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20131 Milano - Via Stradivari, 7 Individualismo & disgregazione sociale di Fabrice Hadjadj Mons. Javier Echevarría (1932-2016) di Fernando Ocáriz Le sanzioni favoriscono Putin Questioni di pancia (del Paese) di Fernando Mezzetti di Lorenzo Ornaghi Dottrina sociale: troppo ottimismo, troppo pessimismo Presente & futuro del sindacato colloquio di Nicola Guiso con Marco Bentivogli di Hugo de Azevedo Gli Anniversari del 2017 671 Gennaio di Gianmaria Bedendo 2017 Poste Italiane Spa Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia Nico Rosberg, n. 1 ai box intervista di Claudio Pollastri Editoriale Il buio & la candela Z ygmunt Bauman, il grande sociologo scomparso novantunenne il 9 gennaio scorso, ha saputo interpretare meglio di ogni altro la postmodernità attraverso il modello della «società liquida», modello che non può essere ridotto a slogan come è accaduto a Marshall McLuhan, crocifisso sul motto non esattamente capito «il mezzo è il messaggio». Liquida, la nostra società, lo è perché liquidi – cioè instabili, precari – sono diventati perfino i rapporti coniugali e familiari, liquida è la comunicazione digitale che prescinde dal contatto personale, liquidi i consumi all’insegna dell’«usa e getta», liquidi – cioè senza regole condivise – i legami tra cittadini e istituzioni, liquido è il «relativismo etico» tempestivamente diagnosticato da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: liquida, insomma, è la società che si costruisce sulle emozioni, sui desideri, e non sulla ragione, con l’insicurezza che ne deriva per il cittadino impotente di fronte ai grandi problemi che la globalizzazione solleva e che i mass media continuamente rilanciano, provocando disparità ed esclusioni: «vite di scarto» (Bauman), «cultura dello scarto» (Papa Francesco). E l’insicurezza diffonde la paura, suscettibile di spregiudicate manipolazioni. Nella conferenza che il 7 novembre 2002 ha inaugurato il convegno Parabole mediatiche: fare cultura nel tempo della comunicazione, organizzato dalla Conferenza episcopale italiana, Zygmunt Bauman aveva affermato: «La barriera più difficile da attraversare è quella della unilateralità del processo di globalizzazione. Il progressivo intreccio d’interdipendenze globali non è accompagnato, per non dire controllato e bilanciato, da strumenti globali e potenti di azione politica. Nella nostra epoca, è emerso uno spazio eticamente vuoto sopra il livello di tutti gli strumenti effettivi d’azione collettiva, dentro il quale le forze economiche sono libere di seguire le proprie regole o anche di non seguirne alcuna. La diffusione di poteri economici non è stata seguita, finora, dall’emergere di forze legislative in grado d’imporre coercizioni eticamente pregnanti sulle nuove e sfrenate forze economiche. Queste ultime sono libere di agire globalmente, ma ci sono solo germi e anticipazioni di un sistema giuridico e legale globalmente vincolante, di una democrazia globale o di un codice etico globalmente vincolante, applicabile e osservato. Non esiste più la fiducia nell’efficacia del discorso impegnato, e in particolare di un discorso rivolto al tipo di strutture politiche istituzionalizzate che ragionevolmente ci si aspetta subordinino le loro azioni a motivazioni etiche e agiscano a favore di obiettivi etici». Riscoprire un’etica che partendo dalle strutture innate della coscienza guidi la costruzione anche delle strutture sociali è il messaggio, forse il più importante, che Bauman ci lascia. Altrimenti, in un mondo in cui la comunicazione è sempre più per immagini, cioè visiva, ai cittadini non resta che un ruolo di spettatori. E non è per caso che la sociologia di Bauman si è sempre meglio orientata verso una vera e propria antropologia. Ricostruire non è facile, quando l’individuo stesso si sente frammentato anche al proprio interno. Parafrasando un’immagine di Faulkner, si può dire che la diagnostica di Bauman è come una candela accesa nella notte in mezzo a un bosco: non basta a far luce, ma almeno segnala lo spessore del buio. Bauman, del resto, si diceva pessimista nel breve periodo, e ottimista a lungo termine. C.C. 1 N° 671 Editoriale Fabrice Hadjadj Fernando Ocáriz Gianmaria Belendo Dino Basili Nicola Lecca Aldo Maria Valli Hugo de Azevedo Valentino Guglielmi Vittorio Messori * Matteo Andolfo Giuseppe Bonvegna Lorenzo Ornaghi Nicola Guiso Fernando Mezzetti Roberto Rapaccini Cesare Cavalleri Guido Clericetti Vincenzo Sardelli Silvia Stucchi Maria Chiara Oltolini Florio Fabbri Claudio Pollastri Michele Dolz Matteo Andolfo * Mauro Manfredini Franco Palmieri * 1 4 8 12 17 18 20 22 25 30 32 34 37 38 40 44 46 50 53 54 56 59 61 62 66 70 72 76 78 80 Il buio & la candela Individualismo & disgregazione sociale Mons. Javier Echevarría (1932-2016) Gli Anniversari del 2017 Piazza Quadrata. Diario «epocale» Lettera da Le Landeron. Una fortezza trasformata in giardino Piazza San Pietro. Come formare i nuovi sacerdoti Dottrina sociale della Chiesa. Troppo ottimismo, troppo pessimismo Catechesi/2. I primi tre Comandamenti Mariologia. Fontanelle, Lourdes italiana Una nuova puntata dell’avventura Ares Filosofia. La «terza navigazione». Realismo metafisico quale filosofia postmoderna Idee. Se la tecnologia prescinde dalla Verità Orizzonti. Questioni di «pancia» (del Paese) Interviste. Presente & futuro del sindacato. Colloquio con Marco Bentivogli Esteri. Le sanzioni favoriscono Putin Terrorismo. Il conflitto Israeliani-Palestinesi Letture/128. Zaccuri, Spaggiari, Montale Inquietovivere Teatro. Il volto spietato del socialismo reale Cinema/1. Due film al femminile Cinema/2. L’estate addosso Cruciverba d’autore Automobilismo. Nico Rosberg, n. 1 ai box Arti visive. Vita della natura morta Ares news. Spiritualità, letteratura, mariologia Libri & libri Doppia Classifica. Libri venduti & libri consigliati Fax & disfax. E il passero volò Libri ricevuti llllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll L’APPUNTAMENTO È A PAGINA 32. AUGURI! VI ASPETTIAMO! + llllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllllll 2 GENNAIO 2017 ANNO 61° in questo numero: Fabrice Hadjadj (foto) evidenzia come l’individualismo sia il risultato di una costruzione sociale che disgrega le comunità naturali e l’uomo stesso: la sua proposta per affrancarsi da questo paradigma consiste nel ripartire dal dato delle comunità naturali: la famiglia, la comunità con la natura e quella dell’uomo con Dio (p. 4). l Quali sono gli anniversari da non perdere nel 2017? Per un’affascinante tour nelle ricorrenze, da Lutero a Federico Borromeo, da Madame de Staël a Jane Austen, si può ricorrere a Gianmaria Bedendo a p. 12. l Per «Orizzonti» Lorenzo Ornaghi indaga il «peso» della massa nel funzionamento delle Democrazie: ci sono troppe questioni «di pancia» (p. 38). Lo scorso 12 dicembre, festa della Madonna di Guadalupe, si è spento mons. Javier Echevarría (foto), prelato dell’Opus Dei: a p. 8 presentiamo l’omelia che mons. Fernando Ocáriz, Ausiliare vicario generale dell’Opera, ha tenuto alla Messa esequiale celebrata giovedì 15 dicembre nella Basilica di Sant’Eugenio a Roma. Tre domande su Chiesa & dintorni. 1/«E se ci fosse una nuova Lourdes a due passi da Brescia?»: è quanto si chiede a p. 30 Vittorio Messori (foto) indagando sulle apparizioni di Fontanelle: lo spunto della sua riflessione muove dalla pubblicazione dei Diari della veggente Pierina Gilli appena usciti per Ares a cura di Riccardo Caniato. l 2/Ma nei confronti della Dottrina sociale della Chiesa c’è troppo ottimismo o troppo pessimismo? Risponde Hugo de Azevedo a p. 22. l 3/Come saranno i sacerdoti del futuro? Aldo Maria Valli illustra a p. 20 la Ratio Fundamentalis institutionis sacerdotalis della Congregazione per il clero pubblicata lo scorso 8 dicembre. Far uscire la Russia dalle umiliazioni post Guerra Fredda ricostituendo l’identità nazionale: è da sempre la linea di Vladimir Putin (foto), ma i rischi del nazionalismo sono davvero tanti, come dettaglia Fernando Mezzetti a p. 44. l Per un aggiornamento sul conflitto israeliani-palestinesi c’è lo zoom di Roberto Rapaccini a p. 46; sono scenari decisamente più distesi quelli presentati da Nicola Lecca a p. 18, che ha visitato per noi la città-giardino di Le Landeron. Ci vuole coraggio a lasciare la Formula 1 cinque giorni dopo la conquista del titolo mondiale: è successo a Nico Rosberg (foto) che racconta a Claudio Pollastri il suo improvviso ritiro (p. 62). l Certa critica accademica recentemente si accanisce sul Diario postumo di Montale: decisione miope e ingiusta, motiva Cesare Cavalleri a p. 50 strigliando il saggio di Enrico Testa ed elogiando le narrazioni di Alessandro Zaccuri e Albert Spaggiari. l Cinema: Silvia Stucchi ha approfondito Ghostbusters e Io prima di te (p. 56), mentre Maria Chiara Oltolini ha bacchettato L’estate addosso (p. 59). Mensile di studi e attualità 20131 Milano - Via A. Stradivari, 7 Telefoni 02.29.52.61.56 - 02.29.51.42.02 Fax 02.29.52.01.63 Redazione romana: Via Vincenzo Coronelli, 26/a - 00176 Roma tel. e fax 06.21.700.782 http://www.ares.mi.it e-mail: [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE Cesare Cavalleri CAPOREDATTORE Riccardo Caniato SEGRETARI DI REDAZIONE Milano: Alessandro Rivali Roma: Franco Palmieri EDITORE Ares. Associazione Ricerche e Studi Ente morale eretto con D. p. R. n. 549 (27-1-1966) iscritto al Registro nazionale della stampa con il n. 534/6/265 (17-11-1982) Codice fiscale: 00980910582 Partita Iva: 07634860154. Numero Rea: MI-1745660 ISSN 0039-2901 Registrazione Tribunale di Milano 24-10-1966 - n. 384 STAMPA Tipografia Gamma srl - Città di Castello Proprietà artistica e letteraria riservata all’Associazione Ares. Articoli e fotografie, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Le opinioni espresse negli articoli pubblicati rispecchiano unicamente il pensiero dei rispettivi autori. 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Fabrice Hadjadj Individualismo & disgregazione Il paradigma tecno-economico I 4 sociale Fabrice Hadjadj, uno dei più brillanti saggisti del nostro tempo, evidenzia come l’individualismo sia il risultato di una costruzione sociale che disgrega le comunità naturali per inventare una «società di concorrenza e di innovazione», quella che risponde a ciò che Papa Francesco chiama il «paradigma tecno-economico», e come l’individualismo conduca paradossalmente alla disgregazione dell’individuo, che viene separato dalla propria famiglia, dal proprio corpo e dal proprio sesso, nonché dalla propria eredità e storia. Nel momento stesso in cui l’individuo rivendica sé stesso come autonomo, diventa schiavo del mondo tecno-liberale. La proposta di Hadjadj per affrancarsi da questo paradigma e dalle sue conseguenze consiste nel ripartire dal dato delle comunità naturali: la famiglia, base per rifondare la dimensione politica; la comunità con la natura; quella dell’uomo con Dio. È qui che il cristianesimo si rivela necessario. In questi tempi in cui la specie umana è minacciata dalla distruzione e dall’occupazione tecnologica, bisogna credere che per quanto terribili, è una Provvidenza che ci ha posto in essi, e che è proprio qui che noi abbiamo la nostra missione. Riportiamo, con la vivacità del parlato, il testo della conferenza che Hadjadj ha tenuto al «Laboratorio delle Idee» di Milano il 22 ottobre 2016. l titolo delle nostre riflessioni, Individualismo e disgregazione sociale, appare come un pleonasmo, e dunque come qualche cosa che non sembrerebbe affatto problematico. L’individualismo sfocia inevitabilmente nella disgregazione della società: se ognuno si pone egoisticamente come un individuo separato dagli altri e che non cerca altro che approfittarsi degli altri, la società si disgrega. Allora bisognerebbe fare un richiamo all’altruismo, parlare di coraggio, e i nostri discorsi dovrebbero ridursi a esortazioni morali: siate generosi, pensate agli altri, imparate a condividere. Il problema (perché questa assenza di problema pone un problema) è che questo genere di richiamo è ancora individualistico. Ci si richiama alla buona volontà dell’individuo, e l’individuo è ancora al fondamento dell’azione. Ugualmente, se io richiamo a una riforma o alla costruzione di una società più giusta, resto ancora all’individualismo, perché il costruttivismo parte da questi presupposti: la società è costruita dagli individui, non è fondata su un dato naturale, ma sarebbe il risultato di un progetto umano. Questa breve introduzione ci conduce già a due insegnamenti. Primo insegnamento: l’individualismo non dev’essere confuso con l’egoismo, l’«altruismo» può essere una forma di individualismo. Secondo: la critica dell’individualismo si fa quasi sempre a partire da una rappresentazione che rimane individualistica. Bisogna andare al fondo di questo problema: in verità l’individualismo non è la sorgente della disgregazione della società. L’individualismo non è una sorgente, ma è un risultato, ed è il risultato di una certa costruzione sociale, o di una volontà di pensare la società come una costruzione. Anzitutto, è opportuno fare una notazione storica: la parola «società», così come noi la comprendiamo oggi, appare solo nel XVII secolo. Prima di questo periodo la società non è che un’associazione tra due o più individui fondata su un contratto (per esempio come in una società commerciale). È a partire dal momento in cui si trova che il fondamento della civiltà non è più nelle comunità naturali, ma in un contratto tra due individui, che il termine società appare nel suo senso attuale. Dunque la teoria individualista serve a formare una comunità intesa come una «società», ossia come una comunità non naturale, artificiale, contrattuale, basata sulla libertà degli individui. In realtà è il progetto di disfare le comunità naturali ciò che fabbrica l’individualismo. È il progetto di costruire una società più performante, progressista, utopica, ciò che fabbrica l’individualismo. Qual è questa società? È quella che risponde a ciò che Papa Francesco chiama il «paradigma tecnoeconomico» (si potrebbe parlare anche di paradigma «tecno-capitalista», o «tecno-liberale»). Questa società tecno-economica riposa su diversi postulati, che sono press’a poco quelli in virtù dei quali il consumatore dovrebbe scegliere tra diverse merci. Il primo di questi postulati è che ognuno è sin dall’inizio un soggetto autonomo capace di scegliere. Non ci sono «bambini», perché i bambini non sono capaci di scegliere (ma ciò è normale, perché il bambino appartiene a una comunità naturale). Ed è per questo che anche le pedagogie moderne ci diranno che bisogna lasciar fare al bambino come se fosse un individuo libero. In sintesi, fin dall’inizio siamo soggetti autonomi e liberi. Secondo postulato. Questo soggetto libero fa le sue scelte per raggiungere un bene che è concepito come benessere individuale. Non si tratta del bene comune, non si tratta nemmeno di un «bene» come qualcosa di diverso dal «benessere». Terzo postulato. A questo bene, come benessere, si giunge non attraverso la via della saggezza, non attraverso la via dell’accoglienza, ma attraverso la via della tecnica e del calcolo di interessi. La tecnica diventa a questo punto il paradigma per raggiungere la felicità e per comporre questo mare di interessi individuali. Quarto postulato. La tecnica di base per raggiungere il benessere è duplice: da un parte la concorrenza degli individui tra di loro, dall’altra l’innovazione. La concorrenza favorisce l’innovazione, e l’innovazione stimola la concorrenza. Se in partenza abbiamo individui liberi che non hanno legami naturali tra loro, allora automaticamente questi individui sono in concorrenza. La concorrenza può essere una guerra, ma può anche portare a un contratto. E la prima innovazione tecnica è proprio la società, uscita per così dire dalla tecnica del contratto. È molto interessante, perché questo dimostra che questo postulato è connesso a tutti gli altri, e che la società viene intesa come un’innovazione. Riconosciamo qui l’antropologia delle teorie economiche classiche. Ivan Illich, pensatore austriaco, distingueva ancora altri due postulati, che gli apparivano come posti a fondamento della società contemporanea. Menzioniamo quindi il quinto postulato: il postulato della rarità. Che significa: non ce ne sarà per tutti, da cui la necessità della concorrenza e la necessità della crescita. E infine il sesto postulato: il postulato unisex. Perché la concorrenza e l’innovazione siano onnipotenti bisogna ignorare la differenza uomodonna. Ogni divisione sessuale o complementare del lavoro, ogni divisione tradizionale e naturale dei compiti, appare come un ostacolo alla concorrenza e all’innovazione. Non ci sono che individui in competizione per gli stessi posti. E per questi individui l’innovazione e la concorrenza devono arrivare fino alla delegazione della procreazione a imprese commerciali e alla biotecnologia. La società degli individui, contrattuale, concorrenziale e innovativa, non è pienamente liberata se non quando ha disgregato la prima comunità naturale. Bisogna disgregare la famiglia come prima comunità naturale per liberare la società degli individui. L’individualità è un termine, non un punto di partenza Arrivo ora al mio terzo punto. Il primo punto era che la critica dell’individualismo si fa in fondo ancora in nome dell’individualismo. Il secondo punto era di mostrare che l’individualismo è il risultato di una costruzione sociale, che non disgrega la società, ma è piuttosto il pensiero che serve a disgregare le comunità naturali per inventare una società di 5 6 concorrenza e di innovazione. Il terzo punto mira a mostrare che l’individualismo conduce alla disgregazione dell’individuo. In realtà, tutti i postulati che ho menzionato sono finzioni che disgregano lo stesso individuo. Un tempo l’individualità veniva concepita come un termine, e non come un punto di partenza. L’individualità era innanzitutto il termine di un’operazione logica, un’operazione di divisione dell’essere. Si divide l’essere in genere, si divide il genere in specie, si dividono le specie in «specie specialissime», direbbe Aristotele, e queste specie specialissime si dividono in individui. In greco individuo si dice «atomo», cioè quello che non può più essere diviso. «Individuo» era quindi il termine di un’operazione logica. Innanzitutto veniva riconosciuta la comunità delle specie e la comunità del genere. In secondo luogo, al di là del significato di termine di un’operazione logica, l’individuo era considerato come il termine dell’avventura esistenziale. A partire da un’eredità, a partire da un’intera genealogia, ogni figlio è chiamato a un destino singolare, al termine del quale riceve il suo nome di individuo. È quello che si riscontra in tutti i romanzi cavallereschi, e anche nel Vangelo. Gesù parla dei nomi che saranno «scritti in cielo», e nel libro dell’Apocalisse si parla di un «nome nuovo» che verrà dato al termine della prova, prova grazie alla quale si manifesterà chi noi siamo. L’individualità è dunque, nel pensiero antico ma anche nel pensiero biblico, il termine di un dinamismo, e non il punto di partenza. Quando l’individualità viene presentata come un punto di partenza, l’individuo viene strappato dalle sue appartenenze, è indebolito perché sono stati tagliati tutti i suoi legami naturali, e allora diventa troppo debole per resistere alla potenza dello Stato, al richiamo delle sirene tecno-economiche. Queste sirene gli propongono la riuscita e il benessere, ma al prezzo della sua frammentazione. Oggi, per esempio, si fa l’elogio del multi tasking. Lavoriamo con degli schermi sui quali più finestre sono aperte in uno stesso momento, riceviamo continuamente informazioni frammentate, e abbiamo l’abitudine anche quando siamo con gli amici di dare un’occhiata al cellulare (notate che questo non può funzionare con un libro, quando si conversa con degli amici non si può dare un colpo d’occhio a un libro! Il fatto è che l’informazione è talmente puntuale e frammentata che noi stessi veniamo frazionati da questo mondo dell’informazione). Anche il nostro organismo è diviso in somme di cellule, di funzioni e di specialità in modo tale che il rapporto con noi stessi diventa sempre più quello del quantified-self. Le persone indossano tessuti intelligenti, e portano i propri Iphone sul braccio come al tempo del nazismo si portava la fascia. Si tratta di trasmettere dati dal nostro corpo, che poi saranno gestiti dal computer per dirci come dobbiamo vivere meglio. Il filosofo Günther Anders aveva colto molto bene questo problema nel suo libro Die Antiquiertheit des Menschen (pubblicato in Italia col titolo L’uomo è antiquato, ndr). Egli ha mostrato che ormai non siamo più nell’individualismo, ma nel regno del «divisum». Non c’è più l’individuo, ma il divisum, perché l’individualismo porta infine alla disgregazione della persona stessa, che viene separata dalla propria famiglia, separata dal proprio corpo e dal proprio sesso e separata anche dalla propria eredità e storia. A partire da qui, la persona può essere intesa come una somma di parametri che cerca di risolvere l’algoritmo della felicità. L’individualismo sottomette interamente l’individuo al paradigma tecno-economico. Nel momento stesso in cui l’individuo rivendica sé stesso come un individuo autonomo diventa schiavo del mondo tecno-liberale. Come uscire dalla disgregazione? Allora giungo alla mia conclusione. Come uscire da questa disgregazione, che non è una disgregazione sociale, ma è una disgregazione della stessa persona? Non possiamo uscirne proponendo un’altra costruzione sociale, o un altro contratto sociale. In fondo la maggior parte dei riformatori fallisce perché essi pretendono di lottare contro l’individualismo senza criticarne i presupposti. Il loro modo di approcciarsi è ancora tecno-economico, e forse anche noi siamo qui con questo tipo di approccio. Il nostro rapporto col mondo, sottomesso al paradigma tecno-economico, implica in noi un atteggiamento di tipo push button. L’atteggiamento del push button può coinvolgere qualsiasi nostro comportamento, per esempio potrei dire: cerchiamo di uscire dall’individualismo grazie alla spiritualità; ma se io concepisco la spiritualità come il premere un tasto e allora viene fuori lo Spirito Santo, come una «tecnica della felicità» o una «tecnica della grazia», sono ancora prigioniero del paradigma tecnoeconomico. Dunque non bisogna proporre un’altra costruzione sociale. Bisogna piuttosto ripartire dal dato delle comunità naturali. È questo il compito di un’«ecologia integrale», per riprendere l’espressione dell’enciclica Laudato Si’. Quali sono queste comunità naturali? La famiglia certamente, perché noi non siamo individui, ma innanzitutto figli e figlie. E se vogliamo essere individui senza essere figli e figlie, allora diventiamo i prodotti di un’impresa biotecnologica. Bisogna ritrovare il senso della famiglia, ma non per chiuderci sulla famiglia (sarebbe il pericolo di un certo «familismo» cristiano). Io parlo qui di un punto di partenza, di una base per rifondare la dimensione politica. C’è poi una seconda comunità naturale, che Da non perdere Fabrice Hadjadj MA CHE COS’È UNA FAMIGLIA seguito da ? La trascendenza nelle mutande & altri discorsi ultra-sessisti Edizioni Ares non è quella semplicemente dell’uomo e della donna con i figli: è quella dell’uomo con la natura. Quando Aristotele parla della famiglia, parla dell’oikos. E l’oikos non è solo il rapporto dei membri della famiglia, è anche il rapporto della famiglia con la natura, attraverso, per esempio, la produzione di cibo. Dunque l’altra comunità naturale legata alla famiglia, il legame della famiglia con la natura, passa attraverso il fatto di ritrovare il senso dell’agricoltura e dell’allevamento. Il fondamento dell’economia non è nella finanza e non è nel commercio, è nell’agricoltura. Chi tra voi fa studi di agricoltura? Facciamo tutti economia, ingegneria o, peggio ancora, filosofia. Abbiamo perduto il senso di questo fondamento, al punto tale che anche l’agricoltura è stata sottomessa al paradigma tecno-economico, e al giorno d’oggi si fa crescere l’erba quasi tirandola dal terreno. Bisogna ritrovare il senso dell’agricoltura, che è il senso della cultura. La cultura accompagna un dinamismo naturale che è dato. Non oppone al dato naturale un progetto artificiale, ma l’artificio accompagna il dinamismo naturale. È questo il senso della cultura per gli antichi. Ma tutto questo non porterebbe a nulla se noi non avessimo il senso di una terza comunità naturale. Non solo quella della famiglia, non solo quella del rapporto culturale col tutto, ma quella del rapporto dell’uomo con gli dèi. È quello che dice Aristotele (è quello che può dire un autore non cristiano). Perché questa comunità è fondamentale? E perché uno può anche essere cristiano? Il punto è che per rispettare il dato naturale bisogna credere che venga da un donatore generoso, vale a dire che c’è un ordine nel dato naturale. Ma è proprio qui che il pensiero pagano non basta più. Perché noi sappiamo che non viviamo più in un kosmos, non abbiamo più una visione della natura ordinata, viviamo in una natura ferita, lacerata e vediamo che queste comunità naturali sono luoghi di drammi: la famiglia è un luogo di drammi, l’agricoltura è un luogo di drammi (perché non si ha padronanza sulla meteorologia). Come sfuggire alla tentazione di distruggere ciò che è dato per costruire qualcosa di meglio? Bisogna credere che quest’ordine non debba essere abolito, ma riscattato. Cioè noi crediamo che in questo ordine ci sia il dono di un Creatore, ma anche di un Redentore. Attraverso il dramma, malgrado tutto, si compie qualche cosa. In questi nostri tempi che sono terribili, in questi tempi in cui non siamo neanche sicuri che la specie umana continuerà sulla terra, perché essa è minacciata, sia dalla distruzione sia dall’occupazione tecnologica, bisogna credere che per quanto terribile sia il nostro tempo, è una Provvidenza che ci ha posto in questo tempo, e che è proprio qui, nel dato della nostra epoca, in questa comunità naturale con gli dèi, che noi abbiamo la nostra missione. Fabrice Hadjadj Fabrice Hadjadj MA CHE COS’È UNA FAMIGLIA? La trascendenza in mutande & altre proposizioni ultrasessiste pp. 184, Euro 16 «Hadjadj smonta la propaganda del “matrimonio per tutti”, del “diritto” ai figli, delle teorie del gender e dimostra che la famiglia è luogo di esistenza, ma anche di resistenza» (Famiglia cristiana) «Il letto e la tavola, lo aveva già osservato Anatole France, sono due mobili per i quali bisogna avere la più alta stima» (Il Sole 24 ore) «La famiglia – scrive l’Autore nel suo stile estroso e formidabile – “è lo zoccolo carnale” dell’apertura alla trascendenza”» (La Scuola cattolica) «Lo scrittore offre un altro dei suoi approfondimenti geniali» (Tempi) «Il libro di Hadjadj unisce metodo e accessibilità, vertigine filosofica e ragionevolezza, spudoratezza e religiosità» (Libero) Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenere lo sconto del 20% richiedendo il volume alle Edizioni Ares Via Stradivari, 7 - 20131 Milano Tel. 02.29.52.61.56 - www.ares.mi.it 7 Fernando Ocáriz Omelia esequiale L 8 Mons. Javier Echevarría (1932-2016) Mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, si è spento alle 21.20 di lunedì 12 dicembre 2016, festa della Madonna di Guadalupe. Papa Francesco ha telefonato alle 8 del mattino successivo al vicario generale mons. Mariano Fazio per esprimere la sua vicinanza e il suo cordoglio. Ha poi inviato un telegramma a mons. Fernando Ocáriz, Ausiliare e vicario generale, in cui ha voluto anche unirsi «al ringraziamento a Dio per la sua paterna e generosa testimonianza di vita sacerdotale ed episcopale; seguendo l’esempio di san Josemaría e del beato Álvaro del Portillo, a cui è succeduto a capo di questa famiglia, donò la sua vita in costante servizio di amore alla Chiesa e alle anime». Il prelato è stato tumulato nella cripta della chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace, in Roma, il 13 dicembre. Al funerale pubblico, giovedì 15, nella basilica di Sant’Eugenio gremita di fedeli commossi e assorti, erano presenti i cardinali Tauran, Herranz, Sarah, Mamberti, Monterisi, Pell, Re e Stafford, gli arcivescovi Fisichella, Paglia, Sciacca, Bartolucci, Lozano, Roche e i vescovi Arrieta e Carrasco de Paula. Pubblichiamo l’omelia che mons. Ocáriz ha prununciato nella cerimonia. Il Congresso elettorale in cui verrà scelto il prossimo prelato è stato convocato da mons. Ocáriz a partire dal 23 gennaio 2017. L’eletto dovrà richiedere la conferma del Santo Padre, che è colui che nomina il prelato dell'Opus Dei. e parole di Gesù che abbiamo appena ascoltato sono una meravigliosa apertura del suo cuore, nella quale Egli parla al Padre e ai suoi discepoli. Così anche noi, cristiani, siamo chiamati a parlare con Dio e con i nostri fratelli. L’evangelizzazione, l’apostolato, è proprio il frutto del rapporto d’intimità con Dio, come scrisse san Josemaría: «Il tuo apostolato dev’essere un traboccare della tua vita “al di dentro”»1. In questa celebrazione eucaristica in suffragio del vescovo e prelato dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, il vangelo porta alla mia memoria come egli cercava spontaneamente, con naturalezza, di insegnarci ad amare Cristo e gli altri. Non c’era giorno in cui non commentasse qualche brano della Liturgia della Parola o degli altri testi della Messa. Lo faceva, certo, in meditazioni o conversazioni spirituali, ma anche nella semplicità della sua vita quotidiana. Così, allo stesso tempo, pregava e invi- tava a pregare: per un viaggio del Papa, per la pace in Siria, per le vittime delle calamità naturali, per i rifugiati, per i senza lavoro, per i malati – per i quali ha sempre avuto una predilezione particolare, avendo appreso l’esempio di san Josemaría: anche se ritornava a Roma dopo un lungo viaggio, alcune volte, prima di andare a casa, si recava all’ospedale per visitare una persona malata. Tutti avevano un posto nel suo cuore. Aveva infatti imparato dal fondatore dell’Opus Dei ad «amare il mondo appassionatamente», perché, come spiegava il Santo, «nel mondo ci incontriamo con Dio, perché nelle cose e negli avvenimenti del mondo Dio ci si manifesta e ci si rivela»2. E così mons. Echevarría amava la vita reale, i fatti, le storie vere e belle della misericordia di Dio. Aveva dovuto rispondere a una sfida: quella di essere successore di due santi, san Josemaría e il beato Álvaro del Portillo. Egli era convinto di non es- Una vita al servizio della Chiesa Mons. Javier Echevarría era nato a Madrid il 14 giugno 1932. Era il minore di otto fratelli. Ha fatto i primi studi a San Sebastián, nella scuola dei padri marianisti, e ha continuato la propria formazione a Madrid nella scuola dei fratelli maristi. Nel 1948, in una residenza di studenti, ha conosciuto alcuni giovani dell’Opus Dei. L’8 settembre di quello stesso anno, sentendosi chiamato da Dio a cercare la santità nella vita ordinaria, ha chiesto l’ammissione all’Opus Dei. Ha cominciato gli studi di Giurisprudenza all’Università di Madrid e li ha continuati a Roma. Si laureò in Diritto Canonico presso la Pontificia Università di San Tommaso (1953) e in Diritto Civile presso la Pontificia Università Lateranense (1955). Ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 7 agosto 1955. Ha collaborato strettamente con san Josemaría Escrivá, del quale è stato segretario dal 1953 fino alla sua morte, nel 1975. Nel 1975, quando il beato Álvaro del Portillo è succeduto a san Josemaría, mons. Javier Echevarría è stato nominato segretario generale dell’Opus Dei e, nel 1982, vicario generale. Nel 1994, dopo la morte del beato Álvaro, è stato eletto prelato dell’Opus Dei e, il 6 gennaio 1995, nella basilica di San Pietro, ha ricevuto dalle mani di san Giovanni Paolo II l’ordinazione episcopale. Fin dall’inizio del suo ministero come prelato ha considerato prioritaria l’evangelizzazione in seno alla famiglia, alla gioventù e alla cultura. Ha promosso l’inizio stabile delle attività formative della prelatura in 16 Paesi, fra i quali Russia, Kazakistan, Sudafrica, Indonesia e Sri Lanka; ha fatto viaggi nei cinque continenti per dare impulso all’attività evangelizzatrice dei fedeli e dei cooperatori dell’Opus Dei. Ha incoraggiato l’avvio di numerose iniziative a favore degli immigrati, dei malati e degli emarginati. Seguiva con particolare attenzione vari centri di cure palliative per i malati terminali. Nei suoi viaggi di catechesi e nel suo ministero pastorale sono stati temi ricorrenti l’amore a Gesù Cristo sulla croce, l’amore frasere all’altezza. Ma, allo stesso tempo, aveva la forza spirituale e il coraggio di andare avanti, senza mai perdere la speranza, perché si sentiva come uno di quei piccoli ai quali il Signore ha rivelato il mi- terno, il servizio agli altri, l’importanza della grazia e della parola di Dio, la vita familiare e l’unione con il Papa. Proprio nella sua ultima lettera pastorale, oltre a ringraziare per l’udienza che gli aveva concesso Papa Francesco il 7 novembre, chiedeva, come sempre, di accompagnare il Papa con preghiere per la sua persona e le sue intenzioni. Ha scritto numerose lettere pastorali e parecchi libri di spiritualità. In italiano, le Edizioni Ares hanno pubblicato Itinerari di vita cristiana, Getsemani, Eucaristia e vita cristiana, Vivere la Santa Messa. La sua ultima opera è una raccolta di meditazioni sulle opere di misericordia che porta il titolo Misericordia e vita quotidiana. È stato membro della Congregazione per le Cause dei Santi e della Segnatura Apostolica. Ha partecipato ai Sinodi dei vescovi del 2001, 2005 e 2012 e a quelli dedicati all’America (1997) e all’Europa (1999). È morto a Roma il 12 dicembre 2016. stero del suo amore (cfr Mt 11, 29). Aveva conosciuto nella gioventù l’amore di Cristo. Innanzitutto, dentro il focolare domestico, poi c’è stata per lui la grande luce dell’incontro con san Jo- 9 Le esequie di mons. Javier Echevarría nella chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace, in viale Bruno Buozzi, 75, a Roma. Gruppi di fedeli rendono omaggio alla salma del prelato. L’ultimo saluto di mons. Fernando Ocáriz. La bara viene portata a spalla fino alla cripta, dove avviene l’inumazione accanto alla tomba del beato Álvaro del Portillo. semaría che gli fece scoprire ancora più profondamente la bellezza dell’amore di Cristo. Ricordava come, a quel tempo, pochi giorni dopo aver incontrato per la prima volta san Josemaría, andando in macchina con lui e alcuni altri, lo ascoltò cantare una canzone popolare di amore umano che sapeva trasportare a un àmbito divino. Diceva così: «Ho un amore che mi riempie di gioia, è questo amore la meraviglia di ogni giorno». Capì che quell’amore era l’Amore di Dio per noi, e che lo Spirito Santo infondeva nel nostro cuore l’amore per amare Dio e gli altri. «Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 30), dice Gesù, perché il giogo è l’amore: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12). La fede nella presenza amorosa di Dio 10 Quando Javier Echevarría fu ordinato sacerdote, anche se era molto giovane, la sua Messa era già diventata il centro e radice della sua vita; «fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione»3, secondo l’inseg- namento del Concilio Vaticano II. Per più di sessant’anni, mentre si rivestiva con la casula per celebrare i santi misteri, amava pregare con il cuore quell’orazione della Chiesa che ricorda la dolcezza del giogo del Signore: l’immensità della carità e della sua misericordia, rivelata in modo eccelso in Gesù morto sulla Croce e risorto per noi. Così, seguendo l’esempio e gli insegnamenti di san Josemaría, Javier Echevarría è stato un uomo dal cuore grande, capace di perdonare e di chiedere perdono. Grande amante del sacramento della Riconciliazione e della Penitenza, in cui lasciamo entrare Gesù nell’anima e sperimentiamo la «piena libertà dell’amore con cui Dio entra nella vita di ogni persona»4 come scrive il Santo Padre Francesco. Mons. Echevarría, come vicario generale della Prelatura, non ha avuto altro scopo che aiutare il beato Álvaro del Portillo nella sua missione di guidare questa piccola parte del Popolo di Dio. Poi, dopo la sua nomina come prelato da parte di san Giovanni Paolo II, non ebbe altro pensiero né ardente desiderio che quello di aiutare coloro che erano diventati suoi figli e sue figlie spirituali nel cercare veramente la santità che Dio ci vuole donare, irradiando l’amore di Dio intorno a noi, specialmente nella ricer- San Josemaría Escrivá recita il Rosario nel santuario di Nostra Signora di Luján, in Argentina, il 24 giugno 1974. Alla sua destra, il beato Álvaro del Portillo, alla sinistra, mons. Javier Echevarría. ca della santificazione del lavoro ordinario e nell’attività della vita quotidiana: nella famiglia, con gli amici, in società. Infatti, se n’è andato in Cielo pregando per la fedeltà di tutti. Il segreto di tutto ciò penso che lo possiamo scoprire nel vangelo che abbiamo letto oggi. Questo è l’orazione, la fede nella presenza amorosa di Dio, che ci fa figli del Padre in Cristo per lo Spirito Santo: «Ti benedico o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto queste cose nascoste ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25). Sì, la santità non è altro che la pienezza della carità in noi, il far fruttificare i talenti che Dio ci dà, uscire da noi stessi verso gli altri; la partecipazione alla vita di Cristo, cioè, la crescita della filiazione adottiva nell’unico ed eterno Figlio del Padre. Si potrebbe dire che dentro il cuore di mons. Echevarría aleggiava l’attesa impaziente della rivelazione dei figli di Dio alla quale si riferisce san Paolo nella Lettera ai Romani (cfr Rm 8, 19). Vorrei ringraziare i cardinali, gli arcivescovi e i vescovi, i fratelli nel sacerdozio, le religiose e i religiosi, le autorità civili, e tanti altri fedeli che hanno voluto unirsi alla nostra preghiera per mons. Echevarría, e rendere grazie con noi per questa vita tutta dedicata agli altri. Nella festa della Madonna di Guadalupe Adesso, vorrei aggiungere alcune parole, pensando specialmente ai fedeli della prelatura. Se fosse qui tra noi colui che abbiamo chiamato Padre per ben ventidue anni, sicuramente ci chiederebbe di appro- fittare di questi giorni per intensificare il nostro amore per la Chiesa e il Papa, di essere molto uniti fra di noi e con tutti i nostri fratelli in Cristo. E ripeterebbe anche ciò che era divenuto sulle sue labbra, specie negli ultimi anni sulla terra, un ritornello: voletevi bene, amatevi sempre di più! E non solo sulle sue labbra: faceva impressione vedere come voleva bene agli altri. Ricordo per esempio che il giorno prima della sua morte manifestò il suo disagio pensando di disturbare tante persone che si prendevano cura di lui. Mi venne spontaneo dirgli: «No Padre, è lei che ci sostiene tutti». Cari fratelli e sorelle, tutte le grazie ci arrivano tramite la mediazione materna di Maria. Il Padre l’amava molto. Fra tanti santuari della Madonna a cui si recò in preghiera con san Josemaría e il beato Álvaro, e poi come Prelato, c’è quello di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico. La Provvidenza ha voluto che il Padre fosse chiamato al Cielo proprio il 12 dicembre, festa della Madonna di Guadalupe. Lo stesso giorno, quando la sua salute stava peggiorando, un sacerdote gli chiese se desiderava avere un’immagine della Madonna di Guadalupe di fronte a lui; il Padre rispose che non c’era bisogno perché non riusciva a vederla. Ma aggiunse che, ad ogni modo, la sentiva molto vicina a sé. Affidiamo alla Vergine Maria, spes nostra, speranza nostra, la nostra preghiera per mons. Javier Echevarría, mentre ringraziamo il Signore per averci dato questo pastore buono e fedele. Sia lodato Gesù Cristo. Mons. Fernando Ocáriz 1 San Josemaría Escrivà, Cammino, 961. San Josemaría Escrivà, Colloqui, n. 70. 3 Concilio Vaticano II, Decreto Presbyterorum ordinis, n. 5. 4 Papa Francesco, Lettera apostolica Misericordia et Misera, n. 2. 2 11 Gianmaria Bedendo Gli Anniversari del 2017 Chi, come, dove, quando Gianmaria Bedendo, titolare di Datastorica (www.datastorica.it), ha selezionato dai suoi archivi, di secolo in secolo, gli eventi e i personaggi che verranno celebrati nel 2017. Dal 1217 al 1917 sfilano i protagonisti della storia, ricordati per data di nascita o di morte, o per loro gesta significative. Nell’anno appena iniziato, sentiremo dunque parlare di Lutero e di Federico Borromeo, dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria e di Madame de Staël, di Jane Austen, di Anthony Burges, di Carlo Cassola, di Ella Fitzgerald, di Adolfo Consolini e di tanti altri personaggi in coincidenza anagrafica. Senza dimenticare che il 1917 è stato un anno cruciale della Grande Guerra, e che quest’anno ricorre il centenario delle apparizioni della Madonna a Fatima. Novecento anni fa, esattamente il 3 gennaio 1117, un terribile terremoto colpì la pianura padana provocando oltre 30.000 morti (la popolazione italiana nel 1.100 era circa un decimo di quella attuale). La città più duramente colpita è Verona, dove perfino l’anello esterno dell’Arena fu parzialmente distrutto, lasciando solo la caratteristica «ala» che si può ancora oggi ammirare. Le scosse di assestamento durano 40 giorni e i terremoti si ripeterono il 4 giugno, l’1 luglio, l’1 ottobre e il 30 dicembre. Ottocento anni fa, il 9 aprile 1217, nella basilica romana di San Lorenzo fuori le mura, Papa Onorio III (eletto il 18 luglio 1216, approvò la Regola di san Domenico, quella di san Francesco, e l’Ordine Carmelitano) incoronò il francese Pierre de Courtenay come Imperatore dell’impero latino di Costantinopoli. 