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20131 Milano - Via Stradivari, 7
Individualismo
& disgregazione
sociale
di Fabrice Hadjadj
Mons. Javier Echevarría
(1932-2016)
di Fernando Ocáriz
Le sanzioni
favoriscono Putin
Questioni di pancia
(del Paese)
di Fernando Mezzetti
di Lorenzo Ornaghi
Dottrina sociale:
troppo ottimismo,
troppo pessimismo
Presente & futuro
del sindacato
colloquio di Nicola Guiso
con Marco Bentivogli
di Hugo de Azevedo
Gli Anniversari
del 2017
671
Gennaio
di Gianmaria Bedendo
2017
Poste Italiane Spa Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004
n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia
Nico Rosberg,
n. 1 ai box
intervista di Claudio Pollastri
Editoriale
Il buio & la candela
Z
ygmunt Bauman, il grande sociologo
scomparso novantunenne il 9 gennaio
scorso, ha saputo interpretare meglio
di ogni altro la postmodernità attraverso il modello della «società liquida», modello che non
può essere ridotto a slogan come è accaduto a
Marshall McLuhan, crocifisso sul motto non
esattamente capito «il mezzo è il messaggio».
Liquida, la nostra società, lo è perché liquidi –
cioè instabili, precari – sono diventati perfino i
rapporti coniugali e familiari, liquida è la comunicazione digitale che prescinde dal contatto personale, liquidi i consumi all’insegna dell’«usa e
getta», liquidi – cioè senza regole condivise – i
legami tra cittadini e istituzioni, liquido è il «relativismo etico» tempestivamente diagnosticato
da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: liquida, insomma, è la società che si costruisce
sulle emozioni, sui desideri, e non sulla ragione,
con l’insicurezza che ne deriva per il cittadino
impotente di fronte ai grandi problemi che la globalizzazione solleva e che i mass media continuamente rilanciano, provocando disparità ed
esclusioni: «vite di scarto» (Bauman), «cultura
dello scarto» (Papa Francesco). E l’insicurezza
diffonde la paura, suscettibile di spregiudicate
manipolazioni.
Nella conferenza che il 7 novembre 2002 ha
inaugurato il convegno Parabole mediatiche: fare cultura nel tempo della comunicazione, organizzato dalla Conferenza episcopale italiana,
Zygmunt Bauman aveva affermato: «La barriera
più difficile da attraversare è quella della unilateralità del processo di globalizzazione. Il progressivo intreccio d’interdipendenze globali non
è accompagnato, per non dire controllato e bilanciato, da strumenti globali e potenti di azione
politica. Nella nostra epoca, è emerso uno spazio
eticamente vuoto sopra il livello di tutti gli strumenti effettivi d’azione collettiva, dentro il quale
le forze economiche sono libere di seguire le proprie regole o anche di non seguirne alcuna. La
diffusione di poteri economici non è stata seguita, finora, dall’emergere di forze legislative in
grado d’imporre coercizioni eticamente pregnanti sulle nuove e sfrenate forze economiche. Queste ultime sono libere di agire globalmente, ma ci
sono solo germi e anticipazioni di un sistema giuridico e legale globalmente vincolante, di una
democrazia globale o di un codice etico globalmente vincolante, applicabile e osservato. Non
esiste più la fiducia nell’efficacia del discorso
impegnato, e in particolare di un discorso rivolto al tipo di strutture politiche istituzionalizzate
che ragionevolmente ci si aspetta subordinino le
loro azioni a motivazioni etiche e agiscano a favore di obiettivi etici».
Riscoprire un’etica che partendo dalle strutture
innate della coscienza guidi la costruzione anche
delle strutture sociali è il messaggio, forse il più
importante, che Bauman ci lascia. Altrimenti, in
un mondo in cui la comunicazione è sempre più
per immagini, cioè visiva, ai cittadini non resta
che un ruolo di spettatori. E non è per caso che
la sociologia di Bauman si è sempre meglio
orientata verso una vera e propria antropologia.
Ricostruire non è facile, quando l’individuo
stesso si sente frammentato anche al proprio interno. Parafrasando un’immagine di Faulkner,
si può dire che la diagnostica di Bauman è come una candela accesa nella notte in mezzo a un
bosco: non basta a far luce, ma almeno segnala
lo spessore del buio. Bauman, del resto, si diceva pessimista nel breve periodo, e ottimista a
lungo termine.
C.C.
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N° 671
Editoriale
Fabrice Hadjadj
Fernando Ocáriz
Gianmaria Belendo
Dino Basili
Nicola Lecca
Aldo Maria Valli
Hugo de Azevedo
Valentino Guglielmi
Vittorio Messori
*
Matteo Andolfo
Giuseppe Bonvegna
Lorenzo Ornaghi
Nicola Guiso
Fernando Mezzetti
Roberto Rapaccini
Cesare Cavalleri
Guido Clericetti
Vincenzo Sardelli
Silvia Stucchi
Maria Chiara Oltolini
Florio Fabbri
Claudio Pollastri
Michele Dolz
Matteo Andolfo
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Mauro Manfredini
Franco Palmieri
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Il buio & la candela
Individualismo & disgregazione sociale
Mons. Javier Echevarría (1932-2016)
Gli Anniversari del 2017
Piazza Quadrata. Diario «epocale»
Lettera da Le Landeron. Una fortezza trasformata in giardino
Piazza San Pietro. Come formare i nuovi sacerdoti
Dottrina sociale della Chiesa. Troppo ottimismo, troppo pessimismo
Catechesi/2. I primi tre Comandamenti
Mariologia. Fontanelle, Lourdes italiana
Una nuova puntata dell’avventura Ares
Filosofia. La «terza navigazione». Realismo metafisico quale filosofia postmoderna
Idee. Se la tecnologia prescinde dalla Verità
Orizzonti. Questioni di «pancia» (del Paese)
Interviste. Presente & futuro del sindacato. Colloquio con Marco Bentivogli
Esteri. Le sanzioni favoriscono Putin
Terrorismo. Il conflitto Israeliani-Palestinesi
Letture/128. Zaccuri, Spaggiari, Montale
Inquietovivere
Teatro. Il volto spietato del socialismo reale
Cinema/1. Due film al femminile
Cinema/2. L’estate addosso
Cruciverba d’autore
Automobilismo. Nico Rosberg, n. 1 ai box
Arti visive. Vita della natura morta
Ares news. Spiritualità, letteratura, mariologia
Libri & libri
Doppia Classifica. Libri venduti & libri consigliati
Fax & disfax. E il passero volò
Libri ricevuti
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L’APPUNTAMENTO È A PAGINA 32.
AUGURI! VI ASPETTIAMO!
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GENNAIO 2017
ANNO 61°
in questo numero:
Fabrice Hadjadj (foto) evidenzia come l’individualismo sia il risultato di una costruzione sociale che disgrega le comunità naturali e l’uomo stesso: la sua proposta
per affrancarsi da questo paradigma consiste nel ripartire
dal dato delle comunità naturali: la famiglia, la comunità
con la natura e quella dell’uomo con Dio (p. 4). l Quali sono gli anniversari da non perdere nel 2017? Per un’affascinante tour nelle ricorrenze, da Lutero a Federico Borromeo,
da Madame de Staël a Jane Austen, si può ricorrere a Gianmaria Bedendo a p. 12. l Per «Orizzonti» Lorenzo Ornaghi indaga il «peso» della massa nel funzionamento delle
Democrazie: ci sono troppe questioni «di pancia» (p. 38).
Lo scorso 12 dicembre, festa della Madonna di
Guadalupe, si è spento mons. Javier Echevarría (foto),
prelato dell’Opus Dei: a p. 8 presentiamo l’omelia che
mons. Fernando Ocáriz, Ausiliare vicario generale dell’Opera, ha tenuto alla Messa esequiale celebrata giovedì 15
dicembre nella Basilica di Sant’Eugenio a Roma.
Tre domande su Chiesa & dintorni. 1/«E se ci
fosse una nuova Lourdes a due passi da Brescia?»: è quanto si chiede a p. 30 Vittorio Messori (foto) indagando sulle apparizioni di Fontanelle: lo spunto della sua riflessione muove dalla pubblicazione dei Diari della veggente
Pierina Gilli appena usciti per Ares a cura di Riccardo Caniato. l 2/Ma nei confronti della Dottrina sociale della
Chiesa c’è troppo ottimismo o troppo pessimismo? Risponde Hugo de Azevedo a p. 22. l 3/Come saranno i sacerdoti del futuro? Aldo Maria Valli illustra a p. 20 la Ratio Fundamentalis institutionis sacerdotalis della Congregazione per il clero pubblicata lo scorso 8 dicembre.
Far uscire la Russia dalle umiliazioni post Guerra
Fredda ricostituendo l’identità nazionale: è da sempre la linea di Vladimir Putin (foto), ma i rischi del nazionalismo sono davvero tanti, come dettaglia Fernando Mezzetti a p. 44.
l Per un aggiornamento sul conflitto israeliani-palestinesi
c’è lo zoom di Roberto Rapaccini a p. 46; sono scenari decisamente più distesi quelli presentati da Nicola Lecca a p. 18,
che ha visitato per noi la città-giardino di Le Landeron.
Ci vuole coraggio a lasciare la Formula 1 cinque
giorni dopo la conquista del titolo mondiale: è successo a
Nico Rosberg (foto) che racconta a Claudio Pollastri il suo
improvviso ritiro (p. 62). l Certa critica accademica recentemente si accanisce sul Diario postumo di Montale:
decisione miope e ingiusta, motiva Cesare Cavalleri a p. 50
strigliando il saggio di Enrico Testa ed elogiando le narrazioni di Alessandro Zaccuri e Albert Spaggiari. l Cinema:
Silvia Stucchi ha approfondito Ghostbusters e Io prima di
te (p. 56), mentre Maria Chiara Oltolini ha bacchettato L’estate addosso (p. 59).
Mensile di studi e attualità
20131 Milano - Via A. Stradivari, 7
Telefoni 02.29.52.61.56 - 02.29.51.42.02
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Redazione romana:
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tel. e fax 06.21.700.782
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CAPOREDATTORE
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Fabrice
Hadjadj
Individualismo
& disgregazione
Il paradigma
tecno-economico
I
4
sociale
Fabrice Hadjadj, uno dei più brillanti saggisti del nostro tempo, evidenzia
come l’individualismo sia il risultato di una costruzione sociale che disgrega le comunità naturali per inventare una «società di concorrenza e di innovazione», quella che risponde a ciò che Papa Francesco chiama il «paradigma tecno-economico», e come l’individualismo conduca paradossalmente alla disgregazione dell’individuo, che viene separato dalla propria famiglia, dal proprio corpo e dal proprio sesso, nonché dalla propria eredità
e storia. Nel momento stesso in cui l’individuo rivendica sé stesso come
autonomo, diventa schiavo del mondo tecno-liberale. La proposta di Hadjadj per affrancarsi da questo paradigma e dalle sue conseguenze consiste nel ripartire dal dato delle comunità naturali: la famiglia, base per rifondare la dimensione politica; la comunità con la natura; quella dell’uomo
con Dio. È qui che il cristianesimo si rivela necessario. In questi tempi in
cui la specie umana è minacciata dalla distruzione e dall’occupazione tecnologica, bisogna credere che per quanto terribili, è una Provvidenza che
ci ha posto in essi, e che è proprio qui che noi abbiamo la nostra missione.
Riportiamo, con la vivacità del parlato, il testo della conferenza che Hadjadj ha tenuto al «Laboratorio delle Idee» di Milano il 22 ottobre 2016.
l titolo delle nostre riflessioni, Individualismo
e disgregazione sociale, appare come un
pleonasmo, e dunque come qualche cosa che non
sembrerebbe affatto problematico. L’individualismo
sfocia inevitabilmente nella disgregazione della società: se ognuno si pone egoisticamente come un individuo separato dagli altri e che non cerca altro che
approfittarsi degli altri, la società si disgrega. Allora
bisognerebbe fare un richiamo all’altruismo, parlare
di coraggio, e i nostri discorsi dovrebbero ridursi a
esortazioni morali: siate generosi, pensate agli altri,
imparate a condividere. Il problema (perché questa
assenza di problema pone un problema) è che questo genere di richiamo è ancora individualistico. Ci
si richiama alla buona volontà dell’individuo, e l’individuo è ancora al fondamento dell’azione. Ugualmente, se io richiamo a una riforma o alla costruzione di una società più giusta, resto ancora all’individualismo, perché il costruttivismo parte da questi
presupposti: la società è costruita dagli individui,
non è fondata su un dato naturale, ma sarebbe il risultato di un progetto umano.
Questa breve introduzione ci conduce già a due insegnamenti. Primo insegnamento: l’individualismo
non dev’essere confuso con l’egoismo, l’«altruismo» può essere una forma di individualismo. Secondo: la critica dell’individualismo si fa quasi
sempre a partire da una rappresentazione che rimane individualistica. Bisogna andare al fondo di questo problema: in verità l’individualismo non è la sorgente della disgregazione della società. L’individualismo non è una sorgente, ma è un risultato, ed è il
risultato di una certa costruzione sociale, o di una
volontà di pensare la società come una costruzione.
Anzitutto, è opportuno fare una notazione storica: la
parola «società», così come noi la comprendiamo
oggi, appare solo nel XVII secolo. Prima di questo
periodo la società non è che un’associazione tra due
o più individui fondata su un contratto (per esempio
come in una società commerciale). È a partire dal
momento in cui si trova che il fondamento della civiltà non è più nelle comunità naturali, ma in un
contratto tra due individui, che il termine società appare nel suo senso attuale. Dunque la teoria individualista serve a formare una comunità intesa come
una «società», ossia come una comunità non naturale, artificiale, contrattuale, basata sulla libertà degli individui. In realtà è il progetto di disfare le comunità naturali ciò che fabbrica l’individualismo. È
il progetto di costruire una società più performante,
progressista, utopica, ciò che fabbrica l’individualismo. Qual è questa società? È quella che risponde a
ciò che Papa Francesco chiama il «paradigma tecnoeconomico» (si potrebbe parlare anche di paradigma
«tecno-capitalista», o «tecno-liberale»).
Questa società tecno-economica riposa su diversi
postulati, che sono press’a poco quelli in virtù dei
quali il consumatore dovrebbe scegliere tra diverse
merci. Il primo di questi postulati è che ognuno è
sin dall’inizio un soggetto autonomo capace di scegliere. Non ci sono «bambini», perché i bambini
non sono capaci di scegliere (ma ciò è normale, perché il bambino appartiene a una comunità naturale).
Ed è per questo che anche le pedagogie moderne ci
diranno che bisogna lasciar fare al bambino come
se fosse un individuo libero. In sintesi, fin dall’inizio siamo soggetti autonomi e liberi.
Secondo postulato. Questo soggetto libero fa le sue
scelte per raggiungere un bene che è concepito come benessere individuale. Non si tratta del bene comune, non si tratta nemmeno di un «bene» come
qualcosa di diverso dal «benessere».
Terzo postulato. A questo bene, come benessere, si
giunge non attraverso la via della saggezza, non attraverso la via dell’accoglienza, ma attraverso la via
della tecnica e del calcolo di interessi. La tecnica
diventa a questo punto il paradigma per raggiungere la felicità e per comporre questo mare di interessi individuali.
Quarto postulato. La tecnica di base per raggiungere il benessere è duplice: da un parte la concorrenza degli individui tra di loro, dall’altra l’innovazione. La concorrenza favorisce l’innovazione, e l’innovazione stimola la concorrenza. Se in partenza
abbiamo individui liberi che non hanno legami naturali tra loro, allora automaticamente questi individui sono in concorrenza. La concorrenza può essere una guerra, ma può anche portare a un contratto.
E la prima innovazione tecnica è proprio la società,
uscita per così dire dalla tecnica del contratto. È
molto interessante, perché questo dimostra che questo postulato è connesso a tutti gli altri, e che la società viene intesa come un’innovazione. Riconosciamo qui l’antropologia delle teorie economiche
classiche.
Ivan Illich, pensatore austriaco, distingueva ancora
altri due postulati, che gli apparivano come posti a
fondamento della società contemporanea. Menzioniamo quindi il quinto postulato: il postulato della
rarità. Che significa: non ce ne sarà per tutti, da cui
la necessità della concorrenza e la necessità della
crescita. E infine il sesto postulato: il postulato unisex. Perché la concorrenza e l’innovazione siano
onnipotenti bisogna ignorare la differenza uomodonna. Ogni divisione sessuale o complementare
del lavoro, ogni divisione tradizionale e naturale dei
compiti, appare come un ostacolo alla concorrenza
e all’innovazione. Non ci sono che individui in
competizione per gli stessi posti. E per questi individui l’innovazione e la concorrenza devono arrivare fino alla delegazione della procreazione a imprese commerciali e alla biotecnologia. La società degli individui, contrattuale, concorrenziale e innovativa, non è pienamente liberata se non quando ha disgregato la prima comunità naturale. Bisogna disgregare la famiglia come prima comunità naturale
per liberare la società degli individui.
L’individualità è un termine,
non un punto di partenza
Arrivo ora al mio terzo punto. Il primo punto era
che la critica dell’individualismo si fa in fondo ancora in nome dell’individualismo. Il secondo punto
era di mostrare che l’individualismo è il risultato di
una costruzione sociale, che non disgrega la società, ma è piuttosto il pensiero che serve a disgregare
le comunità naturali per inventare una società di
5
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concorrenza e di innovazione. Il terzo punto mira a
mostrare che l’individualismo conduce alla disgregazione dell’individuo.
In realtà, tutti i postulati che ho menzionato sono
finzioni che disgregano lo stesso individuo. Un
tempo l’individualità veniva concepita come un termine, e non come un punto di partenza. L’individualità era innanzitutto il termine di un’operazione
logica, un’operazione di divisione dell’essere. Si
divide l’essere in genere, si divide il genere in specie, si dividono le specie in «specie specialissime»,
direbbe Aristotele, e queste specie specialissime si
dividono in individui. In greco individuo si dice
«atomo», cioè quello che non può più essere diviso.
«Individuo» era quindi il termine di un’operazione
logica. Innanzitutto veniva riconosciuta la comunità delle specie e la comunità del genere. In secondo
luogo, al di là del significato di termine di un’operazione logica, l’individuo era considerato come il
termine dell’avventura esistenziale. A partire da
un’eredità, a partire da un’intera genealogia, ogni
figlio è chiamato a un destino singolare, al termine
del quale riceve il suo nome di individuo. È quello
che si riscontra in tutti i romanzi cavallereschi, e
anche nel Vangelo. Gesù parla dei nomi che saranno «scritti in cielo», e nel libro dell’Apocalisse si
parla di un «nome nuovo» che verrà dato al termine della prova, prova grazie alla quale si manifesterà chi noi siamo. L’individualità è dunque, nel pensiero antico ma anche nel pensiero biblico, il termine di un dinamismo, e non il punto di partenza.
Quando l’individualità viene presentata come un
punto di partenza, l’individuo viene strappato dalle
sue appartenenze, è indebolito perché sono stati tagliati tutti i suoi legami naturali, e allora diventa
troppo debole per resistere alla potenza dello Stato,
al richiamo delle sirene tecno-economiche. Queste
sirene gli propongono la riuscita e il benessere, ma
al prezzo della sua frammentazione.
Oggi, per esempio, si fa l’elogio del multi tasking.
Lavoriamo con degli schermi sui quali più finestre
sono aperte in uno stesso momento, riceviamo continuamente informazioni frammentate, e abbiamo
l’abitudine anche quando siamo con gli amici di dare un’occhiata al cellulare (notate che questo non
può funzionare con un libro, quando si conversa con
degli amici non si può dare un colpo d’occhio a un
libro! Il fatto è che l’informazione è talmente puntuale e frammentata che noi stessi veniamo frazionati da questo mondo dell’informazione). Anche il
nostro organismo è diviso in somme di cellule, di
funzioni e di specialità in modo tale che il rapporto
con noi stessi diventa sempre più quello del quantified-self. Le persone indossano tessuti intelligenti, e
portano i propri Iphone sul braccio come al tempo
del nazismo si portava la fascia. Si tratta di trasmettere dati dal nostro corpo, che poi saranno gestiti dal
computer per dirci come dobbiamo vivere meglio. Il
filosofo Günther Anders aveva colto molto bene
questo problema nel suo libro Die Antiquiertheit des
Menschen (pubblicato in Italia col titolo L’uomo è
antiquato, ndr). Egli ha mostrato che ormai non siamo più nell’individualismo, ma nel regno del «divisum». Non c’è più l’individuo, ma il divisum, perché
l’individualismo porta infine alla disgregazione della persona stessa, che viene separata dalla propria
famiglia, separata dal proprio corpo e dal proprio
sesso e separata anche dalla propria eredità e storia.
A partire da qui, la persona può essere intesa come
una somma di parametri che cerca di risolvere l’algoritmo della felicità. L’individualismo sottomette
interamente l’individuo al paradigma tecno-economico. Nel momento stesso in cui l’individuo rivendica sé stesso come un individuo autonomo diventa
schiavo del mondo tecno-liberale.
Come uscire
dalla disgregazione?
Allora giungo alla mia conclusione. Come uscire da
questa disgregazione, che non è una disgregazione
sociale, ma è una disgregazione della stessa persona? Non possiamo uscirne proponendo un’altra costruzione sociale, o un altro contratto sociale. In
fondo la maggior parte dei riformatori fallisce perché essi pretendono di lottare contro l’individualismo senza criticarne i presupposti. Il loro modo di
approcciarsi è ancora tecno-economico, e forse anche noi siamo qui con questo tipo di approccio. Il
nostro rapporto col mondo, sottomesso al paradigma tecno-economico, implica in noi un atteggiamento di tipo push button. L’atteggiamento del
push button può coinvolgere qualsiasi nostro comportamento, per esempio potrei dire: cerchiamo di
uscire dall’individualismo grazie alla spiritualità;
ma se io concepisco la spiritualità come il premere
un tasto e allora viene fuori lo Spirito Santo, come
una «tecnica della felicità» o una «tecnica della grazia», sono ancora prigioniero del paradigma tecnoeconomico. Dunque non bisogna proporre un’altra
costruzione sociale. Bisogna piuttosto ripartire dal
dato delle comunità naturali. È questo il compito di
un’«ecologia integrale», per riprendere l’espressione dell’enciclica Laudato Si’.
Quali sono queste comunità naturali? La famiglia
certamente, perché noi non siamo individui, ma innanzitutto figli e figlie. E se vogliamo essere individui senza essere figli e figlie, allora diventiamo i
prodotti di un’impresa biotecnologica. Bisogna ritrovare il senso della famiglia, ma non per chiuderci sulla famiglia (sarebbe il pericolo di un certo «familismo» cristiano). Io parlo qui di un punto di partenza, di una base per rifondare la dimensione politica. C’è poi una seconda comunità naturale, che
Da non perdere
Fabrice Hadjadj
MA CHE COS’È
UNA FAMIGLIA
seguito da
?
La trascendenza nelle mutande
& altri discorsi ultra-sessisti
Edizioni Ares
non è quella semplicemente dell’uomo e della donna con i figli: è quella dell’uomo con la natura.
Quando Aristotele parla della famiglia, parla dell’oikos. E l’oikos non è solo il rapporto dei membri
della famiglia, è anche il rapporto della famiglia
con la natura, attraverso, per esempio, la produzione di cibo. Dunque l’altra comunità naturale legata
alla famiglia, il legame della famiglia con la natura,
passa attraverso il fatto di ritrovare il senso dell’agricoltura e dell’allevamento. Il fondamento dell’economia non è nella finanza e non è nel commercio,
è nell’agricoltura. Chi tra voi fa studi di agricoltura? Facciamo tutti economia, ingegneria o, peggio
ancora, filosofia. Abbiamo perduto il senso di questo fondamento, al punto tale che anche l’agricoltura è stata sottomessa al paradigma tecno-economico, e al giorno d’oggi si fa crescere l’erba quasi tirandola dal terreno. Bisogna ritrovare il senso dell’agricoltura, che è il senso della cultura. La cultura accompagna un dinamismo naturale che è dato.
Non oppone al dato naturale un progetto artificiale, ma l’artificio accompagna il dinamismo naturale. È questo il senso della cultura per gli antichi.
Ma tutto questo non porterebbe a nulla se noi non
avessimo il senso di una terza comunità naturale.
Non solo quella della famiglia, non solo quella del
rapporto culturale col tutto, ma quella del rapporto
dell’uomo con gli dèi. È quello che dice Aristotele
(è quello che può dire un autore non cristiano). Perché questa comunità è fondamentale? E perché uno
può anche essere cristiano? Il punto è che per rispettare il dato naturale bisogna credere che venga
da un donatore generoso, vale a dire che c’è un ordine nel dato naturale. Ma è proprio qui che il pensiero pagano non basta più. Perché noi sappiamo
che non viviamo più in un kosmos, non abbiamo più
una visione della natura ordinata, viviamo in una
natura ferita, lacerata e vediamo che queste comunità naturali sono luoghi di drammi: la famiglia è un
luogo di drammi, l’agricoltura è un luogo di drammi (perché non si ha padronanza sulla meteorologia). Come sfuggire alla tentazione di distruggere
ciò che è dato per costruire qualcosa di meglio? Bisogna credere che quest’ordine non debba essere
abolito, ma riscattato. Cioè noi crediamo che in
questo ordine ci sia il dono di un Creatore, ma anche di un Redentore. Attraverso il dramma, malgrado tutto, si compie qualche cosa. In questi nostri
tempi che sono terribili, in questi tempi in cui non
siamo neanche sicuri che la specie umana continuerà sulla terra, perché essa è minacciata, sia dalla distruzione sia dall’occupazione tecnologica, bisogna
credere che per quanto terribile sia il nostro tempo,
è una Provvidenza che ci ha posto in questo tempo,
e che è proprio qui, nel dato della nostra epoca, in
questa comunità naturale con gli dèi, che noi abbiamo la nostra missione.
Fabrice Hadjadj
Fabrice Hadjadj
MA CHE COS’È
UNA FAMIGLIA?
La trascendenza in mutande
& altre proposizioni ultrasessiste
pp. 184, Euro 16
«Hadjadj smonta la propaganda del “matrimonio per tutti”, del “diritto” ai figli,
delle teorie del gender e dimostra che la
famiglia è luogo di esistenza, ma anche di
resistenza»
(Famiglia cristiana)
«Il letto e la tavola, lo aveva già osservato Anatole France, sono due mobili per i
quali bisogna avere la più alta stima»
(Il Sole 24 ore)
«La famiglia – scrive l’Autore nel suo stile
estroso e formidabile – “è lo zoccolo carnale” dell’apertura alla trascendenza”»
(La Scuola cattolica)
«Lo scrittore offre un altro dei suoi approfondimenti geniali»
(Tempi)
«Il libro di Hadjadj unisce metodo e accessibilità, vertigine filosofica e ragionevolezza, spudoratezza e religiosità»
(Libero)
Gli abbonati di Studi cattolici possono ottenere
lo sconto del 20% richiedendo il volume
alle Edizioni Ares
Via Stradivari, 7 - 20131 Milano
Tel. 02.29.52.61.56 - www.ares.mi.it
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Fernando
Ocáriz
Omelia
esequiale
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Mons. Javier
Echevarría
(1932-2016)
Mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, si è spento alle 21.20 di lunedì 12 dicembre 2016, festa della Madonna di Guadalupe. Papa Francesco
ha telefonato alle 8 del mattino successivo al vicario generale mons. Mariano Fazio per esprimere la sua vicinanza e il suo cordoglio. Ha poi inviato
un telegramma a mons. Fernando Ocáriz, Ausiliare e vicario generale, in cui
ha voluto anche unirsi «al ringraziamento a Dio per la sua paterna e generosa testimonianza di vita sacerdotale ed episcopale; seguendo l’esempio di
san Josemaría e del beato Álvaro del Portillo, a cui è succeduto a capo di
questa famiglia, donò la sua vita in costante servizio di amore alla Chiesa e
alle anime». Il prelato è stato tumulato nella cripta della chiesa prelatizia di
Santa Maria della Pace, in Roma, il 13 dicembre. Al funerale pubblico, giovedì 15, nella basilica di Sant’Eugenio gremita di fedeli commossi e assorti, erano presenti i cardinali Tauran, Herranz, Sarah, Mamberti, Monterisi,
Pell, Re e Stafford, gli arcivescovi Fisichella, Paglia, Sciacca, Bartolucci, Lozano, Roche e i vescovi Arrieta e Carrasco de Paula. Pubblichiamo l’omelia
che mons. Ocáriz ha prununciato nella cerimonia. Il Congresso elettorale in
cui verrà scelto il prossimo prelato è stato convocato da mons. Ocáriz a partire dal 23 gennaio 2017. L’eletto dovrà richiedere la conferma del Santo
Padre, che è colui che nomina il prelato dell'Opus Dei.
e parole di Gesù che abbiamo appena
ascoltato sono una meravigliosa apertura del suo cuore, nella quale Egli parla al Padre e ai
suoi discepoli. Così anche noi, cristiani, siamo chiamati a parlare con Dio e con i nostri fratelli. L’evangelizzazione, l’apostolato, è proprio il frutto del
rapporto d’intimità con Dio, come scrisse san Josemaría: «Il tuo apostolato dev’essere un traboccare
della tua vita “al di dentro”»1.
In questa celebrazione eucaristica in suffragio del
vescovo e prelato dell’Opus Dei, mons. Javier
Echevarría, il vangelo porta alla mia memoria come
egli cercava spontaneamente, con naturalezza, di
insegnarci ad amare Cristo e gli altri. Non c’era
giorno in cui non commentasse qualche brano della
Liturgia della Parola o degli altri testi della Messa.
Lo faceva, certo, in meditazioni o conversazioni
spirituali, ma anche nella semplicità della sua vita
quotidiana. Così, allo stesso tempo, pregava e invi-
tava a pregare: per un viaggio del Papa, per la pace
in Siria, per le vittime delle calamità naturali, per i
rifugiati, per i senza lavoro, per i malati – per i quali ha sempre avuto una predilezione particolare,
avendo appreso l’esempio di san Josemaría: anche
se ritornava a Roma dopo un lungo viaggio, alcune
volte, prima di andare a casa, si recava all’ospedale
per visitare una persona malata. Tutti avevano un
posto nel suo cuore. Aveva infatti imparato dal fondatore dell’Opus Dei ad «amare il mondo appassionatamente», perché, come spiegava il Santo, «nel
mondo ci incontriamo con Dio, perché nelle cose e
negli avvenimenti del mondo Dio ci si manifesta e
ci si rivela»2. E così mons. Echevarría amava la vita reale, i fatti, le storie vere e belle della misericordia di Dio.
Aveva dovuto rispondere a una sfida: quella di essere successore di due santi, san Josemaría e il beato Álvaro del Portillo. Egli era convinto di non es-
Una vita al servizio della Chiesa
Mons. Javier Echevarría era nato a Madrid
il 14 giugno 1932. Era il minore di otto fratelli. Ha fatto i primi studi a San Sebastián,
nella scuola dei padri marianisti, e ha continuato la propria formazione a Madrid nella
scuola dei fratelli maristi.
Nel 1948, in una residenza di studenti, ha conosciuto alcuni giovani dell’Opus Dei. L’8
settembre di quello stesso anno, sentendosi
chiamato da Dio a cercare la santità nella vita ordinaria, ha chiesto l’ammissione all’Opus Dei.
Ha cominciato gli studi di Giurisprudenza
all’Università di Madrid e li ha continuati a
Roma. Si laureò in Diritto Canonico presso
la Pontificia Università di San Tommaso
(1953) e in Diritto Civile presso la Pontificia
Università Lateranense (1955).
Ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 7 agosto 1955. Ha collaborato strettamente con san
Josemaría Escrivá, del quale è stato segretario
dal 1953 fino alla sua morte, nel 1975.
Nel 1975, quando il beato Álvaro del Portillo è succeduto a san Josemaría, mons. Javier
Echevarría è stato nominato segretario generale dell’Opus Dei e, nel 1982, vicario generale. Nel 1994, dopo la morte del beato Álvaro, è stato eletto prelato dell’Opus Dei e, il
6 gennaio 1995, nella basilica di San Pietro,
ha ricevuto dalle mani di san Giovanni Paolo II l’ordinazione episcopale.
Fin dall’inizio del suo ministero come prelato ha considerato prioritaria l’evangelizzazione in seno alla famiglia, alla gioventù e
alla cultura. Ha promosso l’inizio stabile
delle attività formative della prelatura in 16
Paesi, fra i quali Russia, Kazakistan, Sudafrica, Indonesia e Sri Lanka; ha fatto viaggi
nei cinque continenti per dare impulso all’attività evangelizzatrice dei fedeli e dei cooperatori dell’Opus Dei. Ha incoraggiato l’avvio di numerose iniziative a favore degli immigrati, dei malati e degli emarginati. Seguiva con particolare attenzione vari centri di
cure palliative per i malati terminali.
Nei suoi viaggi di catechesi e nel suo ministero pastorale sono stati temi ricorrenti l’amore a Gesù Cristo sulla croce, l’amore frasere all’altezza. Ma, allo stesso tempo, aveva la forza spirituale e il coraggio di andare avanti, senza
mai perdere la speranza, perché si sentiva come uno
di quei piccoli ai quali il Signore ha rivelato il mi-
terno, il servizio agli altri, l’importanza della
grazia e della parola di Dio, la vita familiare
e l’unione con il Papa. Proprio nella sua ultima lettera pastorale, oltre a ringraziare per
l’udienza che gli aveva concesso Papa Francesco il 7 novembre, chiedeva, come sempre,
di accompagnare il Papa con preghiere per la
sua persona e le sue intenzioni.
Ha scritto numerose lettere pastorali e parecchi libri di spiritualità. In italiano, le Edizioni Ares hanno pubblicato Itinerari di vita
cristiana, Getsemani, Eucaristia e vita cristiana, Vivere la Santa Messa. La sua ultima opera è una raccolta di meditazioni sulle opere
di misericordia che porta il titolo Misericordia e vita quotidiana.
È stato membro della Congregazione per le
Cause dei Santi e della Segnatura Apostolica. Ha partecipato ai Sinodi dei vescovi del
2001, 2005 e 2012 e a quelli dedicati all’America (1997) e all’Europa (1999).
È morto a Roma il 12 dicembre 2016.
stero del suo amore (cfr Mt 11, 29).
Aveva conosciuto nella gioventù l’amore di Cristo.
Innanzitutto, dentro il focolare domestico, poi c’è
stata per lui la grande luce dell’incontro con san Jo-
9
Le esequie di mons. Javier Echevarría nella chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace, in viale Bruno Buozzi, 75, a
Roma. Gruppi di fedeli rendono omaggio alla salma del prelato. L’ultimo saluto di mons. Fernando Ocáriz. La bara viene portata a spalla fino alla cripta, dove avviene l’inumazione accanto alla tomba del beato Álvaro del Portillo.
semaría che gli fece scoprire ancora più profondamente la bellezza dell’amore di Cristo. Ricordava
come, a quel tempo, pochi giorni dopo aver incontrato per la prima volta san Josemaría, andando in
macchina con lui e alcuni altri, lo ascoltò cantare
una canzone popolare di amore umano che sapeva
trasportare a un àmbito divino. Diceva così: «Ho un
amore che mi riempie di gioia, è questo amore la
meraviglia di ogni giorno». Capì che quell’amore
era l’Amore di Dio per noi, e che lo Spirito Santo infondeva nel nostro cuore l’amore per amare Dio e
gli altri. «Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 30), dice Gesù, perché il giogo è l’amore: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate
gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12).
