applicò per primo l'agopuntura in Francia ed introdusse da noi la macrobiotica (che si prefissa, come meta, la felicità dell'essere) insegnando come guarire ed essere felici grazie al corretto uso dell'alimentazione”. Commento tratto da “RistOhSawa, partner di Biospesa”, 31/01/2008, in http://www.biospesa.ch/index.php?option=com_content&task=view&id=17&Itemid=1 . Pertanto, l’approccio di base dei titolari del ristorante proviene dalla macrobiotica, a cui si vogliono abbinare le scelte etiche del veganismo ma, in particolare, anche il sapore e la ricercatezza della cucina tradizionale italiana e delle nuove tendenze internazionali. 391 Acronimo originato dalla fusione dei cognomi dei titolari Michela Glisenti e Maurizio Berlinghieri. 123 rivolge ad un pubblico più ampio, consapevole dell’importanza della qualità del cibo e della necessità di eliminare tutte quelle sostanze – animali e non- che, di fatto, risultano tossiche per l’essere umano, anche se vengono sempre più utilizzate dall’industria alimentare e da molti operatori del settore Ho.Re.Ca. Pertanto, la motivazione alla base dell’idea GlisBer è triplice: etica (eredità vegana), salutista (eredità macrobiotica) e culinaria (eredità “della tradizione” e volontà di innovazione). L’idea di lanciare una rete di ristoranti in franchising arriva nel 2005, dopo che i successi ottenuti con Ohsawa fanno pensare a una più ampia diffusione della “filosofia culinaria” GlisBer: nel giro di pochi anni i locali della rete Rist-OhSawa diventano otto, tutti concentrati in zone limitrofe alla sede originaria e orientati verso un crescente successo, testimoniato sia dal pubblico che dalle riviste specializzate392. Le modalità e i tempi con cui il progetto Rist-OhSawa si è sviluppato e l’entusiasmo che continua a caratterizzare l’approccio dei titolari e dei franchisees sono tanto più significativi quanto più si consideri che il periodo 2005-2008 non è stato certo caratterizzato da una crescita economica esponenziale, in particolar modo per quanto riguarda le aziende rivolte verso bisogni voluttuari –quali possono essere i ristoranti di fascia medio-alta. I locali Rist-OhSawa sono caratterizzati da un particolare arredamento, struttura e funzionalità, essendo al contempo luoghi per la ristorazione, botteghe in cui è possibile acquistare alimenti biologici e conoscere più da vicino i nuovi prodotti dell’agricoltura naturale, locali in cui rilassarsi a degustare vini e musiche o ritagliarsi un momento di relax: luoghi di evasione dallo stress quotidiano, adatti ad un pubblico che sa apprezzare questi elementi e che considera il pasto come un’esperienza multisensoriale, a cui dedicare una cornice ben curata. Rist-Ohsawa può essere anche solo un bar, un take-away, una gelateria vegan e una bottega di prodotti biologici393; più frequentemente, il medesimo locale svolge tutte queste funzioni. Il franchising Rist-OhSawa si caratterizza dal fatto che i ristoranti della rete, tranne quello in cui lavorano i titolari, non sono dotati di cucine: i cibi arrivano direttamente dal laboratorio GlisBer di Toscolano Maderno (BS) e necessitano solo di cottura e preparazione per la tavola. I piatti del menu sono “più che vegan”, a detta dei cuochi, in quanto, oltre a non contenere alcun ingrediente di origine animale, provengono da coltivazioni biologiche e sono privi di zucchero, glutammato monosodico, coloranti, conservanti e altre componenti chimiche comunemente presenti nei cibi ma, di certo, non 392 Sebastiano Garbellini, “Ohsawa: filosofia di vita”, Locali Top, 2004. Marina Berati, “VegDivertimento! RistOhsawa: per la diffusione di locali vegan in Italia!”, 2/01/2008, in http://www.luigiboschi.it/?q=node/7936 . 393 124 benefiche per la salute. Gli alcolici serviti nei Rist-OhSawa, rigorosamente provenienti anch’essi da agricoltura biologica, non hanno subito alcun procedimento comportante l’utilizzo di parti animali né, ovviamente, ne contengono. La maggior parte delle materie prime utilizzate nella preparazione delle portate (le farine e tutte le loro elaborazioni, le verdure, gli oli, la frutta) provengono da piccoli produttori italiani e vengono trasformate in laboratori artigianali, mentre sono importati dall’estero i prodotti “esotici” come il cocco (Sri Lanka), il caffè (Messico), il cacao (Guatemala), lo sciroppo d’acero (Canada), le alghe (Gran Bretagna)394. Si può affermare che la cucina GlisBer ha preso il meglio della cucina macrobiotica e vegana rifiutandone il pesce, nel primo caso, e gli additivi insalubri, nel secondo, ma soprattutto aggiungendo sapore, genuinità e innovazione. Maurizio Berlingheri si sofferma particolarmente sulla questione del rapporto tra la cucina GlisBer e gli altri stili alimentari “alternativi”: spesso la cucina macrobiotica non offre molte soddisfazioni al palato, anzi sembra più costituire un approccio punitivo e limitante al piacere del cibo, mentre talvolta i vegani si limitano ad eliminare dalla propria dieta i cibi animali senza preoccuparsi della qualità dei restanti alimenti che assumono, finendo per non modificare sostanzialmente il proprio disequilibrio nutrizionale; Berlingheri ritiene, pertanto, che i messaggi etici retrostanti tali approcci al cibo non bastino a conquistare nuovi curiosi, almeno attraverso lo strumento alimentare. Per questo motivo, il titolare non ha paura di affermare come la qualità della propria cucina sia superiore a quella di molti ristoranti adatti a veg*ani in cui, magari per mancanza di fantasia o di materie prime di qualità, si propongono spesso portate troppo elaborate –pertanto, poco naturali e salutari- e dessert pieni di saccarosio. La cucina GlisBer sembra aver conquistato un folto seguito di ammiratori, in questi ultimi anni, nonostante l’apparente “restrittività” delle ricette: moltissimi profani dell’alimentazione naturale hanno apprezzato l’approccio di Rist-OhSawa e alcuni di essi hanno deciso di ampliare questo progetto mediante un proprio locale. Tra i titolari dei locali, solo pochissimi si sono lanciati nel progetto per esclusive ragioni di business: nel 90% dei casi, secondo Berlingheri, si tratta di persone che sono giunte a condividere la filosofia GlisBer di una cucina vegetale e naturale nel senso più ampio del termine. Oggi lo staff coinvolto nell’insieme dei progetti della rete in franchising ammonta a una quarantina di persone, mentre le aziende interessate dalla fornitura dei cibi a Rist-OhSawa superano il centinaio. 394 Dati citati in “La carta d’identità dei prodotti Rist-OhSawa”, 14/02/2008, in http://www.biospesa.ch/index.php?option=com_content&task=view&id=21&Itemid=1 . 125 L’esperienza della cucina GlisBer non è direttamente riconducibile alle motivazioni personali di molti veg*ani e, pertanto, rientra solo incidentalmente nell’economia crueltyfree. Di fatto, tuttavia, il servizio offerto dall’azienda corrisponde ai parametri qualitativi richiesti dal pubblico veg*ano più attento all’aspetto sia salutistico che godereccio del cibo, pertanto è possibile considerare questo successo imprenditoriale come una prova delle rilevantissime possibilità di crescita degli operatori economici attenti alle esigenze di un pubblico eticamente (e non solo) sensibile a ciò che mangia395. Non si può che utilizzare la parola successo, difatti, per descrivere l’esperienza Rist-OhSawa. Non stupisce che questi ristoranti siano comparsi solo nelle regioni del Nord Italia, visto che è indubbia una maggiore consapevolezza alimentare – così come la possibilità di rivolgersi più frequentemente a locali di fascia medio-alta - nelle regioni con reddito medio più elevato. Il titolare della rete non ha, finora, incontrato interlocutori disponibili ad aprire nuovi locali nel Centro-Sud: se da una parte è da sottolineare una maggiore difficoltà logistica a “fare impresa”, è sicuramente da considerare anche la possibilità di un minore riscontro di pubblico, come si può intuire dalle statistiche sulla distribuzione territoriale dei veg*ani. Numerose richieste per l’apertura di nuovi locali sono invece giunte da New York, Tokio e dalle isole Canarie –tuttavia, almeno per ora, la particolarità del metodo di distribuzione del prodotto fa sì che vengano considerati più fattibili i progetti situati a breve distanza dalla sede centrale. Per quanto riguarda la clientela, il titolare ritiene che solo il 30% di essa venga attirata nel locale in quanto veg*ana, mentre il rimanente 70% sarebbe costituito da persone semplicemente curiose di provare un tipo di cucina molto promettente, sia dal punto di vista salutistico che da quello del piacere del palato. Berlingheri non si stupisce di ciò, in quanto sono proprio coloro che generalmente non adottano un tipo di alimentazione particolare ad essere maggiormente interessati a provare un’invitante alternativa, mentre vegetariani e vegani possono rivolgersi anche ad altri tipi di locali e, molto spesso, sono già informati sui requisiti di qualità ideali degli alimenti –anche se non sempre si rivolgono presso i ristoranti che li assicurano. Il cliente medio dei ristoranti Rist-OhSawa è riconducibile a un livello culturale medio-alto e ha un’età compresa tra i 19 ed i 50 anni; in modo particolare, molti sono i clienti al di sotto dei trent’anni. 395 Non è a caso che l’esperienza di RistOhsawa sia stata presentata, tra l’altro, anche all’interno del VegFestival del 2006, a Torino. Una delle più importanti esponenti del movimento animalista/vegan in Italia, Marina Berati, ha commentato in senso estremamente positivo l’idea della catena di ristoranti vegan attenta alla salute e al gusto nell’articolo “VegDivertimento! RistOhsawa: per la diffusione di locali vegan in Italia!” 02/01/2008, in http://www.luigiboschi.it/?q=node/7936 . 126 Il progetto Rist.OhSawa è un soggetto molto interessante all’interno dell’ambiente delle PMI italiane, tanto da aver ricevuto il Premio Ok Italia di Banca Unicredit per l’innovazione (nella formula distributiva) e il customer care, dedicato alle piccole imprese italiane che si distinguono come modelli di eccellenza396. Nell’ambito della ristorazione, d’altra parte, la cucina GlisBer viene sempre più spesso citata, accanto alle creazioni dei più famosi chef di tutto il mondo, in positive recensioni contenute nelle più importanti guide del turismo gastronomico –sia chiaro, non in quanto ristorante “etichettato” come macrobiotico, vegetariano o vegano, bensì come locale innovativo e di elevatissima qualità397. Il progetto è sempre più considerato dalla stampa locale398 e nazionale399 come esempio, tra l’altro, di esuberanza imprenditoriale400 e fiducia nelle potenzialità dell’innovazione, costituendo pertanto anche un interessante realtà dal punto di vista produttivo: Rist-OhSawa si configura, insomma, come l’ennesimo successo imprenditoriale del Nord-Est, incentrato stavolta su motivazioni di natura prettamente etica, sempre più diffuse presso il grande pubblico. Muscolo di grano Un’esperienza molto differente dal progetto Rist-Ohsawa è quella di Muscolo di grano401, un alimento inventato per caso dal calabrese Enzo Marascio, a partire da materie prime di prima qualità della sua terra. Marascio si trova, nel 1979, a fronteggiare problemi di salute che lo costringono a rivedere drasticamente la sua alimentazione abituale, composta in buona parte da cibi di origine animale (come, del resto, accade a molti suoi conterranei). Per questo motivo, il professionista –fino ad allora estraneo alle questioni alimentari- inizia 396 “Quando le piccole imprese fanno grande l’Italia”, in http://www.unicreditbanca.it/it/imprese/page/?idc=6829 . 397 Sul sito internet dedicato al progetto http://www.ristohsawa.it/franchising/esperienza.html è presente una lista di citazioni che spaziano dal Salone Europeo della Ristorazione 1999, in cui la coppia è stata invitata a partecipare accanto a nomi del calibro di Gualtiero Marchesi, al Campionato Mondiale di Biopizza del 2003 –che ha visto proprio la vittoria dell’esperimento GlisBer applicato anche alla pizza, a testi come “L’Atlante del buongustaio”, in cui Ohsawa è citato nel 2002 e “La via del gusto”-con una recensione del 2003. 398 “Il re e la regina della bio-cucina: “partire presto e avere tenacia””, Brescia Oggi, 6 marzo 2007. 399 Tra i vari giornali e riviste che hanno citato Rist-Ohsawa, Anna (dicembre 2001), Il Giorno, Aam Terra Nuova (febbraio 2002). Citazioni raccolte in http://www.ristohsawa.it/franchising/esperienza.html . 400 E’ infatti significativo che abbondino le recensioni su Rist-OhSawa anche su dei siti rivolti prettamente al mondo produttivo, come nel caso di “Premiata la società Rist-Ohsawa creatrice della cucina vegetale”, in http://www.comservizi.it/index.php?option=com_content&task=view&id=883&Itemid=2 . 401 Le informazioni sul prodotto sono ricavate da due interviste a Enzo Marascio, rilasciate il 27/02/2008 e il 7/03/2008. 127 ad interessarsi ad uno stile alimentare che esclude ogni alimento di origine animale, allo scopo di evitare di introdurre colesterolo, grassi saturi e le altre tossine inevitabilmente contenute in carni, pesci e derivati. E’ per caso che scopre che, in seguito ad una particolare lavorazione e fermentazione, una mistura di farina di grano e di legumi assume una consistenza sorprendentemente simile a quella della carne, con delle vere e proprie venature, tendini, sfumature di colore. Marascio riesce, dopo svariati tentativi, a riprodurre con questa nuova materia prima –da lui stesso battezzata “Muscolo di grano”, data la sua impressionante consistenza- moltissime preparazioni tradizionalmente a base di carne, come la bresaola, alcuni salumi, il roast beef, ecc. Sembra esserci una grande differenza tra l’invenzione di Marascio e i sostituti della carne più conosciuti e consumati dai veg*ani, come il seitan, il tempeh, le bistecche di soia. Mentre queste ultime derivano da una destrutturazione delle materia prima utilizzata, Muscolo di grano si sviluppa esclusivamente in base ad un impasto, senza che intervengano modificazioni artificiali delle molecole di base. Inoltre, questo nuovo prodotto assume una sua specificità a partire da legumi e cereali messi insieme, non a partire da una modifica importante di una singola materia prima: per questo motivo, il profilo nutrizionale del Muscolo di grano risulta migliore. Marascio tende a precisare, inoltre, la presenza di una minima quantità di soia, contrariamente al tofu. Muscolo di grano è stato sottoposto a numerose perizie: in particolare, è stato analizzato dal prof. Fernando Tateo dell’università di Milano nel 1992402 e, sorprendentemente, si è rivelato essere un alimento molto particolare: contiene, infatti, 20 amminoacidi, tra cui 7 amminoacidi essenziali su 8, è composto da un tipo di proteina che non si ritrova né nei derivati della soia né negli alimenti animali, non contiene grassi –ovviamente nemmeno colesterolo- al di là dell’olio extravergine d’oliva, né carboidrati, risultando pertanto essere un alimento ideale anche per diabetici e celiaci –nonostante la provenienza dal grano. La qualità del nuovo prodotto è stata riconosciuta persino dal CONI, che nel 2006 ha organizzato una fornitura di Muscolo di grano per i suoi atleti403. Marascio è riuscito, per caso, a riassumere in un solo alimento dalle caratteristiche piacevolmente anomale le proprietà dei legumi e dei cereali, combinando le “proteine dei nonni” in una preparazione straordinariamente simile alla carne e parimenti versatile in cucina, tanto da prestarsi, tra l’altro, per l’elaborazione di salumi locali come la ‘nduja. Secondo molti assaggiatori, il sapore di Muscolo di grano è sorprendentemente simile a 402 La perizia è consultabile su http://www.uniurb.it/giornalismo/lavori2002/biondi/perizia.htm . Agire Ora Network, “Muscolo di grano agli atleti del CONI”, 21/10/2006, http://www.agireora.org/info/news_dett.php?id=40 . 