900 800 12 Settecento anni fa, il 17 febbraio 1317, morì Roberto di Francia (Roberto di Clermont), capostipite del ramo collaterale Capetingio dei Borbone. L’8 ottobre morì Fushimi, novantaduesimo imperatore del Giappone secondo il tradizionale ordine di successione. Il 24 dicembre morì il cavaliere Jean de Joinville, autore – intorno al 1299 – della biografia postuma di Luigi IX di Francia, di cui fu stretto collaboratore e principale confidente durante la settima Crociata. La sua testimonianza, resa nel 1282 al papato, portò alla canonizzazione di Luigi IX, con il nome di san Luigi dei Francesi, da parte di Papa Bonifacio VIII. Eccoci ai seicentesimi. A chiusura definitiva dello scisma avignonese, l’11 novembre 1417, dopo tre giorni di Conclave, viene eletto all’unanimità Papa Martino V, 206° pontefice della Chiesa cattolica. 700 600 Lo spaventoso terremoto del 1117 fece trentamila morti nella pianura padana. Dell’anello esterno dell’Arena di Verona rimase solo l’«Ala». Nel 1517, Lutero affisse le famose 95 Tesi. Federico Borromeo nacque nel 1617; l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, cent’anni dopo (1717). Infatti l’elezione avviene durante il Concilio convocato per risolvere lo scisma interno alla Chiesa in seguito al trasferimento della Curia da Avignone a Roma. Il 18 ottobre muore a Rimini Papa Gregorio XII, 205° Papa della Chiesa è stato il settimo pontefice a rinunciare al ministero petrino e l’ultimo prima di Benedetto XVI, 598 anni dopo. Un altro salto di 100 anni e siamo ai cinquecentesimi, quando, il 10 maggio 1517 nasce a Bologna il medico Leonardo Fioravanti per il quale, nell’arte medica, è essenziale l’esperienza, che precede lo studio teorico comunque indispensabile. Il 19 giugno muore a Roma fra Luca Bartolomeo de Paciolli, fondatore della ragioneria. Il 15 agosto avviene il primo contatto tra la Cina e l’Europa moderna. Infatti sette vascelli portoghesi comandati da Fernao Pires de Andrade, dopo aver circumnavigato l’Africa e attraversato l’Oceano Indiano, incontrano ufficiali cinesi all’estuario del Fiume delle perle, al confine con l’Annam, regione storica situata nel territorio dell’odierno Vietnam. Il 31 ottobre a Wittenberg, in Germania, Martin Lutero affigge sul portale della Schlosskirche, dedicata a tutti i santi, una serie di proposte in latino, le famose 95 Tesi, per dibattere, dal punto di vista teologico, sulla dottrina e le pratiche delle indulgenze, che incidevano negativamente sulle finanze dei poveri. Infine l’8 novembre muore a Roa, nel Nord della Spagna, il Cardinale Arcivescovo Francisco Jiménez de Cisneros. Riformatore degli ordini monastici mendicanti, inquisitore generale dell’Inquisizione spagnola, promotore delle crociate in Nordafrica, fondatore dell’Università Complutense di Madrid (Spagna), è autore della Bibbia Poliglotta Complutense, la prima edizione stampata di Bibbia multilingue della storia. 500 Scorrono altri cent’anni e arriviamo ai quattrocentesimi. Il 6 febbraio 1617, a Padova, muore il medico e botanico Prospero Alpini celebre in tutta Europa come autore del primo trattato moderno di semiotica. Il 21 marzo, a Gravesend (Inghilterra), muore Pocahontas, nativa americana, dal 5 aprile 1614 moglie dell’inglese John Rolfe, e soggetto di film e leggende. Il 4 aprile, a Edimburgo (Scozia), muore il matematico, astronomo e fisico scozzese John Napier, più noto come Nepero. Il 29 maggio, a Milano, nasce Federico Borromeo (Federico IV Borromeo conte d’Arona), creato cardinale presbitero il 22 dicembre 1670, fu Segretario di Stato della Santa Sede dal 1670 alla morte, avvenuta il 18 febbraio 1673. Il 24 agosto a Lima (Perù) muore la religiosa del terz’ordine domenicano Rosa di Santa Maria, la prima dei santi americani, beatificata il 15 aprile 1668 da Papa Clemente IX e canonizzata il 12 aprile 1671 da Papa Clemente X; è la patrona delle Filippine, dell’India e del Perù e dei giardinieri e fioristi. Infine, il 7 dicembre a Bergamo nasce il pittore e sacerdote Evaristo Baschenis, ideatore della natura morta di soggetto musicale e del prestigioso e impegnativo lavoro pittorico per la biblioteca del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia. Per quanto riguarda i trecentesimi iniziamo dal 28 febbraio quando a Edirne (l’antica Adrianopoli, in Tracia) nasce il sultano dell’Impero Ottomano Mustafa III; energico e intelligente, si impegna contro giannizzeri e imam per modernizzare l’esercito, promuove poi Accademie per la matematica, la navigazione e le scienze. Il 13 maggio a Vienna (Austria) nasce l’arciduchessa regnante Maria Teresa d’Asburgo poi – dopo la sua vittoria nella guerra di successione austriaca (1740-1748) – Imperatrice consorte del marito Francesco I, con cui fonda il casato degli 400 300 13 A sinistra, in senso orario: il critico Francesco De Sanctis è nato nel 1817. Nello stesso anno, sono morte tre celebrità: le scrittrici Madame de Staël e Jane Austen, nonché il pittore Andrea Appiani. Nel 2017 ricorre il centenario delle apparizioni della Madonna di Fatima ai tre pastorelli, Lucia, Francesco e Giacinta. Asburgo-Lorena che regna sui domini austriaci fino al 1918. Il 25 dicembre, a Cesena, nasce Giovanni Angelico Braschi, eletto al soglio pontificio con il nome di Pio VI, 249° successore di San Pietro. Eccoci ora ai bicentenari iniziando dal 15 febbraio quando a Briana (frazione di Noale, Venezia) nasce il patriota Pier Fortunato Calvi che, ufficiale dell’esercito austro-ungarico, mentre è di stanza a Venezia dal 23 marzo 1848, proclamata la Repubblica di San Marco, diventa capitano della milizia rivoluzionaria. Caduta Venezia il 22 agosto 1849, Calvi va in esilio a Patrasso (Grecia), poi a Torino dove incontra Mazzini che lo convince a tornare in Cadore con quattro compagni per riprendere la lotta contro gli austroungarici ma, tradito, viene arrestato in Val di Sole. Calvi si addossa tutte le colpe e salva i quattro compagni, mentre lui viene condannato all’impiccagione, eseguita il 4 luglio 1855 a Mantova. Il 21 febbraio a Rapallo (Genova) nasce l’imprenditore del cioccolato Domenico «Domingo» Ghirardelli, fondatore della celebre Ghirardelli Chocolate Company, che diventa un marchio di successo con esportazioni in tutto il mondo, e con un processo di produzione che diventerà il metodo comune per la preparazione del cioccolato. Il 2 marzo a San Pietroburgo (Russia) muore l’architetto e pittore Giacomo Antonio Domenico Quarenghi che, per conto di Caterina II, ha realizzato molti dei più importanti palazzi in Russia fino all’Arco di Trionfo di Narva, sulla vittoria dell’esercito russo contro Napoleone Buonaparte (1811). Il 28 marzo, a Morra Irpina (Avellino), nasce lo scrittore, critico letterario, politico, e filosofo Francesco Saverio De Sanctis, autore della celeberrima Storia della letteratura italiana. De Sanctis fu ministro della Pubblica Istruzione per quattro volte, tra il 17 marzo 1861 e il 29 maggio 200 14 1881, con l’obiettivo di armonizzare e fondere le amministrazioni scolastiche dei vari Stati prima dell’Unità. Il 6 luglio a Zurigo nasce l’anatomista e fisiologo Rudolf Albert von Koelliker il cui nome è associato al microscopio, strumento da lui usato soprattutto in istologia. Il 14 luglio a Parigi muore la scrittrice di origine svizzera Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein, più conosciuta come Madame de Staël, animatrice del suo celebre salotto culturale parigino. Il 18 luglio, a Winchester (Hampshire, Inghilterra), muore a soli 41 anni la scrittrice Jane Austen, tra le più famose al mondo. Il suo Orgoglio e pregiudizio è del 1813. L’8 novembre, a Milano, muore il pittore Andrea Appiani, protagonista del neoclassicismo in Italia. Il 27 dicembre a Roma, al teatro Argentina, prima rappresentazione dell’opera Adelaide di Borgogna di Gioacchino Rossini. Tra i centenari ricordiamo che il 27 marzo, al Grand Théâtre di Montecarlo, va in scena la prima assoluta de La Rondine di Giacomo Puccini diretta da Gino Marinuzzi. Il 13 maggio, a Fatima (Portogallo), prima apparizione della Madonna ai tre pastorelli Lucia dos Santos, Francesco Marto e Giacinta Marto; la Madonna diede appuntamento ai tre per il 13 del mese successivo, e così per altri 5 incontri. Il 13 ottobre, in seguito alla promessa fatta dalla Madonna ai tre pastorelli di Fatima riguardo a un evento prodigioso nell’ultima apparizione, molte migliaia di persone, credenti e non credenti, assistettero a un fenomeno chiamato «miracolo del sole». Molti dei presenti, anche a distanza di parecchi chilometri, raccontarono che mentre pioveva e spesse nubi ricoprivano il cielo, d’un tratto la pioggia cessò e il disco del sole, tornato visibile, ruotò intorno a un punto esterno, diventando multicolore e ingrandendosi, come per precipitare sulla terra. Il 29 maggio 100 1917: Anno cruciale per la Grande Guerra Una trattazione particolare meritano le vicende legate al secondo anno della Prima guerra mondiale. Iniziamo dal fronte italiano dove, il 10 giugno, inizia la battaglia del Monte Ortigara, che prosegue fino al 25 giugno con pesanti e inconcludenti scontri tra italiani e austro-ungarici a più di 2.000 metri d’altezza. Il 17 agosto inizia l’undicesima battaglia dell’Isonzo, proseguita fino al 31 agosto: le forze italiane si impossessano di diverse posizioni sull’altopiano della Bainsizza, senza però riuscire a sfondare il fronte austro-ungarico. Il 24 ottobre inizia la battaglia di Caporetto: gli austro-ungarici, affiancati da alcune divisioni tedesche, sfondano il fronte italiano allo sbocco della valle dell’Isonzo, fra Tolmino e Caporetto. L’8 novembre, la disfatta porta all’esonero del generale Luigi Cadorna dal comando dell’esercito italiano, sostituito con il generale Armando Diaz. Il 13 novembre, inizia la prima battaglia del Piave, proseguita fino al 26 novembre: dopo aver dilagato in Friuli e nel Veneto settentrionale, le forze austro-tedesche sono bloccate dagli italiani sulle rive del fiume Piave dopo una dura battaglia difensiva. Ma la vera svolta del 1917 è l’intervento diretto degli Stati Uniti. Il 4 aprile, il presidente Thomas Woodrow Wilson presenta al Congresso la proposta di entrare in guerra e il 6 aprile gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania. Il 18 maggio viene approvato il Selective Service Act che introduce la coscrizione militare negli Stati Uniti e già il 25 giugno le prime avanguardie dell’American Expeditionary Forces sbarcano in Francia. Infine, il 7 dicembre gli Stati Uniti dichiarano guerra all’Austria-Ungheria. Un ruolo importante riguarda la Russia (dove è in vigore il calendario giuliano e quindi gli eventi che seguono sono compresi nella Rivoluzione di febbraio, dal 23 febbraio al 2 marzo), che fin dall’inizio della guerra, con Francia e Gran Bretagna (la Triplice Intesa) combatté la Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia). L’esercito russo, nonostante il valore dei soldati, subì pesanti perdite e allo sfaldarsi dell’esercito corrispose lo sfaldarsi del regime zarista. La Repubblica Socialista Federativa Russa retta da Lenin, il 5 dicembre, firma l’armistizio con l’Impero ottomano, ponendo fine alle ostilità sul Caucaso; il 15 dicembre, sigla un gravoso armistizio con gli Imperi centrali. Sul fronte occidentale il 9 aprile gli inglesi, con truppe provenienti dai Dominion, attaccano nella zona di Arras, nel Nord della Francia, ma i tedeschi resistono e l’offensiva si conclude il 16 maggio. Anche i francesi attaccano sullo Chemis des Dames, a Brooklyn (Massachusetts, USA) nasce il 35° Presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. Il 15 giugno, lettera enciclica Humani Generis Redemptionem di papa Benedetto XV sulla pre- nell’Aisne, ma la loro offensiva parallela agli inglesi si risolve in un disastro e viene interrotta il 9 maggio con ammutinamenti e diserzioni. Il 21 luglio nuovo attacco inglese a Ypres (Fiandre, Belgio) e il 31 luglio offensiva principale per conquistare le basi di sommergibili tedeschi installate sulla costa belga, ma le forti piogge e la resistenza tedesca costringono a concludere l’attacco il 6 novembre; poi con 500 carri armati nuova offensiva inglese il 25 novembre; la battaglia si conclude il 6 dicembre ancora una volta senza successo. Passando al fronte medio orientale, il 9 gennaio dopo la battaglia di Rafa, con la vittoria britannica sugli ottomani, inizia la penetrazione della Palestina da parte delle forze alleate. Il 23 febbraio nuova vittoria britannica sugli ottomani nella seconda battaglia di Kut (Iraq) che consente la ripresa dell’avanzata verso Baghdad, che viene conquistata dalle forze britanniche l’11 marzo; poi dal 13 marzo al 23 aprile si svolge l’offensiva di Samarrah con i britannici che battono ancora gli ottomani e occupano gran parte della Mesopotamia centrale. Il 26 marzo gli ottomani vincono la prima battaglia di Gaza, respingendo il tentativo britannico di penetrare in Palestina e si ripe- L’Italia saluta l’entrata in guertono il 19 aprile nella se- ra degli Stati Uniti d’America. conda battaglia di Gaza dove, nonostante l’impiego di gas e carri armati, i britannici non riescono a fare breccia nella linea difensiva ottomana per cui il fronte della Palestina entra in una situazione di stallo. Il 6 luglio i ribelli arabi guidati da Awda Abu Tayi e dal britannico Thomas Edward Lawrence («Lawrence d’Arabia») conquistano il porto di Aqaba (Giordania) agli ottomani. Quindi l’1 e 2 novembre, la terza battaglia di Gaza con vittoria britannica che sfonda il fronte ottomano; gli Alleati dilagano nella Palestina meridionale. Poi il 2 novembre, in una lettera del ministro degli esteri Arthur Balfour, il governo britannico si dichiara favorevole alla creazione di un «focolare ebraico» in Palestina. Infine, il 17 novembre inizia la battaglia di Gerusalemme, che prosegue fino al 30 dicembre con una massiccia offensiva britannica nella Palestina centrale travolgendo gli ottomani. dicazione della Parola di Dio. Lo stesso Pontefice, l’1 agosto, rende pubblica la sua Nota di Pace, con l’appello ai governanti a porre fine, tramite una trattativa, alla «inutile strage» della guerra. Il 15 ago- 15 Nati cent’anni fa (nelle foto, dall’alto in senso orario): gli scrittori Anthony Burgess e Carlo Cassola; i cantanti Ella Fitzgerald e Dean Martin; il musicista Armando Trovajoli, l’attore Robert Mitchum; il discobolo Adolfo Consolini. sto a Ciudad Barrios (Salvador) nasce Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, arcivescovo di San Salvador ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava l’Eucaristia e proclamato beato il 23 maggio 2015 da Papa Francesco. Il 22 dicembre a Chicago (Illinois, USA) muore la religiosa e missionaria italiana naturalizzata statunitense, Francesca Saverio Cabrini, fondatrice della congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, proclamata beata il 13 novembre 1938 da Papa Pio XI e canonizzata il 7 luglio 1946 da Papa Pio XII, patrona degli emigranti dal 1950. Vediamo ora, rapidamente, nascite e morti significative cominciando dagli scrittori ed editori: il 10 gennaio, a Ostiglia (Mantova), nasce l’editore Giorgio Mondadori; il 25 febbraio, a Manchester (Inghilterra), nasce John Burgess Wilson, più noto con lo pseudonimo di Anthony Burgess; il 17 marzo, a Roma, nasce lo scrittore Carlo Cassola. Passando alla musica e allo spettacolo, il 25 aprile, a Newport News (Virginia, USA), nasce una delle migliori e più influenti cantanti jazz della storia, Ella Jane Fitzgerald; il 2 settembre, a Roma, nasce il pianista e direttore d’orchestra Armando Trovajoli; il 4 ottobre, a San Carlos (Cile), nasce la cantautrice, poetessa e pittrice Violeta del Carmen Parra Sandoval, più nota come Violeta Parra; il 21 ottobre, a Cheraw (South Carolina, USA) nasce il cantante e percussionista John Birks «Dizzy» Gillespie. Il 10 gennaio, a Le Clair (Iowa, USA), muore l’attore e cacciatore William Frederick Cody, più noto con lo pseudonimo di Buffalo Bill; il 6 febbraio, a Budapest (Ungheria), nasce l’attrice Sari Gabor, celebre con lo pseudonimo di Zsa Zsa Gabor; il 16 febbraio, a Torre Annunziata (Napoli), nasce il produttore cinematografico Luigi De Laurentis; il 21 maggio, a New Westminster (Columbia Britannica, Canada), nasce l’attore naturalizzato americano Ray- 16 mond William Stacey Burr, il Perry Mason della Tv; il 7 giugno, a Steubenville (Ohio, USA), nasce l’attore e cantante Dino Paul Crocetti, più noto come Dean Martin; il 27 luglio, a Prétot-Vicquemare (Seine Maritime, Francia), nasce l’attore, cantante e compositore André Robert Raimbourg, più famoso come Bourvil; il 6 agosto, a Bridgeport (Connecticut, USA), nasce il precursore degli antieroi nella cinematografia statunitense degli anni Cinquanta e Sessanta Robert Mitchum; il 25 agosto, a Elberon (New Jersy, USA), nasce l’attore, regista e produttore Melchor Gastón Ferrer, noto come Mel Ferrer; il 29 ottobre, a Los Angeles (California, USA), nasce l’attore e cantante naturalizzato francese Edward Constantinowsky, conosciuto però come Eddie Constantine. Tra gli sportivi, il 5 gennaio, a Costermano sul Garda (Verona), nasce il più famoso discobolo italiano, Adolfo Consolini, oro olimpico a Londra nel 1948, tre volte primatista mondiale, per 17 anni detentore del record italiano; il 20 settembre, a New York (New York, USA), nasce il mitico allenatore di basket Arnold Jacob «Red» Auerbach, 9 titoli NBA con i Boston Celtics, di cui 8 consecutivi dal 1959 al 1966, dopo il primo nel 1957; il 22 ottobre, a Chicago (Illinois, USA), muore il pugile Robert James «Bob» Fitzsimmons, il primo a conquistare i titoli mondiali in tre diverse categorie di peso; il 3 dicembre, a Caserta, il campione di ciclismo Carlo Oriani, vincitore di un Giro di Lombardia e di un Giro d’Italia, muore in seguito a polmonite per aver attraversato il Tagliamento a nuoto durante la ritirata di Caporetto, nel tentativo di salvare un commilitone; il 20 dicembre, a Plessé (Francia), muore il ciclista Lucien Georges Mazan, soprannominato Lucien Petit-Breton: vinse due volte il Tour, poi la MilanoSanremo e la Parigi-Tours, oltre a stabilire in pista il primato dell’ora. Gianmaria Bedendo PIAZZA QUADRATA di Dino Basili Diario «epocale» Vigilia. Schiamazzi sul rischio instabilità, bufale ferite, esuberi di antagonismo elettorale. Che differenza c’è tra il «clientelismo scientifico» e il voto di scambio? Populismi a tocchi e tocchetti in ogni minestra. Il Renzicottero è fermo nell’hangar dopo mesi di rimbalzi dalle Alpi all’Etna. A Palazzo Chigi raccontano che il premier-flipper annusa la rimonta del Sì al referendum costituzionale delocalizzato in plebiscito. I media definiscono «epocale» la prova. 4 dicembre. Seggi presto affollati, aria di «grande stanchezza». Dovrebbe filmarla Paolo Sorrentino, star Toni Servillo. L’edicolante chiede perché tanti Yes, Oui, Ja alla brutta riforma. Mistero. Impossibile che a Washington e altrove credano alla panzana «Italia locomotiva d’Europa». Al saluto «Come va?», l’oste strappa fogli dal giornale e li accartoccia stretti. Alza la palla di carta e, colpo di tacco, la spedisce nei rifiuti. Un amico, ex PCI puro e duro, confida la barra sul Sì col naso turato. Mica in metafora: matita nella mano destra e pressione sulle narici con la sinistra. Voto politicamente corretto o scorretto? Forse c’entra la «post verità», tema che furoreggia nei think-tank. Quanti tonf. Ore 23. Chi avrebbe scommesso l’affluenza vicina al 70 per cento? Altro che testa a testa. Clamorosa vittoria del No: circa 20 punti di scarto. Matteo Renzi non può che annunciare le dimissioni in TV. Colonna sonora? La parlantina inumidita consiglia Una lacrima sul viso di Bobby Solo. Qualche attimo e va in onda andante con residua sicumera. I talk show notturni anticipano i flussi: legnate da giovani, periferie e regioni meridionali. «Al voto, al voto!» gridano grillini e leghisti. A volte, sembrano una coppia di fatto, incapricciata dell’Aventino. 5 dicembre. Goffi «nazionalisti» sventolano tricolori davanti a Montecitorio. Dentro, scolaresche in visita e calma del lunedì. Computer accesi assicurano «mercati» tranquilli. Nel PD trame e brame sul governo. Prima «congelamento», poi «continuità». Tatticismi farlocchi: «O saliamo tutti in barca, o sbarchiamo tutti». A Palazzo Madama, per scampato pericolo, il caffè sembra più buono. Assennati propositi per affinare i regolamenti delle due Camere. Basteranno gl’insuccessi 2005 e 2016 per evitare altri timballi bruciati? 6 dicembre. Dopo la decisione della Consulta sull’Italicum, serviranno Ercole e Giobbe, Machiavelli e Freud per norme elettorali capaci di tutelare rappre- sentanza e governabilità. Tentativi di Renzistenza. Con l’orizzonte incerto, sarebbe meglio una pausa senza spot. Bagni di umiltà, mica pediluvi ipertonici. 7 dicembre. Capitan Bonus incassa il varo-sprint della manovra finanziaria sovraccarica di debito, rampogne UE, regalie referendarie (molta spesa, poca resa). Rifiuta il confronto nella squassata direzione dem. Cerca di annettersi insieme 13 milioni di Sì e la rivolta anticasta. Cavalca i suoi mille giorni di favola/e. Peccato l’assenza di crescita e il patatrac costituzionale. A sera concede le dimissioni formali e «va a casa». Una capatina, però. Deve blindare il Renzi power e organizzare la rivincita. Dubbio, esteso ai 5ST: in caduta di carisma funzionano cerchi e raggi magici? 8/11 dicembre. L’ipotesi reincarico affonda nel disincanto, «pur avendo i numeri parlamentari». Allarma l’esplosione sul Montis Pascorum: costa, eccome, il tempo perduto. Scorrono al Quirinale scenografiche consultazioni, mentre avanza dai media a passi felpati Paolo Gentiloni. Felice dell’incontro, Sergio Mattarella dà l’incarico proprio a lui. «Fedelissimo» del segretario-premier, sessantottino mite, dossier internazionali in valigia. Discontinuità? Nello stile. 12 dicembre. Mano di vernice sul governo esausto. Dodici conferme, 4 traslochi, 2 innesti sinistra dem (marca Sì). La veterana Anna Finocchiaro «baderà» alla legge elettorale. Alla «cattiva scuola» subentra Valeria Fedeli (curriculum zoppicante: maestra d’asilo, quasi diplomata, pro gender). A Vincenzo De Luca, rileggendo Jago, va di traverso la fritturina di pesce. 13/14 dicembre. Senza sorprese il voto alle Camere. «Responsabilità» è la parola-chiave di Gentiloni, che assicura impegno sulle emergenze: terremoto, lavoro, immigrazione, banche. Fotocopia, clone? Una sorta di «farmaco equivalente». Dura? «Fin quando avrà la fiducia del Parlamento». Elementare, onorevoli in attesa di vitalizio. Effemeride. Ex deputato, scelto a casaccio, è «processato» in piazza; circolano perfino «forconi» falsi. 18 dicembre. All’assemblea nazionale dem Renzi ammette di aver «straperso» il referendum, ma tira dritto. Cartocci di pop corn elettorali. Domina l’incultura del «tutto si aggiusta». Grazie a Matteo, naturalmente. Di «epocale» nulla, tranne il caos politico. E il grave errore che ha diviso e paralizzato un’Italia sempre più povera. Già rimosso, senza un’analisi seria. 17 Nicola Lecca Una fortezza trasformata Lettera da Le Landeron L in giardino a storia recente ha garantito alla Svizzera lo status di Paese neutrale per eccellenza: un luogo al di sopra della guerra, garante di pace perfino durante gli eccessi del Nazismo. Uno Stato protetto, custodito all’interno di un’irreale palla di cristallo: celebre per il benessere dei suoi abitanti e per l’imponente quantità di lingotti d’oro custoditi nei caveau delle sue banche. Eppure, in altri tempi, la Svizzera è stata teatro di guerre dure e sanguinose. Nel Medioevo, per esempio, le battaglie erano all’ordine del giorno: intere città venivano rase al suolo, ricostruite e poi distrutte di nuovo: magari a causa di capricciose dispute di confine. Le fortificazioni e gli armamenti erano le uniche difese possibili per i borghi dell’epoca che, spesso, venivano costruiti in posizione strategica e trasformati in vere e proprie roccaforti. Una di queste fu la vecchia Landiron: menzionata per la prima volta in un documento del 1209 e costruita nei pressi di un antico monastero benedettino, oggi trasformato in penitenziario. Di tutto il cantone di Neuchâtel, Landiron era – a quell’epoca – uno dei luoghi più sicuri in cui abitare: e, di conseguenza, anche uno dei più ricchi. La sua posizione, a cavallo tra due laghi, risultava eccezionalmente propizia per l’agricoltura e favorevole al commercio. Ecco perché, nonostante la sua dimensione contenuta e i suoi pochi abitanti, Landiron divenne presto capitale di un’intera baronia. La vita qui scorreva serena: al riparo da scontri, pestilenze e inondazioni. Il villaggio sembrava protet- 18 to da una qualche entità superiore: fino a che un sempre crescente numero di incendi mise a dura prova la sua proverbiale quiete. Un girotondo di case medievali Davanti alle devastazioni provocate dagli incendi, gli abitanti di Landiron non si diedero mai per vinti e, grazie alle loro tante ricchezze, ricostruirono il loro villaggio sempre più sicuro e sempre più bello. Oggi Le Landeron (il nome è cambiato nel corso dei secoli) è una spettacolare testimonianza del passato: un girotondo perfetto di case medievali isolate da ogni possibile modernità da una cintura di campi verdissimi. Una piazza lunga 180 metri e larga almeno 30, attraversata da un viale di tigli. Cento abitanti soltanto: antichi palazzi che fanno a gara per primeggiare in quanto a bellezza, facciate color pastello che si rincorrono – l’una dopo l’altra – orgogliose delle loro antiche persiane giallo, blu e rosa confetto. Un cimitero di pietra grigia, una cappella dello stesso colore. Due fontane, un orologio con la meridiana, la solenne Torre dell’Archivio e infinite tegole d’un rosso-marrone, cangiante a ogni tegola, per rendere i tetti preziosi mosaici astratti disegnati dal tempo e dal destino. Per isolare l’antico dal moderno e preservare l’incanto, la città nuova è distante: la abitano cinquemila persone soltanto, un centinaio delle quali so- La piazza con la fontana Vaillant (sec. XVI). Nella pagina accanto, la «Portette». no di origine italiana. La porta principale della città è sormontata dalla torre dell’orologio (che ospita anche una meridiana) mentre la porta secondaria – conosciuta anche con il nome di «Portette» – si trova nella parte diametralmente opposta della piazza. Di particolare eleganza, la fontana Vaillant è il simbolo della città: venne ideata dallo scultore Laurent Perroud nel XVI secolo e abbellita da guerrieri lignei riccamente bardati. Sono in molti a pensare che la loro presenza abbia un influsso benefico sul borgo e sui suoi abitanti. Le mura di cinta che proteggevano la vecchia Landiron oggi non esistono più. La pace le ha rese inutili. E così, questa perla medievale – poggiata dal destino con grazia fra le verdissime campagne di un sonnolento cantone Svizzero – non deve più la fama alla sua proverbiale inespugnabilità: ma soltanto alla propria bellezza e ai suoi tanti secoli di storia. Una bellezza assoluta, probabilmente incontestabile. Ad abitare le sue case, non sono più la contessa di Nemours, la nobile famiglia Vaumarcurs, né gli appartenenti alla confraternita di sant’Antonio. Ma sono piccoli artigiani, commercianti: e, soprattutto, antiquari che espongono le loro reliquie di passato in piccole e polverose vetrine. Da Neuchâtel a Berna con Klee & Einstein A Le Landeron non c’è più alcuna paura di attacchi nemici: nessuna guardia armata fa più la ronda notturna a lume di torcia. La pace regna. E regna la nostalgia per un passato strepitoso testimoniato in abbondanza a ogni angolo. E se questo piccolo borgo incantato, con le sue an- tiche fontane portafortuna e le sue facciate rosa pastello, non dovesse bastare a incantarvi, non molto lontano vi attende la piccola città di Neuchâtel: ricca di leggende e di misteri, amata da Napoleone – che la conquistò strappandola ai prussiani – e popolata da un centinaio di fontane rassicuranti (la più bella ospita una statua che raffigura la giustizia). Salire verso il suo castello e la chiesa della Collegiata significa incontrare scalinate strettissime in cui il sole riesce a malapena a insinuarsi. Dall’alto la città appare improvvisamente vasta e discordante con le sue aree più moderne in contrasto con il passato, gli alti e i bassi e la placidità del lago. Ma Neuchâtel non è soltanto ricca di atmosfera sognante: è anche una città universitaria votata alla cultura. Nel suo museo dell’arte e della scienza gli incredibili androidi a corda costruiti da JaquetDroz nel Settecento sono ancora capaci di scrivere intere lettere con il pennino e l’inchiostro. Ben più vicina a Le Landeron si trova la capitale della Svizzera federale. Come ogni capitale che si rispetti Berna, nel suo piccolo, è solenne e l’UNESCO ha dichiarato il suo centro storico medievale patrimonio dell’Umanità insieme alla Laguna di Venezia, alla Torre di Londra e a Su Nuraxi di Barumini. La città, avvolta in maniera piuttosto spettacolare dal fiume Aare, venne fondata nel 1191 e, durante la sua storia quasi millenaria, è rimasta spesso nell’ombra. Eppure, ci sono almeno due eventi fondamentali che la riguardano da vicino: durante il freddissimo inverno del 1879 nasce proprio a Berna il genio dell’astrattismo Paul Klee, mentre, nel 1905, in un piccolo appartamento della Kramgasse (con il bagno in cortile), lo squattrinato Albert Einstein, nonostante i suoi 26 anni, concepisce ed elabora la teoria della relatività. Nicola Lecca 19 PIAZZA SAN PIETRO Come formare i nuovi sacerdoti Si intitola «Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis»: è il documento della Congregazione per il clero – pubblicato nel giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre 2016, e uscito in allegato con L’Osservatore Romano – che aggiorna le regole del 1985 e spiega come deve essere realizzata la formazione dei seminaristi. «È necessario coltivare l’umiltà, il coraggio, il senso pratico, la magnanimità di cuore, la rettitudine nel giudizio e la discrezione, la tolleranza e la trasparenza, l’amore alla verità e l’onestà». Nel capitolo dedicato alla «formazione umana» si ricorda che il futuro prete nel cammino formativo va accompagnato in tutte le sue dimensioni, senza dimenticare la cura della «salute, l’alimentazione, l’attività motoria, il riposo». Di fondamentale importanza è che il seminarista raggiunga una «equilibrata autostima, che lo conduca ad avere consapevolezza delle proprie doti, per imparare a metterle al servizio del Popolo di Dio». Il futuro prete deve avere anche buon gusto sotto il profilo estetico e capacità di relazione: «Nella formazione umana occorre curare l’àmbito estetico, offrendo un’istruzione che permetta di conoscere le diverse manifestazioni artistiche, educando al “senso del bello”, e l’àmbito sociale, aiutando il soggetto a migliorare nella propria capacità relazionale, così che possa contribuire all’edificazione della comunità in cui vive». «Ci è sembrato che la formazione dei sacerdoti avesse bisogno di essere rilanciata, rinnovata e rimessa al centro», spiega il cardinale prefetto del dicastero, Be- 20 Il card. Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero. niamino Stella. «Siamo stati incoraggiati e illuminati dal magistero di Papa Francesco, con la spiritualità e la profezia che contraddistinguono la sua parola. Il Pontefice si è rivolto spesso ai sacerdoti, ricordando loro che il prete non è un funzionario, ma un pastore unto per il popolo di Dio, che ha il cuore compassionevole e misericordioso di Cristo per le folle affaticate e stanche». Un buon prete deve essere capace di ascoltare: «Per attuare il discernimento pastorale occorre mettere al centro lo stile evangelico dell’ascolto, che libera il pa- store dalla tentazione dell’astrattezza, del protagonismo, dell’eccessiva sicurezza di sé e di quella freddezza che lo renderebbe “un ragioniere dello spirito” invece che “un buon samaritano”». Il prete, avverte poi il documento, non deve essere un uomo «del fare»: «Il pastore impara a uscire dalle proprie certezze precostituite e non penserà al proprio ministero come a una serie di cose da fare o di norme da applicare, ma farà della propria vita il “luogo” di un accogliente ascolto di Dio e dei fratelli». Spiega ancora il cardinale Stella: «L’ultima Ratio fundamentalis risale al 1970, anche se nel 1985 c’è stato un aggiornamento. Nel frattempo, come sappiamo, soprattutto sotto l’effetto della rapida evoluzione a cui il mondo è oggigiorno soggetto, sono mutati i contesti storici, socio-culturali ed ecclesiali nei quali il sacerdote è chiamato a incarnare la missione di Cristo e della Chiesa, non senza provocare significativi cambiamenti relativi ad altri aspetti: l’immagine o visione del prete, i bisogni spirituali del popolo di Dio, le sfide della nuova evangelizzazione, i linguaggi della comunicazione, e altro ancora. Le parole e gli ammonimenti del Papa, alcuni dei quali riguardanti le tentazioni legate al denaro, all’esercizio autoritario del potere, alla rigidità legalista o alla vanagloria, ci mostrano come la cura dei sacerdoti e della loro formazione sia un aspetto fondamentale nell’azione ecclesiale di questo pontificato e debba diventarlo sempre di più per ogni vescovo e ogni Chiesa locale». Seminaristi con Papa Francesco. Seminaristi: i consigli del Papa Poveri, perché «se un sacerdote ha paura della povertà allora la sua vocazione è in pericolo». Mai protagonisti di scandali, perché «la stampa compra bene quelle notizie». Vicini alla gente, perché il sacerdote che dice la Messa e poi se ne va «fa male alla Chiesa». Zelanti, cioè pronti «ad andare in qualsiasi ora della notte da un malato per amministrare i sacramenti». Sinceri con i propri vescovi, evitando le «chiacchiere». Questo l’identikit dei sacerdoti secondo Francesco, che così si è rivolto ai seminaristi del Pontificio seminario regionale pugliese Pio XI, ricevuti in udienza il 10 dicembre 2016. «In un seminario che forma i sacerdoti alle volte ci sono problemi e sbagli. Siamo abituati a sentire gli scandali dei sacerdoti. La stampa compra bene quelle notizie. Hanno la quota alta nella borsa dei media», ha ammonito il Pontefice nel suo discorso, pronunciato interamente a braccio. Occorre «formare un sacerdote perché nella sua vita non ci sia un fallimento, perché non crolli», ma bisogna anche fare in modo che «la sua vita sia feconda», quindi «non solo che rispetti bene tutte le regole, ma che dia vita agli altri». Perché «un sacerdote che non è padre non serve». Lo dimostrano tanti parroci italiani, e «ce ne sono tanti bravi». Parlando in particolare della «vicinanza», Francesco ha riconosciuto che è una gran fatica e ci vuole pazienza, perché «il santo popolo di Dio, diciamoci la verità, stanca. Ma che cosa bella trovare un sacerdote che finisce la giornata stanco e non ha bisogno della pastiglie per andare a dormire. Che bello questa vita al totale servizio degli altri!». La preghiera davanti al tabernacolo è un pilastro fondamentale. E gli altri tre? «Vita comunitaria, studio e vita apostolica». La Bellezza conduce a Dio Ricreare «scintille di bellezza» anche dove sembrano prevalere indifferenza e bruttezza. È quanto Francesco raccomanda agli artisti nel messaggio per la XXI seduta pubblica delle Pontificie accademie. Indirizzato al cardinale Gianfranco Ravasi, responsabile del Pontificio consiglio della cultura, il testo invita a intervenire «nei contesti più degradati e imbruttiti», attraverso piccoli interventi urbanistici, architettonici e artistici, così da ridare alla realtà quotidiana «un senso di bellezza, di dignità, di decoro umano prima che urbano». «Anche nelle periferie – afferma il Pontefice – ci sono tracce di bellezza, di umanità vera, che bisogna saper cogliere e valorizzare al massimo, che vanno sostenute e incoraggiate, sviluppate e diffuse». Per questo, per esempio, «è necessario che gli edifici sacri, a cominciare dalle nuove chiese parrocchiali, soprattutto quelle collocate in contesti periferici e degradati, si propongano, pur nella loro semplicità ed essenzialità, come oasi di bellezza, di pace, di accoglienza». Le chiese, anche attraverso l’arte e l’architettura, devono favorire «l’incontro con Dio e la comunione con i fratelli e le sorelle, diventando così anche punto di riferimento per la crescita integrale di tutti gli abitanti, per uno sviluppo armonico e solidale delle comunità». «Prendersi cura delle persone, a cominciare dai più piccoli e indifesi, e dei loro legami quotidiani, significa necessariamente prendersi cura anche dell’ambiente in cui essi vivono», scrive Francesco. «Piccoli gesti, semplici azioni, piccole scintille di bellezza e di carità possono risanare, ”rammendare” un tessuto umano, oltre che urbanistico e ambientale, spesso lacerato e diviso, rappresentando una concreta alternativa all’indifferenza e al cinismo». Il Papa cita la sua enciclica Laudato si’, là dove spiega che fare attenzione alla bellezza aiuta a uscire dal pragmatismo utilitaristico, ma fa ricorso anche alle parole di Italo Calvino, che nel libro Le città invisibili del 1972, sosteneva che «le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure» e «forse tante città del nostro tempo, con i loro sobborghi desolanti, hanno lasciato molto più spazio alle paure che ai desideri e ai sogni più belli delle persone, soprattutto dei più giovani». Aldo Maria Valli 21 DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA Troppo ottimismo, troppo pessimismo Il giusto prestigio che ha raggiunto la Dottrina sociale della Chiesa (DSC), applaudita con entusiasmo all’ONU dai rappresentanti di quasi tutti i Paesi lungo ben quattro pontificati in contrasto con la sua clamorosa negazione pratica nel mondo attuale, nell’àmbito della famiglia, della pace, dei diritti umani... merita qualche riflessione. Senza mettere in dubbio la sincerità dei ripetuti applausi, solo una spiegazione mi sembra corretta: la DSC è vista in generale semplicemente come una bellissima via, il sogno di un mondo ideale. Irrealizzabile, senz’altro, come tutte le utopie, che servono affinché non ci conformiamo alle tristi realtà intorno a noi, ma non come criterio pratico di azione. E questa conclusione porta a un altro interrogativo: che cosa manca alla DSC per essere più convincente? Non solo questione di stile Le encicliche e gli altri documenti sociali pontifici si rivolgono in primo luogo ai cattolici, ma tenendo a mente quanti possono e devono dirigere in qualche modo la società. Le analisi dei problemi sociali che precedono le direttive morali da applicare di solito sono molto profonde, sia nell’aspetto sociologico sia in quello teologico, il che è lodevole benché elevi la dottrina a un livello che pochi raggiungono. D’altra parte, poiché non spetta alla Chiesa la funzione politica pratica, essa si permette soltanto di dare orientamenti molto gene- 22 rici, che servono poco agli uomini di governo e di azione. La cosa peggiora quando pretende soluzioni. Perché non ci sono. «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12, 8). Ci saranno sempre problemi sociali, uno dopo l’altro, con le inevitabili sequele, nonostante le migliori soluzioni, che a loro volta provocheranno probabilmente nuovi problemi... Problemi che bisogna affrontare, certo, ma sapendo che nessuno si risolverà definitivamente. Una medicina che si proponesse di guarire tutte le malattie non meriterebbe alcun credito. Ora, è molto frequente questa esigenza formale nei documenti sociali della Chiesa e quindi non deve sorprendere che sembrino un’utopia a molte persone di azione. La stessa Chiesa lo riconosce. «I problemi socio-economici non possono essere risolti che mediante il concorso di tutte le forme di solidarietà: solidarietà dei poveri tra loro, dei ricchi e dei poveri, dei lavoratori tra loro, degli imprenditori e dei dipendenti nell’impresa, solidarietà tra le nazioni e tra i popoli» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1941). Ma quando arriverà quel tempo beato? Oppure, più brevemente: «Non c’è soluzione alla questione sociale al di fuori del Vangelo» (CCC 1896). Ma quando lo seguiranno tutti? Ovvero: non speriamo soluzioni su questa terra; tentiamo di limitare i problemi, ma, questo sì, con impegno e pazienza. «Nessuna legislazione sarebbe in grado, da sé stessa, di dissipare i timori, i pregiudizi, le tendenze all’orgoglio e all’egoismo, che ostacola- no l’instaurarsi di società veramente fraterne. Simili comportamenti si superano solo con la carità, la quale vede in ogni uomo un “prossimo”, un fratello» (CCC 1931). E come potrebbe la Chiesa sperare che sparissero se «è impossibile che non ci siano scandali» (Lc 17, 1)? Forse si tratta solo di una questione di stile, ma è comprensibile che, di fronte a questa ottimistica aspettativa di soluzioni, la gente, cristiana o no, la ascolti come retorica, un bel discorso. La stessa DSC ci avvisa: «Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi» (CCC 407; san Giovanni Paolo II, CA 25). Tuttavia a volte sembra attendersi dal mondo una versione temporale del cielo: «La Dottrina sociale traccia le vie da percorrere verso una società riconciliata e armonizzata nella giustizia e nell’amore, anticipatrice nella storia, in modo incoativo e prefigurativo, di “nuovi cieli e terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3, 13)» (Compendio della DSC 82). D’altra parte, mentre lo stile abituale dei documenti sociali della Chiesa appare improntato a un ottimismo irrealistico quanto all’attesa di soluzioni ragionevoli, appare anche rivestito di un «irrealismo» pessimistico quando espone – ed è molto frequente – i problemi sociali causati dalla malizia umana. Ciò evidentemente non è tutta la verità. La stessa affermazione che i problemi scompaiono solo con la carità zione storica, non le conviene assumere il ruolo di giudice immacolato che dà sentenze e pretende l’applicazione dei suoi dettami. Toccando senza dubbio la coscienza di molti, questo stile accusatorio può allontanare molti altri, soprattutto quelli che sono sinceramente impegnati, e sono tantissimi, nel trovare vie di maggiore giustizia e pace. implicherebbe che tutti nascono per mancanza di carità. Ma quanti problemi sorgono da un semplice cambiamento di tecnologia o da una mancanza di adattamento legale a nuove situazioni; dalla difficoltà di prevedere tutte le conseguenze di determinate e perfino eccellenti misure politiche, economiche, finanziarie; da squilibri di popolazioni; da cause naturali, da scontri di culture; oppure per insufficienza incolpevole di formazione, di comunicazione, di organizzazione ecc. Insomma, per quella conseguenza del peccato originale che è la debolezza dell’intelligenza umana. Sarebbe ingiusto e poco realistico attribuire tutti i mali collettivi all’egoismo, all’individualismo, all’avarizia, all’ambizione di potere... Eppure è questo che sembra insinuare perfino la dedica di varie encicliche, a partire da san Giovanni XXIII, «a tutti gli uomini di buona volontà». Si vuole indicare solo che i princìpi etici della DSC non sono destinati unicamente ai fedeli, ma a tutti gli uomini, perché si tratta di norme di onestà; ma contribuisce a formare l’idea che, se ci fosse buona volontà, tutto andrebbe a posto, come se bastasse la buona volontà per trovare soluzioni e come se tutte le persone buone dovessero adottare la stessa opinione per ogni problema. È logico che molti passi di questo genere, che sembrano ridurre le questioni socio-economiche a questioni morali e considerare sufficienti le buone intenzioni per risolverle, conferiscono un aspetto utopico ai nostri documenti di fronte alle persone con scienza economica ed esperienza politica e imprenditoriale. Volendo arrivare a tutte le persone, cattoliche e non cattoliche, converrebbe pure che i documenti sociali della Chiesa tenessero presente che, se per i primi basta la loro autorità divina, per gli altri conta soltanto quella umana. È vero che la Chiesa è «esperta in umanità» perché conosce meglio di tutti la nostra natura, sia nello stato decaduto e restaurato sia nella sua massima perfezione che è Gesù Cristo; ne conosce bene anche l’eccelsa dignità, la nostra immensa debolezza e il modello assoluto di normalità: ecce homo. Ma la sapienza della Chiesa si presenta pure come espressione universale di millenni di esperienza umana, nella storia del mondo e nella sua stessa storia terrena. E, in quanto istituzione umana, non sempre ha precorso i tempi né è stata sempre esemplare. Diversamente non sarebbe umana. La santa Chiesa, la Chiesa di Dio, piena di vita e di verità, radicata da Cristo sulla terra, è composta di peccatori: appunto per vivificarli. La sua linfa divina scorre attraverso oscure e sporche radici dentro l’humus terreno. Senza detrimento della fede, della trasmissione fedelissima del deposito che le è stato affidato, quanti errori (istituzionali) commessi, quante situazioni deplorevoli, quanti problemi non ravvisati né risolti. Così, come istitu- Una rilettura della «Gaudium et spes» È interessante notare che lo stile del gran documento conciliare della DSC, la Gaudium et spes, non adotta il tono esigente e autoritario cui ci siamo riferiti. Quando tratta la funzione della Chiesa nel mondo attuale, al capitolo quarto, dichiara semplicemente che «la Chiesa, che è insieme società visibile e comunità spirituale, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena; essa è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio [...]