La fede nella presenza
amorosa di Dio
10
Quando Javier Echevarría fu ordinato sacerdote,
anche se era molto giovane, la sua Messa era già diventata il centro e radice della sua vita; «fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione»3, secondo l’inseg-
namento del Concilio Vaticano II. Per più di sessant’anni, mentre si rivestiva con la casula per celebrare i santi misteri, amava pregare con il cuore
quell’orazione della Chiesa che ricorda la dolcezza
del giogo del Signore: l’immensità della carità e
della sua misericordia, rivelata in modo eccelso in
Gesù morto sulla Croce e risorto per noi.
Così, seguendo l’esempio e gli insegnamenti di san
Josemaría, Javier Echevarría è stato un uomo dal
cuore grande, capace di perdonare e di chiedere
perdono. Grande amante del sacramento della Riconciliazione e della Penitenza, in cui lasciamo entrare Gesù nell’anima e sperimentiamo la «piena libertà dell’amore con cui Dio entra nella vita di ogni
persona»4 come scrive il Santo Padre Francesco.
Mons. Echevarría, come vicario generale della Prelatura, non ha avuto altro scopo che aiutare il beato
Álvaro del Portillo nella sua missione di guidare
questa piccola parte del Popolo di Dio. Poi, dopo la
sua nomina come prelato da parte di san Giovanni
Paolo II, non ebbe altro pensiero né ardente desiderio che quello di aiutare coloro che erano diventati
suoi figli e sue figlie spirituali nel cercare veramente la santità che Dio ci vuole donare, irradiando l’amore di Dio intorno a noi, specialmente nella ricer-
San Josemaría Escrivá recita il Rosario nel santuario di Nostra Signora di Luján, in Argentina, il 24 giugno 1974.
Alla sua destra, il beato Álvaro del Portillo, alla sinistra, mons. Javier Echevarría.
ca della santificazione del lavoro ordinario e nell’attività della vita quotidiana: nella famiglia, con
gli amici, in società. Infatti, se n’è andato in Cielo
pregando per la fedeltà di tutti.
Il segreto di tutto ciò penso che lo possiamo scoprire nel vangelo che abbiamo letto oggi. Questo è l’orazione, la fede nella presenza amorosa di Dio, che
ci fa figli del Padre in Cristo per lo Spirito Santo:
«Ti benedico o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto queste cose nascoste ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»
(Mt 11, 25). Sì, la santità non è altro che la pienezza della carità in noi, il far fruttificare i talenti che
Dio ci dà, uscire da noi stessi verso gli altri; la partecipazione alla vita di Cristo, cioè, la crescita della filiazione adottiva nell’unico ed eterno Figlio del
Padre. Si potrebbe dire che dentro il cuore di mons.
Echevarría aleggiava l’attesa impaziente della rivelazione dei figli di Dio alla quale si riferisce san
Paolo nella Lettera ai Romani (cfr Rm 8, 19).
Vorrei ringraziare i cardinali, gli arcivescovi e i vescovi, i fratelli nel sacerdozio, le religiose e i religiosi, le autorità civili, e tanti altri fedeli che hanno
voluto unirsi alla nostra preghiera per mons. Echevarría, e rendere grazie con noi per questa vita tutta
dedicata agli altri.
Nella festa della Madonna
di Guadalupe
Adesso, vorrei aggiungere alcune parole, pensando
specialmente ai fedeli della prelatura. Se fosse qui
tra noi colui che abbiamo chiamato Padre per ben
ventidue anni, sicuramente ci chiederebbe di appro-
fittare di questi giorni per intensificare il nostro
amore per la Chiesa e il Papa, di essere molto uniti
fra di noi e con tutti i nostri fratelli in Cristo. E ripeterebbe anche ciò che era divenuto sulle sue labbra, specie negli ultimi anni sulla terra, un ritornello: voletevi bene, amatevi sempre di più! E non solo sulle sue labbra: faceva impressione vedere come
voleva bene agli altri. Ricordo per esempio che il
giorno prima della sua morte manifestò il suo disagio pensando di disturbare tante persone che si
prendevano cura di lui. Mi venne spontaneo dirgli:
«No Padre, è lei che ci sostiene tutti».
Cari fratelli e sorelle, tutte le grazie ci arrivano tramite la mediazione materna di Maria. Il Padre l’amava molto. Fra tanti santuari della Madonna a cui
si recò in preghiera con san Josemaría e il beato Álvaro, e poi come Prelato, c’è quello di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico. La Provvidenza ha
voluto che il Padre fosse chiamato al Cielo proprio
il 12 dicembre, festa della Madonna di Guadalupe.
Lo stesso giorno, quando la sua salute stava peggiorando, un sacerdote gli chiese se desiderava avere un’immagine della Madonna di Guadalupe di
fronte a lui; il Padre rispose che non c’era bisogno
perché non riusciva a vederla. Ma aggiunse che, ad
ogni modo, la sentiva molto vicina a sé. Affidiamo
alla Vergine Maria, spes nostra, speranza nostra, la
nostra preghiera per mons. Javier Echevarría, mentre ringraziamo il Signore per averci dato questo pastore buono e fedele.
Sia lodato Gesù Cristo.
Mons. Fernando Ocáriz
1
San Josemaría Escrivà, Cammino, 961.
San Josemaría Escrivà, Colloqui, n. 70.
3 Concilio Vaticano II, Decreto Presbyterorum ordinis, n. 5.
4 Papa Francesco, Lettera apostolica Misericordia et Misera, n. 2.
2
11
Gianmaria
Bedendo
Gli Anniversari
del
2017
Chi, come,
dove, quando
Gianmaria Bedendo, titolare di Datastorica (www.datastorica.it), ha selezionato dai suoi archivi, di secolo in secolo, gli eventi e i personaggi che
verranno celebrati nel 2017. Dal 1217 al 1917 sfilano i protagonisti della
storia, ricordati per data di nascita o di morte, o per loro gesta significative. Nell’anno appena iniziato, sentiremo dunque parlare di Lutero e di Federico Borromeo, dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria e di Madame de
Staël, di Jane Austen, di Anthony Burges, di Carlo Cassola, di Ella Fitzgerald, di Adolfo Consolini e di tanti altri personaggi in coincidenza anagrafica. Senza dimenticare che il 1917 è stato un anno cruciale della Grande
Guerra, e che quest’anno ricorre il centenario delle apparizioni della Madonna a Fatima.
Novecento anni fa, esattamente il 3
gennaio 1117, un terribile terremoto
colpì la pianura padana provocando oltre 30.000 morti (la popolazione italiana nel 1.100
era circa un decimo di quella attuale). La città più
duramente colpita è Verona, dove perfino l’anello
esterno dell’Arena fu parzialmente distrutto, lasciando solo la caratteristica «ala» che si può ancora oggi ammirare. Le scosse di assestamento durano 40 giorni e i terremoti si ripeterono il 4 giugno,
l’1 luglio, l’1 ottobre e il 30 dicembre.
Ottocento anni fa, il 9 aprile 1217,
nella basilica romana di San Lorenzo
fuori le mura, Papa Onorio III (eletto il 18 luglio 1216, approvò la Regola di san Domenico, quella di san Francesco, e l’Ordine Carmelitano) incoronò il francese Pierre de Courtenay come Imperatore dell’impero latino di Costantinopoli.
900
800
12
Settecento anni fa, il 17 febbraio
1317, morì Roberto di Francia (Roberto di Clermont), capostipite del ramo collaterale Capetingio dei Borbone. L’8 ottobre
morì Fushimi, novantaduesimo imperatore del
Giappone secondo il tradizionale ordine di successione. Il 24 dicembre morì il cavaliere Jean de
Joinville, autore – intorno al 1299 – della biografia
postuma di Luigi IX di Francia, di cui fu stretto collaboratore e principale confidente durante la settima Crociata. La sua testimonianza, resa nel 1282 al
papato, portò alla canonizzazione di Luigi IX, con
il nome di san Luigi dei Francesi, da parte di Papa
Bonifacio VIII.
Eccoci ai seicentesimi. A chiusura
definitiva dello scisma avignonese,
l’11 novembre 1417, dopo tre giorni
di Conclave, viene eletto all’unanimità Papa
Martino V, 206° pontefice della Chiesa cattolica.
700
600
Lo spaventoso terremoto del 1117 fece trentamila morti nella pianura
padana. Dell’anello esterno dell’Arena di Verona rimase solo l’«Ala».
Nel 1517, Lutero affisse le famose 95 Tesi. Federico Borromeo nacque
nel 1617; l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, cent’anni dopo (1717).
Infatti l’elezione avviene durante il Concilio convocato per risolvere lo scisma interno alla Chiesa
in seguito al trasferimento della Curia da Avignone a Roma. Il 18 ottobre muore a Rimini Papa
Gregorio XII, 205° Papa della Chiesa è stato il
settimo pontefice a rinunciare al ministero petrino
e l’ultimo prima di Benedetto XVI, 598 anni dopo.
Un altro salto di 100 anni e siamo ai
cinquecentesimi, quando, il 10 maggio 1517 nasce a Bologna il medico
Leonardo Fioravanti per il quale, nell’arte medica, è essenziale l’esperienza, che precede lo studio
teorico comunque indispensabile. Il 19 giugno
muore a Roma fra Luca Bartolomeo de Paciolli,
fondatore della ragioneria. Il 15 agosto avviene il
primo contatto tra la Cina e l’Europa moderna. Infatti sette vascelli portoghesi comandati da Fernao
Pires de Andrade, dopo aver circumnavigato l’Africa e attraversato l’Oceano Indiano, incontrano ufficiali cinesi all’estuario del Fiume delle perle, al
confine con l’Annam, regione storica situata nel
territorio dell’odierno Vietnam. Il 31 ottobre a Wittenberg, in Germania, Martin Lutero affigge sul
portale della Schlosskirche, dedicata a tutti i santi,
una serie di proposte in latino, le famose 95 Tesi,
per dibattere, dal punto di vista teologico, sulla dottrina e le pratiche delle indulgenze, che incidevano
negativamente sulle finanze dei poveri. Infine l’8
novembre muore a Roa, nel Nord della Spagna, il
Cardinale Arcivescovo Francisco Jiménez de Cisneros. Riformatore degli ordini monastici mendicanti, inquisitore generale dell’Inquisizione spagnola, promotore delle crociate in Nordafrica, fondatore dell’Università Complutense di Madrid
(Spagna), è autore della Bibbia Poliglotta Complutense, la prima edizione stampata di Bibbia multilingue della storia.
500
Scorrono altri cent’anni e arriviamo ai
quattrocentesimi. Il 6 febbraio 1617,
a Padova, muore il medico e botanico
Prospero Alpini celebre in tutta Europa come autore del primo trattato moderno di semiotica. Il 21
marzo, a Gravesend (Inghilterra), muore Pocahontas, nativa americana, dal 5 aprile 1614 moglie dell’inglese John Rolfe, e soggetto di film e leggende.
Il 4 aprile, a Edimburgo (Scozia), muore il matematico, astronomo e fisico scozzese John Napier,
più noto come Nepero. Il 29 maggio, a Milano, nasce Federico Borromeo (Federico IV Borromeo
conte d’Arona), creato cardinale presbitero il 22 dicembre 1670, fu Segretario di Stato della Santa Sede dal 1670 alla morte, avvenuta il 18 febbraio
1673. Il 24 agosto a Lima (Perù) muore la religiosa
del terz’ordine domenicano Rosa di Santa Maria,
la prima dei santi americani, beatificata il 15 aprile
1668 da Papa Clemente IX e canonizzata il 12 aprile 1671 da Papa Clemente X; è la patrona delle Filippine, dell’India e del Perù e dei giardinieri e fioristi. Infine, il 7 dicembre a Bergamo nasce il pittore e sacerdote Evaristo Baschenis, ideatore della
natura morta di soggetto musicale e del prestigioso
e impegnativo lavoro pittorico per la biblioteca
del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia.
Per quanto riguarda i trecentesimi iniziamo dal 28 febbraio quando a Edirne (l’antica Adrianopoli, in Tracia) nasce il sultano dell’Impero Ottomano Mustafa III;
energico e intelligente, si impegna contro giannizzeri e imam per modernizzare l’esercito, promuove
poi Accademie per la matematica, la navigazione e
le scienze. Il 13 maggio a Vienna (Austria) nasce
l’arciduchessa regnante Maria Teresa d’Asburgo
poi – dopo la sua vittoria nella guerra di successione austriaca (1740-1748) – Imperatrice consorte del
marito Francesco I, con cui fonda il casato degli
400
300
13
A sinistra, in senso orario: il critico Francesco De Sanctis è nato nel 1817. Nello stesso anno, sono morte tre
celebrità: le scrittrici Madame de Staël e Jane Austen,
nonché il pittore Andrea Appiani. Nel 2017 ricorre il
centenario delle apparizioni della Madonna di Fatima ai
tre pastorelli, Lucia, Francesco e Giacinta.
Asburgo-Lorena che regna sui domini austriaci fino
al 1918. Il 25 dicembre, a Cesena, nasce Giovanni
Angelico Braschi, eletto al soglio pontificio con il
nome di Pio VI, 249° successore di San Pietro.
Eccoci ora ai bicentenari iniziando
dal 15 febbraio quando a Briana (frazione di Noale, Venezia) nasce il patriota Pier Fortunato Calvi che, ufficiale dell’esercito austro-ungarico, mentre è di stanza a Venezia dal 23 marzo 1848, proclamata la Repubblica
di San Marco, diventa capitano della milizia rivoluzionaria. Caduta Venezia il 22 agosto 1849, Calvi va in esilio a Patrasso (Grecia), poi a Torino dove incontra Mazzini che lo convince a tornare in
Cadore con quattro compagni per riprendere la lotta contro gli austroungarici ma, tradito, viene arrestato in Val di Sole. Calvi si addossa tutte le colpe
e salva i quattro compagni, mentre lui viene condannato all’impiccagione, eseguita il 4 luglio 1855
a Mantova. Il 21 febbraio a Rapallo (Genova) nasce l’imprenditore del cioccolato Domenico «Domingo» Ghirardelli, fondatore della celebre Ghirardelli Chocolate Company, che diventa un marchio di successo con esportazioni in tutto il mondo, e con un processo di produzione che diventerà
il metodo comune per la preparazione del cioccolato. Il 2 marzo a San Pietroburgo (Russia) muore
l’architetto e pittore Giacomo Antonio Domenico
Quarenghi che, per conto di Caterina II, ha realizzato molti dei più importanti palazzi in Russia
fino all’Arco di Trionfo di Narva, sulla vittoria
dell’esercito russo contro Napoleone Buonaparte
(1811). Il 28 marzo, a Morra Irpina (Avellino),
nasce lo scrittore, critico letterario, politico, e filosofo Francesco Saverio De Sanctis, autore della
celeberrima Storia della letteratura italiana. De
Sanctis fu ministro della Pubblica Istruzione per
quattro volte, tra il 17 marzo 1861 e il 29 maggio
200
14
1881, con l’obiettivo di armonizzare e fondere le
amministrazioni scolastiche dei vari Stati prima
dell’Unità. Il 6 luglio a Zurigo nasce l’anatomista
e fisiologo Rudolf Albert von Koelliker il cui nome è associato al microscopio, strumento da lui
usato soprattutto in istologia. Il 14 luglio a Parigi
muore la scrittrice di origine svizzera Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein,
più conosciuta come Madame de Staël, animatrice del suo celebre salotto culturale parigino. Il 18
luglio, a Winchester (Hampshire, Inghilterra),
muore a soli 41 anni la scrittrice Jane Austen, tra
le più famose al mondo. Il suo Orgoglio e pregiudizio è del 1813. L’8 novembre, a Milano, muore
il pittore Andrea Appiani, protagonista del neoclassicismo in Italia. Il 27 dicembre a Roma, al
teatro Argentina, prima rappresentazione dell’opera Adelaide di Borgogna di Gioacchino Rossini.
Tra i centenari ricordiamo che il 27
marzo, al Grand Théâtre di Montecarlo, va in scena la prima assoluta de La
Rondine di Giacomo Puccini diretta da Gino Marinuzzi. Il 13 maggio, a Fatima (Portogallo), prima
apparizione della Madonna ai tre pastorelli Lucia
dos Santos, Francesco Marto e Giacinta Marto; la
Madonna diede appuntamento ai tre per il 13 del
mese successivo, e così per altri 5 incontri. Il 13 ottobre, in seguito alla promessa fatta dalla Madonna
ai tre pastorelli di Fatima riguardo a un evento prodigioso nell’ultima apparizione, molte migliaia di
persone, credenti e non credenti, assistettero a un
fenomeno chiamato «miracolo del sole». Molti dei
presenti, anche a distanza di parecchi chilometri,
raccontarono che mentre pioveva e spesse nubi ricoprivano il cielo, d’un tratto la pioggia cessò e il
disco del sole, tornato visibile, ruotò intorno a un
punto esterno, diventando multicolore e ingrandendosi, come per precipitare sulla terra. Il 29 maggio
100
1917: Anno cruciale per la Grande Guerra
Una trattazione particolare meritano le vicende legate al secondo anno della Prima guerra mondiale.
Iniziamo dal fronte italiano dove, il 10 giugno,
inizia la battaglia del Monte Ortigara, che prosegue fino al 25 giugno con pesanti e inconcludenti scontri tra italiani e austro-ungarici a più di
2.000 metri d’altezza. Il 17 agosto inizia l’undicesima battaglia dell’Isonzo, proseguita fino al 31
agosto: le forze italiane si impossessano di diverse
posizioni sull’altopiano della Bainsizza, senza però riuscire a sfondare il fronte austro-ungarico. Il
24 ottobre inizia la battaglia di Caporetto: gli
austro-ungarici, affiancati da alcune divisioni tedesche, sfondano il fronte italiano allo sbocco della
valle dell’Isonzo, fra Tolmino e Caporetto. L’8 novembre, la disfatta porta all’esonero del generale Luigi Cadorna dal comando dell’esercito italiano, sostituito con il generale Armando Diaz. Il 13
novembre, inizia la prima battaglia del Piave,
proseguita fino al 26 novembre: dopo aver dilagato in Friuli e nel Veneto settentrionale, le forze austro-tedesche sono bloccate dagli italiani sulle rive
del fiume Piave dopo una dura battaglia difensiva.
Ma la vera svolta del 1917 è l’intervento diretto
degli Stati Uniti. Il 4 aprile, il presidente Thomas
Woodrow Wilson presenta al Congresso la proposta di entrare in guerra e il 6 aprile gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania. Il 18 maggio
viene approvato il Selective Service Act che introduce la coscrizione militare negli Stati Uniti e già
il 25 giugno le prime avanguardie dell’American
Expeditionary Forces sbarcano in Francia. Infine,
il 7 dicembre gli Stati Uniti dichiarano guerra all’Austria-Ungheria.
Un ruolo importante riguarda la Russia (dove è in
vigore il calendario giuliano e quindi gli eventi
che seguono sono compresi nella Rivoluzione di
febbraio, dal 23 febbraio al 2 marzo), che fin dall’inizio della guerra, con Francia e Gran Bretagna
(la Triplice Intesa) combatté la Triplice Alleanza
(Germania, Austria, Italia). L’esercito russo, nonostante il valore dei soldati, subì pesanti perdite e allo sfaldarsi dell’esercito corrispose lo sfaldarsi del
regime zarista. La Repubblica Socialista Federativa Russa retta da Lenin, il 5 dicembre, firma l’armistizio con l’Impero ottomano, ponendo fine alle
ostilità sul Caucaso; il 15 dicembre, sigla un gravoso armistizio con gli Imperi centrali.
Sul fronte occidentale il 9 aprile gli inglesi, con
truppe provenienti dai Dominion, attaccano nella
zona di Arras, nel Nord della Francia, ma i tedeschi
resistono e l’offensiva si conclude il 16 maggio. Anche i francesi attaccano sullo Chemis des Dames,
a Brooklyn (Massachusetts, USA) nasce il 35° Presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. Il 15 giugno, lettera enciclica Humani Generis Redemptionem di papa Benedetto XV sulla pre-
nell’Aisne, ma la loro offensiva parallela agli inglesi si risolve in un disastro e viene interrotta il 9 maggio con ammutinamenti e diserzioni. Il 21 luglio
nuovo attacco inglese a Ypres (Fiandre, Belgio) e il
31 luglio offensiva principale per conquistare le basi di sommergibili tedeschi installate sulla costa belga, ma le forti piogge e la resistenza tedesca costringono a concludere l’attacco il 6 novembre; poi
con 500 carri armati nuova offensiva inglese il 25
novembre; la battaglia si conclude il 6 dicembre
ancora una volta senza successo. Passando al fronte
medio orientale, il 9 gennaio dopo la battaglia di
Rafa, con la vittoria britannica sugli ottomani, inizia la penetrazione della Palestina da parte delle forze alleate. Il 23 febbraio nuova vittoria britannica
sugli ottomani nella seconda battaglia di Kut (Iraq)
che consente la ripresa dell’avanzata verso Baghdad,
che viene conquistata dalle
forze britanniche l’11
marzo; poi dal 13 marzo
al 23 aprile si svolge l’offensiva di Samarrah con i
britannici che battono ancora gli ottomani e occupano gran parte della Mesopotamia centrale. Il 26
marzo gli ottomani vincono la prima battaglia di
Gaza, respingendo il tentativo britannico di penetrare in Palestina e si ripe- L’Italia saluta l’entrata in guertono il 19 aprile nella se- ra degli Stati Uniti d’America.
conda battaglia di Gaza
dove, nonostante l’impiego di gas e carri armati, i
britannici non riescono a fare breccia nella linea
difensiva ottomana per cui il fronte della Palestina
entra in una situazione di stallo. Il 6 luglio i ribelli arabi guidati da Awda Abu Tayi e dal britannico Thomas Edward Lawrence («Lawrence d’Arabia») conquistano il porto di Aqaba (Giordania)
agli ottomani. Quindi l’1 e 2 novembre, la terza
battaglia di Gaza con vittoria britannica che sfonda il fronte ottomano; gli Alleati dilagano nella Palestina meridionale. Poi il 2 novembre, in una lettera del ministro degli esteri Arthur Balfour, il
governo britannico si dichiara favorevole alla creazione di un «focolare ebraico» in Palestina. Infine,
il 17 novembre inizia la battaglia di Gerusalemme, che prosegue fino al 30 dicembre con una
massiccia offensiva britannica nella Palestina centrale travolgendo gli ottomani.
dicazione della Parola di Dio. Lo stesso Pontefice,
l’1 agosto, rende pubblica la sua Nota di Pace, con
l’appello ai governanti a porre fine, tramite una trattativa, alla «inutile strage» della guerra. Il 15 ago-
15
Nati cent’anni fa (nelle foto, dall’alto in senso orario): gli scrittori Anthony
Burgess e Carlo Cassola; i
cantanti Ella Fitzgerald e
Dean Martin; il musicista
Armando Trovajoli, l’attore Robert Mitchum; il discobolo Adolfo Consolini.
sto a Ciudad Barrios (Salvador) nasce Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, arcivescovo di San
Salvador ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava
l’Eucaristia e proclamato beato il 23 maggio 2015
da Papa Francesco. Il 22 dicembre a Chicago (Illinois, USA) muore la religiosa e missionaria italiana naturalizzata statunitense, Francesca Saverio
Cabrini, fondatrice della congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, proclamata beata
il 13 novembre 1938 da Papa Pio XI e canonizzata
il 7 luglio 1946 da Papa Pio XII, patrona degli emigranti dal 1950.
Vediamo ora, rapidamente, nascite e morti significative cominciando dagli scrittori ed editori: il 10 gennaio, a Ostiglia (Mantova), nasce l’editore Giorgio
Mondadori; il 25 febbraio, a Manchester (Inghilterra), nasce John Burgess Wilson, più noto con lo
pseudonimo di Anthony Burgess; il 17 marzo, a
Roma, nasce lo scrittore Carlo Cassola. Passando alla musica e allo spettacolo, il 25 aprile, a Newport
News (Virginia, USA), nasce una delle migliori e più
influenti cantanti jazz della storia, Ella Jane Fitzgerald; il 2 settembre, a Roma, nasce il pianista e direttore d’orchestra Armando Trovajoli; il 4 ottobre,
a San Carlos (Cile), nasce la cantautrice, poetessa e pittrice Violeta del Carmen Parra Sandoval,
più nota come Violeta Parra; il 21 ottobre, a Cheraw (South Carolina, USA) nasce il cantante e percussionista John Birks «Dizzy» Gillespie. Il 10 gennaio, a Le Clair (Iowa, USA), muore l’attore e cacciatore William Frederick Cody, più noto con lo
pseudonimo di Buffalo Bill; il 6 febbraio, a Budapest (Ungheria), nasce l’attrice Sari Gabor, celebre
con lo pseudonimo di Zsa Zsa Gabor; il 16 febbraio, a Torre Annunziata (Napoli), nasce il produttore cinematografico Luigi De Laurentis; il 21 maggio, a New Westminster (Columbia Britannica, Canada), nasce l’attore naturalizzato americano Ray-
16
mond William Stacey Burr, il Perry Mason della
Tv; il 7 giugno, a Steubenville (Ohio, USA), nasce
l’attore e cantante Dino Paul Crocetti, più noto come Dean Martin; il 27 luglio, a Prétot-Vicquemare
(Seine Maritime, Francia), nasce l’attore, cantante e
compositore André Robert Raimbourg, più famoso
come Bourvil; il 6 agosto, a Bridgeport (Connecticut, USA), nasce il precursore degli antieroi nella cinematografia statunitense degli anni Cinquanta e
Sessanta Robert Mitchum; il 25 agosto, a Elberon
(New Jersy, USA), nasce l’attore, regista e produttore
Melchor Gastón Ferrer, noto come Mel Ferrer; il
29 ottobre, a Los Angeles (California, USA), nasce
l’attore e cantante naturalizzato francese Edward
Constantinowsky, conosciuto però come Eddie
Constantine. Tra gli sportivi, il 5 gennaio, a Costermano sul Garda (Verona), nasce il più famoso discobolo italiano, Adolfo Consolini, oro olimpico a Londra nel 1948, tre volte primatista mondiale, per 17 anni detentore del record italiano; il 20 settembre, a
New York (New York, USA), nasce il mitico allenatore di basket Arnold Jacob «Red» Auerbach, 9 titoli NBA con i Boston Celtics, di cui 8 consecutivi dal
1959 al 1966, dopo il primo nel 1957; il 22 ottobre,
a Chicago (Illinois, USA), muore il pugile Robert James «Bob» Fitzsimmons, il primo a conquistare i titoli mondiali in tre diverse categorie di peso; il 3 dicembre, a Caserta, il campione di ciclismo Carlo
Oriani, vincitore di un Giro di Lombardia e di un Giro d’Italia, muore in seguito a polmonite per aver attraversato il Tagliamento a nuoto durante la ritirata di
Caporetto, nel tentativo di salvare un commilitone; il
20 dicembre, a Plessé (Francia), muore il ciclista
Lucien Georges Mazan, soprannominato Lucien
Petit-Breton: vinse due volte il Tour, poi la MilanoSanremo e la Parigi-Tours, oltre a stabilire in pista il
primato dell’ora.
Gianmaria Bedendo
PIAZZA QUADRATA
di Dino Basili
Diario «epocale»
Vigilia. Schiamazzi sul rischio instabilità, bufale ferite,
esuberi di antagonismo elettorale. Che differenza c’è
tra il «clientelismo scientifico» e il voto di scambio?
Populismi a tocchi e tocchetti in ogni minestra. Il Renzicottero è fermo nell’hangar dopo mesi di rimbalzi
dalle Alpi all’Etna. A Palazzo Chigi raccontano che il
premier-flipper annusa la rimonta del Sì al referendum
costituzionale delocalizzato in plebiscito. I media definiscono «epocale» la prova.
4 dicembre. Seggi presto affollati, aria di «grande stanchezza». Dovrebbe filmarla Paolo Sorrentino, star Toni Servillo. L’edicolante chiede perché tanti Yes, Oui,
Ja alla brutta riforma. Mistero. Impossibile che a Washington e altrove credano alla panzana «Italia locomotiva d’Europa». Al saluto «Come va?», l’oste strappa fogli dal giornale e li accartoccia stretti. Alza la palla di carta e, colpo di tacco, la spedisce nei rifiuti. Un
amico, ex PCI puro e duro, confida la barra sul Sì col
naso turato. Mica in metafora: matita nella mano destra
e pressione sulle narici con la sinistra. Voto politicamente corretto o scorretto? Forse c’entra la «post verità», tema che furoreggia nei think-tank. Quanti tonf.
Ore 23. Chi avrebbe scommesso l’affluenza vicina al
70 per cento? Altro che testa a testa. Clamorosa vittoria del No: circa 20 punti di scarto. Matteo Renzi non
può che annunciare le dimissioni in TV. Colonna sonora? La parlantina inumidita consiglia Una lacrima
sul viso di Bobby Solo. Qualche attimo e va in onda
andante con residua sicumera. I talk show notturni anticipano i flussi: legnate da giovani, periferie e regioni
meridionali. «Al voto, al voto!» gridano grillini e leghisti. A volte, sembrano una coppia di fatto, incapricciata dell’Aventino.
5 dicembre. Goffi «nazionalisti» sventolano tricolori
davanti a Montecitorio. Dentro, scolaresche in visita e
calma del lunedì. Computer accesi assicurano «mercati» tranquilli. Nel PD trame e brame sul governo. Prima
«congelamento», poi «continuità». Tatticismi farlocchi: «O saliamo tutti in barca, o sbarchiamo tutti». A
Palazzo Madama, per scampato pericolo, il caffè sembra più buono. Assennati propositi per affinare i regolamenti delle due Camere. Basteranno gl’insuccessi
2005 e 2016 per evitare altri timballi bruciati?
6 dicembre. Dopo la decisione della Consulta sull’Italicum, serviranno Ercole e Giobbe, Machiavelli e
Freud per norme elettorali capaci di tutelare rappre-
sentanza e governabilità. Tentativi di Renzistenza. Con
l’orizzonte incerto, sarebbe meglio una pausa senza
spot. Bagni di umiltà, mica pediluvi ipertonici.
7 dicembre. Capitan Bonus incassa il varo-sprint della
manovra finanziaria sovraccarica di debito, rampogne
UE, regalie referendarie (molta spesa, poca resa). Rifiuta il confronto nella squassata direzione dem. Cerca
di annettersi insieme 13 milioni di Sì e la rivolta anticasta. Cavalca i suoi mille giorni di favola/e. Peccato
l’assenza di crescita e il patatrac costituzionale. A sera
concede le dimissioni formali e «va a casa». Una capatina, però. Deve blindare il Renzi power e organizzare la rivincita. Dubbio, esteso ai 5ST: in caduta di carisma funzionano cerchi e raggi magici?
8/11 dicembre. L’ipotesi reincarico affonda nel disincanto, «pur avendo i numeri parlamentari». Allarma
l’esplosione sul Montis Pascorum: costa, eccome, il
tempo perduto. Scorrono al Quirinale scenografiche
consultazioni, mentre avanza dai media a passi felpati
Paolo Gentiloni. Felice dell’incontro, Sergio Mattarella dà l’incarico proprio a lui. «Fedelissimo» del segretario-premier, sessantottino mite, dossier internazionali in valigia. Discontinuità? Nello stile.
12 dicembre. Mano di vernice sul governo esausto.
Dodici conferme, 4 traslochi, 2 innesti sinistra dem
(marca Sì). La veterana Anna Finocchiaro «baderà» alla legge elettorale. Alla «cattiva scuola» subentra Valeria Fedeli (curriculum zoppicante: maestra d’asilo,
quasi diplomata, pro gender). A Vincenzo De Luca, rileggendo Jago, va di traverso la fritturina di pesce.
13/14 dicembre. Senza sorprese il voto alle Camere.
«Responsabilità» è la parola-chiave di Gentiloni, che
assicura impegno sulle emergenze: terremoto, lavoro,
immigrazione, banche. Fotocopia, clone? Una sorta di
«farmaco equivalente». Dura? «Fin quando avrà la fiducia del Parlamento». Elementare, onorevoli in attesa di vitalizio. Effemeride. Ex deputato, scelto a casaccio, è «processato» in piazza; circolano perfino
«forconi» falsi.
18 dicembre. All’assemblea nazionale dem Renzi ammette di aver «straperso» il referendum, ma tira dritto.
Cartocci di pop corn elettorali. Domina l’incultura del
«tutto si aggiusta». Grazie a Matteo, naturalmente. Di
«epocale» nulla, tranne il caos politico. E il grave errore che ha diviso e paralizzato un’Italia sempre più
povera. Già rimosso, senza un’analisi seria.
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Nicola
Lecca
Una fortezza
trasformata
Lettera
da Le Landeron
L
in giardino
a storia recente ha garantito alla Svizzera lo status di Paese neutrale per eccellenza: un luogo al di sopra della guerra, garante di
pace perfino durante gli eccessi del Nazismo. Uno
Stato protetto, custodito all’interno di un’irreale
palla di cristallo: celebre per il benessere dei suoi
abitanti e per l’imponente quantità di lingotti d’oro
custoditi nei caveau delle sue banche. Eppure, in altri tempi, la Svizzera è stata teatro di guerre dure e
sanguinose. Nel Medioevo, per esempio, le battaglie erano all’ordine del giorno: intere città venivano rase al suolo, ricostruite e poi distrutte di nuovo:
magari a causa di capricciose dispute di confine.
Le fortificazioni e gli armamenti erano le uniche difese possibili per i borghi dell’epoca che, spesso,
venivano costruiti in posizione strategica e trasformati in vere e proprie roccaforti.
Una di queste fu la vecchia Landiron: menzionata
per la prima volta in un documento del 1209 e costruita nei pressi di un antico monastero benedettino, oggi trasformato in penitenziario.
Di tutto il cantone di Neuchâtel, Landiron era – a
quell’epoca – uno dei luoghi più sicuri in cui abitare: e, di conseguenza, anche uno dei più ricchi. La
sua posizione, a cavallo tra due laghi, risultava eccezionalmente propizia per l’agricoltura e favorevole al commercio. Ecco perché, nonostante la sua
dimensione contenuta e i suoi pochi abitanti, Landiron divenne presto capitale di un’intera baronia.
La vita qui scorreva serena: al riparo da scontri, pestilenze e inondazioni. Il villaggio sembrava protet-
18
to da una qualche entità superiore: fino a che un
sempre crescente numero di incendi mise a dura
prova la sua proverbiale quiete.
Un girotondo
di case medievali
Davanti alle devastazioni provocate dagli incendi,
gli abitanti di Landiron non si diedero mai per vinti e, grazie alle loro tante ricchezze, ricostruirono il
loro villaggio sempre più sicuro e sempre più bello.