403 128 quello della carne, perciò sarebbe lo strumento ideale per non rinunciare ai sapori della cucina tradizionale italiana pur escludendo l’assunzione di cibi animali, in particolare per quelle persone molto affezionate al gusto della carne e dei suoi più particolari derivati. L’invenzione di Marascio è davvero innovativa, nel panorama dei cibi sostitutivi: molti aspiranti vegetariani sarebbero facilitati in cucina, mentre i piatti tradizionali potrebbero essere riformulati senza rilevanti variazioni, come avviene invece con i tradizionali seitan, tempeh, bocconcini di soia, tofu, che frequentemente necessitano di un alimento ulteriore che dia loro sapore. Molti cuochi non avrebbero più motivo di rigettare la cucina vegetale, dato che l’apporto, in termini di possibilità di nuove ricette, di Muscolo di grano sarebbe fondamentale. Inoltre, questo alimento non deriva dalla soia, il cui utilizzo massiccio, specie da parte di alcuni veg*ani, è attualmente oggetto di frequenti discussioni, bensì da colture tradizionalmente presenti nel territorio italiano –in particolare, il grano utilizzato per il “Muscolo” appartiene alla cultivar Senatore Cappelli, in passato molto comune nel Centro e Sud Italia, rinomata per le sue qualità nutrizionali ma ignorata dalle grandi industrie alimentari a causa della resa inferiore rispetto alle varietà oggi più comuni. La commercializzazione di Muscolo di Grano è un aspetto ancora non definitivamente organizzato. Marascio produce direttamente un piccolo assortimento di specialità in un laboratorio casalingo gestito a livello familiare nel suo paese, Isca sullo Ionio, occupandosi per lo più di preparare i campioni da far assaggiare nelle tante fiere, in Italia e all’estero, in cui è sempre invitato. Tuttavia, il suo obiettivo è stipulare un accordo con un’azienda seriamente intenzionata a metter su uno stabilimento in loco: già diverse imprese di grosse dimensioni, attive nel settore degli alimenti sostitutivi della carne, lo hanno contattato per elaborare un piano in tal senso, ma nessuno dei progetti esaminati, alcuni dei quali miranti alla penetrazione del prodotto anche in importanti mercati esteri –come quello dei paesi arabi- sembra aver rispettato le sue condizioni. Marascio cerca, infatti, una soluzione che consenta sia di non snaturare le caratteristiche della sua invenzione (l’utilizzo del raro grano Cappelli e delle altre farine provenienti da agricoltura biologica) che di creare opportunità economiche per la sua Calabria (“io ho il know-how, e lo cederò solo a chi accetterà di investire qui”, afferma), ma non ha ancora incontrato un partner in grado di offrire tali garanzie. Nell’attesa, “l’inventore per caso” riceve tanti ordini da tutta Italia e oltre, persino da grosse aziende della ristorazione e del catering come Sodexho e Autogrill, ma non è evidentemente in grado di evaderli tutti. Attualmente, buona parte del Muscolo di grano oggi reperibile in commercio proviene da un’azienda alimentare della provincia di Teramo, che ha concluso con Marascio un accordo per commercializzare il prodotto in 129 Italia –in attesa di uno stabilimento più vicino ai luoghi di produzione delle materie prime404; in Gran Bretagna, la produzione è invece affidata ad un’azienda locale, che comunque non manca di citare l’origine “mediterranea” della ricetta405. Muscolo di grano è sempre presente nelle fiere del biologico, come il SANA di Bologna, o negli eventi dedicati ai veg*ani come il VegFestival, nonché in altre occasioni in cui si discute di benessere ed ecologia, fin dai primi anni 90: la partecipazione a eventi di questo tipo rappresenta il fulcro dell’attività pubblicitaria di Marascio, finalizzata non tanto alla crescita della propria produzione quanto alla divulgazione di un metodo rivoluzionario per sostituire la carne in tante preparazioni senza utilizzare massicce quantità di soia ed assumere una fonte importante di amminoacidi essenziali –ovviamente, sono questi i luoghi in cui ci sono maggiori possibilità di incontrare investitori interessati ad occuparsi stabilmente della produzione. Marascio gira l’Europa presentando un alimento che riscuote consensi ovunque, in particolar modo tra gli “onnivori”, piacevolmente stupiti nel provare un sapore e una consistenza inconsciamente non associabili che alla carne (come i “coniugi GlisBer”, anche Marascio riscontra, in proporzione, un maggiore interesse da parte di persone estranee all’universo vegetariano e vegano, sempre perché sono questi individui a sorprendersi di più nell’ammettere la bontà di cibi composti esclusivamente da vegetali). Il prodotto è comunque molto conosciuto tra i veg*ani italiani: il suo nome si incontra spesso sui siti internet di ricette vegetali, ma la maggior parte degli interessati non ha avuto la possibilità di assaggiarlo direttamente. Al contrario, Muscolo di grano non incontra il favore -se non estemporaneo- dei conterranei di Marascio, probabilmente troppo legati ad un consumo massiccio di alimenti animali e troppo poco aperti alle novità in cucina, mentre è dal Nord Italia ed Europa che provengono le richieste più significative di acquisto. Di fronte al successo di Rist-Ohsawa, questa realtà appare sicuramente meno curata e stabile, ma ci sono ottime probabilità di sviluppare meglio il progetto. Difatti, Muscolo di grano è tanto richiesto da attirare le attenzioni di tantissime aziende, ed è verosimile pensare che ce ne sarà una in grado di investire su uno stabilimento di produzione di media grandezza in loco, almeno in futuro. Certo, le problematiche socioeconomiche della Calabria sono un ostacolo alla sua realizzazione, come lo stesso Marascio ammette (sottolineando una scarsa predisposizione imprenditoriale, assieme alla tendenza a evitare 404 Come si evince dall’articolo “Non è carne, non è seitan, è “Muscolo di grano”, 10/06/2006, in http://www.greenplanet.net/content/view/15820 . 405 Sul sito http://www.yagga.co.uk/index.html i consumatori europei possono acquistare Muscolo di grano prodotto in Gran Bretagna ma rispettando la ricetta originale. 130 il rischio e a dipendere dagli aiuti pubblici), ma sarebbe davvero privo di ragionevolezza economica abbandonare delle prospettive di vendita tanto promettenti. Le testimonianze di Rist-Ohsawa e di Muscolo di Grano possono servire a delineare alcune caratteristiche delle imprese alimentari rivolte ad un pubblico veg*ano. a. Le aziende alimentari del settore cruelty-free si propongono ad un pubblico non necessariamente veg*ano. Spesso, la clientela di riferimento è costituita da persone di un elevato livello culturale con elevata capacità di spesa, capaci di apprezzare delle valide e gustose alternative ai prodotti convenzionali, tossici –anche se solo le persone più informate ne sono a conoscenza- ma a buon mercato, e soprattutto protagonisti della cucina italiana. Gli stessi mezzi di informazione attraverso i quali tali operatori si fanno pubblicità (Internet e le fiere in primis) sono raggiunti da un’utenza ristretta, decisamente più informata sui temi alimentari. Non è da sottovalutare la clientela che si rivolge a tali marchi per sopraggiunti problemi di salute legati al consumo di alimenti animali, come ipertensione, ipercolesterolemia, diabete, obesità e sovrappeso, mentre un’altra categoria di consumatori acquista tali prodotti per prevenire tali malattie. Pertanto, mentre i vegani possono anche non rivolgersi ad aziende specializzate in alimenti sostitutivi, acquistando cereali, legumi, frutta e verdura in forma non trasformata, molti non veg*ani lo fanno per motivi lontani dall’etica. b. L’esempio di Rist-Ohsawa mostra come la cucina veg*ana riesca molto bene ad affermarsi, una volta presentata in un ambiente molto curato, in cui tutti gli aspetti del benessere vengono esaltati, e soprattutto nel momento in cui viene trasmessa un’idea di ricercatezza, gusto, salubrità e godimento. Pertanto, è necessario abbandonare ogni approccio tendente ad identificare l’alimentazione cruelty-free come una rinuncia, uno svilimento del sapore, una mera esclusione di cibi –in realtà, nessuna delle aziende interessate diffonde un’immagine simile, prospettata per lo più dagli “avversari” allevatori i quali, nelle innumerevoli campagne promozionali finanziate dai contribuenti italiani e dall’Unione Europea, non mancano mai di esaltare i loro prodotti finendo inevitabilmente per relegare all’idea di rinuncia qualsiasi prodotto non animale. Perciò, più il veg*ismo viene presentato come alternativa soddisfacente e ricca di spunti, più ha successo tra le persone maggiormente informate. 131 c. Presso i consumatori meno abbienti e informati, l’approccio da seguire dovrebbe essere, al contrario, basato su strategie di prezzo (ben vengano quindi le produzioni su scala industriale, purché i cibi mantengano un’elevata qualità), elemento che oggi mantiene lontani dagli alimenti sostitutivi la maggior parte dei consumatori, mentre il messaggio pubblicitario dovrebbe valorizzare l’aspetto salutistico (data la tendenza delle persone più ignoranti e meno abbienti ad ammalarsi di più), la velocità di preparazione (e quindi la perfetta compatibilità con uno stile di vita frenetico) e la genuinità delle materie prime (soprattutto la provenienza locale). Muscolo di grano potrebbe affermarsi in Calabria se avesse queste caratteristiche? E’ verosimile pensarlo. Inoltre, i canali distributivi maggiormente utilizzati dalle aziende del cruelty-free tengono lontana questa categoria di consumatori, perciò gli alimenti sostitutivi devono diffondersi anche al di là delle botteghe e dei siti Internet. d. L’acquisto estemporaneo di alimenti sostitutivi non serve a stimolare l’attenzione per la tematica dello sfruttamento degli animali e della diffusione del veg*ismo su basi etiche: al contrario, è la consapevolezza a indurre il mutamento dei consumi. e. Tutte le aziende alimentari interpellate sottolineano la continua crescita delle vendite: le prospettive sono pertanto più che positive, nonostante ci sia innegabilmente bisogno di espandere il target (se è vero che i consumatori abbienti e informati influiscono di più sulle vendite attuali, è anche vero che gli altri consumatori sono la maggioranza: è fondamentale, a questo punto, concentrarsi su di loro). f. I produttori di alimenti sostitutivi sono sempre ospitati nelle fiere dell’alimentazione naturale (SANA di Bologna, Biofach di Norimberga, ecc.) e negli eventi organizzati da associazioni animaliste/veg*ane (VegFestival di Torino406, Veganch’io di Milano407): se il secondo canale serve a consolidare la loro presenza nel mercato principale, il primo è importante per pubblicizzare i propri prodotti presso consumatori attenti all’ambiente ma non (ancora) all’etica. Entrambi questi canali non raggiungono, tuttavia, il grande pubblico, i cui comportamenti sono enormemente influenzati dalla pubblicità televisiva, dalle trasmissioni “per casalinghe”, dalle riviste: sono questi i media da raggiungere. 406 407 http://www.vegfestival.org . http://www.veganchio.org . 132 No-food Il mercato dei prodotti non alimentari creati appositamente per essere compatibili con la scelta veg*ana è in continua crescita. Gli operatori diventano sempre più numerosi nel tempo e, soprattutto, acquistano importanza anche alcune aziende italiane, successivamente ad un periodo iniziale in cui il cruelty-free non poteva che essere ricondotto ad aziende del Nord Europa –il cui bacino di utenza raggiungeva dimensioni interessanti anche molti anni fa-, le prime ad organizzare il commercio elettronico di questi prodotti. Non a caso, i siti web ancora maggiormente utilizzati per la “spesa etica” sono britannici408 e statunitensi409. In Italia il commercio elettronico etico nasce più recentemente. Se molto spesso si trovano le merci delle medesime marche straniere, è anche vero che molte piccole imprese italiane acquistano sempre più rilevanza. In particolare, sono pochi i siti italiani che propongono una vasta gamma di prodotti cruelty-free provenienti da aziende diverse, mentre inizia a diventare consistente il numero delle singole imprese che decidono di avviare la vendita su Internet delle proprie merci –modalità molto spesso accessoria rispetto ai canali tradizionali, incentrati su negozi monomarca o plurimarca. E-Blood Un importante esempio di impresa cruelty-free italiana, operante nel settore dell’abbigliamento e presente sia nel web che nei negozi, è costituito dalla E-Blood. Si tratta di un’azienda nata nel 1998 a Torino da un’idea di Fabio Raffaelli, attuale titolare, vegan convinto che si è a lungo impegnato per creare una società corrispondente ai criteri rispondenti all’etica animalista: difatti, dopo dieci anni di lavoro e di difficoltà, Raffaelli è riuscito a circondarsi di soli collaboratori vegan410. Del resto, un produttore che si qualifica 408 Marchi storici dell’abbigliamento cruelty free sono disponibili su http://www.vegetarian-shoes.co.uk , http://www.ethicalwares.com , http://www.veganline.com , http://www.freerangers.co.uk , http://www.vegangiftshop.com . 409 I siti http://onestopveganshop.com , http://www.veganessentials.com , http://www.herbivoreclothing.com , http://www.mooshoes.com propongono sia prodotti di provenienza statunitense che europea. 410 Tutte le informazioni sulla E-Blood sono state direttamente ricavate a seguito di un’intervista con lo stesso Fabio Raffaeli effettuata in data 22/02/2008. Altre informazioni sono state ricavate dal sito ufficiale dell’azienda, http://www.ebloodclothing.com . 133 cruelty-free non avrebbe avuto la medesima credibilità in mancanza di questa coerenza e condivisione del messaggio già in partenza. La E-Blood produce capi di abbigliamento e accessori totalmente privi di componenti di derivazione animale: niente pelle, né lana o seta, né sottoprodotti. Il progetto è stato ideato e realizzato tenendo sempre presente l’etica vegan, il costante ed imprescindibile punto di riferimento delle decisioni aziendali; l’obiettivo primario del management resta l’accostamento irrinunciabile di qualità, stile ed etica; la compassione e la giustizia sono due messaggi fondamentali che l’azienda vuole diffondere attraverso i propri capi. A proposito dei fattori che hanno spinto verso la nascita della E-Blood, Fabio Raffaelli spiega come fino a dieci anni fa in Italia, diversamente dall’estero, non fosse presente alcun marchio di abbigliamento che si poggiasse su una motivazione etica di stampo animalista. Lo sviluppo dell’azienda è stato reso possibile dal fondamentale supporto di associazioni estere e italiane, gravitanti attorno agli ambienti musicali hard core, hip hop e allo stile di vita straight edge, che hanno costituito anche un primo orizzonte di mercato per E-Blood. Il mercato internazionale è molto importante per l’azienda, che esporta circa il 20% delle sue creazioni, specialmente attraverso Internet, in tutti i paesi più importanti del mondo. La maggior parte delle vendite effettuate in Italia è circoscritta all’area piemontese (ovviamente, è proprio nel luogo d’origine che l’azienda è maggiormente conosciuta e presente, con un punto vendita diretto, mentre, secondo Raffaelli, è scarsamente rilevante il fatto che proprio in Piemonte sia presente una vasta comunità di attivisti vegan), mentre nel resto del territorio italiano E-Blood è presente in oltre 200 punti vendita plurimarca. E-Blood si indirizza principalmente verso un particolare mercato, che ruota attorno agli ambienti hard core ed agli eventi musicali connessi (il legame con la musica è evidente anche nel fatto che E-Blood sponsorizza un insieme di gruppi che, nello loro esibizioni, utilizzano i suoi capi di abbigliamento); per questo motivo, lo stile proposto dall’azienda viene condiviso da molti giovani in tutta Italia sulla base di questo stretto legame con la musica e non perché si condivida la visione etica retrostante il marchio –peraltro facilmente desumibile dal marchio stesso. E’ lo stesso Raffaelli a precisare che circa l’80% degli acquirenti italiani dei capi E-Blood non motiva il suo acquisto con la condivisione della politica cruelty free, bensì attraverso mere considerazioni di gusto e stile (Raffaelli parla a questo proposito di “consumo superficiale” degli italiani); i veg*ani rappresenterebbero solo una sparuta minoranza di coloro che decidono di acquistare capi del marchio. Al contrario, la clientela estera giunge a E-Blood proprio attraverso i siti 134 Internet dedicati al veg*ismo, quindi la loro considerazione dell’etica del brand è decisamente superiore (Raffaelli afferma, anzi, che la consapevolezza dei clienti esteri della scelta vegan è totale: nessun acquirente estero di E-Blood acquisterebbe per motivi differenti). Il problema sottolineato dal titolare, che ritiene di non aver riscontrato un feedback positivo nei propri clienti italiani a proposito del veganismo nemmeno a seguito dell’acquisto, deriva dal fatto che E-Blood si indirizza verso un target non sovrapponibile alla comunità veg*ana nazionale (ma anche solo piemontese), composta non solamente da giovani e quasi sempre abbastanza lontana dagli ambienti socio-musicali verso cui si indirizza EBlood. Questo non vuol dire che non vi sia alcun tipo di legame tra l’azienda e l’universo veg*ano italiano: al contrario, E-Blood ha avviato delle collaborazioni con l’associazione “100% Animalisti” e sostiene il maggiore evento italiano incentrato sul veg*ismo, il VegFestival di Torino; inoltre, il negozio monomarca del capoluogo piemontese mette a disposizione i propri spazi per manifestazioni, sit-in e altre attività organizzate da associazioni animaliste e veg*ane. Evidentemente, questi legami sono strettamente da correlare al fatto che tutti i dipendenti di E-Blood condividono questa scelta e che all’interno di una certa area geografica gli attivisti si conoscono tra loro. Si può quindi affermare che E-Blood si ritrova con un giro d’affari sì consistente ma che non è servito a sensibilizzare all’etica vegan; almeno per quanto riguarda l’Italia, la nicchia di mercato verso cui l’azienda di Raffaelli si rivolge non si è granché aperta alle istanze animaliste. I due universi di riferimento che E-Blood intendeva simbolicamente congiungere sono rimasti pressoché distanti e anche nei casi in cui si sono sviluppati dei punti di contatto ciò non sarebbe imputabile al messaggio di E-Blood bensì alla maturazione di una consapevolezza individuale. Le prospettive che Fabio Raffaelli indica per E-Blood sono favorevoli, nonostante attualmente non si stia raggiungendo il picco di vendite del 2003 –principalmente a causa della congiuntura negativa. In particolare l’azienda intende rafforzare i canali di vendita verso gli Stati Uniti e il Regno Unito, paesi in cui la comunità veg*ana è particolarmente folta e in crescita e dove, evidentemente, i legami con gli ambienti musicali hard core non mancano. 