. Perseguendo il suo proprio fine di salvezza, non solo comunica all’uomo la vita divina; essa diffonde anche in qualche modo sopra tutto il mondo la luce che questa vita divina irradia, e lo fa specialmente per il fatto che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine della umana società e conferisce al lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato». Non dice che è competente per dare la soluzione a tutti i problemi sociali; la sua funzione è molto più importante ed elevata, ma «la Chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a umanizzare di più la famiglia degli uomini e la sua storia» (40). Senza dimenticare la sua altissima soprannaturale missione, si sforza di collaborare con tutte le 23 genti nella costruzione di un mondo migliore, che faciliti il percorso di ciascuno verso il cielo. Malgrado sia madre e maestra spirituale, non si erge a maestra suprema nelle questioni di bene comune terreno; apprezza grandemente tutti i contributi, da chiunque vengano, a questo fine, ed «è persuasa che, per preparare le vie al Vangelo, il mondo può fornirle in vario modo un aiuto prezioso mediante le qualità e l’attività dei singoli o delle società che lo compongono [...]. Certo, la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d’ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa scaturiscono compiti, luce e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina [...]. Il Concilio, dunque, considera con grande rispetto tutto ciò che di vero, di buono e di giusto si trova nelle istituzioni, pur così diverse, che l’umanità si è creata e continua a crearsi» (40-42). «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali [...]. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione. Benché la Chiesa, per la virtù dello Spirito Santo, sia rimasta la sposa fedele del suo Signore [...] e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non ignora affatto che tra i suoi membri sia chierici che laici, nel corso della sua lunga storia, non sono mancati di quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E anche ai nostri giorni sa bene la Chiesa quanto distanti siano tra loro il messaggio ch’essa reca e l’umana debolezza di coloro cui è affidato il Vangelo» (43). «Come è importante per il mondo 24 che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano» (44). Potremmo dilungarci in citazioni di questo grande documento, ma sono sufficienti quelle riportate per illustrare uno stile assai più convincente di quello usato in altri testi, le cui esigenze sembreranno impossibili ai loro destinatari. Non dividere in buoni & cattivi Se la Chiesa non può offrire soluzioni pratiche per le questioni sociali, il semplice fatto di denunciarle o analizzarle è già un contributo molto utile a tutti. Tuttavia, attirerà di più se parte dal principio giusto che non mancano uomini di buona volontà, perfino eroi e martiri, che si dedicano con tutte le forze a debellarli. E ancor di più se non giudica le intenzioni collettive – che non esistono – da parte di determinati settori politici, imprenditoriali, finanziari, nazionali ecc., ma si limita a verificare che, per debolezze umane e per la complessità di determinati problemi, non sono state raggiunte ancora vie di soluzione corretta, e presenta orientamenti plausibili. Ciò che ci si attende dalla Chiesa è che sia la prima nella comprensione, compassione e speranza; non accada che, restringendo la compassione ai meno fortunati, dia l’impressione di dividere il mondo in buoni e cattivi, vittime e aguzzini, inducendo a pensare che sposa una certa lotta di classe. Forse può diventare ancora più convincente e ispiratrice, se oltre a indicare linee generiche nel trattamento dei problemi, apprezza debitamente qualsiasi progresso compiuto. Avrebbe un carattere più positivo, amabile e incoraggiante. Perché, pur essendo difficile o impossibile scoprire tutte le cause di qualunque problema socia- le, è facile discernerne un progresso o un regresso. Vediamolo per esempio in una prospettiva di libertà, che si può considerare un obiettivo centrale della DSC. In effetti, che cosa si pretende? Che tutti gli uomini godano della maggiore libertà possibile per svilupparsi e fare del bene. Non è possibile imporlo, ma è giusto facilitarlo, che inoltre è l’unica cosa che si può fare. Come non è possibile nemmeno evitare il male per quanto la società cerchi di evitarlo e, in molti casi, punirlo. La società è tanto migliore o peggiore quanto più o meno permette all’uomo di scegliere con libertà il bene che preferisce fare. Mi riferisco alla libertà di fatto, vale a dire alla possibilità reale, all’effettiva capacità di scegliere stati, situazioni e mezzi di servizio a Dio e al prossimo, perché in ciò consiste la realizzazione umana. Il vero progresso sociale si traduce in un aumento effettivo di questa libertà personale, che può crescere o essere ostacolata colpevolmente. Non esiste alcuna piattaforma fissa, l’ideale della libertà educativa, imprenditoriale, scientifica, artistica, politica, religiosa ecc. Essa potrà essere sempre maggiore o minore. Missione della DSC è apprezzare ciò che aiuta l’uomo in questo senso e indicare ciò che lo ostacola, difendendo la libertà per il bene di tutti gli aspetti della vita personale, famigliare e collettiva. E questo è di facile mediazione obiettiva e di facile comunicazione. In altri grandi problemi, come dicevo, è difficile discernere cause, effetti e rimedi; ma le mancanze di libertà di solito sono evidenti, concrete e superabili a breve e medio termine. La DSC sarebbe in questo modo più incisiva e credibile; non darebbe quell’impressione di dividere il mondo in buoni e cattivi, né di rinviare a un futuro paradisiaco la risoluzione di tutti i problemi sociali. Hugo de Azevedo Traduzione di Michele Dolz CATECHESI/2 I primi tre Comandamenti Pubblichiamo la seconda puntata delle catechesi svolte nella primavera del 2012, circa sei mesi prima della sua inattesa morte, da don Valentino Guglielmi, presso la Residenza Universitaria Pontenavi, di Verona. Nel numero dello scorso dicembre (p. 844) era stata pubblicata l’introduzione generale a questa catechesi, da cui traspaiono l’afflato pastorale e la sicura dottrina dell’autore. Seguiranno altre due puntate. Gesù ci dice nel Vangelo: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». È interessante notare come la verità sia adaequatio rei et intellectus, e che l’intelletto contiene tutta la persona e la realtà. Papa Wojtyla affermava: «È nella risposta all’appello di Dio contenuto nell’essere delle cose che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità», ogni uomo deve dare questa risposta nella quale consiste il culmine della sua umanità, nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo, quindi nel rapporto con la verità noi realizziamo l’unicità della nostra persona. Non è mai stato detto che la verità sia adaequatio intellectus et legis, non è l’adeguamento dell’intelligenza alla legge, la verità è un’altra cosa. «Io sono il Signore Dio tuo» Ora il primo comandamento recita «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me». Un giorno – ero parroco da poco – è venuta da me una signora che aveva un figlio chierichetto un po’ grandicello e mi ha detto: «Mio figlio mi ha detto: “Io non ti ho chiesto di mettermi al mondo”. Che cosa potevo rispondere? In effetti era vero!». Da questo semplice episodio si possono ri- cavare delle osservazioni quanto mai interessanti. Noi non abbiamo fatto nulla per venire al mondo, non l’abbiamo chiesto e non l’abbiamo nemmeno potuto desiderare. Questa osservazione elementare ci fa riflettere: che cosa vuol dire essere figli? Che cosa vuol dire essere il Creatore o essere procreatori come siete voi? Io non ho scelto di venire al mondo, non l’ho chiesto, non l’ho desiderato; i miei genitori hanno desiderato un figlio e non sapevano niente di me finché non mi hanno visto, Dio ha voluto me e mi ha chiamato all’esistenza attraverso il gesto d’amore dei miei genitori e mi ha dato l’esistenza donandomi a me stesso. Ciò mi fa capire che la mia libertà è una libertà da figlio, che manca il primo atto che non ho posto io. Siccome quello che c’è dentro di me non l’hanno messo tutto i miei genitori, mi sono accorto abbastanza presto che c’era qualcosa in me di cui mia mamma non era più in grado di rispondere. Appare abbastanza evidente che come ci sono voluti un uomo e una donna capaci di generare, così ci sarebbe dovuto essere qualcuno capace di fare ciò che non era nella competenza dei miei genitori e da qui nasce il senso del primo e del quarto comandamento: «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me». Questo mio rapporto con Dio non è un rapporto di semplice creatura, come potrebbe essere per le piante o gli animali, la diversità è data dalla mia stessa natura, sono consapevole di me stesso, sono responsabile di me stesso. C’è una differenza tra l’essere creatura e l’essere figlio, che è una condizione assolutamente unica. È interessante sottolineare ciò che san Josemaría Escrivá ha recepito come esperienza esistenziale e ha trasmesso ai suoi figli spirituali: siamo figli di Dio. Penso vi sia noto quell’episodio in cui un sacerdote dell’Opera stava predicando una meditazione e ha detto che il fondamento dello spirito dell’Opus Dei è l’umiltà; san Josemaría, che era presente, lo ha interrotto dicendo: «No, figlio mio, il fondamento dello spirito dell’Opus Dei è la filiazione divina». Essere figli vuol dire che l’atto misterioso della mia nascita è nascosto nell’amore coniugale dei miei genitori ed è nascosto nel mistero di Dio. Per insistere su questo concetto, nel libro delle Confessioni sant’Agostino, parlando della creazione, scrive: Dio, riferendosi ai vegetali e agli animali, ha dato ordine che si moltiplicassero secondo la loro specie: dell’uomo non dice così, dice che l’ha fatto a sua immagine e somiglianza. Per questo motivo si può dire che non esiste la specie umana. Dal punto di vista biologico l’uomo appartiene ai mammiferi, ma le persone prese singolarmente non appartengono a una specie perché ciascuna costituisce una unicità. La specie raggruppa elementi uguali tra di loro, ma noi non siamo uguali tra di noi se 25 non nella dimensione biologica, e quindi come persone non siamo uguali a nessuno. Questa considerazione riguarda me e tutte le persone. Se Dio mi ha fatto a sua immagine e somiglianza, cioè mi ha fatto unico, ha fatto unici tutti i miei simili e per questo nel Nuovo Testamento il precetto dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo sono intimamente congiunti e danno le coordinate per il nostro percorso nella vita terrena per aprirsi poi nella vita futura. Che cosa vuol dire amare Dio sopra tutte le cose? Mi pare sia sant’Agostino ad affermare che l’amore a Dio è il primo nell’intenzione e l’ultimo che si raggiunge. Se ho Roma come meta del mio andare, Roma è la prima cosa che ho nel cuore però devo attraversare parecchie zone prima di arrivarvi. Quindi amare Dio vuol dire cercarlo, infatti quando si ama una persona, quando avete intravisto quella persona che poi è diventata vostra moglie, vi siete posti in cuore il proposito di cercarla, di raggiungerla. Amare vuol dire anche desiderare; ora, come facciamo noi a cercare Dio? Dove lo cerchiamo? Se voglio andare a Roma mi servirò delle carte geografiche, proverò a studiare le mappe, le quali sono fatte di simboli, e studiando le mappe programmo il mio viaggio. Poi però metto le mappe nella borsa, affronto la strada e mi metto in viaggio. Altrimenti se sto seduto al bar a discutere sulle mappe di certo non arriverò a Roma. Per questo san Paolo dice «la scienza gonfia». È antipatico avere il ventre gonfio, per questo non so se avete mai notato che il Credo che recitiamo nella messa è detto Simbolo; vuol dire che in qualche misura costituisce la mappa per raggiungere un traguardo, e non si va da nessuna parte se ci si limita a discutere sulle mappe. Con questo non voglio diminuire il valore delle mappe, però una cosa è stare con la testa sulle mappe un’altra cosa è stare con i piedi sulla strada. 26 Allora come procedo per camminare verso Dio, per cercarlo? Lo cercherò nelle situazioni concrete nelle quali mi imbatto. Ritengo di una chiarezza e di una profondità straordinaria quel testo di san Giovanni Paolo II che ho proposto in precedenza. «È nel dare risposta all’appello di Dio che lo chiama nell’essere delle cose che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità». Vuol dire che l’essere delle cose per voi ha nome e cognome, quello di vostra moglie e poi i vostri figli e ancora le altre persone che conoscete, essendo chiaro che i rapporti con ciascuna persona non sono uguali, ma differiscono secondo la persona di cui si tratti. Il percorso per andare a Dio è nel rapporto con le cose, con la produzione, con il denaro conseguente, con gli accidenti che intervengono nella nostra vita. Nel nostro rapporto con Dio, noi ci troviamo come Maria Maddalena nella mattina di Pasqua a conversare con Gesù davanti al sepolcro. La parola che le era stata rivolta era: «Non aver paura». In quella conversazione tra lei e Gesù risorto è interposta la morte, Gesù stava al di là, lei invece al di qua esattamente come avviene per ciascuno di noi. Quando noi riceviamo Gesù nell’Eucaristia ci incontriamo nel modo più intimo e personale con il Risorto. Ma, sebbene ci sia un incontro tanto intimo come mangiare il suo corpo, tra noi e Lui c’è di mezzo la morte, è un tratto del nostro percorso verso Dio e, se il pensiero della morte mette paura a ciascuno di noi, quell’amicizia con Gesù, cercare il suo volto di Risorto, dovrebbe farci quantomeno diminuire il timore della morte. Nel dialogo con Gesù andiamo, in qualche misura, metabolizzando il rafforzamento della fede in Lui. Ora, in tutto questo discorso conviene mettere in evidenza la condizione di mistero. Ricordo di aver ascoltato il cardinal Tonini affermare che il mistero è una cosa non misurabi- le nascosto in cosa piccola. La capacità di amore che è racchiusa nel nostro cuore è qualcosa di misterioso, è qualcosa di più grande di quel che sembra guardandoci allo specchio. Così la capacità di voler bene alle persone non è limitata da motivi d’interesse, ma va al di là. Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. La capacità di comunicare con vostra moglie, con i vostri figli, con i vostri amici, costituisce un piccolo assaggio della felicità eterna del cielo, là dove la visione beatifica di Dio, che non riusciamo a figurarci perché va oltre alle nostre capacità di pensare, non sarà la sola felicità, ma andrà unita alla comunicazione, in Dio, con i nostri simili, in particolare con le persone a noi più vicine. Per questo vale la pena di cercare la presenza di Dio nelle sue creature e in particolare nelle persone. «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me» vuol dire proprio questo. Prendendo il Catechismo della Chiesa Cattolica, che cosa proibisce Dio quando comanda «non avrai altri dèi fuori di me»? Proibisce il politeismo e l’idolatria che divinizza una creatura, il potere, il denaro, perfino il demonio. Noi cercando Dio non solo non disprezziamo le sue creature, ma viviamo dentro al creato godendo di tutto quello che Dio ha posto in essere con rendimento di grazie. Idolatria è quando trasformiamo in divinità una creatura, o il denaro, o il possesso, o il piacere. È bene ricordare che il denaro va indicato tra i beni della terra, non è male in sé. Così la felicità, la gioia dell’amore coniugale, non sanno di zolfo come se le avesse inventate il diavolo. Anche il piacere viene da Dio. Il fatto di non idolatrare il piacere, il denaro, non comporta il disprezzo di queste cose, che possono anzi diventare una strada che porta a Dio. C’è poi il culto del nostro io, che è peggiore della sensualità e dell’avarizia e porta a giudicare. «Non giudicate e non sarete giudicati». C’è poi la superstizione, che è una deviazione del culto che si deve a Dio, si esprime nella magia, nella stregoneria e nello spiritismo. Possiamo dire una cosa sugli oroscopi: c’è una spiegazione dei Padri della Chiesa, mi pare san Zeno, che dice che ciascuno di noi è nato sotto un segno zodiacale e non demonizza questa cosa. Può essere che il segno sotto cui siamo nati segni qualcosa del nostro destino? Noi siamo nati sotto il segno della Croce che è più forte degli altri dodici: vuol dire che nella capacità di amore noi dobbiamo saperci elevare sopra il destino, approfittando anche degli aspetti negativi, delle contrarietà, delle fatiche, delle sofferenze, per amare un po’ di più. Come amava dire san Josemaría, la Croce è il segno più, perché Gesù ci ha redenti sopravanzando il male con l’abbondanza del bene. L’irreligione, si esprime nel tentare Dio con parole o atti, nel sacrilegio che profana persone o cose, soprattutto l’Eucaristia, nella simonia che è la volontà di acquistare o vendere le realtà spirituali. L’ateismo, che nega l’esistenza di Dio, si giustifica con una falsa spiegazione dell’autonomia umana. Noi dobbiamo sempre ricordare che l’esistenza di Dio come Creatore e Padre è in stretto rapporto speculare con me. Vuol dire che se io sono disposto a inginocchiarmi riconoscerò facilmente la presenza di Dio nelle cose, se ho della rigidità nelle ginocchia – nel senso figurato del termine – non volendo inginocchiarmi, mi convincerò che Dio non c’è e mi potrò dichiarare orfano e farmi dio a me stesso. È chiaro che di fronte all’alternativa ciascuno di noi è arbitro di sé stesso, per questo è interessante non sottovalutare il problema, ma tenerlo vivo, ricordando che la ricerca di Dio non si risolve esclusivamente sulla base razionale, ma sulla disponibilità ad accoglierlo nella nostra vita. L’agnosticismo, secondo il quale nulla si può sapere su Dio, comprende l’indifferentismo e l’ateismo pratico. La ricerca dell’esistenza di Dio credo non si risolva esclusivamente percorrendo la via razionale. San Tommaso non propone cinque prove dell’esistenza di Dio, ma cinque vie per cercare Dio; non è un problema teorico come se si trattasse di geometria o di logica, ma si tratta di una decisione personale: sei disposto a metterti in strada per cercarlo? Tante volte è Lui che ci indirizza per una strada o che ne interrompe una sbagliata, com’è apparso in modo emblematico sulla via di Damasco per interrompere la strada di Paolo. Quindi credo che non diremo mai abbastanza che la cosa ci coinvolga in modo esistenziale e non esclusivamente razionale. E qual è la medicina da contrapporre all’ateismo pratico? Credo che una risposta radicale vada cercata nel ruolo dei genitori, i quali dovrebbero lasciar trasparire l’amore di Dio verso i figli attraverso il loro amore. Penso che uno degli errori più comuni che nascondono una verità è che i genitori dovrebbero capire che l’agente che educa i figli non è il papà, non è la mamma, ma l’amore coniugale. I genitori devono capire che cosa vuol dire essere procreatori, in questo modo sproneranno progressivamente i loro figli a riconoscere Dio. Ma sembra che nelle famiglie ci sia molto amore possessivo che rischia di creare scompensi all’interno della famiglia stessa. Quando si tratta di affrontare l’ateismo delle persone grandi, credo che l’amicizia sia il veicolo. Amicizia nella quale bisognerebbe «scendere dall’alto». Nella parabola, il samaritano che passa vicino al malcapitato che è stato bastonato e derubato si è reso vicino, è sceso dalla sua cavalcatura; noi a volte restiamo sul cavallo, buttiamo una moneta al mendicante che c’è lì affianco. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo dice che ognuno deve considerare gli altri superiori a sé. Vuol dire che siccome Dio ha donato sé stesso al mio interlocutore, c’è in lui qualcosa che in me manca, e porgendo la mia attenzione all’interlocutore, vedendo di imparare questa sua unicità, non ergendomi a maestro, si può stabilire un’amicizia, un contatto vero. C’è un passaggio interessante nel libro di Geremia, facile da ricordare – 31, 31 – che è ripreso nella Lettera agli Ebrei, capitolo ottavo: «Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: Conosci il Signore! Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro». Pare che la cosa apra a una prospettiva ampia, profonda: nei rapporti personali e nella vita futura, nella comunicazione con le persone che ho conosciuto che ho amato, sarà parte integrante della felicità eterna. «Non nominare il nome di Dio invano» «Non nominare il nome di Dio invano». Quando noi veniamo al mondo non siamo né peggiori né migliori di nessuno, siamo uno tra i miliardi di esseri umani che vengono alla luce. I nostri genitori ci danno un nome per un’identificazione approssimativa e provvisoria: la mia identità mi sarà rivelata alla fine. C’è un’identità che si andrà componendo, data in modo potenziale e della quale io vado prendendo consapevolezza progressivamente; come dice la Centesimus annus, se noi progrediamo nel dare risposta a Dio, che ci chiama nell’essere delle cose, dovremmo sentir crescere la consapevolezza di noi stessi. Se infatti io cresco, mi accorgo che il panorama intorno a me cambia. Per esempio, se io mi infilo in una valle delle Dolomiti, mi accorgo che man mano che procedo il panorama cambia; se non cambia vuol dire che sono fermo e non procedo. Per questo noi andiamo alla ricerca del no- 27 me di Dio, cioè della sua natura, del suo mistero rispondendo al suo appello che ci chiama nell’essere delle cose e ci andiamo avvicinando a Lui, migliorando la nostra conoscenza. Ora la parola Dio, Zeus, Theos, è una parola piuttosto generica e fa riferimento al sole; nella Sacra Scrittura c’è un episodio celebre nel libro dell’Esodo quando Dio manifesta il suo nome a Mosè: «Io sono colui che sono». Nell’accezione della filosofia greca fa riferimento all’essere, che è il fondamento della conoscenza ed è un nome che svela e copre un nome, che manifesta e nasconde. Ma noi abbiamo conosciuto più concretamente il nome di Dio quando Gesù ce lo ha rivelato. Il volto di Gesù, la sua Persona, manifesta il mistero di Dio che ci è rivelato come Amore. È il circolo formidabile di comunione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Dio è il Padre del Signore Gesù; da Lui procede il Verbo eterno e dall’uno e dall’altro è spirato lo Spirito Santo. È molto interessante quanto proposto nella celebre icona della Santissima Trinità del monaco russo Rublëv (1360-1430), in cui sono raffigurate tre persone in forma di angeli seduti intorno a un tavolo sul quale è irraggiato l’agnello immolato dato loro in cibo e sullo sfondo si nota la montagna, l’albero e la tenda. Quei tre personaggi fanno riferimento all’episodio raccontato nella Genesi quando Abramo li ha avuti suoi ospiti nella sua tenda alle querce di Mamre. Nell’icona i tre sono dipinti in modo tale che sembrano convergere non solo con lo sguardo, ma anche con la postura del corpo sull’agnello immolato. Vuol dire che il nome di Dio ci è rivelato nel volto del Signore Gesù Cristo. Potremmo fare una considerazione a questo proposito: nella religiosità greca si distinguono gli dèi dal destino. Gli dèi avevano una raffigurazione antropomorfa, come uomini o donne felici, bea- 28 ti, ma non erano superiori al destino. Soprattutto la tragedia greca metteva in evidenza l’ineluttabilità del destino, per cui si può vedere come l’onnipotenza della divinità fosse relegata al destino, l’entità priva di volto; pertanto non era mai possibile rivolgersi a lui o aspettarsi che si rivolgesse a noi. Due cose che funzionano come un rullo compressore che non guarda in faccia a niente e nessuno. Mentre il volto della divinità era frazionato in molti dèi, l’onnipotenza e la trattabilità erano sparite l’una nel destino, l’altra negli dèi dell’Olimpo. Quello che appare nell’incarnazione del Figlio di Dio, l’onnipotenza e il volto, sono identificati nella stessa identica persona di Gesù, che è il volto del Padre onnipotente al quale ci si può rivolgere e da cui sappiamo di essere guardati. Quando diciamo «onnipotenza» non diciamo la parola più adatta a esprimere la divinità, perché la parola più adatta è «amore». Un amore assolutamente totale, che vincola il Figlio al Padre e lo Spirito Santo a entrambi, essendo sempre evidente l’uguaglianza di tre persone uguali e distinte e vincolate l’una all’altra con amore totale, ciascuna versata totalmente nelle altre due: per questo Dio è amore. Il nome di Dio è misterioso com’è misterioso l’amore. Noi cerchiamo il volto di Dio nel volto di Gesù Cristo, riuscendo a renderci conto che possiamo rodere qualcosa al mistero mettendolo in parole. Quando vi siete innamorati, vi siete resi conto che non c’erano parole per dire l’emozione provata nell’esperienza dell’amore, però c’era il desiderio di trovarle per esprimere il sentimento. Le parole sono come il respiro, mentre le cerchiamo riempiono i polmoni, quando le diciamo svuotano i polmoni; quindi le parole svelano e coprono, riempiono e svuotano; così anche le parole che usiamo per parlare di Dio o, meglio ancora, per parlare con Dio, hanno questa caratteri- stica: fanno conoscere e nascondere, e perciò non possiamo mai smettere di cercare le parole e mai accontentarci di quelle che abbiamo trovato, come non ci si può ripetere nell’amore. Mi piace ricordare nel corso per fidanzati: lui e lei fanno una passeggiata romantica sulla riva del lago e lei chiede a lui «Mi ami?», se si sentisse rispondere «Te l’ho detto già ieri che ti amo»... uno così bisognerebbe spingerlo nel lago. La ricerca del nome di Dio ha questa caratteristica. È chiaro che gli dobbiamo il massimo rispetto, non offenderlo, non usarlo invano, come non vi piacerebbe sentire il nome di vostra moglie o dei vostri figli storpiato, o offeso. Si tratta non semplicemente di un’osservanza esteriore, ma di un’attenzione di interesse, audace e umile, perché è l’umiltà che dà audacia. Se io sono con i piedi su un trabiccolo per farmi vedere, per mettermi in alto, basta un urto per farmi franare; se metto i piedi per terra certamente sono più sicuro e posso con i piedi avanzare là dove desidero andare. Penso che questo basti sul secondo comandamento: non nominare il nome di Dio invano. «Santificare le feste» Passiamo al terzo: «Ricordati di santificare le feste». La cosa consiste sostanzialmente nel riposo: come Dio si è riposato il settimo giorno, così il settimo giorno è dedicato al riposo. Per noi cristiani il riposo si concretizza nella partecipazione all’Eucaristia. Naturalmente si può entrare nel discorso da diverse parti, io provo a entrarci attraverso la porta della conoscenza. San Tommaso d’Aquino spiega che noi abbiamo due modi di conoscere: uno è il modo discorsivo che consiste nella deduzione da una proposizione a un’altra al cuore della logica. Un po’ come avviene nei libri gialli che, partendo dagli indizi più o meno labili, per via di logica si arriva all’autore del fatto. È un modo imperfetto di conoscere, ma indispensabile, data la limitatezza della nostra capacità di conoscenza, è un modo di scorrere da una frase a un’altra per realizzare un punto di chiarezza. L’altro è il modo di semplice visione, cioè mangiare qualcosa con gli occhi. Potete fare riferimento a quanto vi piace guardare negli occhi vostra moglie o i figli, o quello che è bello da vedere. Per fare questo occorre «perdere» tempo: ecco il senso del riposo. In questo modo si realizza quella conoscenza di semplice visione che completa quanto manca alla conoscenza discorsiva per ragionamento. Il riposo festivo è motivato dalla necessità che abbiamo di fermarci per permettere che la luce, che viene dall’essere delle cose, si imprima sul fondo del nostro cuore. Per questo il terzo comandamento dice: ricordati di santificare le feste, per poter godere la bellezza delle cose e poter conversare amabilmente con le persone della propria vita, a partire dalla famiglia; a questo serve il riposo festivo. Noi, nel conoscere, vediamo come in uno specchio e a me pare che lo specchio possa indicare quella sorta di stagno che c’è nel fondo del nostro cuore. Quello che entra in noi attraverso la percezione sensibile lo vediamo riflesso in quello stagno, se lo stagno ha dentro delle cose organiche che fermentano avrà la superficie continuamente increspata o in ebollizione; è chiaro che finché l’acqua dello stagno è agitata, quello che vedo lo vedo deformato. È la stessa cosa che avveniva nella macchina fotografica di una volta, quella dotata di pellicola: se prendo la pellicola e la stropiccio e poi faccio una foto il ritratto risulta deforme. Per questo ho la necessità del riposo, un tempo per rimettere in ordine tutto quello che ho lasciato fuori posto durante il lavoro della settimana, per dedicarmi alla perdita di tempo Andrej Rublëv (1360-1430): icona della Santissima Trinità. per chiacchierare passeggiando con la moglie, i figli, gli amici, affinché fioriscano dal cuore parole che di solito non si ha il tempo di pensare e di dire. La festa è appunto staccare la cinghia dell’urgenza dei lavori quotidiani perché l’anima si riposi e possa raccontare a sé stessa tutto quello che vede di bello. Il terzo comandamento è fondato su questa necessità, conviene sempre ricordare che i comandamenti che si leggono nella Torah sono legge positiva, cioè legge emanata da chi ha autorità di essere legislatore, ma prima di essere legge positiva è legge naturale, la quale non è scritta da qualche parte, misteriosa, ma fa capire quali siano le necessità e la configurazione del nostro cuore. Questa necessità del riposo nasce dalla condizione del nostro vivere per la quale, come dicevo, abbiamo due modi di conoscere, quello discorsivo e quello di semplice vi- sione. Ricordiamo che nella dottrina cristiana la felicità eterna è chiamata visione beatifica: cioè la felicità è data dalla bellezza che è a disposizione dei nostri occhi. Penso di aver dato in modo abbastanza semplice un commento al terzo comandamento. Certo, riposare non è girarsi i pollici, ma dedicare tempo alla contemplazione per rigenerare il nostro cuore. Se poi, per le condizioni personali o di lavoro, si è costretti a eseguire una qualche attività lavorativa, si farà di necessità virtù. Il comandamento non obbliga oltre le proprie possibilità, in quanto legge positiva. «Perdere tempo», oltre al riposo, vuol dire fermarsi a pregare (e non solo nei giorni festivi), trovare il modo di parlare con Dio. La legge positiva non va contro le nostre motivazioni di forza maggiore. Valentino Guglielmi 29 MARIOLOGIA Fontanelle, Lourdes italiana «Tra i pellegrini di Fontanelle che sogna di essere la Lourdes italiana»: con questo titolo Vittorio Messori ha raccontato sul Corriere della Sera del 30 novembre scorso la mariofania di Montichiari, traendo lo spunto dalla pubblicazione dei Diari della veggente Pierina Gilli (pp. 720, euro 18), recentemente editi dalle Edizioni Ares per la cura del caporedattore di Studi cattolici Riccardo Caniato. Commentando su Radio Maria l’articolo di Messori – che riproduciamo di seguito per intero a beneficio anche dei nostri lettori –, il direttore, padre Livio Fanzaga, ha collocato quella di Montichiari e Fontanelle tra le manifestazioni mariane più importanti non solo del secolo scorso, ma di sempre. Peregrinatio alle Fontanelle di Montichiari. C’è, nella Bassa bresciana, un luogo isolato in mezzo ai campi, sconosciuto anche alla maggioranza dei lombardi eppure noto e venerato in Asia, in Africa, in America Latina. Per venirvi a pregare, si organizzano pellegrinaggi da quei luoghi remoti, dove si costruiscono persino santuari alla Madonna che lì sarebbe apparsa e si fondano congregazioni religiose in suo onore. Sembra che ora – dopo decine di anni durante i quali quel luogo internazionale di culto cattolico ufficialmente non esisteva per la Chiesa – le cose si stiano sbloccando e le autorità ecclesiastiche si stiano aprendo alla fiducia. È una storia singolare che merita di essere raccontata. Venendo dal Garda e andando ver- 30 so Sud Ovest, dopo un quindici chilometri si attraversa Montichiari, uno dei Comuni italiani con il reddito più alto. Proseguendo lungo la provinciale verso Asola, dopo quattro chilometri un piccolo cartello turistico (quelli marrone con la scritta bianca) indica, rivolto a una strada secondaria in mezzo ai campi: «Località Fontanelle». Qualche centinaio di metri e si intravede una sorta di capannone in ferro e vetro, seminascosto in un affossamento del terreno. Accanto, due piccole costruzioni, un giardino con molte panche e poco d’altro. Colpiscono subito, però, i grandi parcheggi: sembrano del tutto sproporzionati rispetto all’isolamento del luogo ma, in realtà, sono sempre pieni, se non strapieni, di pullmann e di auto. Molte le targhe straniere. Sino a un paio di mesi fa, il parcheggio non era mai vuoto neppure di notte, ma ora si è stati costretti a chiudere il capannone dalla tarda serata all’alba. E non a causa dei ladri (nulla di prezioso c’è da rubare qui) bensì dei vandali. Entrando nella struttura, all’ingresso si trovano rubinetti per bere e detergersi il volto coll’acqua che sarebbe stata benedetta dalla Madonna. All’interno, una piccola chiesa, con una minuscola piscina con acqua alta 20 centimetri, dove uomini e donne percorrono un cerchio parecchie volte, pregando. Contro la parete, una grande quantità di ex voto che parlano di una grazia ricevuta. Tutto qui, per ora. Ma se ciò che è avvenuto in questo luogo ha davvero una origine soprannaturale, qui sorgerà una grande basilica con cinque cupole e queste sconosciute Fontanelle diverranno, per fama e frequentazione, la Lourdes italiana. Parola della Madonna stessa. Già ora è impressionante la diffusione che – discretamente e silenziosamente – ha avuto e ha nel mondo intero il culto di «Maria Rosa Mistica e Madre della Chiesa» che proprio qui ha avuto inizio e ha il suo centro. Tutto comincia nel 1946, con una prima serie di apparizioni, nel duomo di Montichiari, a Pierina Gilli (1911-1991), figlia di contadini del luogo, di poca istruzione a causa delle miseria e divenuta inserviente dell’ospedale. La Madonna pronuncia tre parole programmatiche che, negli anni, saranno seguite da tante altre: «Preghiera. Sacrificio. Penitenza». È accompagnata da santa Maria Crocifissa di Rosa, vissuta nella prima metà dell’Ottocento, fondatrice delle Suore Ancelle della Carità, che sarà presente sia prima sia durante alcune delle molte apparizioni che seguiranno. Dal 1966, per desiderio esplicito della Madonna, le apparizioni non avverranno più in una chiesa, ma in piena campagna, sempre nel comune di Montichiari, nella località attuale, detta «Fontanelle» da alcune sorgenti che vi sgorgano . Gli incontri tra Pierina e Maria dureranno sino agli anni Ottanta, richiamando sempre più persone, prima del luogo, poi di altre zone italiane, poi di Paesi europei e infine di ogni continente. Un’espansione del culto che ha dell’inspiegabile: spontanea, senza alcuna propaganda, eppure inarrestabile e in continua ascesa. La novità dei Diari della veggente Come sempre, e come suo dovere, la diocesi del luogo, in questo caso Brescia, nel 1946 si astenne da un giudizio sui fatti e costituì una Commissione di inchiesta. Questa compì, per due anni, un lavoro discontinuo e, pare, poco oggettivo a causa di membri che, senza approfondire, pensarono a una visionaria. Alla fine, comunque, non si decise per un definitivo «Consta la non soprannaturalità dei fatti» bensì un sospensivo «Non consta (allo stato attuale) la soprannaturalità». Tuttavia, l’indagine fu svolta sulla prima fase delle apparizioni, quelle a Montichiari, ma non si indagò mai sulla seconda fase, a Fontanelle. Sta di fatto che un gruppo di laici, convinti che Pierina dicesse la verità e che fosse grave ignorare messaggi dal Cielo, in questi decenni si è adoperato per il caso, con tenacia, ma anche con grande rispetto e indiscussa ortodossia. Di fronte all’afflusso crescente da tutto il mondo, il vescovo Giulio Sanguineti, presule di Brescia dal 1998 al 2007, non formò nuove commissioni, ma autorizzò alle Fontanelle il culto a Maria Rosa Mistica, purché non si facesse riferimento alle apparizioni. L’attuale vescovo, mons. Luciano Monari, non ha solo confermato il suo predecessore, ma ha istituito una Fondazione dove convivono sacerdoti della Curia bresciana e devoti laici. Le cose, sembra proprio, andranno oltre, anche perché le Edizioni Ares hanno pubblicato, in un volume di 700 pagine, i Diari inediti di Pierina Gilli, curati da Riccardo Il messaggio: la crisi della fede Il volume Diari di