Oggi Le Landeron (il nome è cambiato nel corso
dei secoli) è una spettacolare testimonianza del passato: un girotondo perfetto di case medievali isolate da ogni possibile modernità da una cintura di
campi verdissimi. Una piazza lunga 180 metri e larga almeno 30, attraversata da un viale di tigli. Cento abitanti soltanto: antichi palazzi che fanno a gara
per primeggiare in quanto a bellezza, facciate color
pastello che si rincorrono – l’una dopo l’altra – orgogliose delle loro antiche persiane giallo, blu e rosa confetto. Un cimitero di pietra grigia, una cappella dello stesso colore. Due fontane, un orologio
con la meridiana, la solenne Torre dell’Archivio e
infinite tegole d’un rosso-marrone, cangiante a ogni
tegola, per rendere i tetti preziosi mosaici astratti
disegnati dal tempo e dal destino.
Per isolare l’antico dal moderno e preservare l’incanto, la città nuova è distante: la abitano cinquemila persone soltanto, un centinaio delle quali so-
La piazza con la fontana Vaillant (sec. XVI). Nella pagina accanto, la «Portette».
no di origine italiana.
La porta principale della città è sormontata dalla
torre dell’orologio (che ospita anche una meridiana) mentre la porta secondaria – conosciuta anche
con il nome di «Portette» – si trova nella parte diametralmente opposta della piazza.
Di particolare eleganza, la fontana Vaillant è il simbolo della città: venne ideata dallo scultore Laurent
Perroud nel XVI secolo e abbellita da guerrieri lignei riccamente bardati. Sono in molti a pensare
che la loro presenza abbia un influsso benefico sul
borgo e sui suoi abitanti.
Le mura di cinta che proteggevano la vecchia Landiron oggi non esistono più. La pace le ha rese inutili.
E così, questa perla medievale – poggiata dal destino
con grazia fra le verdissime campagne di un sonnolento cantone Svizzero – non deve più la fama alla
sua proverbiale inespugnabilità: ma soltanto alla propria bellezza e ai suoi tanti secoli di storia. Una bellezza assoluta, probabilmente incontestabile.
Ad abitare le sue case, non sono più la contessa di
Nemours, la nobile famiglia Vaumarcurs, né gli appartenenti alla confraternita di sant’Antonio. Ma
sono piccoli artigiani, commercianti: e, soprattutto,
antiquari che espongono le loro reliquie di passato
in piccole e polverose vetrine.
Da Neuchâtel a Berna
con Klee & Einstein
A Le Landeron non c’è più alcuna paura di attacchi
nemici: nessuna guardia armata fa più la ronda notturna a lume di torcia. La pace regna. E regna la nostalgia per un passato strepitoso testimoniato in abbondanza a ogni angolo.
E se questo piccolo borgo incantato, con le sue an-
tiche fontane portafortuna e le sue facciate rosa pastello, non dovesse bastare a incantarvi, non molto
lontano vi attende la piccola città di Neuchâtel: ricca di leggende e di misteri, amata da Napoleone –
che la conquistò strappandola ai prussiani – e popolata da un centinaio di fontane rassicuranti (la più
bella ospita una statua che raffigura la giustizia).
Salire verso il suo castello e la chiesa della Collegiata significa incontrare scalinate strettissime in
cui il sole riesce a malapena a insinuarsi.
Dall’alto la città appare improvvisamente vasta e
discordante con le sue aree più moderne in contrasto con il passato, gli alti e i bassi e la placidità del
lago. Ma Neuchâtel non è soltanto ricca di atmosfera sognante: è anche una città universitaria votata
alla cultura. Nel suo museo dell’arte e della scienza
gli incredibili androidi a corda costruiti da JaquetDroz nel Settecento sono ancora capaci di scrivere
intere lettere con il pennino e l’inchiostro.
Ben più vicina a Le Landeron si trova la capitale
della Svizzera federale. Come ogni capitale che si rispetti Berna, nel suo piccolo, è solenne e l’UNESCO
ha dichiarato il suo centro storico medievale patrimonio dell’Umanità insieme alla Laguna di Venezia,
alla Torre di Londra e a Su Nuraxi di Barumini. La
città, avvolta in maniera piuttosto spettacolare dal
fiume Aare, venne fondata nel 1191 e, durante la sua
storia quasi millenaria, è rimasta spesso nell’ombra.
Eppure, ci sono almeno due eventi fondamentali che
la riguardano da vicino: durante il freddissimo inverno del 1879 nasce proprio a Berna il genio dell’astrattismo Paul Klee, mentre, nel 1905, in un piccolo appartamento della Kramgasse (con il bagno in
cortile), lo squattrinato Albert Einstein, nonostante i
suoi 26 anni, concepisce ed elabora la teoria della
relatività.
Nicola Lecca
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PIAZZA SAN PIETRO
Come formare i nuovi sacerdoti
Si intitola «Ratio fundamentalis
institutionis sacerdotalis»: è il
documento della Congregazione
per il clero – pubblicato nel giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre
2016, e uscito in allegato con
L’Osservatore Romano – che aggiorna le regole del 1985 e spiega come deve essere realizzata la
formazione dei seminaristi. «È
necessario coltivare l’umiltà, il
coraggio, il senso pratico, la magnanimità di cuore, la rettitudine
nel giudizio e la discrezione, la
tolleranza e la trasparenza, l’amore alla verità e l’onestà».
Nel capitolo dedicato alla «formazione umana» si ricorda che il futuro prete nel cammino formativo
va accompagnato in tutte le sue
dimensioni, senza dimenticare la
cura della «salute, l’alimentazione, l’attività motoria, il riposo».
Di fondamentale importanza è che
il seminarista raggiunga una
«equilibrata autostima, che lo conduca ad avere consapevolezza delle proprie doti, per imparare a metterle al servizio del Popolo di
Dio». Il futuro prete deve avere
anche buon gusto sotto il profilo
estetico e capacità di relazione:
«Nella formazione umana occorre
curare l’àmbito estetico, offrendo
un’istruzione che permetta di conoscere le diverse manifestazioni
artistiche, educando al “senso del
bello”, e l’àmbito sociale, aiutando il soggetto a migliorare nella
propria capacità relazionale, così
che possa contribuire all’edificazione della comunità in cui vive».
«Ci è sembrato che la formazione
dei sacerdoti avesse bisogno di
essere rilanciata, rinnovata e rimessa al centro», spiega il cardinale prefetto del dicastero, Be-
20
Il card. Beniamino Stella,
prefetto della Congregazione per il Clero.
niamino Stella. «Siamo stati incoraggiati e illuminati dal magistero di Papa Francesco, con la
spiritualità e la profezia che contraddistinguono la sua parola. Il
Pontefice si è rivolto spesso ai
sacerdoti, ricordando loro che il
prete non è un funzionario, ma un
pastore unto per il popolo di Dio,
che ha il cuore compassionevole
e misericordioso di Cristo per le
folle affaticate e stanche».
Un buon prete deve essere capace di ascoltare: «Per attuare il discernimento pastorale occorre
mettere al centro lo stile evangelico dell’ascolto, che libera il pa-
store dalla tentazione dell’astrattezza, del protagonismo, dell’eccessiva sicurezza di sé e di quella freddezza che lo renderebbe
“un ragioniere dello spirito” invece che “un buon samaritano”».
Il prete, avverte poi il documento, non deve essere un uomo «del
fare»: «Il pastore impara a uscire
dalle proprie certezze precostituite e non penserà al proprio ministero come a una serie di cose da
fare o di norme da applicare, ma
farà della propria vita il “luogo”
di un accogliente ascolto di Dio e
dei fratelli».
Spiega ancora il cardinale Stella:
«L’ultima Ratio fundamentalis risale al 1970, anche se nel 1985
c’è stato un aggiornamento. Nel
frattempo, come sappiamo, soprattutto sotto l’effetto della rapida evoluzione a cui il mondo è
oggigiorno soggetto, sono mutati
i contesti storici, socio-culturali
ed ecclesiali nei quali il sacerdote
è chiamato a incarnare la missione di Cristo e della Chiesa, non
senza provocare significativi
cambiamenti relativi ad altri
aspetti: l’immagine o visione del
prete, i bisogni spirituali del popolo di Dio, le sfide della nuova
evangelizzazione, i linguaggi della comunicazione, e altro ancora.
Le parole e gli ammonimenti del
Papa, alcuni dei quali riguardanti
le tentazioni legate al denaro, all’esercizio autoritario del potere,
alla rigidità legalista o alla vanagloria, ci mostrano come la cura
dei sacerdoti e della loro formazione sia un aspetto fondamentale
nell’azione ecclesiale di questo
pontificato e debba diventarlo
sempre di più per ogni vescovo e
ogni Chiesa locale».
Seminaristi con Papa Francesco.
Seminaristi:
i consigli del Papa
Poveri, perché «se un sacerdote
ha paura della povertà allora la
sua vocazione è in pericolo». Mai
protagonisti di scandali, perché
«la stampa compra bene quelle
notizie». Vicini alla gente, perché
il sacerdote che dice la Messa e
poi se ne va «fa male alla Chiesa». Zelanti, cioè pronti «ad andare in qualsiasi ora della notte da
un malato per amministrare i sacramenti». Sinceri con i propri
vescovi, evitando le «chiacchiere». Questo l’identikit dei sacerdoti secondo Francesco, che così
si è rivolto ai seminaristi del Pontificio seminario regionale pugliese Pio XI, ricevuti in udienza
il 10 dicembre 2016.
«In un seminario che forma i sacerdoti alle volte ci sono problemi e sbagli. Siamo abituati a sentire gli scandali dei sacerdoti. La
stampa compra bene quelle notizie. Hanno la quota alta nella borsa dei media», ha ammonito il
Pontefice nel suo discorso, pronunciato interamente a braccio.
Occorre «formare un sacerdote
perché nella sua vita non ci sia un
fallimento, perché non crolli», ma
bisogna anche fare in modo che
«la sua vita sia feconda», quindi
«non solo che rispetti bene tutte le
regole, ma che dia vita agli altri».
Perché «un sacerdote che non è
padre non serve». Lo dimostrano
tanti parroci italiani, e «ce ne sono
tanti bravi». Parlando in particolare della «vicinanza», Francesco
ha riconosciuto che è una gran fatica e ci vuole pazienza, perché «il
santo popolo di Dio, diciamoci la
verità, stanca. Ma che cosa bella
trovare un sacerdote che finisce la
giornata stanco e non ha bisogno
della pastiglie per andare a dormire. Che bello questa vita al totale
servizio degli altri!».
La preghiera davanti al tabernacolo
è un pilastro fondamentale. E gli
altri tre? «Vita comunitaria, studio
e vita apostolica».
La Bellezza
conduce a Dio
Ricreare «scintille di bellezza» anche dove sembrano prevalere indifferenza e bruttezza. È quanto
Francesco raccomanda agli artisti
nel messaggio per la XXI seduta
pubblica delle Pontificie accademie. Indirizzato al cardinale Gianfranco Ravasi, responsabile del
Pontificio consiglio della cultura,
il testo invita a intervenire «nei
contesti più degradati e imbruttiti»,
attraverso piccoli interventi urbanistici, architettonici e artistici, così da ridare alla realtà quotidiana
«un senso di bellezza, di dignità, di
decoro umano prima che urbano».
«Anche nelle periferie – afferma il
Pontefice – ci sono tracce di bellezza, di umanità vera, che bisogna
saper cogliere e valorizzare al
massimo, che vanno sostenute e
incoraggiate, sviluppate e diffuse».
Per questo, per esempio, «è necessario che gli edifici sacri, a cominciare dalle nuove chiese parrocchiali, soprattutto quelle collocate
in contesti periferici e degradati, si
propongano, pur nella loro semplicità ed essenzialità, come oasi di
bellezza, di pace, di accoglienza».
Le chiese, anche attraverso l’arte
e l’architettura, devono favorire
«l’incontro con Dio e la comunione con i fratelli e le sorelle, diventando così anche punto di riferimento per la crescita integrale di tutti gli abitanti, per uno sviluppo armonico e solidale delle
comunità».
«Prendersi cura delle persone, a
cominciare dai più piccoli e indifesi, e dei loro legami quotidiani,
significa necessariamente prendersi cura anche dell’ambiente in
cui essi vivono», scrive Francesco. «Piccoli gesti, semplici azioni, piccole scintille di bellezza e
di carità possono risanare, ”rammendare” un tessuto umano, oltre
che urbanistico e ambientale,
spesso lacerato e diviso, rappresentando una concreta alternativa
all’indifferenza e al cinismo».
Il Papa cita la sua enciclica Laudato si’, là dove spiega che fare attenzione alla bellezza aiuta a uscire dal pragmatismo utilitaristico,
ma fa ricorso anche alle parole di
Italo Calvino, che nel libro Le città invisibili del 1972, sosteneva
che «le città, come i sogni, sono
costruite di desideri e di paure» e
«forse tante città del nostro tempo,
con i loro sobborghi desolanti,
hanno lasciato molto più spazio alle paure che ai desideri e ai sogni
più belli delle persone, soprattutto
dei più giovani».
Aldo Maria Valli
21
DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
Troppo ottimismo, troppo pessimismo
Il giusto prestigio che ha raggiunto la Dottrina sociale della
Chiesa (DSC), applaudita con entusiasmo all’ONU dai rappresentanti di quasi tutti i Paesi lungo
ben quattro pontificati in contrasto con la sua clamorosa negazione pratica nel mondo attuale, nell’àmbito della famiglia, della pace, dei diritti umani... merita
qualche riflessione.
Senza mettere in dubbio la sincerità dei ripetuti applausi, solo una
spiegazione mi sembra corretta: la
DSC è vista in generale semplicemente come una bellissima via, il
sogno di un mondo ideale. Irrealizzabile, senz’altro, come tutte le
utopie, che servono affinché non
ci conformiamo alle tristi realtà
intorno a noi, ma non come criterio pratico di azione. E questa
conclusione porta a un altro interrogativo: che cosa manca alla DSC
per essere più convincente?
Non solo
questione di stile
Le encicliche e gli altri documenti sociali pontifici si rivolgono in
primo luogo ai cattolici, ma tenendo a mente quanti possono e
devono dirigere in qualche modo
la società. Le analisi dei problemi
sociali che precedono le direttive
morali da applicare di solito sono
molto profonde, sia nell’aspetto
sociologico sia in quello teologico, il che è lodevole benché elevi
la dottrina a un livello che pochi
raggiungono.
D’altra parte, poiché non spetta
alla Chiesa la funzione politica
pratica, essa si permette soltanto
di dare orientamenti molto gene-
22
rici, che servono poco agli uomini di governo e di azione. La cosa peggiora quando pretende soluzioni. Perché non ci sono. «I
poveri li avrete sempre con voi»
(Gv 12, 8). Ci saranno sempre
problemi sociali, uno dopo l’altro, con le inevitabili sequele,
nonostante le migliori soluzioni,
che a loro volta provocheranno
probabilmente nuovi problemi...
Problemi che bisogna affrontare,
certo, ma sapendo che nessuno si
risolverà definitivamente. Una
medicina che si proponesse di
guarire tutte le malattie non meriterebbe alcun credito. Ora, è molto frequente questa esigenza formale nei documenti sociali della
Chiesa e quindi non deve sorprendere che sembrino un’utopia
a molte persone di azione.
La stessa Chiesa lo riconosce. «I
problemi socio-economici non
possono essere risolti che mediante il concorso di tutte le forme di solidarietà: solidarietà dei
poveri tra loro, dei ricchi e dei
poveri, dei lavoratori tra loro,
degli imprenditori e dei dipendenti nell’impresa, solidarietà
tra le nazioni e tra i popoli» (Catechismo della Chiesa Cattolica,
1941). Ma quando arriverà quel
tempo beato? Oppure, più brevemente: «Non c’è soluzione alla
questione sociale al di fuori del
Vangelo» (CCC 1896). Ma
quando lo seguiranno tutti? Ovvero: non speriamo soluzioni su
questa terra; tentiamo di limitare
i problemi, ma, questo sì, con
impegno e pazienza. «Nessuna
legislazione sarebbe in grado, da
sé stessa, di dissipare i timori, i
pregiudizi, le tendenze all’orgoglio e all’egoismo, che ostacola-
no l’instaurarsi di società veramente fraterne. Simili comportamenti si superano solo con la carità, la quale vede in ogni uomo
un “prossimo”, un fratello»
(CCC 1931). E come potrebbe la
Chiesa sperare che sparissero se
«è impossibile che non ci siano
scandali» (Lc 17, 1)?
Forse si tratta solo di una questione di stile, ma è comprensibile che, di fronte a questa ottimistica aspettativa di soluzioni, la
gente, cristiana o no, la ascolti
come retorica, un bel discorso.
La stessa DSC ci avvisa: «Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione
sociale e dei costumi» (CCC 407;
san Giovanni Paolo II, CA 25).
Tuttavia a volte sembra attendersi dal mondo una versione temporale del cielo: «La Dottrina sociale traccia le vie da percorrere
verso una società riconciliata e
armonizzata nella giustizia e nell’amore, anticipatrice nella storia, in modo incoativo e prefigurativo, di “nuovi cieli e terra nuova, nei quali avrà stabile dimora
la giustizia” (2 Pt 3, 13)» (Compendio della DSC 82).
D’altra parte, mentre lo stile abituale dei documenti sociali della
Chiesa appare improntato a un
ottimismo irrealistico quanto all’attesa di soluzioni ragionevoli,
appare anche rivestito di un «irrealismo» pessimistico quando
espone – ed è molto frequente – i
problemi sociali causati dalla
malizia umana. Ciò evidentemente non è tutta la verità. La
stessa affermazione che i problemi scompaiono solo con la carità
zione storica, non le conviene assumere il ruolo di giudice immacolato che dà sentenze e pretende
l’applicazione dei suoi dettami.
Toccando senza dubbio la coscienza di molti, questo stile accusatorio può allontanare molti
altri, soprattutto quelli che sono
sinceramente impegnati, e sono
tantissimi, nel trovare vie di
maggiore giustizia e pace.
implicherebbe che tutti nascono
per mancanza di carità. Ma quanti problemi sorgono da un semplice cambiamento di tecnologia
o da una mancanza di adattamento legale a nuove situazioni; dalla difficoltà di prevedere tutte le
conseguenze di determinate e
perfino eccellenti misure politiche, economiche, finanziarie; da
squilibri di popolazioni; da cause
naturali, da scontri di culture; oppure per insufficienza incolpevole di formazione, di comunicazione, di organizzazione ecc. Insomma, per quella conseguenza
del peccato originale che è la debolezza dell’intelligenza umana.
Sarebbe ingiusto e poco realistico attribuire tutti i mali collettivi
all’egoismo, all’individualismo,
all’avarizia, all’ambizione di potere... Eppure è questo che sembra insinuare perfino la dedica di
varie encicliche, a partire da san
Giovanni XXIII, «a tutti gli uomini di buona volontà». Si vuole
indicare solo che i princìpi etici
della DSC non sono destinati unicamente ai fedeli, ma a tutti gli
uomini, perché si tratta di norme
di onestà; ma contribuisce a formare l’idea che, se ci fosse buona volontà, tutto andrebbe a posto, come se bastasse la buona
volontà per trovare soluzioni e
come se tutte le persone buone
dovessero adottare la stessa opinione per ogni problema.
È logico che molti passi di questo
genere, che sembrano ridurre le
questioni socio-economiche a
questioni morali e considerare
sufficienti le buone intenzioni
per risolverle, conferiscono un
aspetto utopico ai nostri documenti di fronte alle persone con
scienza economica ed esperienza
politica e imprenditoriale.
Volendo arrivare a tutte le persone, cattoliche e non cattoliche,
converrebbe pure che i documenti sociali della Chiesa tenessero
presente che, se per i primi basta
la loro autorità divina, per gli altri
conta soltanto quella umana. È
vero che la Chiesa è «esperta in
umanità» perché conosce meglio
di tutti la nostra natura, sia nello
stato decaduto e restaurato sia
nella sua massima perfezione che
è Gesù Cristo; ne conosce bene
anche l’eccelsa dignità, la nostra
immensa debolezza e il modello
assoluto di normalità: ecce homo.
Ma la sapienza della Chiesa si
presenta pure come espressione
universale di millenni di esperienza umana, nella storia del
mondo e nella sua stessa storia
terrena. E, in quanto istituzione
umana, non sempre ha precorso i
tempi né è stata sempre esemplare. Diversamente non sarebbe
umana. La santa Chiesa, la Chiesa di Dio, piena di vita e di verità,
radicata da Cristo sulla terra, è
composta di peccatori: appunto
per vivificarli. La sua linfa divina
scorre attraverso oscure e sporche
radici dentro l’humus terreno.
Senza detrimento della fede, della trasmissione fedelissima del
deposito che le è stato affidato,
quanti errori (istituzionali) commessi, quante situazioni deplorevoli, quanti problemi non ravvisati né risolti. Così, come istitu-
Una rilettura della
«Gaudium et spes»
È interessante notare che lo stile
del gran documento conciliare
della DSC, la Gaudium et spes,
non adotta il tono esigente e autoritario cui ci siamo riferiti.
Quando tratta la funzione della
Chiesa nel mondo attuale, al capitolo quarto, dichiara semplicemente che «la Chiesa, che è insieme società visibile e comunità
spirituale, cammina insieme con
l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena; essa è come il fermento e quasi l’anima della società
umana, destinata a rinnovarsi in
Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio [...]. Perseguendo il
suo proprio fine di salvezza, non
solo comunica all’uomo la vita
divina; essa diffonde anche in
qualche modo sopra tutto il mondo la luce che questa vita divina
irradia, e lo fa specialmente per il
fatto che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine della umana società e conferisce al lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato». Non
dice che è competente per dare la
soluzione a tutti i problemi sociali; la sua funzione è molto più
importante ed elevata, ma «la
Chiesa, con i singoli suoi membri
e con tutta intera la sua comunità,
crede di poter contribuire molto a
umanizzare di più la famiglia degli uomini e la sua storia» (40).
Senza dimenticare la sua altissima soprannaturale missione, si
sforza di collaborare con tutte le
23
genti nella costruzione di un
mondo migliore, che faciliti il
percorso di ciascuno verso il cielo. Malgrado sia madre e maestra
spirituale, non si erge a maestra
suprema nelle questioni di bene
comune terreno; apprezza grandemente tutti i contributi, da
chiunque vengano, a questo fine,
ed «è persuasa che, per preparare
le vie al Vangelo, il mondo può
fornirle in vario modo un aiuto
prezioso mediante le qualità e
l’attività dei singoli o delle società che lo compongono [...]. Certo, la missione propria che Cristo
ha affidato alla sua Chiesa non è
d’ordine politico, economico o
sociale: il fine, infatti, che le ha
prefisso è d’ordine religioso. Eppure proprio da questa missione
religiosa scaturiscono compiti,
luce e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare
la comunità degli uomini secondo la legge divina [...]. Il Concilio, dunque, considera con grande rispetto tutto ciò che di vero,
di buono e di giusto si trova nelle istituzioni, pur così diverse,
che l’umanità si è creata e continua a crearsi» (40-42).
«Ai laici spettano propriamente,
anche se non esclusivamente, gli
impegni e le attività temporali
[...]. Non pensino però che i loro
pastori siano sempre esperti a tal
punto che, a ogni nuovo problema
che sorge, anche a quelli gravi,
essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a
questo li chiami la loro missione.
Benché la Chiesa, per la virtù dello Spirito Santo, sia rimasta la
sposa fedele del suo Signore [...] e
non abbia mai cessato di essere
segno di salvezza nel mondo, essa
tuttavia non ignora affatto che tra
i suoi membri sia chierici che laici, nel corso della sua lunga storia, non sono mancati di quelli
che non furono fedeli allo Spirito
di Dio. E anche ai nostri giorni sa
bene la Chiesa quanto distanti siano tra loro il messaggio ch’essa
reca e l’umana debolezza di coloro cui è affidato il Vangelo» (43).
«Come è importante per il mondo
24
che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo
fermento, così pure la Chiesa non
ignora quanto essa abbia ricevuto
dalla storia e dall’evoluzione del
genere umano» (44).
Potremmo dilungarci in citazioni
di questo grande documento, ma
sono sufficienti quelle riportate
per illustrare uno stile assai più
convincente di quello usato in altri
testi, le cui esigenze sembreranno
impossibili ai loro destinatari.
Non dividere
in buoni & cattivi
Se la Chiesa non può offrire soluzioni pratiche per le questioni sociali, il semplice fatto di denunciarle o analizzarle è già un contributo molto utile a tutti. Tuttavia,
attirerà di più se parte dal principio giusto che non mancano uomini di buona volontà, perfino
eroi e martiri, che si dedicano con
tutte le forze a debellarli. E ancor
di più se non giudica le intenzioni
collettive – che non esistono – da
parte di determinati settori politici, imprenditoriali, finanziari, nazionali ecc., ma si limita a verificare che, per debolezze umane e
per la complessità di determinati
problemi, non sono state raggiunte ancora vie di soluzione corretta,
e presenta orientamenti plausibili.
Ciò che ci si attende dalla Chiesa
è che sia la prima nella comprensione, compassione e speranza;
non accada che, restringendo la
compassione ai meno fortunati,
dia l’impressione di dividere il
mondo in buoni e cattivi, vittime e
aguzzini, inducendo a pensare che
sposa una certa lotta di classe.
Forse può diventare ancora più
convincente e ispiratrice, se oltre a indicare linee generiche nel
trattamento dei problemi, apprezza debitamente qualsiasi
progresso compiuto. Avrebbe un
carattere più positivo, amabile e
incoraggiante.
Perché, pur essendo difficile o
impossibile scoprire tutte le cause di qualunque problema socia-
le, è facile discernerne un progresso o un regresso. Vediamolo
per esempio in una prospettiva di
libertà, che si può considerare un
obiettivo centrale della DSC. In
effetti, che cosa si pretende? Che
tutti gli uomini godano della
maggiore libertà possibile per
svilupparsi e fare del bene. Non è
possibile imporlo, ma è giusto facilitarlo, che inoltre è l’unica cosa che si può fare. Come non è
possibile nemmeno evitare il male per quanto la società cerchi di
evitarlo e, in molti casi, punirlo.
La società è tanto migliore o peggiore quanto più o meno permette all’uomo di scegliere con libertà il bene che preferisce fare.
Mi riferisco alla libertà di fatto,
vale a dire alla possibilità reale,
all’effettiva capacità di scegliere
stati, situazioni e mezzi di servizio a Dio e al prossimo, perché in
ciò consiste la realizzazione
umana. Il vero progresso sociale
si traduce in un aumento effettivo
di questa libertà personale, che
può crescere o essere ostacolata
colpevolmente. Non esiste alcuna piattaforma fissa, l’ideale della libertà educativa, imprenditoriale, scientifica, artistica, politica, religiosa ecc. Essa potrà essere sempre maggiore o minore.
Missione della DSC è apprezzare
ciò che aiuta l’uomo in questo
senso e indicare ciò che lo ostacola, difendendo la libertà per il
bene di tutti gli aspetti della vita
personale, famigliare e collettiva.
E questo è di facile mediazione
obiettiva e di facile comunicazione. In altri grandi problemi, come
dicevo, è difficile discernere cause, effetti e rimedi; ma le mancanze di libertà di solito sono
evidenti, concrete e superabili a
breve e medio termine. La DSC
sarebbe in questo modo più incisiva e credibile; non darebbe
quell’impressione di dividere il
mondo in buoni e cattivi, né di
rinviare a un futuro paradisiaco
la risoluzione di tutti i problemi
sociali.
Hugo de Azevedo
Traduzione di Michele Dolz
CATECHESI/2
I primi tre Comandamenti
Pubblichiamo la seconda puntata delle catechesi svolte nella primavera del
2012, circa sei mesi prima della sua inattesa morte, da don Valentino Guglielmi, presso la Residenza Universitaria Pontenavi, di Verona. Nel numero
dello scorso dicembre (p. 844) era stata pubblicata l’introduzione generale a
questa catechesi, da cui traspaiono l’afflato pastorale e la sicura dottrina dell’autore. Seguiranno altre due puntate.
Gesù ci dice nel Vangelo: «Conoscerete la verità e la verità vi farà
liberi». È interessante notare come la verità sia adaequatio rei et
intellectus, e che l’intelletto contiene tutta la persona e la realtà.
Papa Wojtyla affermava: «È nella risposta all’appello di Dio contenuto nell’essere delle cose che
l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità», ogni
uomo deve dare questa risposta
nella quale consiste il culmine
della sua umanità, nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo, quindi nel rapporto con la verità noi realizziamo l’unicità della nostra persona.
Non è mai stato detto che la verità sia adaequatio intellectus et legis, non è l’adeguamento dell’intelligenza alla legge, la verità è
un’altra cosa.
«Io sono il Signore
Dio tuo»
Ora il primo comandamento recita «Io sono il Signore Dio tuo,
non avrai altro Dio fuori di me».
Un giorno – ero parroco da poco
– è venuta da me una signora che
aveva un figlio chierichetto un
po’ grandicello e mi ha detto:
«Mio figlio mi ha detto: “Io non ti
ho chiesto di mettermi al mondo”. Che cosa potevo rispondere?
In effetti era vero!». Da questo
semplice episodio si possono ri-
cavare delle osservazioni quanto
mai interessanti. Noi non abbiamo fatto nulla per venire al mondo, non l’abbiamo chiesto e non
l’abbiamo nemmeno potuto desiderare. Questa osservazione elementare ci fa riflettere: che cosa
vuol dire essere figli? Che cosa
vuol dire essere il Creatore o essere procreatori come siete voi?
Io non ho scelto di venire al mondo, non l’ho chiesto, non l’ho desiderato; i miei genitori hanno desiderato un figlio e non sapevano
niente di me finché non mi hanno
visto, Dio ha voluto me e mi ha
chiamato all’esistenza attraverso
il gesto d’amore dei miei genitori
e mi ha dato l’esistenza donandomi a me stesso. Ciò mi fa capire
che la mia libertà è una libertà da
figlio, che manca il primo atto
che non ho posto io. Siccome
quello che c’è dentro di me non
l’hanno messo tutto i miei genitori, mi sono accorto abbastanza
presto che c’era qualcosa in me di
cui mia mamma non era più in
grado di rispondere.
Appare abbastanza evidente che
come ci sono voluti un uomo e
una donna capaci di generare, così ci sarebbe dovuto essere qualcuno capace di fare ciò che non
era nella competenza dei miei genitori e da qui nasce il senso del
primo e del quarto comandamento: «Io sono il Signore Dio tuo,
non avrai altro Dio fuori di me».
Questo mio rapporto con Dio non
è un rapporto di semplice creatura, come potrebbe essere per le
piante o gli animali, la diversità è
data dalla mia stessa natura, sono
consapevole di me stesso, sono
responsabile di me stesso. C’è
una differenza tra l’essere creatura e l’essere figlio, che è una condizione assolutamente unica.
È interessante sottolineare ciò
che san Josemaría Escrivá ha recepito come esperienza esistenziale e ha trasmesso ai suoi figli
spirituali: siamo figli di Dio. Penso vi sia noto quell’episodio in
cui un sacerdote dell’Opera stava
predicando una meditazione e ha
detto che il fondamento dello spirito dell’Opus Dei è l’umiltà; san
Josemaría, che era presente, lo ha
interrotto dicendo: «No, figlio
mio, il fondamento dello spirito
dell’Opus Dei è la filiazione divina». Essere figli vuol dire che
l’atto misterioso della mia nascita è nascosto nell’amore coniugale dei miei genitori ed è nascosto
nel mistero di Dio.
Per insistere su questo concetto,
nel libro delle Confessioni sant’Agostino, parlando della creazione, scrive: Dio, riferendosi ai
vegetali e agli animali, ha dato
ordine che si moltiplicassero secondo la loro specie: dell’uomo
non dice così, dice che l’ha fatto
a sua immagine e somiglianza.
Per questo motivo si può dire che
non esiste la specie umana. Dal
punto di vista biologico l’uomo
appartiene ai mammiferi, ma le
persone prese singolarmente non
appartengono a una specie perché ciascuna costituisce una unicità. La specie raggruppa elementi uguali tra di loro, ma noi
non siamo uguali tra di noi se
25
non nella dimensione biologica,
e quindi come persone non siamo
uguali a nessuno. Questa considerazione riguarda me e tutte le
persone. Se Dio mi ha fatto a sua
immagine e somiglianza, cioè mi
ha fatto unico, ha fatto unici tutti
i miei simili e per questo nel
Nuovo Testamento il precetto
dell’amore a Dio e dell’amore al
prossimo sono intimamente congiunti e danno le coordinate per il
nostro percorso nella vita terrena
per aprirsi poi nella vita futura.
Che cosa vuol dire amare Dio sopra tutte le cose? Mi pare sia sant’Agostino ad affermare che l’amore a Dio è il primo nell’intenzione e l’ultimo che si raggiunge.
Se ho Roma come meta del mio
andare, Roma è la prima cosa che
ho nel cuore però devo attraversare parecchie zone prima di arrivarvi. Quindi amare Dio vuol dire cercarlo, infatti quando si ama
una persona, quando avete intravisto quella persona che poi è diventata vostra moglie, vi siete
posti in cuore il proposito di cercarla, di raggiungerla. Amare
vuol dire anche desiderare; ora,
come facciamo noi a cercare
Dio? Dove lo cerchiamo? Se voglio andare a Roma mi servirò
delle carte geografiche, proverò a
studiare le mappe, le quali sono
fatte di simboli, e studiando le
mappe programmo il mio viaggio. Poi però metto le mappe nella borsa, affronto la strada e mi
metto in viaggio. Altrimenti se
sto seduto al bar a discutere sulle
mappe di certo non arriverò a
Roma. Per questo san Paolo dice
«la scienza gonfia». È antipatico
avere il ventre gonfio, per questo
non so se avete mai notato che il
Credo che recitiamo nella messa
è detto Simbolo; vuol dire che in
qualche misura costituisce la
mappa per raggiungere un traguardo, e non si va da nessuna
parte se ci si limita a discutere
sulle mappe. Con questo non voglio diminuire il valore delle
mappe, però una cosa è stare con
la testa sulle mappe un’altra cosa
è stare con i piedi sulla strada.
26
Allora come procedo per camminare verso Dio, per cercarlo? Lo
cercherò nelle situazioni concrete
nelle quali mi imbatto. Ritengo
di una chiarezza e di una profondità straordinaria quel testo di
san Giovanni Paolo II che ho
proposto in precedenza. «È nel
dare risposta all’appello di Dio
che lo chiama nell’essere delle
cose che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità». Vuol dire che l’essere delle cose per voi ha nome e cognome, quello di vostra moglie e poi
i vostri figli e ancora le altre persone che conoscete, essendo
chiaro che i rapporti con ciascuna
persona non sono uguali, ma differiscono secondo la persona di
cui si tratti. Il percorso per andare a Dio è nel rapporto con le cose, con la produzione, con il denaro conseguente, con gli accidenti che intervengono nella nostra vita. Nel nostro rapporto con
Dio, noi ci troviamo come Maria
Maddalena nella mattina di Pasqua a conversare con Gesù davanti al sepolcro. La parola che le
era stata rivolta era: «Non aver
paura». In quella conversazione
tra lei e Gesù risorto è interposta
la morte, Gesù stava al di là, lei
invece al di qua esattamente come avviene per ciascuno di noi.