135 San.Eco.Vit Questa piccola azienda lombarda411 nasce nel 1989, occupandosi di alimentazione biologica, per poi dedicarsi esclusivamente alla cosmetica e ai detersivi –inizialmente venivano proposte piccole quantità di prodotti, creati quasi artigianalmente, ma nel tempo San.Eco.Vit è diventato un marchio importante nell’ambito –piuttosto ristretto- delle aziende certificate in base a parametri etici. La motivazione che ha spinto i fondatori dell’impresa a intraprendere una strada così poco praticata, all’epoca, è stata la volontà di applicare anche nell’ambito cosmetico i principi di naturalità, rispetto del corpo, degli animali e dell’ambiente già percepiti a livello alimentare e del tutto ignorati dalla quasi totalità delle aziende allora esistenti: persino oggi, parlare di “cosmesi biologica” risulta strano a molte persone, probabilmente abituate ad adottare parametri diversi per il cibo e per i prodotti destinati ad un utilizzo solo esterno. In realtà, la pelle è un organo molto importante – il più esteso del corpo umano-, capace di assorbire tutte le sostanze con cui entra in contatto: nei suoi confronti, pertanto, si dovrebbe utilizzare la stessa meticolosità (quando c’è) dedicata all’alimentazione. Questa scelta di responsabilità ha indirizzato fin dal principio gli sforzi degli ideatori di San.Eco.Vit. e ha consentito di differenziare radicalmente l’azienda da molti altri operatori presenti nei negozi naturali, i cui prodotti risultano spesso privi di caratteristiche di qualità tali da giustificare rilevanti differenze di prezzo rispetto ai marchi tradizionali e da costituire un vero “acquisto etico”. La scelta anti-vivisezione, condivisa fin dall’inizio dai soci -che si dichiarano, a malincuore, “semivegetariani per comodità”- è divenuta, oltre che una necessità morale verso gli animali e i consumatori, un imprescindibile punto di riferimento per le scelte aziendali: San.Eco.Vit. aderisce dal 1999 allo Standard internazionale sui cosmetici cruelty-free (anche per quanto riguarda i detersivi, che per legge hanno bisogno di un numero inferiore di test) attraverso la certificazione ICEALAV. Donato Vitaloni, uno dei soci dell’azienda, conferma la difficoltà di differenziarsi da imprese meno “trasparenti” dal punto di vista del trattamento degli animali, visto il proliferare in libertà di scritte e simboli “animalisti” senza alcun riscontro, e per questo sottolinea l’importanza dell’adesione allo Standard: “fino ad allora ognuno poteva dire ciò che voleva (…) finalmente qualcuno certifica ciò che da sempre abbiamo fatto”. 411 Le informazioni riportate sono elaborate sulla base di un’intervista a Donato Vitaloni, uno dei soci dell’azienda, del 4/03/2008. Altre informazioni sui prodotti sono consultabili su http://www.sanecovit.it . 136 Un consumatore poco informato può essere manipolato ancora oggi da una scritta generica, ma almeno chi intende effettuare acquisti consapevoli ha delle sicurezze in più, grazie alla certificazione ICEA-LAV. San.Eco.Vit. è stata la prima azienda di detersivi e una delle prime aziende cosmetiche a guadagnarsi la suddetta certificazione, nonché una pioniera anche nel potersi fregiare della certificazione AIAB a garanzia dell’utilizzo di materie prime provenienti da agricoltura biologica. San.Eco.Vit. ha inoltrato una richiesta a Vegan Italia per apporre sui propri cosmetici e detersivi anche il marchio che contraddistingue i prodotti vegan (categoria in cui rientra il 100% dei prodotti dell’azienda) ma fino ad ora non ci sono sviluppi in tal senso (l’azienda incontra delle difficoltà amministrative, derivanti dal fatto che Vegan Italia ha delegato le operazioni di certificazione, di cui nel capitolo precedente, alla Vegan Society britannica). San.Eco.Vit. si occupa della produzione (la distribuzione è affidata alla Ecor, azienda leader nella produzione e commercializzazione di prodotti biologici) di diverse linee di prodotti, tutti certificati (l’azienda non produce merci di qualità inferiore per conto terzi): i detersivi a marchio Ecoblu, Ecor, Ecoland; i cosmetici Bjobj, i cosmetici per animali domestici Bjobao. I canali di vendita principali sono costituiti dai negozi di alimentazione naturale e dalle erboristerie, mentre è da sottolineare la presenza dei cosmetici Bjobj anche nelle farmacie e parafarmacie più fornite –seppure questi ultimi punti vendita non influiscano granché sulle vendite. Cosmetici e detersivi sono distribuiti in tutta Italia e vengono acquistati omogeneamente in tutte le regioni, anche se nel Nord ci sono più punti vendita; l’esportazione pesa poco sui bilanci dell’azienda (in un percentuale non superiore al 7% del fatturato). San.Eco.Vit. si è fatta conoscere anche attraverso la partecipazione alle fiere di settore come il SANA di Bologna e il Biofach di Norimberga. Le prospettive dell’azienda non tradiscono le aspettative comuni alle altre aziende operanti nel settore del cruelty-free: il trend delle vendite è positivo in tutta Italia, la crescita è continua, seppure con tassi di crescita non elevati (non bisogna dimenticare che l’azienda opera in un mercato di nicchia, in particolar modo a proposito della cosmesi bio-ecologica) e ci sono promettenti possibilità di ulteriori successi, in quanto San.Eco.Vit. è una delle aziende certificate più conosciute e presenti nei negozi specializzati, mentre questo mercato ha ancora moltissime potenzialità da sviluppare. L’andamento positivo è confermato dall’introduzione della linea Bjobao alla fine del 2007, dal recentissimo lancio di una linea di prodotti per bambini e dalla prossima commercializzazione di linee profumate (l’idea è quella di proporre cosmetici di alta qualità anche per coloro che danno 137 più importanza alla profumazione che agli ingredienti, quindi di accentuare il fattore “gradevolezza” rendendo utilizzabili i prodotti anche per le classiche confezioni regalo). Qual è la chiave del successo di San.Eco.Vit? Vitaloni insiste nel concentrare l’attenzione sulla consapevolezza del cliente: il possesso di numerose certificazioni –il cui ottenimento è finanziariamente molto oneroso per una piccola azienda come questa- è significativo solo se il consumatore sa distinguere le imprese “serie” da quelle che si limitano a proporre un packaging accattivante, una sensazione di naturalità ottenuta attraverso sostanze chimiche tossiche, facendo colpo su acquirenti ignari del fatto che un cosmetico non è cruelty-free solo perché ha un coniglio stilizzato sulla confezione, né può essere spacciato per naturale solo perché contiene minime percentuali di estratti di piante, accanto a quantità ben più importanti di composti chimici poco compatibili con la salute. Vitaloni non può ignorare la presenza di numerosi “furbi” in questo campo, spesso operatori di dimensioni ragguardevoli e molto conosciuti da un pubblico ignaro di acquistare un prodotto diverso rispetto alle aspettative suggerite dalla pubblicità: per questo motivo, se si vogliono guadagnare posizioni in un mercato simile è fondamentale presentarsi con un messaggio del tutto differente rispetto alle classiche aziende “da erboristeria”, che oramai sviluppano strategie di customer care sempre meno distinguibili da quelle messe a punto dalle imprese della grande distribuzione. Abbinare la scelta del vero cruelty-free a quella della cosmesi bio-ecologica risulta, pertanto, vincente. Anche nel caso della San.Eco.Vit., il fatto che l’azienda opti per una politica antivivisezionista è fondamentale solo per una parte minoritaria degli acquirenti, a conferma del fatto che moltissime persone estranee al veg*ismo considerano parimenti importante la cessazione dei test su animali e la qualità delle materie prime (del resto, gli stessi titolari non sono veg*ani). Tuttavia, Vitaloni è molto chiaro quando spiega che essere cruelty-free, per San.Eco.Vit., è una scelta del tutto indipendente dagli andamenti delle vendite o dagli studi di mercato: non interessa sapere se essere animalista sia positivo per la crescita del fatturato, bensì orientare la propria attività in una direzione compatibile con le scelte di coscienza dei soci. Il valore di una scelta etica tanto influente è evidente nel fatto che uno degli obiettivi di San.Eco.Vit. è quello di contribuire, seppure indirettamente, a sensibilizzare altre aziende (specialmente i fornitori di materie prime) sul versante del rapporto con gli animali e la natura comprovando la possibilità di coniugare business e approccio cruelty-free/biologico: il mercato, difatti, sta premiando tali scelte. La sensibilizzazione in tal senso è ovviamente pensata anche per i consumatori, troppo poco abituati a leggere le etichette di cosmetici e persino degli alimenti, ma le caratteristiche 138 della rete distributiva dei prodotti San.Eco.Vit. non consente di avvicinare molte persone estranee a queste tematiche (con l’importante eccezione di farmacie e parafarmacie). La testimonianza di E-Blood e di San.Eco.Vit è importante per sottolineare alcuni elementi fondamentali dell’attuale relazione tra animalismo ed economia. a. Gli operatori economici del settore cruelty-free si propongono, in linea di massima, ad una clientela già sensibilizzata: al di là dell’anomalia italiana, solo dei vegani acquistano da E-Blood e principalmente perché hanno la garanzia di non indossare capi derivati da crudeltà; nel caso di San.Eco.Vit., la sensibilizzazione riguarda per lo più la caratterizzazione bio-ecologica dei prodotti, che non sempre va di pari passo con il veg*ismo ma ne costituisce spesso una premessa. b. I due settori sono molto differenti tra loro: sono molte le aziende cosmetiche che si rivolgono a consumatori veg*ani, ma per lo più incontrano il favore anche di altre persone, mentre i veg*ani coerenti non hanno molte scelte negli acquisti di cosmetici e detersivi, visto che devono selezionare le aziende serie da quelle in cui il marchio cruelty-free non corrisponde a reali garanzie; diversamente, nell’ambito dell’abbigliamento è possibile trovare capi cruelty-free ovunque, a parte determinati articoli come le calzature, perciò aziende come E-Blood, i cui prodotti non sono reperibili contestualmente alle grandi marche, si rivolgono ad un target contraddistinto anche da altri fattori, come la musica. Si tratta, in entrambi i casi, di mercati che restano di nicchia, ma per quanto riguarda la cosmetica le prospettive sono migliori (il prodotto non si identifica con un messaggio ulteriore ed è distribuito in modo più capillare). c. Generalmente l’acquisto casuale di prodotti etici non serve a far sviluppare una consapevolezza morale della problematica. d. L’Italia è un paese in cui si parla ancora troppo poco di veganismo, anche negli ambienti cosiddetti della “controcultura” (laddove cioè si sviluppano forti critiche verso alcuni caratteri della società occidentale), in cui non viene ancora considerato negativo il cibarsi di alimenti di origine animale; questo potrebbe essere spiegato dal fatto che la scelta vegana viene vista ancora da troppe persone, anche giovani e “alternative”, come una scelta di rinuncia o di élite. Quest’immagine è pertanto da cambiare, e a questo proposito gli sforzi di aziende come E-Blood non possono che essere considerati lodevoli. A differenza di E-Blood, San.Eco.Vit non è invece 139 caratterizzata da una forte ed esplicito supporto alla causa del veganismo, dato che i titolari non ne hanno sposato la causa e che il messaggio principale retrostante il marchio riguarda la caratterizzazione bio-ecologica; tuttavia, la spinta a favore dell’adesione allo Standard Internazionale del cruelty-free non può non essere uno stimolo, seppure meno evidente, verso una maggiore consapevolezza delle tematiche riguardanti gli animali. e. La veg-economy si conferma un settore economico con prospettive rosee, anche in Italia -seppure i tassi di crescita più importanti si prevedano nei paesi tradizionalmente più sensibilizzati all’etica animalista, come nel caso di E-Blood, e spesso siano trainati da consumatori estranei alla tematica della liberazione animale, come nel caso di San.Eco.Vit. f. La veg-economy tende sempre più ad affermarsi attraverso Internet: nel caso di EBlood e dell’abbigliamento in generale, la clientela è abbastanza giovane e sparsa e creare dei punti vendita monomarca comporterebbe maggiori rischi, al di là dei grandi centri urbani in cui i veg*ani sono maggiormente concentrati; nel caso di San.Eco.Vit, il canale del web è accessorio rispetto a quello tradizionale ma non meno importante, specie per i consumatori residenti in aree non adeguatamente servite da negozi di alimentazione e cosmetica naturale; nondimeno, è necessario sottolineare che in questo secondo caso molti siti web offrono delle recensioni sui prodotti, offrendo di fatto un canale pubblicitario peer-to-peer molto affidabile e seguito, oltre che gratuito. g. Generalmente, le imprese della veg-economy hanno dei legami con l’universo dell’associazionismo veg*ano e animalista e partecipano attivamente alle campagne di sensibilizzazione promosse da queste realtà. Questo però sembra valere solo per quegli operatori la cui attività è una conseguenza di una scelta etica precisa e preesistente, come accade per lo staff di E-Blood, mentre non si riscontra necessariamente presso le aziende che hanno sviluppato successivamente e gradualmente una sensibilità animalista, oppure laddove tale sensibilità non è l’unica motivazione per la conduzione dell’attività, come accade per San.Eco.Vit. 140 Veg-Marketing Il veganismo ha bisogno di diffondersi e, per questo, risulta fondamentale l’elaborazione di efficaci strategie di marketing. Al riguardo, però, è importante sottolineare la necessità di un duplice approccio alle attività promozionali: uno “contro” la cultura dello sfruttamento degli animali, sviluppato per lo più dalle associazioni animaliste, e uno “pro” l’acquisto di prodotti cruelty-free, messo a punto dalle aziende interessate. a) Marketing di opposizione Molti veg*ani sono persone che non si limitano a boicottare un certo tipo di alimentazione, ma giungono a rifiutare un intero approccio all’economia e alla produttività, fondato sull’acquisto compulsivo come unica ragione di vita, spinto da false immagini di felicità domestica e da ingannevoli promesse di soddisfazione materiale. Adbusters412 è il più famoso movimento a livello internazionale che propone particolari iniziative con l’obiettivo di screditare il sistema del marketing delle industrie nocive all’umanità e al pianeta, recuperando una dimensione esistenziale più vicina alla realtà, ai rapporti umani veri, ecologicamente e socialmente sostenibile. Molti vegani condividono tali idee – secondo Kalle Lasn, fondatore del movimento, “può darsi che, senza nemmeno saperlo, siate già dei Culture Jammers. Siete (…) vegetariani vegani “413 -seppure si limitino ad applicarle, prioritariamente, nell’ambito dello sfruttamento degli animali (innegabile ed indispensabile anello di un’economia che mira al prezzo più basso, alla produzione massima e alla pubblicità ossessiva, ingannevole e nociva). Da ciò, dovrebbe derivare un drastico rifiuto del concetto stesso di marketing, responsabile del radicamento di finti bisogni e frustrazioni indotte dalla mancanza di beni di qualità discutibile. In realtà, l’obiettivo ultimo dei veg*ani è quello di convincere altre persone a compiere la stessa scelta: per motivi etici, perché intendono salvare il maggior numero possibile di animali; per motivi salutistici, per comunicare agli “inconsapevoli” i danni prodotti dall’alimentazione a base di carne, e così via. Essi devono, pertanto, sostenere una poderosa battaglia contro avversari determinati, dotati di risorse immense e soprattutto 412 Il sito ufficiale dell’associazione canadese è http://www.adbusters.org . Kalle Lasn, Culture Jam. Manuale di resistenza del consumatore globale. Mondadori, Milano, 2004, p. 171. 