Pierina Gilli, curato da Riccardo Caniato (Ares, pp. 720 con inserto a colori, Milano 2016, euro 18), riporta nella prima parte gli scritti finora inediti della veggente di Montichiari e Fontanelle che danno conto sia di due cicli di apparizioni della Madonna «Rosa Mistica e Madre della Chiesa» con messaggio pubblico sia delle rivelazioni private (con apparizioni anche del Signore Gesù, che imprime alla Gilli alcuni segni esteriori e interni della Passione e che le spiega il mistero dell’Assunzione della Vergine con due anni di anticipo sulla proclamazione del dogma, di santi – Maria Crocifissa di Rosa e Giacinta e Francesco di Fatima –, di angeli, a cui fanno da contraltare le manifestazioni del demonio). La Madonna, che mette in collegamento la sua venuta a Montichiari con le precedenti apparizioni di Fatima e di Ghiaie di Bonate, si presenta biancovestita e con tre rose sul petto che simboleggiano le preghiere, le penitenze e i sacrifici graditi a Dio in riparazione dei peccati dell’umanità presente. In particolare nel messaggio di Montichiari l’intercessione richiesta è per la Chiesa che, si dice fin dal 1947, sarebbe an- Caniato, giornalista e scrittore nonché studioso attento del caso. Quei diari confermano la salute mentale e la vita da vera cattolica condotta dalla veggente e sono stati esaminati con interesse dallo stesso cardinal Gerhard Mueller, Prefetto della Dottrina della Fede. Si va verso il riconoscimento uffi- data incontro a una profonda crisi di fede con conseguenze morali gravi nel comportamento di tanti consacrati che avrebbero tradìto la propria vocazione e vissuto senza la grazia di Dio. Nella seconda parte del volume si raccolgono molti documenti, anche questi tutti fino a oggi secretati, appartenenti ai parroci e ai direttori spirituali della veggente e ad altre persone a lei vicine (come le suore con cui visse a Montichiari): tutte persone curiosamente non interpellate dall’autorità della Chiesa negli anni 1947-1949, ai tempi, cioè, della prima e unica commissione d’inchiesta di istituzione diocesana che ha analizzato il caso. Chiudono il volume alcuni saggi del biblista Enrico Rodolfo Galbiati, del mariologo Stefano De Fiores e del Curatore del volume che, inquadrando la storia di Pierina Gilli e la lunga vicenda delle apparizioni nel contesto spaziotemporale in cui si sono verificate, espongono anche le molteplicie argomentate ragioni per le quali tutti e tre siano giunti a esprimersi favorevolmente riguardo alla veridicità dell’evento e alla credibilità della Veggente. ciale della Chiesa? Una folla crescente e cosmopolita lo desidera. Intanto, alle Fontanelle la devozione continua con fervore sorprendente, sperando di poter passare, un giorno, da un capannone al grande santuario voluto dalla Vergine stessa. Vittorio Messori 31 UNA NUOVA PUNTATA Caro abbonato, grazie per un altro anno trascorso con noi. Come avrà notato, abbiamo cercato di rinnovare di mese in mese la nostra sfida culturale. Nonostante la crisi (che purtroppo perdura), abbiamo dato il massimo per affinare sempre di più la nostra proposta. La rinnovata veste di Studi cattolici, tutta a colori, con nuove rubriche e nuove firme, è stata molto apprezzata dagli abbonati, che hanno anche la possibilità di ricevere in anteprima il pdf della rivista e di consultare con un semplice click il nostro archivio digitale. La leadership di Studi cattolici nell’opinione pubblica è testimoniata dalle frequenti citazioni nelle principali testate nazionali e sul web. Ormai le notizie si apprendono su Facebook, ma serve un «navigatore» per non rischiare di smarrirsi nel surplus di informazioni (o di bufale sempre in agguato): Studi cattolici da oltre sessant’anni (un record per le riviste culturali) ha sempre offerto vivaci spunti di riflessione e di approfondimento per leggere la realtà. E continuerà a farlo a tutto campo, senza timore di remare spesso controcorrente… Quest’anno il catalogo Ares si è arricchito di nuovi temi e nuovi autori: dal card. Ennio Antonelli, con l’agile sussidio Per vivere l’«Amoris laetitia», alla scrittrice Marina Corradi (Con occhi di bambina), all’antologia di testi del Beato Álvaro del Portillo, curata da Gabriele Della Balda (Figli di Dio, figli della Chiesa), alle biografie di Madre Teresa (Una matita nella mani di Dio, a cura di Riccardo Caniato) e di padre Puglisi (Don Pino, a cura di mons. Vincenzo Bertolone e di Salvatore Cernuzio), al best seller Come muoiono i santi, di Antonio Sicari, alle Storie del cielo e della terra di Miriam Dubini. Intanto, siamo diventati sempre più Social. È vero che, ahinoi, le librerie chiudono, ma internet offre risorse e canali sorprendenti e il nostro sito www.ares.mi.it ha avuto il 60% in più di visitatori (e ci sono anche gli ebook…). Per il 2017 l’orizzonte è ricco di novità. Ci sarà un nuovo libro di Fabrice Hadjadj, Risurrezione; e poi il sorprendente Atlante filosofico di Gianfranco Morra; il saggio di Michel Esparza sull’Autostima; una raccolta di testi di Giambattista Torelló, Impazziti di luce, tra psicologia e spiritualità; Chesterton e la sostanza della fede, di Paolo Gulisano... solo per citare le prime uscite del nuovo anno. Caro abbonato, come vede, il cantiere è sempre in fermento, ma perché sia sempre così è decisivo il suo incoraggiamento e il suo sostegno economico. Serve subito. Nella pagina accanto sono specificate le modalità per essere con noi anche nel 2017. Contiamo sulla sua fiducia, da oggi stesso. Alessandro Rivali – Segretario di redazione 32 DELL’AVVENTURA ARES! CON 70 EURO STUDI CATTOLICI PER IL 2017 L’abbonamento (nuovo o rinnovo) a Studi cattolici costa 70 euro. L’abbonamento sostenitore è di 150 euro. L’abbonamento benemerito è di 600 euro, e comprende i vantaggi dell’Ares Gold (vedi sotto). Con 100 euro, oltre al suo abbonamento, può regalare un abbonamento a un amico. Il versamento può essere effettuato utilizzando l’unito bollettino di c/c postale, oppure con bonifico bancario: IBAN IT14F0103001666000061154741 o ancora con carta di credito collegandosi al sito www.ares.mi.it. I destinatari degli abbonamenti dono vanno specificati nella causale del versamento. CHE COS’È L’ARES GOLD? L’Ares Gold è uno speciale «pacchetto» che dà diritto a ricevere subito a casa propria (insieme a Studi cattolici), senza chiederli di volta in volta e senza alcuna spesa aggiuntiva, tutti i nuovi titoli che le Edizioni Ares pubblicheranno nel 2017. La quota di adesione all’Ares Gold è di euro 250. Tutti i Soci dell’Ares Gold usufruiscono inoltre dello sconto del 50% sull’acquisto di qualsiasi libro del catalogo Ares. CONTINUA IL GRANDE SUCCESSO DELL’ARES CARD L’Ares Card è una tessera prepagata virtuale, di euro 150, che consente di acquistare i libri del nostro catalogo su www.ares.mi.it con il 50% di sconto nonché di abbonarsi a Studi cattolici al prezzo specialissimo di 50 euro (anziché 70). L’Ares Card offre il vantaggio di scegliere, fra le novità e il catalogo, i libri che di volta in volta si desiderano, senza attendere particolari campagne di promozione. Dall’Ares Card viene scalato l'importo dei singoli acquisti più 2 euro come contributo postale per ogni spedizione. Il titolare dell’Ares Card ha la possibilità di visualizzare in ogni momento lo storico dei suoi acquisti e il credito residuo. 33 FILOSOFIA La «terza navigazione» Il realismo metafisico quale filosofia postmoderna Il saggio, recentemente pubblicato, di Vittorio Possenti Il realismo e la fine della filosofia moderna (Armando Editore, Roma 2016, pp. 288, euro 24)1 si propone un obiettivo ambizioso: rinnovare la filosofia a partire da due punti fermi. Il primo è la presa d’atto che la filosofia moderna si è ormai conclusa da decenni e che le correnti antimetafisiche contemporanee si stanno anch’esse esaurendo. Il secondo è la consapevolezza che nessun altro sapere è in grado di sostituire la filosofia, né le scienze umane né quelle sperimentali né la storia della cultura, poiché esse non possono offrire soluzioni scientifiche a problemi metascientifici quali sono quelli metafisici e inoltre è infondato l’asserto che non ci possa essere alcun punto di vista esterno alle scienze. La via di rinnovamento indicata dall’autore consiste nella ripresa della filosofia dell’essere, ossia del realismo metafisico. «Il tragitto proposto per il pensiero postmoderno potrebbe allora suonare: dal nichilismo teoretico alla metafisica dell’essere» (p. 8). Il realismo è l’assunto che il concetto presenta direttamente l’oggetto senza introdurre alcuna interfaccia tra quest’ultimo e il pensiero. Il realismo si oppone specialmente all’idealismo, soprattutto hegeliano e gentiliano, secondo cui esiste una conformità a priori tra pensiero e realtà, sicché l’automovimento logico del primo adeguerebbe di per sé lo svolgimento dell’ente, e al nominalismo, per il quale «la realtà non include in sé strutture stabili che devono essere conosciute dalla mente, ma è il linguaggio che struttura volta a 34 pendo Dio come libertà che precede l’essere (sicché Dio può scegliere di esistere come di non essere) minano il concetto di atto puro e insinuano in Dio potenzialità, temporalità, divenire e contrapposizione. Maritain & Bontadini volta arbitrariamente la realtà e gli oggetti» (p. 31). Contrariamente all’identificazione aprioristica di logica e metafisica propria dell’idealismo e all’esito scettico del nominalismo che nega la presa del concetto sulla realtà, il realismo coglie nella totalità degli enti un’intrinseca intelligibilità e un ordine dati e manifestati dai concetti. Ciò significa che nella realtà vi è più che nell’idea in quanto l’essere come esistenza è anteriore al sapere, essendo la sorgente fondamentale di ogni intelligibilità. «La verità è la conformità tra l’atto dello spirito che unifica due concetti in un giudizio, e l’esistenza di una stessa cosa in cui si realizzano questi due concetti» (p. 38). Infatti, l’esistere è la proprietà fondamentale dell’oggetto su cui si innestano tutte le altre e non va inteso come mera presenza attuale (esserci), ma tomisticamente come atto originario d’essere che sorregge e nutre ogni altro atto, essenza compresa. Secondo Possenti, le metafisiche «libertiste» come quelle di Schelling e Pareyson (1918-1991) risultano aporetiche in quanto conce- Riguardo alla diagnosi speculativa dell’esaurimento, con l’idealismo, della deviazione gnoseologistica della filosofia moderna, Possenti riconosce che sia per Gustavo Bontadini (1903-1990) sia per Jacques Maritain (1882-1973) ciò ha riaperto la possibilità di una ripresa della metafisica, ma ritiene che la via maritainiana, che persegue tale obiettivo ricollegandosi all’ontologia dell’Aquinate, sia teoreticamente più valida rispetto alla filosofia neoclassica di Bontadini, che non è né neotomista né neoaristotelica né neoplatonica e che, secondo lo studioso, non riesce a liberarsi del presupposto idealistico (hegeliano e gentiliano) dell’identità tra logica e metafisica, che allontana quest’ultima dall’esistenza reale, poiché anziché partire dall’ente determinato e concreto prende avvio dall’essere, logico e astratto, escludendo l’analogia dell’ente a favore dell’univocità, tant’è vero che il neoclassicismo bontadiniano è sviluppato da Emanuele Severino (nato nel 1929) come neoparmenidismo affermante l’eternità di ogni ente2. Possenti ritiene che il realismo metafisico postmoderno debba avere come punto di riferimento privilegiato Tommaso d’Aquino, il cui pensiero è qualificato dallo studioso come «terza navigazione» intesa come una conservazione dell’ontologia di Platone, di Aristotele e del neoplatonismo e nel contempo un loro oltrepassamento, dovuto all’ispirazione del passo biblico di Es 3, 14 (in cui Dio si presenta a Mosè come Colui che è), poiché da esso Tommaso ha tratto lo spunto per una metafisica creazionistica ed esistenziale e ha elaborato «una tesi molto ardita perché l’essenza già compiuta nella propria linea formale di essenza è perfezionata o attuata da un atto di altro ordine, che non aggiunge nulla all’essenza come insieme di caratteri intelligibili, ma che le aggiunge tutto sul piano dell’essere, perché la pone extra nihil» (p. 124). La rivelazione biblica, permettendo di concepire la creazione dal nulla e di elaborare la nozione di essere come atto, è stata generatrice di ragione e ha consentito alla terza navigazione di realizzare un progresso speculativo rispetto al pensiero greco. La nozione tomista di essere Per evidenziare l’originalità di Tommaso Possenti si sofferma sulla sua nozione di Dio quale Essere per sé sussistente, rilevando come essa indichi che l’essere divino è l’atto d’essere che compete necessariamente all’infinita essenza divina, con la quale forma un’identità e che implica tutte le perfezioni dell’essere perfettissimo, distinguendolo nettamente dall’essere comune (in virtù del quale si può affermare che tutti gli enti creati sono) e da tutti gli enti creati, la cui essenza è finita e non è identica alla loro esistenza. Infatti, l’atto d’essere partecipato da Dio al creato non è univoco, essendo l’atto di una determinata essenza, l’atto di esistere di un determinato individuo, sicché è intrinsecamente differenziato, poiché l’essenza pone la propria determinazione formale che finitizza l’atto d’essere nel momento stesso in cui lo rice- ve e ne è attuata, differenziandolo. Secondo Possenti, la filosofia dell’essere è filosofia della persona in quanto l’esistenza personale è la più alta forma d’essere. Del resto, il divino Esse ipsum per se subsistens è la Persona suprema. La ripresa del realismo ontologico tomista, che include il concetto di creazione, non viene realmente ostacolata dall’evoluzione del cosmo e della vita, poiché l’evoluzione rientra nell’àmbito del mutamento e del divenire, le cui cause sono studiate da un campo di ricerca diverso da quello in cui rientra il creare come porre in modo totale tutto l’essere di quanto viene creato, ossia il Creatore non si comporta come causa del mutamento. Infatti, la creazione è oggetto della teologia e della filosofia, mentre è la scienza a occuparsi «delle leggi fisiche, chimiche, meccaniche, biologiche, che regolano il divenire del cosmo» (p. 231). Né ha senso porre il caso come l’originario, escludendo in tal modo il creazionismo finalistico, poiché «prima del caso esistono le cose che saranno soggetto al caso, e dunque rimane in tutta la sua forza la domanda sull’origine di tali cose» (p. 235). «Dire che ogni agente agisce in vista di un fine significa che non produce un effetto qualsivoglia, ma un effetto ben determinato e proporzionato alla sua natura: da un essere umano nasce un essere umano, da un gatto un gatto» (p. 239). Del resto, il fine è la ragion d’essere dell’attività dell’agente. Le eccezioni dovute al caso non invalidano il principio di finalità, che non va ristretta a quella intenzionale, volontaria, ma sono dovute all’azione di altre linee causali che impediscono il concreto raggiungimento del fine in determinate situazioni: per esempio, la mutazione casuale può cambiare la finalità interna a un vivente, ma non la sopprime, essendo essa stessa inserita nella sequenza causale della trasmissione ereditaria e della selezione naturale darwiniana. Il ritorno all’eterno Alla luce dell’esaurimento dell’immanentismo e dello storicismo (secondo cui la realtà e il pensiero umano sono soggetti a un divenire storico senza fine, senza senso e senza scopo) della filosofia moderna e di numerose correnti contemporanee, Possenti propugna provocatoriamente la necessità di passare dal nietzscheano eterno ritorno al ritorno dell’eterno connesso al rilancio della filosofia dell’essere con il suo realismo metafisico aperto alla trascendenza. L’eternità dell’essere, o di qualche sua forma3, è una verità indubitabile, poiché «non è pensabile un “momento” in cui l’essere abbia avuto inizio dal nulla [...]: ciò a motivo del fatto che il nulla è un mero ente di ragione, che non riveste alcun indice di realtà» (p. 260). Siccome l’essere eterno risulta limitato solo dal nulla, che non esiste, è anche originariamente infinito nel senso metafisico dell’atto puro (immutabile). Possenti propone altresì, nel capitolo conclusivo dello studio, una possibile alleanza tra filosofia e fede, sulla base del fatto che «il realismo come metodo della filosofia è anche la spina dorsale dell’intendimento della Rivelazione» (p. 278), nel senso che le formule della fede non si fermano all’enunciato scritturistico, ma raggiungono la realtà stessa rivelata (Dio). Inoltre, secondo lo studioso l’assunto della «terza navigazione», ossia che l’ontologia di Tommaso stabilisca un punto di apogeo del pensiero umano, implica che non sia sufficiente tornare solo ai greci e questo può risultare fecondo per rispondere a quell’esigenza di affrontare le scottanti odierne questioni antropologiche sottraendole al riduzionismo del naturalismo, nutrito di scientismo e materialismo e mirante a una naturalizzazione della persona che fa «regredire l’antropologia al livello aurorale dei presocratici in cui 35 l’uomo era integralmente risolto nella physis» (p. 284). E il neoplatonismo cristiano? L’obiettivo del saggio di Possenti è pienamente condivisibile al pari della sua impostazione metafisica realistica, anche se dal punto di vista storico-filosofico ritengo sia più corretto distinguere l’innegabile originalità teoretica di Tommaso, a cui è legittimo che Possenti si rifaccia come al suo referente privilegiato, dalla «terza navigazione» quale recezione trasformante del pensiero greco da parte dei pensatori cristiani per adeguarlo alla novità della visione cristiana del reale, che pertanto considero operante sin dall’età patristica e realizzata soprattutto a opera del neoplatonismo cristiano, sia pure in modi diversi da Tommaso4. Invece, Possenti, sebbene riconosca che «dal lato della permanenza la filosofia dell’essere [aristotelicotomista] costituisce, insieme al (neo)platonismo, la più duratura tradizione nell’organarsi millenario della filosofia nelle sue varie fasi» (p. 83), poi esclude rapidamente il neoplatonismo cristiano dalla trattazione sostenendo che ben poco del nucleo speculativo della terza navigazione sia presente in Porfirio e nel neoplatonismo cristiano (p. 124). In particolare, per adattare alla novità cristiana il neoplatonismo pagano si sono ispirati proprio a Es 3, 14 già, nel IV sec., Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, Mario Vittorino e Agostino, e nell’VIII sec. Giovanni Damasceno, che in De fide orthodoxa, 9, definisce Dio come un mare infinito di essere, espressione ripresa proprio da Tommaso e citata da Possenti (p. 279). Nello pseudo-Dionigi l’Areopagita (VI sec.) si assiste alla forma più sistematica di adattamento della metafisica neoplatonica al cristianesimo, evidente particolarmente nella rielaborazione del concetto di processione in ottica creazionistica, 36 trasformando tutte le mediazioni autosussistenti tra il Principio e il mondo in partecipazioni dell’unico Creatore di tutto il principiato5. È poi estremamente significativo l’esempio di Massimo il Confessore (VII sec.), nel cui concetto di logos la concezione platonica e quella aristotelica sono riunite in una sintesi superiore grazie alla loro trasposizione in prospettiva cristiana: l’essere della creatura è tanto la suprema perfezione dell’esistenza assegnata a essa dal disegno creatore del Logos di Dio come realizzazione della sua determinazione sovrannaturale (l’Idea platonica) quanto la sua condizione finita (logos) di creatura in divenire e dotata di potenzialità da sviluppare (l’essenza aristotelica). Le due concezioni possono convivere perché designano due diversi modi di esistere dello stesso essere creaturale. L’Idea è la causa e il fine ultimo a cui Dio originariamente ha «chiamato» la creatura, ma questo non impedisce di valorizzare anche la condizione finita della creatura quale esiste di fatto nel tempo senza avere ancora del tutto attuato le proprie potenzialità; anzi, il movimento conduce il creato verso il suo perfezionamento, che trova il proprio compimento nella deificazione, ossia nella sua partecipazione a Dio nella misura in cui è possibile a una creatura. Solo questa innovazione filosofica di Massimo è capace di salvaguardare la finitezza naturale della creatura insieme con il suo ordinamento a un fine sovrannaturale, evitando sia di considerare la creatura, nella sua materialità, come una «caduta» rispetto alla perfezione del modello sia di cancellare il confine tra natura e sovrannatura, due esiti a cui condurrebbe l’applicazione senza correzioni all’àmbito cristiano delle concezioni, rispettivamente, platonica e aristotelica. A mio parere, accogliere questo concetto più ampio di «terza navigazione» arricchisce le tesi di Possenti, poiché permette, da un lato, di scorgere la convergenza con l’actus essendi tomista della con- cezione neoplatonico cristiana (di Vittorino e di Boezio) dell’Essere divino quale puro agire preessenziale creatore di sostanza e, dall’altro, di valorizzare la concezione realistica della dialettica propria del neoplatonismo cristiano (per esempio anselmiano), che ne salvaguarda il carattere di episteme, veritativo, oltrepassando il carattere di mera parte della logica attinente l’àmbito del probabile, ma senza scadere nelle aporie dell’hegelismo in quanto assume come «assioma» o concezione comune della mente (immediatamente evidente) di partenza l’esperienza dell’esistenza degli enti (e la distinzione tra ente ed essere), espressa nel II assioma boeziano del De hebdomadibus, 15-296. Matteo Andolfo 1 L’autore ha insegnato Filosofia morale e politica all’Università di Venezia. 2 Anche se Bontadini rigetta le conclusioni severiniane, per Possenti il suo realismo è «assoluto», ritornando all’identificazione totale tra il pensato e il reale propria di Parmenide, ed è anche «incompiuto» in quanto non tematizza adeguatamente il concetto di intenzionalità, mentre ciò è indispensabile per distinguere tra l’oltrepassamento realistico dello gnoseologismo (che recupera l’intenzionalità conoscitiva, il trasparire dell’oggetto al pensiero) e quello gentiliano (che dissolve l’alterità dell’oggetto nello spirito quale autoproduzione di quest’ultimo), tra loro inconciliabili. 3 L’esperienza ci presenta enti limitati e divenienti, la cui potenzialità per attuarsi implica l’esistenza di una causa totale già in atto (l’atto puro divino) dell’essere finito. 4 Giovanni Reale parla di «terza navigazione» in rapporto ad Agostino, identificando la croce di Cristo, sulla quale, per Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, II 3, si può attraversare il mare della vita, con la «solida nave» connessa a una divina rivelazione che per Platone, Fedone, 85 D, se vi fosse, sarebbe più affidabile della zattera della ragione filosofica. Cfr G. Reale, Amore assoluto e «terza navigazione», Rusconi, Milano 1994. 5 Per approfondimenti rinvio alla mia introduzione a Dionigi, Mistica teologia e Epistole I-V, a cura di M. Andolfo, ESD, Bologna 2011, pp. 54-77. 6 Cfr M. Andolfo, Dialettica neoplatonica e logica aletica nel «Proslogion» anselmiano, in «Sensus communis», 23 (2016), pp. 37-90. IDEE Se la tecnologia prescinde dalla Verità In uno dei suoi ultimi libri, Paolo Prodi ha scritto che la modernità non è altro che la trasformazione della profezia cristiana in «utopia» e «progetto rivoluzionario» (Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, Bologna 2015). Si tratta di una nota tesi, risalente almeno alle riflessioni proposte, nella seconda metà del Novecento, da Karl Loewith, François Furet e Olivier Clément e che oggi si ritrova anche in Ernst-Wolfgang Bökenförde e in Rémi Brague. Proprio sulla base del loro pensiero, la tesi di Prodi può venire integrata con l’osservazione secondo la quale esiste pure una versione debole della modernità, ma soprattutto con la consapevolezza del fatto che tale versione condivide non solo la radice «veritativa» della modernità, ma anche la secolarizzazione (e dunque lo stravolgimento) di quella radice. Meglio conosciuta col nome di «relativismo» (e oggi dominante sulla scena culturale), la versione debole della modernità consiste infatti non nella rinuncia alla verità, ma piuttosto nell’identificazione di essa con il pensiero soggettivo: prova ne sia che il relativismo non teme di esporsi al rischio, come hanno notato Joseph Ratzinger e Zygmunt Bauman, di diventare assoluto, affermando che è vero che la verità consiste sempre in ciò che pensa il singolo. Il relativismo è dunque ideologico, nel senso che fa dipendere la verità dal pensiero umano ed è proprio la sua filiazione dal cristianesimo a consentire di inserirlo nel novero di quelle che Chesterton (riferendosi alle ideologie, nella loro duplice forma totalitaria e relativista) definiva «verità cristiane impazzite». Al di là dello stesso relativismo Ma la considerazione chestertoniana circa la natura delle ideologie porta inevitabilmente a chiedersi se oggi viviamo ancora in un’epoca ideologica e non, invece, in un contesto culturale contrassegnato dalla scelta tecnologica di fare a meno della verità. Anche della verità relativistica, dal momento che, per la tecnologia, la verità, ancorché relativa, è comunque un problema scomodo: laddove le ideologie attaccavano la versione assoluta della verità (cadendo però in una nuova forma di assolutismo), la tecnologia attacca anche la sua versione relativa e quindi cerca un modo per fare a meno della verità tout court. Allora, se resta altrettanto vero che non è possibile disfarsi del tutto della verità (a motivo del noto adagio aristotelico secondo cui non si sarebbe più uomini ma tronchi d’albero), la critica diretta al cristianesimo diventa la via obbligata della quale la tecnologia dispone per eliminare la verità: eliminare il problema eliminando ciò che lo causa. L’unico e non secondario imprevisto? Il fatto che il cristianesimo esiste non casualmente, ma in quanto è l’uomo che continua ad aver bisogno di essere salvato dal male. Ciò che viene proposto è dunque il progetto di eliminare questo bisogno, attraverso una specie di diritto alla felicità im- mediata. Ma senza riconoscere che, come ha di recente affermato, tra gli altri, Pierre Manent (Le metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’Occidente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014), era stata proprio la Rivelazione cristiana ad aver introdotto il concetto di dignità e di sacralità della persona in Occidente. A evitare questa deriva tecnoscientifica, che Leo Strauss e Friedrich von Hayek avrebbero chiamato «il male endemico della politica» (il tentativo dello Stato di procurare la felicità all’uomo con mezzi esclusivamente umani), non basta più il fatto che «il sole e l’uomo generano ancora l’uomo» (Strauss). La pretesa tecnologica di eliminare la sofferenza dalla vita, cercando di far crollare ciò che costituiva il ponte naturale tra l’uomo e Dio, rischia infatti di rendere obsoleto un realismo antropologico che si concentri solo sulla salvaguardia di quel ponte e che non accetti di confrontarsi direttamente con la questione del rapporto dell’uomo con Cristo. Lo Stalin immaginato da Eugenio Corti in Processo e morte di Stalin (1962), di fronte agli uomini che si rifiutavano di essere felici al prezzo della negazione del proprio limite, aveva dovuto ucciderli. Il Grande Fratello tecnologico di oggi ha trovato, come aveva già previsto Aldous Huxley ne Il mondo nuovo (1932), la strategia per evitare che avvenga quel rifiuto, illudendoli di poter vivere per sempre e (attraverso Internet) ovunque. Giuseppe Bonvegna 37 ORIZZONTI Questioni di «pancia» (del Paese) Molti fatti recenti della politica stanno riportando in primo piano la questione di quale sia il «peso» della massa nel funzionamento ordinario delle odierne democrazie. La risposta deontologicamente orientata, oltre che ineccepibile, è persino ovvia. Quando la massa si presenta in quella speciale forma di una grande comunità che, modellata dalla storia, racchiude in sé il «popolo», essa è la fonte di ogni potere legittimo. E la sua volontà – come avrebbero unanimemente argomentato già i giusperiti del Medioevo, ripetendo che quod principi placuit habet legem vigoris – si colloca al di sopra dell’intendimento o del volere di chicchessia. Non appena, però, dal piano del «dover essere» ci si sposti a quello della «realtà qual è» (o «quale appare»), la risposta tende a divenire meno univoca e impeccabile. Tanto che, per tener fede alla prima senza risultare credenti troppo tiepidi o insicuri, quest’altra è costretta a tener conto di tutta una serie di elementi vecchi e nuovi, che, fra loro congiunti, dinnanzi ai nostri occhi tratteggiano con lineamenti solo lievemente diversi la figura antica e formidabile (anche se paventata con sincerità da non molti, per vero) della «tirannia della maggioranza». Nel profluvio di commenti e analisi sgorgato dai risultati inattesi (dalla gran parte dei professionisti di simili commenti e analisi, quantomeno) del referendum Brexit, delle elezioni presidenziali americane, del referendum sulle modifiche alla Costituzione italiana, qua e là è affiorata la 38 preoccupazione che non sempre la «ragione dei più» veda meglio o meno imperfettamente quale sia il bene autentico, o anche soltanto l’interesse, di una comunità. Ed è persino tornato a riemergere, quasi del tutto inopinatamente, il vecchissimo dilemma cui proprio sulle pagine di questa rivista, nella scia delle riflessioni di Edoardo Ruffini e dei suoi studi sul principio maggioritario, si era fatto cenno due numeri fa, prefigurando i tempi pieni di incognite e angustie (per il Paese) che di norma accompagnano il disegno di un «nuovo» sistema elettorale, votato a riequilibrare governabilità e rappresentatività: il dilemma o il mai sopito conflitto, cioè, tra il criterio «quantitativo» e il criterio «qualitativo» nella determinazione di una decisione collettiva. Non bisogna farsi trarre in inganno dal fatto che simili dubbi assalgano anche i più puri e coerenti sostenitori della «ragione dei più», allorquando – come può comprensibilmente succedere – la propria personale «ragione» deve ammettere di avere perso perché minoritaria. Occorre invece pre- stare attenzione (a mio giudizio, almeno) a un diverso e più pericoloso fatto, ossia al radicarsi della convinzione che le ragioni della maggioranza della massa siano diventate non già «inconoscibili», bensì «non conosciute» e colpevolmente «non capite» da chi ha il dovere di sforzarsi di conoscerle e capirle. In sostanza, ed esclusivamente, da parte del ceto politico dominante o della sua frazione (al momento) più significativa. Perché una simile convinzione, impedendosi di allungare lo sguardo sugli orizzonti possibili della democrazia, sia alquanto pericolosa per le sorti stesse di un regime democratico, si cercherà di considerarlo meglio fra breve. Mediocrità d’idee & di linguaggio È per ora più opportuno osservare in quale modo, nei vinti come nei vincitori, il convincimento stia mettendo radici. E si sia ormai saldamente annidato in quella sempre più abusata immagine della «pancia» del popolo italiano, che, se non cercasse di allu- dere (pur semplicisticamente, e anche un po’ volgarmente) a una serie di fenomeni nient’affatto destinati a svanire all’improvviso, proficuamente potrebbe fornire lo spunto per qualche divagazione intorno alla mediocrità d’idee e di linguaggio in cui ristagna il nostro Paese. Benché infatti trascuri, o ignori del tutto, ciò che della pancia di ogni individuo e delle sue principali funzioni ha freddamente descritto già il Regimen Sanitatis Salernitanum, l’elementare immagine è certamente dotata di una sua evocativa plasticità. Lo è, in particolare, quando con essa s’intendano raggrumare i differenti «umori» cui il cittadinoelettore riesce finalmente a dare sfogo, deponendo – con volontà di protesta e dispetto, o come gesto ultimo di resistenza alla rassegnazione – la propria scheda nell’urna di una votazione. E tuttavia l’immagine non riesce a nascondere i due perniciosi errori, su cui è costruita e da cui, pretendendo di equipararsi all’effettivo «stato del Paese», vorrebbe distogliere l’attenzione. Due errori perniciosi Il primo errore consiste nel ritenere, o quantomeno nel confidare con un eccesso di ottimismo, che la «conoscenza» di quello che la maggioranza della massa lascia depositare nel proprio voto, quasi fosse il residuo comune e più significativo di convincimenti, opinioni e risentimenti irriducibilmente individuali, di per sé basti a rendere più probabile la «costruzione» di una confacente risposta (politica). Ma – già lo insegnava un disincantato osservatore della politica come Maurice Duverger – la volontà di un popolo è profondamente anarchica. Quando la «pancia» di un Paese sembra inascoltata da un ceto rappresentativo-elettivo sempre meno in grado di intendere che cosa stia ribollendo in essa, solitamente stanno per comparire contro-classi politiche, pronte a impedire (o ad allargare il proprio seguito, comportandosi come se volessero impedire) che l’«anarchismo» della massa sospinga quest’ultima, non appena si accorga di essere abbandonata a sé stessa, ancora una volta e d’istinto a dirigersi – come invece costatava, al riguardo, Gustav Le Bon – verso una peggiore e più esecrabile servitù. L’altro errore consegue per gran parte al primo; ma, se si traguarda al futuro incombente sulla democrazia, risulta di gran lunga più minaccioso. Riassunto in termini pur stringati e semplificati, esso prende la sua forma maggiormente diffusa nel convincimento che gli «umori» della volontà popolare (o tutto ciò che determina il malessere della «pancia» del Paese) siano in rapporto diretto e pressoché esclusivo con inadempienze, croniche insufficienze o palesi nequizie della politica. E che, pertanto, la pur mai appagata ricerca della più confacente «risposta» politica con cui incanalarli, neutralizzarli o modificarli, debba continuare a prevalere su ogni altro sforzo. «Agenzie sociali» latitanti Come questi «umori» si siano originariamente formati, e perché – ecco l’aspetto più importante – siano riusciti a espandersi sino al punto di confondersi con lo «stato» reale del Paese, resta invece una questione secondaria. Così come rimane ai margini, ignorata o rimossa, la questione delle ragioni per cui la grandissima parte di quelle che i manuali di sociologia ancora denominano «agenzie sociali» sembrino sempre più inerti nell’esercizio stesso delle loro funzioni e responsabilità. Non per caso, però, gli «umori» hanno incominciato a propagarsi e la «pancia» è diventata sin troppo minacciosamente importante nella sua vera o presunta inconoscibilità, da quando tali agenzie – da quelle settorialmente più specifiche perché orientate al perseguimento di interessi determinati e frazionali, a quelle vocate a finalità assai più ampie e alte – hanno visto declinare (o hanno scelto di esercitare in modo differente) la loro funzione «educativa» nei confronti di singoli e gruppi. Sebbene assai più durature di quelle politiche, le élite sociali del nostro Paese hanno smesso di costituire un «punto di riferimento» (per ricorrere a un’usurata espressione) della società o di parti larghe e significative di quest’ultima. Hanno dismesso o ridotto al lumicino, soprattutto, il loro «ufficio» di provvedere a quella speciale, difficile e importantissima forma di educazione, che è l’«educazione alla leadership». E rischiano, così, di auto-emarginarsi ulteriormente, rimettendo alla sola politica (e alla sua opinabile capacità di saper corrispondere alla «pancia» del Paese) ogni aspettativa di miglioramento del presente. Poiché il domani affidabile di una democrazia poggia sulla responsabilità e sulla capacità di visione di queste élite sociali almeno in misura pari alle classi politiche, l’argomento sarà da riprendere non frettolosamente. Intanto, sperando che nell’anno da poco incominciato non si susseguano troppi scossoni da attribuire ogni volta all’ignoranza di che cosa si agiti nella «pancia» del Paese, la sconfortante previsione che ci toccherà assistere nuovamente a giochi partitici di scarsissima attrattività pubblica può essere (forse) in parte addolcita, estendendo al teatro della politica ciò che con realismo annotava uno storico e poligrafo lombardo di quattro secoli fa. E cioè che «su questo nostro teatro della vita umana recitano i mortali una commedia, che, in fondo, patisce grandemente d’uniformità e monotonia». Lorenzo Ornaghi 39 INTERVISTE Presente & futuro del sindacato Colloquio con Marco Bentivogli, segretario generale FIM-CISL È giudizio fondato che la Clinton sia stata battuta per aver perso in grandi Stati con alcune delle maggiori industrie meccaniche degli USA colpite dalla crisi che ha investito l’Occidente. Fatto che ha pure ridotto in quegli Stati l’influenza delle centrali sindacali, che da decenni orientavano il voto a favore dei democratici. La crisi in Occidente è dovuta soprattutto all’impatto della mondializzazione sulle componenti finanziarie e commerciali delle imprese e all’incidenza crescente dell’informatica e dell’alta tecnologia nei processi produttivi, che hanno depotenziato molti dei modi di essere e di operare tradizionali degli imprenditori e delle organizzazioni dei lavoratori. Questi fatti – e il rinnovo a dicembre del contratto nazionale dei metalmeccanici che ha confermato il valore degli indirizzi essenziali della FIM-CISL – rende particolarmente attuali le considerazioni di Marco Bentivogli, dal 2014 giovane Segretario generale nazionale della Federazione Metalmeccanici della CISL, nella conversazione con Nicola Guiso. Anche perché prima di diventarne segretario Bentivogli aveva creato nella FIM-CISL una rete di giovani convinti che il sindacato debba tornare a essere «un luogo pubblico delle migliori aspirazioni dei giovani», spesso trascurate e non rappresentate dalle organizzazioni dei lavoratori. Bentivogli – a fianco dell’allora segretario della FIM-CISL, Giuseppe Farina nella dura vertenza con Marchionne, che ha salvato e rilanciato lo stabilimento FIAT di Pomigliano e la competitività a livello internazionale della FCA, avendo contro anche la FIOM-CGIL di Landini e la Camusso – ha esposto le sue analisi, i suoi giudizi e le sue proposte sul futuro del sindacato nel libro Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato (Castelvecchi, Roma 2016, pp. 203, euro 16,50): libro di lettura obbligata per tanti politici, «esperti», intellettuali e giornalisti che trattano spesso questioni sindacali con presunzione inversamente proporzionale alla loro conoscenza dei fatti. l Quali sono i modi di essere e di operare dei sindacati tradizionali non più adeguati ai nuovi problemi di vita e di lavoro creati dalle radicali trasformazioni nei commerci, le finanze e le strutture produttive nell’Occidente avanzato? Nel libro ho provato a dare una risposta centrata sulla riscoperta delle radici etiche del sindacato. Premesso, però, che se non dobbiamo essere autoindulgenti sugli errori del passato, non dobbiamo neppure accettare generalizzazioni – molto diffuse – che vogliono inchiodarci a quegli errori. È su questo terreno che ha preso forma la «disintermediazione»: tentazione coltivata da vasti settori della classe politica che però sta 40 perdendo vigore, come dimostrano importanti accordi sindacali (pensioni e pubblico impiego) firmati di recente. Comunque, è evidente che in materia l’enfasi retorica attorno ai diritti si è rivelata strumento a volte usato a tutela di pochi a scapito dei diritti di tutti. Se vogliamo tornare a «promuovere insieme la giustizia» dobbiamo dunque separare i «furbetti» da chi ogni giorno compie il proprio dovere. L’abuso dei diritti porta, infatti, prima o poi, alla loro caduta o al loro ridimensionamento. Ecco perché nel libro parlo di tre «R», iniziali di tre tipi di scelte per riportare il sindacato alla sua essenza: scelte Radicali, Rigenerative, Rifondative. La nostra società ha bisogno di un sindacato che torni a essere uno spazio in cui vengono espresse le energie migliori, aperto, inclusivo, veicolo di promozione sociale e di speranza. L’alternativa è lasciare ai vocianti populisti di destra e di sinistra di rappresentare l’angoscia sociale di tante persone. La caccia al consenso facile, anche se va bene, aggrava le situazioni. Aggiungo che la globalizzazione, pur con non pochi punti oscuri, anche per molti sindacalisti, ha costituito un alibi facile. Lungo il crinale della globalizzazione infatti, ricordiamolo sempre, si sviluppa l’innovazione tecnologica, che rappresenta un’opportunità prima che un rischio. È il caso di «Industry 4.0»: ne abbiamo parlato per primi e ci davano dei futurologi, poi si sono resi conto che è il paradigma della nuova industria. E solo uno degli esempi possibili, ma che dimostra come per il sindacato sia vitale impegnarsi a guidare il cambiamento, altrimenti finisce per rassegnarsi allo «sconfittismo operaio»; retorica di retroguardia, che mina il tessuto delle organizzazioni, e lascia più soli i lavoratori. Non diamo retta ai profeti di sventura, come li chiamava Giovanni XXIII. Le rivoluzioni che hanno segnato la storia dell’industria hanno sempre modificato la geografia del lavoro. Ma grazie all’aumento