Quando noi riceviamo Gesù nell’Eucaristia ci incontriamo nel
modo più intimo e personale con
il Risorto. Ma, sebbene ci sia un
incontro tanto intimo come mangiare il suo corpo, tra noi e Lui
c’è di mezzo la morte, è un tratto
del nostro percorso verso Dio e,
se il pensiero della morte mette
paura a ciascuno di noi, quell’amicizia con Gesù, cercare il suo
volto di Risorto, dovrebbe farci
quantomeno diminuire il timore
della morte. Nel dialogo con Gesù andiamo, in qualche misura,
metabolizzando il rafforzamento
della fede in Lui. Ora, in tutto
questo discorso conviene mettere
in evidenza la condizione di mistero. Ricordo di aver ascoltato il
cardinal Tonini affermare che il
mistero è una cosa non misurabi-
le nascosto in cosa piccola. La
capacità di amore che è racchiusa
nel nostro cuore è qualcosa di
misterioso, è qualcosa di più
grande di quel che sembra guardandoci allo specchio. Così la capacità di voler bene alle persone
non è limitata da motivi d’interesse, ma va al di là. Non è bene
che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. La
capacità di comunicare con vostra moglie, con i vostri figli, con
i vostri amici, costituisce un piccolo assaggio della felicità eterna
del cielo, là dove la visione beatifica di Dio, che non riusciamo a
figurarci perché va oltre alle nostre capacità di pensare, non sarà
la sola felicità, ma andrà unita alla comunicazione, in Dio, con i
nostri simili, in particolare con le
persone a noi più vicine. Per questo vale la pena di cercare la presenza di Dio nelle sue creature e
in particolare nelle persone.
«Io sono il Signore Dio tuo, non
avrai altro Dio fuori di me» vuol
dire proprio questo. Prendendo il
Catechismo della Chiesa Cattolica, che cosa proibisce Dio quando comanda «non avrai altri dèi
fuori di me»? Proibisce il politeismo e l’idolatria che divinizza
una creatura, il potere, il denaro,
perfino il demonio. Noi cercando
Dio non solo non disprezziamo le
sue creature, ma viviamo dentro
al creato godendo di tutto quello
che Dio ha posto in essere con
rendimento di grazie. Idolatria è
quando trasformiamo in divinità
una creatura, o il denaro, o il possesso, o il piacere. È bene ricordare che il denaro va indicato tra
i beni della terra, non è male in
sé. Così la felicità, la gioia dell’amore coniugale, non sanno di
zolfo come se le avesse inventate
il diavolo. Anche il piacere viene
da Dio. Il fatto di non idolatrare il
piacere, il denaro, non comporta
il disprezzo di queste cose, che
possono anzi diventare una strada che porta a Dio. C’è poi il culto del nostro io, che è peggiore
della sensualità e dell’avarizia e
porta a giudicare. «Non giudicate
e non sarete giudicati». C’è poi la
superstizione, che è una deviazione del culto che si deve a Dio,
si esprime nella magia, nella stregoneria e nello spiritismo. Possiamo dire una cosa sugli oroscopi: c’è una spiegazione dei Padri
della Chiesa, mi pare san Zeno,
che dice che ciascuno di noi è nato sotto un segno zodiacale e non
demonizza questa cosa. Può essere che il segno sotto cui siamo
nati segni qualcosa del nostro destino? Noi siamo nati sotto il segno della Croce che è più forte
degli altri dodici: vuol dire che
nella capacità di amore noi dobbiamo saperci elevare sopra il destino, approfittando anche degli
aspetti negativi, delle contrarietà,
delle fatiche, delle sofferenze,
per amare un po’ di più. Come
amava dire san Josemaría, la
Croce è il segno più, perché Gesù ci ha redenti sopravanzando il
male con l’abbondanza del bene.
L’irreligione, si esprime nel tentare Dio con parole o atti, nel sacrilegio che profana persone o
cose, soprattutto l’Eucaristia,
nella simonia che è la volontà di
acquistare o vendere le realtà spirituali. L’ateismo, che nega l’esistenza di Dio, si giustifica con
una falsa spiegazione dell’autonomia umana. Noi dobbiamo
sempre ricordare che l’esistenza
di Dio come Creatore e Padre è
in stretto rapporto speculare con
me. Vuol dire che se io sono disposto a inginocchiarmi riconoscerò facilmente la presenza di
Dio nelle cose, se ho della rigidità nelle ginocchia – nel senso figurato del termine – non volendo
inginocchiarmi, mi convincerò
che Dio non c’è e mi potrò dichiarare orfano e farmi dio a me
stesso. È chiaro che di fronte all’alternativa ciascuno di noi è arbitro di sé stesso, per questo è interessante non sottovalutare il
problema, ma tenerlo vivo, ricordando che la ricerca di Dio non si
risolve esclusivamente sulla base
razionale, ma sulla disponibilità
ad accoglierlo nella nostra vita.
L’agnosticismo, secondo il quale
nulla si può sapere su Dio, comprende l’indifferentismo e l’ateismo pratico. La ricerca dell’esistenza di Dio credo non si risolva
esclusivamente percorrendo la
via razionale. San Tommaso non
propone cinque prove dell’esistenza di Dio, ma cinque vie per
cercare Dio; non è un problema
teorico come se si trattasse di
geometria o di logica, ma si tratta di una decisione personale: sei
disposto a metterti in strada per
cercarlo? Tante volte è Lui che ci
indirizza per una strada o che ne
interrompe una sbagliata, com’è
apparso in modo emblematico
sulla via di Damasco per interrompere la strada di Paolo. Quindi credo che non diremo mai abbastanza che la cosa ci coinvolga
in modo esistenziale e non esclusivamente razionale.
E qual è la medicina da contrapporre all’ateismo pratico? Credo
che una risposta radicale vada
cercata nel ruolo dei genitori, i
quali dovrebbero lasciar trasparire l’amore di Dio verso i figli attraverso il loro amore. Penso che
uno degli errori più comuni che
nascondono una verità è che i genitori dovrebbero capire che l’agente che educa i figli non è il papà, non è la mamma, ma l’amore
coniugale. I genitori devono capire che cosa vuol dire essere
procreatori, in questo modo sproneranno progressivamente i loro
figli a riconoscere Dio. Ma sembra che nelle famiglie ci sia molto amore possessivo che rischia
di creare scompensi all’interno
della famiglia stessa.
Quando si tratta di affrontare l’ateismo delle persone grandi, credo che l’amicizia sia il veicolo.
Amicizia nella quale bisognerebbe «scendere dall’alto». Nella
parabola, il samaritano che passa
vicino al malcapitato che è stato
bastonato e derubato si è reso vicino, è sceso dalla sua cavalcatura; noi a volte restiamo sul cavallo, buttiamo una moneta al mendicante che c’è lì affianco. Nella
Lettera ai Filippesi san Paolo dice che ognuno deve considerare
gli altri superiori a sé. Vuol dire
che siccome Dio ha donato sé
stesso al mio interlocutore, c’è in
lui qualcosa che in me manca, e
porgendo la mia attenzione all’interlocutore, vedendo di imparare
questa sua unicità, non ergendomi
a maestro, si può stabilire un’amicizia, un contatto vero. C’è un
passaggio interessante nel libro di
Geremia, facile da ricordare – 31,
31 – che è ripreso nella Lettera
agli Ebrei, capitolo ottavo: «Né
alcuno avrà più da istruire il suo
concittadino, né alcuno il proprio
fratello, dicendo: Conosci il Signore! Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro». Pare che la cosa apra
a una prospettiva ampia, profonda: nei rapporti personali e nella
vita futura, nella comunicazione
con le persone che ho conosciuto
che ho amato, sarà parte integrante della felicità eterna.
«Non nominare il nome
di Dio invano»
«Non nominare il nome di Dio
invano». Quando noi veniamo al
mondo non siamo né peggiori né
migliori di nessuno, siamo uno
tra i miliardi di esseri umani che
vengono alla luce. I nostri genitori ci danno un nome per un’identificazione approssimativa e
provvisoria: la mia identità mi
sarà rivelata alla fine. C’è un’identità che si andrà componendo,
data in modo potenziale e della
quale io vado prendendo consapevolezza progressivamente; come dice la Centesimus annus, se
noi progrediamo nel dare risposta
a Dio, che ci chiama nell’essere
delle cose, dovremmo sentir crescere la consapevolezza di noi
stessi. Se infatti io cresco, mi accorgo che il panorama intorno a
me cambia. Per esempio, se io mi
infilo in una valle delle Dolomiti,
mi accorgo che man mano che
procedo il panorama cambia; se
non cambia vuol dire che sono
fermo e non procedo. Per questo
noi andiamo alla ricerca del no-
27
me di Dio, cioè della sua natura,
del suo mistero rispondendo al
suo appello che ci chiama nell’essere delle cose e ci andiamo
avvicinando a Lui, migliorando
la nostra conoscenza. Ora la parola Dio, Zeus, Theos, è una parola piuttosto generica e fa riferimento al sole; nella Sacra Scrittura c’è un episodio celebre nel
libro dell’Esodo quando Dio manifesta il suo nome a Mosè: «Io
sono colui che sono». Nell’accezione della filosofia greca fa riferimento all’essere, che è il fondamento della conoscenza ed è un
nome che svela e copre un nome,
che manifesta e nasconde. Ma
noi abbiamo conosciuto più concretamente il nome di Dio quando Gesù ce lo ha rivelato. Il volto di Gesù, la sua Persona, manifesta il mistero di Dio che ci è rivelato come Amore. È il circolo
formidabile di comunione tra il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Dio è il Padre del Signore Gesù;
da Lui procede il Verbo eterno e
dall’uno e dall’altro è spirato lo
Spirito Santo.
È molto interessante quanto proposto nella celebre icona della
Santissima Trinità del monaco
russo Rublëv (1360-1430), in cui
sono raffigurate tre persone in
forma di angeli seduti intorno a
un tavolo sul quale è irraggiato
l’agnello immolato dato loro in
cibo e sullo sfondo si nota la
montagna, l’albero e la tenda.
Quei tre personaggi fanno riferimento all’episodio raccontato
nella Genesi quando Abramo li ha
avuti suoi ospiti nella sua tenda
alle querce di Mamre. Nell’icona
i tre sono dipinti in modo tale che
sembrano convergere non solo
con lo sguardo, ma anche con la
postura del corpo sull’agnello immolato. Vuol dire che il nome di
Dio ci è rivelato nel volto del Signore Gesù Cristo.
Potremmo fare una considerazione a questo proposito: nella religiosità greca si distinguono gli
dèi dal destino. Gli dèi avevano
una raffigurazione antropomorfa,
come uomini o donne felici, bea-
28
ti, ma non erano superiori al destino. Soprattutto la tragedia greca metteva in evidenza l’ineluttabilità del destino, per cui si può
vedere come l’onnipotenza della
divinità fosse relegata al destino,
l’entità priva di volto; pertanto
non era mai possibile rivolgersi a
lui o aspettarsi che si rivolgesse a
noi. Due cose che funzionano come un rullo compressore che non
guarda in faccia a niente e nessuno. Mentre il volto della divinità
era frazionato in molti dèi, l’onnipotenza e la trattabilità erano
sparite l’una nel destino, l’altra
negli dèi dell’Olimpo. Quello
che appare nell’incarnazione del
Figlio di Dio, l’onnipotenza e il
volto, sono identificati nella stessa identica persona di Gesù, che è
il volto del Padre onnipotente al
quale ci si può rivolgere e da cui
sappiamo di essere guardati.
Quando diciamo «onnipotenza»
non diciamo la parola più adatta
a esprimere la divinità, perché la
parola più adatta è «amore». Un
amore assolutamente totale, che
vincola il Figlio al Padre e lo Spirito Santo a entrambi, essendo
sempre evidente l’uguaglianza di
tre persone uguali e distinte e
vincolate l’una all’altra con amore totale, ciascuna versata totalmente nelle altre due: per questo
Dio è amore.
Il nome di Dio è misterioso com’è misterioso l’amore. Noi cerchiamo il volto di Dio nel volto
di Gesù Cristo, riuscendo a renderci conto che possiamo rodere
qualcosa al mistero mettendolo
in parole. Quando vi siete innamorati, vi siete resi conto che non
c’erano parole per dire l’emozione provata nell’esperienza dell’amore, però c’era il desiderio di
trovarle per esprimere il sentimento. Le parole sono come il respiro, mentre le cerchiamo riempiono i polmoni, quando le diciamo svuotano i polmoni; quindi le
parole svelano e coprono, riempiono e svuotano; così anche le
parole che usiamo per parlare di
Dio o, meglio ancora, per parlare
con Dio, hanno questa caratteri-
stica: fanno conoscere e nascondere, e perciò non possiamo mai
smettere di cercare le parole e
mai accontentarci di quelle che
abbiamo trovato, come non ci si
può ripetere nell’amore. Mi piace
ricordare nel corso per fidanzati:
lui e lei fanno una passeggiata romantica sulla riva del lago e lei
chiede a lui «Mi ami?», se si sentisse rispondere «Te l’ho detto
già ieri che ti amo»... uno così bisognerebbe spingerlo nel lago.
La ricerca del nome di Dio ha
questa caratteristica. È chiaro che
gli dobbiamo il massimo rispetto,
non offenderlo, non usarlo invano, come non vi piacerebbe sentire il nome di vostra moglie o
dei vostri figli storpiato, o offeso.
Si tratta non semplicemente di
un’osservanza esteriore, ma di
un’attenzione di interesse, audace e umile, perché è l’umiltà che
dà audacia. Se io sono con i piedi su un trabiccolo per farmi vedere, per mettermi in alto, basta
un urto per farmi franare; se metto i piedi per terra certamente sono più sicuro e posso con i piedi
avanzare là dove desidero andare. Penso che questo basti sul secondo comandamento: non nominare il nome di Dio invano.
«Santificare
le feste»
Passiamo al terzo: «Ricordati di
santificare le feste». La cosa consiste sostanzialmente nel riposo:
come Dio si è riposato il settimo
giorno, così il settimo giorno è
dedicato al riposo. Per noi cristiani il riposo si concretizza nella
partecipazione all’Eucaristia. Naturalmente si può entrare nel discorso da diverse parti, io provo a
entrarci attraverso la porta della
conoscenza. San Tommaso d’Aquino spiega che noi abbiamo due
modi di conoscere: uno è il modo
discorsivo che consiste nella deduzione da una proposizione a
un’altra al cuore della logica. Un
po’ come avviene nei libri gialli
che, partendo dagli indizi più o
meno labili, per via di logica si
arriva all’autore del fatto. È un
modo imperfetto di conoscere,
ma indispensabile, data la limitatezza della nostra capacità di conoscenza, è un modo di scorrere
da una frase a un’altra per realizzare un punto di chiarezza. L’altro è il modo di semplice visione,
cioè mangiare qualcosa con gli
occhi. Potete fare riferimento a
quanto vi piace guardare negli occhi vostra moglie o i figli, o quello che è bello da vedere. Per fare
questo occorre «perdere» tempo:
ecco il senso del riposo. In questo
modo si realizza quella conoscenza di semplice visione che completa quanto manca alla conoscenza discorsiva per ragionamento. Il riposo festivo è motivato dalla necessità che abbiamo di
fermarci per permettere che la luce, che viene dall’essere delle cose, si imprima sul fondo del nostro cuore. Per questo il terzo comandamento dice: ricordati di
santificare le feste, per poter godere la bellezza delle cose e poter
conversare amabilmente con le
persone della propria vita, a partire dalla famiglia; a questo serve il
riposo festivo.
Noi, nel conoscere, vediamo come in uno specchio e a me pare
che lo specchio possa indicare
quella sorta di stagno che c’è nel
fondo del nostro cuore. Quello
che entra in noi attraverso la percezione sensibile lo vediamo riflesso in quello stagno, se lo stagno ha dentro delle cose organiche che fermentano avrà la superficie continuamente increspata o
in ebollizione; è chiaro che finché
l’acqua dello stagno è agitata,
quello che vedo lo vedo deformato. È la stessa cosa che avveniva
nella macchina fotografica di una
volta, quella dotata di pellicola: se
prendo la pellicola e la stropiccio
e poi faccio una foto il ritratto risulta deforme. Per questo ho la
necessità del riposo, un tempo per
rimettere in ordine tutto quello
che ho lasciato fuori posto durante il lavoro della settimana, per
dedicarmi alla perdita di tempo
Andrej Rublëv (1360-1430): icona della Santissima Trinità.
per chiacchierare passeggiando
con la moglie, i figli, gli amici, affinché fioriscano dal cuore parole
che di solito non si ha il tempo di
pensare e di dire. La festa è appunto staccare la cinghia dell’urgenza dei lavori quotidiani perché
l’anima si riposi e possa raccontare a sé stessa tutto quello che vede
di bello. Il terzo comandamento è
fondato su questa necessità, conviene sempre ricordare che i comandamenti che si leggono nella
Torah sono legge positiva, cioè
legge emanata da chi ha autorità
di essere legislatore, ma prima di
essere legge positiva è legge naturale, la quale non è scritta da qualche parte, misteriosa, ma fa capire
quali siano le necessità e la configurazione del nostro cuore. Questa necessità del riposo nasce dalla condizione del nostro vivere
per la quale, come dicevo, abbiamo due modi di conoscere, quello
discorsivo e quello di semplice vi-
sione. Ricordiamo che nella dottrina cristiana la felicità eterna è
chiamata visione beatifica: cioè la
felicità è data dalla bellezza che è
a disposizione dei nostri occhi.
Penso di aver dato in modo abbastanza semplice un commento al
terzo comandamento.
Certo, riposare non è girarsi i
pollici, ma dedicare tempo alla
contemplazione per rigenerare il
nostro cuore. Se poi, per le condizioni personali o di lavoro, si è
costretti a eseguire una qualche
attività lavorativa, si farà di necessità virtù. Il comandamento
non obbliga oltre le proprie possibilità, in quanto legge positiva.
«Perdere tempo», oltre al riposo,
vuol dire fermarsi a pregare (e
non solo nei giorni festivi), trovare il modo di parlare con Dio.
La legge positiva non va contro
le nostre motivazioni di forza
maggiore.
Valentino Guglielmi
29
MARIOLOGIA
Fontanelle, Lourdes italiana
«Tra i pellegrini di Fontanelle che sogna di essere la Lourdes italiana»: con questo titolo Vittorio Messori ha raccontato sul Corriere della Sera del 30 novembre scorso la mariofania di Montichiari, traendo lo spunto dalla pubblicazione
dei Diari della veggente Pierina Gilli (pp. 720, euro 18), recentemente editi dalle Edizioni Ares per la cura del caporedattore di Studi cattolici Riccardo Caniato. Commentando su Radio Maria l’articolo di Messori – che riproduciamo
di seguito per intero a beneficio anche dei nostri lettori –, il direttore, padre Livio Fanzaga, ha collocato quella di Montichiari e Fontanelle tra le manifestazioni mariane più importanti non solo del secolo scorso, ma di sempre.
Peregrinatio alle Fontanelle di Montichiari.
C’è, nella Bassa bresciana, un luogo isolato in mezzo ai campi, sconosciuto anche alla maggioranza
dei lombardi eppure noto e venerato in Asia, in Africa, in America
Latina. Per venirvi a pregare, si
organizzano pellegrinaggi da quei
luoghi remoti, dove si costruiscono persino santuari alla Madonna
che lì sarebbe apparsa e si fondano congregazioni religiose in suo
onore. Sembra che ora – dopo decine di anni durante i quali quel
luogo internazionale di culto cattolico ufficialmente non esisteva
per la Chiesa – le cose si stiano
sbloccando e le autorità ecclesiastiche si stiano aprendo alla fiducia. È una storia singolare che merita di essere raccontata.
Venendo dal Garda e andando ver-
30
so Sud Ovest, dopo un quindici
chilometri si attraversa Montichiari, uno dei Comuni italiani con il
reddito più alto. Proseguendo lungo la provinciale verso Asola, dopo
quattro chilometri un piccolo cartello turistico (quelli marrone con
la scritta bianca) indica, rivolto a
una strada secondaria in mezzo ai
campi: «Località Fontanelle».
Qualche centinaio di metri e si intravede una sorta di capannone in
ferro e vetro, seminascosto in un
affossamento del terreno. Accanto,
due piccole costruzioni, un giardino con molte panche e poco d’altro. Colpiscono subito, però, i grandi parcheggi: sembrano del tutto
sproporzionati rispetto all’isolamento del luogo ma, in realtà, sono
sempre pieni, se non strapieni, di
pullmann e di auto. Molte le targhe
straniere. Sino a un paio di mesi fa,
il parcheggio non era mai vuoto
neppure di notte, ma ora si è stati
costretti a chiudere il capannone
dalla tarda serata all’alba. E non a
causa dei ladri (nulla di prezioso
c’è da rubare qui) bensì dei vandali. Entrando nella struttura, all’ingresso si trovano rubinetti per bere
e detergersi il volto coll’acqua che
sarebbe stata benedetta dalla Madonna. All’interno, una piccola
chiesa, con una minuscola piscina
con acqua alta 20 centimetri, dove
uomini e donne percorrono un cerchio parecchie volte, pregando.
Contro la parete, una grande quantità di ex voto che parlano di una
grazia ricevuta.
Tutto qui, per ora. Ma se ciò che è
avvenuto in questo luogo ha davvero una origine soprannaturale,
qui sorgerà una grande basilica con
cinque cupole e queste sconosciute
Fontanelle diverranno, per fama e
frequentazione, la Lourdes italiana.
Parola della Madonna stessa. Già
ora è impressionante la diffusione
che – discretamente e silenziosamente – ha avuto e ha nel mondo
intero il culto di «Maria Rosa Mistica e Madre della Chiesa» che
proprio qui ha avuto inizio e ha il
suo centro. Tutto comincia nel
1946, con una prima serie di apparizioni, nel duomo di Montichiari,
a Pierina Gilli (1911-1991), figlia
di contadini del luogo, di poca
istruzione a causa delle miseria e
divenuta inserviente dell’ospedale.
La Madonna pronuncia tre parole
programmatiche che, negli anni,
saranno seguite da tante altre: «Preghiera. Sacrificio. Penitenza». È
accompagnata da santa Maria Crocifissa di Rosa, vissuta nella prima
metà dell’Ottocento, fondatrice
delle Suore Ancelle della Carità,
che sarà presente sia prima sia durante alcune delle molte apparizioni che seguiranno. Dal 1966, per
desiderio esplicito della Madonna,
le apparizioni non avverranno più
in una chiesa, ma in piena campagna, sempre nel comune di Montichiari, nella località attuale, detta
«Fontanelle» da alcune sorgenti
che vi sgorgano . Gli incontri tra
Pierina e Maria dureranno sino agli
anni Ottanta, richiamando sempre
più persone, prima del luogo, poi di
altre zone italiane, poi di Paesi europei e infine di ogni continente.
Un’espansione del culto che ha
dell’inspiegabile: spontanea, senza
alcuna propaganda, eppure inarrestabile e in continua ascesa.
La novità dei
Diari della veggente
Come sempre, e come suo dovere,
la diocesi del luogo, in questo caso
Brescia, nel 1946 si astenne da un
giudizio sui fatti e costituì una
Commissione di inchiesta. Questa
compì, per due anni, un lavoro discontinuo e, pare, poco oggettivo a
causa di membri che, senza approfondire, pensarono a una visionaria. Alla fine, comunque, non si decise per un definitivo «Consta la
non soprannaturalità dei fatti» bensì un sospensivo «Non consta (allo
stato attuale) la soprannaturalità».
Tuttavia, l’indagine fu svolta sulla
prima fase delle apparizioni, quelle a Montichiari, ma non si indagò
mai sulla seconda fase, a Fontanelle. Sta di fatto che un gruppo di laici, convinti che Pierina dicesse la
verità e che fosse grave ignorare
messaggi dal Cielo, in questi decenni si è adoperato per il caso,
con tenacia, ma anche con grande
rispetto e indiscussa ortodossia. Di
fronte all’afflusso crescente da tutto il mondo, il vescovo Giulio Sanguineti, presule di Brescia dal
1998 al 2007, non formò nuove
commissioni, ma autorizzò alle
Fontanelle il culto a Maria Rosa
Mistica, purché non si facesse riferimento alle apparizioni. L’attuale
vescovo, mons. Luciano Monari,
non ha solo confermato il suo predecessore, ma ha istituito una Fondazione dove convivono sacerdoti
della Curia bresciana e devoti laici.
Le cose, sembra proprio, andranno
oltre, anche perché le Edizioni
Ares hanno pubblicato, in un volume di 700 pagine, i Diari inediti di
Pierina Gilli, curati da Riccardo
Il messaggio: la crisi della fede
Il volume Diari di
Pierina Gilli, curato
da Riccardo Caniato (Ares, pp. 720
con inserto a colori, Milano 2016,
euro 18), riporta
nella prima parte
gli scritti finora inediti della veggente
di Montichiari e
Fontanelle che danno conto
sia di due cicli di apparizioni
della Madonna «Rosa Mistica e Madre della Chiesa» con
messaggio pubblico sia delle
rivelazioni private (con apparizioni anche del Signore Gesù, che imprime alla Gilli alcuni segni esteriori e interni
della Passione e che le spiega
il mistero dell’Assunzione
della Vergine con due anni di
anticipo sulla proclamazione
del dogma, di santi – Maria
Crocifissa di Rosa e Giacinta
e Francesco di Fatima –, di
angeli, a cui fanno da contraltare le manifestazioni del
demonio). La Madonna, che
mette in collegamento la sua
venuta a Montichiari con le
precedenti apparizioni di Fatima e di Ghiaie di Bonate, si
presenta biancovestita e con
tre rose sul petto che simboleggiano le preghiere, le penitenze e i sacrifici graditi a Dio
in riparazione dei peccati dell’umanità presente. In particolare nel messaggio di Montichiari l’intercessione richiesta è per la Chiesa che, si dice fin dal 1947, sarebbe an-
Caniato, giornalista e scrittore
nonché studioso attento del caso.
Quei diari confermano la salute
mentale e la vita da vera cattolica
condotta dalla veggente e sono stati esaminati con interesse dallo
stesso cardinal Gerhard Mueller,
Prefetto della Dottrina della Fede.
Si va verso il riconoscimento uffi-
data incontro a
una profonda
crisi di fede con
conseguenze
morali gravi nel
comportamento
di tanti consacrati che avrebbero tradìto la
propria vocazione e vissuto senza la grazia di Dio.
Nella seconda parte del volume si raccolgono molti documenti, anche questi tutti fino
a oggi secretati, appartenenti
ai parroci e ai direttori spirituali della veggente e ad altre
persone a lei vicine (come le
suore con cui visse a Montichiari): tutte persone curiosamente non interpellate dall’autorità della Chiesa negli
anni 1947-1949, ai tempi,
cioè, della prima e unica
commissione d’inchiesta di
istituzione diocesana che ha
analizzato il caso. Chiudono
il volume alcuni saggi del biblista Enrico Rodolfo Galbiati, del mariologo Stefano
De Fiores e del Curatore del
volume che, inquadrando la
storia di Pierina Gilli e la
lunga vicenda delle apparizioni nel contesto spaziotemporale in cui si sono verificate, espongono anche le
molteplicie argomentate ragioni per le quali tutti e tre
siano giunti a esprimersi favorevolmente riguardo alla
veridicità dell’evento e alla
credibilità della Veggente.
ciale della Chiesa? Una folla crescente e cosmopolita lo desidera.
Intanto, alle Fontanelle la devozione continua con fervore sorprendente, sperando di poter passare,
un giorno, da un capannone al
grande santuario voluto dalla Vergine stessa.
Vittorio Messori
31
UNA NUOVA PUNTATA
Caro abbonato,
grazie per un altro anno trascorso con noi. Come avrà notato, abbiamo cercato di rinnovare
di mese in mese la nostra sfida culturale. Nonostante la crisi (che purtroppo perdura), abbiamo
dato il massimo per affinare sempre di più la nostra proposta.
La rinnovata veste di Studi cattolici, tutta a colori, con nuove rubriche e nuove firme, è stata
molto apprezzata dagli abbonati, che hanno anche la possibilità di ricevere in anteprima il pdf
della rivista e di consultare con un semplice click il nostro archivio digitale.
La leadership di Studi cattolici nell’opinione pubblica è testimoniata dalle frequenti citazioni
nelle principali testate nazionali e sul web.
Ormai le notizie si apprendono su Facebook, ma serve un «navigatore» per non rischiare di
smarrirsi nel surplus di informazioni (o di bufale sempre in agguato): Studi cattolici da oltre sessant’anni (un record per le riviste culturali) ha sempre offerto vivaci spunti di riflessione e di approfondimento per leggere la realtà. E continuerà a farlo a tutto campo, senza timore di remare
spesso controcorrente…
Quest’anno il catalogo Ares si è arricchito di nuovi temi e nuovi autori: dal card. Ennio Antonelli, con l’agile sussidio Per vivere l’«Amoris laetitia», alla scrittrice Marina Corradi (Con occhi di bambina), all’antologia di testi del Beato Álvaro del Portillo, curata da Gabriele Della Balda
(Figli di Dio, figli della Chiesa), alle biografie di Madre Teresa (Una matita nella mani di Dio, a
cura di Riccardo Caniato) e di padre Puglisi (Don Pino, a cura di mons. Vincenzo Bertolone e
di Salvatore Cernuzio), al best seller Come muoiono i santi, di Antonio Sicari, alle Storie del cielo
e della terra di Miriam Dubini.
Intanto, siamo diventati sempre più Social. È vero che, ahinoi, le librerie chiudono, ma internet
offre risorse e canali sorprendenti e il nostro sito www.ares.mi.it ha avuto il 60% in più di visitatori (e ci sono anche gli ebook…).
Per il 2017 l’orizzonte è ricco di novità. Ci sarà un nuovo libro di Fabrice Hadjadj, Risurrezione; e poi il sorprendente Atlante filosofico di Gianfranco Morra; il saggio di Michel Esparza
sull’Autostima; una raccolta di testi di Giambattista Torelló, Impazziti di luce, tra psicologia e
spiritualità; Chesterton e la sostanza della fede, di Paolo Gulisano... solo per citare le prime uscite
del nuovo anno.
Caro abbonato, come vede, il cantiere è sempre in fermento, ma perché sia sempre così è decisivo il suo incoraggiamento e il suo sostegno economico. Serve subito.
Nella pagina accanto sono specificate le modalità per essere con noi anche nel 2017. Contiamo
sulla sua fiducia, da oggi stesso.
Alessandro Rivali – Segretario di redazione
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DELL’AVVENTURA ARES!
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L’abbonamento (nuovo o rinnovo) a Studi cattolici costa 70 euro. L’abbonamento sostenitore è di 150 euro.
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33
FILOSOFIA
La «terza navigazione»
Il realismo metafisico quale filosofia postmoderna
Il saggio, recentemente pubblicato, di Vittorio Possenti Il realismo
e la fine della filosofia moderna
(Armando Editore, Roma 2016,
pp. 288, euro 24)1 si propone un
obiettivo ambizioso: rinnovare la
filosofia a partire da due punti fermi. Il primo è la presa d’atto che la
filosofia moderna si è ormai conclusa da decenni e che le correnti
antimetafisiche contemporanee si
stanno anch’esse esaurendo. Il secondo è la consapevolezza che
nessun altro sapere è in grado di
sostituire la filosofia, né le scienze
umane né quelle sperimentali né
la storia della cultura, poiché esse
non possono offrire soluzioni
scientifiche a problemi metascientifici quali sono quelli metafisici e inoltre è infondato l’asserto che non ci possa essere alcun
punto di vista esterno alle scienze.
La via di rinnovamento indicata
dall’autore consiste nella ripresa
della filosofia dell’essere, ossia
del realismo metafisico. «Il tragitto proposto per il pensiero postmoderno potrebbe allora suonare:
dal nichilismo teoretico alla metafisica dell’essere» (p. 8).
Il realismo è l’assunto che il concetto presenta direttamente l’oggetto senza introdurre alcuna interfaccia tra quest’ultimo e il pensiero. Il realismo si oppone specialmente all’idealismo, soprattutto hegeliano e gentiliano, secondo
cui esiste una conformità a priori
tra pensiero e realtà, sicché l’automovimento logico del primo adeguerebbe di per sé lo svolgimento
dell’ente, e al nominalismo, per il
quale «la realtà non include in sé
strutture stabili che devono essere
conosciute dalla mente, ma è il
linguaggio che struttura volta a
34
pendo Dio come libertà che precede l’essere (sicché Dio può scegliere di esistere come di non essere)
minano il concetto di atto puro e insinuano in Dio potenzialità, temporalità, divenire e contrapposizione.
Maritain
& Bontadini
volta arbitrariamente la realtà e gli
oggetti» (p. 31). Contrariamente
all’identificazione aprioristica di
logica e metafisica propria dell’idealismo e all’esito scettico del
nominalismo che nega la presa del
concetto sulla realtà, il realismo
coglie nella totalità degli enti
un’intrinseca intelligibilità e un
ordine dati e manifestati dai concetti. Ciò significa che nella realtà
vi è più che nell’idea in quanto
l’essere come esistenza è anteriore
al sapere, essendo la sorgente fondamentale di ogni intelligibilità.
«La verità è la conformità tra
l’atto dello spirito che unifica due
concetti in un giudizio, e l’esistenza di una stessa cosa in cui si
realizzano questi due concetti»
(p. 38). Infatti, l’esistere è la proprietà fondamentale dell’oggetto
su cui si innestano tutte le altre e
non va inteso come mera presenza
attuale (esserci), ma tomisticamente come atto originario d’essere che sorregge e nutre ogni altro
atto, essenza compresa.
Secondo Possenti, le metafisiche
«libertiste» come quelle di Schelling e Pareyson (1918-1991) risultano aporetiche in quanto conce-
Riguardo alla diagnosi speculativa
dell’esaurimento, con l’idealismo,
della deviazione gnoseologistica
della filosofia moderna, Possenti
riconosce che sia per Gustavo
Bontadini (1903-1990) sia per
Jacques Maritain (1882-1973) ciò
ha riaperto la possibilità di una ripresa della metafisica, ma ritiene
che la via maritainiana, che persegue tale obiettivo ricollegandosi
all’ontologia dell’Aquinate, sia
teoreticamente più valida rispetto
alla filosofia neoclassica di Bontadini, che non è né neotomista né
neoaristotelica né neoplatonica e
che, secondo lo studioso, non riesce a liberarsi del presupposto
idealistico (hegeliano e gentiliano)
dell’identità tra logica e metafisica, che allontana quest’ultima dall’esistenza reale, poiché anziché
partire dall’ente determinato e
concreto prende avvio dall’essere,
logico e astratto, escludendo l’analogia dell’ente a favore dell’univocità, tant’è vero che il neoclassicismo bontadiniano è sviluppato
da Emanuele Severino (nato nel
1929) come neoparmenidismo affermante l’eternità di ogni ente2.
Possenti ritiene che il realismo
metafisico postmoderno debba
avere come punto di riferimento
privilegiato Tommaso d’Aquino,
il cui pensiero è qualificato dallo
studioso come «terza navigazione» intesa come una conservazione dell’ontologia di Platone, di
Aristotele e del neoplatonismo e
nel contempo un loro oltrepassamento, dovuto all’ispirazione del
passo biblico di Es 3, 14 (in cui
Dio si presenta a Mosè come Colui che è), poiché da esso Tommaso ha tratto lo spunto per una metafisica creazionistica ed esistenziale e ha elaborato «una tesi molto ardita perché l’essenza già compiuta nella propria linea formale di
essenza è perfezionata o attuata da
un atto di altro ordine, che non aggiunge nulla all’essenza come insieme di caratteri intelligibili, ma
che le aggiunge tutto sul piano
dell’essere, perché la pone extra
nihil» (p. 124). La rivelazione biblica, permettendo di concepire la
creazione dal nulla e di elaborare
la nozione di essere come atto, è
stata generatrice di ragione e ha
consentito alla terza navigazione
di realizzare un progresso speculativo rispetto al pensiero greco.