413 141 benvoluti dalla massa a-critica: gli allevatori, i pellicciai, gli scienziati che sperimentano “in vivo”, i macellai -individui che possono, talvolta, essere inconsapevoli allo stesso modo dei consumatori (sarebbe inconcludente considerarli come i “cattivi” del gioco, anche se ne sarebbe perfettamente comprensibile il motivo). Si pone, pertanto, un grosso problema: come “strappare” la gente al messaggio ingannevole e dannoso propagandato da questi soggetti? E’ qui che il potenziale del marketing deve esercitarsi contro la sua attuale realtà. Sarebbe irrealistico pensare di cambiare l’approccio al consumo della gente esclusivamente attraverso i sit-in e le petizioni, attività sicuramente utili e da moltiplicare, ma che, da sole, difficilmente riescono a generare un mutamento radicale (quale è quello necessario per diventare veg*ani e soprattutto influenti)414. Il marketing serve, eccome: ma esercitato al contrario, in forma di de-marketing415. Il de-marketing consiste nell’utilizzare le tecniche di marketing contro i suoi stessi obiettivi, allo scopo di presentarli nel modo opposto a quello voluto dalle aziende. Tecniche come spot televisivi, manifesti pubblicitari, elaborazione e diffusione di memi – concetti singoli in grado di spostarsi “da cervello a cervello”416- possono essere usati per caratterizzare i prodotti finora esaltati con un significato nuovo, lontano dall’idea comune sviluppata con la pubblicità. Il de-marketing serve moltissimo ai veg*ani per screditare l’industria zootecnica (assieme a tutte le altre imprese che sfruttano animali), responsabile di nascite forzate, torture e uccisioni di massa, nonché di inquinamento, spreco di risorse pubbliche, epidemie. L’obiettivo è quello di trovare un modo per far sì che le persone associno il termine “allevamento” non con prati verdi, mucche viola e galline danzanti ma con catene, sporcizia, sfruttamento, pericolo; allo stesso modo, la parola “sperimentazione” va associata non più a immagini di laboratori puliti in cui tutti gli scienziati lottano contro la sfortuna per trovare una cura ai problemi dell’umanità, bensì a immagini di torture, spesso del tutto inutili, degne del famigerato Mengele. 414 “Gli attivisti possono inscenare sit-in, organizzare proteste di massa e allestire violente battaglie contro la polizia. Ma questi eventi faranno al massimo una fugace quanto gloriosa comparsa nei telegiornali della sera, e poi spariranno senza lasciare traccia. Sono spettacoli con un periodo radioattivo limitato. Le vere rivolte, quelle importanti, in grado di cambiare le alleanze, scuotere i governi, far vincere (o perdere) le elezioni, obbligare le corporation e le industrie a ripensare ai propri piani, accadono ora nella testa delle persone”. Ibidem, p. 187. 415 “Le strategie di marketing hanno fatto il loro corso. Ora è giunto il momento di svendere i loro prodotti e far rivoltare l’incredibile potere del marketing contro sé stesso”. Ibidem, p. 189. 416 “Un meme è un’unità di trasmissione culturale (uno slogan, un pensiero, una melodia, un concetto di moda, filosofia, politica) che si trasmette da cervello a cervello. I memi lottano per riprodursi e si diffondono tra la popolazione in maniera molto simile al modo in cui i geni vanno a caratterizzare una specie biologica. I memi più potenti sono in grado di cambiare le menti, di alterare i comportamenti, di catalizzare cambiamenti collettivi di opinione e di trasformare intere culture. Ecco perché la guerra di memi è diventata la principale battaglia politica dell’era dell’informazione”. Ibidem. 142 Questa necessità diventa ancora più urgente di fronte ai continui tentativi dell’industria “della crudeltà” di mostrarsi quanto più “pulita” possibile (l’attuale iniziativa della tracciabilità, sempre più diffusa, utile però alle sole aziende per scaricare eventuali responsabilità sui fornitori417), di dissociare il loro “prodotto finito” dalla realtà, specie verso i bambini (ad esempio, con gli hamburger a forma di animaletto -dopo il danno, anche la beffa!)418, di autodefinirsi paladini della salute pubblica e dell’occupazione (dopo aver messo bene in evidenza il numero degli occupati nel settore419, una delle prime critiche che queste imprese oppongono a chi le combatte è: “volete che migliaia di persone perdano il proprio posto di lavoro?”), ma anche benefattori dell’umanità (come fa Mc Donald’s con le sue campagne di aiuto per i bambini420 –i quali sarebbero più al sicuro se la distribuzione degli alimenti a livello mondiale fosse più ragionevole ed equa, o se ricevessero un’alimentazione bilanciata). Tuttavia, attuare strategie di de-marketing non è assolutamente semplice. Il problema fondamentale è che sui mezzi di informazione più influenti sui consumi (televisione e giornali) non c’è spazio per il confronto: lo sfruttamento degli animali in ogni forma viene propagandato da tutti come positivo, necessario, utile alla società, conveniente per tutti. Nelle rare occasioni in cui è possibile sostenere la tesi contraria, c’è sempre qualcuno pronto a metterla in cattiva luce, sbandierando studi falsi421, ripetendo affermazioni prive 417 P. Conti, cit., pp. 101-118. “Le corporation alimentari sono avversari temibili, perché molte delle loro mosse rimangono nell’ombra. Una delle cose che sono solite fare è quella di allontanare sempre più i consumatori dalle fonti di produzione degli alimenti –un concetto noto come separazione”. Ibidem, p. 251. L’estraneità della crocchetta all’animale allevato è rappresentata perfettamente nel film Super Size Me (Morgan Spurlock, 2004, Usa). 419 Come sul sito http://www.unionenazionaleavicoltura.it/settore/settore.asp . 420 Ronald McDonald House Charities, su http://www.rmhc.org . 418 421 Nel 2005 è stato diffuso su tutti i mass media lo studio della Dott.ssa Lindsay Allen, secondo cui i bambini necessitano di alimenti animali per crescere correttamente e non incorrere in gravi deficienze di sviluppo. Peccato che il team della dottoressa, tra l’altro finanziato dalla National Beef Association (USA), abbia condotto tali studi su un gruppo di bambini denutriti in Africa, dove si muore di fame. Lo studio è stato accompagnato da un numero incredibile di critiche da tutto il mondo. Fonti: Michelle Roberts, “Children Harmed by Vegan Diets”, 21/02/2005, in http://news.bbc.co.uk/1/hi/health/4282257.stm ; redazione di Società scientifica di nutrizione vegetariana, “Studio della dott.ssa Allen finanziato dalle associazioni di allevatori”, 26/02/2005, in http://www.scienzavegetariana.it/agg/news/2005_02_26_studio_allen.html#comst “Uno degli aspetti più sconcertanti che emerge da tutto questo è che [la dottoressa Allen] sta sperimentando su bambini denutriti. Questi sono bambini che stanno palesemente patendo la fame, la loro non è una dieta “vegana”, bensì una dieta da fame. E come fecero già i nazisti che sperimentarono sui prigionieri, questi “ricercatori” alle dipendenze dell’industria della carne non nutrono gli affamati, non danno loro cibo a sufficienza, fanno degli assurdi esperimenti in favore dei cibi animali tentando di tramutare la cosa in un fattore politico, ma col fine ultimo di dare appoggio alle fondamenta dell’industria della carne. Perché questa industria fa esperimenti sui bambini affamati dell’Africa? Se Lindsay Allen, figura di spicco dell’industria della carne, avesse tentato di realizzare un simile esperimento negli Stati Uniti, sarebbe probabilmente stata processata e condannata per crimini contro l’umanità. Questi ricercatori sono veramente malati ed eticamente compromessi”; tratto da “National Cattlemen Association Pays for Sadistic Anti-Vegan Study”, 22/02/2005, in http://www.vegsource.com/articles2/ncbs_vegan_study.htm . 143 di riscontro scientifico422, ed infine dileggiando l’interlocutore senza ritegno423. Quando, quotidianamente, compaiono in televisione i sostenitori del mangiare carne, non è quasi mai presente un sostenitore del veg*ismo; quando gli scienziati di turno esultano per esperimenti dai risultati poco significativi condotti su animali torturati, nessun sostenitore della scienza cruelty-free è presente. La pubblicità per le aziende che incassano lauti profitti dallo sfruttamento degli animali non è costituita solo dagli spot, ma da tutto un approccio al consumo imperante su reti pubbliche e private424. In queste condizioni, un’azione di controinformazione è urgente e necessaria. Il problema è dato dal fatto che, purtroppo, le associazioni animaliste non hanno le risorse finanziarie necessarie a organizzare una massiccia campagna sui media più importanti. Questa situazione è grave, in quanto evidenzia un problema di libertà di informazione, di accesso ai media, che non può essere risolto facilmente. Pertanto, nell’attesa di provvedimenti che rendano possibile una presenza costante sui mezzi di informazione –strategia su cui molte associazioni stanno concentrandosi, con sforzi encomiabili425-, individui ed aziende sostenitrici del cruelty-free devono cercare di diffondere quanto più è possibile il loro messaggio di verità, soprattutto utilizzando Internet. La sensibilizzazione, la diffusione di immagini capaci di restare nella mente delle persone resta l’arma più importante, ancorché poco affilata rispetto alla pubblicità onnipresente e permanente degli avversari. In particolare, i bambini devono essere messi di fronte alla verità: è inammissibile che siano il bersaglio di campagne ingannevoli e nocive, sia perché subiscono una violenza, sia perché da grandi considereranno verosimilmente gli animali come “pietanze ambulanti”. Pertanto, questa prima parte dell’approccio “pubblicitario” è tutta da sviluppare; in particolar modo, la crescita delle disponibilità finanziarie e la presenza di spazi per l’informazione più ampi potranno fare un’enorme differenza. 422 Agire Ora, “Il ridicolo servizio del Tg1”, 26/05/2007; Comunicato stampa di SSNV., “Accuse infamanti e scientificamente infondate sullo svezzamento vegan”, 26/05/2007; entrambi su http://www.promiseland.it/view.php?id=2063 . 423 Marina Berati, “Veganismo in televisione: ombre e luci”, 4/03/2007, in http://www.consapevolmente.org/site/modules/news/article.php?storyid=61 . 424 Basti pensare alla trasmissione La prova del cuoco, in onda ogni giorno su Rai Uno. Un commento ad una puntata particolarmente offensiva è disponibile su “Pollo alla cacciatora: cronaca di una televisione insensibile”, 17/01/2008, postato in http://www.veganblog.it/2008/01/17/pollo-alla-cacciatora-cronaca-diuna-televisione-insensibile ; in particolare il primo commento al post sottolinea: “Durante la trasmissione fanno spesso partire delle sigle con protagonisti degli animali (giraffa, asino, orso, ecc) con delle brevi animazioni in sovrimpressione, per la felicità dei bambini. Tra queste sigle ce n’è anche una del coniglietto Tippi. Quando capita che durante la trasmissione i cuochi debbano cucinare il cadavere di un coniglio, la Clerici guarda in telecamera ed esclama: “State tranquilli bambini, questo non è Tippi! È un altro coniglio, più brutto e antipatico!”. 425 L’iniziativa più importante a questo proposito è costituita da “Campagne per gli animali”, una raccolta fondi permanente per acquistare spazi pubblicitari su giornali, programmi televisivi e radiofonici organizzata dall’Associazione Vivere Vegan di Firenze. Molte iniziative si stanno realizzando grazie a contributi liberi provenienti da tutta Italia. Altre informazioni sono disponibili su http://www.campagneperglianimali.org . 144 b) Marketing “propositivo”: le imprese cruelty-free Pubblicizzare i prodotti che consentono di alimentarsi, vestirsi, lavarsi, curarsi senza sfruttare ed uccidere animali è nell’interesse dei veg*ani e, in particolare, delle aziende rivolte a questo mercato. Dato che, all’interno di questo settore, gli operatori si distinguono sulla base di moltissimi aspetti (dimensioni, mercati raggiunti, produzione esclusivamente cruelty-free o meno, qualità intrinseca dei prodotti –provenienza biologica, presenza di sostanze chimiche non salubri-, canali di vendita, diffusione capillare o meno), le strategie attuate sono molto diverse. Presenza nella Grande Distribuzione Organizzata: Valsoia Valsoia è l’azienda leader in Italia nella produzione di alimenti sostitutivi a base di soia426. L’impresa bolognese è presente sul mercato fin dal 1990 ed è stata la prima a proporre al grande pubblico gelati vegetali ed altri alimenti alternativi a latticini e carne427. La motivazione principale di Valsoia è stata la volontà di approfittare della crescente tendenza alla cura della propria alimentazione, in particolare a scopo preventivo ma anche curativo, nel caso di patologie legate all’alimentazione. Il mercato salutistico, alla luce delle crescenti critiche rivolte all’alimentazione italiana, troppo ricca di grassi animali, sembra sempre più ampio e appetibile al management di Valsoia. In particolare, il target di riferimento è costituito da consumatori “evoluti”, residenti nelle aree urbane, disponibili alle innovazioni nelle abitudini alimentari, attenti alla salute e al benessere428. L’azienda è la protagonista dell’alimentazione naturale all’interno della GDO, principale catena distributiva dei prodotti, ed è presente in altri 1000 punti vendita (tra negozi di alimentazione naturale, negozi biologici e piccoli punti vendita tradizionali), ma sembra che questo secondo canale vada perdendo importanza, a giudicare dall’andamento delle percentuali di fatturato provenienti da ogni canale (cresce la percentuale attribuibile ai supermercati)429. Il management di Valsoia ritiene che le regioni del successo siano da attribuire a: • La particolare attenzione alle attività di ricerca e sviluppo • La commercializzazione di prodotti che offrono contenuti nutrizionali elevati a fronte di ottime proprietà organolettiche 426 Elaborazione della Società su dati ACNielsen 2005, in Prospetto Informativo Valsoia S.p.a., p. 57, in www.valsoia.it/includes/php/scaricaFile.php?filemanager_id=170 . 427 Valsoia S.p.a., Primo Semestre 2007, p. 2 , in http://www.valsoia.it/moduli/filemanager/file/415.pdf . 428 Prospetto Informativo Valsoia S.p.a., cit., p. 66. 429 Ibidem, p. 66-67. 