della produttività hanno anche permesso – pur attraverso processi non indolori – di indirizzare le energie verso nuove attività, e di elevare le condizioni di vita e di lavoro. Infine, stare dentro al cambiamento significa tenere lo sguardo aperto al mondo, a partire dalle realtà più vive del sindacalismo internazionale. Rendere il lavoratore protagonista l Nei sindacati di matrice solidarista e riformista, quale la CISL, quali elementi della propria tradizione potrebbero essere valorizzati al fine di dare alle organizzazioni dei lavoratori una centralità nei processi di sviluppo della società e delle istituzioni? La CISL e la FIM hanno sempre messo nel loro agire in primo piano la persona. Visione giusta, ora tornata di grande attualità in virtù delle trasformazioni che stanno rivoluzionando l’economia e non solo l’industria. La rivoluzione digitale, parte fondamentale della quarta rivoluzione industriale, cambia la prospettiva con cui si collocano lavoratori e lavoro. La FIM-CISL da tempo propone la concezione del lavoratore protagonista, che veda valorizzato il suo contributo creativo; dunque non più di ingranaggio anodino, ma di attore partecipe e responsabile. Ciò è in linea con una concezione più corretta della società e dell’«economia contributiva», come la definisce il sociologo Mauro Magatti. Tanto che molti sottolineano un’evoluzione in senso «artigiano» dell’impresa che gradualmente rimpiazza il paradigma tayloristico. Prende corpo dunque una dimensione di fabbrica quale comunità che si struttura sul principio di relazione e di istituzione «plurale» e creativa, assai più vicina dunque ai dettami della Dottrina sociale della Chiesa di quanto non lo fossero le sue forme precedenti, spesso imperniate su ideologie materialistiche ed economicistiche, ancora peraltro diffuse. Il sindacato è dunque chiamato a sviluppare il suo profilo «generativo», mettendo al centro della propria azione la persona; e riscoprendo la propria vena di soggetto educatore alla cittadinanza attiva proponendo riforme che servono al Paese. l Ispirandosi al Codice di Camaldoli, la CISL ha sempre considerato essenziale la contrattazio- ne aziendale come quella nazionale. È l’indirizzo che ha seguito la FIM-CISL nel confronto con Marchionne sul futuro della FIAT; e da Lei in vertenze quali quelle con Whirpool-Indesit, ILVA, AST, ALCOA? Fin dal congresso di Ladispoli del 1953 abbiamo considerato la contrattazione di secondo livello il fulcro della nostra azione sindacale. È solo nelle aziende infatti che si sperimenta, che si innovano i processi produttivi e si creano le condizioni per la crescita del capitale umano. Il fondamento di questa impostazione è l’apporto dato dal cattolicesimo politico e sociale di un pensiero forte solidarista e personalista. Il Codice di Camaldoli è a fondamento dell’economia sociale di mercato che nel secondo dopoguerra ha messo solide radici in Italia, con De Gasperi, Vanoni e Saraceno, e in Germania con Konrad Adenauer, Ludwig Erhard e Wilhelm Ropke. Senza dimenticare i contributi delle correnti laiche, socialiste e riformiste. Questo indirizzo della CISL ha dato vita a una cultura organizzativa segnata da un’«eccezionalità» nel panorama sindacale italiano ed europeo. Ed è proprio da questa cultura che sono derivati alcuni dei tratti distintivi – autonomia dalla politica, scelta associativa, vocazione contrattualista – che hanno fatto della CISL il sindacato pluralista e riformista che conosciamo. Di questo DNA fa parte, lo dicevo prima, anche la sua costante apertura verso tutte le realtà del sindacalismo internazionale, una tradizione per noi attuale. Basta ricordare l’attenzione, di ieri e di oggi, verso il modello di sindacalismo americano, che ha alimentato e affinato spunti importanti e anticipatori della visione «istituzionale» della CISL (mai però corporativa) del sindacato. Questa ricchezza di contenuti e prospettive ci ha consentito di superare molti momenti difficili. E sono convinto che alla fine ci guiderà anche fuori dalla crisi economica e sociale di questi anni. In presenza della quale, comunque, il sindacato ha il dove- Marco Bentivogli, autore di Abbiamo rovinato l’Italia?, a difesa del ruolo del sindacato. re del realismo: ricordiamoci del Luciano Lama della «svolta dell’Eur» del 1978. Sacrificare ogni obiettivo alla lotta alla disoccupazione è un imperativo valido anche ai nostri giorni. Gli accordi che abbiamo sottoscritto con Marchionne hanno salvato l’industria dell’auto in Italia; e accettando la sfida della produttività, hanno posto le basi per gli investimenti di cui oggi raccogliamo i frutti con le assunzioni a Cassino e a Melfi. Non tutti però l’hanno capito. Le resistenze di una parte del sindacato, quelle di certi politici e di molti sedicenti intellettuali dimostrano le difficoltà in questo Paese ad accettare la sfida del cambiamento. Divergenze con CGIL & FIOM l Come spiega l’ostilità, più o meno mascherata, sulla contrattazione aziendale della FIOM di Landini e della Camusso, Segretaria Generale della CGIL? La CGIL – da sempre – ha temuto che 41 42 la contrattazione aziendale minasse l’eguaglianza dei e tra i lavoratori. Per noi, invece, la fabbrica non è pregiudizialmente il luogo del conflitto tra lavoro e capitale (come si sarebbe detto un tempo), ma il luogo della cooperazione tra lavoratori (organizzati in sindacati responsabili) e imprenditori che investono e innovano. Nel nostro DNA c’è la partecipazione, non il conflitto. Cosa che peraltro non significa certo non difendere i lavoratori da cattive gestioni datoriali. Anzi, comporta di essere più duri verso di esse per creare quel clima di coinvolgimento vero che serve ai lavoratori, ma anche alle imprese. Se una fabbrica chiude evaporano diritti e salari ma, il più delle volte, anche i profitti. La fine delle ideologie, sepolte sotto i muri della guerra fredda, ha fatto spesso della conflittualità un’arma di agitazione retorica e propagandistica, senza agganci nella realtà politica ed economica. Fatto che ha prodotto disorientamento tra i lavoratori, più evidente laddove l’impostazione conflittuale delle relazioni industriali aveva radici più robuste. Si è parlato molto di lavoratori della FIOM che al Nord votano per la Lega! È per questo credo non vi sia altro modo per assicurare coesione sociale ed efficienza alle fabbriche se non quello basato sulla partecipazione. Lo ripeto: forse non sono ancora i più in Italia i convinti sostenitori della contrattazione di secondo livello, tra gli imprenditori e nella parte più ideologica e pigra del sindacato. do questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categorie generali, è stato un grave errore»? Quel brano di Di Vittorio. Conquiste del lavoro, il quotidiano della CISL, lo ripubblicò nel 2009, dopo l’accordo con Confindustria sul modello contrattuale che la CGIL non firmò, accompagnandolo con un breve scritto di Pietro Merli Brandini, il cui titolo E se fosse Di Vittorio a metterci d’accordo? era di per sé significativo. Oltre a Di Vittorio anche Lama e Trentin, leader della CGIL, hanno riconosciuto i potenziali positivi della contrattazione aziendale. Ma non tutti la pensavano come loro nell’organizzazione. Il caso che citi mi consente di precisare il mio pensiero sul tema dell’unità: non deve essere un feticcio da agitare, ma uno strumento per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. È quello che abbiamo fatto con il contratto da poco rinnovato – e ratificato in fabbrica, con referendum, dai lavoratori con oltre l’80% dei voti – firmato anche dalla FIOM che si era invece sfilata dagli ultimi due rinnovi. Con pazienza, ma anche con coraggio, abbiamo mediato, abbiamo cercato una sintesi tra posizioni in partenza molto lontane, sempre nel rispetto delle persone e delle loro idee: è così che abbiamo firmato un contratto unitario, considerato come una svolta non solo per il settore, ma per le relazioni industriali nel nostro Paese. l Una mia curiosità: parlando con Landini e la Camusso di contrattazione aziendale ha capito se hanno letto e ricordano che nel 1955 Di Vittorio – in vista del IV congresso della CGIL – ha detto che «compito fondamentale che incombe a ogni sindacato è quello di ottenere i più alti salari possibili in ogni azienda e in ogni settore, tenendo conto che esistono limiti differenti da azienda ad azienda dello stesso settore [...]. E il fatto che la CGIL, sottovalutan- Il nuovo contratto l Quali sono i punti essenziali del nuovo contratto? Devo ricordare innanzitutto che è stato definito «di svolta» dai più autorevoli giuslavoristi italiani. È un contratto che punta in particolare, come ho detto, a mettere al centro le persone con gli strumenti del welfare, della formazione e della partecipazione. Si punta a colma- re il gap di competenze che caratterizza su questi punti i lavoratori del nostro Paese con l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione (24 ore annuali o, in alternativa, 300 euro a disposizione dei lavoratori delle aziende che non svolgono corsi). Si compie così un passo deciso verso la smart factory, il modello di «Industry 4.0» che promette in breve tempo di riconfigurare i rapporti tra lavoratori e imprese fuori dallo schema del conflitto in un’ottica nuova di partecipazione, potenziando le competenze. Il diritto soggettivo alla formazione è da tempo uno dei punti qualificanti della visione della FIM-CISL, che lo considera il principale elemento di tutela del lavoro (dopo naturalmente il diritto alla salute e alla sicurezza) specie ora che la rivoluzione digitale bussa con forza alle porte della nostra industria. Per il sindacato questa è un’opportunità, ma anche una sfida. La fine dell’era della produzione di massa e l’affermarsi di un modello che associa beni e servizi in una logica – per così dire – «sartoriale». Tale cioè da consentire agli addetti di gestire almeno in parte i processi con programmazione molto anticipata; quindi con una quota via via più rilevante di smart working a caratterizzare l’organizzazione del lavoro, che impone anche a noi di pensare a una rappresentanza nuova e «su misura». In questo quadro va letta anche la riforma dell’inquadramento professionale (fermo al 1973) il cui scopo è di passare gradualmente da un sistema rigido sulle mansioni a uno calibrato in modo più flessibile sulle fasce e sulle aree professionali. L’obiettivo di mettere al centro della contrattazione le persone e le loro esigenze è evidente anche nelle novità introdotte dal contratto in materia di welfare aziendale. Pur se – com’è ovvio – le misure di detassazione e decontribuzione varate dal governo con l’ultima manovra hanno giocato un ruolo importante nell’indirizzare le scelte al ta- volo di trattativa. Di qui l’opzione di puntare su una serie di flexible benefit (per esempio, buoni benzina, spese scolastiche, carrello della spesa, ecc.) per un importo significativo (100 euro nel 2017, 150 nel 2018 e 200 nel 2019) completamente detassato. Va ricordato che se si fosse deciso di erogare la stessa cifra sotto forma di salario di primo livello ai lavoratori in busta paga sarebbero arrivati solo 58 euro; mentre con la contrattazione di secondo livello la cifra sarebbe sì aumentata (a 85 euro), ma sarebbe rimasta comunque inferiore. Per la prima volta, inoltre, viene introdotto – con i Comitati consultivi di partecipazione – il coinvolgimento del sindacato e dei lavoratori nelle scelte strategiche aziendali. Toccherà poi alle ridefinite Commissioni e Osservatori a livello territoriale di lavorare, a partire anche da buone prassi esistenti, per diffondere la contrattazione aziendale in tutte le imprese in cui oggi non viene svolta. La vera svolta culturale sarà dunque questa: far capire a tutti gli imprenditori che pure al fine di aumentare la produttività e migliorare la competitività aziendale, il nuovo paradigma si ridisegna attorno alla partecipazione e ai feedback dei lavoratori. l Con imprenditori sensibili ai modi nuovi di rapportarsi ai dipendenti è possibile cercare nuove vie nella contrattazione aziendale che riguardino, per esempio, la casa; gli spostamenti casalavoro; l’istruzione; la qualificazione professionale e una migliore tutela sanitaria anche per i famigliari? In premessa credo di poter dire che il capitalismo familistico italiano ha vissuto due fasi: quella dei padri «pancia a terra in fabbrica» e quella dei figli «pancia all’aria a Formentera». Anche a prescindere dalla battuta, spesso le seconde generazioni hanno fallito: non hanno saputo innovare, hanno diversificato puntando sulle rendite, hanno investito sulla politica invece che sulle aziende cercando di socializzare le perdite. Noi ci siamo sforzati in questi anni, collaborando con la parte più moderna del mondo imprenditoriale, di apportare innovazioni e di farle passare nei contratti. È il caso dello smart working, che dopo alcuni importanti accordi aziendali ha trovato spazio nel contratto nazionale. È il caso, ancora più rilevante, dell’evoluzione in materia di welfare integrativo. L’intesa con Federmeccanica rafforza infatti sanità integrativa e previdenza complementare. La prima verrà estesa a tutti i lavoratori e ai famigliari, che si vedranno azzerare il contributo al fondo Metasalute. In questo modo il nostro si avvia a diventare uno dei più grandi fondi europei. La seconda, essenziale a supportare il reddito dei lavoratori all’indomani del ritiro (in particolare per i giovani, che rischiano di percepire, specie nei casi di impiego discontinuo, assegni pari ad appena la metà dell’ultima retribuzione), viene anch’essa irrobustita grazie all’aumento dall’1,6 al 2% del contributo a carico delle imprese. Ci tengo a sottolineare che tutte queste nuove conquiste hanno senso se inserite in un disegno di partecipazione. E non solo alla vita di fabbrica, nel contrattare con l’azienda su flessibilità, organizzazione del lavoro, salario di produttività, ma anche alle scelte strategiche. Su questo punto, con il contratto si introducono per la prima volta i Comitati consultivi nelle grandi aziende: un risultato di cui siamo fieri. L’importanza della stabilità politica l Come giudica i rapporti avuti in passato dai sindacati con la politica e con le istituzioni; quelli che sarebbe necessario avessero nel nostro tempo, e il valore della stabilità dei governi per superare i fattori di crisi economica e sociale? Parto dall’ultima parte della domanda. In Italia non solo il Sindacato avrebbe bisogno di stabilità poli- tica: negli ultimi 70 anni si sono succeduti 64 Governi e l’instabilità ha prodotto rallentamenti e blocchi in riforme non più rinviabili. L’esempio dell’ultimo referendum sulla Costituzione è emblematico. Noi continuiamo a ritenere che sia urgente superare il bicameralismo perfetto e soprattutto il mostro del Titolo V che sta paralizzando il Paese, acuendo le disuguaglianze in particolare tra Nord e Sud e frammentando le politiche su energia, infrastrutture, tutela socio-sanitaria, commercio estero, piattaforme informatiche ecc. In materia, uscire dalle logiche paralizzanti del passato richiede coesione sociale, ascolto e coinvolgimento attivo delle persone, anche per sottrarle alle suggestioni dei populismi di destra e di sinistra. Su questo la FIM-CISL è impegnata con determinazione. All’azione contrattuale affianchiamo un’azione educativa e sociale, assieme al mondo dell’associazionismo civile che condivide i nostri valori e il nostro impegno: dal Voto col Portafoglio dell’economista Leonardo Becchetti e NEXT, alla lotta alla criminalità organizzata al fianco di NCO (Nuova cooperazione organizzata), dalla lotta contro il gioco d’azzardo con lo SLOTMOB, alla collaborazione con Cesare Moreno e i Maestri di Strada. Sono però contrario alla confusione dei ruoli. Ognuno deve saper fare bene la propria parte, lontano da collateralismi e da «cinghie di trasmissione» di cui qualcuno in passato ha abusato. Ovviamente, l’autonomia non significa distacco dall’insieme della realtà. Pertanto il sindacato deve avere un interesse costante, oltre che per il lavoro, per tutto ciò che lo coinvolge; e dire quel che pensa, senza paura di impopolarità, recuperando la sua naturale spinta educativa che può rappresentare una grande occasione di consapevolezza diffusa e di partecipazione. Nicola Guiso 43 ESTERI Le sanzioni favoriscono Putin Da qualche tempo la metro di Mosca è diventata una grande pagina aperta sulle glorie patrie. Sulle pareti interne dei vagoni, non più cartelloni pubblicitari, ma esaltazione della vittoria del 1945 nella «Grande guerra patriottica»: grandi pannelli con dati, cifre, episodi, foto di eroi e di battaglie del conflitto in cui la Russia ebbe venti milioni di morti. Ai piedi del Cremlino, inaugurato di recente un gigantesco monumento al principe e santo Vladimir, che nell’anno 988, regnando a Kiev, introdusse il cristianesimo nel principato kievano, la allora Rus, da cui sorsero poi la Russia e l’Ucraina. Per questo Vladimir è esaltato quale espressione dello spirito russo benché abbia regnato a Kiev. Ma il suo battesimo personale lo aveva ricevuto a Cherson, sulle coste della Crimea, e ciò accresce l’identificazione russa con lui, o di lui con la Russia. E intanto, in provincia, si erigono monumenti a Ivan il Terribile, Ivan «grozny», quintessenza di Russia, terrore e fervore religioso, lotte di potere e crisi mistiche, senso nazionale e proiezione di fede. Le sanzioni occidentali alla Russia per la crisi ucraina hanno l’effetto di favorire Putin nel suo obiettivo principale, dopo aver rimesso in riga gli oligarchi e aver riportato ordine interno fermando spinte centrifughe: far uscire la Russia dalla frustrazione e dalle umiliazioni seguite al crollo dell’Unione Sovietica, e costruire uno spirito di orgoglio e unità nazionale. Di qui la fiorente collaborazione con la Chiesa, l’esaltazione della vittoria nella guerra mondiale ben più di quanto avveniva 44 in età sovietica, l’assertività davanti agli Stati Uniti e alla NATO, l’annessione della Crimea con sostegno ai separatisti in Ucraina, l’intervento in Siria. Le sanzioni dell’Occidente facilitano il suo compito. La Russia si sente sotto assedio, e le divisioni interne scompaiono. Le poche e isolate voci critiche tacciono. La popolarità di Putin resta stabile sull’80 per cento. Si è creato così uno stato d’animo collettivo che favorisce l’ambizione di Putin di ricreare un senso di identità e di fierezza nazionale che riscatti le umiliazioni degli anni immediatamente post-sovietici. Ritorno ai valori russi pre-sovietici La festa nazionale proclamata per il 4 novembre (cacciata di polacchi invasori nel Seicento), in sostituzione del 7 novembre bolscevico, per anni è stata quasi ignorata, ma nel 2016 è stata celebrata con particolare enfasi. A Mosca è stata organizzata una grande mostra al Maneggio, maggior sede espositiva, dal titolo «La mia storia: 19452016»: la vittoria nella guerra quale fonte di legittimità, la ricostruzione, la fine del sistema sovietico, il ritorno alla Russia e ai suoi valori pre-sovietici. Con gran solennità, è stato inaugurato un gigantesco monumento al principe Vladimir, eretto ai piedi del Cremlino: una statua imponente, alta 17 metri. Sintesi di trono e altare, il santo principe è raffigurato nell’atto di levare in alto con il braccio destro una grande croce, impugnando con la sinistra uno spadone. Presenti mezzo governo, tra cui il ministro della Difesa, esponenti di tutte le religioni e il patriarca Kirill a dispensare benedizioni, il monumento è stato inaugurato da Vladimir Putin con un discorso pieno di significati. Esaltazione della Russia cristiana e della sua unità nel cristianesimo: «L’epoca del principe Vladimir è segnata da molti successi, il maggiore dei quali è il battesimo della Russia. Questa scelta è la comune fonte spirituale per i popoli di Russia, Bielorussia e Ucraina, il fondamento dei nostri valori. Grazie a questo solido fondamento morale, l’unità e la solidarietà, i nostri antenati hanno potuto superare le difficoltà e raggiungere vittorie per la gloria della patria». Difficoltà nel presente: «Il nostro dovere oggi è operare uniti nel fronteggiare sfide e minacce contemporanee, contando sui nostri princìpi spirituali». Monito a divisioni etnico-religiose e spinte centrifughe: «Vladimir è stato un santo e condottiero che pose le fondamenta per uno Stato forte, unito, centralizzato, in cui differenti popoli, lingue, culture e religioni si uniscono in un’unica, grande famiglia». Anche il patriarca Kirill ha esaltato l’aspetto nazionale del santo principe: «Se Vladimir non avesse portato il cristianesimo alla Rus, non avremmo avuto la Rus, né la Russia, né il potere dell’ortodossia russa, né il grande impero russo, né la Russia moderna. Questo monumento al principe Vladimir è il simbolo dell’unità di tutti i popoli dei quali egli è padre. Questi sono i popoli della storica Rus, che attualmente vivono all’interno di molti Paesi». Qui il patriarca si ri- ferisce agli ucraini, uno dei «popoli della storica Rus», che comprende anche la Bielorussia. Kiev, su cui Vladimir regnava, non è stata nominata nei discorsi inaugurali. Ma l’Ucraina e la sua capitale incombevano su tutto, soprattutto considerando che a Kiev svetta dal 1853, da allora storico simbolo cittadino, un colossale monumento al principe santo, alto 20 metri, dominante da un’altura la città e il fiume Dnepr che la attraversa. L’Ucraina non poteva quindi restare indifferente, e tra le molte reazioni vi è quella, emotiva oltre che politica, del presidente Petro Poroshenko che accusa Mosca di revisionismo storico: «Al Cremlino, vicino a Lenin, hanno inaugurato un monumento al nostro principe di Kiev, Vladimir. Questo è un altro tentativo di ibrida appropriazione della storia». In verità, nella cerimonia moscovita si è avuto un richiamo alla storia recente, non solo a quella di miti e leggende della Rus. L’invito a una riflessione non solo su Vladimir, ma sulla Russia contemporanea, è venuto da Natalia Solzhenitsyn, invitata d’onore, vedova del grande scrittore, che denunciando le efferatezze comuniste coltivava la visione religiosa e patriottica di una Russia riconciliata con sé stessa dopo la bufera sovietica: «Il Ventesimo secolo è stato di grandi sofferenze per la Russia. Due guerre mondiali, una guerra civile, la collettivizzazione, il Gulag. Il giudizio sul passato è una maggior controversia. Impariamo dal principe Vladimir. Egli si guardò indietro nella sua vita, riconobbe i propri sbagli, prese tutto il buono che la vita gli aveva donato e risolutamente si girò verso la luce. Anche noi dobbiamo fare così. [...] Dobbiamo avere il coraggio di condannare il male, non giustificarlo, o mettere sotto il tappeto la sua memoria. Col battesimo, Vladimir dette alla Rus la fede, la quale insegna che Dio è nella verità, non nel potere. Salvaguardiamo i nostri valori e purezza di spirito. Il futuro della Patria dipende da questo». Vladimir Putin La presenza della moglie di Solzhenitsyn in questa cerimonia quale oratore ufficiale indica come nell’ondata patriottica Putin voglia essere inclusivo. Far rivivere e rafforzare il senso di identità e spirito nazionale è la sua maggior ambizione. Le sanzioni occidentali lo facilitano in questo, ma il rischio è che dal senso di nazione si vada oltre, si alimenti il nazionalismo già serpeggiante. Lo straniero occidentale che risiede a Mosca non avverte il minimo segno di ostilità o malanimo con l’uomo della strada nei contatti personali, nella vita quotidiana. Malgrado le sanzioni, Mosca resta città accogliente, senza il minimo segnale di tensione nei rapporti interpersonali verso gli occidentali, benché il senso di patriottismo perseguito da Putin, santificato col monumento a Vladimir, sia in crescita, palpabile. È un patriottismo fuso con la religione, un messianesimo con senso di destino per la Russia quale guardiano di cristianità, investita della missione di protezione della fede, fino a un nazionalismo religioso. Pericoloso revival di Ivan il Terribile È un sentire collettivo che suscita anche fughe in pagine buie della storia russa. La città di Oriol, negli stessi giorni del festeggiamento moscovita, ha eretto un monumento a Ivan il Terribile, che l’ha fondata nel Cinquecento, e che fu il primo a prendersi il titolo di Zar proclamando Mosca «Terza Roma», dopo la prima e Costantinopoli. Da Bisanzio vengono i simboli del principato di Mosca, il globo con croce e scettro, e da Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore bizantino, antenato della moglie di Ivan, arriva l’imperiale aquila bicipite. Alta 8 metri, la statua raffigura Ivan a cavallo, e anche lui, come Vladimir, impugna la croce e la spada. L’inaugurazione è avvenuta in un tripudio di bandiere zariste, nere e gialle. Un altro monumento a Ivan il Terribile è in preparazione ad Alexandrov, città dove si stabilì per alcuni anni con i suoi scherani, i temibili opricniki. A Mosca, vi sono proposte di intitolargli una grande arteria. Se Vladimir è figura che unisce, Ivan, miscela di crudeltà e crisi mistiche, è controverso: si impose sui boiardi, sconfisse tartari, lituani e cavalieri teutonici; ma fu principe del terrore, con crudeli stragi, arrivando a uccidere il proprio figlioletto e i costruttori della chiesa di San Basilio sulla Piazza Rossa perché non ne costruissero altre. Troppo, in lui, è uno Stalin in anticipo. Onorarlo, sia pure in provincia, è un brutto segnale, come la tolleranza verso gruppi di estrema destra o di nazional bolscevichi. Il patriottismo perseguito da Putin e irrobustito senza volerlo dalle sanzioni occidentali, potrebbe diventare nazionalismo, minando stabilità interna e internazionale. Fernando Mezzetti 45 TERRORISMO Il conflitto Israeliani-Palestinesi La morte di Shimon Peres, avvenuta a settembre dello scorso anno (2016), ha richiamato l’attenzione sulla centralità geopolitica della questione palestinese nel contesto degli equilibri mediorientali. Siamo ormai abituati a convivere con la convinzione che non sia possibile un accordo che ponga fine alla contesa fra Israeliani e Palestinesi, una patologia che ormai è diventata fisiologica. Le iniziative di mediazione di Paesi terzi o di organizzazioni internazionali si scontrano con la difficoltà concreta di trovare soluzioni che abbiano le potenzialità per assicurare oggettivamente un assetto equo dei rispettivi interessi. Tesi contrapposte per una pace giusta Da un punto di vista politicamente neutro le motivazioni addotte dagli Israeliani e dai Palestinesi per giustificare le rispettive posizioni sulla questione appaiono entrambe meritevoli di considerazione: da una parte gli Ebrei rivendicano la regione dalla quale sono stati storicamente cacciati, dall’altra i Palestinesi reclamano i territori che hanno perso a seguito della nascita di Israele. In proposito si ricorda che l’assetto stabilito dalla Risoluzione dell’Onu n. 181 del 1947, denominata «Piano di partizione della Palestina», ebbe un’attuazione solo parziale in quanto determinò esclusivamente la nascita di Israele, i cui confini poi subirono modifiche a seguito delle successive vicende belliche, che hanno generato una escalation senza ritorno: come disse Shimon Peres con un’efficace metafora, con le uova si può fare 46 una frittata, ma dalla frittata non si può tornare alle uova. Questo conflitto quindi non ha natura religiosa, come in qualche occasione è stato erroneamente ritenuto, ma si fonda su pretese territoriali che hanno come corollario la gestione della difficile convivenza all’interno dello Stato di Israele fra le etnie di origine araba ed ebraica. Più in particolare vi è incertezza sulle frontiere che dovrebbero delimitare i territori sotto la giurisdizione di Israele e sullo status da attribuire alla Palestina. Gli Israeliani cercano di far prevalere le loro mire espansionistiche attraverso l’occupazione di territori (militare o mediante insediamenti). La resistenza palestinese si avvale, come strumento di intimidazione, dell’azione terroristica di gruppi armati; le opzioni strategiche dei leader palestinesi sono state sempre più impegnate a danneggiare Israele piuttosto che a porre positivamente le premesse per una reale indipendenza. La comune aspirazione a una pace giusta sembra insidiata dalla difficoltà di fissare i contenuti di una composizione degli interessi contrapposti ritenuta equa da entrambe le etnie. Ragionando in termini pragmatici, l’unica soluzione possibile sembra che possa consistere nella coesistenza di due Stati, ovvero nella creazione di uno Stato palestinese accanto a quello a maggioranza ebraica: tuttavia, l’istituzione dello Stato palestinese impone a Israele la rinuncia ai territori occupati e a parte della giurisdizione su Gerusalemme (in particolare sulla città vecchia e sulla spianata delle moschee). Questa soluzione è particolarmente osteggiata dalle frange più nazionaliste e conservatrici della società israeliana. In realtà la costituzione di uno Stato palestinese potrebbe perseguire anche l’interesse dei cittadini israeliani, stanchi di vivere perennemente sotto assedio e desiderosi di offrire ai propri figli un futuro di pace: infatti, la costituzione di uno Stato palestinese sembra essere in concreto l’unica alternativa a una condizione di eterna belligeranza. Ovviamente, intrapresa questa opzione, non sarà facile fissare i contenuti del relativo accordo. Come spesso accade in queste circostanze, uno degli ostacoli con cui dovranno misurarsi le rispettive diplomazie consisterà nel far accettare i sacrifici imposti dalla composizione della vertenza alla propria base popolare, sempre particolarmente attenta e sensibile a qualsiasi imposizione che comporti rinunce di sovranità. La realtà israeliana non è monoliticamente e aprioristicamente antiaraba, ma è animata da diversificate componenti che si contrappongono in un dibattito democratico vivace e articolato. Si nota una frattura fra le istituzioni governative e la gente comune. Mentre alcune componenti politiche persistono nel mantenere una linea rigida che rifiuta compromessi, una parte crescente degli israeliani è sempre più provata dalla precarietà. Conseguentemente dalla società civile israeliana emergono segnali che sono espressione del desiderio di una pacifica convivenza interetnica e interreligiosa. Alcuni esempi. A pochi chilometri da Abu Gosh – sulla via per Emmaus, il villaggio in cui Cristo si rivelò dopo la Resurrezione – sta sorgendo Saxum, un centro residen- ziale e multimediale, nel quale saranno ospitati fedeli di tutte le religioni per una comune esperienza spirituale. È particolarmente significativo che all’edificazione del Centro partecipino, lavorando in armonia fianco a fianco, Ebrei e Arabi, Musulmani e Cristiani. A pochi chilometri dal muro che divide Gerusalemme da Betlemme si trova l’ospedale pediatrico Caritas Baby, che ha accettato la sfida e l’impegno di curare tutti i bambini, senza differenze fra ebrei e palestinesi. Potrebbe sembrare normale prestare assistenza a malati non tenendo conto dell’appartenenza etnica o religiosa, ma non lo è in questa terra dilaniata dall’odio. Le attività sanitarie dell’ospedale, compreso il pagamento mensile dei salari, sono sostenute dalla generosità di singoli cittadini e da quella di associazioni e organizzazioni anche di altri Paesi. In questa prospettiva di pace sta assumendo un’importanza centrale l’Associazione SISO (Save Israel - Stop the Occupation). Il progetto politico del movimento SISO SISO è un movimento, fondato nel 2015, che intende favorire con mirate iniziative una soluzione negoziata del conflitto fra Ebrei e Palestinesi. SISO afferma il carattere prioritario del ritiro di Israele dai territori occupati e auspica la costituzione di uno Stato palestinese. Questa posizione, poiché potrebbe sembrare il corollario di un’opzione filo-araba o filo-palestinese, è minoritaria nell’àmbito dell’opinione pubblica israeliana. In realtà, gli obiettivi del movimento non sono motivati da scelte di carattere politico, ma esclusivamente da una visione pragmatica. I tempi sono maturi per il generale riconoscimento di Israele da parte di tutta la comunità internazionale, ma la sua piena legittimità è condizionata dalle evoluzioni della questione palestinese. La costituzione di uno Stato indipendente che assicuri l’autodeterminazione del popolo Abu Mazen-Netanyahu: un confronto difficile. palestinese dovrebbe avere come conseguenza anche una normalizzazione della vita civile israeliana, che potrà quotidianamente articolarsi in un contesto di sicurezza, democrazia e prosperità. Il movimento – che si avvale del sostegno di molte personalità israeliane, da quelle del mondo scientifico a quelle impegnate nella politica e nella cultura – intende sviluppare la propria azione su due direttive: oltre a promuovere iniziative avvalendosi delle potenzialità mediatiche, si propone come centro di coordinamento e di raccordo delle attività dei gruppi che operano per una svolta pacifica del conflitto. Recentemente il movimento SISO ha diffuso un appello di 500 note personalità israeliane (intellettuali, politici, diplomatici, scienziati, attivisti per la pace). L’appello si rivolge anche agli Ebrei della diaspora affinché, solidarizzando con gli Israeliani, intraprendano un’azione coordinata che ponga fine alla politica dell’occupazione dei territori. L’appello va nella direzione opposta dei piani rigidi e intransigenti dell’attuale governo israeliano, che non sembra riflettere pienamente il comune sentire della base popolare: infatti dai sondaggi e dalle analisi della stampa che hanno preceduto le ultime elezioni nel Paese si evince che il successo del leader Netanyahu è stato determinato maggiormente dal timore degli Israeliani per le incertezze di un eventuale e auspicato cambiamento di linea politica, piuttosto che da un reale convincimento circa l’opportunità di sostenere i desueti propositi del conservatore Likud. Naturalmente la realizzazione delle prospettive di pace richiede anche la cooperazione dei Palestinesi, che devono uscire dal tunnel dell’odio indiscriminato nei confronti di Israele. Le iniziative di SISO stimolano un dibattito sul futuro di Israele libero da posizioni preconcette: nell’incipit dell’appello di cui si è accennato in precedenza si legge: «Se ti interessa Israele, il silenzio non è più un’opzione». Come in passato la solidarietà degli Ebrei ha consentito la nascita e lo sviluppo di uno Stato ebraico, oggi l’alleanza fra gli Ebrei israeliani e quelli della diaspora potrebbe costituire uno strumento adeguato a consentire a Israele di ritrovare la sua anima democratica e di riaffermare con coerenza i suoi fondamenti morali. Inoltre potranno essere contrastati con efficacia i pregiudizi della comunità internazionale e gli impatti negativi sull’opinione pubblica alimentati dal perdurare del conflitto con i Palestinesi. L’attuale crisi mediorientale Alla fine di novembre dello scorso anno (2016) sulle Alture del Golan, al confine con la Siria, c’è stato il 47 Obama-Trump: due visioni opposte. primo scontro fra l’esercito israeliano e combattenti dello Stato Islamico; in particolare alcuni terroristi sono stati uccisi dopo aver attaccato una pattuglia di militari. Gli Israeliani hanno risposto bombardando alcune postazioni dell’Isis, uccidendo miliziani fondamentalisti. L’aggressione ai soldati israeliani probabilmente è stata decisa in autonomia da appartenenti del gruppo «Shuhada al Yarmouk», che ha giurato fedeltà all’Isis e che opera in una stretta fascia di territorio al confine tra Siria e Israele. Come è noto, Israele si è impossessato nel 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, delle Alture del Golan, che allora erano in territorio siriano. Nonostante la reciproca ostilità fra Israele e lo Stato Islamico, lo scontro di novembre deve essere considerato un caso isolato, in quanto sia Israele e sia lo Stato Islamico non hanno mai ritenuto opportuno aprire un fronte l’uno contro l’altro. Peraltro Israele ha sempre accuratamente evitato il proprio coinvolgimento nella guerra siriana: questa opzione ha una duplice motivazione. Innanzitutto il governo di Gerusalemme ha sempre ricercato in maniera discreta buoni rapporti con l’asse sunnita al fine di controllare la minaccia siriana, conservando tuttavia nello stesso tempo una posizione neutra ed equidistante nella contesa fra Sciiti e Sunniti. Inoltre Israele, per tenere 48 elevata la sua deterrenza militare nei confronti dei nemici storici, evita le iniziative belliche che possano incidere negativamente sulla sua reputazione di rivale temibile, lucido e determinato nel contrastare qualsiasi aggressione alla sua esistenza. In conclusione, per supportare questa dissuasività strumentale alla propria autodifesa, Israele è sempre rimasto fuori dai conflitti di difficile gestione e a esito incerto se non interessano direttamente la sua integrità territoriale. Il Congresso di Fatha & la risoluzione ONU A dicembre dello scorso anno (2016) si è tenuto il Congresso Nazionale di Fatha, il partito che rappresenta la maggioranza del movimento palestinese (l’ultima assise risale al 2014). Al riguardo non è emersa una leadership diversa ed è stato confermato al vertice il plenipotenziario ottantenne Abu Mazen, che cumula su di sé anche le attribuzioni di dirigente dell’OLP e di capo dell’Autorità Palestinese. La sua linea è sempre stata finalizzata con scarso successo a ottenere dalle Nazioni Unite il riconoscimento dello Stato palestinese, che al momento nell’Onu è solo «Stato osservatore non membro». Abu Mazen si è sempre in concreto dimostrato incapace di contrastare la po- litica di occupazione del governo israeliano. Il Congresso nell’occasione ha riconfermato il sostegno al Piano Arabo di Pace, che, promosso dai Sauditi e approvato dalla Lega Araba (2002), prevede che tutti gli Stati islamici riconoscano Israele, se Israele restituisce i territori occupati nel ’67, se consente la formazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, se accetta una soluzione «equa e concordata del problema dei rifugiati». Il 23 dicembre scorso (2016) il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una Risoluzione, sollecitata dalla Nuova Zelanda, dalla Malesia, dal Senegal e dal Venezuela, che chiede al Governo di Israele di «interrompere ogni attività» di incremento di insediamenti nei cosiddetti «territori occupati» e a Gerusalemme est, giudicando l’occupazione «senza validità legale» e dannosa per l’auspicato processo di pace. A favore della Risoluzione hanno votato 14 Paesi su 15 (Membri del Consiglio di Sicurezza), mentre gli Stati Uniti hanno deciso di astenersi. In proposito, la Rappresentante Permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Samantha Power, ha precisato che è contraddittorio promuovere iniziative per un accordo fra le due etnie e nello stesso tempo tollerare la politica di ampliamento degli insediamenti. La Risoluzione, anche se ha creato molto rumore soprattutto per la dura reazione israeliana, ribadisce semplicemente quanto già in passato questo consesso internazionale aveva affermato, ovvero l’illiceità della politica espansionistica israeliana. L’astensione statunitense è stata fortemente criticata dall’attuale Primo Ministro israeliano Netanyahu che ha definito «vergognosa» la Risoluzione, precisando che non osserverà la richiesta contenuta nella determinazione del Consiglio «di interrompere ogni attività». Il leader israeliano ha inoltre aggiunto di confidare nell’imminente inizio del mandato presidenziale USA di Donald Trump, che si insedierà a fine gennaio. Le preannunciate posizioni di Trump, a cominciare dal- l’amicizia con Putin e dal sostegno alla Siria di Assad, determineranno grandi cambiamenti negli equilibri mediorientali. Il carattere aggressivo della reazione di Benjamin Netanyahu probabilmente fa affidamento sul possibile appoggio del prossimo presidente americano, come peraltro si evince indirettamente dalle sue stesse parole. Tuttavia, se è certo che Trump rafforzerà l’amicizia americana con Israele, non è altrettanto sicuro che questo atteggiamento si spingerà fino a condividere la desueta e anacronistica linea politica del Likud al momento al potere nello Stato Ebraico, considerato anche il carattere molto volubile delle esternazioni del neopresidente USA. Il Segretario di Stato USA John Kerry in un discorso dai toni forti tenuto il successivo 28 dicembre, pur confermando l’amicizia nei confronti di Israele, ha censurato gli insediamenti israeliani nei territori occupati precisando che queste iniziative, alimentando tensioni fra Israele e l’Autorità Palestinese, ostacolano gravemente il processo di pace in Medio Oriente, che sembra avere come unico possibile obiettivo finale la costituzione di due Stati, ovvero quello palestinese accanto a quello israeliano. Quel perenne clima di stallo Come sostiene il professor Daniel Bar-Tal1, i contrasti fra Ebrei e Palestinesi appartengono alla categoria dei conflitti irrisolti. Questa tipologia è integrata da contrapposizioni che hanno un carattere radicale in quanto le parti percepiscono i relativi interessi del tutto incompatibili e inconciliabili fra di loro; conseguentemente le rispettive soggettività politiche non sono disponibili a compromessi. Il carattere permanente di gravi attriti etnici, quindi, è determinato dall’oggettiva difficoltà di trovare soluzioni. Spesso i conflitti irrisolti, per il loro carattere politico, travalicano i confini locali e possono esercitare effetti destabilizzanti a livello internazionale. Il confronto fra Israeliani e Palestinesi – che non può essere ricondotto solo a un contrasto fra diverse confessioni, cioè fra ebrei e musulmani, né a una guerra fra due popoli – ha una natura estremamente composita e complessa, in quanto in esso, oltre a componenti di carattere religioso ed etnico, confluiscono elementi che incidono su equilibri geopolitici, mondiali e regionali, e che sono mutuati da aspetti antropologici, storici e culturali. Per le implicazioni transnazionali la soluzione di questo conflitto va oltre la mera riconciliazione tra i due popoli. Hamas, l’organizzazione estremista politico-religiosa palestinese, giustifica le proprie iniziative terroristiche contro Israele definendole una modalità necessaria per difendere i propri territori dall’aggressione sionista. Israele rivendica invece il diritto di occupare nuovi territori per insediare comunità, motivando questi intenti espansionistici anche con una generale carenza abitativa. Israeliani e Palestinesi rivendicano inoltre per opposti motivi la legittimità delle loro pretese di sovranità su Gerusalemme. Quest’ultima ambizione ha anche una matrice religiosa: Gerusalemme è la terza città sacra dell’Islam dopo La Mecca e Medina, mentre il nome della metropoli in ebraico significa letteralmente il luogo dove apparirà il Messia. Le scelte strategiche di Israeliani e Palestinesi, oltre ad avere margini di illegalità, si traducono in concreti ostacoli a prospettive di pace. C’è una chiara asimmetria fra gli attori di questi negoziati. Israele è uno Stato moderno e solido; il popolo palestinese non ha invece una chiara soggettività politica, né un esercito regolare, e con difficoltà individua una leadership pienamente rappresentativa e plenipotenziaria. La rispettiva propaganda interna delle due parti, già a cominciare dai testi scolastici, demonizza il nemico descrivendolo come un interlocutore crudele, sanguinario, e soprattutto disinteressato a una composizione pacifica della vertenza. Nell’immaginario collettivo degli Israeliani tutti i Palestinesi sono terroristi, mentre in quello dei Palestinesi tutti gli Israeliani sono oppressori e usurpatori. Fortunatamente non mancano in entrambi i fronti personalità moderate che auspicano la tolleranza e l’accettazione dell’altro. Sia la società israeliana sia quella palestinese hanno molti problemi interni che influiscono negativamente sulla definizione della propria identità: l’esistenza di un nemico esterno distoglie dai problemi interni e contribuisce all’unificazione e al rafforzamento del sentimento nazionale. C’è ancora una lunga strada da fare; sicuramente il prossimo probabile mutamento di molti equilibri internazionali conseguenti all’insediamento del neo presidente americano Trump ha le potenzialità per avere ripercussioni sulla questione. Gli approfondimenti e le analisi del prof. Daniel Bar-Tal e di altri studiosi israeliani sugli aspetti che rendono irrisolto questo conflitto non sono mere speculazioni o un contributo intellettuale alla democrazia israeliana, ma hanno importanti risvolti pratici, in quanto sono finalizzati all’individuazione delle barriere sociopsicologiche che impediscono a Israele di intraprendere un cammino di pace. Essere consapevoli di questi ostacoli è il presupposto per il loro superamento e per l’individuazione di azioni concrete la cui attuazione potrà essere congiuntamente concertata in un eventuale tavolo negoziale. In proposito, Shimon Peres amava dire: «Non è vero che non c’è luce in fondo al tunnel in Medio Oriente. Tutt’altro, la luce c’è. Il problema è che non c’è il tunnel...». Roberto Rapaccini 1 Il prof. Daniel Bar-Tal è docente emerito di Psicologia politica all’Università di Tel Aviv. Dal 2000 al 2005 è stato direttore dell’Istituto di ricerca Walter Lebach per la coesistenza tra arabi ed ebrei attraverso l’educazione»; dal 2001 al 2005 è stato condirettore del Palestine Israel Journal; dal 1999 al 2000 è stato Presidente della «Società Internazionale di Psicologia della Politica». 