La nozione tomista
di essere
Per evidenziare l’originalità di
Tommaso Possenti si sofferma sulla sua nozione di Dio quale Essere
per sé sussistente, rilevando come
essa indichi che l’essere divino è
l’atto d’essere che compete necessariamente all’infinita essenza divina, con la quale forma un’identità e che implica tutte le perfezioni
dell’essere perfettissimo, distinguendolo nettamente dall’essere
comune (in virtù del quale si può
affermare che tutti gli enti creati
sono) e da tutti gli enti creati, la cui
essenza è finita e non è identica alla loro esistenza. Infatti, l’atto
d’essere partecipato da Dio al
creato non è univoco, essendo l’atto di una determinata essenza, l’atto di esistere di un determinato individuo, sicché è intrinsecamente
differenziato, poiché l’essenza pone la propria determinazione formale che finitizza l’atto d’essere
nel momento stesso in cui lo rice-
ve e ne è attuata, differenziandolo.
Secondo Possenti, la filosofia dell’essere è filosofia della persona in
quanto l’esistenza personale è la
più alta forma d’essere. Del resto,
il divino Esse ipsum per se subsistens è la Persona suprema.
La ripresa del realismo ontologico tomista, che include il concetto di creazione, non viene realmente ostacolata dall’evoluzione
del cosmo e della vita, poiché l’evoluzione rientra nell’àmbito del
mutamento e del divenire, le cui
cause sono studiate da un campo
di ricerca diverso da quello in cui
rientra il creare come porre in
modo totale tutto l’essere di
quanto viene creato, ossia il Creatore non si comporta come causa
del mutamento. Infatti, la creazione è oggetto della teologia e della
filosofia, mentre è la scienza a occuparsi «delle leggi fisiche, chimiche, meccaniche, biologiche,
che regolano il divenire del cosmo» (p. 231). Né ha senso porre
il caso come l’originario, escludendo in tal modo il creazionismo
finalistico, poiché «prima del caso esistono le cose che saranno
soggetto al caso, e dunque rimane
in tutta la sua forza la domanda
sull’origine di tali cose» (p. 235).
«Dire che ogni agente agisce in
vista di un fine significa che
non produce un effetto qualsivoglia, ma un effetto ben determinato e proporzionato alla sua
natura: da un essere umano nasce un essere umano, da un gatto un gatto» (p. 239). Del resto,
il fine è la ragion d’essere dell’attività dell’agente. Le eccezioni
dovute al caso non invalidano il
principio di finalità, che non va ristretta a quella intenzionale, volontaria, ma sono dovute all’azione di altre linee causali che impediscono il concreto raggiungimento del fine in determinate situazioni: per esempio, la mutazione casuale può cambiare la finalità interna a un vivente, ma non la
sopprime, essendo essa stessa inserita nella sequenza causale della trasmissione ereditaria e della
selezione naturale darwiniana.
Il ritorno
all’eterno
Alla luce dell’esaurimento dell’immanentismo e dello storicismo (secondo cui la realtà e il pensiero umano sono soggetti a un divenire storico senza fine, senza
senso e senza scopo) della filosofia moderna e di numerose correnti contemporanee, Possenti propugna provocatoriamente la necessità di passare dal nietzscheano eterno ritorno al ritorno dell’eterno
connesso al rilancio della filosofia
dell’essere con il suo realismo metafisico aperto alla trascendenza.
L’eternità dell’essere, o di qualche sua forma3, è una verità indubitabile, poiché «non è pensabile un “momento” in cui l’essere abbia avuto inizio dal nulla
[...]: ciò a motivo del fatto che il
nulla è un mero ente di ragione,
che non riveste alcun indice di
realtà» (p. 260). Siccome l’essere
eterno risulta limitato solo dal nulla, che non esiste, è anche originariamente infinito nel senso metafisico dell’atto puro (immutabile).
Possenti propone altresì, nel capitolo conclusivo dello studio, una
possibile alleanza tra filosofia e
fede, sulla base del fatto che «il
realismo come metodo della filosofia è anche la spina dorsale dell’intendimento della Rivelazione»
(p. 278), nel senso che le formule
della fede non si fermano all’enunciato scritturistico, ma raggiungono la realtà stessa rivelata
(Dio). Inoltre, secondo lo studioso
l’assunto della «terza navigazione», ossia che l’ontologia di Tommaso stabilisca un punto di apogeo del pensiero umano, implica
che non sia sufficiente tornare solo ai greci e questo può risultare
fecondo per rispondere a quell’esigenza di affrontare le scottanti
odierne questioni antropologiche
sottraendole al riduzionismo del
naturalismo, nutrito di scientismo
e materialismo e mirante a una naturalizzazione della persona che fa
«regredire l’antropologia al livello
aurorale dei presocratici in cui
35
l’uomo era integralmente risolto
nella physis» (p. 284).
E il neoplatonismo
cristiano?
L’obiettivo del saggio di Possenti è
pienamente condivisibile al pari
della sua impostazione metafisica
realistica, anche se dal punto di vista storico-filosofico ritengo sia
più corretto distinguere l’innegabile originalità teoretica di Tommaso, a cui è legittimo che Possenti si
rifaccia come al suo referente privilegiato, dalla «terza navigazione» quale recezione trasformante
del pensiero greco da parte dei
pensatori cristiani per adeguarlo
alla novità della visione cristiana
del reale, che pertanto considero
operante sin dall’età patristica e
realizzata soprattutto a opera del
neoplatonismo cristiano, sia pure
in modi diversi da Tommaso4. Invece, Possenti, sebbene riconosca
che «dal lato della permanenza la
filosofia dell’essere [aristotelicotomista] costituisce, insieme al
(neo)platonismo, la più duratura
tradizione nell’organarsi millenario della filosofia nelle sue varie
fasi» (p. 83), poi esclude rapidamente il neoplatonismo cristiano
dalla trattazione sostenendo che
ben poco del nucleo speculativo
della terza navigazione sia presente in Porfirio e nel neoplatonismo
cristiano (p. 124). In particolare,
per adattare alla novità cristiana il
neoplatonismo pagano si sono
ispirati proprio a Es 3, 14 già, nel
IV sec., Gregorio di Nazianzo e
Gregorio di Nissa, Mario Vittorino
e Agostino, e nell’VIII sec. Giovanni Damasceno, che in De fide
orthodoxa, 9, definisce Dio come
un mare infinito di essere, espressione ripresa proprio da Tommaso
e citata da Possenti (p. 279). Nello
pseudo-Dionigi l’Areopagita (VI
sec.) si assiste alla forma più sistematica di adattamento della metafisica neoplatonica al cristianesimo, evidente particolarmente nella
rielaborazione del concetto di processione in ottica creazionistica,
36
trasformando tutte le mediazioni
autosussistenti tra il Principio e il
mondo in partecipazioni dell’unico
Creatore di tutto il principiato5. È
poi estremamente significativo l’esempio di Massimo il Confessore
(VII sec.), nel cui concetto di logos
la concezione platonica e quella
aristotelica sono riunite in una sintesi superiore grazie alla loro trasposizione in prospettiva cristiana:
l’essere della creatura è tanto la suprema perfezione dell’esistenza
assegnata a essa dal disegno creatore del Logos di Dio come realizzazione della sua determinazione
sovrannaturale (l’Idea platonica)
quanto la sua condizione finita (logos) di creatura in divenire e dotata di potenzialità da sviluppare
(l’essenza aristotelica). Le due
concezioni possono convivere perché designano due diversi modi di
esistere dello stesso essere creaturale. L’Idea è la causa e il fine ultimo a cui Dio originariamente ha
«chiamato» la creatura, ma questo
non impedisce di valorizzare anche la condizione finita della creatura quale esiste di fatto nel tempo
senza avere ancora del tutto attuato le proprie potenzialità; anzi, il
movimento conduce il creato verso
il suo perfezionamento, che trova
il proprio compimento nella deificazione, ossia nella sua partecipazione a Dio nella misura in cui è
possibile a una creatura. Solo questa innovazione filosofica di Massimo è capace di salvaguardare la
finitezza naturale della creatura insieme con il suo ordinamento a un
fine sovrannaturale, evitando sia
di considerare la creatura, nella sua
materialità, come una «caduta» rispetto alla perfezione del modello
sia di cancellare il confine tra natura e sovrannatura, due esiti a cui
condurrebbe l’applicazione senza
correzioni all’àmbito cristiano delle concezioni, rispettivamente, platonica e aristotelica.
A mio parere, accogliere questo
concetto più ampio di «terza navigazione» arricchisce le tesi di Possenti, poiché permette, da un lato,
di scorgere la convergenza con
l’actus essendi tomista della con-
cezione neoplatonico cristiana (di
Vittorino e di Boezio) dell’Essere
divino quale puro agire preessenziale creatore di sostanza e, dall’altro, di valorizzare la concezione realistica della dialettica propria del neoplatonismo cristiano
(per esempio anselmiano), che ne
salvaguarda il carattere di episteme, veritativo, oltrepassando il carattere di mera parte della logica
attinente l’àmbito del probabile,
ma senza scadere nelle aporie dell’hegelismo in quanto assume come «assioma» o concezione comune della mente (immediatamente evidente) di partenza l’esperienza dell’esistenza degli enti
(e la distinzione tra ente ed essere),
espressa nel II assioma boeziano
del De hebdomadibus, 15-296.
Matteo Andolfo
1
L’autore ha insegnato Filosofia morale
e politica all’Università di Venezia.
2 Anche se Bontadini rigetta le conclusioni severiniane, per Possenti il suo realismo è «assoluto», ritornando all’identificazione totale tra il pensato e il reale
propria di Parmenide, ed è anche «incompiuto» in quanto non tematizza adeguatamente il concetto di intenzionalità,
mentre ciò è indispensabile per distinguere tra l’oltrepassamento realistico
dello gnoseologismo (che recupera l’intenzionalità conoscitiva, il trasparire dell’oggetto al pensiero) e quello gentiliano
(che dissolve l’alterità dell’oggetto nello
spirito quale autoproduzione di quest’ultimo), tra loro inconciliabili.
3 L’esperienza ci presenta enti limitati e divenienti, la cui potenzialità per attuarsi implica l’esistenza di una causa totale già in
atto (l’atto puro divino) dell’essere finito.
4 Giovanni Reale parla di «terza navigazione» in rapporto ad Agostino, identificando la croce di Cristo, sulla quale, per
Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, II 3, si può attraversare il mare
della vita, con la «solida nave» connessa
a una divina rivelazione che per Platone,
Fedone, 85 D, se vi fosse, sarebbe più affidabile della zattera della ragione filosofica. Cfr G. Reale, Amore assoluto e «terza navigazione», Rusconi, Milano 1994.
5 Per approfondimenti rinvio alla mia introduzione a Dionigi, Mistica teologia e
Epistole I-V, a cura di M. Andolfo, ESD,
Bologna 2011, pp. 54-77.
6 Cfr M. Andolfo, Dialettica neoplatonica e logica aletica nel «Proslogion» anselmiano, in «Sensus communis», 23
(2016), pp. 37-90.
IDEE
Se la tecnologia prescinde dalla Verità
In uno dei suoi ultimi libri, Paolo
Prodi ha scritto che la modernità
non è altro che la trasformazione
della profezia cristiana in «utopia»
e «progetto rivoluzionario» (Paolo
Prodi, Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, Bologna 2015).
Si tratta di una nota tesi, risalente
almeno alle riflessioni proposte,
nella seconda metà del Novecento, da Karl Loewith, François Furet e Olivier Clément e che oggi si
ritrova anche in Ernst-Wolfgang
Bökenförde e in Rémi Brague.
Proprio sulla base del loro pensiero, la tesi di Prodi può venire integrata con l’osservazione secondo
la quale esiste pure una versione
debole della modernità, ma soprattutto con la consapevolezza
del fatto che tale versione condivide non solo la radice «veritativa» della modernità, ma anche la
secolarizzazione (e dunque lo
stravolgimento) di quella radice.
Meglio conosciuta col nome di
«relativismo» (e oggi dominante
sulla scena culturale), la versione
debole della modernità consiste
infatti non nella rinuncia alla verità, ma piuttosto nell’identificazione di essa con il pensiero soggettivo: prova ne sia che il relativismo
non teme di esporsi al rischio, come hanno notato Joseph Ratzinger e Zygmunt Bauman, di diventare assoluto, affermando che è
vero che la verità consiste sempre
in ciò che pensa il singolo.
Il relativismo è dunque ideologico, nel senso che fa dipendere la
verità dal pensiero umano ed è
proprio la sua filiazione dal cristianesimo a consentire di inserirlo nel novero di quelle che
Chesterton (riferendosi alle ideologie, nella loro duplice forma
totalitaria e relativista) definiva
«verità cristiane impazzite».
Al di là dello stesso
relativismo
Ma la considerazione chestertoniana circa la natura delle ideologie porta inevitabilmente a chiedersi se oggi viviamo ancora in
un’epoca ideologica e non, invece, in un contesto culturale contrassegnato dalla scelta tecnologica di fare a meno della verità.
Anche della verità relativistica,
dal momento che, per la tecnologia, la verità, ancorché relativa, è
comunque un problema scomodo: laddove le ideologie attaccavano la versione assoluta della
verità (cadendo però in una nuova forma di assolutismo), la tecnologia attacca anche la sua versione relativa e quindi cerca un
modo per fare a meno della verità tout court.
Allora, se resta altrettanto vero
che non è possibile disfarsi del
tutto della verità (a motivo del
noto adagio aristotelico secondo
cui non si sarebbe più uomini ma
tronchi d’albero), la critica diretta al cristianesimo diventa la via
obbligata della quale la tecnologia dispone per eliminare la verità: eliminare il problema eliminando ciò che lo causa.
L’unico e non secondario imprevisto? Il fatto che il cristianesimo
esiste non casualmente, ma in
quanto è l’uomo che continua ad
aver bisogno di essere salvato dal
male. Ciò che viene proposto è
dunque il progetto di eliminare
questo bisogno, attraverso una
specie di diritto alla felicità im-
mediata. Ma senza riconoscere
che, come ha di recente affermato, tra gli altri, Pierre Manent (Le
metamorfosi della città. Saggio
sulla dinamica dell’Occidente,
Rubbettino, Soveria Mannelli
2014), era stata proprio la Rivelazione cristiana ad aver introdotto
il concetto di dignità e di sacralità della persona in Occidente.
A evitare questa deriva tecnoscientifica, che Leo Strauss e
Friedrich von Hayek avrebbero
chiamato «il male endemico della politica» (il tentativo dello Stato di procurare la felicità all’uomo con mezzi esclusivamente
umani), non basta più il fatto che
«il sole e l’uomo generano ancora l’uomo» (Strauss). La pretesa
tecnologica di eliminare la sofferenza dalla vita, cercando di far
crollare ciò che costituiva il ponte naturale tra l’uomo e Dio, rischia infatti di rendere obsoleto
un realismo antropologico che si
concentri solo sulla salvaguardia
di quel ponte e che non accetti di
confrontarsi direttamente con la
questione del rapporto dell’uomo
con Cristo.
Lo Stalin immaginato da Eugenio Corti in Processo e morte di
Stalin (1962), di fronte agli uomini che si rifiutavano di essere
felici al prezzo della negazione
del proprio limite, aveva dovuto
ucciderli. Il Grande Fratello tecnologico di oggi ha trovato, come aveva già previsto Aldous
Huxley ne Il mondo nuovo
(1932), la strategia per evitare
che avvenga quel rifiuto, illudendoli di poter vivere per sempre e
(attraverso Internet) ovunque.
Giuseppe Bonvegna
37
ORIZZONTI
Questioni di «pancia» (del Paese)
Molti fatti recenti della politica
stanno riportando in primo piano
la questione di quale sia il «peso»
della massa nel funzionamento
ordinario delle odierne democrazie. La risposta deontologicamente orientata, oltre che ineccepibile, è persino ovvia. Quando la
massa si presenta in quella speciale forma di una grande comunità che, modellata dalla storia,
racchiude in sé il «popolo», essa è
la fonte di ogni potere legittimo.
E la sua volontà – come avrebbero unanimemente argomentato
già i giusperiti del Medioevo, ripetendo che quod principi placuit
habet legem vigoris – si colloca al
di sopra dell’intendimento o del
volere di chicchessia.
Non appena, però, dal piano del
«dover essere» ci si sposti a
quello della «realtà qual è» (o
«quale appare»), la risposta tende a divenire meno univoca e
impeccabile. Tanto che, per tener fede alla prima senza risultare credenti troppo tiepidi o insicuri, quest’altra è costretta a tener conto di tutta una serie di
elementi vecchi e nuovi, che, fra
loro congiunti, dinnanzi ai nostri
occhi tratteggiano con lineamenti solo lievemente diversi la
figura antica e formidabile (anche se paventata con sincerità da
non molti, per vero) della «tirannia della maggioranza».
Nel profluvio di commenti e analisi sgorgato dai risultati inattesi
(dalla gran parte dei professionisti di simili commenti e analisi,
quantomeno) del referendum
Brexit, delle elezioni presidenziali americane, del referendum sulle modifiche alla Costituzione
italiana, qua e là è affiorata la
38
preoccupazione che non sempre
la «ragione dei più» veda meglio
o meno imperfettamente quale
sia il bene autentico, o anche soltanto l’interesse, di una comunità. Ed è persino tornato a riemergere, quasi del tutto inopinatamente, il vecchissimo dilemma
cui proprio sulle pagine di questa
rivista, nella scia delle riflessioni
di Edoardo Ruffini e dei suoi studi sul principio maggioritario, si
era fatto cenno due numeri fa,
prefigurando i tempi pieni di incognite e angustie (per il Paese)
che di norma accompagnano il
disegno di un «nuovo» sistema
elettorale, votato a riequilibrare
governabilità e rappresentatività:
il dilemma o il mai sopito conflitto, cioè, tra il criterio «quantitativo» e il criterio «qualitativo»
nella determinazione di una decisione collettiva.
Non bisogna farsi trarre in inganno dal fatto che simili dubbi assalgano anche i più puri e coerenti
sostenitori della «ragione dei
più», allorquando – come può
comprensibilmente succedere – la
propria personale «ragione» deve
ammettere di avere perso perché
minoritaria. Occorre invece pre-
stare attenzione (a mio giudizio,
almeno) a un diverso e più pericoloso fatto, ossia al radicarsi della
convinzione che le ragioni della
maggioranza della massa siano diventate non già «inconoscibili»,
bensì «non conosciute» e colpevolmente «non capite» da chi ha il
dovere di sforzarsi di conoscerle e
capirle. In sostanza, ed esclusivamente, da parte del ceto politico
dominante o della sua frazione (al
momento) più significativa.
Perché una simile convinzione,
impedendosi di allungare lo
sguardo sugli orizzonti possibili
della democrazia, sia alquanto
pericolosa per le sorti stesse di un
regime democratico, si cercherà
di considerarlo meglio fra breve.
Mediocrità d’idee
& di linguaggio
È per ora più opportuno osservare in quale modo, nei vinti come
nei vincitori, il convincimento
stia mettendo radici. E si sia ormai saldamente annidato in quella sempre più abusata immagine
della «pancia» del popolo italiano, che, se non cercasse di allu-
dere (pur semplicisticamente, e
anche un po’ volgarmente) a una
serie di fenomeni nient’affatto
destinati a svanire all’improvviso, proficuamente potrebbe fornire lo spunto per qualche divagazione intorno alla mediocrità
d’idee e di linguaggio in cui ristagna il nostro Paese.
Benché infatti trascuri, o ignori
del tutto, ciò che della pancia di
ogni individuo e delle sue principali funzioni ha freddamente descritto già il Regimen Sanitatis
Salernitanum, l’elementare immagine è certamente dotata di
una sua evocativa plasticità. Lo
è, in particolare, quando con essa
s’intendano raggrumare i differenti «umori» cui il cittadinoelettore riesce finalmente a dare
sfogo, deponendo – con volontà
di protesta e dispetto, o come gesto ultimo di resistenza alla rassegnazione – la propria scheda
nell’urna di una votazione. E tuttavia l’immagine non riesce a nascondere i due perniciosi errori,
su cui è costruita e da cui, pretendendo di equipararsi all’effettivo
«stato del Paese», vorrebbe distogliere l’attenzione.
Due errori
perniciosi
Il primo errore consiste nel ritenere, o quantomeno nel confidare
con un eccesso di ottimismo, che
la «conoscenza» di quello che la
maggioranza della massa lascia
depositare nel proprio voto, quasi fosse il residuo comune e più
significativo di convincimenti,
opinioni e risentimenti irriducibilmente individuali, di per sé
basti a rendere più probabile la
«costruzione» di una confacente
risposta (politica). Ma – già lo insegnava un disincantato osservatore della politica come Maurice
Duverger – la volontà di un popolo è profondamente anarchica.
Quando la «pancia» di un Paese
sembra inascoltata da un ceto
rappresentativo-elettivo sempre
meno in grado di intendere che
cosa stia ribollendo in essa, solitamente stanno per comparire
contro-classi politiche, pronte a
impedire (o ad allargare il proprio seguito, comportandosi come se volessero impedire) che
l’«anarchismo» della massa sospinga quest’ultima, non appena
si accorga di essere abbandonata
a sé stessa, ancora una volta e
d’istinto a dirigersi – come invece costatava, al riguardo, Gustav
Le Bon – verso una peggiore e
più esecrabile servitù.
L’altro errore consegue per gran
parte al primo; ma, se si traguarda
al futuro incombente sulla democrazia, risulta di gran lunga più
minaccioso. Riassunto in termini
pur stringati e semplificati, esso
prende la sua forma maggiormente diffusa nel convincimento che
gli «umori» della volontà popolare
(o tutto ciò che determina il malessere della «pancia» del Paese) siano in rapporto diretto e pressoché
esclusivo con inadempienze, croniche insufficienze o palesi nequizie della politica. E che, pertanto,
la pur mai appagata ricerca della
più confacente «risposta» politica
con cui incanalarli, neutralizzarli o
modificarli, debba continuare a
prevalere su ogni altro sforzo.
«Agenzie sociali»
latitanti
Come questi «umori» si siano
originariamente formati, e perché
– ecco l’aspetto più importante –
siano riusciti a espandersi sino al
punto di confondersi con lo «stato» reale del Paese, resta invece
una questione secondaria. Così
come rimane ai margini, ignorata
o rimossa, la questione delle ragioni per cui la grandissima parte
di quelle che i manuali di sociologia ancora denominano «agenzie sociali» sembrino sempre più
inerti nell’esercizio stesso delle
loro funzioni e responsabilità.
Non per caso, però, gli «umori»
hanno incominciato a propagarsi
e la «pancia» è diventata sin troppo minacciosamente importante
nella sua vera o presunta inconoscibilità, da quando tali agenzie –
da quelle settorialmente più specifiche perché orientate al perseguimento di interessi determinati
e frazionali, a quelle vocate a finalità assai più ampie e alte –
hanno visto declinare (o hanno
scelto di esercitare in modo differente) la loro funzione «educativa» nei confronti di singoli e
gruppi. Sebbene assai più durature di quelle politiche, le élite sociali del nostro Paese hanno
smesso di costituire un «punto di
riferimento» (per ricorrere a
un’usurata espressione) della società o di parti larghe e significative di quest’ultima. Hanno dismesso o ridotto al lumicino, soprattutto, il loro «ufficio» di
provvedere a quella speciale, difficile e importantissima forma di
educazione, che è l’«educazione
alla leadership». E rischiano, così, di auto-emarginarsi ulteriormente, rimettendo alla sola politica (e alla sua opinabile capacità
di saper corrispondere alla «pancia» del Paese) ogni aspettativa
di miglioramento del presente.
Poiché il domani affidabile di
una democrazia poggia sulla responsabilità e sulla capacità di
visione di queste élite sociali almeno in misura pari alle classi
politiche, l’argomento sarà da riprendere non frettolosamente. Intanto, sperando che nell’anno da
poco incominciato non si susseguano troppi scossoni da attribuire ogni volta all’ignoranza di che
cosa si agiti nella «pancia» del
Paese, la sconfortante previsione
che ci toccherà assistere nuovamente a giochi partitici di scarsissima attrattività pubblica può
essere (forse) in parte addolcita,
estendendo al teatro della politica
ciò che con realismo annotava
uno storico e poligrafo lombardo
di quattro secoli fa. E cioè che
«su questo nostro teatro della vita umana recitano i mortali una
commedia, che, in fondo, patisce
grandemente d’uniformità e monotonia».
Lorenzo Ornaghi
39
INTERVISTE
Presente & futuro del sindacato
Colloquio con Marco Bentivogli, segretario generale FIM-CISL
È giudizio fondato che la Clinton sia stata battuta per aver perso in grandi Stati
con alcune delle maggiori industrie meccaniche degli USA colpite dalla crisi che
ha investito l’Occidente. Fatto che ha pure ridotto in quegli Stati l’influenza delle centrali sindacali, che da decenni orientavano il voto a favore dei democratici.
La crisi in Occidente è dovuta soprattutto all’impatto della mondializzazione sulle componenti finanziarie e commerciali delle imprese e all’incidenza crescente
dell’informatica e dell’alta tecnologia nei processi produttivi, che hanno depotenziato molti dei modi di essere e di operare tradizionali degli imprenditori e delle organizzazioni dei lavoratori. Questi fatti – e il rinnovo a dicembre del contratto nazionale dei metalmeccanici che ha confermato il valore degli indirizzi essenziali della FIM-CISL – rende particolarmente attuali le considerazioni di Marco
Bentivogli, dal 2014 giovane Segretario generale nazionale della Federazione Metalmeccanici della CISL, nella conversazione con Nicola Guiso. Anche perché prima di diventarne segretario Bentivogli aveva creato nella FIM-CISL una rete di giovani convinti che il sindacato debba tornare a essere «un luogo pubblico delle migliori aspirazioni dei giovani», spesso trascurate e non rappresentate dalle organizzazioni dei lavoratori. Bentivogli – a fianco dell’allora segretario della FIM-CISL,
Giuseppe Farina nella dura vertenza con Marchionne, che ha salvato e rilanciato
lo stabilimento FIAT di Pomigliano e la competitività a livello internazionale della
FCA, avendo contro anche la FIOM-CGIL di Landini e la Camusso – ha esposto le
sue analisi, i suoi giudizi e le sue proposte sul futuro del sindacato nel libro Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato (Castelvecchi, Roma 2016, pp. 203, euro 16,50): libro di lettura obbligata per tanti politici, «esperti», intellettuali e giornalisti che trattano spesso questioni sindacali con
presunzione inversamente proporzionale alla loro conoscenza dei fatti.
l Quali sono i modi di essere e di
operare dei sindacati tradizionali non più adeguati ai nuovi problemi di vita e di lavoro creati
dalle radicali trasformazioni nei
commerci, le finanze e le strutture produttive nell’Occidente
avanzato? Nel libro ho provato a
dare una risposta centrata sulla riscoperta delle radici etiche del sindacato. Premesso, però, che se non
dobbiamo essere autoindulgenti
sugli errori del passato, non dobbiamo neppure accettare generalizzazioni – molto diffuse – che
vogliono inchiodarci a quegli errori. È su questo terreno che ha preso forma la «disintermediazione»:
tentazione coltivata da vasti settori
della classe politica che però sta
40
perdendo vigore, come dimostrano
importanti accordi sindacali (pensioni e pubblico impiego) firmati
di recente. Comunque, è evidente
che in materia l’enfasi retorica attorno ai diritti si è rivelata strumento a volte usato a tutela di pochi a scapito dei diritti di tutti. Se
vogliamo tornare a «promuovere
insieme la giustizia» dobbiamo
dunque separare i «furbetti» da chi
ogni giorno compie il proprio dovere. L’abuso dei diritti porta, infatti, prima o poi, alla loro caduta o
al loro ridimensionamento. Ecco
perché nel libro parlo di tre «R»,
iniziali di tre tipi di scelte per riportare il sindacato alla sua essenza: scelte Radicali, Rigenerative,
Rifondative. La nostra società ha
bisogno di un sindacato che torni a
essere uno spazio in cui vengono
espresse le energie migliori, aperto, inclusivo, veicolo di promozione sociale e di speranza. L’alternativa è lasciare ai vocianti populisti
di destra e di sinistra di rappresentare l’angoscia sociale di tante persone. La caccia al consenso facile,
anche se va bene, aggrava le situazioni. Aggiungo che la globalizzazione, pur con non pochi punti
oscuri, anche per molti sindacalisti, ha costituito un alibi facile.
Lungo il crinale della globalizzazione infatti, ricordiamolo sempre,
si sviluppa l’innovazione tecnologica, che rappresenta un’opportunità prima che un rischio. È il caso
di «Industry 4.0»: ne abbiamo parlato per primi e ci davano dei futurologi, poi si sono resi conto che è
il paradigma della nuova industria.
E solo uno degli esempi possibili,
ma che dimostra come per il sindacato sia vitale impegnarsi a guidare il cambiamento, altrimenti finisce per rassegnarsi allo «sconfittismo operaio»; retorica di retroguardia, che mina il tessuto delle
organizzazioni, e lascia più soli i
lavoratori. Non diamo retta ai profeti di sventura, come li chiamava
Giovanni XXIII. Le rivoluzioni
che hanno segnato la storia dell’industria hanno sempre modificato
la geografia del lavoro. Ma grazie
all’aumento della produttività hanno anche permesso – pur attraverso processi non indolori – di indirizzare le energie verso nuove attività, e di elevare le condizioni di
vita e di lavoro. Infine, stare dentro
al cambiamento significa tenere lo
sguardo aperto al mondo, a partire
dalle realtà più vive del sindacalismo internazionale.
Rendere il lavoratore
protagonista
l Nei sindacati di matrice solidarista e riformista, quale la CISL,
quali elementi della propria tradizione potrebbero essere valorizzati al fine di dare alle organizzazioni dei lavoratori una
centralità nei processi di sviluppo della società e delle istituzioni? La CISL e la FIM hanno sempre
messo nel loro agire in primo piano
la persona. Visione giusta, ora tornata di grande attualità in virtù delle trasformazioni che stanno rivoluzionando l’economia e non solo
l’industria. La rivoluzione digitale,
parte fondamentale della quarta rivoluzione industriale, cambia la
prospettiva con cui si collocano lavoratori e lavoro. La FIM-CISL da
tempo propone la concezione del
lavoratore protagonista, che veda
valorizzato il suo contributo creativo; dunque non più di ingranaggio
anodino, ma di attore partecipe e
responsabile. Ciò è in linea con una
concezione più corretta della società e dell’«economia contributiva»,
come la definisce il sociologo
Mauro Magatti. Tanto che molti
sottolineano un’evoluzione in senso «artigiano» dell’impresa che
gradualmente rimpiazza il paradigma tayloristico. Prende corpo dunque una dimensione di fabbrica
quale comunità che si struttura sul
principio di relazione e di istituzione «plurale» e creativa, assai più
vicina dunque ai dettami della Dottrina sociale della Chiesa di quanto
non lo fossero le sue forme precedenti, spesso imperniate su ideologie materialistiche ed economicistiche, ancora peraltro diffuse. Il
sindacato è dunque chiamato a sviluppare il suo profilo «generativo»,
mettendo al centro della propria
azione la persona; e riscoprendo la
propria vena di soggetto educatore
alla cittadinanza attiva proponendo
riforme che servono al Paese.
l Ispirandosi al Codice di Camaldoli, la CISL ha sempre considerato essenziale la contrattazio-
ne aziendale come quella nazionale. È l’indirizzo che ha seguito
la FIM-CISL nel confronto con
Marchionne sul futuro della
FIAT; e da Lei in vertenze quali
quelle con Whirpool-Indesit, ILVA, AST, ALCOA? Fin dal congresso di Ladispoli del 1953 abbiamo
considerato la contrattazione di secondo livello il fulcro della nostra
azione sindacale. È solo nelle
aziende infatti che si sperimenta,
che si innovano i processi produttivi e si creano le condizioni per la
crescita del capitale umano. Il fondamento di questa impostazione è
l’apporto dato dal cattolicesimo
politico e sociale di un pensiero
forte solidarista e personalista. Il
Codice di Camaldoli è a fondamento dell’economia sociale di
mercato che nel secondo dopoguerra ha messo solide radici in Italia, con De Gasperi, Vanoni e Saraceno, e in Germania con Konrad
Adenauer, Ludwig Erhard e Wilhelm Ropke. Senza dimenticare i
contributi delle correnti laiche, socialiste e riformiste. Questo indirizzo della CISL ha dato vita a una cultura organizzativa segnata da
un’«eccezionalità» nel panorama
sindacale italiano ed europeo. Ed è
proprio da questa cultura che sono
derivati alcuni dei tratti distintivi –
autonomia dalla politica, scelta associativa, vocazione contrattualista
– che hanno fatto della CISL il sindacato pluralista e riformista che
conosciamo. Di questo DNA fa parte, lo dicevo prima, anche la sua
costante apertura verso tutte le realtà del sindacalismo internazionale,
una tradizione per noi attuale. Basta ricordare l’attenzione, di ieri e
di oggi, verso il modello di sindacalismo americano, che ha alimentato e affinato spunti importanti e
anticipatori della visione «istituzionale» della CISL (mai però corporativa) del sindacato. Questa ricchezza di contenuti e prospettive ci ha
consentito di superare molti momenti difficili. E sono convinto che
alla fine ci guiderà anche fuori dalla crisi economica e sociale di questi anni. In presenza della quale,
comunque, il sindacato ha il dove-
Marco Bentivogli, autore di
Abbiamo rovinato l’Italia?, a
difesa del ruolo del sindacato.
re del realismo: ricordiamoci del
Luciano Lama della «svolta dell’Eur» del 1978. Sacrificare ogni
obiettivo alla lotta alla disoccupazione è un imperativo valido anche
ai nostri giorni. Gli accordi che abbiamo sottoscritto con Marchionne
hanno salvato l’industria dell’auto
in Italia; e accettando la sfida della
produttività, hanno posto le basi
per gli investimenti di cui oggi raccogliamo i frutti con le assunzioni a
Cassino e a Melfi. Non tutti però l’hanno capito. Le resistenze di una
parte del sindacato, quelle di certi
politici e di molti sedicenti intellettuali dimostrano le difficoltà in
questo Paese ad accettare la sfida
del cambiamento.
Divergenze con
CGIL & FIOM
l Come spiega l’ostilità, più o
meno mascherata, sulla contrattazione aziendale della FIOM di
Landini e della Camusso, Segretaria Generale della CGIL? La
CGIL – da sempre – ha temuto che
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la contrattazione aziendale minasse
l’eguaglianza dei e tra i lavoratori.
Per noi, invece, la fabbrica non è
pregiudizialmente il luogo del conflitto tra lavoro e capitale (come si
sarebbe detto un tempo), ma il luogo della cooperazione tra lavoratori (organizzati in sindacati responsabili) e imprenditori che investono
e innovano. Nel nostro DNA c’è la
partecipazione, non il conflitto.