145 • Il posizionamento capillare nel territorio italiano, attraverso la GDO • Le attività promozionali (spot televisivi, promozioni, assaggi) grazie alle quali il marchio è riuscito a conquistare un’elevata credibilità, riconoscibilità e notorietà presso il pubblico430. Valsoia ha rilevato dei tassi di crescita dei fatturati molto elevati rispetto alla situazione generale nella grande distribuzione; infatti, se nel primo semestre 2007 il mercato alimentare nella GDO è cresciuto, in fatturato, dell’1,5%, il fatturato di Valsoia riferito allo stesso periodo è cresciuto del 12,4% (in particolare, l’aumento maggiore è stato rilevato per i latti vegetali e gli yogurt di soia)431. Questi tassi di crescita molto elevati rispetto all’andamento del mercato alimentare in generale sono attribuiti a: • Aumento delle intolleranze alimentari (in particolare, al lattosio) • Maggiore attenzione al monitoraggio del colesterolo e, parallelamente, agli alimenti salutistici • Aumento del numero dei veg*ani432. Valsoia appare, pertanto, come un importantissimo soggetto all’interno delle aziende rivolte (anche) ai veg*ani. Il fatto che sia una delle poche imprese i cui prodotti sono presenti all’interno dei supermercati e che effettua pubblicità sui mass media fa sì che molti consumatori attenti all’alimentazione –ma non tanto benestanti né dotati del tempo libero necessario per rivolgersi ai negozi specializzati- si rivolgano ad essa. A differenza di tutte le altre aziende, assenti sui banchi dei grandi supermercati, Valsoia può utilizzare, oltre allo strumento delle offerte promozionali, anche la leva “assaggio”: visto che è possibile reperirne i prodotti nei negozi “normali”, molte persone acquistano per provare un’alternativa più salutare ai piatti tradizionali e, almeno per determinati prodotti (creme spalmabili, snack, biscotti) possono decidere di abbandonare il prodotto tradizionale con ingredienti animali, data l’elevata somiglianza organolettica. Nonostante la recente acquisizione di una società presente nel mercato dei gelati allo yogurt da agricoltura biologica, Valsoia intende sviluppare ulteriormente l’ambito dei prodotti totalmente vegetali a base di soia433, confermando il mercato dei veg*ani come uno dei target di riferimento, anche se non quello esclusivo (il volersi fare strada anche nel settore degli yogurt appare significativo in tal senso). 430 Prospetto Informativo Valsoia S.p.a., cit., p. 61. Valsoia S.p.a., cit, pp. 8-13. 432 Prospetto Informativo Valsoia S.p.a., cit., p. 68. 433 Ibidem, p. 63. 431 146 Botteghe di alimentazione e cosmetica naturale (San.Eco.Vit, Muscolo di grano) La maggior parte delle imprese rivolte ad un pubblico veg*ano distribuisce i propri prodotti attraverso i piccoli negozi di alimentazione naturale, in cui è possibile trovare anche cosmetici, alimenti per animali, detersivi. L’approccio verso i consumatori è, in questo caso, molto differente: è raro che vi siano delle promozioni, dati i piccoli volumi di vendita, mentre si crea un rapporto più personale con il personale del punto vendita, come accadeva in passato prima dell’avvento dei supermercati. Ambienti di questo tipo sono raggiunti da un pubblico molto informato, disposto a spendere somme più elevate e a provare nuovi prodotti. Data la dimensione spesso artigianale, le aziende presenti in questo canale non fanno generalmente della pubblicità. tranne che sulle riviste dedicate al benessere, al commercio equo e solidale, all’alimentazione naturale, come Aam Terranuova, spesso distribuite proprio negli stessi punti vendita. Del resto, applicare l’approccio tradizionale non sarebbe neanche una strategia vincente, in quanto da una parte i consumatori interessati a prodotti di questo tipo sono meno sensibili alla pubblicità, dall’altra tutti gli altri consumatori non vengono sensibilizzati all’acquisto “equo” attraverso i soli volantini. Fiere del naturale (Muscolo di grano, Rist-Ohsawa, San.Eco.Vit.) E’ molto frequente che le aziende rivolte ad un pubblico veg*ano siano presenti nelle fiere di alimentazione biologica, del benessere, degli stili di vita naturali. E’ il caso di due importanti appuntamenti di importanza europea come il SANA di Bologna434 e il Biofach di Norimberga435, oltre a manifestazioni più ristrette come Ecofutura a Milano436, Ti.Sana a Lugano437, ecc. Si tratta di fondamentali occasioni di incontro con altre società (per creare eventualmente degli accordi per la distribuzione) ma anche con i consumatori più attenti, nonché un’esclusiva vetrina di rilievo internazionale, utile per elaborare eventuali strategie di penetrazione in mercati esteri (elemento molto frequente per le aziende italiane rivolte ad un pubblico veg*ano, che riescono a raggiungere in tal modo mercati molto promettenti come quello tedesco, britannico, ecc.). L’esperienza di Muscolo di Grano, a questo proposito, è stata significativa: proprio la partecipazione ad eventi di questo tipo ha 434 http://www.sana.it . http://www.biofach.de . 436 http://www.expo-ecofutura.it/ITmangiare.htm . 437 http://www.tisana.com/alimentazione.asp . 435 147 consentito all’invenzione di Enzo Marascio di essere conosciuta in tutto il mondo; in particolare, ha reso possibile l’avvio di trattative con importanti aziende alimentari estere finalizzate ad accordi per la produzione e la commercializzazione all’estero. Buona parte delle aziende interpellate ai fini dello svolgimento di questo lavoro ha partecipato all’edizione 2008 del Biofach di Norimberga, tenutosi proprio tra il 21 e il 24 febbraio; ciascuna di esse ha manifestato l’importanza cruciale dell’evento per la promozione dei propri prodotti438. Eventi organizzati per diffondere il veganismo (E-Blood, Muscolo di grano, RistOhSawa) Negli ultimi anni, complice una moltiplicazione del numero dei veg*ani e soprattutto dei vegani, sono aumentati gli eventi organizzati da associazioni locali. La manifestazione più importante è il VegFestival439, che si tiene a Torino dal 2003, organizzato da volontari locali e di tutta Italia. Nelle tre giornate in cui è articolato questo ricco happening di vegetariani, vegani e “turisti” è possibile, tra l’altro, incontrare molte aziende del panorama cruelty-free (tra cui un numero rilevante di piccole imprese locali), talvolta presenti per raccontare la storia di un successo: è accaduto per Rist-Ohsawa e Muscolo di grano, presenti nell’edizione 2007440. Il VegFestival si conferma, negli anni, un’importante occasione per le aziende: se la prima edizione ha registrato circa 7.000 presenze, questo numero è progressivamente aumentato fino a raggiungere i circa 20.000 visitatori del 2006. Sebbene la gran parte dei partecipanti possa essere sicuramente spinta dall’adesione alla scelta vegana o vegetariana, sono stati molti anche i curiosi, perciò le imprese presenti con i loro stand hanno potuto presentare i loro prodotti anche ad un pubblico nuovo441. Un altro appuntamento per i veg*ani italiani è la Sagra del Seitan442, giunta alla sua seconda edizione, organizzata dall’associazione Vivere Vegan nei dintorni di Firenze. Come il VegFestival, è un’importante vetrina per lo stile di vita vegan e consente alle aziende partecipanti, sempre numerose, di proporre i propri prodotti attraverso l’acquisto e, per i prodotti alimentari, la degustazione. 438 E’ accaduto per Sun Soy Food, Taifun (entrambe produttrici di prodotti a base di soia), Muscolo di Grano. Informazioni tratte da interviste e scambi di e-mail con le imprese suddette. 439 http://www.vegfestival.org . 440 Informazioni tratte da interviste ai titolari delle aziende considerate. 441 Informazioni tratte da http://www.vegfestival.org/2007/web/edizioni.html . 442 http://www.sagradelseitan.it . 148 Web (Muscolo di grano, E-Blood) Molte imprese cruelty-free gestiscono una parte importante delle vendite attraverso Internet; si tratta di un fenomeno in crescita443 che si può spiegare sopratutto con due motivi: • La bassa età media dei consumatori veg*ani (specialmente vegani) • La difficoltà di trovare prodotti per vegani in molte zone d’Italia. Molte aziende vendono direttamente on line: è il caso di Muscolo di Grano e E-Blood. Esistono dei siti Internet dedicati alla vendita on-line di una vasta gamma di prodotti cruelty-free: i più importanti sono La Bottega Vegana444, Progetto Gaia445, Sai Cosa Ti Spalmi446, Il Tofu447. La diffusione ancora scarsa di punti vendita in determinate zone del territorio italiano fa sì che, almeno nel breve periodo, per il business del commercio on line non si intraveda una crisi. Sponsorizzazione di eventi (E-Blood) La E-Blood, complice il suo essere particolarmente vicina all’universo hard-core, sponsorizza fin dalla sua nascita alcune band, eventi musicali e sportivi448. Oltre ad un mero obiettivo pubblicitario, E-Blood cerca di sensibilizzare l’ambiente alle tematiche dello sfruttamento degli animali e del veganismo. Non risultano che altre aziende mettano a punto sponsorizzazioni di questo tipo, dato che spesso si tratta di piccole aziende, non tanto vicine ad una determinato ambiente socio-culturale (cioè un importante mercato potenziale) da investirvi tante risorse. Riviste Non sono molte le riviste italiane rivolte sopratutto ad un pubblico veg*ano e animalista. AAM Terra Nuova449 è un esempio molto conosciuto e diffuso tra i consumatori interessati 443 Francesca Tarissi, “Prodotti bio, cresce la vendita on line. Successo che dura da anni”, La Repubblica, 20/03/2006, citato in http://www.vegetariani.it/vegetariani/articles/1096.html . 444 http://www.bottegavegana.it . 445 http://www.progettogaia.it . 446 http://www.saicosatispalmi.com/catalog/index.php . 447 http://www.iltofu.it . 448 Alcuni eventi sponsorizzati dal marchio torinese: E-Blood Clothing Party, 31/07/2004 (https://www.skateboard.it/canali/shownews.php?id_news=272 ), Useless-Eblood-Strange Skate Contest, 22/06/2004 (http://www.snowpark.it/modules.php?name=News&file=article&sid=717 ), inaugurazione del locale The Frog, 18/09/2003 (http://www.comune.torino.it/infogio/ric/2003/pub1857.htm ); band sponsorizzate: Earth Crisis, Walls of Jericho, Most Precious Blood, ecc. (http://www.myspaceprofiles.org/profiles/26828540.html ). 449 http://www.aamterranuova.it . 149 agli stili di vita naturali ed ecocompatibili, che spesso dedica articoli alla scelta vegetariana e vegana, alle difficoltà di trovare prodotti adeguati, alle questioni sanitarie e ai problemi sociali. Una buona parte degli spazi pubblicitari della rivista è dedicata ad aziende compatibili con la scelta del cruelty-free, mentre una vasta sezione di annunci aziendali e personali dà spazi a piccole realtà in crescita come agriturismi per veg*ani, nuove aziende di cosmetica etica, siti internet su cui acquistare prodotti altrimenti introvabili. Un punto di forza di AAM Terra Nuova è costituito dalla distribuzione anche attraverso molti negozi naturali, elemento che consente di creare un forte legame tra pubblicità, suggerimenti contenuti negli articoli ed acquisti. 150 Parte 3. Prospettive Piccolo è sempre bello? La Grande distribuzione Organizzata (GDO) I vegetariani, e ancor più i vegani, costituiscono un’esigua minoranza dei consumatori al punto che, come si è osservato, fino a pochi anni fa il mondo del commercio ha ritenuto di poter ignorare le loro necessità di consumo. Pertanto, veg*ani e GDO sono rimasti lontani a lungo, in quanto solo i piccoli negozi hanno fatto attenzione anche a questa categoria di persone, mentre solo una parte estremamente minoritaria di essi ha pensato di rivolgersi esclusivamente ad un pubblico di questo tipo450. Oggi, i vegani possono fare acquisti in una buona parte dei supermercati tradizionali, data la crescente diffusione dei prodotti sostitutivi di carni e derivati animali, ma le botteghe restano un canale distributivo fondamentale per le imprese, spesso a loro volta di piccole dimensioni, rivolte ad un pubblico veg*ano451. La situazione attuale presenta aspetti positivi e negativi che possono essere considerati non solo in base alla funzionalità distributiva delle grandi catene, ma anche ad una considerazione etica dei rapporti tra “consumatori” e commercio. La Grande Distribuzione Organizzata è divenuta, negli ultimi anni, sempre più protagonista nel settore del commercio al dettaglio452. L’inarrestabile tendenza alla 450 La maggior parte dei negozi recensiti sul sito http://www.veganhome.it/acquisti è consigliata in quanto propone anche prodotti per vegani. 451 La maggior parte dei negozi recensiti sul sito http://www.veganhome.it/acquisti è costituita da botteghe di piccole dimensioni. 452 “In Italia, la quota di mercato della grande distribuzione organizzata (GDO) è passata, in dieci anni, dal 36 al 52%, mentre quella dei negozi tradizionali è scesa dal 53 al 35,6% (…)Questo ribaltamento è ancora più evidente per quanto riguarda i generi alimentari: la quota di mercato della GDO è passata dal 50% al 69%, mentre quella dei negozi tradizionali è scesa dal 41% al 21%. Stessa tendenza, si è registrata per i beni non alimentari: la quota di mercato della GDO è infatti passata dal 20 al 35%, mentre quella dei negozi tradizionali è scesa dal 67 al 50%”. AA.VV., “Grande Distribuzione: norme UE contro gli abusi causati dalle concentrazioni”, 18/02/2008, http://www.europarl.europa.eu/news/expert/infopress_page/049-21475-049-0208-909-20080215IPR21454-18-02-2008-2008-false/default_it.htm . 151 concentrazione453 di diversi punti vendita all’interno di un solo centro commerciale ha indubbiamente costituito un vantaggio per le persone con poco tempo da dedicare agli acquisti. Tra i vari fenomeni indotti da questa progressiva penetrazione nel tessuto commerciale di enormi società, in buona parte straniere454, è da considerare la possibilità, da parte di persone residenti al di fuori delle aree cittadine, di accedere a prodotti particolari altrimenti non presenti nei negozi tradizionali. E’ anche il caso dei prodotti per vegani: specie nelle aree del Sud Italia, in cui non c’è un gran numero di botteghe di alimentazione biologica/alternativa455, i cibi sostitutivi sono stati inizialmente introdotti per lo più negli ipermercati. Pertanto, è da attribuire a questi punti vendita un importante ruolo nell’ampliamento delle scelte alimentari dei consumatori. A questo proposito, un contributo importante è stato fornito dal fatto che, nella maggior parte dei casi, si tratta di catene straniere (francesi, come Carrefour o Auchan, o tedesche, come Metro), molto più abituate a considerare i gusti dei “consumatori di minoranza” come veg*ani, celiaci, intolleranti al lattosio, kosher456. Soprattutto, la GDO è caratterizzata principalmente da una potenzialità distributiva enorme: è questo l’aspetto più importante ai fini della diffusione di un nuovo prodotto, spesso “spinta” attraverso imponenti campagne promozionali, assaggi, pubblicità. Nel momento in cui queste iniziative riguardano i prodotti sostitutivi, ritengo che la scelta veg*ana benefici di una pubblicità molto importante e, soprattutto, difficile da realizzare con altri metodi. Non posso che ritenere positivo, pertanto, il casuale supporto della GDO alla diffusione del veg*ismo: se sul banco del supermercato è possibile, ad esempio, trovare un prodotto differente dalla bistecca da utilizzare per la cena, probabilmente verranno acquistate meno bistecche; anche se molti consumatori acquistano i prodotti sostitutivi per motivi del tutto estranei all’etica animalista –per lo più per questioni legate alla salute- il loro comportamento aiuta a fare la differenza nelle vendite. Un altro apporto 453 “Tra il 1971 e il 2001 i negozi alimentari si sono ridotti del 54% (- 204.000). Nello stesso periodo il numero di esercizi despecializzati (tra i quali super e iper mercati) è cresciuto di quattordici volte (da circa 600 a oltre 8000). Confesercenti, “Come sono mutati i consumi e le abitudini alimentari dagli anni 70 ad oggi. Alcuni scenari per il futuro”, 2001, disponibile su http://www.confesercenti.it/documenti/doc_uffici/fiesa_trentennale.pdf . 454 “La quota di mercato delle catene straniere in Italia è passata dal 2,7% del 1992 al 32,1% del 2001. Ibidem. Accanto ai leader di mercato Coop e Conad, percentuali rilevanti del mercato sono detenute da Carrefour (FR), Auchan (FR), Metro (DE), Rewe (DE). Federdistribuzione, Mappa del sistema distributivo italiano, in http://www.federdistribuzione.it/studi_ricerche/files/Mappa_Distributiva.pdf . 455 “Per quanto riguarda la loro distribuzione territoriale, è il nord a fare la parte del leone con il 66% dei punti vendita, seguito dal centro con il 20%, mentre sud e isole hanno solo il 14%”. Rosa Maria Bertino, “Consumi in ripresa nella GDO, crescita a due cifre per Ecor e Natura Sì”, 7-13 /09/2007, http://www.biobank.it/IT/BIO-articoli.asp?id=167 . 