49 LETTURE/128 Zaccuri, Spaggiari, Montale Col nuovo romanzo, Lo spregio (Marsilio, Venezia 2016, pp. 126, euro 16), Alessandro Zaccuri si ricollega al suo primo, fortunato romanzo, Il signor figlio (Mondadori 2007, Premio selezione Campiello). È il rapporto generazionale che da sempre assilla lo scrittore, e qui la narrazione è prosciugata, compatta, un po’ à la Borges, come raccontando al lettore una storia che prima era stata raccontata all’autore. Il tema è violento. Il ragazzo Angelo Morelli, di dieci anni, adora suo padre, il Moro, titolare di una trattorialocanda al confine svizzero. Il ragazzo, nell’estate del 1993, è particolarmente felice perché il padre gli ha concesso di stare alla cassa, a distribuire il resto ai clienti. È un passo importante nell’iniziazione, e Angelo dà corpo ai suoi sogni. Se non che Vito, un compagno di scuola, oltretutto figlio del brigadiere Lomunno, gli fa una rivelazione raccapricciante: «Lo sanno tutti che tuo padre è un ladro, e che se la fa con i contrabbandieri. Avete pure le puttane in casa, avete. E il caffè vostro sa di veleno». È il crollo di un mondo. Angelo collega alcuni indizi e scopre che Vito ha proprio detto la verità. Il padre, però, ha una reazione inattesa: convoca il brigadiere Lomunno che costringe il figlio, che ha vistosi segni di 50 schiaffoni in faccia, a chiedere scusa ad Angelo. Inattesa è anche la reazione di Angelo: trasforma in competizione l’ammirazione verso il padre, impara a sua volta a chiedere la tangente ai contrabbandieri, scopre il nascondiglio in cui è conservata la roba, e si avvia a una luminosa e parallela carriera di delinquente. Testimone muta è la madre, Giustina, cuoca mite e amorosa, succuba del marito che l’ha costretta a dirsi madre di Angelo, che invece era stato raccolto in fasce dal Moro spacciandolo per figlio suo. Di questo retroscena è informato il lettore, mentre Angelo è il solo a non conoscere la propria origine, e non la saprà mai. Questo è un particolare un po’ inverosimile, dato che difficilmente un paese così piccolo avrebbe saputo mantenere un simile segreto, ma se Angelo fosse stato al corrente di non essere vero figlio del Moro e di Giustina, Zaccuri avrebbe dovuto scrivere un libro diverso. La carriera delinquenziale di Angelo, ormai giovanottello, si accelera attraverso l’amicizia con Salvo, figlio di don Ciccio, mafioso in soggiorno obbligato con tutta la famiglia. Salvo spende e spande, scarrozza in macchina Angelo, gli insegna a portare abiti di marca, lo porta al casinò, per non parlare delle avventure con le ragazze. Angelo si stanca presto di fare il gregario ed entra in emulazione con Salvo. Quando costui trafuga una preziosa statua marmorea di san Michele, acquistando agli occhi del padre l’ingresso nell’età adulta, Angelo progetta la rivalsa. Si procura un san Michele meccanico, che apre le ali con strepito di ferraglie e lo colloca accanto alla trattoria per fare una sorpresa a Salvo, ma avviene l’irreparabile. Salvo e don Ciccio non tollerano che Angelo abbia voluto mostrare superiorità con una statua, peraltro kitsch, più alta della loro: è lo spregio immedicabile, che costringerà alla vendetta, crudelissima vendetta. Zaccuri racconta a ciglio asciutto questa storia spietata, ed è abilissimo nel riportare la psicologia paradossale dei mafiosi, che non indietreggiano davanti al delitto, eppure conservano una religiosità apparentemente sincera: sono davvero devoti a san Michele. E sono ben tracciati anche i fili che legano la connivenza tra certi finanzieri, i contrabbandieri e i mafiosi. Una storia dura, come si vede, eppure avvincente nel denunciare, senza perorazioni e compiacenze, il male in quanto male. Una quisquilia: a pagina 78, don Ciccio «sfilò la stoffa [che ricopriva la statua di san Michele] con un solo gesto, sicuro e misurato. Sembrava il torero quando fa roteare la mantiglia davanti alla bestia già spossata». La mantiglia (mantilla) è il velo di seta o di pizzo che le donne spagnole in costume tradizionale portano sul capo, fermandolo con la peineta. Il torero fa roteare la capa (o capote) all’inizio della lidia. Ingegnosa canaglia Lunedì 19 luglio 1976 la Francia si svegliò con una notizia di cronaca che aveva dell’incredibile: nel weekend il caveau delle cassette di sicurezza della Société Générale di Nizza era stato svuotato. La mente di quella che fu subito denominata «la rapina del secolo» – un bottino di oltre cento milioni di franchi, in gioielli e contanti – era Albert Spaggiari, singolarissimo avventuriero cosmopolita. Era nato in Provenza nel 1932, orfano di padre da quando non aveva ancora tre anni, ebbe un’infanzia triste. A diciott’anni si arruolò volontario per combattere in Indocina. Arrestato nel 1954 per un furto a Saigon, venne rilasciato tre anni dopo. Da subito prese contatti con l’estremismo di destra francese, militando nell’OAS (Organisation de l’armée secrète), contraria all’indipendenza dell’Algeria. Nel 1961 tentò perfino di assassinare Charles De Gaulle. Arrestato l’anno dopo per altri motivi connessi alle attività dell’OAS, viene rilasciato nel 1965 e si trasferisce a Nizza aprendo un negozio fotografico. Ma non era tagliato per una vita piccolo borghese: con la rabbia del perdente che mai si arrende, architettò la grande rapina come estrema avventura. Un personaggio simile interessò tangenzialmente anche Ken Follet; la «rapina del secolo» ispirò libri e film. Ma come andarono esattamente le cose? Finalmente il pubblico italiano può leggere Le fogne del Paradiso, a cura di Carlos D’Ercole, il resoconto autobiografico che Spaggiari scrisse a ridosso degli avvenimenti, nel 1977, pubblicato in Francia qualche anno dopo. La traduzione è di Jacopo Ricciardi per la Oaks Editrice, nella collana «Ribelli» dell’eclettico Luca Gallesi (Milano 2016, pp. 224, euro 18; postfazione di Tomaso Staiti di Cuddia). Il libro è attanagliante. Nessuno avrebbe potuto immaginare una storia come quella, se non fosse vera. Spaggiari racconta passo dopo passo com’è stata architettata quell’impossibile impresa, costruita su elementi casuali e su incontri fortuiti che si strutturano in un disegno implacabile. Il colpo fu eseguito dalla collaborazione fra due squadre di criminali professionalmente abilissimi: quella di Spaggiari, assortita di elementi stravaganti e solidali, e quella di Pierre, altrettanto e forse ancor più pittoresca. Gente che non aveva nulla da perdere, affascinata da quel «Paradiso» di denaro, da conquistare con quattro e più mesi d’Inferno nelle fogne di Nizza, scavando un cunicolo per arrivare fino al muro del caveau, immersi nella melma (eufemismo), assaliti dai topi, fra momenti di euforia alternati a crisi di sconforto. Spaggiari non l’ha fatto per il bottino: certo, i soldi sono importanti ed egli seppe utilizzarli, ma era l’avventura per l’avventura a motivarlo, in una sorta di superomismo nichilista autodistruttivo, in tacita competizione con Pierre: «Era un duro Pierre, un tipo che aveva afferrato il suo destino alla gola. Io l’avevo afferrato per la cintura. Non è la stessa cosa». Spaggiari si rivela grandissimo scrittore: i caratteri sono scolpiti, il ritmo non dà tregua. Con gergalismi e parolacce, inevitabili nel mondo a parte della malavita, con le sue regole e i suoi slanci, in cui la solidarietà, pur nel male, si colora di amicizia. Spaggiari fu arrestato il 27 ottobre 1976 a seguito della delazione dell’individuo – lui lo chiama l’Ectoplasma – che pur l’aveva messo in contatto con Pierre. Il 10 maggio dell’anno successivo, durante un interrogatorio, saltò dalla finestra dello studio del giudice: con un volo di otto metri, rimbalzò sul tetto di un’auto parcheggiata e poi via, sulla moto rombante del fido Biki, l’amico dall’allure di Tuareg. Riuscì a far perdere le sue tracce, riparò in America Latina. Staiti di Cuddia lo incontrò in Brasile. Nel giugno 1989 chiamò la madre dall’Italia (o forse dall’Austria) per annunciarle di essere gravemente malato. La «simpatica canaglia», come lo chiama Stenio Solinas, morirà il 10 giugno di quell’anno. Nel caveau rapinato aveva lasciato un cartello: «Senza odio, senza violenza e senza armi». Ancora sul «Diario postumo» Con Montale non è mai finita, e adesso si aggiunge un Montale di Enrico Testa, rielaborazione aggiornata di precedenti scritti, con pretesa di «un nuovo sguardo su Montale» (Le Monnier-Università, Firenze 2016, pp. 160, euro 14). L’autore, che insegna Storia della lingua italiana nell’Università di Genova, ha scelto una «narrazione» che affianca dati biografici e testi montaliani, ottenendo leggibilità per chi si accosta, ignaro, all’universo montaliano, appunto come accade agli studenti. Didatticamente articolato in cinque capitoli come il corpus montaliano (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro, Satura, «La vecchiaia del poeta») contiene utili riflessioni, come la valorizzazione della lirica Incontro (negli Ossi), non senza qualche amnesia. Per esempio, Testa ricorda che Montale aveva dichiarato a Leone Piccioni di aver ottenuto nel 1929 la direzione del Gabinetto Vieusseux di Firenze perché senza tessera fascista (per 51 un capriccio del podestà di Firenze, Giuseppe Della Gherardesca), e di averla perduta dieci anni dopo per lo stesso motivo. Testa però non aggiunge che Montale, a suo tempo, la tessera l’aveva chiesta al Duce, ma non gli era stata concessa per beghe tra i fascisti fiorentini. Il che non toglie nulla alla grandezza del poeta. Dove però Testa cade è nella liquidazione del Diario postumo di Montale, curato da Annalisa Cima. Evidentemente, egli non ha studiato l’argomento, anzi, dice esplicitamente di non sentirsi d’affrontare la questione dell’autenticità del Diario «che quindi assai volentieri – vista l’irrilevanza e mediocrità dei testi – mettiamo da parte». Cita però il convegno organizzato da Federico Condello all’Università di Bologna nel 2014, per asserire l’inautenticità del Diario. Per dimostrare la mancanza di rigore metodologico e forse la malafede (le due ipotesi non si escludono) del Condello, basti ricordare che tutto il convegno è stato organizzato all’insaputa di Annalisa Cima, alla quale non sono stati chiesti gli originali delle poesie contestate, e costruendo una macchina del fango sulla base di scampoli giornalistici e di perizie grafologiche parziali, condotte su fotocopie. Testa, evidentemente, non ha letto gli Atti del seminario di Lugano del 24-26 ottobre 1997, con interventi di Rosanna Bettarini, Guido Bezzola, Piero Bigongiari, Maria Corti, Oreste Macrì, Alessandro Parronchi, Giuseppe Savoca, Andrea Zanzotto, Marco Forti e altri, fra i quali Maria Antonietta Grignani che oggi affianca Condello mentre allora propendeva per l’autenticità. A Lugano furono esposti gli autografi di Montale, comprese le buste notarili contenenti le poesie, buste della cui esistenza Condello dubita. In quella sede Annalisa Cima smascherò Dante Isella che aveva sollevato la questione dell’inautenticità dopo che inizialmente era di 52 opposto parere. Il motivo piscologico è che la Cima non volle affidare a Isella la prefazione al Diario postumo, preferendogli – come da volere di Montale – l’apparato critico di Rosanna Bettarini, la filologa che con Gianfranco Contini (ormai in vecchiaia) aveva curato tutta l’Opera in versi di Montale, peraltro utilizzata da Giorgio Zampa nei «Meridiani» mondadoriani. Per una cronistoria della vicenda, rimando al mio scritto sul numero speciale della Revue des études italiennes, dedicato a Montale (n. 3-4, Parigi 1998). Eppure, Testa, nella sua Conclusione, annovera Annalisa Cima tra le Muse di Montale: «Ricordiamo solo e senza alcuna pretesa di completezza: Anna degli Uberti con la sua fantasmatica costellazione di nomi, la “giovane peruviana”, Paola Nicoli, Mosca, Clizia, Volpe e infine Laura Papi e, a chiudere, Annalisa Cima». Quanto ad Anna degli Uberti (Arletta, Annetta eccetera) è lacuna di Testa il non aver neppure citato Paolo De Caro, il più acribioso dei veri montalisti, che ad Anna ha dedicato un capitolo del suo fondamentale Invenzioni di ricordi (2007), con testimonianze dei famigliari di lei. A proposito del lungo elenco di Muse montaliane, non si pensi di lui come a un tombeur de femmes: il poeta rievoca le sue ispiratrici quando sono morte o comunque lontane, tanto che di Anna aveva sempre parlato come di una defunta, mentre è vissuta fino al 1959. Forse la considerò morta dopo averla vista per l’ultima volta nel 1924 (si erano conosciuti a Monterosso nel 1919, lei quindicenne, lui ventiquattrenne incravattato anche in spiaggia). Montale non canta amori lontani (oltretutto non corrisposti, come nel caso di Anna), bensì è cantore dell’assenza, per cui contestualizzare testi e biografia come fa Enrico Testa, può servire per un feuilleton televisivo, ma non aggiunge nulla alla comprensione delle poesie che vanno valutate nella loro astratta, linguistica pu- rezza. Due nel crepuscolo, forse ispirata da Arletta, non è una poesia per Arletta, ma è un testo in cui ogni uomo può riconoscersi nel poeta, e ogni donna nel «tu» a cui il poeta si rivolge. Per essere ancora più espliciti: nel 1968, Montale aveva confessato: «Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento. Appartengo al limbo dei poeti asessuati e guardo al resto del mondo con paura» (Annalisa Cima, Le occasioni del Diario postumo, 2012). Il Diario postumo è stra-autentico e stra-autenticato, e alla Mondadori dovrebbero ben saperlo, se i nuovi direttori di collana volessero prendersi la briga di consultare gli archivi in loro possesso, magari facendosi guidare da Gian Arturo Ferrari che all’epoca era al corrente di come stavano le cose ed è tuttora ai vertici di Mondadori-Rizzoli. Si può benissimo sostenere che molte poesie «postume» non siano all’altezza del Montale maggiore, ma sono al livello dell’ultimo e coevo Montale del Diario del ’71 e del ’72 e del Quaderno di Quattro anni (1977). Favoleggiare di inautenticità del Diario postumo non è tanto un affronto ad Annalisa Cima che giustamente non vuole essere tirata in ballo quando tutto era già stato stra-chiarito a suo tempo, e non accetta di sedere adesso sul banco degli imputati (peraltro, l’accusa di falsaria sarebbe anche penalmente rilevante), bensì è un insulto alla memoria e alle ultime volontà di Montale. Questa storia lascia pensosi sulla letteratura insegnata nelle università: a Bologna, con un Condello che ordisce complotti; a Genova, con un Testa che insegna Montale agli studenti ma non è interessato a come è andata a finire; a Pavia, con una Grignani che sta disperdendo l’eredità lasciata da Maria Corti. Cesare Cavalleri INQUIETOVIVERE di Guido Clericetti 53 TEATRO Il volto spietato del socialismo reale Dittature comuniste e crimini contro l’umanità. Il volto spietato del socialismo reale è al centro di due spettacoli andati in scena a Milano sul finire del 2016: Collaborators, di John Hodge, traduzione e regia di Bruno Fornasari, e Goli Otok, progetto di Elio De Capitani e Renato Sarti. Collaborators, che ha debuttato al teatro Filodrammatici, accenna ai crimini di Stalin in Unione Sovietica. Goli Otok, riproposto al Teatro della Cooperativa, racconta le atrocità del più crudele dei campi d’internamento di Tito nella ex Jugoslavia. «Collaborators», seduzioni del potere Collaborators (con Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Michele Basile, Marco Cacciola, Emanuela Caruso, Bruno Fornasari, Enzo Giraldo, Marta Lucini, Alberto Mancioppi, Daniele Profeta, Chiara Serangeli, Umberto Terruso, Elisabetta Torlasco, Antonio Valentino; scene e costumi Erika Carretta, disegno luci Fabrizio Visconti, musiche originali Rossella Spinosa) dipinge una Russia culturalmente omologata e artisticamente regolata da una censura opprimente. Qui, dove fermenta il comunismo più gretto e scompare la libertà di opinione, vive e scrive Michail Afanas’evič Bulgakov. Bulgakov intrattenne con Stalin una relazione altalenante: sottomissione e piaggeria da una parte, coraggio e azzardo dall’altra. Quest’ambivalenza è restituita dalle lettere, la più importante delle quali, datata 28 marzo 1930, fu scritta quando Bulgakov pareva sulla stra- 54 Tommaso Amadio e Alberto Mancioppi. da del suicidio, sulla scia del compagno Majakóvskij. La lettera è un atto di deferenza di Bulgakov al dittatore. Stalin rispose personalmente con una telefonata. In Collaborators lo scrittore inglese John Hodge immagina che a Bulgakov sia richiesto di scrivere un testo celebrativo di Stalin in occasione del suo sessantesimo compleanno. Inizialmente ricalcitrante, Bulgakov alla fine accetta, per continuare a teatro le repliche del suo Molière, per curare la propria salute malferma e per evitare sciagure a sua moglie, possibile vittima di ritorsioni. È qui che, nella fantasia di Hodge, avviene un capovolgimento di ruoli: Stalin diviene scrittore ed elabora di proprio pugno la propria biografia; Bulgakov si cimenta nell’arte politica, affiancando e talvolta rimpiazzando lo stesso Stalin. Con luci ora calde e intime, ora spettrali, Bruno Fornasari inserisce la narrazione in un ambiente domestico accogliente. Un armadio stile Cronache di Narnia è anticamera di spazi «altri». Si avvicendano tre piani di finzione: quello appunto del sodalizio Bulgakov-Stalin, quello dello spettacolo su Molière e sul Malato immaginario che in quel periodo lo scrittore sta mettendo in scena a Mosca con la sua piccola compagnia (la morte del drammaturgo francese in scena combacia con quella dello stesso Bulgakov); infine quello della pièce su Stalin, che lentamente si coagula, della quale sono proposti dei frammenti. Ci confrontiamo con il lato oscuro del potere, odioso e riprovevole, eppure capace di forza seduttiva. Collaborators vede la presenza in scena dello stesso Fornasari e di altri tredici attori tutti di scuola Filodrammatici (convincenti sopra tutti il versatile Tommaso Amadio, nei panni di Bulgakov, e un folgorante Alberto Mancioppi, controfigura di Stalin). Il male prevale inesorabile. Se di commedia si tratta, la dittatura calerà la maschera e assorbirà nel suo vortice i vari protagonisti, partendo proprio da quelli collusi con il potere. Juretich nell’inferno di «Goli Otok» Tra gli abomini del Secolo breve, c’è anche Goli Otok, campo d’internamento titino in cui furono rinchiusi – dopo la rottura fra Jugoslavia e Unione sovietica – i «traditori» fedeli a Stalin. Goli Otok, isola della libertà (progetto di Elio De Capitani e Renato Sarti, musiche Carlo Boccadoro, luci Nando Frigerio, assistente alla regia Annarita Signore) è la storia di Aldo Juretich, monzese nato negli anni Venti a Fiume. Aldo Juretich finì nel lager all’indomani della Seconda guerra mondiale, con altri esponenti della Resistenza jugoslava: guerriglieri, ex combattenti di Spagna, comandanti partigiani, notabili del Partito comunista jugoslavo, scrittori, poeti, artisti. Persino ex agenti dell’UDBA, la disumana polizia segreta che arrestava e massacrava gli avversari di Tito. Nella pièce Aldo Juretich (Elio De Capitani) è visitato da un medico di origine croata (Renato Sarti). Quest’ultimo, dopo aver letto il libro Goli Otok di Giacomo Scotti, riesce a convincere Aldo a raccontare la sua terribile esperienza. Affiora la dissonanza tra le bellezze della piccola isola di Goli Otok, bianca come Moby Dick, splendente delle sue rocce carsiche, e le atrocità che vi furono commesse. È il teatro civile cui Renato Sarti ci ha abituato. Ma qui c’è un surplus d’umanità, sfrondata d’eccessi ideologici. In piedi di fronte al pubblico, De Capitani e Sarti giganteggiano sulla scena. La moralità che propongono non è quella di eroismi militari o partigiani. È anzi il frutto di un dolore empatico, che ci ricollega a vicende a lungo rimosse dai libri di storia. Il principio che reggeva Goli Otok era quello del «ravvedimento»: il prigioniero doveva correggere la propria posizione. Fame, sete, malattie, sevizie, erano gli strumenti usati dal sistema. Ravvedimento equivaleva a ricatto. Ci andavano di mezzo ex compagni, amici, pa- Elio De Capitani e Renato Sarti. renti. Chiunque poteva entrare, come delatore o come vittima, nel tritacarne del sistema. Le mogli degli internati, per dimostrare di non essere staliniste, dovevano divorziare. Se non lo facevano, erano licenziate e costrette ai lavori più umilianti. I figli erano espulsi dalle scuole per indegnità. Chi usciva vivo dall’internamento a Goli Otok, andava incontro alla seconda fase del calvario: quello del rientro nella società e del completo isolamento. Chi ritrovava la libertà doveva firmare un documento in cui si impegnava a tacere la propria storia. Un De Capitani solenne e un Sarti versione spalla restituiscono le violenze fisiche del concentrazionismo jugoslavo e il clima di sopraffazione psicologica che conduceva generalmente alla delazione e al tradimento, in primis delle proprie idee. Paura e sospetto permanevano per anni anche dopo il ritorno a casa. Non mancano tocchi di leggerezza e ironia nella prova di De Capitani, convincente per sicurezza e naturalezza. L’inferno è descritto con toni pacati. De Capitani e Sarti ci guidano dentro un’isola-galera senza psicodrammi. Il panorama è devastante. Entriamo in un cumulo di baracche inospitali, senza lavandini e senz’acqua. La sporcizia si stratifica. Le calze diventano pezzi di legno: se tolte, si portano via le unghie dei piedi. Scorgiamo occhi incavati, guance infossate, labbra seccate dalla sete. Il fetore si mischia all’odore della scarna minestra di porro che è il rancio dei prigionieri. Avvertiamo il gelo della bora e della pioggia attraverso gli spifferi. Sentiamo i silenzi, il dolore delle vesciche alle mani. Passiamo in rassegna le abiezioni degli aguzzini. Sul male aleggia l’impotenza. Questo teatro vive dell’empatia che si genera tra attori e pubblico, e trasforma la disumanizzazione astratta nello specifico di una storia personale. Juretich decise di non tradire, nel rispetto etico e umano degli amici, fratelli, e compagni di lotta che volle difendere, convinto che la delazione fosse ricatto senza via d’uscita e strategia perdente oltre che vile. Perdente era forse l’ideologia comunista quando diventava sistema. Vincenzo Sardelli 55 CINEMA / 1 Due film al femminile In due momenti diversi della scorsa stagione estiva due film, apparentemente diversissimi, presentavano un tratto comune: la preminenza assoluta dell’elemento femminile. Ghostbusters Il primo, distribuito in Italia in luglio, è Ghostbusters, diretto da Paul Feig: si tratta del reboot dei due fortunati film degli anni Ottanta con Bill Murray. Ma qui il cast è tutto al femminile: assoluta mattatrice è Melissa McCarthy, che, da Una mamma per amica sino a Spy (se non l’avete visto, procuratevelo: esilarante, con un Jude Law agente segreto talmente tonto da far piangere dalle risate e una «cattiva» tanto sopra le righe da diventare simpatica), ha fortunatamente cominciato a essere apprezzata anche in Italia. La trama ricalca molto da vicino il primo film della serie: Erin Gilbert (Kristen Wiig, la ragazza amata da Ben Stiller nei Sogni segreti di Walter Mitty), sempre mortificata in strambi completini da collegiale fuori tempo massimo, sta per ottenere, dopo anni di duro lavoro, una cattedra di fisica in una prestigiosa università di New York. Sarebbe il coronamento delle aspirazioni di una vita, ma, purtroppo, a macchiarle irrimediabilmente il curriculum rispunta, grazie al web, su cui viene venduto, un libro su fantasmi ed ectoplasmi scritto a quattro mani con l’amica Abby (Melissa McCarty, appunto). Sfumata la carriera universitaria, 56 Le quattro Ghostbusters di Feig. quindi, Erin si rimette, dopo qualche baruffa, in società con Abby, nel frattempo relegata nel laboratorio di fisica, più simile a un’officina, di un «centro di ricerche», in realtà un liceo scalcinato in cui nemmeno il preside stesso, irascibile e perennemente in infradito, sa come vengano impiegati spazi e risorse. Abby ed Erin, trovata un’altra coppia di socie, possono così concretizzare la loro passione per il sovrannaturale, mettendo in piedi una società di «operatrici per la verifica metafisica». Il film gronda di omaggi e citazioni al primo Ghostbusters, che segue da vicinissimo per ordine delle sequenze e delle situazioni, spunti comici, caratteri dei personaggi, gag, ambienti e scenari, in un continuo raffronto fra il 1984 e il 2016: persino la sede dell’impresa dei Ghostbusters originali viene riproposta, quando le nostre cercano uno stabile da affittare. Ma l’effetto nostalgia nello spettatore viene subito polverizzato da Kristen Wiig, che, sentita l’en- tità stratosferica del canone d’affitto, passa subito da un’espressione sognante ad apostrofare l’agente immobiliare con un sonoro: «Ma sei scema?». Anche i caratteri delle protagoniste ripropongono i «tipi» dei primi quattro acchiappafantasmi; del resto, i protagonisti stessi del primo film compaiono ciascuno in un cameo: da Bill Murray, che interpreta, per contrasto ironico, uno studioso scettico nei confronti del sovrannaturale (più o meno equivalente dei membri del nostro CICAP - Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze) ed è destinato a fare una brutta fine, sino a Sigourney Weaver, che si palesa nel finale. Manca, ahimè, Egon, ovvero Harold Ramis, purtroppo defunto, il cui equivalente nel nuovo quartetto è dato da Kate Mc Kinnon, la biondina perennemente in tuta da saldatrice (il cui motto sembra essere: «Datemi una fiamma ossidrica e cambierò il mondo»). E per polarizzare l’attenzione del pubblico femminile, troviamo la figura del segretariocentralinista. Sì perché, nel rovesciamento speculare dei ruoli, se nel primo Ghostbusters ai quattro uomini si affiancava la scialba Jeanine (che ritroviamo nel ruolo di capo-concierge: l’hotel infestato è un altro luogo topico nel film del 1984), qui le «operatrici della verifica metafisica» assumono un centralinista, Chris Hemsworth, tanto scultoreo e belloccio quanto stupido e buffo. E non è la prima volta che Chris Hemsworth si prende in giro: ricordiamo per esempio il cognato tronfio di Ed Helms in Come ti rovino le vacanze. Il film, del resto, è divertente, ma un po’ deboluccio, e vive delle continue citazioni, a beneficio di chi era bambino o adolescente negli anni Ottanta e ha consumato il nastro del VHS del film originale: ma, del resto, scopo di Ghostbusters era dichiaratamente, e unicamente, intrattenere all’insegna del divertimento. Io prima di te Ben diverse le ambizioni di Io prima di te, che, nella prima parte, può sembrare una versione aggiornata ai nostri tempi della storia di Cenerentola. Lei, Emilia Clarke, già vista nel Trono di Spade e in Terminator Genisys, è povera e graziosa; il suo personaggio, Louisa «Lou» Clark, sempre sorridente, è una specie di Pollyanna – quanti danni ha fatto! –, amante di scarpe sgargianti e di buffe calzamaglie che la fanno sembrare l’Ape Maia (e con le folte sopracciglia perennemente contratte in una serie di smorfiette che vorrebbero forse imitare la Meg Ryan delle origini, e che risultano francamente irritanti): in sostanza, si veste come Minnie, ma tant’è: de gustibus. Lui, Sam Clafin (già visto in Hunger Games – La ragazza di fuoco, dove interpretava uno dei «tributi», e in Biancaneve e il Cacciatore, in cui il suo perso- «Lou» con un Will momentaneamente felice. naggio, lo scialbo principe, doveva, per precise esigenze di copione, sbiadire al confronto di Chris Hemsworth), è Will Traynor, bello, giovane e ricco, ma tetraplegico a seguito di un incidente. Ma, soprattutto, Will è francamente scostante e antipatico, anzi, proprio odioso; del resto, chi non si guasterebbe dopo essere passato da una vita bella, piena di prodezze atletiche (che ci vengono mostrate con l’espediente narrativo di un vecchio video realizzato dai suoi amici), alla forzata immobilità senza alcuna prospettiva di miglioramento? I due si conoscono perché Lou, che ha perso il suo impiego in una caffetteria, ha urgente bisogno di entrate stabili per aiutare la sua complicata e affettuosa famiglia: il padre è disoccupato e la sorella è una ragazza madre che sogna di tornare all’università e di costruirsi una vita migliore. Dopo qualche infelice esperienza, Lou risponde all’annuncio dei Traynor, che cercano per sei mesi un’assistente, non un’infermiera, per fare compagnia a un invalido. Lou arriva al colloquio con la solo apparentemente fredda signora Traynor abbigliata con una mise in puro stile anni Ottanta, degna della Melanie Griffith di Una donna in carriera: le due donne non potrebbero sembrare più diverse. La ragazza viene presto disillusa: credeva di dover assistere un anziano, forse il marito della signora Traynor, e invece dovrà passare le giornate in compagnia del fi- glio, poco più che trentenne. Che, per i primi dieci giorni, ignora sistematicamente Lou. Eppure, presto, comincia a crearsi una corrente di simpatia fra i due, complice una giornata piovosa, il classico «pomeriggio da DVD». La scelta cade su Des hommes et des dieux (distribuito in Italia come Uomini di Dio), film centrato sul massacro dei monaci di Tibhirine negli anni Novanta, e imperniato sul tema della scelta, che, come vedremo, diventa via via centrale anche in Io prima di te. Lou, che non ha mai visto un film «con i sottotitoli», è conquistata dalla pellicola; nondimeno, accusa Will di essere snob. Lui, di rincalzo, la accusa di non ampliare a sufficienza i suoi orizzonti, di sprecare il suo tempo e le sue potenzialità, e di essere, in buona sostanza, una stupidina senza grandi interessi. Così, sotto gli occhi increduli della madre di Will, inizia un sorridente battibecco, prodromo di una specie di amicizia. Ben presto Traynor inizia a voler uscire, a portare «Clark», come la chiama, sugli spalti del castello, e, nonostante odi essere imboccato di fronte a estranei, accetta un invito a cena a casa di Lou per il compleanno della ragazza, sotto gli occhi allibiti, e un po’ idioti, del fidanzato di lei, un personal trainer ossessionato da fitness e cibi ipocalorici, che, come viaggio romantico, vorrebbe portare Lou in Norvegia... al Triathlon del Vichingo, insieme ai suoi compagni di allenamento. 57 Sembra proprio che, in qualche modo, Will stia recuperando un po’ di amore per la vita, ma ecco la mazzata: arriva al castello una lettera dalla Svizzera, dall’Associazione Dignitas che aiuta malati senza speranza e terminali a praticare il suicidio assistito. Traynor vi si era rivolto mesi prima, e i genitori, la madre in particolare, erano riusciti a strappare al figlio la promessa di attendere sei mesi. Ecco svelato il motivo per cui il contratto di Clarke era a tempo, e perché la signora Traynor aveva cercato, di proposito, per affiancare l’infermiere, una compagnia medicalmente ignorante, ma che con la sua simpatia potesse curare Will dalla disaffezione per la vita. E non bastano una splendida serata a un concerto di Mozart, o la partecipazione al matrimonio della ex fidanzata di Will, che si sposa proprio con il suo ex collega e migliore amico. Alla cerimonia, del resto, i due partecipano, bellissimi ed elegantissimi, sotto gli occhi scandalizzati degli impettiti invitati del jet-set, che apprendono come anche chi è sulla sedia a rotelle possa trovare modo di ballare. Non basta nemmeno una magnifica vacanza esotica, durante la quale Clark si entusiasma alle immersioni e Will sembra sereno e felice. Nonostante fra i due sia nato un sentimento che va ben oltre l’amicizia, la serenità di Will si radica proprio nel non essersi allontanato di un millimetro dalla sua decisione iniziale, e nell’essere più che mai convinto di recarsi in Svizzera per l’eutanasia. E qui si rivela il senso del titolo: «Io prima di te». Certo, significa anche, da parte di Will, «non posso resistere al pensiero di come ero (libero, sano e autonomo) prima di conoscere te»: esemplificative, in questo senso, sono le parole del giovane al rientro dal concerto: «Non voglio rientrare subito in casa; voglio sentirmi ancora per qualche momento un uomo normale che è andato a un concerto di Mozart con una bella 58 ragazza». Ma il titolo va inteso anche nel senso più brutale e, diremmo, cronologico: «Io (muoio) prima di te». Non solo Will è deciso, ma ha anche pensato a provvedere a Lou: dapprima procurando un impiego a suo padre, e poi in un modo più radicale, che si comprende solo nel finale. Però, con ostinazione atroce, insiste perché la ragazza lo accompagni in Svizzera. E se Lou in un primo momento si rifiuta, poi non potrà che accondiscendere. Realismo a fasi alterne Pur nell’atmosfera da melodrammone, il film propone nella prima parte alcuni spunti divertenti e ironici. Memorabile la sequenza dell’apertura dei regali di compleanno di Clark; dopo i pacchetti di genitori, nonno e fidanzato, quando Will mostra il suo regalo, che ha tutta l’apparenza di un pacchettino elegante uscito da una gioielleria dove persino l’aria è costosa, lo spettatore pensa si tratti di qualche oggetto prezioso che metterà in imbarazzo la famiglia. Invece si tratta di un pensiero in apparenza banalissimo, ma cui poteva pensare solo chi avesse ascoltato con il cuore le parole di Lou, che impazzisce di gioia. All’incirca a metà della pellicola, anche lo spettatore più scafato comincia a tifare spudoratamente per Lou, e a sperare nel lieto fine, che, però, non arriva, lasciando francamente non tanto un retrogusto amaro, quanto la consapevolezza, a una riflessione più attenta, che il film, una volta conquistati gli spettatori emotivamente, li fa guardare attraverso una sorta di lente deformante. E di certo, a falsare la prospettiva dello spettatore medio contribuisce il fatto che nulla ci viene mostrato della morte di Will, e che l’ambiente in cui essa avviene ci è proposto come una sorta di chalet incantato, dove tutto è, irrealisticamente, e anche un po’ ipocri- tamente, bello, lindo, candido, con tanto di uccellini che cantano fuori dalla finestra. Verrebbe da chiedersi quale reazione avrebbe avuto il pubblico di fronte a un ambiente meno edulcorato e un po’ più realistico, o di fronte a una rappresentazione, anche solo accennata, della procedura per l’eutanasia, ma tant’è; di realistico il film sceglie di mostrarci, con dovizia di esempi, solo tutta la pesantezza della situazione di una persona nella condizione di Traynor, che non si limita a essere inchiodato sulla sedia a rotelle, ma soffre di infezioni, polmoniti, grandi dolori fisici, e così via. Poi, però, sceneggiatore e regista scelgono, assai meno realisticamente, di glissare sulle estreme conseguenze e sulle circostanze materiali della messa in atto di una scelta simile, che, tra l’altro, Will impone con egoismo micidiale, costringendo chi lo ama non solo ad accettare la sua decisione, ma anche a esserne testimone. Esattamente come se il regista avesse scelto di usare un tono realista nel presentare il dolore dell’handicap, e uno favolistico e irrealisticamente soft per presentare la pratica dell’eutanasia, gabellandola ai cuori sprovveduti come la migliore delle scelte. Davvero inaccettabile. Sicuramente Io prima di te è un film in cui c’è del mestiere, che sa far sorridere e commuovere, e anche, ogni tanto, sorprendere lo spettatore per le deviazioni dalla trama-tipo (come del resto l’omonimo romanzo di Jojo Moyes da cui è tratto), ma da cui, una volta imboccata una certa china, ci si sarebbe aspettato un po’ più di approfondimento, e pure un po’ più di coraggio nell’affrontare un tema tanto forte, che qui viene banalizzato e furbescamente presentato allo spettatore all’insegna di proclami-spot molto banali, che diventano vacue formulette, stile «la libertà di scelta è sacra» e così via falsando. Silvia Stucchi CINEMA / 2 L’estate addosso Regia di Gabriele Muccino; sceneggiatura di Gabriele Muccino e Dale Nall; con Brando Pacitti, Matilda Lutz, Joseph Haro, Taylor Frey; 103’; Italia/USA 2016. Marco è rassegnato a trascorrere l’estate della Maturità in una Roma monotona e solitaria, quando riceve tremila euro per un infortunio: è l’occasione per far visita a Vulcano, un amico che studia in California. Ma ad accompagnarlo sarà Maria, la ragazza più bigotta della scuola, per nulla entusiasta alla prospettiva di convivere con Marco e gli amici di Vulcano, Paul e Matt, una coppia gay di San Francisco… L’estate addosso esplora il tema del passaggio dall’adolescenza alla giovinezza di due diciottenni. Scuola e famiglia restano sullo sfondo, mentre una vacanza in America si fa pretesto per mostrare lo sdoganamento ideologico di un mondo dove tutto è possibile e non esiste il concetto di normalità. Marco e Maria vengono presto sedotti dal fascino di San Francisco e degli stessi Paul e Matt, crogiolandosi nella libertà senza confini del Golden State: è l’estate «bellissima e crudele» di Muccino (e di Jovanotti, curatore della colonna sonora del film), una stagione di cui la macchina da presa restituisce uno sguardo morbido e avvolgente, quasi da videoclip. Se le atmosfere in bilico tra nostalgia e languore strizzano l’occhio agli adolescenti, il resto del pubblico non può che prendere le distanze da una storia che appare piatta e poco originale. Due ragazzi vanno in California per incontrare un amico, ma passano il tempo in compagnia di una coppia gay appena conosciuta – che li trascina in una girandola di feste scatenate, corse sulla spiaggia e racconti attorno al fuoco, senza contare un viaggio last minute a Cuba – da cui comunque si separano in fretta per trasferirsi a New York, rientrare in Italia e dirsi addio. La trama, già di per sé esile, stenta a ingranare, adagiandosi sui ritmi blandi di un secondo atto sostanzialmente statico, per poi accelerare nel terzo e concludersi con un desolante ritorno allo status quo. All’incoerenza delle scelte narrative si somma una caratterizzazione dei protagonisti frettolosa e superficiale, pur supportata da un cast di attori che fanno bene il loro lavoro. Marco incarna il prototipo del giovane Werther, eppure dei suoi «dolori» (dalla morte del cane, all’inizio del film, alla passione non ricambiata per Maria) ci interessa poco, perché ignoriamo che cosa desideri davvero, così come i punti deboli e le qualità del ragazzo. Se Marco appare insipido e privo di mordente, Maria non se la cava certo meglio. La cosiddetta «suora» della scuola, con tanto di camicie accollate e occhiali da intellettuale, dovrebbe rappresentare l’emblema della ragazza proterva sulla soglia di un cambiamento. Peccato che i suoi atteggiamenti siano talmente antipatici da polverizzare qualsiasi forma di empatia, declassandola a caricatura inverosimile – e abbastanza offensiva – di un cattolicesimo esclu- sivamente omofobo e retrivo. Stupisce che il regista abbia definito L’estate addosso un «romanzo di formazione», quando è evidente che i suoi personaggi non maturano, o subiscono metamorfosi così repentine da perdere ogni aura di credibilità. Per esempio, a Maria basta una passeggiata nel parco, circondata da coppie di omosessuali ridenti con prole a seguito, per convertirsi da severa fustigatrice dei costumi a messalina fascinosa e disinibita (non nuoce che, sotto i suoi panni da educanda, la ragazza celi un fisico da modella). Lo schema della coppia nata dal contrasto avrebbe potuto regalare qualche guizzo in più, però tra i protagonisti non c’è alcuna tensione, mentre le loro schermaglie si susseguono in modo ripetitivo e prevedibile sino all’anticlimatico distacco finale. Un lungo spot Sceneggiatura vuole che la nostra simpatia vada piuttosto ai comprimari, Matt e Paul. Gran parte del film esalta proprio l’anticonformismo della loro esistenza romantica e sopra le righe, in un limbo di felicità e perfezione, tanto allettante quanto inconciliabile con la vita reale. Del resto, è difficile prendere sul serio due americani con alle spalle un passato da soap (Paul è il fratello minore della ex fidanzata di Matt), che trascorrono le giornate tra party, maneggi e gite in barca a vela, peraltro accompagnandosi a due teenager. Tra i quattro 59 I due giovani protagonisti del film sedotti dal fascino di San Francisco. si instaura un rapporto incrociato fatto di sentimenti carezzevoli e indefiniti, con Paul che, spinto da Marco, abbandona la poltrona dell’ufficio per dedicarsi ai cavalli (altro punto a favore della verosimiglianza!), mentre Maria e Matt, gli unici a tradire una qualche alchimia, si scambiano pillole di saggezza peregrinando tra ristoranti e bancarelle, in un rituale sempre più simile al corteggiamento (finché Matt non si ricorda di essere omosessuale). Dove il film fallisce clamorosamente è nella creazione di un assetto valoriale valido e condivisibile, dibattendosi invece nella melassa del teen drama, che dispensa elucubrazioni degne di Dawson’s Creek, e non ci risparmia gli stereotipi più deteriori del genere: i genitori come macchiette di contorno (o, viceversa, giudici inflessibili); l’inadeguatezza della religione (ridotta a mecca- 60 nici segni della croce e Madonne dal volto scrostato) a spiegare i disagi della modernità; la coppia gay alternativa e scanzonata, composta dal tipo intraprendente (Paul) e da quello insicuro (Matt); e soprattutto l’idealizzazione del clan giovanilistico e dei suoi poligoni affettivi, all’insegna della confusione sessuale (Matt bacia Maria, e poi torna tra le braccia di Paul, perché «le donne gli piacciono, ma gli uomini gli piacciono di più»; Maria «vuole bene» a Marco, e fa sesso con un amico a New York perché «almeno così sa cosa si prova ad avere un orgasmo»). In conclusione, L’estate addosso è un film tecnicamente ben girato, soprattutto tenendo conto della produzione low budget, ma una confezione elegante non è sufficiente a lasciare il segno se la trama langue e i personaggi mancano di carisma (tanto più che il doppiaggio è quasi interamente in lingua inglese, una scelta che penalizza il coinvolgimento da parte del pubblico italiano). Al posto di un lungometraggio, si ha come l’impressione di avere a che fare con un lungo spot pubblicitario, visivamente piacevole ma inconsistente sul piano dei contenuti. Spiace che quella che sarebbe potuta essere una bella storia sulla crescita e la ricerca di sé, sappia offrirci soltanto una sequela di emozioni epidermiche, spacciandole per il ritratto realistico di una generazione che, fuori dalla sala, è probabile si scrolli di dosso questi 103 minuti come granelli di sabbia dopo una giornata al mare. Maria Chiara Oltolini Elementi problematici per la visione: diverse scene sensuali, una scena di sesso, linguaggio a volte volgare. CRUCIVERBA di Florio Fabbri E S T P A A L R I E N N T A E R S A I N Fra tutti gli abbonati che invieranno entro il 28 febbraio 2017 l’esatta soluzione del cruciverba, verranno estratti tre buoni acquisto da euro 100 in libri del catalogo Ares. Gli analoghi premi messi in palio tra i solutori del cruciverba n. 669 (novembre 2016), qui risolto, sono stati vinti dai signori: Nadia Luigia Oliviero, di Verona; Alberto Valenti, di Parma; Veronica Sempione, di Varese. 