Cosa che peraltro non significa certo non difendere i lavoratori da cattive gestioni datoriali. Anzi, comporta di essere più duri verso di esse per creare quel clima di coinvolgimento vero che serve ai lavoratori, ma anche alle imprese. Se una
fabbrica chiude evaporano diritti e
salari ma, il più delle volte, anche i
profitti. La fine delle ideologie, sepolte sotto i muri della guerra fredda, ha fatto spesso della conflittualità un’arma di agitazione retorica e
propagandistica, senza agganci
nella realtà politica ed economica.
Fatto che ha prodotto disorientamento tra i lavoratori, più evidente
laddove l’impostazione conflittuale delle relazioni industriali aveva
radici più robuste. Si è parlato molto di lavoratori della FIOM che al
Nord votano per la Lega! È per
questo credo non vi sia altro modo
per assicurare coesione sociale ed
efficienza alle fabbriche se non
quello basato sulla partecipazione.
Lo ripeto: forse non sono ancora i
più in Italia i convinti sostenitori
della contrattazione di secondo livello, tra gli imprenditori e nella
parte più ideologica e pigra del sindacato.
do questo processo di differenziazione, abbia continuato negli
ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categorie generali, è stato
un grave errore»? Quel brano di
Di Vittorio. Conquiste del lavoro, il
quotidiano della CISL, lo ripubblicò
nel 2009, dopo l’accordo con Confindustria sul modello contrattuale
che la CGIL non firmò, accompagnandolo con un breve scritto di
Pietro Merli Brandini, il cui titolo E
se fosse Di Vittorio a metterci d’accordo? era di per sé significativo.
Oltre a Di Vittorio anche Lama e
Trentin, leader della CGIL, hanno
riconosciuto i potenziali positivi
della contrattazione aziendale. Ma
non tutti la pensavano come loro
nell’organizzazione. Il caso che citi mi consente di precisare il mio
pensiero sul tema dell’unità: non
deve essere un feticcio da agitare,
ma uno strumento per migliorare le
condizioni di vita dei lavoratori. È
quello che abbiamo fatto con il
contratto da poco rinnovato – e ratificato in fabbrica, con referendum, dai lavoratori con oltre l’80%
dei voti – firmato anche dalla FIOM
che si era invece sfilata dagli ultimi
due rinnovi. Con pazienza, ma anche con coraggio, abbiamo mediato, abbiamo cercato una sintesi tra
posizioni in partenza molto lontane, sempre nel rispetto delle persone e delle loro idee: è così che abbiamo firmato un contratto unitario, considerato come una svolta
non solo per il settore, ma per le relazioni industriali nel nostro Paese.
l Una mia curiosità: parlando
con Landini e la Camusso di contrattazione aziendale ha capito se
hanno letto e ricordano che nel
1955 Di Vittorio – in vista del IV
congresso della CGIL – ha detto
che «compito fondamentale che
incombe a ogni sindacato è quello di ottenere i più alti salari possibili in ogni azienda e in ogni settore, tenendo conto che esistono
limiti differenti da azienda ad
azienda dello stesso settore [...]. E
il fatto che la CGIL, sottovalutan-
Il nuovo contratto
l Quali sono i punti essenziali
del nuovo contratto? Devo ricordare innanzitutto che è stato
definito «di svolta» dai più autorevoli giuslavoristi italiani. È un
contratto che punta in particolare,
come ho detto, a mettere al centro
le persone con gli strumenti del
welfare, della formazione e della
partecipazione. Si punta a colma-
re il gap di competenze che caratterizza su questi punti i lavoratori
del nostro Paese con l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione (24 ore annuali o, in alternativa, 300 euro a disposizione
dei lavoratori delle aziende che
non svolgono corsi). Si compie
così un passo deciso verso la
smart factory, il modello di «Industry 4.0» che promette in breve
tempo di riconfigurare i rapporti
tra lavoratori e imprese fuori dallo schema del conflitto in un’ottica nuova di partecipazione, potenziando le competenze. Il diritto soggettivo alla formazione è da
tempo uno dei punti qualificanti
della visione della FIM-CISL, che
lo considera il principale elemento di tutela del lavoro (dopo naturalmente il diritto alla salute e alla sicurezza) specie ora che la rivoluzione digitale bussa con forza
alle porte della nostra industria.
Per il sindacato questa è un’opportunità, ma anche una sfida. La
fine dell’era della produzione di
massa e l’affermarsi di un modello che associa beni e servizi in
una logica – per così dire – «sartoriale». Tale cioè da consentire
agli addetti di gestire almeno in
parte i processi con programmazione molto anticipata; quindi con
una quota via via più rilevante di
smart working a caratterizzare
l’organizzazione del lavoro, che
impone anche a noi di pensare a
una rappresentanza nuova e «su
misura». In questo quadro va letta
anche la riforma dell’inquadramento professionale (fermo al
1973) il cui scopo è di passare
gradualmente da un sistema rigido sulle mansioni a uno calibrato
in modo più flessibile sulle fasce
e sulle aree professionali. L’obiettivo di mettere al centro della contrattazione le persone e le loro esigenze è evidente anche nelle novità introdotte dal contratto in materia di welfare aziendale. Pur se –
com’è ovvio – le misure di detassazione e decontribuzione varate
dal governo con l’ultima manovra
hanno giocato un ruolo importante nell’indirizzare le scelte al ta-
volo di trattativa. Di qui l’opzione
di puntare su una serie di flexible
benefit (per esempio, buoni benzina, spese scolastiche, carrello della spesa, ecc.) per un importo significativo (100 euro nel 2017,
150 nel 2018 e 200 nel 2019)
completamente detassato. Va ricordato che se si fosse deciso di
erogare la stessa cifra sotto forma
di salario di primo livello ai lavoratori in busta paga sarebbero arrivati solo 58 euro; mentre con la
contrattazione di secondo livello
la cifra sarebbe sì aumentata (a 85
euro), ma sarebbe rimasta comunque inferiore. Per la prima volta,
inoltre, viene introdotto – con i
Comitati consultivi di partecipazione – il coinvolgimento del sindacato e dei lavoratori nelle scelte
strategiche aziendali. Toccherà
poi alle ridefinite Commissioni e
Osservatori a livello territoriale di
lavorare, a partire anche da buone
prassi esistenti, per diffondere la
contrattazione aziendale in tutte le
imprese in cui oggi non viene
svolta. La vera svolta culturale sarà dunque questa: far capire a tutti gli imprenditori che pure al fine
di aumentare la produttività e migliorare la competitività aziendale, il nuovo paradigma si ridisegna attorno alla partecipazione e
ai feedback dei lavoratori.
l Con imprenditori sensibili ai
modi nuovi di rapportarsi ai dipendenti è possibile cercare nuove vie nella contrattazione aziendale che riguardino, per esempio, la casa; gli spostamenti casalavoro; l’istruzione; la qualificazione professionale e una migliore tutela sanitaria anche per i famigliari? In premessa credo di poter dire che il capitalismo familistico italiano ha vissuto due fasi:
quella dei padri «pancia a terra in
fabbrica» e quella dei figli «pancia
all’aria a Formentera». Anche a
prescindere dalla battuta, spesso le
seconde generazioni hanno fallito:
non hanno saputo innovare, hanno
diversificato puntando sulle rendite, hanno investito sulla politica invece che sulle aziende cercando di
socializzare le perdite. Noi ci siamo sforzati in questi anni, collaborando con la parte più moderna del
mondo imprenditoriale, di apportare innovazioni e di farle passare nei
contratti. È il caso dello smart working, che dopo alcuni importanti
accordi aziendali ha trovato spazio
nel contratto nazionale. È il caso,
ancora più rilevante, dell’evoluzione in materia di welfare integrativo. L’intesa con Federmeccanica
rafforza infatti sanità integrativa e
previdenza complementare. La prima verrà estesa a tutti i lavoratori e
ai famigliari, che si vedranno azzerare il contributo al fondo Metasalute. In questo modo il nostro si avvia a diventare uno dei più grandi
fondi europei. La seconda, essenziale a supportare il reddito dei lavoratori all’indomani del ritiro (in
particolare per i giovani, che rischiano di percepire, specie nei casi di impiego discontinuo, assegni
pari ad appena la metà dell’ultima
retribuzione), viene anch’essa irrobustita grazie all’aumento dall’1,6
al 2% del contributo a carico delle
imprese. Ci tengo a sottolineare
che tutte queste nuove conquiste
hanno senso se inserite in un disegno di partecipazione. E non solo
alla vita di fabbrica, nel contrattare
con l’azienda su flessibilità, organizzazione del lavoro, salario di
produttività, ma anche alle scelte
strategiche. Su questo punto, con il
contratto si introducono per la prima volta i Comitati consultivi nelle grandi aziende: un risultato di
cui siamo fieri.
L’importanza della
stabilità politica
l Come giudica i rapporti avuti in passato dai sindacati con
la politica e con le istituzioni;
quelli che sarebbe necessario
avessero nel nostro tempo, e il
valore della stabilità dei governi per superare i fattori di crisi
economica e sociale? Parto dall’ultima parte della domanda. In
Italia non solo il Sindacato
avrebbe bisogno di stabilità poli-
tica: negli ultimi 70 anni si sono
succeduti 64 Governi e l’instabilità ha prodotto rallentamenti e
blocchi in riforme non più rinviabili. L’esempio dell’ultimo referendum sulla Costituzione è emblematico. Noi continuiamo a ritenere che sia urgente superare il
bicameralismo perfetto e soprattutto il mostro del Titolo V che
sta paralizzando il Paese, acuendo le disuguaglianze in particolare tra Nord e Sud e frammentando le politiche su energia, infrastrutture, tutela socio-sanitaria,
commercio estero, piattaforme
informatiche ecc. In materia,
uscire dalle logiche paralizzanti
del passato richiede coesione sociale, ascolto e coinvolgimento
attivo delle persone, anche per
sottrarle alle suggestioni dei populismi di destra e di sinistra. Su
questo la FIM-CISL è impegnata
con determinazione. All’azione
contrattuale affianchiamo un’azione educativa e sociale, assieme al mondo dell’associazionismo civile che condivide i nostri
valori e il nostro impegno: dal
Voto col Portafoglio dell’economista Leonardo Becchetti e
NEXT, alla lotta alla criminalità
organizzata al fianco di NCO
(Nuova cooperazione organizzata), dalla lotta contro il gioco
d’azzardo con lo SLOTMOB, alla
collaborazione con Cesare Moreno e i Maestri di Strada. Sono però contrario alla confusione dei
ruoli. Ognuno deve saper fare bene la propria parte, lontano da
collateralismi e da «cinghie di
trasmissione» di cui qualcuno in
passato ha abusato. Ovviamente,
l’autonomia non significa distacco dall’insieme della realtà. Pertanto il sindacato deve avere un
interesse costante, oltre che per il
lavoro, per tutto ciò che lo coinvolge; e dire quel che pensa, senza paura di impopolarità, recuperando la sua naturale spinta educativa che può rappresentare una
grande occasione di consapevolezza diffusa e di partecipazione.
Nicola Guiso
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ESTERI
Le sanzioni favoriscono Putin
Da qualche tempo la metro di Mosca è diventata una grande pagina
aperta sulle glorie patrie. Sulle pareti interne dei vagoni, non più
cartelloni pubblicitari, ma esaltazione della vittoria del 1945 nella
«Grande guerra patriottica»: grandi pannelli con dati, cifre, episodi,
foto di eroi e di battaglie del conflitto in cui la Russia ebbe venti
milioni di morti. Ai piedi del
Cremlino, inaugurato di recente
un gigantesco monumento al principe e santo Vladimir, che nell’anno 988, regnando a Kiev, introdusse il cristianesimo nel principato kievano, la allora Rus, da cui
sorsero poi la Russia e l’Ucraina.
Per questo Vladimir è esaltato
quale espressione dello spirito
russo benché abbia regnato a
Kiev. Ma il suo battesimo personale lo aveva ricevuto a Cherson,
sulle coste della Crimea, e ciò accresce l’identificazione russa con
lui, o di lui con la Russia. E intanto, in provincia, si erigono monumenti a Ivan il Terribile, Ivan
«grozny», quintessenza di Russia,
terrore e fervore religioso, lotte di
potere e crisi mistiche, senso nazionale e proiezione di fede.
Le sanzioni occidentali alla Russia per la crisi ucraina hanno l’effetto di favorire Putin nel suo
obiettivo principale, dopo aver rimesso in riga gli oligarchi e aver
riportato ordine interno fermando
spinte centrifughe: far uscire la
Russia dalla frustrazione e dalle
umiliazioni seguite al crollo dell’Unione Sovietica, e costruire
uno spirito di orgoglio e unità nazionale. Di qui la fiorente collaborazione con la Chiesa, l’esaltazione della vittoria nella guerra mondiale ben più di quanto avveniva
44
in età sovietica, l’assertività davanti agli Stati Uniti e alla NATO,
l’annessione della Crimea con sostegno ai separatisti in Ucraina,
l’intervento in Siria.
Le sanzioni dell’Occidente facilitano il suo compito. La Russia si
sente sotto assedio, e le divisioni
interne scompaiono. Le poche e
isolate voci critiche tacciono. La
popolarità di Putin resta stabile
sull’80 per cento. Si è creato così
uno stato d’animo collettivo che
favorisce l’ambizione di Putin di
ricreare un senso di identità e di
fierezza nazionale che riscatti le
umiliazioni degli anni immediatamente post-sovietici.
Ritorno ai valori
russi pre-sovietici
La festa nazionale proclamata per
il 4 novembre (cacciata di polacchi invasori nel Seicento), in sostituzione del 7 novembre bolscevico, per anni è stata quasi ignorata,
ma nel 2016 è stata celebrata con
particolare enfasi. A Mosca è stata
organizzata una grande mostra al
Maneggio, maggior sede espositiva, dal titolo «La mia storia: 19452016»: la vittoria nella guerra quale fonte di legittimità, la ricostruzione, la fine del sistema sovietico,
il ritorno alla Russia e ai suoi valori pre-sovietici. Con gran solennità, è stato inaugurato un gigantesco monumento al principe Vladimir, eretto ai piedi del Cremlino:
una statua imponente, alta 17 metri. Sintesi di trono e altare, il santo principe è raffigurato nell’atto
di levare in alto con il braccio destro una grande croce, impugnando con la sinistra uno spadone.
Presenti mezzo governo, tra cui il
ministro della Difesa, esponenti di
tutte le religioni e il patriarca Kirill
a dispensare benedizioni, il monumento è stato inaugurato da Vladimir Putin con un discorso pieno di
significati. Esaltazione della Russia cristiana e della sua unità nel
cristianesimo: «L’epoca del principe Vladimir è segnata da molti
successi, il maggiore dei quali è il
battesimo della Russia. Questa
scelta è la comune fonte spirituale
per i popoli di Russia, Bielorussia
e Ucraina, il fondamento dei nostri
valori. Grazie a questo solido fondamento morale, l’unità e la solidarietà, i nostri antenati hanno potuto superare le difficoltà e raggiungere vittorie per la gloria della patria». Difficoltà nel presente:
«Il nostro dovere oggi è operare
uniti nel fronteggiare sfide e minacce contemporanee, contando
sui nostri princìpi spirituali». Monito a divisioni etnico-religiose e
spinte centrifughe: «Vladimir è
stato un santo e condottiero che
pose le fondamenta per uno Stato
forte, unito, centralizzato, in cui
differenti popoli, lingue, culture e
religioni si uniscono in un’unica,
grande famiglia».
Anche il patriarca Kirill ha esaltato l’aspetto nazionale del santo
principe: «Se Vladimir non avesse
portato il cristianesimo alla Rus,
non avremmo avuto la Rus, né la
Russia, né il potere dell’ortodossia
russa, né il grande impero russo,
né la Russia moderna. Questo monumento al principe Vladimir è il
simbolo dell’unità di tutti i popoli
dei quali egli è padre. Questi sono
i popoli della storica Rus, che attualmente vivono all’interno di
molti Paesi». Qui il patriarca si ri-
ferisce agli ucraini, uno dei «popoli della storica Rus», che comprende anche la Bielorussia. Kiev,
su cui Vladimir regnava, non è
stata nominata nei discorsi inaugurali. Ma l’Ucraina e la sua capitale incombevano su tutto, soprattutto considerando che a Kiev
svetta dal 1853, da allora storico
simbolo cittadino, un colossale
monumento al principe santo, alto
20 metri, dominante da un’altura
la città e il fiume Dnepr che la attraversa. L’Ucraina non poteva
quindi restare indifferente, e tra le
molte reazioni vi è quella, emotiva
oltre che politica, del presidente
Petro Poroshenko che accusa Mosca di revisionismo storico: «Al
Cremlino, vicino a Lenin, hanno
inaugurato un monumento al nostro principe di Kiev, Vladimir.
Questo è un altro tentativo di ibrida appropriazione della storia».
In verità, nella cerimonia moscovita si è avuto un richiamo alla storia
recente, non solo a quella di miti e
leggende della Rus. L’invito a una
riflessione non solo su Vladimir,
ma sulla Russia contemporanea, è
venuto da Natalia Solzhenitsyn, invitata d’onore, vedova del grande
scrittore, che denunciando le efferatezze comuniste coltivava la visione religiosa e patriottica di una
Russia riconciliata con sé stessa
dopo la bufera sovietica: «Il Ventesimo secolo è stato di grandi sofferenze per la Russia. Due guerre
mondiali, una guerra civile, la collettivizzazione, il Gulag. Il giudizio sul passato è una maggior controversia. Impariamo dal principe
Vladimir. Egli si guardò indietro
nella sua vita, riconobbe i propri
sbagli, prese tutto il buono che la
vita gli aveva donato e risolutamente si girò verso la luce. Anche
noi dobbiamo fare così. [...] Dobbiamo avere il coraggio di condannare il male, non giustificarlo, o
mettere sotto il tappeto la sua memoria. Col battesimo, Vladimir
dette alla Rus la fede, la quale insegna che Dio è nella verità, non
nel potere. Salvaguardiamo i nostri
valori e purezza di spirito. Il futuro
della Patria dipende da questo».
Vladimir Putin
La presenza della moglie di
Solzhenitsyn in questa cerimonia
quale oratore ufficiale indica come nell’ondata patriottica Putin
voglia essere inclusivo. Far rivivere e rafforzare il senso di identità e spirito nazionale è la sua maggior ambizione. Le sanzioni occidentali lo facilitano in questo, ma
il rischio è che dal senso di nazione si vada oltre, si alimenti il nazionalismo già serpeggiante. Lo
straniero occidentale che risiede a
Mosca non avverte il minimo segno di ostilità o malanimo con
l’uomo della strada nei contatti
personali, nella vita quotidiana.
Malgrado le sanzioni, Mosca resta
città accogliente, senza il minimo
segnale di tensione nei rapporti
interpersonali verso gli occidentali, benché il senso di patriottismo
perseguito da Putin, santificato
col monumento a Vladimir, sia in
crescita, palpabile. È un patriottismo fuso con la religione, un messianesimo con senso di destino
per la Russia quale guardiano di
cristianità, investita della missione di protezione della fede, fino a
un nazionalismo religioso.
Pericoloso revival
di Ivan il Terribile
È un sentire collettivo che suscita
anche fughe in pagine buie della
storia russa. La città di Oriol, negli stessi giorni del festeggiamento moscovita, ha eretto un monumento a Ivan il Terribile, che l’ha
fondata nel Cinquecento, e che fu
il primo a prendersi il titolo di Zar
proclamando Mosca «Terza Roma», dopo la prima e Costantinopoli. Da Bisanzio vengono i simboli del principato di Mosca, il
globo con croce e scettro, e da
Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore bizantino, antenato della moglie di Ivan, arriva
l’imperiale aquila bicipite. Alta 8
metri, la statua raffigura Ivan a cavallo, e anche lui, come Vladimir,
impugna la croce e la spada. L’inaugurazione è avvenuta in un tripudio di bandiere zariste, nere e
gialle. Un altro monumento a Ivan
il Terribile è in preparazione ad
Alexandrov, città dove si stabilì
per alcuni anni con i suoi scherani, i temibili opricniki. A Mosca,
vi sono proposte di intitolargli una
grande arteria.
Se Vladimir è figura che unisce,
Ivan, miscela di crudeltà e crisi
mistiche, è controverso: si impose
sui boiardi, sconfisse tartari, lituani e cavalieri teutonici; ma fu
principe del terrore, con crudeli
stragi, arrivando a uccidere il proprio figlioletto e i costruttori della
chiesa di San Basilio sulla Piazza
Rossa perché non ne costruissero
altre. Troppo, in lui, è uno Stalin
in anticipo. Onorarlo, sia pure in
provincia, è un brutto segnale, come la tolleranza verso gruppi di
estrema destra o di nazional bolscevichi. Il patriottismo perseguito da Putin e irrobustito senza volerlo dalle sanzioni occidentali,
potrebbe diventare nazionalismo,
minando stabilità interna e internazionale.
Fernando Mezzetti
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TERRORISMO
Il conflitto Israeliani-Palestinesi
La morte di Shimon Peres, avvenuta a settembre dello scorso anno
(2016), ha richiamato l’attenzione
sulla centralità geopolitica della
questione palestinese nel contesto
degli equilibri mediorientali. Siamo ormai abituati a convivere con
la convinzione che non sia possibile un accordo che ponga fine alla
contesa fra Israeliani e Palestinesi,
una patologia che ormai è diventata fisiologica. Le iniziative di mediazione di Paesi terzi o di organizzazioni internazionali si scontrano
con la difficoltà concreta di trovare
soluzioni che abbiano le potenzialità per assicurare oggettivamente un
assetto equo dei rispettivi interessi.
Tesi contrapposte
per una pace giusta
Da un punto di vista politicamente
neutro le motivazioni addotte dagli
Israeliani e dai Palestinesi per giustificare le rispettive posizioni sulla
questione appaiono entrambe meritevoli di considerazione: da una
parte gli Ebrei rivendicano la regione dalla quale sono stati storicamente cacciati, dall’altra i Palestinesi reclamano i territori che hanno
perso a seguito della nascita di
Israele. In proposito si ricorda che
l’assetto stabilito dalla Risoluzione
dell’Onu n. 181 del 1947, denominata «Piano di partizione della Palestina», ebbe un’attuazione solo
parziale in quanto determinò esclusivamente la nascita di Israele, i cui
confini poi subirono modifiche a
seguito delle successive vicende
belliche, che hanno generato una
escalation senza ritorno: come disse Shimon Peres con un’efficace
metafora, con le uova si può fare
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una frittata, ma dalla frittata non si
può tornare alle uova.
Questo conflitto quindi non ha natura religiosa, come in qualche occasione è stato erroneamente ritenuto, ma si fonda su pretese territoriali che hanno come corollario
la gestione della difficile convivenza all’interno dello Stato di
Israele fra le etnie di origine araba
ed ebraica. Più in particolare vi è
incertezza sulle frontiere che dovrebbero delimitare i territori sotto la giurisdizione di Israele e sullo status da attribuire alla Palestina. Gli Israeliani cercano di far
prevalere le loro mire espansionistiche attraverso l’occupazione di
territori (militare o mediante insediamenti). La resistenza palestinese si avvale, come strumento di intimidazione, dell’azione terroristica di gruppi armati; le opzioni
strategiche dei leader palestinesi
sono state sempre più impegnate a
danneggiare Israele piuttosto che
a porre positivamente le premesse
per una reale indipendenza.
La comune aspirazione a una pace
giusta sembra insidiata dalla difficoltà di fissare i contenuti di una
composizione degli interessi contrapposti ritenuta equa da entrambe
le etnie. Ragionando in termini
pragmatici, l’unica soluzione possibile sembra che possa consistere
nella coesistenza di due Stati, ovvero nella creazione di uno Stato
palestinese accanto a quello a maggioranza ebraica: tuttavia, l’istituzione dello Stato palestinese impone a Israele la rinuncia ai territori
occupati e a parte della giurisdizione su Gerusalemme (in particolare
sulla città vecchia e sulla spianata
delle moschee). Questa soluzione è
particolarmente osteggiata dalle
frange più nazionaliste e conservatrici della società israeliana. In realtà la costituzione di uno Stato palestinese potrebbe perseguire anche
l’interesse dei cittadini israeliani,
stanchi di vivere perennemente sotto assedio e desiderosi di offrire ai
propri figli un futuro di pace: infatti, la costituzione di uno Stato palestinese sembra essere in concreto
l’unica alternativa a una condizione di eterna belligeranza.
Ovviamente, intrapresa questa opzione, non sarà facile fissare i contenuti del relativo accordo. Come
spesso accade in queste circostanze, uno degli ostacoli con cui dovranno misurarsi le rispettive diplomazie consisterà nel far accettare i sacrifici imposti dalla composizione della vertenza alla propria
base popolare, sempre particolarmente attenta e sensibile a qualsiasi imposizione che comporti rinunce di sovranità. La realtà israeliana
non è monoliticamente e aprioristicamente antiaraba, ma è animata
da diversificate componenti che si
contrappongono in un dibattito democratico vivace e articolato. Si
nota una frattura fra le istituzioni
governative e la gente comune.
Mentre alcune componenti politiche persistono nel mantenere una
linea rigida che rifiuta compromessi, una parte crescente degli israeliani è sempre più provata dalla
precarietà. Conseguentemente dalla società civile israeliana emergono segnali che sono espressione del
desiderio di una pacifica convivenza interetnica e interreligiosa.
Alcuni esempi. A pochi chilometri
da Abu Gosh – sulla via per Emmaus, il villaggio in cui Cristo si rivelò dopo la Resurrezione – sta sorgendo Saxum, un centro residen-
ziale e multimediale, nel quale saranno ospitati fedeli di tutte le religioni per una comune esperienza
spirituale. È particolarmente significativo che all’edificazione del
Centro partecipino, lavorando in
armonia fianco a fianco, Ebrei e
Arabi, Musulmani e Cristiani. A
pochi chilometri dal muro che divide Gerusalemme da Betlemme si
trova l’ospedale pediatrico Caritas
Baby, che ha accettato la sfida e
l’impegno di curare tutti i bambini,
senza differenze fra ebrei e palestinesi. Potrebbe sembrare normale
prestare assistenza a malati non tenendo conto dell’appartenenza etnica o religiosa, ma non lo è in questa terra dilaniata dall’odio. Le attività sanitarie dell’ospedale, compreso il pagamento mensile dei salari, sono sostenute dalla generosità
di singoli cittadini e da quella di associazioni e organizzazioni anche
di altri Paesi. In questa prospettiva
di pace sta assumendo un’importanza centrale l’Associazione SISO
(Save Israel - Stop the Occupation).
Il progetto politico
del movimento SISO
SISO è un movimento, fondato nel
2015, che intende favorire con mirate iniziative una soluzione negoziata del conflitto fra Ebrei e Palestinesi. SISO afferma il carattere
prioritario del ritiro di Israele dai
territori occupati e auspica la costituzione di uno Stato palestinese.
Questa posizione, poiché potrebbe
sembrare il corollario di un’opzione filo-araba o filo-palestinese, è
minoritaria nell’àmbito dell’opinione pubblica israeliana. In realtà,
gli obiettivi del movimento non sono motivati da scelte di carattere
politico, ma esclusivamente da una
visione pragmatica. I tempi sono
maturi per il generale riconoscimento di Israele da parte di tutta la
comunità internazionale, ma la sua
piena legittimità è condizionata
dalle evoluzioni della questione palestinese. La costituzione di uno
Stato indipendente che assicuri
l’autodeterminazione del popolo
Abu Mazen-Netanyahu: un confronto difficile.
palestinese dovrebbe avere come
conseguenza anche una normalizzazione della vita civile israeliana,
che potrà quotidianamente articolarsi in un contesto di sicurezza, democrazia e prosperità. Il movimento – che si avvale del sostegno di
molte personalità israeliane, da
quelle del mondo scientifico a
quelle impegnate nella politica e
nella cultura – intende sviluppare la
propria azione su due direttive: oltre a promuovere iniziative avvalendosi delle potenzialità mediatiche, si propone come centro di coordinamento e di raccordo delle attività dei gruppi che operano per
una svolta pacifica del conflitto.
Recentemente il movimento SISO
ha diffuso un appello di 500 note
personalità israeliane (intellettuali,
politici, diplomatici, scienziati, attivisti per la pace). L’appello si rivolge anche agli Ebrei della diaspora
affinché, solidarizzando con gli
Israeliani, intraprendano un’azione
coordinata che ponga fine alla politica dell’occupazione dei territori.
L’appello va nella direzione opposta dei piani rigidi e intransigenti
dell’attuale governo israeliano, che
non sembra riflettere pienamente il
comune sentire della base popolare: infatti dai sondaggi e dalle analisi della stampa che hanno preceduto le ultime elezioni nel Paese si
evince che il successo del leader
Netanyahu è stato determinato
maggiormente dal timore degli
Israeliani per le incertezze di un
eventuale e auspicato cambiamento di linea politica, piuttosto che da
un reale convincimento circa l’opportunità di sostenere i desueti propositi del conservatore Likud. Naturalmente la realizzazione delle
prospettive di pace richiede anche
la cooperazione dei Palestinesi, che
devono uscire dal tunnel dell’odio
indiscriminato nei confronti di
Israele. Le iniziative di SISO stimolano un dibattito sul futuro di Israele libero da posizioni preconcette:
nell’incipit dell’appello di cui si è
accennato in precedenza si legge:
«Se ti interessa Israele, il silenzio
non è più un’opzione». Come in
passato la solidarietà degli Ebrei ha
consentito la nascita e lo sviluppo
di uno Stato ebraico, oggi l’alleanza fra gli Ebrei israeliani e quelli
della diaspora potrebbe costituire
uno strumento adeguato a consentire a Israele di ritrovare la sua anima democratica e di riaffermare
con coerenza i suoi fondamenti
morali. Inoltre potranno essere
contrastati con efficacia i pregiudizi della comunità internazionale e
gli impatti negativi sull’opinione
pubblica alimentati dal perdurare
del conflitto con i Palestinesi.
L’attuale crisi
mediorientale
Alla fine di novembre dello scorso
anno (2016) sulle Alture del Golan,
al confine con la Siria, c’è stato il
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Obama-Trump: due visioni opposte.
primo scontro fra l’esercito israeliano e combattenti dello Stato Islamico; in particolare alcuni terroristi
sono stati uccisi dopo aver attaccato una pattuglia di militari. Gli
Israeliani hanno risposto bombardando alcune postazioni dell’Isis,
uccidendo miliziani fondamentalisti. L’aggressione ai soldati israeliani probabilmente è stata decisa
in autonomia da appartenenti del
gruppo «Shuhada al Yarmouk»,
che ha giurato fedeltà all’Isis e che
opera in una stretta fascia di territorio al confine tra Siria e Israele. Come è noto, Israele si è impossessato nel 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, delle Alture del
Golan, che allora erano in territorio
siriano. Nonostante la reciproca
ostilità fra Israele e lo Stato Islamico, lo scontro di novembre deve essere considerato un caso isolato, in
quanto sia Israele e sia lo Stato Islamico non hanno mai ritenuto opportuno aprire un fronte l’uno contro l’altro. Peraltro Israele ha sempre accuratamente evitato il proprio coinvolgimento nella guerra
siriana: questa opzione ha una duplice motivazione. Innanzitutto il
governo di Gerusalemme ha sempre ricercato in maniera discreta
buoni rapporti con l’asse sunnita al
fine di controllare la minaccia siriana, conservando tuttavia nello stesso tempo una posizione neutra ed
equidistante nella contesa fra Sciiti
e Sunniti. Inoltre Israele, per tenere
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elevata la sua deterrenza militare
nei confronti dei nemici storici,
evita le iniziative belliche che possano incidere negativamente sulla
sua reputazione di rivale temibile,
lucido e determinato nel contrastare qualsiasi aggressione alla sua
esistenza. In conclusione, per supportare questa dissuasività strumentale alla propria autodifesa,
Israele è sempre rimasto fuori dai
conflitti di difficile gestione e a esito incerto se non interessano direttamente la sua integrità territoriale.
Il Congresso di Fatha
& la risoluzione ONU
A dicembre dello scorso anno
(2016) si è tenuto il Congresso Nazionale di Fatha, il partito che rappresenta la maggioranza del movimento palestinese (l’ultima assise
risale al 2014). Al riguardo non è
emersa una leadership diversa ed è
stato confermato al vertice il plenipotenziario ottantenne Abu Mazen,
che cumula su di sé anche le attribuzioni di dirigente dell’OLP e di
capo dell’Autorità Palestinese. La
sua linea è sempre stata finalizzata
con scarso successo a ottenere dalle Nazioni Unite il riconoscimento
dello Stato palestinese, che al momento nell’Onu è solo «Stato osservatore non membro». Abu Mazen si è sempre in concreto dimostrato incapace di contrastare la po-
litica di occupazione del governo
israeliano. Il Congresso nell’occasione ha riconfermato il sostegno al
Piano Arabo di Pace, che, promosso dai Sauditi e approvato dalla Lega Araba (2002), prevede che tutti
gli Stati islamici riconoscano Israele, se Israele restituisce i territori
occupati nel ’67, se consente la formazione di uno Stato palestinese
con capitale Gerusalemme Est, se
accetta una soluzione «equa e concordata del problema dei rifugiati».
Il 23 dicembre scorso (2016) il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una Risoluzione, sollecitata dalla Nuova Zelanda, dalla Malesia, dal Senegal e
dal Venezuela, che chiede al Governo di Israele di «interrompere ogni
attività» di incremento di insediamenti nei cosiddetti «territori occupati» e a Gerusalemme est, giudicando l’occupazione «senza validità legale» e dannosa per l’auspicato
processo di pace. A favore della Risoluzione hanno votato 14 Paesi su
15 (Membri del Consiglio di Sicurezza), mentre gli Stati Uniti hanno
deciso di astenersi. In proposito, la
Rappresentante Permanente degli
Stati Uniti alle Nazioni Unite, Samantha Power, ha precisato che è
contraddittorio promuovere iniziative per un accordo fra le due etnie
e nello stesso tempo tollerare la politica di ampliamento degli insediamenti. La Risoluzione, anche se ha
creato molto rumore soprattutto per
la dura reazione israeliana, ribadisce semplicemente quanto già in
passato questo consesso internazionale aveva affermato, ovvero l’illiceità della politica espansionistica
israeliana. L’astensione statunitense
è stata fortemente criticata dall’attuale Primo Ministro israeliano Netanyahu che ha definito «vergognosa» la Risoluzione, precisando che
non osserverà la richiesta contenuta
nella determinazione del Consiglio
«di interrompere ogni attività». Il
leader israeliano ha inoltre aggiunto di confidare nell’imminente inizio del mandato presidenziale USA
di Donald Trump, che si insedierà a
fine gennaio. Le preannunciate posizioni di Trump, a cominciare dal-
l’amicizia con Putin e dal sostegno
alla Siria di Assad, determineranno
grandi cambiamenti negli equilibri
mediorientali.
Il carattere aggressivo della reazione di Benjamin Netanyahu probabilmente fa affidamento sul possibile appoggio del prossimo presidente americano, come peraltro si
evince indirettamente dalle sue
stesse parole. Tuttavia, se è certo
che Trump rafforzerà l’amicizia
americana con Israele, non è altrettanto sicuro che questo atteggiamento si spingerà fino a condividere la desueta e anacronistica linea
politica del Likud al momento al
potere nello Stato Ebraico, considerato anche il carattere molto volubile delle esternazioni del neopresidente USA. Il Segretario di
Stato USA John Kerry in un discorso dai toni forti tenuto il successivo
28 dicembre, pur confermando l’amicizia nei confronti di Israele, ha
censurato gli insediamenti israeliani nei territori occupati precisando
che queste iniziative, alimentando
tensioni fra Israele e l’Autorità Palestinese, ostacolano gravemente il
processo di pace in Medio Oriente,
che sembra avere come unico possibile obiettivo finale la costituzione di due Stati, ovvero quello palestinese accanto a quello israeliano.