456 “Con il controllo straniero della distribuzione si apre un canale alle merci prodotte all’estero. La penetrazione non riguarderà tanto l’alimentare fresco quanto piuttosto il food a lunga conservazione.” Confesercenti, cit. 152 positivo alla diffusione di questi alimenti è dato dal fatto che, sotto la pressione delle grandi catene di distribuzione, anche i supermercati di dimensioni inferiori si sono dotati dei prodotti per veg*ani, almeno di quelli più conosciuti come il latte e i dessert vegetali, rendendo possibile la loro penetrazione anche all’interno dei centri urbani più piccoli. Sottolineare questi importanti meriti della GDO non basta, tuttavia, ad esimerla da critiche. La diffusione degli ipermercati ha prodotto ovunque un drastico calo delle vendite dei negozi di piccole dimensioni, delle botteghe artigianali, dei mercatini457. Questo problema si riverbera direttamente sulla veg-economy in quanto la maggior parte delle aziende interessate, proprio perché di piccole dimensioni, non riforniscono le grandi catene di distribuzione, al cui interno sono disponibili infatti solo i grandi marchi come Valsoia, Céréal, Alpro, capaci di fornire quantità molto ingenti di prodotti a scadenze precise. Un’altra conseguenza della diffusione degli ipermercati è il consolidamento di nuove abitudini di consumo, estranee all’idea di rifornirsi da negozi diversi, gestiti da personale di fiducia, che si rivolgono a fornitori locali o comunque conosciuti. Sta progressivamente venendo meno quel rapporto diretto tra acquirente e produttore che, fino a qualche decennio fa, costituiva il principale motore degli acquisti e soprattutto creava un importante legame tra la persona e il suo cibo –discorso che vale anche per l’abbigliamento-, e quindi contribuiva a tenere insieme la comunità. Nell’ambito della vegeconomy questi effetti deleteri sono risultati meno evidenti rispetto ai negozi tradizionali, in quanto l’utenza delle botteghe naturali è differente rispetto a questi ultimi ed è stata meno influenzata dalla diffusione della GDO. Tuttavia, i problemi posti da questo fenomeno hanno una rilevanza etica che non può sfuggire a chi modella i propri consumi su considerazioni di natura morale. In primo luogo, la costruzione di grandi centri commerciali, simbolo per eccellenza del non–luogo458, ha sottratto alle città e ai piccoli centri importanti aree periferiche che avrebbero potuto ospitare giardini, attività culturali, o semplicemente avrebbero potuto restare allo stato naturale. Nei dintorni di ogni ipermercato è risultato “necessario” costruire dei mega-parcheggi e degli svincoli stradali: le aree interessate hanno assunto un’atmosfera lunare, le periferie che le ospitano appaiono identiche in tutte le parti del 457 “Le piccole aziende, i fornitori e le imprese agricole sono minacciati dalla concentrazione dei supermercati che, sempre di più, impongono prezzi insostenibilmente bassi ai loro fornitori. I consumatori, inoltre, rischiano una perdita di diversità dei prodotti, del patrimonio culturale e dei punti vendita al dettaglio.” AA. VV., “Grande Distribuzione…” , cit. 458 Marc Augé, Non-luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleutera Editrice, Milano, 1993; recensione di Luigi Prestinenza Puglisi, in http://www.prestinenza.it/articolo.aspx?id=90 . 153 mondo459. Un approccio etico al consumo non può ignorare queste gravi conseguenza sviluppate dalla diffusione del fenomeno. In secondo luogo, i posti di lavoro offerti dalle grandi catene sono spesso precari e insoddisfacenti sotto il profilo della sicurezza: lo sfruttamento intensivo della forza lavoro è una realtà comune contro cui si sono scagliate associazioni sindacali e di “consumo consapevole”460. Di fronte alla millantata creazione di nuovi posti di lavoro, si è dimenticato spesso come la nascita dell’ennesimo ipermercato costituisca un grosso problema per gli impiegati dei negozi cittadini; ciononostante, le grandi catene utilizzano spesso l’arma del ricatto sui posti di lavoro per ottenere in fretta le licenze da amministrazioni comunali ignare dell’impatto accessorio sull’occupazione461. Da un altro punto di vista, i punti vendita della GDO trasmettono un’idea di consumo come elemento essenziale del tempo libero, corollario dell’armonia familiare, surrogato dei rapporti umani: il fatto che molti anziani si rifugino nei supermercati, d’estate, per sfuggire al caldo e alla solitudine, la presenza di moltissimi ragazzi e famiglie che passano il sabato e la domenica all’interno di tali strutture è significativo di quanto valore il centro commerciale stia acquisendo nell’immaginario collettivo contemporaneo, a scapito di attività apparentemente meno gratificanti ma che, al contrario, sono reali. La GDO vende illusioni di abbondanza e felicità a individui il cui status di “consumatore” riassume, ormai completamente, l’essenza dell’esistenza462. Inoltre, le necessità commerciali e distributive della GDO impongono il consumo di ingenti quantità di energia: le centrali di distribuzione sono poche e riforniscono i punti vendita attraverso il trasporto su gomma, l’ampia gamma dei prodotti presenti nei punti vendita alimenta il commercio di prodotti non locali, dalla pesante impronta ecologica; il riscaldamento/raffreddamento e l’illuminazione –spesso perenne- degli ambienti implicano l’utilizzo di quantità importanti di energia; sono inoltre da considerare i consumi di 459 Fabrizio Bottini, “La fabbrica dello sprawl. Una lettura virtuale dell’autostrada Broni-Mortara”, http://www.eddyburg.it/filemanager/download/974/Broni_Mortara_Mall.pdf ; Nello Condorelli, “Che fine hanno fatto i centri storici?”, 18/06/2005, http://www.articolo21.info/notizia.php?id=2147 ; 460 Collettivo Chainworkers, “In Francia è stop delle cassiere: sciopero nazionale colpisce la grande distribuzione”, 7/02/2008, http://www.chainworkers.org/node/501 ; Antonio Sciotto, “Lidl: il low cost pagato dal lavoro”, Il Manifesto, 19/09/2006, http://www.peacelink.it/consumo/a/18676.html . 461 “Il PdCI sulle assunzioni Carrefour”, 4/06/2007, http://www.tuttapuglia.com/visualizzanews.php?cod=5228 ; Michele Ruffi, “Grande distribuzione. Quanti sono, che cosa fanno e quanto guadagnano i dipendenti degli ipermercati”, L’Unione Sarda, 26/08/2007, http://sardegna.rdbcub.it/index.php?id=85&tx_ttnews%5Btt_news%5D=6054&cHash=7c3543f71b&MP=73 -244 . 462 Collettivo Csa Godzilla (Livorno), “La nostra vita dentro a un centro commerciale”, 5/12/2006, http://isole.ecn.org/godzilla/documenti_pdf/riassetto_della_citta/La_nostra_vita_dentro_un_centro_commerci ale.pdf . 154 carburante degli automobilisti che si recano nei centri commerciali della periferia, talvolta in seguito a ingorghi. Chi ha effettuato una scelta come quella veg*ana per motivi etici non può non tenere conto di questi effetti collaterali del modello GDO: il rispetto e la non violenza, difatti, non possono non essere diretti anche verso gli altri esseri viventi e l’ambiente. Non è un caso che molti attivisti vegan/animalisti si riconoscano in pieno nelle istanze portate avanti dalle associazioni per la decrescita, il consumo critico, la tutela dei diritti del lavoro e dell’ecosistema. Di fronte a scempi di tale portata, il fatto che proprio i centri commerciali diano la possibilità a persone estranee al veg*ismo di venire a conoscenza dell’esistenza di un’alternativa alimentare assume un’importanza relativa. E’ per questo motivo che la vegeconomy gira attorno principalmente alle piccole realtà commerciali e produttive, in quanto queste consentono di prestare attenzione anche a questioni etiche come il lavoro, l’ambiente, la lotta al consumismo. I negozi naturali Come è facile osservare empiricamente, la maggior parte dei prodotti per vegani viene attualmente venduta nei piccoli negozi naturali di quartiere, sempre più diffusi anche nel Sud Italia, che si occupano generalmente di alimentazione, cosmetica, igiene personale. E’ inoltre possibile trovare in queste botteghe molti prodotti non riconducibili a queste categorie che sono però utilizzati frequentemente dai “consumatori etici”: depuratori per acqua di rubinetto, riviste di ecologia, tutela dei consumatori e salute naturale, stoviglie monouso biodegradabili – tutti prodotti rientranti in una visione del consumo in cui la salvaguardia della salute e dell’ambiente prevalgono grandemente sulle abitudini più diffuse. Per lo più, questi punti vendita offrono prodotti biologici, provenienti da aziende italiane ed estere (in buona parte europee) mentre, in alcuni casi, è possibile trovare al loro interno anche dei prodotti provenienti dal commercio equo e solidale. A parte rare eccezioni463, le imprese che distribuiscono i propri prodotti attraverso questo canale sono di piccole dimensioni e, per questo motivo, non potrebbero rifornire le grandi catene di ipermercati, le quali impongono scadenze stringenti e quantitativi ingenti di merce. 463 E’ il caso del marchio Naturattiva, con cui Valsoia distribuisce una nuova linea di gelati allo yogurt biologico, nonché di talune imprese francesi e tedesche. 155 I negozi naturali possono essere considerati gli eredi del “negozio sotto casa”, fino a qualche anno fa il principale interlocutore di gran parte degli acquisti delle famiglie, caratterizzato da: • Vasto assortimento di prodotti in una piccola estensione • Rapporto di familiarità tra clienti e titolare • Rapporto di familiarità tra titolare e altri eventuali impiegati • Clientela non numerosa ma stabile • Flessibilità delle transazioni I negozi naturali sono una realtà sempre più diffusa nel tessuto urbano italiano: secondo TuttoBio 2008, l’annuario del biologico, le botteghe sono cresciute del 9% in tre anni, passando da 1014 nel 2005 a 1106 nel 2007; la maggiore presenza, in base al rapporto tra numero di negozi e abitanti, si riscontra nelle province di Bolzano e Aosta ( sette punti vendita ogni 100.000 abitanti)464, evidentemente influenzate dalla vicinanza della Svizzera, dell’Austria e della Germania, aree in cui il negozio naturale è molto più diffuso. Le persone che frequentano le botteghe naturali sono generalmente benestanti, detengono un titolo di studio di alto livello, hanno molto tempo libero e prestano molta attenzione alla composizione dei loro acquisti, sono aperte alle novità, non sono attirate principalmente dalle promozioni465. Molti veg*ani sono assidui frequentatori dei punti vendita biologici, non solo perché trovano più facilmente gli alimenti sostitutivi, i cosmetici e di detersivi non testati su animali ma anche perché, acquistando più frequentemente degli alimenti a base di soia, preferiscono non rischiare di venire a contatto con quella transgenica, assolutamente vietata nell’agricoltura biologica (mentre i prodotti convenzionali, spesso del tutto privi di indicazioni in proposito, sono più a rischio di contaminazione). La maggiore facilità nel reperire prodotti per vegani in tali punti vendita ha sicuramente ristretto l’orizzonte dei potenziali consumatori: i prezzi più elevati rispetto al supermercato tradizionale, una minore presenza sul territorio, pubblicità inesistenti fanno sì che la maggior parte dei clienti di questi negozi vi si rechi appositamente, mentre è più raro capitarvi per caso. Gioca a sfavore anche il fattore fretta: dato che si tratta di negozi specializzati in determinate categorie di articoli, è necessario investire più tempo per recarsi in numerosi esercizi, e ciò risulta complicato a molte persone. 464 TuttoBio 2008, Edizioni Agaf, Forlì, 2008, tratto da http://www.greenplanet.net/content/view/20561/26 . Tiziana De Magistris, Le determinanti del comportamento del consumatore: analisi teorica e verifica empirica per i prodotti biologici, Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, Istituto di studi economici, aprile 2004, http://economia.uniparthenope.it/ise/sito/WP/2_2004.pdf . 465 156 A fronte di questi fattori problematici –la limitatezza di questo canale distributivo non gioca a favore del successo della veg-economy-, il fatto che le botteghe del biologico si inseriscano perfettamente nel tessuto urbano e che consentano di perpetuare rapporti amichevoli tra acquirenti e venditori, oltre a consentire acquisti di qualità, è sicuramente un aspetto importante, nell’ottica del recupero di una dimensione più “a misura d’uomo” anche nel commercio. Altre modalità Le modalità di distribuzione dei prodotti per veg*ani qui considerate sono diametralmente opposte e presentano aspetti positivi e negativi. E’ possibile, tuttavia, identificare nel panorama attuale due tendenze che sembrano unire le caratteristiche dell’una e dell’altre, creando nuove realtà caratterizzate da un crescente interesse da parte dei consumatori. Natura Sì è la principale catena di supermercati naturali in Italia: nata nel 1992 con un primo punto vendita a Verona, conta oggi 56 negozi, con nuove aperture nel Centro-Sud Italia e in Spagna (4 punti vendita a Madrid)466. La formula di Natura Sì congiunge importanti aspetti positivi del modello “supermercato” come • Vasto assortimento di articoli, alimentari e non • Campagne pubblicitarie e promozioni (sconti, raccolte punti, ecc.) con altri fondamentali caratteristiche tipiche delle botteghe, come • Ubicazione all’interno dei centri abitati • Vendita di prodotti di alta qualità (biologici), generalmente presenti nei piccoli negozi • Dimensione non troppo ampia • Ampia scelta tra prodotti di marchio diverso, con possibilità di confronto dei prezzi. Natura Sì sembra un buon compromesso tra i due modelli precedentemente esposti e potrebbe costituire un importante strumento per far crescere il numero dei consumatori interessati. L’idea di costituire una catena di supermercati sul modello della GDO ma per fornire prodotti naturali e biologici non è nuova: l’esempio più famoso e importante, a livello internazionale, è costituito da Whole Foods Market, una sorta di “GDO del biologico” nata negli Stati Uniti nel 1980 e affacciatasi sul mercato europeo nel 2007, con 466 Informazioni tratte da http://www.naturasi.it/azienda.php e http://www.naturasi.it/punti-vendita.php . 157 dei primi punti vendita in Gran Bretagna467. Sembra, però, che l’introduzione di questa nuova modalità di distribuzione non abbia modificato la problematicità dell’aspetto “prezzo”: sia Whole Foods Market che, in Italia, Natura Sì propongono prezzi ancora troppo elevati, persino rispetto alle botteghe, e questo non permette una maggiore accettazione del veganismo, che continua pertanto ad essere considerato come un capriccio di gente ricca468. I Gruppi d’Acquisto Solidale (GAS) sono il canale di distribuzione più innovativo: nati negli anni 90 (il primo GAS nasce a Fidenza nel 1994, nel 1996 viene pubblicata la prima Guida al consumo critico, nel 1997 nasce la rete dei gruppi d’acquisto), mettono insieme un certo numero di famiglie consentendo acquisti in blocco a prezzi ribassati e, soprattutto, l’instaurazione di rapporti diretti con i produttori (spesso piccole o piccolissime aziende, per lo più locali). In particolare, i GAS si rivolgono ad aziende con un comportamento rispettoso dell’ambiente e dei lavoratori, secondo il principio di solidarietà (che infatti viene rivolto a tutti i membri della “filiera corta”). Per questo motivo, molti GAS fanno parte del circuito del commercio equo e solidale. Un importante segno della crescente attenzione anche istituzionale al mondo dell’economia solidale è l’emendamento approvato dalla Commissione Bilancio del Senato alla Legge finanziaria del 2007, riguardante gli aspetti fiscali delle attività dei GAS469. Le caratteristiche di queste associazioni si prestano molto ad essere utilizzate da parte dei consumatori veg*ani (in particolare la forte impronta etica delle loro attività). Tuttavia, nonostante inizino a diffondersi anche alcuni GAS di cibo specifico per vegani, si tratta di strategie ancora troppo poco diffuse che, se da una parte permettono di risparmiare, dall’altra necessitano di un folto gruppo di utenti veg*ani concentrati in una certa area geografica, elemento ancora inesistente in molte aree del paese. 467 http://www.wholefoodsmarket.com . Per Whole Foods, commenti dello stesso tipo –prezzi alti per acquirenti ricchi- sono presenti su http://www.urbanpath.com/london/organic/whole-foods-market.htm (Londra) , http://www.insiderpages.com/b/2019500805 (Glendale, California) , http://www.yelp.com/biz/whole-foodsmarket-washington-3 (Washington) , http://www.yummybaguette.com/read_comments.php?id=79&store=Whole+Foods+Market (Toronto). Per Natura Sì, le lamentele sui prezzi sono altrettanto diffuse: http://www.ciao.it/Naturasi__92593 , http://www.forumetici.it/viewtopic.php?t=5534&sid=14eaedd0780313957055f61b4abd8d92 , http://www.terziario.org/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=372 . 468 469 “I GAS nascono dal desiderio di costruire dal basso un'economia sana, in cui l'eticità valga più del profitto e la qualità sia più importante della quantità: una società in cui le persone possano ritrovare il tempo per incontrarsi ed instaurare con il prossimo rapporti più umani.” Informazioni tratte da http://www.retegas.org e http://www.economia-solidale.org . 