1 2 3 4 5 6 7 19 8 10 11 20 23 39 43 55 44 50 56 60 12 13 51 57 61 15 B O R S E I L A K L A G E E R A S L A V T T I N O E I S A G M A T O A M I L R A N E N O C I 16 17 L L I N E I R I A E R E D I T I V M E G C A R O O R E R L I N D Z A T O A N I N 30 35 40 45 52 O N I O M A N I A A 18 26 31 36 41 42 46 47 53 54 58 59 62 64 ORIZZONTALI: 1 Un «ascensore» sulla neve. - 8 Origine del linguaggio. - 19 Il bacino di cui Lecca ha intravisto la grazia (in Sc 667). 21 Tonalità di verde. - 23 Povera di sentimenti. - 24 Il vittorioso «undici» di Ranieri. - 26 Gertrude scrittrice. - 27 Caldi tessuti naturali. - 28 Né questi né quelli. - 29 Elzie Crisler che creò Popeye. - 31 Memorabile vittoria di Alessandro Magno. 32 Prefisso per orecchio. - 33 A destarla si ride. - 35 Biblica suocera di Ruth. - 37 L’io non soggetto. - 38 Molto basse di voce. - 39 La poetica di Orazio. - 41 Il primo nel suo genere. - 42 Breve obiezione. - 43 Grande penisola asiatica. - 45 Chi non ne ha è... indipendente. - 47 Il gatto del mister. - 48 Le mail che infestano la posta elettronica. - 50 Statuetta per cineasti. - 53 Lo indossa- 14 E L E N A B O N O 22 34 38 49 G I S E A N R I I E N Z A E R E L N E L I A R O S N O M E R I M P I A M B O S E I D S C A A M I C D I R S I 29 33 37 R I O N I 25 28 32 E N T I T A 21 24 27 48 9 P E S C E P I L O T A 63 65 va Penelope. - 54 Si raccomanda all’obeso. - 55 Mangiano... negli armadi. - 57 Contemporaneità di svolgimento. - 59 Bellissima «girl» sulla carta. - 60 Il noto filosofo norvegese dell’ecosofia (in Sc 667). - 62 Parola assai ripetuta nel parlare. - 64 Il successore dell’imperatrice Zauditù. - 65 Non corretta, sbagliata. VERTICALI: 1 Un atleta sugli sci. - 2 Arte marziale giapponese. - 3 Santo dell’11 gennaio. - 4 È gradita se è sincera. - 5 Monte di Creta. - 6 Iniziali di Insinna. - 7 La capitale della Florida. - 8 Roditori... dormiglioni. - 9 Permessa dalla legge. - 10 Precede two. - 11 Feticcio della tribù. - 12 Il Cassini della moda. - 13 Bighellonare qua e là. - 14 Poco evidente. - 15 Ispezionano ristoranti (sigla). - 16 Una materia per geome- tri. - 17 Messi all’aria ad asciugare. - 18 Un’opera e un fiore. - 20 Erano simili alle lire. - 22 Parola che imita un suono. - 25 Strada Statale. - 28 Antico poeta greco di Mitilene. - 30 Un mantello equino. - 33 Banca vaticana (sigla). - 34 Hans, pittore dadaista. - 36 Prefisso che dimezza. 38 Fu un noto generale tedesco. - 40 Prodotti per l’igiene. - 41 Virgilio le pone nelle Strofadi. - 42 Non più acerbe. - 43 I polli le hanno bianche. - 44 Residuo dell’oleificio. - 46 Se è d’oro è falso. - 47 Il barbaro di un film di Milius. - 49 Gomma per calzature. - 51 Sigla di un sindacato. 52 Iniziali di Cocciante. - 54 Il poeta De Angelis (in Sc 621). - 56 Punto opposto a OSO. - 58 Un reparto dei Carabinieri (sigla). - 59 Lo scrittore Lagerkvist. - 61 Aspetta... un po’. - 63 Iniziali della Rampling. 61 AUTOMOBILISMO Nico Rosberg, n. 1 ai box Nico Rosberg, 31 anni, neo campione mondiale con la Mercedes, ha sconvolto il Circus della Formula 1 dichiarando che lasciava le corse, dopo appena cinque giorni dalla conquista del suo primo titolo iridato. Non era mai successo. Sposato dal 2014 con l’interior designer tedesca Vivian Sibold dopo 11 anni di fidanzamento, un anno fa Nico è diventato padre di una bambina: Alaïa. Abita a Montecarlo ma ha casa anche a Milano dove ha vissuto per molto tempo. Parla il francese, il tedesco, l’inglese, il finlandese, lo spagnolo (così così) e l’italiano, comprese le «e aperte e i modi di dire milanesi». E proprio scherzando con le «e aperte e i modi di dire milanesi» l’avevamo incontrato a Monza durante il Gran Premio. In quell’occasione aveva sottolineato in modo accorato (ma è troppo facile accorgersene adesso!) l’importanza del ruolo della famiglia, lasciando a molta distanza la passione per le gare. Nulla però poteva farci prevedere la clamorosa decisione che «il pilota più italiano» del mondo dorato delle corse ha comunicato con disarmante semplicità attraverso un tweet. Ma non ci bastava. Così abbiamo raccolto le motivazioni del «gran rifiuto milionario» dal diretto interessato per aggiornare la nostra chiacchierata monzese. l Scusi, Nico, ma come...? Come butta? sarei riuscito a mantenere quello che avevo deciso. l Questo lo dicono a Milano. Mi piace Milano. Ci ho vissuto. Ho casa. l Allora non era convinto al cento per cento? La decisione era totale. Ne ero convinto, ma… l Allora, lo diciamo noi: come butta, Nico? Tranquillo. l Ma? Temevo che non sarei riuscito a metterla in pratica. l Tutto qui? Che c’è di strano? l Perché aveva questo dubbio? Lasciare un mondo che mi appartiene da sempre, nel quale sono cresciuto, beh, temevo che avrei esitato. l Beh, insomma... Ho lasciato le corse. Lo fanno, i piloti. l Ma non dopo cinque giorni dal titolo mondiale. Una scelta di vita. l Si è pentito? Assolutamente! l Via, sia sincero! Mai un tentennamento? Un dubbio forse l’ho avuto. l Ah ecco! È durato un nanosecondo. l Sulla decisione? Sul fatto che 62 l Invece? Niente! l Lo dice col sorriso. Sono in pace con me stesso. l È stata dura? Una scelta meditata nel tempo. l A chi l’ha comunicata per primo? A mia moglie. l Gliel’ha comunicata o le ha chiesto un consiglio? Gliel’ho comunicata. l Perché non le ha chiesto un consiglio? Una scelta troppo intima. Toccava solo a me decidere. l Non ha mai chiesto consiglio a sua moglie? Sempre. l Ma questa volta? Dovevo guardarmi dentro da solo. l E poi? L’ho detto a Vivian. l E Vivian come ha reagito? Come mi aspettavo e speravo. l E cioè? Ha condiviso la mia scelta. In toto. l Quando ha cominciato a meditare seriamente di lasciare le corse? Quando ho vinto la corsa a Suzuka. l Per farci capire anche da chi non segue la Formula 1: perché a Suzuka se mancavano ancora alcune gare alla fine del Mondiale? Ero quasi sicuro di vincere il titolo. l Ma se si fosse verificato quel «quasi»? Non è successo. E ho vinto. l La decisione definitiva e irrevocabile di lasciare? La mattina dell’ultima gara ad Abu Dhabi. l Come si sentiva in quel momento? Avevo la sensazione chiarissima di fare la cosa giusta. l La cosiddetta coscienza tranquilla? Una pace quasi irreale dentro di me. Keke. L’aveva vinto nel 1982 con la Williams. l Un incubo? Uno stimolo. l Lo guardava e...? E sognavo che un giorno anch’io l’avrei vinto. Una persona normale l Forse non è un caso che ha lasciato le corse soltanto dopo avere eguagliato suo padre? Forse. l Scomodiamo Freud? Non esageriamo! l Era la sua mission segreta? Segreta? Ogni pilota sogna di vincere il Mondiale. l Come ha vissuto l’ultima gara? Mi sono gustato ogni istante di quella corsa. Sapevo che era l’ultima. Ho assaporato ogni gesto. Ogni momento. l 55 giri indimenticabili? I più intensi della mia vita. l Però è arrivato secondo dietro Hamilton. Il titolo mondiale era mio. l Quando è sceso per l’ultima volta della sua macchina a che cos’ha pensato? A mia figlia e a mia moglie. Volevo solo abbracciarle. l Gli ultimi passi mentre usciva per sempre dal circuito? Lenti. Ma senza rimpianto. La famiglia al primo posto l Che cos’è cambiato nella sua vita per prendere una decisione così drastica? La scala dei valori. l Al primo posto? La famiglia. l Da quando? Da sempre. l Ma soprattutto? Dalla nascita di mia figlia. l Non c’entra la rivalità con Hamilton? Pochissimo. l Però l’idea di un’altra stagione col fiato di Hamilton sul collo la stressava? Non più di tanto. Però mi sono fatto una domanda. l Quale? Perché togliere un anno alla mia famiglia per inseguire qualcosa che ho già ottenuto? l Il titolo iridato? Proprio così. l Da quando inseguiva questo sogno? Da sempre. l Per questo è diventato pilota? Lo sognavo da quando ho iniziato a correre. l Lei è cresciuto ammirando quel trofeo? Era di mio padre l Però sembra che lei si sia accontentato... Ho dato il giusto valore ai sentimenti e alle persone. l Lo dice come fosse la cosa più normale di questo mondo... Ma lo è. l Se lo è, perché il Circus della Formula 1 è rimasto così colpito? Lo chieda a loro. l Nessuno avrebbe rinunciato a vivere un anno da campione. Io sì. l Ha rinunciato anche ai 55 milioni di euro del contratto triennale appena firmato con la Mercedes... La gioia di stare con mia moglie e mia figlia non ha prezzo. l Suo padre che cosa le ha detto? Mi ha lasciato scegliere. Come sempre. l Anche lui aveva lasciato da campione mondiale. Dopo quattro anni, non dopo cinque giorni. l Ha compreso le sue motiva- 63 zioni? Profondamente. E le ha approvate. style. Dipende. Mi piace mischiare classico e sportivo. l E adesso? Divento una persona normale con gli hobby di tutti. l Jeans e maglietta? Anche polo e infradito. l Giocare alla playstation? Preferisco gli scacchi o il backgammon. l Ma sempre capi griffati e di boutique, ovviamente? Ma no! Compro ovunque. Anche al mercato se mi va. l E magari andare a fare la spesa? Mi diverte scegliere le cose che mi piacciono. l Cucina raffinata come il foie gras? Mai! l Dove? Preferibilmente a Montecarlo. Ma faccio spesso un salto anche in Italia. Oltre la Luna Un altro mai? Alle rane. l Lei parla correttamente anche il tedesco, l’inglese, l’italiano e il finlandese. Sto imparando lo spagnolo. l Perché il tedesco? Mia madre Sina è tedesca. Gareggiavo con una macchina tedesca. l Il finlandese? Mio padre Keke è finlandese. l Lo spagnolo? Andiamo sempre in vacanza a Ibiza. l Invece sempre a...? Alla pizza Margherita. l Un futuro professionale nella moda? Non escludo nulla. l L’inglese? È obbligatorio per i piloti. l Un primo da pole position? Pasta o ravioli di zucca. l E l’italiano? Per non essere emarginato a scuola. l Pasta… come? Al pesto. l Frequentando Milano sarebbe avvantaggiato. Ho molti amici nel mondo del fashion milanese. l Un omaggio alla vicina Liguria? Vado spesso al mercato di Ventimiglia. l Dalla pista alla passerella? Ho davanti una vita da inventare. A 31 anni si può fare. l Un omaggio culinario a Milano dove ha abitato? La cotoletta. l E i dolci? Niente. l Volendo, ha anche un master in economia. L’economia e la finanza mi hanno sempre affascinato. l Non le piacciono? Anzi! Ma mi sono imposto una dieta. l E poi c’è il cinema... Il cinema? l Solo per questo? Ho corso con i kart a Sanremo. l Adesso può trasgredirla. Assolutamente! l Via, Nico, non finga che nessuno le ha mai detto che assomiglia a Leonardo Di Caprio? Me l’hanno detto. l Tutto qui? Ho vissuto a Milano e a Napoli. Mi sento quasi italiano. l Non è quindi un buon cliente di sua moglie che ha aperto la gelateria Vivi’s Creamery a Ibiza? Vivian prepara frullati naturali e buonissimi gelati. l Non si farà tentare? Assolutamente! l Niente fumo, immagino. Scherza? E nemmeno alcol. l Però una debolezza c’è. Quale? l La moda… meglio se italian 64 l In che lingua ha detto «sì»? Eravamo a Montecarlo, quindi in francese. l E quindi? Mi vedo già sul red carpet nella notte delle stelle! l Più che di stelle lei sembra intendersi di Luna. Luna? l Scusi, ma non ha postato lei «siamo oltre la Luna»? Ah sì, l’ho detto dopo il matrimonio con Vivian. Era il 2014. l Perché proprio la Luna? Significava una felicità indescrivibile. l Scusi, ma non capisco? Ho frequentato le scuole primarie a Montecarlo. La maggior parte dei miei compagni parlava italiano. Per entrare nel gruppo dovevo impararlo. l Anche lo slang? Soprattutto! Era la parola d’ordine per entrare nella band. l Per questo sul palco della sua prima vittoria iridata cantava come noi italiani ai Mondiali di Berlino nel 2006? Gli italiani sono appassionati. In quel momento mi sentivo italiano. l Che cos’altro le piace degli italiani? La spontaneità. Due minuti e sei già un amico. l E poi c’è la Ferrari... La Rossa è il sogno di tutti i piloti. l Un sogno che lei non ha rea- lizzato. Il vero sogno era una famiglia come la mia. l Però ha fatto centro con le Frecce d’argento della Mercedes. Nessuno mi ha regalato niente in pista. l Soprattutto il suo compagno di squadra Hamilton? È fortissimo. Duro da battere. l A volte è al limite del regolamento. È il suo stile. l Vi conoscete da tanto? Dai tempi delle gare coi kart. l Solo rivali o anche amici? Da ragazzi andavamo in vacanza assieme. l E adesso? La vita cambia. l E le strade, anzi le piste, si dividono. Lui è rimasto in pista. l Hamilton le ha sempre rinfacciato di essere un figlio di papà. Mio padre Keke è stato Campione del Mondo di Formula 1 nel 1982 con la Williams. l Allora, aveva ragione Hamilton? In pista non esistono raccomandazioni. l Però essere figlio di Rosberg le è servito... Non lo nego. l Per esempio, entrare nella scuderia Williams molto giovane... Mio padre era amico di Frank Williams. l Quindi ammette di essere stato un privilegiato? Sarei un ipocrita se lo negassi. Un punto fermo, la pace l Da privilegiato riesce a capire i problemi della gente comune? I problemi economici esistono per tutti, anche per quelli come me. l Quello che la preoccupa di più? Garantire a mia figlia un futuro tranquillo. l Che cosa intende? Che Alaϊa possa vivere sempre allo stesso livello economico in cui vive adesso. l E questo la preoccupa? Moltissimo. A volte ci penso anche di notte. l Scusi, ma è difficile immaginarla in preda agli incubi economici notturni anche se ha rinunciato a un contratto triennale con la Mercedes da 55 milioni di euro. L’ho detto, sono un privilegiato, ma vivo nel mondo che mi circonda. l Un mondo dove sembra che i valori stiano cambiando. Bisogna avere dei punti fermi. l Un punto fermo per l’umanità? La pace. l Troppo generico e teorico. C’è chi tenta di renderla concreta. l Chi? Papa Francesco. l Che cosa ne pensa? Mi commuove quando lo sento. l Vorrebbe incontrarlo? Subito. l Di corsa? Eh dai! l Torniamo ai suoi valori. La famiglia al primo posto. l Matrimonio civile? Nella chiesa monegasca di Santa Devota. l Quindi è credente? È stato un «sì» religioso convinto, anche da parte di Vivian. l Prega qualche volta? Spesso. l Anche prima delle gare? In privato, senza farmi vedere. l Per vincere la corsa o per vincere la paura? Prego. Punto! l Anche quando ha preso la decisione di lasciare le corse? Più che mai. l Aveva un gesto scaramantico prima delle gare? Assolutamente! l Neanche un tatuaggio? Mai fatti. l Di scaramantico aveva il numero 6? Lo stesso numero che aveva mio padre quando vinse il Mondiale. l Che cosa ascoltava prima delle partenze? Gli U2. l Che cosa in particolare? Beautiful day. l Allusivo alla vittoria del titolo mondiale? Anche alla svolta della mia vita. l Continuerà ad ascoltare gli U2? Mi sono sempre piaciuti. l Magari mentre va in macchina con moglie e figlia? È già successo. l E come guida? In strada? l No, sulla pista. I critici dicevano che ero monotono perché troppo lineare. l Che cosa invidiava a suo padre? Un po’ di spericolatezza. l Keke le dava dei consigli? Mi lasciava fare. l E poi? Se sbagliavo… come dite voi in Italia? l Ho colto il senso. Però alla fine, prevaleva l’istinto paterno. l Quando ha smesso di sentirsi «il figlio di Keke»? Quando ho battuto Schumacher. l Una specie di patente? Mi sono sentito un vero pilota. 65 l Schumacher era il suo mito? Sono cresciuto col mito di Mika Hakkinen. l Perché finlandese come papà? Lo conoscevo bene. Papà era il suo manager. l Riceveva consigli anche da Niki Lauda? Era il nostro presidente non esecutivo. Lui è un esempio per tutti. l Lauda però era tornato in pista dopo il pauroso incidente di Nürburgring. Parlavo di modo di guidare, non di scelta privata. La miglior vittoria l A che età ha capito che le corse sarebbero state la sua vita? A 11 anni, dopo le prime vittorie sui kart. l E se non avesse fatto il pilota? Avrei fatto il calciatore. l In che squadra? Bayern Monaco. l Dicono che quando un pilota diventa padre perde almeno un secondo in pista. Lo dicono. Ma è arrivata mia figlia Alaϊa e ho vinto il Mondiale. l Ha anche lasciato le corse per sempre, magari proprio per amore di sua figlia. Alaϊa è più importante di qualsiasi vittoria. l Però le piaceva vincere in pista... Si va in pista per questo. l È vero che vuole vincere anche quando gioca a calcio con gli amici? Anche con il triathlon. l Chi ha battuto di recente? Ho distaccato Vettel. l Anche Hamilton? Soprattutto. Claudio Pollastri 66 ARTI VISIVE Vita della natura morta Il 4 maggio 1607 il fiscale pontificio bussò alla porta di Giuseppe Cesari, il Cavalier d’Arpino, il pittore che dominava la piazza romana e che aveva raccolto molte opere di altri artisti in una sorta di collezione che gli procurava sollazzo e denari. «Ho l’ordine di portar via i vostri dipinti», espettorò l’ufficiale senza preamboli. «Ordine di chi?», replicò scosso il pittore. Il fiscale lo guardò sornione. «Di chi, dite? Del Papa!». Lo sconcerto del Cavaliere diventò paura. «Ma io sono ben noto a papa Paolo V! Sono Principe dell’Accademia di San Luca! In questa bottega si lavora costantemente per la Santa Chiesa! Com’è possibile?». «Ve lo dirò. Voi tenete delle armi senza licenza». Il Cavalier d’Arpino tutt’a un tratto comprese, mentre la ciurma del fiscale entrava nella sua sontuosa dimora a prendere i quadri senza riguardi. Capì. Il cardinal Scipione Borghese! Quell’uomo la cui passione per l’arte non conosceva limiti di legge né di coscienza. Era avido, vorace, possessivo. Suo zio Paolo V, con le buone o con le cattive, aveva assecondato l’insaziabile cupidigia del nipote e gli aveva messo in mano un tesoro. Uscirono da quel portone le opere di Michelangelo Merisi di Caravaggio, che il cardinale bramava di possedere: la Madonna dei palafrenieri, acquistata dall’Arpino l’anno prima; il Bacchino malato e il Ragazzo con canestra di frutta, opere giovanili. Il Cara- vaggio, quell’arrogante che era stato suo aiuto in bottega e poi gli aveva soffiato la fama. Ma era il più grande! Uscì di tutto da quel portone, sacro e profano. E quadri di frutta e di fiori. Questi erano diventati una moda a Roma, in particolare da quando proprio Caravaggio aveva affrancato la cesta di frutta da ogni figura e perfino da ogni contesto, e diceva che «tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure». Una povera cesta di frutta Quella cesta di frutta del Caravaggio, che il cardinal Del Monte offrì in dono al cardinal Federico Borromeo e che questi portò in trionfo all’Ambrosiana, rappresenta la pietra miliare, la svolta nella pittura di quel che oggi chiamiamo natura morta, già nota nelle Fiandre come soggetto a sé, ma ora affrontata in maniera pittorica e non solo rappresentativa. Roberto Longhi definiva quella maniera nordica come «sedulità descrittiva, presunzione da erborista o da scienziato di provincia, sfoggio di tecnica diligenza». Raffigurazione lenticolare, ossessiva, che mette la precisione imitativa al di sopra dell’impatto estetico, come in fondo succede a tanto iperrealismo contemporaneo. Caravaggio aveva agito come suo consueto: esecuzione veloce, direttamente sulla tela, alla ricerca di una sintesi pittorica, a cominciare dall’equilibrio compositivo e tonale. Il nuovo modo aveva trovato presto dei seguaci a Roma, all’interno di quel caravaggismo dai contorni sfumati che in qualche decennio avrebbe segnato l’arte europea. Su tutto ciò si può riflettere ora guardando con attenzione la stupenda mostra della Galleria Borghese di Roma intitolata L’origine della natura morta in Italia. Caravaggio e il Maestro di Hartford, a cura di Anna Coliva e Davide Dotti, con un catalogo Skira traboccante di saggi di grande interesse. Non si dimenticano i maestri che il Merisi poté osservare ancora a Milano, a cominciare dai Campi. In questi, però – prendiamo la Frutivendola di Brera –, pur organizzando bene la scena di un posto al mercato, i tipi di frutti sono ordinatamente classificati, separati e descritti con precisione. Caravaggio mescola, fonde, nasconde, creando drammaticità in una modesta cesta di frutta. E poi si va avanti guardando e confrontando i diversi pittori. Ma al malcapitato Cavalier d’Arpino furono sottratte pure alcune tele, qui presenti e che allora chissà a chi erano attribuite (forse con certezza). Noi dobbiamo accontentarci di chiamarlo il Maestro di Hartford, dal nome della città americana dove è custodito l’esemplare più rappresentativo del suo esiguo catalogo. Comunque qui in mostra ci sono ben sette dipinti di sua mano, che rappresentano già un numero sufficiente almeno per farsi un’idea. E l’idea è: un caravaggesco DOC, ma duro nell’impaginazione e nei contrasti, un caravaggesco rigido che fa pensare alla La celebre Canestra di frutta del Caravaggio e, sotto, una natura morta del Maestro di Hartford. pittura di genere, non al capolavoro. E tuttavia assilla gli storici la sua identificazione. Chi è? Mina Gregori propose di identificarlo con il marchese Giovanni Battista Crescenzi che, valido pittore egli stesso, teneva in casa una sorta d’accademia dove ci risulta che faceva esercitare gli allievi con la pittura di nature morte. Per ora rimane il dubbio, ma il pittore lo conosciamo meglio. 67 Clara Peeters, Natura morta con formaggi, madorle e Pretzels; sull’elegante coltello cesellato in primo piano si legge la firma dell’artista. E non si può chiudere senza riferimento alle strepitose fiasche con fiori del Maestro della fiasca di Forlì, altro enigma pittorico, ancor più intrigante perché in questo caso la qualità è sublime. Clara Peeters Torniamo ora alle nature morte fiamminghe, perché non vanno denigrate. Se è evidente la differenza di stile con Caravaggio e seguaci, non per questo la maniera nordica è priva di forza poetica. Sorprendente occasione di verifica è la mostra di Clara Peeters al Museo del Prado di Madrid. Qui si intrecciano bellezza e mistero: nei dipinti sicuramente, malgrado la perfetta, dettagliata esecuzione; ma anche nella figura di Clara, una delle pochissime donne che poterono dedicarsi alla pittura nel Seicento, bravissima ma di cui non si conosce praticamente niente. Viveva ad Anversa, non sappiamo nemmeno se fosse sposata, risultano solo quaranta 68 dipinti, quindici tra i migliori sono in questa mostra che rappresenta anche lo studio più completo sull’artista fatto finora. La quasi totalità delle sue opere sono nature morte che ritraggono in belle composizioni ricchi servizi da tavola, fiori, frutti, pesci, formaggi, olive, pane, dolci e tanti altri elementi che, tolti al loro contesto ordinario, acquistano la rilevanza di veri tesori. C’è un coltello finemente lavorato che compare in ben sei dipinti e sul quale le piace apporre la firma. Nei Paesi Bassi si mangiava molto pesce e di Clara sono le prime nature morte con pesci che si conoscano. Categoria specifica costituiscono le cosiddette «nature morte dolci», che raffigurano il repertorio della pasticceria contemporanea. E poi il formaggio, del quale si diceva che era «il pane dell’Olanda, la ricchezza dell’Olanda». Il curatore della mostra, Alejandro Vergara, che è anche curatore della sezione fiamminga del Museo del Prado, ricorda che quando Clara iniziò a dipingere, nella pri- ma decade dei XVI secolo, svolgeva un lavoro pionieristico fondato sulla ricerca del reale in contrapposizione all’idealismo rinascimentale che aveva caratterizzato la pittura fiamminga nei due secoli precedenti. Cosa diversa, penso, è la comune passione per il dettaglio, presente in tutto lo sviluppo della pittura moderna nordica, da Van Eyck in avanti. Lo straordinario è questo: che quelle olive tanto realisticamente rese da Clara col luccichio dell’umido e la trasparenza della salamoia, non cercano il realismo per il realismo, ma l’emozione lirica. In questo senso Clara si rivela artista sorprendentemente grande, tanto più se comparata con la pletora di nature morte che dall’Olanda e dal Belgio si diffusero in tutta l’Europa. Senza dimenticare che era contemporanea di Jan Brueghel il Vecchio, Rubens, Snyders e Van Dyck, protagonista come loro (con le limitazioni che una donna trovava all’epoca) del grande apogeo dell’arte occidentale. Michele Dolz Abbonati ad Avvenire In più, per te, gratis anche l’abbonamento digitale Abbonarsi ad Avvenire significa entrare ogni giorno nel cuore del cambiamento della Chiesa e di tutto il mondo cattolico. Grazie a idee, analisi e approfondimenti puoi seguire e comprendere i mutamenti della società e riscoprire i valori profondi dell’essere cristiani e cittadini dell’Italia e del mondo. In più, con l’abbonamento, hai accesso senza alcun costo aggiuntivo anche all’edizione digitale del quotidiano già dalle 6 del mattino. Abbonati ad Avvenire per essere insieme protagonisti nel cambiamento. OFFERTA SPECIALE RISPARMI €134,00 Paghi € 275,00 anziché € 409,00 Chiama subito il numero verde 800 820084 dal lunedì al venerdì dalle 9,00 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 17,00 ARES NEWS Spiritualità, letteratura, mariologia Su Avvenire del 3 dicembre Antonio Giuliano, nel riflettere sul Natale, ha definito «intrigante» il nuovo saggio del carmelitano Antonio Maria Sicari, La verità dell’amore. Dalla Trinità alla famiglia (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 144, euro 10) e ha evidenziato come esso riparta dall’«evento che ha cambiato la storia del mondo e ci ha rivelato la Verità dell’Amore per risalire con parole chiare e incisive al vero significato di una parola oggi abusata e incompresa (amore) e di un’istituzione mai così sotto attacco come la famiglia. Eppure “nella famiglia l’uomo comincia a imparare che la libertà vive solo quando l’io si offre e si sente accolto, quando l’io si impegna nella costruzione di una casa ospitale per la propria e l’altrui umanità”». Queste parole si adattano perfettamente all’opera di santa Teresa di Calcutta, la cui biografia scritta da Riccardo Caniato, Una matita nelle mani di Dio. Vita & santità 70 di Madre Teresa (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 128, euro 9,90), è stata recensita da Rino Cammilleri sul Giornale del 4 dicembre, mettendo in rilevo come la finalità delle suore di Madre Teresa sia di «accompagnare al Padre» anche chi è rifiutato dagli ospedali, e da Andrea Vannicelli sul quotidiano La Croce del 10 novembre. «Teresa veniva da una famiglia benestante ed era piena di doti (capacità di insegnare, allegria, conoscenza delle lingue, spirito di iniziativa, laboriosità, socievolezza ecc.) che ha messo pienamente a disposizione di Dio», rileva Vannicelli. «Ecco davvero un’altra lettura da consigliare a tutti per liberare la mente dalla frivolezza e dallo sfrenato consumismo quotidiano nel quale siamo immersi (e pensare che siamo ancora in un momento di crisi...), per riempirla di buoni pensieri, buoni progetti, buone preghiere». Apparizioni mariane Sull’Eco di Bonaria del 16 novembre è stato menzionato il libro di Edouard Sinayobye, Io sono la Madre del Verbo. Nostra Signora di Kibeho (Edizioni Ares, Milano 2015, pp. 240, euro 15), in correlazione con la consacrazione dell’Africa a Maria Madre di misericordia avvenuta il 15 settembre, festa della Vergine addolorata, proprio al Santuario di Kibeho legato alle apparizioni di Maria Madre del Verbo nel 1981 e 1989, i cui messaggi anticipavano i fatti della tremenda guerra fratricida del 1994. Un ampio estratto del libro di Ge- rolamo Fazzini, La mia vita è cambiata a Medjugorje. I pellegrini raccontano (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 264, euro 14) è stato pubblicato dalla Provincia edizione di Como del 4 dicembre, che ha definito l’autore «un giornalista che premette di non appartenere al club dei “medjugoriani” convinti, ma che racconta la propria svolta dopo un pellegrinaggio e raccoglie in un libro quelle di altri testimoni». Al volume di Pierina Gilli, Diari. Le apparizioni di Rosa Mistica a Montichiari & Fontanelle con i più importanti documenti d’inchiesta (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 720, euro 18), a cura di Riccardo Caniato, hanno dedicato un articolo-recensione Vittorio Messori sul Corriere della Sera del 1° dicembre, definendola come la possibile «Lourdes italiana», e il settimanale Oggi del 15 dicembre il réportage fotografico di Fiamma Tinelli e Massimo Sestini dai luoghi delle mariofanie, con varie te- ri novità editoriali uscite in Italia nel 2016 dalla giuria della quinta edizione della Classifica di Qualità, formata dai redattori e collaboratori del supplemento e da scrittori, artisti, giornalisti e studiosi. Spiritualità & teologia stimonianze di pellegrini dell’epoca e odierni, che numerosi accorrono a quella che nell’articolo è indicata come «la nuova Lourdes». Eugenio Corti & Elio Fiore Alcune lettere ai famigliari dell’autore del Cavallo rosso, Eugenio Corti, tratte dalla raccolta di epistole inedite «Io ritornerò». Lettere dalla Russia 1942-1943 (Edizioni Ares, Milano 20152, pp. 248, euro 14), a cura di Alessandro Rivali, sono state pubblicate con l’affascinante titolo «La gioia nascosta tra i ghiacci di Russia» sia sulla Provincia - edizione di Como del 18 dicembre sia sulla Provincia di Lecco del 22 dicembre. Sempre La Provincia - edizione di Como del 19 dicembre ha pubblicato una prosa natalizia e due poesie contenute in Elio Fiore, L’opera poetica, raccolta di tutti i testi di Elio Fiore a cura di Silvia Cavalli, con prefazione di Alessandro Zaccuri (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 728, euro 20), accompagnata dall’analisi di Cesare Cavalleri, ripresa da Studi cattolici, 130 (dicembre 1971), su cui il trittico fu originariamente pubblicato. Il libro è stato menzionato l’11 dicembre anche sul settimanale La Lettura del Corriere della Sera, poiché è stato votato tra le miglio- Nel ricordare, due giorni dopo la scomparsa, il prelato dell’Opus Dei mons. Javier Echevarría sul quotidiano La Croce del 14 dicembre, Giuseppe Brienza ha menzionato che tutti i suoi testi di spiritualità sono stati pubblicati in Italia dalle Edizioni Ares, tra i quali il più recente è stato Eucaristia & vita cristiana (Milano 2014, pp. 264, euro 16). Brienza, sullo stesso quotidiano, il 21 dicembre ha ricordato anche il saggio del vicario generale della Prelatura dell’Opus Dei, Mariano Fazio, Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero (Edizioni Ares, Milano 2013, pp. 112, euro 9,90), tradotto anche in portoghese, francese e inglese. Su Avvenire del 22 dicembre, Francesco Pistoia ha recensito l’antologia di testi del predecessore di Echevarría, Álvaro Del Portillo, Figli di Dio, figli della Chiesa (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 232, euro 15), curata da Gabriele Della Balda, dottore in filologia e specializzato in Tradizione e interpretazione dei testi presso l’Università di Urbino. «È un bel libro», sottolinea Pistoia: «informa, istruisce, educa, dà il sapore e il profumo di un cristianesimo vissuto nel suo essere profondo. È un breviario di teologia spirituale: insegna l’amore per Dio e per la Chiesa (è un libro di preghiera), l’amore per l’umanità e per il creato (è un trattatello di dottrina sociale); aiuta a compiere un cammino di conversione e di riscoperta della bellezza della fede, aiuta a interrogarsi, ad aprirsi al dialogo rispettoso e fecondo. I pensieri sull’educazione, sulla scuola, sull’università, sulla ricerca sono incisivi. Del Portillo apre a prospettive di ampio respiro, illuminanti, gioiose». Su Toscana Oggi del 13 novembre, Maurizio Schoepflin ha recensito il saggio dell’ausiliare e vicario generale dell’Opus Dei, Fernando Ocáriz, Carità senza Dio? Il cammino cristiano dell’Amore (Edizioni Ares, Milano 2016, pp. 120, euro 12). «Nella prima parte del volume, l’autore concentra l’attenzione sul Duplice precetto della carità, mettendo bene in luce il doppio movimento dell’amore che scende da Dio sugli uomini e risale da loro verso di Lui: in questo contesto, Ocáriz situa una lucida critica nei confronti di tutte quelle concezioni che, per strade e motivi diversi, conducono a uno snaturamento del cristianesimo che lo riduce a una delle tante forme di umanesimo. Nella seconda parte del libro», prosegue Pistoia, «l’autore affronta la questione della secolarizzazione della carità, figlia di un antropocentrismo dimentico della Trascendenza, e riafferma con forza le esigenze proprie dell’amore nei confronti del Signore. La terza sezione del testo accoglie numerose interessanti riflessioni sulla fraternità cristiana e sulle sue caratteristiche essenziali, che la distinguono da qualsiasi genere di filantropia». Matteo Andolfo 71 LIBRI & LIBRI L’autentico san Francesco Augustine Thompson, O.P., Francesco d’Assisi. Una nuova biografia, traduzione di G. Desantis e R. Cappelli, Edizioni di Pagina, Bari 2016, pp. 336, euro 25. Se c’è un santo molto noto è certamente Francesco d’Assisi. Della sua vita e figura esistono numerose ricostruzioni, ma hanno quasi tutte il difetto di coartare la sua persona storica all’interno di «tipologie» connesse alle diverse temperie culturali: ecco il Francesco ecologista, romantico, mistico della natura e degli animali, hippie, pacifista o femminista di tante rivisitazioni moderne (cattoliche e laiche). A queste si devono aggiungere le interpretazioni teologiche della biografia storica del Santo che si sono moltiplicate nell’Ordine francescano, e non solo. Inoltre, le fonti medievali su Francesco sono intrise di elementi «leggendari», o talora sbrigativamente tacciati come tali senza ricercare la verità storica che si cela dietro di essi, sicché alcuni studiosi ritengono sia addirittura impossibile individuare il vero Francesco della storia. Ciò ricorda la conclusione di Olof Gigon sull’inattingibilità del Socrate storico per le contraddizioni tra le fonti su di lui. A esiti opposti è pervenuto il saggio del domenicano Augustine Thomp- 72 son, professore di Storia alla Scuola domenicana di filosofia e teologia e membro della Core Doctoral Faculty della Graduate Theological Union, entrambe a Berkeley (California), la cui edizione originale è stata insignita nel 2013 del Premio Internazionale Ennio Flaiano di Italianistica, assegnato dall’Istituto Italiano di Cultura di New York. In modo «spietatamente critico» (p. 7), per usare le sue parole, Thompson ha «scarnificato» la tradizione delle fonti biografiche francescane per ritrovare il nucleo dei fatti che la critica storica può ragionevolmente attribuire alla vita di san Francesco. Il risultato è un libro diviso in due parti: nei primi otto capitoli è ricostruita la biografia «scientifica» del Santo suddivisa nelle sue diverse fasi: dalla vita «nel peccato» alla conversione, dalla fondazione dei francescani all’approvazione della Regola, dal ritiro dalla guida dell’Ordine alla morte. È fruibile da tutti i lettori, anche non specialisti, e affascina per la figura storica di un Francesco più vicino agli uomini del suo secolo, il XIII, e soprattutto molto coinvolto dalle problematiche relative alla direzione dell’Ordine da lui fondato e nella dialettica tra l’autorità e gli ideali di umiltà. Inoltre, dalla ricostruzione di Thompson emerge come il fulcro della vita spirituale di Francesco non consista principalmente nella rinuncia ai beni materiali, in quella povertà che è riconosciuta dalla communis opinio come la sua caratteristica principale, quanto in una pervasiva dimensione eucaristica. La seconda parte del volume è più consona agli storici e agli agiografi, poiché l’autore discute approfonditamente le basi filologiche della sua ricostruzione biogra- fica. In otto capitoli, corrispondenti