Quel perenne
clima di stallo
Come sostiene il professor Daniel
Bar-Tal1, i contrasti fra Ebrei e Palestinesi appartengono alla categoria dei conflitti irrisolti. Questa tipologia è integrata da contrapposizioni che hanno un carattere radicale in quanto le parti percepiscono i
relativi interessi del tutto incompatibili e inconciliabili fra di loro;
conseguentemente le rispettive soggettività politiche non sono disponibili a compromessi. Il carattere
permanente di gravi attriti etnici,
quindi, è determinato dall’oggettiva
difficoltà di trovare soluzioni. Spesso i conflitti irrisolti, per il loro carattere politico, travalicano i confini
locali e possono esercitare effetti
destabilizzanti a livello internazionale. Il confronto fra Israeliani e Palestinesi – che non può essere ricondotto solo a un contrasto fra diverse confessioni, cioè fra ebrei e
musulmani, né a una guerra fra due
popoli – ha una natura estremamente composita e complessa, in quanto in esso, oltre a componenti di carattere religioso ed etnico, confluiscono elementi che incidono su
equilibri geopolitici, mondiali e regionali, e che sono mutuati da
aspetti antropologici, storici e culturali. Per le implicazioni transnazionali la soluzione di questo conflitto va oltre la mera riconciliazione tra i due popoli. Hamas, l’organizzazione estremista politico-religiosa palestinese, giustifica le proprie iniziative terroristiche contro
Israele definendole una modalità
necessaria per difendere i propri
territori dall’aggressione sionista.
Israele rivendica invece il diritto di
occupare nuovi territori per insediare comunità, motivando questi intenti espansionistici anche con una
generale carenza abitativa. Israeliani e Palestinesi rivendicano inoltre
per opposti motivi la legittimità delle loro pretese di sovranità su Gerusalemme. Quest’ultima ambizione
ha anche una matrice religiosa: Gerusalemme è la terza città sacra dell’Islam dopo La Mecca e Medina,
mentre il nome della metropoli in
ebraico significa letteralmente il
luogo dove apparirà il Messia.
Le scelte strategiche di Israeliani e
Palestinesi, oltre ad avere margini
di illegalità, si traducono in concreti ostacoli a prospettive di pace.
C’è una chiara asimmetria fra gli
attori di questi negoziati. Israele è
uno Stato moderno e solido; il popolo palestinese non ha invece una
chiara soggettività politica, né un
esercito regolare, e con difficoltà
individua una leadership pienamente rappresentativa e plenipotenziaria. La rispettiva propaganda
interna delle due parti, già a cominciare dai testi scolastici, demonizza il nemico descrivendolo come un interlocutore crudele, sanguinario, e soprattutto disinteressato a una composizione pacifica
della vertenza. Nell’immaginario
collettivo degli Israeliani tutti i Palestinesi sono terroristi, mentre in
quello dei Palestinesi tutti gli Israeliani sono oppressori e usurpatori.
Fortunatamente non mancano in
entrambi i fronti personalità moderate che auspicano la tolleranza e
l’accettazione dell’altro.
Sia la società israeliana sia quella
palestinese hanno molti problemi
interni che influiscono negativamente sulla definizione della propria identità: l’esistenza di un nemico esterno distoglie dai problemi
interni e contribuisce all’unificazione e al rafforzamento del sentimento nazionale. C’è ancora una
lunga strada da fare; sicuramente il
prossimo probabile mutamento di
molti equilibri internazionali conseguenti all’insediamento del neo
presidente americano Trump ha le
potenzialità per avere ripercussioni
sulla questione. Gli approfondimenti e le analisi del prof. Daniel
Bar-Tal e di altri studiosi israeliani
sugli aspetti che rendono irrisolto
questo conflitto non sono mere
speculazioni o un contributo intellettuale alla democrazia israeliana,
ma hanno importanti risvolti pratici, in quanto sono finalizzati all’individuazione delle barriere sociopsicologiche che impediscono a
Israele di intraprendere un cammino di pace. Essere consapevoli di
questi ostacoli è il presupposto per
il loro superamento e per l’individuazione di azioni concrete la cui
attuazione potrà essere congiuntamente concertata in un eventuale
tavolo negoziale. In proposito, Shimon Peres amava dire: «Non è vero che non c’è luce in fondo al tunnel in Medio Oriente. Tutt’altro, la
luce c’è. Il problema è che non c’è
il tunnel...».
Roberto Rapaccini
1 Il prof. Daniel Bar-Tal è docente emerito di
Psicologia politica all’Università di Tel Aviv. Dal 2000 al 2005 è stato direttore dell’Istituto di ricerca Walter Lebach per la coesistenza tra arabi ed ebrei attraverso l’educazione»; dal 2001 al 2005 è stato condirettore del Palestine Israel Journal; dal 1999 al
2000 è stato Presidente della «Società Internazionale di Psicologia della Politica».
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LETTURE/128
Zaccuri, Spaggiari, Montale
Col nuovo romanzo, Lo spregio
(Marsilio, Venezia 2016, pp. 126,
euro 16), Alessandro Zaccuri si
ricollega al suo primo, fortunato
romanzo, Il signor figlio (Mondadori 2007, Premio selezione
Campiello). È il rapporto generazionale che da sempre assilla lo
scrittore, e qui la narrazione è
prosciugata, compatta, un po’ à
la Borges, come raccontando al
lettore una storia
che prima era
stata raccontata
all’autore.
Il tema è violento. Il ragazzo
Angelo Morelli,
di dieci anni,
adora suo padre,
il Moro, titolare
di una trattorialocanda al confine svizzero. Il
ragazzo, nell’estate del 1993, è
particolarmente felice perché il
padre gli ha concesso di stare alla cassa, a distribuire il resto ai
clienti. È un passo importante
nell’iniziazione, e Angelo dà corpo ai suoi sogni.
Se non che Vito, un compagno di
scuola, oltretutto figlio del brigadiere Lomunno, gli fa una rivelazione raccapricciante: «Lo sanno
tutti che tuo padre è un ladro, e
che se la fa con i contrabbandieri. Avete pure le puttane in casa,
avete. E il caffè vostro sa di veleno». È il crollo di un mondo. Angelo collega alcuni indizi e scopre che Vito ha proprio detto la
verità. Il padre, però, ha una reazione inattesa: convoca il brigadiere Lomunno che costringe il
figlio, che ha vistosi segni di
50
schiaffoni in faccia, a chiedere
scusa ad Angelo.
Inattesa è anche la reazione di
Angelo: trasforma in competizione l’ammirazione verso il padre,
impara a sua volta a chiedere la
tangente ai contrabbandieri, scopre il nascondiglio in cui è conservata la roba, e si avvia a una
luminosa e parallela carriera di
delinquente. Testimone muta è la
madre, Giustina, cuoca mite e
amorosa, succuba del marito che
l’ha costretta a dirsi madre di Angelo, che invece era stato raccolto in fasce dal Moro spacciandolo per figlio suo. Di questo retroscena è informato il lettore, mentre Angelo è il solo a non conoscere la propria origine, e non la
saprà mai. Questo è un particolare un po’ inverosimile, dato che
difficilmente un paese così piccolo avrebbe saputo mantenere
un simile segreto, ma se Angelo
fosse stato al corrente di non essere vero figlio del Moro e di
Giustina, Zaccuri avrebbe dovuto
scrivere un libro diverso.
La carriera delinquenziale di Angelo, ormai giovanottello, si accelera attraverso l’amicizia con Salvo, figlio di don Ciccio, mafioso in
soggiorno obbligato con tutta la
famiglia. Salvo spende e spande,
scarrozza in macchina Angelo, gli
insegna a portare abiti di marca, lo
porta al casinò, per non parlare
delle avventure con le ragazze.
Angelo si stanca presto di fare il
gregario ed entra in emulazione
con Salvo. Quando costui trafuga
una preziosa statua marmorea di
san Michele, acquistando agli occhi del padre l’ingresso nell’età
adulta, Angelo progetta la rivalsa. Si procura un san Michele
meccanico, che apre le ali con
strepito di ferraglie e lo colloca
accanto alla trattoria per fare una
sorpresa a Salvo, ma avviene l’irreparabile. Salvo e don Ciccio
non tollerano che Angelo abbia
voluto mostrare superiorità con
una statua, peraltro kitsch, più alta della loro: è lo spregio immedicabile, che costringerà alla
vendetta, crudelissima vendetta.
Zaccuri racconta a ciglio asciutto
questa storia spietata, ed è abilissimo nel riportare la psicologia
paradossale dei mafiosi, che non
indietreggiano davanti al delitto,
eppure conservano una religiosità
apparentemente sincera: sono davvero devoti a san Michele. E sono
ben tracciati anche i fili che legano
la connivenza tra certi finanzieri, i
contrabbandieri e i mafiosi.
Una storia dura, come si vede,
eppure avvincente nel denunciare, senza perorazioni e compiacenze, il male in quanto male.
Una quisquilia: a pagina 78, don
Ciccio «sfilò la stoffa [che ricopriva la statua di san Michele]
con un solo gesto, sicuro e misurato. Sembrava il torero quando
fa roteare la mantiglia davanti alla bestia già spossata». La mantiglia (mantilla) è il velo di seta o
di pizzo che le donne spagnole in
costume tradizionale portano sul
capo, fermandolo con la peineta.
Il torero fa roteare la capa (o capote) all’inizio della lidia.
Ingegnosa
canaglia
Lunedì 19 luglio 1976 la Francia
si svegliò con una notizia di cronaca che aveva dell’incredibile: nel
weekend il caveau delle cassette
di sicurezza della Société Générale di Nizza era stato svuotato. La
mente di quella che fu subito denominata «la rapina del secolo» –
un bottino di oltre cento milioni di
franchi, in gioielli e contanti – era
Albert Spaggiari, singolarissimo
avventuriero cosmopolita.
Era nato in Provenza nel 1932,
orfano di padre da quando non
aveva ancora tre anni, ebbe
un’infanzia triste. A diciott’anni
si arruolò volontario per combattere in Indocina. Arrestato nel
1954 per un furto a Saigon, venne rilasciato tre anni dopo. Da subito prese contatti con l’estremismo di destra francese, militando
nell’OAS
(Organisation
de
l’armée
secrète),
contraria
all’indipendenza
dell’Algeria.
Nel
1961 tentò
perfino di
assassinare Charles
De Gaulle. Arrestato l’anno dopo
per altri motivi connessi alle attività dell’OAS, viene rilasciato nel
1965 e si trasferisce a Nizza
aprendo un negozio fotografico.
Ma non era tagliato per una vita
piccolo borghese: con la rabbia
del perdente che mai si arrende,
architettò la grande rapina come
estrema avventura.
Un personaggio simile interessò
tangenzialmente anche Ken Follet; la «rapina del secolo» ispirò
libri e film. Ma come andarono
esattamente le cose? Finalmente il
pubblico italiano può leggere Le
fogne del Paradiso, a cura di Carlos D’Ercole, il resoconto autobiografico che Spaggiari scrisse a
ridosso degli avvenimenti, nel
1977, pubblicato in Francia qualche anno dopo. La traduzione è di
Jacopo Ricciardi per la Oaks Editrice, nella collana «Ribelli» dell’eclettico Luca Gallesi (Milano
2016, pp. 224, euro 18; postfazione di Tomaso Staiti di Cuddia).
Il libro è attanagliante. Nessuno
avrebbe potuto immaginare una
storia come quella, se non fosse
vera. Spaggiari racconta passo
dopo passo com’è stata architettata quell’impossibile impresa,
costruita su elementi casuali e su
incontri fortuiti che si strutturano
in un disegno implacabile. Il colpo fu eseguito dalla collaborazione fra due squadre di criminali
professionalmente abilissimi:
quella di Spaggiari, assortita di
elementi stravaganti e solidali, e
quella di Pierre, altrettanto e forse ancor più pittoresca. Gente che
non aveva nulla da perdere, affascinata da quel «Paradiso» di denaro, da conquistare con quattro
e più mesi d’Inferno nelle fogne
di Nizza, scavando un cunicolo
per arrivare fino al muro del caveau, immersi nella melma (eufemismo), assaliti dai topi, fra
momenti di euforia alternati a
crisi di sconforto. Spaggiari non
l’ha fatto per il bottino: certo, i
soldi sono importanti ed egli seppe utilizzarli, ma era l’avventura
per l’avventura a motivarlo, in
una sorta di superomismo nichilista autodistruttivo, in tacita competizione con Pierre: «Era un duro Pierre, un tipo che aveva afferrato il suo destino alla gola. Io
l’avevo afferrato per la cintura.
Non è la stessa cosa».
Spaggiari si rivela grandissimo
scrittore: i caratteri sono scolpiti,
il ritmo non dà tregua. Con gergalismi e parolacce, inevitabili
nel mondo a parte della malavita,
con le sue regole e i suoi slanci,
in cui la solidarietà, pur nel male,
si colora di amicizia.
Spaggiari fu arrestato il 27 ottobre 1976 a seguito della delazione dell’individuo – lui lo chiama
l’Ectoplasma – che pur l’aveva
messo in contatto con Pierre. Il
10 maggio dell’anno successivo,
durante un interrogatorio, saltò
dalla finestra dello studio del giudice: con un volo di otto metri,
rimbalzò sul tetto di un’auto parcheggiata e poi via, sulla moto
rombante del fido Biki, l’amico
dall’allure di Tuareg. Riuscì a far
perdere le sue tracce, riparò in
America Latina. Staiti di Cuddia
lo incontrò in Brasile. Nel giugno
1989 chiamò la madre dall’Italia
(o forse dall’Austria) per annunciarle di essere gravemente malato. La «simpatica canaglia», come lo chiama Stenio Solinas, morirà il 10 giugno di quell’anno.
Nel caveau rapinato aveva lasciato un cartello: «Senza odio, senza
violenza e senza armi».
Ancora sul «Diario
postumo»
Con Montale non è mai finita, e
adesso si aggiunge un Montale di
Enrico Testa, rielaborazione aggiornata di precedenti scritti, con
pretesa di «un nuovo sguardo su
Montale» (Le
Monnier-Università, Firenze 2016, pp.
160, euro 14).
L’autore, che
insegna Storia della lingua italiana
nell’Università di Genova, ha scelto
una «narrazione» che
affianca dati
biografici e testi montaliani, ottenendo leggibilità per chi si accosta, ignaro, all’universo montaliano, appunto come accade agli
studenti.
Didatticamente articolato in cinque capitoli come il corpus montaliano (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro, Satura,
«La vecchiaia del poeta») contiene utili riflessioni, come la valorizzazione della lirica Incontro
(negli Ossi), non senza qualche
amnesia. Per esempio, Testa ricorda che Montale aveva dichiarato a Leone Piccioni di aver ottenuto nel 1929 la direzione del
Gabinetto Vieusseux di Firenze
perché senza tessera fascista (per
51
un capriccio del podestà di Firenze, Giuseppe Della Gherardesca),
e di averla perduta dieci anni dopo per lo stesso motivo. Testa però non aggiunge che Montale, a
suo tempo, la tessera l’aveva
chiesta al Duce, ma non gli era
stata concessa per beghe tra i fascisti fiorentini. Il che non toglie
nulla alla grandezza del poeta.
Dove però Testa cade è nella liquidazione del Diario postumo di
Montale, curato da Annalisa Cima. Evidentemente, egli non ha
studiato l’argomento, anzi, dice
esplicitamente di non sentirsi
d’affrontare la questione dell’autenticità del Diario «che quindi
assai volentieri – vista l’irrilevanza e mediocrità dei testi –
mettiamo da parte». Cita però il
convegno organizzato da Federico Condello all’Università di Bologna nel 2014, per asserire l’inautenticità del Diario. Per dimostrare la mancanza di rigore
metodologico e forse la malafede
(le due ipotesi non si escludono)
del Condello, basti ricordare che
tutto il convegno è stato organizzato all’insaputa di Annalisa Cima, alla quale non sono stati
chiesti gli originali delle poesie
contestate, e costruendo una
macchina del fango sulla base di
scampoli giornalistici e di perizie
grafologiche parziali, condotte su
fotocopie. Testa, evidentemente,
non ha letto gli Atti del seminario
di Lugano del 24-26 ottobre
1997, con interventi di Rosanna
Bettarini, Guido Bezzola, Piero
Bigongiari, Maria Corti, Oreste
Macrì, Alessandro Parronchi,
Giuseppe Savoca, Andrea Zanzotto, Marco Forti e altri, fra i
quali Maria Antonietta Grignani
che oggi affianca Condello mentre allora propendeva per l’autenticità. A Lugano furono esposti
gli autografi di Montale, comprese le buste notarili contenenti le
poesie, buste della cui esistenza
Condello dubita.
In quella sede Annalisa Cima smascherò Dante Isella che aveva sollevato la questione dell’inautenticità dopo che inizialmente era di
52
opposto parere. Il motivo piscologico è che la Cima non volle affidare a Isella la prefazione al Diario postumo, preferendogli – come
da volere di Montale – l’apparato
critico di Rosanna Bettarini, la filologa che con Gianfranco Contini
(ormai in vecchiaia) aveva curato
tutta l’Opera in versi di Montale,
peraltro utilizzata da Giorgio
Zampa nei «Meridiani» mondadoriani. Per una cronistoria della vicenda, rimando al mio scritto sul
numero speciale della Revue des
études italiennes, dedicato a Montale (n. 3-4, Parigi 1998).
Eppure, Testa, nella sua Conclusione, annovera Annalisa Cima tra
le Muse di Montale: «Ricordiamo
solo e senza alcuna pretesa di
completezza: Anna degli Uberti
con la sua fantasmatica costellazione di nomi, la “giovane peruviana”, Paola Nicoli, Mosca, Clizia, Volpe e infine Laura Papi e, a
chiudere, Annalisa Cima». Quanto
ad Anna degli Uberti (Arletta, Annetta eccetera) è lacuna di Testa il
non aver neppure citato Paolo De
Caro, il più acribioso dei veri
montalisti, che ad Anna ha dedicato un capitolo del suo fondamentale Invenzioni di ricordi (2007), con
testimonianze dei famigliari di lei.
A proposito del lungo elenco di
Muse montaliane, non si pensi di
lui come a un tombeur de femmes: il poeta rievoca le sue ispiratrici quando sono morte o comunque lontane, tanto che di Anna
aveva sempre parlato come di una
defunta, mentre è vissuta fino al
1959. Forse la considerò morta
dopo averla vista per l’ultima volta nel 1924 (si erano conosciuti a
Monterosso nel 1919, lei quindicenne, lui ventiquattrenne incravattato anche in spiaggia). Montale non canta amori lontani (oltretutto non corrisposti, come nel
caso di Anna), bensì è cantore
dell’assenza, per cui contestualizzare testi e biografia come fa Enrico Testa, può servire per un
feuilleton televisivo, ma non aggiunge nulla alla comprensione
delle poesie che vanno valutate
nella loro astratta, linguistica pu-
rezza. Due nel crepuscolo, forse
ispirata da Arletta, non è una poesia per Arletta, ma è un testo in
cui ogni uomo può riconoscersi
nel poeta, e ogni donna nel «tu» a
cui il poeta si rivolge.
Per essere ancora più espliciti:
nel 1968, Montale aveva confessato: «Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né
agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto
al cinque per cento. Appartengo
al limbo dei poeti asessuati e
guardo al resto del mondo con
paura» (Annalisa Cima, Le occasioni del Diario postumo, 2012).
Il Diario postumo è stra-autentico e stra-autenticato, e alla Mondadori dovrebbero ben saperlo,
se i nuovi direttori di collana volessero prendersi la briga di consultare gli archivi in loro possesso, magari facendosi guidare da
Gian Arturo Ferrari che all’epoca era al corrente di come stavano le cose ed è tuttora ai vertici
di Mondadori-Rizzoli. Si può
benissimo sostenere che molte
poesie «postume» non siano all’altezza del Montale maggiore,
ma sono al livello dell’ultimo e
coevo Montale del Diario del
’71 e del ’72 e del Quaderno di
Quattro anni (1977). Favoleggiare di inautenticità del Diario
postumo non è tanto un affronto
ad Annalisa Cima che giustamente non vuole essere tirata in
ballo quando tutto era già stato
stra-chiarito a suo tempo, e non
accetta di sedere adesso sul banco degli imputati (peraltro, l’accusa di falsaria sarebbe anche
penalmente rilevante), bensì è
un insulto alla memoria e alle
ultime volontà di Montale.
Questa storia lascia pensosi sulla
letteratura insegnata nelle università: a Bologna, con un Condello
che ordisce complotti; a Genova,
con un Testa che insegna Montale agli studenti ma non è interessato a come è andata a finire; a
Pavia, con una Grignani che sta
disperdendo l’eredità lasciata da
Maria Corti.
Cesare Cavalleri
INQUIETOVIVERE
di Guido Clericetti
53
TEATRO
Il volto spietato del socialismo reale
Dittature comuniste e crimini contro l’umanità. Il volto spietato del
socialismo reale è al centro di due
spettacoli andati in scena a Milano
sul finire del 2016: Collaborators,
di John Hodge, traduzione e regia
di Bruno Fornasari, e Goli Otok,
progetto di Elio De Capitani e Renato Sarti. Collaborators, che ha
debuttato al teatro Filodrammatici,
accenna ai crimini di Stalin in
Unione Sovietica. Goli Otok, riproposto al Teatro della Cooperativa, racconta le atrocità del più crudele dei campi d’internamento di
Tito nella ex Jugoslavia.
«Collaborators»,
seduzioni del potere
Collaborators (con Tommaso
Amadio, Emanuele Arrigazzi, Michele Basile, Marco Cacciola,
Emanuela Caruso, Bruno Fornasari, Enzo Giraldo, Marta Lucini, Alberto Mancioppi, Daniele Profeta,
Chiara Serangeli, Umberto Terruso, Elisabetta Torlasco, Antonio
Valentino; scene e costumi Erika
Carretta, disegno luci Fabrizio Visconti, musiche originali Rossella
Spinosa) dipinge una Russia culturalmente omologata e artisticamente regolata da una censura opprimente. Qui, dove fermenta il comunismo più gretto e scompare la
libertà di opinione, vive e scrive
Michail Afanas’evič Bulgakov.
Bulgakov intrattenne con Stalin
una relazione altalenante: sottomissione e piaggeria da una parte, coraggio e azzardo dall’altra. Quest’ambivalenza è restituita dalle lettere, la più importante delle quali,
datata 28 marzo 1930, fu scritta
quando Bulgakov pareva sulla stra-
54
Tommaso Amadio e Alberto Mancioppi.
da del suicidio, sulla scia del compagno Majakóvskij. La lettera è un
atto di deferenza di Bulgakov al
dittatore. Stalin rispose personalmente con una telefonata.
In Collaborators lo scrittore inglese John Hodge immagina che a
Bulgakov sia richiesto di scrivere
un testo celebrativo di Stalin in occasione del suo sessantesimo compleanno. Inizialmente ricalcitrante,
Bulgakov alla fine accetta, per continuare a teatro le repliche del suo
Molière, per curare la propria salute malferma e per evitare sciagure a
sua moglie, possibile vittima di ritorsioni. È qui che, nella fantasia di
Hodge, avviene un capovolgimento di ruoli: Stalin diviene scrittore
ed elabora di proprio pugno la propria biografia; Bulgakov si cimenta
nell’arte politica, affiancando e talvolta rimpiazzando lo stesso Stalin.
Con luci ora calde e intime, ora
spettrali, Bruno Fornasari inserisce
la narrazione in un ambiente domestico accogliente. Un armadio stile
Cronache di Narnia è anticamera
di spazi «altri».
Si avvicendano tre piani di finzione: quello appunto del sodalizio
Bulgakov-Stalin, quello dello spettacolo su Molière e sul Malato immaginario che in quel periodo lo
scrittore sta mettendo in scena a
Mosca con la sua piccola compagnia (la morte del drammaturgo
francese in scena combacia con
quella dello stesso Bulgakov); infine quello della pièce su Stalin, che
lentamente si coagula, della quale
sono proposti dei frammenti.
Ci confrontiamo con il lato oscuro
del potere, odioso e riprovevole,
eppure capace di forza seduttiva.
Collaborators vede la presenza in
scena dello stesso Fornasari e di altri tredici attori tutti di scuola Filodrammatici (convincenti sopra tutti
il versatile Tommaso Amadio, nei
panni di Bulgakov, e un folgorante
Alberto Mancioppi, controfigura di
Stalin). Il male prevale inesorabile.
Se di commedia si tratta, la dittatura calerà la maschera e assorbirà
nel suo vortice i vari protagonisti,
partendo proprio da quelli collusi
con il potere.
Juretich nell’inferno
di «Goli Otok»
Tra gli abomini del Secolo breve,
c’è anche Goli Otok, campo d’internamento titino in cui furono rinchiusi – dopo la rottura fra Jugoslavia e Unione sovietica – i «traditori» fedeli a Stalin.
Goli Otok, isola della libertà (progetto di Elio De Capitani e Renato
Sarti, musiche Carlo Boccadoro,
luci Nando Frigerio, assistente alla
regia Annarita Signore) è la storia
di Aldo Juretich, monzese nato negli anni Venti a Fiume. Aldo Juretich finì nel lager all’indomani della Seconda guerra mondiale, con
altri esponenti della Resistenza jugoslava: guerriglieri, ex combattenti di Spagna, comandanti partigiani,
notabili del Partito comunista jugoslavo, scrittori, poeti, artisti. Persino ex agenti dell’UDBA, la disumana polizia segreta che arrestava
e massacrava gli avversari di Tito.
Nella pièce Aldo Juretich (Elio De
Capitani) è visitato da un medico di
origine croata (Renato Sarti). Quest’ultimo, dopo aver letto il libro
Goli Otok di Giacomo Scotti, riesce a convincere Aldo a raccontare la sua terribile esperienza.
Affiora la dissonanza tra le bellezze della piccola isola di Goli Otok,
bianca come Moby Dick, splendente delle sue rocce carsiche, e le
atrocità che vi furono commesse.
È il teatro civile cui Renato Sarti ci
ha abituato. Ma qui c’è un surplus
d’umanità, sfrondata d’eccessi
ideologici. In piedi di fronte al pubblico, De Capitani e Sarti giganteggiano sulla scena. La moralità che
propongono non è quella di eroismi militari o partigiani. È anzi il
frutto di un dolore empatico, che ci
ricollega a vicende a lungo rimosse
dai libri di storia.
Il principio che reggeva Goli Otok
era quello del «ravvedimento»: il
prigioniero doveva correggere la
propria posizione. Fame, sete, malattie, sevizie, erano gli strumenti
usati dal sistema. Ravvedimento
equivaleva a ricatto. Ci andavano
di mezzo ex compagni, amici, pa-
Elio De Capitani e Renato Sarti.
renti. Chiunque poteva entrare, come delatore o come vittima, nel tritacarne del sistema. Le mogli degli
internati, per dimostrare di non essere staliniste, dovevano divorziare. Se non lo facevano, erano licenziate e costrette ai lavori più umilianti. I figli erano espulsi dalle
scuole per indegnità. Chi usciva vivo dall’internamento a Goli Otok,
andava incontro alla seconda fase
del calvario: quello del rientro nella società e del completo isolamento. Chi ritrovava la libertà doveva
firmare un documento in cui si impegnava a tacere la propria storia.
Un De Capitani solenne e un Sarti versione spalla restituiscono le
violenze fisiche del concentrazionismo jugoslavo e il clima di sopraffazione psicologica che conduceva generalmente alla delazione e al tradimento, in primis
delle proprie idee. Paura e sospetto permanevano per anni anche
dopo il ritorno a casa.
Non mancano tocchi di leggerezza
e ironia nella prova di De Capitani,
convincente per sicurezza e naturalezza. L’inferno è descritto con toni
pacati. De Capitani e Sarti ci guidano dentro un’isola-galera senza
psicodrammi. Il panorama è devastante. Entriamo in un cumulo di
baracche inospitali, senza lavandini e senz’acqua. La sporcizia si
stratifica. Le calze diventano pezzi
di legno: se tolte, si portano via le
unghie dei piedi. Scorgiamo occhi
incavati, guance infossate, labbra
seccate dalla sete. Il fetore si mischia all’odore della scarna minestra di porro che è il rancio dei prigionieri. Avvertiamo il gelo della
bora e della pioggia attraverso gli
spifferi. Sentiamo i silenzi, il dolore delle vesciche alle mani. Passiamo in rassegna le abiezioni degli
aguzzini. Sul male aleggia l’impotenza. Questo teatro vive dell’empatia che si genera tra attori e pubblico, e trasforma la disumanizzazione astratta nello specifico di una
storia personale.
Juretich decise di non tradire, nel
rispetto etico e umano degli amici,
fratelli, e compagni di lotta che
volle difendere, convinto che la
delazione fosse ricatto senza via
d’uscita e strategia perdente oltre
che vile. Perdente era forse l’ideologia comunista quando diventava
sistema.
Vincenzo Sardelli
55
CINEMA / 1
Due film al femminile
In due momenti diversi della
scorsa stagione estiva due film,
apparentemente diversissimi,
presentavano un tratto comune:
la preminenza assoluta dell’elemento femminile.
Ghostbusters
Il primo, distribuito in Italia in luglio, è Ghostbusters, diretto da
Paul Feig: si tratta del reboot dei
due fortunati film degli anni Ottanta con Bill Murray. Ma qui il
cast è tutto al femminile: assoluta
mattatrice è Melissa McCarthy,
che, da Una mamma per amica
sino a Spy (se non l’avete visto,
procuratevelo: esilarante, con un
Jude Law agente segreto talmente
tonto da far piangere dalle risate e
una «cattiva» tanto sopra le righe
da diventare simpatica), ha fortunatamente cominciato a essere
apprezzata anche in Italia. La trama ricalca molto da vicino il primo film della serie: Erin Gilbert
(Kristen Wiig, la ragazza amata
da Ben Stiller nei Sogni segreti di
Walter Mitty), sempre mortificata
in strambi completini da collegiale fuori tempo massimo, sta per
ottenere, dopo anni di duro lavoro, una cattedra di fisica in una
prestigiosa università di New
York. Sarebbe il coronamento
delle aspirazioni di una vita, ma,
purtroppo, a macchiarle irrimediabilmente il curriculum rispunta, grazie al web, su cui viene
venduto, un libro su fantasmi ed
ectoplasmi scritto a quattro mani
con l’amica Abby (Melissa
McCarty, appunto).
Sfumata la carriera universitaria,
56
Le quattro Ghostbusters di Feig.
quindi, Erin si rimette, dopo
qualche baruffa, in società con
Abby, nel frattempo relegata nel
laboratorio di fisica, più simile a
un’officina, di un «centro di ricerche», in realtà un liceo scalcinato in cui nemmeno il preside
stesso, irascibile e perennemente
in infradito, sa come vengano
impiegati spazi e risorse. Abby
ed Erin, trovata un’altra coppia di
socie, possono così concretizzare
la loro passione per il sovrannaturale, mettendo in piedi una società di «operatrici per la verifica
metafisica».
Il film gronda di omaggi e citazioni al primo Ghostbusters, che
segue da vicinissimo per ordine
delle sequenze e delle situazioni,
spunti comici, caratteri dei personaggi, gag, ambienti e scenari, in
un continuo raffronto fra il 1984 e
il 2016: persino la sede dell’impresa dei Ghostbusters originali
viene riproposta, quando le nostre
cercano uno stabile da affittare.
Ma l’effetto nostalgia nello spettatore viene subito polverizzato
da Kristen Wiig, che, sentita l’en-
tità stratosferica del canone d’affitto, passa subito da un’espressione sognante ad apostrofare l’agente immobiliare con un sonoro:
«Ma sei scema?».
Anche i caratteri delle protagoniste ripropongono i «tipi» dei primi quattro acchiappafantasmi; del
resto, i protagonisti stessi del primo film compaiono ciascuno in
un cameo: da Bill Murray, che interpreta, per contrasto ironico,
uno studioso scettico nei confronti del sovrannaturale (più o meno
equivalente dei membri del nostro CICAP - Comitato italiano per
il controllo delle affermazioni
sulle pseudoscienze) ed è destinato a fare una brutta fine, sino a Sigourney Weaver, che si palesa nel
finale. Manca, ahimè, Egon, ovvero Harold Ramis, purtroppo defunto, il cui equivalente nel nuovo quartetto è dato da Kate Mc
Kinnon, la biondina perennemente in tuta da saldatrice (il cui motto sembra essere: «Datemi una
fiamma ossidrica e cambierò il
mondo»). E per polarizzare l’attenzione del pubblico femminile,
troviamo la figura del segretariocentralinista. Sì perché, nel rovesciamento speculare dei ruoli, se
nel primo Ghostbusters ai quattro
uomini si affiancava la scialba
Jeanine (che ritroviamo nel ruolo
di capo-concierge: l’hotel infestato è un altro luogo topico nel film
del 1984), qui le «operatrici della
verifica metafisica» assumono un
centralinista, Chris Hemsworth,
tanto scultoreo e belloccio quanto
stupido e buffo. E non è la prima
volta che Chris Hemsworth si
prende in giro: ricordiamo per
esempio il cognato tronfio di Ed
Helms in Come ti rovino le vacanze. Il film, del resto, è divertente, ma un po’ deboluccio, e vive delle continue citazioni, a beneficio di chi era bambino o adolescente negli anni Ottanta e ha
consumato il nastro del VHS del
film originale: ma, del resto, scopo di Ghostbusters era dichiaratamente, e unicamente, intrattenere
all’insegna del divertimento.
Io prima di te
Ben diverse le ambizioni di Io
prima di te, che, nella prima parte, può sembrare una versione aggiornata ai nostri tempi della storia di Cenerentola. Lei, Emilia
Clarke, già vista nel Trono di
Spade e in Terminator Genisys, è
povera e graziosa; il suo personaggio, Louisa «Lou» Clark,
sempre sorridente, è una specie
di Pollyanna – quanti danni ha
fatto! –, amante di scarpe sgargianti e di buffe calzamaglie che
la fanno sembrare l’Ape Maia (e
con le folte sopracciglia perennemente contratte in una serie di
smorfiette che vorrebbero forse
imitare la Meg Ryan delle origini, e che risultano francamente irritanti): in sostanza, si veste come Minnie, ma tant’è: de gustibus. Lui, Sam Clafin (già visto in
Hunger Games – La ragazza di
fuoco, dove interpretava uno dei
«tributi», e in Biancaneve e il
Cacciatore, in cui il suo perso-
«Lou» con un Will momentaneamente felice.
naggio, lo scialbo principe, doveva, per precise esigenze di copione, sbiadire al confronto di Chris
Hemsworth), è Will Traynor, bello, giovane e ricco, ma tetraplegico a seguito di un incidente. Ma,
soprattutto, Will è francamente
scostante e antipatico, anzi, proprio odioso; del resto, chi non si
guasterebbe dopo essere passato
da una vita bella, piena di prodezze atletiche (che ci vengono
mostrate con l’espediente narrativo di un vecchio video realizzato
dai suoi amici), alla forzata immobilità senza alcuna prospettiva
di miglioramento?