158 Sulla base dell’attuale schema distributivo dei prodotti per veg*ani, non sembra possibile preferire un certo canale distributivo ad un altro. Se, da una parte, il comportamento della GDO provoca un lungo elenco di gravi problematiche, è anche vero che non è realistico pensare di diffondere il veg*ismo esclusivamente attraverso piccoli e costosi negozi. Nel momento in cui l’elemento necessario è quello di fornire a tutti i consumatori la possibilità di conoscere le alternative agli alimenti animali (lasciando alle strategie di comunicazione l’arduo compito di motivare le persone nell’adozione di questo stile di vita), gli elementi più problematici appaiono la distribuzione e il prezzo. La soluzione ideale sarebbe la creazione di contatti diretti tra le aziende biologiche e i piccoli supermercati470 del posto, formula del resto già adottata per i prodotti tipici: se è possibile trovarli solo in una certa area, e se provengono da piccole aziende, non si capisce perché lo stesso discorso non potrebbe essere fatto anche per i prodotti sostitutivi della carne e dei latticini. Per influire sul fattore prezzo, sarebbe utile la diffusione del modello dei GAS ma anche solo l’eliminazione degli intermediari tra azienda e punto vendita: trattasi di una politica che, ancora una volta, molti supermercati locali già mettono in atto nei confronti di altri prodotti. Ancora meglio, andrebbero facilitati i contatti diretti tra produttori e consumatori, attraverso il modello (pensato per i produttori ortofrutticoli) del “mercato dei produttori”, che va diffondendosi anche in Italia soprattutto allo scopo di abbattere il prezzo finale consentendo un’adeguata remunerazione ai produttori medesimi. 470 Si intende con tale termine gli esercizi non inseriti all’interno di una catena della GDO o comunque dotati di una rilevante autonomia nella scelta dei fornitori: difatti, la GDO preferisce non avere rapporti con piccole aziende, come è già stato evidenziato, in quanto impossibilitate a fornire enormi quantitativi di merce in tempi rigidamente prefissati a prezzi soggetti a variazioni rilevanti. 159 Dall’alternativa allo standard Le leggi del business impongono alle imprese di inseguire ogni tendenza del mercato, per non perdere potenziali consumatori, e a volte anche di anticiparle. Spesso, tali manovre non hanno nulla a che vedere con la reputazione che un’impresa ha costruito fino ad un certo momento: è il caso delle fusioni tra imprese di settori diversi. Questa banale realtà diventa estremamente problematica nel momento in cui i consumatori mettono in atto determinate scelte di acquisto per motivazioni etiche, mentre i guadagni da ciò derivanti vengono incassati da aziende del tutto estranee a tali approcci. E’ questo il problema fondamentale che si pone, tra l’altro, a proposito delle aziende produttrici dei prodotti per veg*ani: da qualche anno sono infatti nel mirino di grandi multinazionali che intendono penetrare con forza in un mercato estremamente promettente, dato l’aumento dei veg*ani in tutto il mondo. In questo modo, è evidente come si arrivi a snaturare il messaggio etico del consumo veg*ano: produrre cibo o cosmetici cruelty-free, lungi dal costituire una scelta etica, diviene l’ennesima modalità per aumentare il fatturato, visto che si arriva a grandi paradossi: aziende tradizionalmente zootecniche producono tofu, imprese casearie vendono latte di soia, corporation responsabili di torture e morti di innumerevoli animali si fregiano del marchio cruelty-free attraverso nuove acquisizioni. Anche lasciando da parte il discorso animalista, si tratta sempre di aziende che mettono in atto comportamenti del tutto al di là di ogni considerazione etica -riguardo al trattamento dei propri dipendenti, all’inquinamento provocato dai propri stabilimenti, alla distruzione di ingenti quantità di risorse naturali, alle operazioni finanziarie speculative -che vogliono però essere presenti in un mercato nato principalmente per questi motivi. Gli esempi sono tanti. Si è già parlato di L’Oréal, multinazionale della cosmetica che porta avanti una incredibile politica di difesa della vivisezione471, che ha recentemente acquistato The Body Shop, marchio nato con una forte impronta animalista, ormai fortemente compromessa472. 471 “L’industria cosmetica francese è una delle poche in Europa a disporre di un programma di test sugli animali e certe ditte, tra cui L’Oréal, iniettano milioni di euro nell’economia francese. Non è dunque sorprendente che il governo francese cerchi in tutti i modi di proteggere questo mercato tanto redditizio, poiché il fatturato della L’Oréal, in continua crescita da 20 anni, ha raggiunto i 14 miliardi di euro nel 2004”. “I test di prodotti cosmetici sugli animali saranno vietati nell’Unione Europea nel 2009”, giugno 2005, in http://www.lscv.ch/it/pages/cosmetici/situazione_attuale.html 472 Comunicato A.I.P. (Attacca l’industria della pelliccia) Napoli, “Cosa c’è di sbagliato nel Body Shop?”, 28/03/2006, in http://italy.indymedia.org/news/2006/03/1032282.php . 160 La famosa Kraft ha acquistato Boca Burgers, il maggior produttore di veggie burgers negli Usa. Kraft commercializza moltissimi prodotti contenenti latticini ed effettua vivisezione per testare gli effetti degli alimenti prodotti473. Soprattutto, Kraft è un marchio di proprietà di Philip Morris, una multinazionale responsabile di innumerevoli test su animali per sperimentare gli effetti del fumo di sigaretta474. Inoltre, nella maggior parte dei prodotti Kraft venduti negli Usa sono stati rilevati Ogm non testati che hanno provocato gravi problemi sanitari475. Premier Foods, la più grande impresa alimentare della Gran Bretagna (tra i cui prodotti sono presenti anche latticini e carni)476, ha acquistato Quorn, il maggior produttore di prodotti sostitutivi della carne in Gran Bretagna. Il medesimo comportamento di Kraft è stato adottato da compagnie del calibro di Kellogg477, General Mills, ConAgra, Heinz, Mars478, tutte produttrici di cibi animali e tutte lanciatesi in questo nuovo mercato attraverso l’acquisizione di piccole aziende produttrici di alimenti sostitutivi. Due importanti marche di prodotti a base di soia che si trovano nei supermercati italiani, Misura e Céréal, sono di proprietà di due tra le più grandi e boicottate multinazionali della chimica: rispettivamente, Monsanto479 e Novartis480, famose tra l’altro per il loro pressing 473 “La principale società alimentare del gruppo [Philip Morris], la Kraft Jacobs Suchard, effettua sperimentazione su animali (fonte: EC 60/99); per verificare la digeribilità di alcune sue qualità di caffè (fonte CSG 1997, p.49)”. Standard Internazionale “Non testato su animali”, 18/01/2008, su http://www.aidaea.org/forumbb/viewtopic.php?t=481 . 474 “Cosa sta dietro a ogni sigaretta”, Veganize, agosto 2003, Milano, citato in “Nicotina e sperimentazione animale”, 24/10/2005, in http://lists.peacelink.it/animali/2005/10/msg00279.html . 475 Kraft è una delle principali aziende sotto boicottaggio a causa dello stretto legame con l’industria della manipolazione genetica degli alimenti. Informazioni sulla campagna su http://krafty.org/why.html . 476 http://www.premierfoods.co.uk/about-us/our-company/our-company_home.cfm . 477 http://www2.kelloggs.com/Product/FoodCategory.aspx?id=vegetarian . 478 “Natural Products Buy-Out Watch”, Vegan Street Community Center, in http://www.veganstreet.com/community/buyoutwatch.html . 479 Nata nel 1901, è famosa sopratutto per il defoliante RoundUp, utilizzato massicciamente nelle campagne di tutto il mondo con gravissimi effetti sull’ambiente, ma anche per aver prodotto, assieme ad altre grosse imprese americane, il famigerato Agente Orange, spruzzato sul Vietnam durante la guerra dall’esercito statunitense, e per aver introdotto sul mercato i PCB (policlorobifenili) e il glifosato, agenti chimici estremamente stabili e tossici, oggi vietati ma ancora presenti nell’ecosistema. Inoltre, Monsanto risulta come uno dei clienti principali di Huntington Life Sciences, uno dei laboratori di vivisezione più grandi del mondo, oggetto di una ormai pluriennale campagna internazionale di contestazione, e produce il Posilac, ormone della crescita utilizzato in Nordamerica dagli allevatori di mucche da latte per accrescerne la “produttività”, a fronte di terribili sofferenze da parte degli animali e di gravi effetti collaterali nei consumatori. Monsanto & Co., Profilo aziendale e marchi, http://it.transnationale.org/aziende/monsanto.php ; Marie-Monique Robin, Le monde selon Monsanto, documentario diffuso il 11/03/2008 sul canale franco-tedesco ARTE, http://www.mediaterre.org/france/actu,20080306075619.html ; Jennifer Abbott, Mark Achbar, The Corporation, documentario con interviste di Naomi Klein, Jeremy Rifkin, Noam Chomsky (Michael Moore, 2003, Usa); informazioni sulla vivisezione su http://www.shac.net/HLS/clientsH_M.html e http://www.carnage.org.uk/execut2.html ; Michael Grunwald, “Monsanto hid decades of pollution”, The Washington Post, 1/01/2002, in http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-dyn?pagename=article&contentId=A466482001Dec31 ; Tom Fawtrop, “Vietnam’s war against Agent Orange”, 14/06/2004, http://news.bbc.co.uk/1/hi/health/3798581.stm ; Andre Leu,” Monsanto’s Toxic Herbicide Glyphosate: a 161 sulle autorità alimentari della comunità europea e degli Stati Uniti a favore dell’ingresso sul mercato delle sementi geneticamente modificate. Sempre in Italia, Ikea ha da poco stipulato un accordo con l’Associazione Vegetariana Italiana per la fornitura di pasti per vegetariani e per vegani all’interno dei self service nei suoi punti vendita italiani481. Che significato possono avere tali novità? Il fatto che lo stile veg*ano venga considerato sempre più interessante dalle grandi corporation evidenzia una sua normalizzazione che sicuramente muove a favore della diffusione (o quanto meno della conoscenza) di questa scelta –ancora troppo spesso ignorata o ridicolizzata- ma che probabilmente la banalizza, accostandola ad una semplice scelta d’acquisto-magari spinta da motivazioni salutistiche- e slegandola del tutto da ogni considerazione etica –altrimenti non si spiegherebbe la coesistenza, all’interno della stessa società, di realtà produttive tanto diverse. Ritengo, pertanto, che la maggior diffusione degli alimenti sostitutivi, per citare l’esempio più frequente, non possa che essere considerata positiva (far sì che al posto di un hamburger venga acquistato un veg-burger è sempre positivo), ma solo nel momento in cui costituisce un nuovo canale con cui raggiungere il grande pubblico. Coloro che sviluppano una consapevolezza etica della scelta veg*ana non possono sostenere tali manovre con i loro acquisti, in quanto i proventi delle vendite vengono accumulati da aziende del tutto estranee all’etica verso tutti i soggetti diversi dai propri azionisti. Perciò, ben venga una maggiore familiarità del pubblico con i prodotti sostitutivi, ma solo se a fronte dei nuovi acquisti i consumatori decidono di informarsi e di sostenere aziende davvero cruelty-free (obiettivo che, però, può essere raggiunto esclusivamente attraverso strategie di comunicazione mirate, come si è affermato in precedenza). Review of its Health and Environmental Effects”, Organic Producers Association of Queensland, 15/05/2007, http://www.organicconsumers.org/articles/article_5229.cfm ; Carta, “Le bio-bugie della Monsanto”, 25/03/2007, http://www.carta.org/campagne/decrescita/esperienze/consumo+critico+e+prodotti+ecocompatibili/10360 . 480 Anch’essa cliente del laboratorio di Vivisezione HLS, è inoltre una delle maggiori corporation attive nel settore degli Ogm. Informazioni su http://www.novartiskills.eu e su “New Novartis Boycott”, Ethical Consumer, no. 83, June/July 2003, in http://www.ethicalconsumer.org/boycotts/boycottsarchive.htm ; l’azienda è stata inoltre incriminata per atti di inquinamento e diffusione degli Ogm negli alimenti in Francia (in particolare, viene citato il marchio Céréal) , biopirateria in India, disinformazione su un farmaco in Australia, pubblicità ingannevole; in “Novartis AG, Company Profiles & Brands”, http://www.transnationale.org/companies/novartis.php . 481 http://www.ikea.com/ms/it_IT/attivita/ikea_food/IKEA_Food.html . 162 Nuove idee per il futuro Vegani ed ecologisti Una buona parte dei vegani e dei vegetariani ha molto a cuore le tematiche della salvaguardia ambientale: la scelta vegan, come si è visto, è anche una scelta ecologica, nonostante poche persone aderiscano a questo stile di vita esclusivamente per tale motivo. Tuttavia, la maggior parte delle associazioni ambientaliste “istituzionali”, come Legambiente, WWF, Greenpeace non sembra contraccambiare i veg*ani con un pari interesse verso l’alimentazione senza sofferenza. Il WWF ha manifestato in più occasioni il suo disinteresse per il trattamento degli animali, evidenziando così la sua natura di associazione esclusivamente ambientalista482. Ad esempio, il WWF non condanna la caccia in toto, ma solo il suo esercizio al di fuori delle regole483. Ancor peggio, l’organizzazione ambientalista più famosa al mondo ha organizzato persino delle battute di pesca con premi in denaro ai “pescatori più ecocompatibili”484. Un approccio simile non può certo fregiarsi dell’aggettivo animalista, ma, in effetti, neanche lo si può considerare ambientalista: la caccia, anche qualora praticata “secondo le regole”, è responsabile di inquinamento ed incidenti alle persone (non è raro che i cacciatori restino feriti o uccisi da altri “colleghi”), mentre la pesca ugualmente sostenuta in quanto “attività di conoscenza” dell’ambiente marino485-, in qualsiasi modo venga condotta, è una delle cause principali dello svuotamento dei fondali marini e dell’interruzione della catena alimentare. Inoltre, il WWF, assieme all’italiana Legambiente e a Greenpeace486, hanno sostenuto l’iniziativa REACH, consistente nella sperimentazione (su animali) di tutte le sostanze chimiche oggi in commercio, per 482 “La pesca e il WWF”, 28/05/2007, http://www.agireora.org/info/news_dett.php?id=245 . “La caccia e il WWF”, 21/05/2007, http://www.agireora.org/info/news_dett.php?id=240 . 484 “Un premio internazionale per la pesca intelligente”, 8/02/2007, http://beta.wwf.it/client/ricerca.aspx?root=12085&content=1 . 485 Cristina Maceroni, “La pesca che difende il mare”, 3/01/2007, http://beta.wwf.it/client/ricerca.aspx?root=7029&content=1 , “Riprendono le attività di Pescaturismo”, estate 2006, http://www.riservamarinamiramare.it/golfo/pescaturismo2006.htm . 486 “La proposta REACH”, http://www.foe.co.uk/campaigns/safer_chemicals/chemical_reaction/proposal_it.html . 483 163 conoscerne il grado di sicurezza487. Inutile sottolineare che, anche tralasciando il dramma della vivisezione, i test su animali non sono assolutamente utili per sapere se una determinata sostanza ha degli effetti nocivi (o benefici) sull’uomo, in quanto la risposta di organismi diversi può essere molto diversa (come si è già detto, gli esempi del passato sono illuminanti a questo proposito: diossina, stricnina, aspirina, talidomide,..)488 . Greenpeace è altrettanto conosciuta per la sua lotta contro l’inquinamento e la caccia alle balene, ma alcune sue campagne pubblicitarie sono al limite della credibilità: per combattere il riscaldamento globale ha consigliato di mangiare meno carni bovine (come se per allevare gli altri animali il bilancio energetico fosse positivo) e di sostituirle, magari, con carne di canguro489; ha denunciato che le mucche che “producono” il latte per il Parmigiano Reggiano mangiano OGM (quando succede per moltissimi altri animali d’allevamento) e ha organizzato una campagna490 per vietarlo (come se cambiare mangime consentirebbe alle mucche di star meglio), tralasciando del tutto il fatto che l’allevamento in sé sarebbe da vietare, anche considerando le sole motivazioni ecologiste; soprattutto, alcuni attivisti si sono pubblicamente cibati di carne di balena, nell’ambito di una campagna contro la loro caccia491. A bordo delle navi di Greenpeace vengono serviti normalmente carni e pesci492 e l’organizzazione non si è mai attivata per la diffusione dello stile di vita vegano493. Questo non schierarsi a favore dell’alimentazione vegetale da parte della stragrande maggioranza delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo494 è un errore, in quanto dal 487 “Mettiamo sotto controllo le sostanze chimiche pericolose”, http://wwf.na.agoramed.it/lavoro/campagne/detox/qualesoluzione.asp , “Il contributo di WWF Italia alla campagna DeTox”, http://wwf.na.agoramed.it/lavoro/campagne/detox/contributowwf.asp . 