a quelli della prima parte, vengono esaminate le fonti relative ai singoli eventi della vita del Santo. Come cattolico, conclude Thompson, la figura di Francesco così ricostruita «mi ha insegnato che l’amore di Dio è qualcosa che trasforma l’anima e fare il bene per il prossimo ha origine da questo, non è semplicemente un fare il bene al prossimo. Francesco era più per l’essere che per il fare. E il prossimo [...] deve essere amato per sé stesso, non importa quanto sia indegno di amore, non perché possiamo cambiarlo con le nostre buone opere. In secondo luogo, piuttosto che una chiamata a compiere una missione [...], la vocazione religiosa riguarda un cambiamento della percezione che si ha di Dio e della creazione. [...] In terzo luogo, la vera libertà dello spirito [...] nasce dall’obbedienza, non dall’autonomia» (p. 10). Matteo Andolfo Su Kierkegaard Stig Dalager, L’uomo dell’istante, Iperborea, Milano 2016, pp. 416, euro 18,50. «Ho vissuto nella bizzarra cabina della malinconia». È tutto qui il volo tragico di Søren Kierkegaard (18131855), il grande Malinconico. Ora possiamo conoscere più che mai il suo cuore triturato grazie a L’uomo dell’istante, lo splendi- do romanzo di Stig Dalager, forse uno dei libri più intensi usciti nel 2016. Dalager, stipendiato a vita dalla Danish Arts Foudation, è narratore, poeta e drammaturgo, e ha uno spiccato talento per le biografie (come quella di Hans Christian Andersen o di Marie Curie). Il suo nuovo lavoro si basa sia sulla sconfinata produzione letteraria dell’autore di Aut Aut sia sulla rigorosissima ricerca kierkegaardiana di Joakim Garff (Søren Aabye Kierkegaard – Una biografia) tradotta da Castelvecchi nel 2013. Il Kierkegaard di Dalager è al crepuscolo. Lo incontriamo in ospedale. Solo, sfibrato dalla tosse. Sa di dover morire e lo spiega ai medici, increduli, perché il male non sembra così decisivo. Kierkegaard è senza un soldo e vuole andare incontro al suo Dio a mani nude. Ha 42 anni, ma potrebbe averne centinaia, perché la sua sensibilità scoperta lo ha trascinato per decine di vite, tutte interiori. Eppure, il suo cuore era di brace. E il climax del romanzo è proprio la sua storia d’amore con Regine Olsen. Interrotta, ripresa e poi spezzata per sempre. Da una parte c’è il filosofo che stenografa la sua anima sui Diari, che vive di frammenti contro il Sistema di Hegel, l’assetato di verità, dall’altra una ragazza dalla pelle di seta e con la passione per Mozart e Beethoven. Kierkegaard è stupito quando Regine accetta il fidanzamento. A lei interessa il suo spirito magnetico, la sua capacità di leggere l’anima degli uomini, non le importa se per gli altri lui soffra di mania di grandezza, abbia gambe sottili, schiena storta, vestiti bizzarri, stivali troppo grandi. È un Leopardi che dialoga con i mari del Nord: «Il mio spirito è come una macchina a vapore, ma il motore è troppo grosso rispetto alla struttura della nave, ed è per questo che soffro. Per questo sono afflitto dalla malinconia». L’amore sembra vincere sui demoni di Kierkegaard, che ora versa tutto il suo entusiasmo nella scrittura. È un gigante liberato quando le confida: «Nel volto di ogni fanciulla vedo tratti della tua bellezza, ma credo che dovrei possedere tutte le fanciulle per poter trarre dalla loro bellezza la tua; dovrei circumnavigare l’intero pianeta per trovare il continente che mi manca e che il più profondo segreto dell’intero mio io mi indica come il polo: e nell’istante successivo tu mi sei così vicina, così presente, colmi con tale potenza il mio spirito che mi sento trasfigurato a me stesso e sento che è un bene essere qui...». Il lungo mantello nero che ha imprigionato Kierkegaard sembra che sia stato strappato dal vento di Regine. Non c’è più il padre in preda agli scrupoli. Il corteo dei lutti famigliari. I fallimenti (il sogno di essere giurista o drammaturgo). È una primavera bellissima quando le scrive: «Sai che la Chiesa cattolica insegna che le preghiere di un uomo pio procurano conforto alle anime del purgatorio; io so che è così, e ogni volta che menzioni il tuo amore, smetto di udire lo sferragliare di catene, e sono libero, infinitamente libero come l’uccello nell’aria, sono libero e felice nella mia libertà, testimone a me stesso della mia gioia, così come prima ero prigioniero del mio carceriere». E invece i carcerieri ritornano. La malinconia bussa alla porta. Per questo Kierkegaard decide di abbandonare Regine. Non vuole che lei soffra accanto a lui. Preferisce per lei un matrimonio borghese, ma sicuro, piuttosto che vivere accanto a un uomo ferito e con le ali troppo grandi. Per questo lui simulerà di essere un uomo diverso, anche cattivo. Forse così la separazione sarà meno lacerante. Regine è sconvolta. Si dice pronta a condividere tutto con lui, anche il buio. Gli manda un biglietto che non lascia scampo: «La tua lettera mi ha fatto più male di quanto tu non possa immaginare. Non credo l’avresti scritta se avessi saputo quanto mi avrebbe distrutta. Ti prego nel nome di Gesù Cristo e per la memoria del tuo defunto padre di non lasciarmi». Kierkegaard ci ripensa, la riprende, ma i fantasmi gli parlano ancora e arriva il secondo definitivo addio. Entrambi ne usciranno con le ossa rotte. Lei si chiuderà nel silenzio, lui nel lavoro: «Scrivere è una liberazione dall’u- mor nero, una vera e propria voluttà della penna che può nascondere anche un’angoscia vertiginosa, qualcosa che allo stesso tempo apre all’infinito e fa mancare la terra sotto i piedi». Søren e Regine s’incontreranno ancora molte volte per le vie di Copenaghen, ma senza parlarsi. Anni dopo lui, schiacciato dalla nostalgia, tenterà una riconciliazione. «Sono stato crudele, è vero. Perché? Già, tu non lo sai... Solo Dio sa quanto ho sofferto... Tuttavia tu mi hai amato, come io ho amato te; ti devo molto, e ora sei sposata: bene, ti offro un’altra volta ciò che posso e oso offrirti: riconciliazione». Søren chiuse queste righe in una busta al marito di Regine. Voleva poter tornare a dialogare con lei, ma solo con l’espressa autorizzazione del marito, che invece rispose indignato. Da quel momento la notte di Kierkegaard rimase senza stelle. Alessandro Rivali L’ultimo Pavese Franco Ferrarotti, Al santuario con Pavese. Storia di un’amicizia, EDB, Bologna 2016, pp. 118, euro 11,50. Queste pagine ricordano un’amicizia, come può nascere fra un uomo più maturo, per tanti versi già disilluso e ferito, Pavese, e uno più giovane, Ferrarotti, brillante, curioso di libri, di viaggi, che sarebbe poi diventato uno dei massimi sociologi del nostro Paese. Ma cominciamo dal fondo: solo un amico, che abbia passato del tempo con Pavese, condividendo con lui non solo discussioni libresche, forte quindi anche della conoscenza diretta, può cogliere in sintesi il nucleo dell’esperienza letteraria dell’autore della Luna e i falò misurandone la radicale unicità: «Già con Lavorare stanca il realismo es- 73 senziale di Pavese aveva dato prove convincenti, e si affermava con assoluta originalità in un panorama letterario che alla magniloquenza fascista e alla bolsa retorica altro non aveva saputo opporre che le preziose, criptiche espressioni poetiche dell’ermetismo e i vacui virtuosismi della bellettristica. Naturalmente, in Pavese il nuovo linguaggio non solo non rifiutava, ma, anzi, si nutriva di suggestioni mitologiche classiche e di fermenti mistico-religiosi che i laicisti non tarderanno a esorcizzare come “deviazioni” irrazionali». Così, quelle che qualcuno, non capendo forse subito come il culmine della produzione pavesiana siano proprio I dialoghi con Leucò – dominati come sono dal tema del sangue, della terra, del principio e della fine –, ha chiamato «deviazioni mitologiche», altro non sono se non il superamento pavesiano della poetica del «fanciullino», che diventa ricerca delle pulsioni archetipiche vive in ciascuno di noi. L’elemento su cui maggiormente insistono queste pagine, a proposito dello spirito di Pavese, è il fatto che in quest’intellettuale sofisticatissimo, fosse sempre presente «e nel fondo misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo “laicistico” e lo spingeva invece allo studio dei grandi miti, archetipi strutturali, racconti metastorici, risposte criptiche alle pulsioni profonde» che agitano l’uomo». Un uomo come Pavese, di una complessità così spiccata, non poteva andare d’accordo con la mentalità settaria, e, in fin dei conti, ristretta, del più settario laicismo militante, che imperava, e per certi versi trionfava, nel panorama culturale dell’Italia di fine anni Quaranta, prendendo a volte le forme di un neorealismo assai riduttivo. Al contrario, nella sua ricchezza, Pavese non si lascia imbrigliare in una formula chiusa e definita; e Ferrarotti smonta, pian piano, in queste pagine, una certa vulgata sedimentata su di lui, non solo a proposito del suo impegno politico, ma anche circa una certa qual vena misogina che gli sarebbe stata spesso rinfacciata e, infine, sul suo suicidio: 74 L’ultima partenza si sofferma sull’ultima, caldissima estate di Pavese. Ferrarotti ribadisce che non fu «solo» per l’estrema, contingente delusione d’amore con Constance Dowling che Pavese si tolse la vita. Forse «la giovane americana gli aveva dato l’idea di un mondo diverso, di una vita diversa, di una libertà totali, il recupero di un’innocenza perduta»: illusioni, appunto, destinate a sommarsi ad altre sorgenti, non meno brucianti, di doloroso senso di fallimento. Il congedo, com’è noto, avviene in un’estate caldissima, quando «erano tutti in vacanza. E anche lui decise di partire. Aveva solo 42 anni». Ma per il più giovane amico, che visse quell’amicizia anche come una forma di fraternità, il ricordo forse più intenso è quello da cui prende il titolo del volumetto, e che ne costituisce un po’ il cuore pulsante: quando «ai primi chiarori dell’alba saliva[n]o lentamente, al modo di improbabili pellegrini medievali, venendo da Casale Monferrato per l’erta ripida del Santuario di Crea, zainetto in spalla e bordone in mano, con due soli incontri, nell’aria ferma e tesa della guerra civile». E l’esperienza di quelle solitarie passeggiate, dell’entrata in piccoli villaggi, poco più di un pugno di case, con la chiesetta e l’immancabile campanile, con le pievi, povere e modeste, che però sapevano creare un senso di continuità nella storia personale di ogni uomo, risuona così a lungo nell’animo di Ferrarotti. Al santuario con Pavese è un aureo libretto: senza pretese di esaustività, ma con eleganza, e incisività, sull’onda dei ricordi, Ferrarotti trova modo di parlarci di tanti argomenti di grande peso specifico: delle fatiche del traduttore, della cosiddetta «eclissi del sacro», del sentirsi parte di una Comunità come accadeva quando, paradossalmente, in un’Italia più povera, schiacciata dalla dittatura prima e dalla guerra civile poi, quando «tutti si occupavano esclusivamente del mangiare e del bere, dei bisogni elementari, per vivere [...] ecco che almeno una volta la settimana, la domenica, secondo la liturgia, nei pic- coli paesini sperduti, preti discretamente ignoranti, forse inconsapevoli, dicevano parole di alta spiritualità». Ed è proprio in questo scenario che trova posto un’amicizia particolare, con un gigante della nostra cultura, di cui Ferrarotti coglie, in un flash, l’essenza: «Da sempre Pavese sapeva che tutto nasce dal basso, che il divino non va ricercato nelle alte spere delle idee iperuranie, ma nella naturale esperienza quotidiana. In lui, il contadino langarolo vinceva sempre sull’intellettuale». Silvia Stucchi Per Paolo VI G.B. Montini, Un uomo come voi (Testi scelti 1914-1978), a cura di Giovanni Maria Vian, Marietti, Milano 2016, pp. 198, euro 16. La vita interiore di Paolo VI traspare da queste pagine in tutta la sua ricchezza. Da oltre trenta scritti di tutta una vita il direttore dell’Osservatore ha ricavato una silloge per la collana di saggistica della Marietti in cui è possibile ritracciare non solo l’amore e la lungimiranza del Pastore, ma l’integrità dell’uomo Montini. Ne risulta un ritratto apprezzabile e quanto meno interessante per la vita di fede di molti. «Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell’amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero», scrive il beato in un appunto del ’64. Ma sembra possibile rileggere le parole che egli indirizzava a un suo amico già nel 1914: «Ecco dunque il mio ideale: la mia vita passerà rivolta in alto». C’è qui il Montini che parla anche all’uomo d’oggi. «Fare presto, fare tutto, fare bene. Fare lietamente» è un programma di vita valido anche oggi. Non manca certo il Montini sacerdote e Papa: «“Diligis me plus his?” [...] Come si fa, al vespro ormai della vita terrena, a salire su questo vertice?» appunta nell’agosto 1963. «La mia elezione indica due cose: la mia pochezza, la Tua libertà, misericordiosa e potente». È il dialogo che intesse anche con la Chiesa: «Abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte e amorosa verso Cristo». E con i distanti: «Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. [...] I lontani spesso sono gente male impressionata da noi, ministri della religione. [...] Ebbene, se così è, fratelli lontani, perdonateci». testo numerose citazioni e rimandi a diverse altre opere. Per permettere al lettore di confrontarsi lui stesso e approfondire quelle parti che più lo attireranno. Un libro che affronta temi moderni, e che a mio parere va letto poco per volta e con pazienza, lasciandosi guidare passo dopo passo dagli spunti e dalle riflessioni proposte, senza voler tracciare un percorso stabilito, ma lasciandosi portare come dal vento. Allora così si potrà apprezzare pienamente l’erudizione di quest’opera. Dario Romano Gianni Celati, Romanzi, cronache e racconti, Mondadori, Milano 2016, pp. 1984, euro 80. Magia dei libri Alberto Valentini, Revolt. L’anticipazione della scomparsa dell’uomo sarà segnata dall’eclisse del suo libero pensiero, Bordeaux, Roma 2016, pp. 580, s.i.p. «Non si tratta di far leggere, ma di far pensare». Con questa citazione di Montesquieu si apre la premessa al volume del nuovo lavoro di Alberto Valentini, giornalista della RAI. Una citazione che tocca l’obiettivo di questo libro: invitare alla riflessione e al dialogo le persone, e magari stimolarle all’azione. Perché, come rileva l’autore già fin dal sottotitolo, bisogna tenere acceso il libero pensiero dell’uomo, perché quando esso scomparirà, allora anche l’umanità sarà destinata a finire. È importante non spegnere il dialogo, che dev’essere portato avanti anche confrontandosi con il pensiero degli antichi, e che continui ad arricchirsi di lettura in lettura. Per questo motivo l’autore, accanto al suo punto di vista personale, ha inserito nel Luca Montagner L’elenco della vita Gianni Celati è di quegli autori per cui nella scrittura rientra tutto lo scrivere. Narrare, discorrere, tradurre. In tutto occorre mettere lo stesso coinvolgimento e lo stesso estro. Escono ora contemporaneamente una sua raccolta di saggi e il Meridiano Mondadori che raccoglie quasi tutta l’opera. Proprio dai saggi – Studi di affezione per amici e altri (Quodlibet, Macerata 2016, pp. 288, euro 16.50) – prendo lo spunto per iniziare. Le Operette morali è il libro più citato e ammirato in queste pagine, come modello di una scrittura asistematica, anti-classica, ondeggiante nelle andature del pensiero e dello stile. Ma le Operette sono anche perfettamente bipolari, divise tra la cupezza più oscura e la levità più aerea. Il paragone può valere per Celati: gli entusiasmi e le euforie dei suoi primi libri – Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri, Lunario del paradiso – vanno a esaurirsi nelle depressioni e sospensioni dei Narratori delle pianure, delle Quattro novelle sulle appa- renze e di Verso la foce. Se l’immagine tiene e si può proseguire: le cose migliori dell’ultimo Celati, i racconti dei Costumi degli italiani, sono come la composizione delle due tensioni: esaltazione e spaesamento, entusiasmo e quiete lì si trovano, non solo nello stesso racconto, ma in una stessa frase. Questo è quasi il massimo che una scrittura può ottenere, e ricorda proprio le Operette. Il centro dell’ispirazione di Celati è anche il suo grande dissidio: dare voce alla vita con i suoi stessi mezzi, la parola orale. Lo scrittore che a un certo punto smette di far parlare sé stesso. Tutto il suo desiderio ormai è di far parlare il mondo e rendere la propria scrittura una mescolanza di voci. Ciò che all’inizio non riusciva a fare – far tacere sé stesso – ora è la sua sola gioia. Questo che per molti è una conquista raggiunta con gli anni o con i decenni per Celati è stato quasi un inizio. Fare un vuoto per ascoltare la vita com’è: drammatica, comica, tragica, triste, lieta quasi nello stesso istante. Non è un caso che una delle figure più ripetute nello stile di Celati sia quella dell’elenco, la figura che più ci parla della nostra relazione col mondo. Camminando, guardando, non abbiamo in testa che elenchi, i cui elementi non sono ordinati gerarchicamente: vediamo un palo della luce, un lenzuolo steso, un’antenna, il cielo. L’elenco riporta il disordine come lo trova. Riporta però anche l’armonia quando una serie di oggetti fa un disegno comprensibile. E testimonia di un atto di apertura verso il mondo. La lettura di Celati rimette sempre davanti agli occhi, di colpo, tutta la forza e le risorse del narrare. Di poche cose ha bisogno l’essere umano come di racconti. Se non ne ha di grandi, belli, veri, si nutre di quelli che trova. E mentre racconta, intesse il passato a sé stesso, e sé a chi ascolta. «La letteratura», scrive Peter Bichsel, «ha il compito e il senso di continuare la tradizione del narrare, perché noi possiamo sostenere la prova della nostra vita solo raccontando». Marco Stracquadaini 75 doppia IN LIBRERIA La Doppia classifica, come dice il nome, si divide in due parti. La pagina sinistra, qui sotto, offre una classifica mensile dei libri più venduti, compilata rielaborando le liste dei bestseller diffuse dalle principali fonti giornalistiche. Vale come un sintomo dell'aria che tira nel mercato editoriale. Il numero su fondo nero ¶ indica la posizione attuale; il numero su fondo chiaro ¬ indica la posizione nel mese precedente; la stellina H segnala le nuove entrate. La presente elaborazione si riferisce al mese di dicembre 2016. Letteratura Varia Gennaio non riserva grandì novità: continua il «miracolo» leopardiano di D’Avenia, mentre sia riaffaccia la tenebrosa Barcellona di Carlos Zafón. ¶ ® Jeff Kinney, Diario di una schiappa. Non ce la posso fare!, Il Castoro, Milano 2016, pp. 218, € 13. ¶ ¬ Alessandro D’Avenia, L'arte di essere fragili. Per Greg, la «schiappa» più famosa al mondo, arriva un campeggio senza cellulare, Pc o videogiochi... Ne uscirà vivo? Sorrisi per grandi e piccini. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016, pp. 216, € 19. 10 e lode al sorprendente «profduepuntozero» che aiuta a scoprire quanto il nostro tempo abbia bisogno di poesia e di tenerezza. #Infinito #Stelle. · Á Roberto Saviano, La paranza dei bambini, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 352, € 18,50. Meglio lo scrittore del tribuno moralizzatore. ¸ ® J.K. Rowling con John Tiffany e Jack Thorne, Harry Potter e la maledizione dell’erede, Salani, Milano 2016, pp. 368, € 19. Sembra un déjà vu. Delude, nonostante il botteghino. ¹ H Carlos Ruiz Zafón, Il labirinto degli spiriti, Mondadori, Milano 2016, pp. 832, € 23. «L’ombra del vento è fenomenale, un romanzo pieno di splendore magico e botole scricchiolanti, dove anche le sottotrame hanno sottotrame», così Stephen King salutava il primo episodio della tetralogia dedicata al «Cimitero dei Libri Dimenticati» che qui arriva alla conclusione: 35 milioni di lettori concordano con il re del Thriller... º ¯ Paula Hawkins, La ragazza del treno, Piemme, Milano 2015, pp. 374, € 19,50. Bentornata Hawkins, il suo treno vale l’Orient Express della Christie, ma c’è più scavo nei personaggi. 76 · ¯ Aldo Cazzullo, Le donne erediteranno la terra, Mondadori, Milano 2016, pp. 214, € 17. «Le donne erediteranno la terra perché sanno sacrificarsi, guardare lontano, prendersi cura»: sul Il genio femminile c’è soprattutto l’intramontabile opera di Giovanna della Croce e La donna di Edith Stein. ¸ H Bruno Vespa, C’eravamo tanto amati. Amore, politica, riti e miti. Una storia del costume italiano, Mondadori, Milano 2016, pp. 372, € 19,50. «Siamo stati i primi a inventare la radio, il fax, persino il computer e abbiamo perso tutto...». Viaggio in un secolo italiano con molta nostalgia e qualche barlume di speranza. Il primo capitolo ricorda il bel tempo in cui si scrivevano lettere, si può accompagnare con «Ti scrivo che ti amo». 299 lettere d’amore italiane (UTET) a cura di Guido Davico Bonino. ¹ Á Valter Longo, La dieta della longevità, Vallardi, Milano 2016, pp. 302, € 15,90. Secondo l’autore, i 5 pilastri della dieta «mima-digiuno» consentono di vivere spensierati fino a 110 anni: chissà che cosa ne pensano «Spartaco» Kirk Douglas (100 anni) o l’infaticabile Gillo Dorfles (106)... º H Luciana Littizzetto, La bella addormentata in quel posto, Mondadori, Milano 2016, pp. 188, € 18. Meglio calare il sipario. ↓↓↓↓↓↓↓↓ classifica IN REDAZIONE di Mauro Manfredini Qui sotto, nella pagina destra, figura un'altra classifica, che non si basa sulle vendite ma sulla qualità: è una rassegna di volumi consigliabili e consigliati sulla base del gusto, del buonsenso e di opinioni magari sindacabili ma, di norma, non dissennate. Entrambe le classifiche, quella di destra e quella di sinistra, sono accompagnate da brevi giudizi che forniscono sintetiche indicazioni critiche per un tempestivo orientamento e non pregiudicano recensioni particolareggiate in successivi numeri della rivista. Letteratura Varia ¶ Arthur Rimbaud, In questi deserti senza strade. Lettere alla madre, a cura di Vito Sorbello, Aragno, Torino 2016, pp. 258, € 20. ¶ Pedro Casciaro, Al di là dei sogni più audaci, Ares, Milano 2016, pp. 248, € 16. «Quest’oggi, tu o Isabelle, venite a Marsiglia con treno espresso. Lunedì mattina mi amputano la gamba. Pericolo di morte». Il carteggio dettaglia il tormentato rapporto del poeta-Veggente con la madre. Per Aragno escono libri bellissimi: Addio, anima mia (le lettere tra Leopardi e Ranieri) e Il laboratorio di sé, i tre volumi della corrispondenza di Stendhal. · Ethel Mannin, Tardi ti ho amato, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 378, € 19,50. Gli inizi dell’Opus Dei in Spagna narrati dal piglio vivacissimo e sognante di Pedro Casciaro: una necessaria ristampa da affiancare al San Luigi Gonzaga (Ares, pp. 296, euro 18) di Manlio Paganella. · Henri J.M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia 2016, pp. 224, € 16. Lo scrittore Francis Sabre oscilla tra impegni mondani e amicizie effimere fino all’incontro che innescherà la redenzione... Romanzo di formazione con ampi orizzonti, tra i preferiti di Papa Francesco. Nouwen, l’autore dell’Abbraccio benedicente, si immerse per sette mesi nel silenzio trappista per interrogarsi sui quesiti più urgenti: intensificare la preghiera, vincere l’impazienza, la gelosia e la scarsa stima di sé stessi, fare di Cristo il centro della propria esistenza. Uno splendido panorama dopo la scalata su una parete mozzafiato. ¸ Thomas Merton, La montagna delle sette balze, Garzanti, Milano 2016, pp. 500, € 22. ¸ Stefano Zecchi, Paradiso occidente, Mondadori, Milano 2016, pp. 240, € 19. Un grande viaggio verso Dio: evergreen di un’anima inquieta per il nostro tempo tumultuoso. «C’è ancora una bellezza che possa testimoniare la nostra umanità?», è il quid di un suggestivo percorso sulla nostra decadenza e «la seduzione della notte». ¹ Giampiero Neri, Via provinciale, Garzanti, Milano 2017, pp. 100, € 15. Ritorna un «maestro in ombra» della nostra poesia con i suoi temi più cari: la contemplazione della natura, l’origine del male, il senso della storia. º Albert Spaggiari, Le fogne del paradiso, Oaks, Milano 2016, pp. 224, € 18. Per la «rapina del secolo» compiuta «senza armi, senza odio, senza violenza» da uno spregiudicato avventuriero cosmopolita c’è Cesare Cavalleri a p. 50. ¹ Marco Bussagli, Bosch, Giunti, Firenze 2016, pp. 304, € 75. Sontuosa monografia illustrata in grande formato per il pittore visionario che incantò Filippo II di Spagna come Margherite Yourcenar. º Marco Busca, Beato chi cammina nella legge del Signore, ITL, Milano 2016, pp. 104, euro 12. Mappa ragionata sull’enciclica Laudato si’ per iniziare con slancio spirituale il nuovo anno. 77 FAX & DISFAX E il passero volò L’assuefazione alle dicerie può diventare sconvolgente, può addirittura modificare la percezione della realtà, la quale finisce per essere appannaggio dei comunicatori. Come stavano le cose non te lo dicevano le osservazioni che facevi vivendo, crescendo, parlando e interrogando per conto tuo, come si faceva una volta quando le comunità erano luoghi dove si interagiva con la parola; adesso ci sono le statistiche, i tolchisciò, il CENSIS, le percentuali progressive sulle verifiche passate al setaccio degli «algoritmi»: i «ritmi» li avevamo capiti, sono gli «algo» a lasciarci perplessi. Anche se una città – metti Roma – che, compreso il suo hinterland periferico, ammucchiato, disorientato e sempre sotto pressione mediatica, conta cinque milioni di persone, in realtà non si tratta di un mondo «globale», nel senso che tutti vi sono riconoscibili secondo parametri comuni, ma di un territorio composto di piccoli serbatoi umani e distanti, legati sotto la copula della televisione dei consumi e degli spot. I problemi sono uguali, ma le soluzioni fanno la differenza. Il prof. Pier Pierri se ne accorse quando cominciò a uscire e ad andare per il mondo. Due fatti lo avevano convinto che bisognava dare argomenti nuovi e rinnovate ragioni a san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e a Gabriele Arcangelo, protettore della comunicazione. Non che i due insigni abitatori delle celestitudini non conoscessero co- 78 me stavano esattamente le cose, ma da un po’ li avevano messi da parte, come i fumatori che leggono che gli verrà il cancro ma continuano a non crederci. Primo fatto: l’indagine del CENSIS sull’impoverimento della classe media. Secondo fatto: i libri dell’insigne archeologo Carandini sulle meraviglie di Roma (in pratica: le pietre senza le persone). Il fatto che il Pier Pierri toccasse queste due realtà, una indagatoria, I’altra asseverativa, lo esponeva a pericolosi, per non dire temerari, inconvenienti: stava a indicare che non li temeva. Era suo dovere capire il cambiamento. Gli era successo quando andando a Porta Maggiore come faceva da qualche anno a comprare il giornale, non trovò più il passerotto. Dice: il passerotto? Certo, che ne sanno il CENSIS o il Carandini di questa roba limitrofa e metafisica? Si spieghi meglio; mi spiego, disse il prof. Pier Pierri. Porta Maggiore, come già al tempo di Costantino imperatore, è il luogo da dove si parte per andare a sud, oggi definito periferia della città come fosse il porto di Palos, di Ostia, di Creta, di Atene, da dove si va alla scoperta. La ragnatela delle tranvie cittadine romane si incrocia quasi tutta qui, e quindi anche la gente. È la stessa che abitava Roma duemila anni fa: arabi, orientali, mediterranei, europei e oggi anche sudamericani; anche i romani provenienti dalle provincie umbro-calabro-siculo-abbruzzo-campane ormai acquisiti nello ius civitatis, e tanti giovani perché la Sapienza (università) e i disoccupati sono l’una generatrice degli altri. Ora, da quando gli gnocchi alla sorrentina sono stati scalzati dalla Bellezza alla Sorrentino, è successo che Carandini racconta la Roma antica dove i monumenti sono luoghi meravigliosamente descritti – ci vuole poco a farlo – ma vuoti delle persone e dove la Bellezza è una cosa per il business turistico, mentre la gente è presa in ostaggio dal CENSIS per farci sapere che i giovani di domani saranno dei disperati morti di fame e i nonni se la passano male con pensioni da fame e perciò fuggono a Cuba o si esiliano per farsi bastare il modesto guiderdone. Tutte cose che anche senza Carandini e senza il CENSIS si sapevano già, perché la gente vivendo e osservando la realtà coi proprio occhi e sulla propria pelle, te la racconterebbe meglio, ma si vergogna. Gli archeologi descrittivi e gli istituti di statistiche sociologiche hanno questo in comune: pretendono di raccontare il mondo, I’antico o I’attuale non fa differenza; hanno in comune anche il fatto di pretendere che come lo raccontano loro, quello è il vero mondo. In quei libri le terme di Caracalla sono abitate dai fantasmi, descrivere i romani che ci giocavano a palla, come da famosa canzonetta, esaltava il fantasioso archeologizzare dei moderni Vitruvio e Tito Livio, ma non aiuta a preservare I’industria dell’antico dai crolli, dalle erbacce che lo scarnificano e dalla neglettitudine; quanti scavi abbandonati dopo essere stati esaltati dal Carandini – e non solo – pullulano intorno a noi. E il CENSIS, entrando nel merito della socialità, non ci spiega perche questa società si sta immiserendo. di Franco Palmieri Pier Pierri, che è un provocatore, dice: è colpa loro. Si spieghi meglio; mi spiego con un esempio. Giorgio era un idraulico bravo e in altri tempi ha lavorato e guadagnato molto, ha comprato casa, due negozi, una casa per i figli e la villetta al mare. Poi è andato in pensione e i figli all’università, lavoretti precari, redditi bassi, tasse alte. Giorgio non ha mai pagato le sue tasse in proporzione ai guadagni, tutto in nero: ergo, la pensione è misera. Lo Stato che tassa fingeva di non saperlo e a quel tempo era necessario perché i soldi, in rosso o in nero, sempre spenderli bisognava, quindi i consumi tiravano; ma adesso su quei beni immobili non si riescono a pagare le gravose tasse che vi incombono. Il CENSIS non lo sapeva, ma Francesco di Sales e Gabriele Arcangelo lo avevano capito, e ne temevano le conseguenze da un pezzo. Infatti, avevano provveduto secondo le loro capacità, ispirando coloro che gli si rivolgevano a dire come stavano davvero le cose, a non dare seguito ai proclami dei tolchisciò, a spiegare che se i monumenti sono vuoti è perché si esalta I’estetica da sfruttare e non la Bellezza da preservare; e, soprattutto, non si è tenuto conto della scomparsa del passerotto di Porta Maggiore. Avete capito bene. I romani, quelli di sempre, quelli di Porta Maggiore, conoscono due cose, il negozio di ricambi elettrodomestici e l’edicola dei giornali. Voi andate a comprare l’accendigas e rimanete nel negozio due ore perché il bravo signor Claudio vi mostra e vi racconta la storia di Porta Maggiore dall’anteguerra a oggi, e con il suo straordinario archivio fotografico mostra com’era Porta Maggiore durante il fascismo, negli anni della guerra. Poi uscite dal negozio rinfrancati perché un pezzo di mondo sconosciuto al Carandini e al CENSIS vi si è miracolosamente rivelato, anche grazie allo zampino invisibile di Francesco di Sales e di Gabriele Arcangelo, e rimanete sconcertati: cartacce, bottiglie di birra sparse, i giardini intorno al glorioso portale marmoreo sopraffatti da erbacce e alberelli che crescono tra le architetture e allora voi – facendo finta di non vedere che dall’altra parte, all’imbocco della Casilina, c’è anche una specie di postribolo all’aperto appena fa un po’ buio –, andate all’edicola dei giornali: il segnale tragico è arrivato con il terremoto, proprio lì. All’edicola dei giornali del signor Luciano tutti i giorni entrava il passerotto, uno vero, svolazzava, si faceva i suoi giretti tra i giornali, saliva sulla spalla della signora, piluccava le mollichelle, la gente entrava e lo salutava, era una specie di segnale, la forma di quell’intenzione metafisica che la tradizione iconografica classica ha sempre attribuito a una certa simbologia espressa nel volo, dalla colomba al passerotto, che sempre – come il cardellino – ha illuminato d’immenso pitture e scritture: del resto, Gabriele Arcangelo vola. Ebbene, nei giorni del terremoto che ha distrutto la cattedrale di San Benedetto a Norcia, il passerotto è scomparso. Quando il professor Pier Pierri è andato per il giornale e il signor Luciano dell’edicola gli ha detto che il passerotto era scomparso, c’è stato un attimo di pausa pensosa, poi il Pier Pierri ha detto: «Era inevitabile, non ce lo meritavamo». Anche nel negozio-archivio del signor Luigi di Porta Maggiore la gente adesso pare più frettolosa. Ci sono mondi che non si parlano più, li interpretano i sociologi che pensano di rendersi comprensibili eliminando le complessità necessarie, e così arrivano al Carandini, nel vuoto, sul versante non delle idee ma dell’utile, non sull’etica di Francesco di Sales e di Gabriele Arcangelo, me nel dire per distrarre. L’aveva scoperto Urbano Cairo, della RCS Corriere, di La7, tv dei tolchisciò. Una mattina si era svegliato presto: «Fammi un po’ vedere come raccontano le notizie i miei pargoli», e s’era messo davanti al televisore che lui tiene acceso 24 ore su 24. Facendosi la barba, per poco non si sgozzava col rasoio, quello a lama come faceva suo nonno a Cairo Montenotte. In primo piano, a tutto schermo, mentre la voce commentava i titoli, la camera inquadrava le pagine dove campeggiava la pubblicità di Ferragamo cravatte, oppure dell’acqua Lete, dell’orologio Longines, della Tissot, della Cartier, oltre a magliette e scarpe varie. Sì c’erano dieci centimetri di scritto sottolineato e illeggibile, ma lo spot furbo era iI messaggio. Urbano andò su RaiNews24, idem; anche lì a mezzanotte pagine pubblicitarie e dieci centimetri di notizia. È un trucco delle aziende o una furbata dei conduttori, registi, giornalisti? Stanno indagando. La faccenda è comica, I’effetto è disturbante e la conseguenza ammonitrice, perché Francesco di Sales e Gabriele Arcangelo stanno meditando di dare le dimissioni. 79 LIBRI RICEVUTI Ringraziamo gli editori per l’invio delle loro novità. Il giudizio critico, nei limiti dello spazio disponibile alle rubriche, è cronologicamente indipendente da questo annuncio bibliografico. digmi per la teologia della liberazione), traduzione e cura di L. Spegne, Castelvecchi – LIT Edizioni, Roma 2016, pp. 64, euro 7,50. Francesco Mario Agnoli – Ettore Beggiato – Nicolò Dal Grande, Veneto 1866 (Da Lissa all’Unità: resistenza, plebiscito, emigrazione), presentazione di A. Morganti, Il Cerchio Iniziative Editoriali, San Marino 2016, pp. 104, euro 14. Pierre Favre, Memorie spirituali, traduzione e cura di G. Mellinato, Castelvecchi – LIT Edizioni, Roma 2016, pp. 192, euro 17,50. Antonio Allegrini, Sentiva nei boschi odori di altri mondi (Poesie e prose), a cura di A. Sana, Editrice Morcelliana, Brescia 2016, pp. 194, euro 16. Vincenzo Guarracino (cur.), Il fiore della poesia italiana, tomo I: Otto secoli, Puntoacapo, Pasturana (AL) 2016, pp. 248, euro 20. Kiko Argüello, Annotazioni (19882014), presentazione del card. R. Blázquez Pérez, traduzione dallo spagnolo di E. Pasotti e F.J. Sotil Baylos, Edizioni Cantagalli, Siena 2016, pp. 250, euro 20. Vincenzo Guarracino – Mauro Ferrari – Emanuele Spano (cur.), Il fiore della poesia italiana, tomo II: I contemporanei, Puntoacapo, Pasturana (AL) 20162, pp. 330, euro 20. Roberto Mutani, Il sogno e l’arte (Il linguaggio dell’anima), Allemandi, Torino 2016, pp. 134, euro 28. Francesco Langianni, Due stanze, Robin Edizioni, Torino 2016, pp. 296, euro 16. Martha Nussbaum, La speranza degli afflitti (Il lutto e i fondamenti della giustizia), a cura di P. Costa, EDB, Bologna 2016, pp. 74, euro 9. Marco Busca, Beato chi cammina nella legge del Signore (Riflessioni sull’enciclica «Laudato si’» e altri testi di Papa Francesco), ITL, Milano 2016, pp. 104, euro 12. Padre Benigno Calvi, Prediche e meditazioni, introduzione di mons. E. Apeciti, presentazione di padre P. Janes, nota di E. Mauri, con DVD, Mimep-Docete, Pessano con Bornago (MI) 2016, pp. XXIV-48, euro 12. Gianfranco D’Ambrosio, Mutare in inno l’elegia, prefazione di N. Di Stefano Busà, postfazione di N. Bonifazi, s.l. 2016, pp. 160, s.i.p. Jakob H. Deibl, Poetica del congedo (Hölderlin e la nominazione del divino), traduzione dal tedesco di M. Coser, EDB, Bologna 2016, pp. 142, euro 12. di M. Bocchiola, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2016, pp. 276, euro 18. La notte respira la sua luce (Poesie e canti di Natale dei Padri della Chiesa), a cura di A. Peri, Castelvecchi – LIT Edizioni, Roma 2016, pp. 144, euro 15. Giacomo Leopardi, Inno a Nettuno. «Odae adespotae» (1816-1817), a cura di M. Centenari, Marsilio Editori, Venezia 2016, pp. 288, euro 26. Giacomo Leopardi, Scrivimi se mi vuoi bene (Lettere e pagine fra Natale e anno nuovo), a cura di F. Elli e V. Rossi, Interlinea Edizioni, Novara 2016, pp. 96, euro 10. Giacomo Leopardi – Antonio Ranieri, Addio, anima mia, (Carteggio), a cura di V. Guarracino, Nino Aragno Editore, Torino 2016, pp. 136, euro 15. Alexandre Dumas, Storia di uno Schiaccianoci (Favole di Natale), con le illustrazioni originali di Bertall, traduzione di M. Vaggi, Interlinea Edizioni, Novara 2016, pp. 196, euro 12. Mauro Giuseppe Lepori, Si vive solo per morire?, Edizioni Cantagalli, Siena 2016, pp. 152, euro 13. Echi da Babele (La voce del traduttore nel mondo editoriale), presentazione João Batista Libânio, Continuare a sognare un mondo umano (Nuovi para- Madre Teresa di Calcutta, Amiamo chi non è amato (Testi inediti), prefazione di Papa Francesco, EMI, Bologna 2016, pp. 96, euro 9,50. Ethel Mannin, Tardi ti ho amato (Romanzo), traduzione dall’inglese di F. Ballini, Castelvecchi – LIT Edizioni, Roma 2016, pp. 384, euro 19,50. Mille e una Callas (Voci e studi), a cura di L. Aversano e J. Pellegrini, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 640, euro 26. Carlo Ossola, Ungaretti, poeta, Marsilio Editori, Venezia 2016, pp. 288, euro 17. Antonio Palmieri, Internet e comunicazione politica (Strategie, tattiche, esperienze e prospettive), FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 154, euro 19. Angela Pellicciari, Martin Lutero (Il lato oscuro di un rivoluzionario), Edizioni Cantagalli, Siena 2012, pp. 208, euro 14,50. Clemente Rebora, Il tuo Natale di fuoco (Poesie, lettere, pagine di diario, postille e inediti), edizione accresciuta con autografi ritrovati a cura di R. Cicala e V. Rossi, Interlinea Edizioni, Novara 20162, pp. 220, euro 12. Sebastian Smee, Artisti rivali (Amicizie, tradimenti e rivoluzioni nell’arte moderna), traduzione di V. Bellocchio, UTET, Novara 2016, pp. 352, euro 20. Aldo Maria Valli, 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P., Liberilibri, Macerata 2016, pp. 210, euro 16. Questo fascicolo (n. 671) è stato chiuso in tipografia l’11 gennaio 2017. Il fascicolo precedente (n. 670) è stato consegnato al C.M. Postale di Perugia, per l’inoltro agli abbonati e alle librerie, il 22 dicembre 2016. 80 ARES NOVITÀ Riccardo Caniato Una matita nelle mani di Dio Vita & santità di Madre Teresa pp. 128 € 9,90 Questo libro ripercorre la vita di Madre Teresa soffermandosi sui passaggi salienti sia della vocazione sia dell’opera delle Missionarie e dei Missionari della Carità a cui ha dato vita. Con stile giornalistico rivivono in queste pagine gli incontri, le rivelazioni private e gli aneddoti più significativi, attingendo anche dagli scritti della Santa le riflessioni e i pensieri più folgoranti. Dopo il racconto dei miracoli che hanno permesso il riconoscimento della santità di Madre Teresa, ne completano il ritratto le parole con cui Giovanni Paolo II e Papa Francesco hanno accompagnato rispettivamente le cerimonie di beatificazione e di canonizzazione. Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenere lo sconto del 20% richiedendo il volume alle Edizioni Ares - Via Stradivari, 7 - 20131 Milano - Tel. 02.29.52.61.56 - fax 02.29.52.01.63 - www.ares.mi.it Belloni IMPRESA EDILE SRL Costruzioni industriali e civili Ristrutturazioni Manutenzioni Ingegneria civile VIA DOMENICHINO, 16 - 20149 MILANO Telefono 02 48009130 - Fax 02 48008492 [email protected] ARES NOVITÀ Fernando Ocáriz Carità senza Dio? Il cammino cristiano dell’amore pp. 120, € 12 L’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo non sono due amori: sono le due espressioni di un unico amore. Cogliere correttamente tale unità contribuisce alla comprensione di come e perché la carità è l’essenza della vita cristiana, cioè la vita dei figli di Dio in Cristo per la grazia dello Spirito Santo, Amore increato. Se si perdesse la connessione soprannaturale, la carità diventerebbe mera filantropia, e la Chiesa rischierebbe di trasformarsi in una pur benefica organizzazione assistenziale. Fernando Ocáriz La Chiesa, mondo riconciliato Rafael Serrano intervista il Vicario generale dell’Opus Dei pp. 184, € 13 In risposta alle incalzanti domande di Rafael Serrano, mons. Ocáriz spazia dai problemi teologici attuali all’eredità del Concilio Vaticano II, alla qualità della «nuova» evangelizzazione, ai temi sociali del lavoro e della povertà. Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenere lo sconto del 20% richiedendo il volume alle Edizioni Ares - Via Stradivari, 7 - 20131 Milano - Tel. 02.29.52.61.56 - fax 02.29.52.01.63 www.ares.mi.it