488 Andrea Gawrylewski, “The Trouble with Animal Models: Why Human Trials Fail”, luglio 2007, http://www.the-scientist.com/article/home/53306 ; Pandora Pound, Shah Ebrahim, Peter Sandercock, Michael B. Bracken, Ian Roberts, “Where Is The Evidence That Animal Reserch Benefits Humans?”, British Medical Journal, 28/02/2004, pp. 512-517 , http://www.bmj.com/cgi/content/full/328/7438/514 ; Eleonora Palma, “La ricerca inutile: il no della scienza alla vivisezione” 26/02/2007, http://www.lalente.net/index.php?option=com_content&task=view&id=1081&Itemid=29 ; American European Japanese for Medical Advancement, “Non Human Primates Are Not Furry-Looking Humans”, http://www.curedisease.com/article1.html . 489 Mark Diesendorf, Paths to a Low-Carbon Future, Settembre 2007, http://www.greenpeace.org/raw/content/australia/resources/reports/climate-change/paths-to-a-low-carbonfuture.pdf , Karen Collier, “Greenpeace Urges Kangaroo Consumption To Fight Global Warming”, Herald Sun, 10/10/2007, http://www.news.com.au/heraldsun/story/0,21985,22562480-661,00.html . 490 “Ogm nella filiera del Parmigiano Reggiano! Bisogna fare qualcosa. Serve il tuo aiuto!”, http://www.greenpeace.it/parmigiano/index.php . 491 Agire Ora Network, “Greenpeace mangia le balene per “salvarle”, 26/02/2007, http://www.agireora.org/info/news_dett.php?id=164 , Sea Shepherd, “Greenpeace Eats Whales To “Save” Them”, 16/02/2007, http://seashepherd.org/news/media_070216_1.html . 492 Paul Watson, “A Very Inconvenient Truth”, http://www.permaworld.org/members/permaworld/weblog/a_very_inconvenient_truth_-.html . 493 Agire Ora Network, “Greenpeace mangia…”, cit. 494 P. Watson, cit. 164 punto di vista ambientale il veganismo è la scelta alimentare migliore, ed è una possibilità sprecata, in quanto i messaggi che giungono da associazioni di questa portata influiscono sull’opinione pubblica di tutto il mondo ma mancano del messaggio più importante: è impossibile proteggere l’ambiente se si consumano alimenti animali. I nuovi vegani Negli anni 90 si è sviluppata una nuova generazione di vegani: i freegans (termine creato mettendo insieme “free” e “vegan”), nati a New York a partire da un piccolo gruppo di giovani vicini alle controculture e al movimento anti-globalizzazione. Essi ritengono che essere vegani non sia abbastanza radicale, visto che anche i prodotti che non contengono ingredienti animali possono danneggiarli, quando la terra viene disboscata per far posto alle coltivazioni o quando le compagnie petrolifere vanno in aree incontaminate per trivellare il petrolio necessario ad alimentare il trasporto delle merci495; il problema, secondo loro, è strutturale, perciò la soluzione lo dev’essere a sua volta496. I freegans, pertanto, si spingono fino al non-acquisto: si oppongono ad un sistema economico che si fonda sullo spreco, in cui una percentuale inquietante degli acquisti finisce nell’immondizia497 quando il suo ciclo di via non è ancora terminato, in cui “gettare” ha completamente sostituito il gesto di “riparare” o riciclare. L’attività più caratteristica dei freegans è il dumpster diving, “tuffarsi” nei bidoni della spazzatura per selezionare alimenti ancora buoni498 e ogni altro tipo di oggetti ancora utilizzabili, riparabili o riciclabili. Nella maggior parte dei casi vengono presi di mira i cassonetti dei supermercati e delle panetterie, che a fine giornata cestinano enormi quantità di prodotti perché invenduti o invendibili il giorno successivo, troppo vicini alla scadenza, con difetti di confezionamento o, paradossalmente, di troppo (ad esempio, perché occupano scaffali necessari per ospitare nuovi stock di merce). In effetti, è inquietante 495 La presentazione del freeganism è presente su http://www.freegan.info . P. Singer, J. Mason, The Ethics…, cit., p. 267. 497 Secondo uno studio di Timothy Jones, archeologo dell’Università dell’Arizona che ha condotto uno studio sugli sprechi alimentari, più del 40% del cibo prodotto negli Stati Uniti viene perduto o gettato, con una perdita annua di cento miliardi di dollari. Ibidem, p. 268. 498 Non tutti i freegans condividono l’etica vegana, ma la maggior parte di loro deve astenersi da carne e pesce perché è molto difficile trovare alimenti animali (che marciscono più velocemente e sono più facilmente contaminabili) commestibili nei cassonetti dei rifiuti. Karima Isd, “Freegan, ecoraccogliori urbani”, Il Manifesto, 21/02/2006, http://www.ilmanifesto.it/terraterra/archivio/2006/Febbraio/43fb5c825c1d4.html . 496 165 osservare499 gli oggetti ancora perfettamente utilizzabili che si possono trovare nell’immondizia, gettati da persone che vogliono disfarsi di vestiti fuori moda, mobili superflui, doppioni, oppure da grandi punti vendita che devono far spazio a nuovi prodotti in arrivo. E’ naturale chiedersi perché questo cibo non venga recuperato: in effetti, la maggior parte dei supermercati presi di mira dai freegans non organizza la raccolta del “rifiuto nuovo” per scopi di beneficienza perché la necessaria selezione dei prodotti porta via tempo, e perciò risulta più semplice ( e conveniente) buttar via tutto500. Il dumpster diving va diffondendosi anche in Europa (Madrid, Londra) e, soprattutto, non riguarda solo ragazzi o persone indigenti ma professionisti, persone della classe media che non avrebbero bisogno di frugare nell’immondizia per vivere, a cui però sta a cuore l’idea di recuperare oggetti perfettamente utilizzabili da una fine ingloriosa. Molti freegans recuperano il cibo non solo per sé stessi ma anche per destinarlo ad associazioni di beneficienza o distribuirlo direttamente ai poveri; in Italia, è attiva in questo senso l’associazione Food Not Bombs e il Last Minute Market, oltre alla Fondazione del Banco Alimentare501. Non è infrequente che l’approccio anti consumo dei freegans venga esteso ad altri settori come la casa (occupando le case disabitate), l’arredamento (recuperando la mobilia gettata nei cassonetti), i trasporti (rifiutando di usare l’auto, sostituita dalla bicicletta e dall’autostop)502. Dal punto di vista dell’influenza sui costumi, i freegans possono essere soggetti a diverse critiche. In primo luogo, il loro comportamento non è facilmente replicabile, in quanto la maggior parte delle persone considera il frugare nei cassonetti un tabù; in secondo luogo, i freegans non mandano alcun messaggio al mondo produttivo, in quanto essi non influiscono sulle vendite (se non in minima parte), al contrario di quanto succede per chi acquista determinati beni al posto di altri boicottando un’impresa o un settore produttivo. A queste critiche, i freegans replicano affermando che, ad esempio, l’agricoltura biologica è diventata parte del sistema difettoso che contestano, e non costituisce più un’alternativa ad esso (nel momento in cui la distribuzione assume le stesse caratteristiche della GDO: si riferiscono a quello che accade in ipermercati come Whole Foods Market). Secondo loro, la raccolta dal cassonetto è molto più radicale: è un atto di ritiro dall’intero processo di 499 Immagini delle “spedizioni” sono disponibili su http://www.freegan.info/PublicImages . Pierfrancesco Proietti, “Be freegan!”, CCS News, 14/06/2006, http://www.ccsnews.it/dettaglio.asp?id=2178 . 501 Per una analisi della situazione italiana, rivolta esclusivamente alla beneficienza, Francesco Ridolfi, Cibo solidale. Il mercato dell’ultimo minuto, Libri dei Consumatori-Fondazione ICU, supplemento alla rivista Gaia n. 28/2006. 502 Ecoblog, “Freegan e il cibo dei cassonetti”, 7/06/2006, http://www.ecoblog.it/post/1627/freegan-e-il-cibodei-cassonetti . 500 166 produzione e marketing del cibo industriale, di resistenza verso un sistema fondato sullo sfruttamento massiccio delle risorse, e sopratutto rappresenta la forma di consumo alimentare a più basso impatto ambientale503. Un approccio di questo tipo potrebbe influire sulle decisioni produttive, se diventasse consistente: se i consumatori aspettano che il supermercato chiuda per raccoglierne i rifiuti (prodotti appena tolti dagli scaffali) e non vi acquistano nulla, è possibile che i responsabili decidano di comportarsi diversamente; tuttavia, è impossibile prevedere in quale direzione si svilupperà una reazione, mentre è anche probabile (ed è già successo) che decidano di mettere sotto chiave i loro rifiuti, per impedirne l’accesso504. Sicuramente, tuttavia, ai “boicottatori dello spreco”505 va riconosciuto il merito di rifiutare un’economia che va assumendo sempre più dei tratti irrazionali, colpevole di innescare perversi meccanismi che impediscono l’accesso alle risorse essenziali da parte dei più indigenti e, allo stesso tempo, provocano distruzioni di massa e sprechi madornali: già di per sé, questo è un atto coraggioso e intelligente. Verso la decrescita o un nuovo consumismo? L’esperienza dei freegans mostra come sia possibile una radicale alternativa al sistema economico oggi vigente, per di più sostenuta da persone che hanno già deciso di rifiutare l’approccio maggioritario al consumo alimentare. I freegans si inseriscono perfettamente nella teoria della decrescita, secondo la quale è necessario modificare bruscamente il nostro tenore di vita per permettere al genere umano di continuare a godere di un pianeta ospitale e per instaurare rapporti di cooperazione e solidarietà con i nostri simili. Molti veg*ani condividono quest’approccio, visto che è difficile riflettere sull’alimentazione considerando il solo fattore della sofferenza animale, eliminando tutte le altre questioni etiche in gioco: l’ecologia, lo sviluppo sostenibile, l’impoverimento delle popolazioni dei paesi del Sud del mondo. Quest’esempio serve a porre un’importante questione. Nel suo insieme, la veg-economy si può considerare un’alternativa all’economia tradizionale o, più banalmente, si tratta di una mera sostituzione di determinati prodotti ad altri, che non modifica sostanzialmente la struttura produttiva e i comportamenti dei consumatori? 503 J. Mason, P. Singer, The Ethics…, cit., p. 266. K. Isd, cit. 505 Elisabetta Rosaspina, “Il fenomeno freegan sbarca in Spagna”, Corriere della Sera, 1/01/2008, http://www.corriere.it/cronache/08_gennaio_01/cacciatori_di_cibo_d2ae604c-b895-11dc-bd8b0003ba99c667.shtml . 504 167 Se consideriamo dei gruppi (estremamente) minoritari come i freegans, è evidente come la veg-economy si collochi all’esterno della nozione attualmente accettata di economia: l’obiettivo di chi contesta gli sprechi e l’accumulazione di ricchezza da parte di poche persone a danno delle altre, oltre allo sfruttamento degli animali, è infatti quello di sradicare le premesse di un sistema simile, ricorrendo anche a comportamenti malvisti dalla massa. Tuttavia, questo punto di vista è attualmente condiviso solo da una parte dei veg*ani, e sicuramente da pochissimi imprenditori che hanno deciso di lanciarsi in questo nuovo mercato. E’ innegabile, infatti, che i veg*ani siano (anche) dei consumatori come gli altri - magari più consapevoli delle dinamiche della produzione e del commercio, ma pur sempre delle persone che devono fare la spesa. Non è realistico né utile criticare le imprese cruelty-free che crescono, visto che l’aumento della produzione e delle vendite è l’obiettivo di ogni imprenditore, e soprattutto perché ogni prodotto ulteriore venduto da queste aziende equivale, verosimilmente, ad un prodotto animale non acquistato: coloro a cui sta a cuore la condizione degli animali non possono non esserne entusiasti. Inoltre, non tutti sono pronti a scelte tanto drastiche come il totale ritiro dal consumo, e soprattutto le persone che ancora non conoscono o non condividono la scelta vegana non se ne interesserebbero di più se fossero spinte ad identificarla con uno stile di vita estremamente lontano dal loro standard. Certamente, questo non implica che non si debbano porre delle critiche di natura strutturale verso meccanismi sbagliati, bensì che occorra tenere presente la priorità fondamentale e agire in primo luogo in suo favore, dedicando energie ulteriori ad altre tematiche solo in un secondo momento, a condizione che l’interlocutore risulti interessato. A mio avviso, la scelta più efficace per proporre al grande pubblico l’etica vegana non è quella di esaltare i freegans e tutte le altre particolari tendenze presenti all’interno del variegato universo dei veg*ani (fruttariani, crudisti, ecc.), né sottolineare la vicinanza ad altre tematiche socio-economiche pur fondamentali: il messaggio così veicolato potrebbe risultare ancora più estraneo a persone che, in vita loro, non hanno mai avuto a che fare con qualcuno che criticasse le loro abitudini di consumo per motivazioni etiche e, soprattutto, potrebbe innescare un processo di reazione del tutto controproducente. E’ già molto difficile far capire alle persone la necessità morale di astenersi dal finanziare chi maltratta gli animali, figurarsi diffondere contemporaneamente delle idee come la decrescita e la lotta al consumo: porre tutte queste istanze insieme non è funzionale per nessuna delle due. Al contrario, far apparire al pubblico il veg*ismo come uno stile di vita perfettamente compatibile con la maggior parte delle abitudini comuni è un obiettivo 168 primario di chi si batte per la sua diffusione, perciò ulteriori tematiche andrebbero affrontate con persone già responsabilizzate sulla materia (anche perché un riscontro positivo sarebbe più probabile). D’altra parte, una certa “innovazione intellettuale” è molto importante, visto che gli obiettivi da raggiungere, assieme alle sfide, aumentano sempre più, ed è verosimile che possa essere sviluppata più da giovani non inseriti in ambienti sociali istituzionalizzati che da altri. 169 Conclusione La filosofia che si trova alla base della veg-economy si fonda su pochi importanti principi, la cui comprensione da parte del pubblico va facilitata attraverso strategie di comunicazione adeguate. Diffondere un messaggio alla volta, soprattutto se propositivo e “positivo”, è più efficace rispetto ad un “bombardamento”. La diffusione del veganismo è sicuramente un’impresa ardua, ma alcune sue radici culturali (la rivendicazione dei diritti, la tutela delle differenze e delle minoranze, la volontà di trasparenza dei processi produttivi e la lotta contro le ingiustizie) sono già presenti nella nostra società, seppure vengano utilizzate per sostenere altre battaglie. Nonostante arrivino da tutto il mondo notizie fortemente negative sul fronte del trattamento degli animali (la clonazione degli animali allevati a scopi alimentari, l’inasprimento delle leggi Usa contro gli attivisti che liberano gli animali da laboratorio –ormai trattati al pari di pericolosi terroristi-, la diffusione della zootecnia intensiva nei paesi del Sud del mondo), la realtà che ci circonda è sempre più propensa a mettere in cattiva luce l’accanimento contro gli animali non umani. Nonostante ciò non sia assolutamente sufficiente a imporre drastiche modifiche nella legislazione e nei comportamenti dei singoli, necessarie per una protezione effettiva di tutti gli animali, il terreno su cui lavorare diventa sempre meno impermeabile. La presenza sempre più frequente di dibattiti sui mass media, la diffusione progressiva dei veg*ani e la crescente facilità di condurre uno stile di vita simile costituiscono importanti segnali di miglioramento. In particolare, questo risultato è anche merito di molti imprenditori coraggiosi che hanno deciso di dedicare le proprie energie ad un lodevole progetto cruelty-free e dimostrano quotidianamente come la coscienza pulita non sia necessariamente estranea al profitto: una verità banale ma ancora troppo poco evidente. 170 Bibliografia Barbara De Mori, Che cos’è la bioetica Animale, Carocci, 2007 Peter Singer, Etica pratica, Liguori, 1989 Jim Mason, Peter Singer, The Ethics of What We Eat, Rodale, 2006 Jeremy Rifkin, Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne, Mondadori, Milano, 2001 Sabrina Tonutti, Diritti animali: storia e antropologia di un movimento, Forum, Udine, 1996 Tom Regan, I Diritti animali, Garzanti, 1990 Tom Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Sonda, Casale Monferrato, 2005 Gary L. Francione, Animals, Property and the Law, Philadelphia, Temple University Press, 1995 Gary L. Francione, Rain Without Thunder. 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