I due si conoscono perché Lou,
che ha perso il suo impiego in una
caffetteria, ha urgente bisogno di
entrate stabili per aiutare la sua
complicata e affettuosa famiglia:
il padre è disoccupato e la sorella
è una ragazza madre che sogna di
tornare all’università e di costruirsi una vita migliore. Dopo qualche infelice esperienza, Lou risponde all’annuncio dei Traynor,
che cercano per sei mesi un’assistente, non un’infermiera, per fare
compagnia a un invalido. Lou arriva al colloquio con la solo apparentemente fredda signora Traynor abbigliata con una mise in puro stile anni Ottanta, degna della
Melanie Griffith di Una donna in
carriera: le due donne non potrebbero sembrare più diverse. La
ragazza viene presto disillusa:
credeva di dover assistere un anziano, forse il marito della signora Traynor, e invece dovrà passare le giornate in compagnia del fi-
glio, poco più che trentenne. Che,
per i primi dieci giorni, ignora sistematicamente Lou. Eppure, presto, comincia a crearsi una corrente di simpatia fra i due, complice una giornata piovosa, il classico «pomeriggio da DVD». La
scelta cade su Des hommes et des
dieux (distribuito in Italia come
Uomini di Dio), film centrato sul
massacro dei monaci di Tibhirine
negli anni Novanta, e imperniato
sul tema della scelta, che, come
vedremo, diventa via via centrale
anche in Io prima di te. Lou, che
non ha mai visto un film «con i
sottotitoli», è conquistata dalla
pellicola; nondimeno, accusa Will
di essere snob. Lui, di rincalzo, la
accusa di non ampliare a sufficienza i suoi orizzonti, di sprecare
il suo tempo e le sue potenzialità,
e di essere, in buona sostanza, una
stupidina senza grandi interessi.
Così, sotto gli occhi increduli della madre di Will, inizia un sorridente battibecco, prodromo di una
specie di amicizia. Ben presto
Traynor inizia a voler uscire, a
portare «Clark», come la chiama,
sugli spalti del castello, e, nonostante odi essere imboccato di
fronte a estranei, accetta un invito
a cena a casa di Lou per il compleanno della ragazza, sotto gli
occhi allibiti, e un po’ idioti, del
fidanzato di lei, un personal trainer ossessionato da fitness e cibi
ipocalorici, che, come viaggio romantico, vorrebbe portare Lou in
Norvegia... al Triathlon del Vichingo, insieme ai suoi compagni
di allenamento.
57
Sembra proprio che, in qualche
modo, Will stia recuperando un
po’ di amore per la vita, ma ecco
la mazzata: arriva al castello una
lettera dalla Svizzera, dall’Associazione Dignitas che aiuta malati senza speranza e terminali a
praticare il suicidio assistito.
Traynor vi si era rivolto mesi prima, e i genitori, la madre in particolare, erano riusciti a strappare
al figlio la promessa di attendere
sei mesi. Ecco svelato il motivo
per cui il contratto di Clarke era a
tempo, e perché la signora Traynor aveva cercato, di proposito,
per affiancare l’infermiere, una
compagnia medicalmente ignorante, ma che con la sua simpatia
potesse curare Will dalla disaffezione per la vita. E non bastano
una splendida serata a un concerto di Mozart, o la partecipazione
al matrimonio della ex fidanzata
di Will, che si sposa proprio con
il suo ex collega e migliore amico. Alla cerimonia, del resto, i
due partecipano, bellissimi ed
elegantissimi, sotto gli occhi
scandalizzati degli impettiti invitati del jet-set, che apprendono
come anche chi è sulla sedia a rotelle possa trovare modo di ballare. Non basta nemmeno una magnifica vacanza esotica, durante
la quale Clark si entusiasma alle
immersioni e Will sembra sereno
e felice. Nonostante fra i due sia
nato un sentimento che va ben oltre l’amicizia, la serenità di Will
si radica proprio nel non essersi
allontanato di un millimetro dalla
sua decisione iniziale, e nell’essere più che mai convinto di recarsi in Svizzera per l’eutanasia.
E qui si rivela il senso del titolo:
«Io prima di te». Certo, significa
anche, da parte di Will, «non posso resistere al pensiero di come
ero (libero, sano e autonomo) prima di conoscere te»: esemplificative, in questo senso, sono le parole del giovane al rientro dal
concerto: «Non voglio rientrare
subito in casa; voglio sentirmi ancora per qualche momento un uomo normale che è andato a un
concerto di Mozart con una bella
58
ragazza». Ma il titolo va inteso
anche nel senso più brutale e, diremmo, cronologico: «Io (muoio)
prima di te». Non solo Will è deciso, ma ha anche pensato a provvedere a Lou: dapprima procurando un impiego a suo padre, e
poi in un modo più radicale, che
si comprende solo nel finale. Però, con ostinazione atroce, insiste
perché la ragazza lo accompagni
in Svizzera. E se Lou in un primo
momento si rifiuta, poi non potrà
che accondiscendere.
Realismo
a fasi alterne
Pur nell’atmosfera da melodrammone, il film propone nella prima
parte alcuni spunti divertenti e
ironici. Memorabile la sequenza
dell’apertura dei regali di compleanno di Clark; dopo i pacchetti di genitori, nonno e fidanzato,
quando Will mostra il suo regalo,
che ha tutta l’apparenza di un
pacchettino elegante uscito da
una gioielleria dove persino l’aria
è costosa, lo spettatore pensa si
tratti di qualche oggetto prezioso
che metterà in imbarazzo la famiglia. Invece si tratta di un pensiero in apparenza banalissimo, ma
cui poteva pensare solo chi avesse ascoltato con il cuore le parole
di Lou, che impazzisce di gioia.
All’incirca a metà della pellicola,
anche lo spettatore più scafato comincia a tifare spudoratamente
per Lou, e a sperare nel lieto fine,
che, però, non arriva, lasciando
francamente non tanto un retrogusto amaro, quanto la consapevolezza, a una riflessione più attenta, che il film, una volta conquistati gli spettatori emotivamente, li fa guardare attraverso
una sorta di lente deformante. E
di certo, a falsare la prospettiva
dello spettatore medio contribuisce il fatto che nulla ci viene mostrato della morte di Will, e che
l’ambiente in cui essa avviene ci
è proposto come una sorta di chalet incantato, dove tutto è, irrealisticamente, e anche un po’ ipocri-
tamente, bello, lindo, candido,
con tanto di uccellini che cantano
fuori dalla finestra. Verrebbe da
chiedersi quale reazione avrebbe
avuto il pubblico di fronte a un
ambiente meno edulcorato e un
po’ più realistico, o di fronte a
una rappresentazione, anche solo
accennata, della procedura per
l’eutanasia, ma tant’è; di realistico il film sceglie di mostrarci, con
dovizia di esempi, solo tutta la
pesantezza della situazione di una
persona nella condizione di Traynor, che non si limita a essere inchiodato sulla sedia a rotelle, ma
soffre di infezioni, polmoniti,
grandi dolori fisici, e così via.
Poi, però, sceneggiatore e regista
scelgono, assai meno realisticamente, di glissare sulle estreme
conseguenze e sulle circostanze
materiali della messa in atto di
una scelta simile, che, tra l’altro,
Will impone con egoismo micidiale, costringendo chi lo ama
non solo ad accettare la sua decisione, ma anche a esserne testimone. Esattamente come se il regista avesse scelto di usare un tono realista nel presentare il dolore dell’handicap, e uno favolistico e irrealisticamente soft per presentare la pratica dell’eutanasia,
gabellandola ai cuori sprovveduti
come la migliore delle scelte.
Davvero inaccettabile.
Sicuramente Io prima di te è un
film in cui c’è del mestiere, che
sa far sorridere e commuovere, e
anche, ogni tanto, sorprendere lo
spettatore per le deviazioni dalla
trama-tipo (come del resto l’omonimo romanzo di Jojo Moyes
da cui è tratto), ma da cui, una
volta imboccata una certa china,
ci si sarebbe aspettato un po’ più
di approfondimento, e pure un
po’ più di coraggio nell’affrontare un tema tanto forte, che qui
viene banalizzato e furbescamente presentato allo spettatore all’insegna di proclami-spot molto
banali, che diventano vacue formulette, stile «la libertà di scelta
è sacra» e così via falsando.
Silvia Stucchi
CINEMA / 2
L’estate addosso
Regia di Gabriele Muccino; sceneggiatura di Gabriele Muccino e
Dale Nall; con Brando Pacitti,
Matilda Lutz, Joseph Haro, Taylor Frey; 103’; Italia/USA 2016.
Marco è rassegnato a trascorrere l’estate della Maturità in una
Roma monotona e solitaria,
quando riceve tremila euro per
un infortunio: è l’occasione per
far visita a Vulcano, un amico
che studia in California. Ma ad
accompagnarlo sarà Maria, la
ragazza più bigotta della scuola,
per nulla entusiasta alla prospettiva di convivere con Marco
e gli amici di Vulcano, Paul e
Matt, una coppia gay di San
Francisco…
L’estate addosso esplora il tema
del passaggio dall’adolescenza
alla giovinezza di due diciottenni. Scuola e famiglia restano sullo sfondo, mentre una vacanza in
America si fa pretesto per mostrare lo sdoganamento ideologico di un mondo dove tutto è possibile e non esiste il concetto di
normalità. Marco e Maria vengono presto sedotti dal fascino di
San Francisco e degli stessi Paul
e Matt, crogiolandosi nella libertà senza confini del Golden State:
è l’estate «bellissima e crudele»
di Muccino (e di Jovanotti, curatore della colonna sonora del
film), una stagione di cui la macchina da presa restituisce uno
sguardo morbido e avvolgente,
quasi da videoclip.
Se le atmosfere in bilico tra nostalgia e languore strizzano l’occhio agli adolescenti, il resto del
pubblico non può che prendere le
distanze da una storia che appare
piatta e poco originale. Due ragazzi vanno in California per incontrare un amico, ma passano il
tempo in compagnia di una coppia gay appena conosciuta – che
li trascina in una girandola di feste scatenate, corse sulla spiaggia
e racconti attorno al fuoco, senza
contare un viaggio last minute a
Cuba – da cui comunque si separano in fretta per trasferirsi a
New York, rientrare in Italia e
dirsi addio. La trama, già di per
sé esile, stenta a ingranare, adagiandosi sui ritmi blandi di un secondo atto sostanzialmente statico, per poi accelerare nel terzo e
concludersi con un desolante ritorno allo status quo.
All’incoerenza delle scelte narrative si somma una caratterizzazione dei protagonisti frettolosa e
superficiale, pur supportata da un
cast di attori che fanno bene il loro lavoro. Marco incarna il prototipo del giovane Werther, eppure
dei suoi «dolori» (dalla morte del
cane, all’inizio del film, alla passione non ricambiata per Maria)
ci interessa poco, perché ignoriamo che cosa desideri davvero,
così come i punti deboli e le qualità del ragazzo. Se Marco appare
insipido e privo di mordente,
Maria non se la cava certo meglio. La cosiddetta «suora» della
scuola, con tanto di camicie accollate e occhiali da intellettuale,
dovrebbe rappresentare l’emblema della ragazza proterva sulla
soglia di un cambiamento. Peccato che i suoi atteggiamenti siano talmente antipatici da polverizzare qualsiasi forma di empatia, declassandola a caricatura inverosimile – e abbastanza offensiva – di un cattolicesimo esclu-
sivamente omofobo e retrivo.
Stupisce che il regista abbia definito L’estate addosso un «romanzo di formazione», quando è evidente che i suoi personaggi non
maturano, o subiscono metamorfosi così repentine da perdere
ogni aura di credibilità. Per
esempio, a Maria basta una passeggiata nel parco, circondata da
coppie di omosessuali ridenti con
prole a seguito, per convertirsi da
severa fustigatrice dei costumi a
messalina fascinosa e disinibita
(non nuoce che, sotto i suoi panni da educanda, la ragazza celi un
fisico da modella). Lo schema
della coppia nata dal contrasto
avrebbe potuto regalare qualche
guizzo in più, però tra i protagonisti non c’è alcuna tensione,
mentre le loro schermaglie si susseguono in modo ripetitivo e prevedibile sino all’anticlimatico distacco finale.
Un lungo spot
Sceneggiatura vuole che la nostra
simpatia vada piuttosto ai comprimari, Matt e Paul. Gran parte
del film esalta proprio l’anticonformismo della loro esistenza romantica e sopra le righe, in un
limbo di felicità e perfezione,
tanto allettante quanto inconciliabile con la vita reale. Del resto, è
difficile prendere sul serio due
americani con alle spalle un passato da soap (Paul è il fratello
minore della ex fidanzata di
Matt), che trascorrono le giornate tra party, maneggi e gite in barca a vela, peraltro accompagnandosi a due teenager. Tra i quattro
59
I due giovani protagonisti del film sedotti dal fascino di San Francisco.
si instaura un rapporto incrociato
fatto di sentimenti carezzevoli e
indefiniti, con Paul che, spinto da
Marco, abbandona la poltrona
dell’ufficio per dedicarsi ai cavalli (altro punto a favore della
verosimiglianza!), mentre Maria
e Matt, gli unici a tradire una
qualche alchimia, si scambiano
pillole di saggezza peregrinando
tra ristoranti e bancarelle, in un
rituale sempre più simile al corteggiamento (finché Matt non si
ricorda di essere omosessuale).
Dove il film fallisce clamorosamente è nella creazione di un assetto valoriale valido e condivisibile, dibattendosi invece nella
melassa del teen drama, che dispensa elucubrazioni degne di
Dawson’s Creek, e non ci risparmia gli stereotipi più deteriori del
genere: i genitori come macchiette di contorno (o, viceversa, giudici inflessibili); l’inadeguatezza
della religione (ridotta a mecca-
60
nici segni della croce e Madonne
dal volto scrostato) a spiegare i
disagi della modernità; la coppia
gay alternativa e scanzonata,
composta dal tipo intraprendente
(Paul) e da quello insicuro
(Matt); e soprattutto l’idealizzazione del clan giovanilistico e dei
suoi poligoni affettivi, all’insegna della confusione sessuale
(Matt bacia Maria, e poi torna tra
le braccia di Paul, perché «le
donne gli piacciono, ma gli uomini gli piacciono di più»; Maria
«vuole bene» a Marco, e fa sesso
con un amico a New York perché
«almeno così sa cosa si prova ad
avere un orgasmo»).
In conclusione, L’estate addosso
è un film tecnicamente ben girato, soprattutto tenendo conto della produzione low budget, ma
una confezione elegante non è
sufficiente a lasciare il segno se
la trama langue e i personaggi
mancano di carisma (tanto più
che il doppiaggio è quasi interamente in lingua inglese, una scelta che penalizza il coinvolgimento da parte del pubblico italiano).
Al posto di un lungometraggio, si
ha come l’impressione di avere a
che fare con un lungo spot pubblicitario, visivamente piacevole
ma inconsistente sul piano dei
contenuti. Spiace che quella che
sarebbe potuta essere una bella
storia sulla crescita e la ricerca di
sé, sappia offrirci soltanto una sequela di emozioni epidermiche,
spacciandole per il ritratto realistico di una generazione che, fuori dalla sala, è probabile si scrolli
di dosso questi 103 minuti come
granelli di sabbia dopo una giornata al mare.
Maria Chiara Oltolini
Elementi problematici per la visione: diverse scene sensuali, una scena di sesso,
linguaggio a volte volgare.
CRUCIVERBA
di Florio Fabbri
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Fra tutti gli abbonati che invieranno entro il 28 febbraio 2017
l’esatta soluzione del cruciverba, verranno estratti tre buoni
acquisto da euro 100 in libri del catalogo Ares. Gli analoghi
premi messi in palio tra i solutori del cruciverba n. 669 (novembre 2016), qui risolto, sono stati vinti dai signori: Nadia
Luigia Oliviero, di Verona; Alberto Valenti, di Parma; Veronica
Sempione, di Varese.
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ORIZZONTALI: 1 Un «ascensore» sulla neve. - 8 Origine del linguaggio. - 19 Il bacino di cui Lecca
ha intravisto la grazia (in Sc 667). 21 Tonalità di verde. - 23 Povera di
sentimenti. - 24 Il vittorioso «undici» di Ranieri. - 26 Gertrude scrittrice. - 27 Caldi tessuti naturali. - 28
Né questi né quelli. - 29 Elzie Crisler che creò Popeye. - 31 Memorabile vittoria di Alessandro Magno. 32 Prefisso per orecchio. - 33 A destarla si ride. - 35 Biblica suocera di
Ruth. - 37 L’io non soggetto. - 38
Molto basse di voce. - 39 La poetica
di Orazio. - 41 Il primo nel suo genere. - 42 Breve obiezione. - 43
Grande penisola asiatica. - 45 Chi
non ne ha è... indipendente. - 47 Il
gatto del mister. - 48 Le mail che infestano la posta elettronica. - 50 Statuetta per cineasti. - 53 Lo indossa-
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va Penelope. - 54 Si raccomanda all’obeso. - 55 Mangiano... negli armadi. - 57 Contemporaneità di svolgimento. - 59 Bellissima «girl» sulla carta. - 60 Il noto filosofo norvegese dell’ecosofia (in Sc 667). - 62
Parola assai ripetuta nel parlare. - 64
Il successore dell’imperatrice Zauditù. - 65 Non corretta, sbagliata.
VERTICALI: 1 Un atleta sugli sci.
- 2 Arte marziale giapponese. - 3
Santo dell’11 gennaio. - 4 È gradita
se è sincera. - 5 Monte di Creta. - 6
Iniziali di Insinna. - 7 La capitale
della Florida. - 8 Roditori... dormiglioni. - 9 Permessa dalla legge. - 10
Precede two. - 11 Feticcio della tribù. - 12 Il Cassini della moda. - 13
Bighellonare qua e là. - 14 Poco evidente. - 15 Ispezionano ristoranti
(sigla). - 16 Una materia per geome-
tri. - 17 Messi all’aria ad asciugare.
- 18 Un’opera e un fiore. - 20 Erano
simili alle lire. - 22 Parola che imita
un suono. - 25 Strada Statale. - 28
Antico poeta greco di Mitilene. - 30
Un mantello equino. - 33 Banca vaticana (sigla). - 34 Hans, pittore dadaista. - 36 Prefisso che dimezza. 38 Fu un noto generale tedesco. - 40
Prodotti per l’igiene. - 41 Virgilio le
pone nelle Strofadi. - 42 Non più
acerbe. - 43 I polli le hanno bianche.
- 44 Residuo dell’oleificio. - 46 Se è
d’oro è falso. - 47 Il barbaro di un
film di Milius. - 49 Gomma per calzature. - 51 Sigla di un sindacato. 52 Iniziali di Cocciante. - 54 Il poeta De Angelis (in Sc 621). - 56 Punto opposto a OSO. - 58 Un reparto
dei Carabinieri (sigla). - 59 Lo scrittore Lagerkvist. - 61 Aspetta... un
po’. - 63 Iniziali della Rampling.
61
AUTOMOBILISMO
Nico Rosberg, n. 1 ai box
Nico Rosberg, 31 anni, neo campione mondiale con la Mercedes, ha sconvolto il Circus della Formula 1 dichiarando che lasciava le corse, dopo appena cinque giorni dalla conquista del suo primo titolo iridato. Non era mai successo.
Sposato dal 2014 con l’interior designer tedesca Vivian Sibold dopo 11 anni di
fidanzamento, un anno fa Nico è diventato padre di una bambina: Alaïa. Abita
a Montecarlo ma ha casa anche a Milano dove ha vissuto per molto tempo.
Parla il francese, il tedesco, l’inglese, il finlandese, lo spagnolo (così così) e
l’italiano, comprese le «e aperte e i modi di dire milanesi». E proprio scherzando con le «e aperte e i modi di dire milanesi» l’avevamo incontrato a Monza durante il Gran Premio. In quell’occasione aveva sottolineato in modo accorato
(ma è troppo facile accorgersene adesso!) l’importanza del ruolo della famiglia,
lasciando a molta distanza la passione per le gare. Nulla però poteva farci prevedere la clamorosa decisione che «il pilota più italiano» del mondo dorato delle corse ha comunicato con disarmante semplicità attraverso un tweet. Ma
non ci bastava. Così abbiamo raccolto le motivazioni del «gran rifiuto milionario» dal diretto interessato per aggiornare la nostra chiacchierata monzese.
l Scusi, Nico, ma come...? Come butta?
sarei riuscito a mantenere quello
che avevo deciso.
l Questo lo dicono a Milano.
Mi piace Milano. Ci ho vissuto.
Ho casa.
l Allora non era convinto al
cento per cento? La decisione
era totale. Ne ero convinto, ma…
l Allora, lo diciamo noi: come
butta, Nico? Tranquillo.
l Ma? Temevo che non sarei riuscito a metterla in pratica.
l Tutto qui? Che c’è di strano?
l Perché aveva questo dubbio?
Lasciare un mondo che mi appartiene da sempre, nel quale sono
cresciuto, beh, temevo che avrei
esitato.
l Beh, insomma... Ho lasciato
le corse. Lo fanno, i piloti.
l Ma non dopo cinque giorni
dal titolo mondiale. Una scelta
di vita.
l Si è pentito? Assolutamente!
l Via, sia sincero! Mai un tentennamento? Un dubbio forse
l’ho avuto.
l Ah ecco! È durato un nanosecondo.
l Sulla decisione? Sul fatto che
62
l Invece? Niente!
l Lo dice col sorriso. Sono in
pace con me stesso.
l È stata dura? Una scelta meditata nel tempo.
l A chi l’ha comunicata per
primo? A mia moglie.
l Gliel’ha comunicata o le ha
chiesto un consiglio? Gliel’ho
comunicata.
l Perché non le ha chiesto un
consiglio? Una scelta troppo intima. Toccava solo a me decidere.
l Non ha mai chiesto consiglio
a sua moglie? Sempre.
l Ma questa volta? Dovevo
guardarmi dentro da solo.
l E poi? L’ho detto a Vivian.
l E Vivian come ha reagito?
Come mi aspettavo e speravo.
l E cioè? Ha condiviso la mia
scelta. In toto.
l Quando ha cominciato a meditare seriamente di lasciare le
corse? Quando ho vinto la corsa
a Suzuka.
l Per farci capire anche da chi
non segue la Formula 1: perché
a Suzuka se mancavano ancora
alcune gare alla fine del Mondiale? Ero quasi sicuro di vincere il titolo.
l Ma se si fosse verificato quel
«quasi»? Non è successo. E ho
vinto.
l La decisione definitiva e irrevocabile di lasciare? La mattina
dell’ultima gara ad Abu Dhabi.
l Come si sentiva in quel momento? Avevo la sensazione
chiarissima di fare la cosa giusta.
l La cosiddetta coscienza tranquilla? Una pace quasi irreale
dentro di me.
Keke. L’aveva vinto nel 1982
con la Williams.
l Un incubo? Uno stimolo.
l Lo guardava e...? E sognavo
che un giorno anch’io l’avrei
vinto.
Una persona
normale
l Forse non è un caso che ha
lasciato le corse soltanto dopo
avere eguagliato suo padre?
Forse.
l Scomodiamo Freud? Non
esageriamo!
l Era la sua mission segreta?
Segreta? Ogni pilota sogna di
vincere il Mondiale.
l Come ha vissuto l’ultima gara? Mi sono gustato ogni istante
di quella corsa. Sapevo che era
l’ultima. Ho assaporato ogni gesto. Ogni momento.
l 55 giri indimenticabili? I più
intensi della mia vita.
l Però è arrivato secondo dietro Hamilton. Il titolo mondiale
era mio.
l Quando è sceso per l’ultima
volta della sua macchina a che
cos’ha pensato? A mia figlia e a
mia moglie. Volevo solo abbracciarle.
l Gli ultimi passi mentre usciva per sempre dal circuito?
Lenti. Ma senza rimpianto.
La famiglia
al primo posto
l Che cos’è cambiato nella sua
vita per prendere una decisione così drastica? La scala dei
valori.
l Al primo posto? La famiglia.
l Da quando? Da sempre.
l Ma soprattutto? Dalla nascita di mia figlia.
l Non c’entra la rivalità con
Hamilton? Pochissimo.
l Però l’idea di un’altra stagione col fiato di Hamilton sul
collo la stressava? Non più di
tanto. Però mi sono fatto una domanda.
l Quale? Perché togliere un anno alla mia famiglia per inseguire qualcosa che ho già ottenuto?
l Il titolo iridato? Proprio così.
l Da quando inseguiva questo
sogno? Da sempre.
l Per questo è diventato pilota? Lo sognavo da quando ho
iniziato a correre.
l Lei è cresciuto ammirando
quel trofeo? Era di mio padre
l Però sembra che lei si sia accontentato... Ho dato il giusto
valore ai sentimenti e alle persone.
l Lo dice come fosse la cosa
più normale di questo mondo...
Ma lo è.
l Se lo è, perché il Circus della
Formula 1 è rimasto così colpito? Lo chieda a loro.
l Nessuno avrebbe rinunciato
a vivere un anno da campione.
Io sì.
l Ha rinunciato anche ai 55
milioni di euro del contratto
triennale appena firmato con la
Mercedes... La gioia di stare con
mia moglie e mia figlia non ha
prezzo.
l Suo padre che cosa le ha detto? Mi ha lasciato scegliere. Come sempre.
l Anche lui aveva lasciato da
campione mondiale. Dopo quattro anni, non dopo cinque giorni.
l Ha compreso le sue motiva-
63
zioni? Profondamente. E le ha
approvate.
style. Dipende. Mi piace mischiare classico e sportivo.
l E adesso? Divento una persona normale con gli hobby di tutti.
l Jeans e maglietta? Anche polo e infradito.
l Giocare alla playstation? Preferisco gli scacchi o il backgammon.
l Ma sempre capi griffati e di
boutique, ovviamente? Ma no!
Compro ovunque. Anche al mercato se mi va.
l E magari andare a fare la
spesa? Mi diverte scegliere le
cose che mi piacciono.
l Cucina raffinata come il foie
gras? Mai!
l Dove? Preferibilmente a Montecarlo. Ma faccio spesso un salto anche in Italia.
Oltre la Luna
Un altro mai? Alle rane.
l Lei parla correttamente anche il tedesco, l’inglese, l’italiano e il finlandese. Sto imparando
lo spagnolo.
l Perché il tedesco? Mia madre
Sina è tedesca. Gareggiavo con
una macchina tedesca.
l Il finlandese? Mio padre Keke è finlandese.
l Lo spagnolo? Andiamo sempre in vacanza a Ibiza.
l Invece sempre a...? Alla pizza
Margherita.
l Un futuro professionale nella
moda? Non escludo nulla.
l L’inglese? È obbligatorio per i
piloti.
l Un primo da pole position?
Pasta o ravioli di zucca.
l E l’italiano? Per non essere
emarginato a scuola.
l Pasta… come? Al pesto.
l Frequentando Milano sarebbe avvantaggiato. Ho molti
amici nel mondo del fashion milanese.
l Un omaggio alla vicina Liguria? Vado spesso al mercato di
Ventimiglia.
l Dalla pista alla passerella?
Ho davanti una vita da inventare.
A 31 anni si può fare.
l Un omaggio culinario a Milano dove ha abitato? La cotoletta.
l E i dolci? Niente.
l Volendo, ha anche un master
in economia. L’economia e la finanza mi hanno sempre affascinato.
l Non le piacciono? Anzi! Ma
mi sono imposto una dieta.
l E poi c’è il cinema... Il cinema?
l Solo per questo? Ho corso
con i kart a Sanremo.
l Adesso può trasgredirla. Assolutamente!
l Via, Nico, non finga che nessuno le ha mai detto che assomiglia a Leonardo Di Caprio?
Me l’hanno detto.
l Tutto qui? Ho vissuto a Milano e a Napoli. Mi sento quasi italiano.
l Non è quindi un buon cliente
di sua moglie che ha aperto la
gelateria Vivi’s Creamery a Ibiza? Vivian prepara frullati naturali e buonissimi gelati.
l Non si farà tentare? Assolutamente!
l Niente fumo, immagino.
Scherza? E nemmeno alcol.
l Però una debolezza c’è. Quale?
l La moda… meglio se italian
64
l In che lingua ha detto «sì»?
Eravamo a Montecarlo, quindi in
francese.
l E quindi? Mi vedo già sul red
carpet nella notte delle stelle!
l Più che di stelle lei sembra
intendersi di Luna. Luna?
l Scusi, ma non ha postato lei
«siamo oltre la Luna»? Ah sì,
l’ho detto dopo il matrimonio
con Vivian. Era il 2014.
l Perché proprio la Luna? Significava una felicità indescrivibile.
l Scusi, ma non capisco? Ho
frequentato le scuole primarie a
Montecarlo. La maggior parte
dei miei compagni parlava italiano. Per entrare nel gruppo dovevo impararlo.
l Anche lo slang? Soprattutto!
Era la parola d’ordine per entrare
nella band.
l Per questo sul palco della sua
prima vittoria iridata cantava
come noi italiani ai Mondiali di
Berlino nel 2006? Gli italiani sono appassionati. In quel momento mi sentivo italiano.
l Che cos’altro le piace degli
italiani? La spontaneità. Due minuti e sei già un amico.
l E poi c’è la Ferrari... La Rossa è il sogno di tutti i piloti.
l Un sogno che lei non ha rea-
lizzato. Il vero sogno era una famiglia come la mia.
l Però ha fatto centro con le
Frecce d’argento della Mercedes. Nessuno mi ha regalato
niente in pista.
l Soprattutto il suo compagno
di squadra Hamilton? È fortissimo. Duro da battere.
l A volte è al limite del regolamento. È il suo stile.
l Vi conoscete da tanto? Dai
tempi delle gare coi kart.
l Solo rivali o anche amici? Da
ragazzi andavamo in vacanza assieme.
l E adesso? La vita cambia.
l E le strade, anzi le piste, si
dividono. Lui è rimasto in pista.
l Hamilton le ha sempre rinfacciato di essere un figlio di
papà. Mio padre Keke è stato
Campione del Mondo di Formula
1 nel 1982 con la Williams.
l Allora, aveva ragione Hamilton? In pista non esistono raccomandazioni.
l Però essere figlio di Rosberg
le è servito... Non lo nego.
l Per esempio, entrare nella
scuderia Williams molto giovane... Mio padre era amico di
Frank Williams.
l Quindi ammette di essere
stato un privilegiato? Sarei un
ipocrita se lo negassi.
Un punto fermo,
la pace
l Da privilegiato riesce a capire i problemi della gente comune? I problemi economici esistono per tutti, anche per quelli come me.
l Quello che la preoccupa di
più? Garantire a mia figlia un futuro tranquillo.
l Che cosa intende? Che Alaϊa
possa vivere sempre allo stesso
livello economico in cui vive
adesso.
l E questo la preoccupa? Moltissimo. A volte ci penso anche di
notte.
l Scusi, ma è difficile immaginarla in preda agli incubi economici notturni anche se ha rinunciato a un contratto triennale con la Mercedes da 55 milioni di euro. L’ho detto, sono un
privilegiato, ma vivo nel mondo
che mi circonda.
l Un mondo dove sembra che i
valori stiano cambiando. Bisogna avere dei punti fermi.
l Un punto fermo per l’umanità? La pace.
l Troppo generico e teorico.
C’è chi tenta di renderla concreta.
l Chi? Papa Francesco.
l Che cosa ne pensa? Mi commuove quando lo sento.
l Vorrebbe incontrarlo? Subito.
l Di corsa? Eh dai!
l Torniamo ai suoi valori. La
famiglia al primo posto.
l Matrimonio civile? Nella
chiesa monegasca di Santa Devota.
l Quindi è credente? È stato un
«sì» religioso convinto, anche da
parte di Vivian.
l Prega qualche volta? Spesso.
l Anche prima delle gare? In
privato, senza farmi vedere.
l Per vincere la corsa o per
vincere la paura? Prego. Punto!
l Anche quando ha preso la
decisione di lasciare le corse?
Più che mai.
l Aveva un gesto scaramantico
prima delle gare? Assolutamente!
l Neanche un tatuaggio? Mai
fatti.
l Di scaramantico aveva il numero 6? Lo stesso numero che
aveva mio padre quando vinse il
Mondiale.
l Che cosa ascoltava prima
delle partenze? Gli U2.
l Che cosa in particolare?
Beautiful day.
l Allusivo alla vittoria del titolo mondiale? Anche alla svolta
della mia vita.
l Continuerà ad ascoltare gli
U2? Mi sono sempre piaciuti.
l Magari mentre va in macchina con moglie e figlia? È già
successo.
l E come guida? In strada?
l No, sulla pista. I critici dicevano che ero monotono perché
troppo lineare.
l Che cosa invidiava a suo padre? Un po’ di spericolatezza.
l Keke le dava dei consigli? Mi
lasciava fare.
l E poi? Se sbagliavo… come
dite voi in Italia?
l Ho colto il senso. Però alla fine, prevaleva l’istinto paterno.
l Quando ha smesso di sentirsi «il figlio di Keke»? Quando
ho battuto Schumacher.
l Una specie di patente? Mi sono sentito un vero pilota.
65
l Schumacher era il suo mito?
Sono cresciuto col mito di Mika
Hakkinen.
l Perché finlandese come papà? Lo conoscevo bene. Papà era
il suo manager.
l Riceveva consigli anche da
Niki Lauda? Era il nostro presidente non esecutivo. Lui è un
esempio per tutti.
l Lauda però era tornato in pista dopo il pauroso incidente di
Nürburgring. Parlavo di modo
di guidare, non di scelta privata.
La miglior
vittoria
l A che età ha capito che le
corse sarebbero state la sua vita? A 11 anni, dopo le prime vittorie sui kart.
l E se non avesse fatto il pilota? Avrei fatto il calciatore.
l In che squadra? Bayern Monaco.
l Dicono che quando un pilota
diventa padre perde almeno un
secondo in pista. Lo dicono. Ma
è arrivata mia figlia Alaϊa e ho
vinto il Mondiale.
l Ha anche lasciato le corse per
sempre, magari proprio per
amore di sua figlia. Alaϊa è più
importante di qualsiasi vittoria.
l Però le piaceva vincere in pista... Si va in pista per questo.
l È vero che vuole vincere anche quando gioca a calcio con
gli amici? Anche con il triathlon.
l Chi ha battuto di recente?
Ho distaccato Vettel.
l Anche Hamilton? Soprattutto.
Claudio Pollastri
66
ARTI VISIVE
Vita della natura morta
Il 4 maggio 1607 il fiscale pontificio bussò alla porta di Giuseppe
Cesari, il Cavalier d’Arpino, il
pittore che dominava la piazza
romana e che aveva raccolto
molte opere di altri artisti in una
sorta di collezione che gli procurava sollazzo e denari.
«Ho l’ordine di portar via i vostri
dipinti», espettorò l’ufficiale senza preamboli.
«Ordine di chi?», replicò scosso
il pittore.
Il fiscale lo guardò sornione.
«Di chi, dite? Del Papa!».
Lo sconcerto del Cavaliere diventò paura.
«Ma io sono ben noto a papa
Paolo V! Sono Principe dell’Accademia di San Luca! In questa
bottega si lavora costantemente
per la Santa Chiesa! Com’è possibile?».
«Ve lo dirò. Voi tenete delle armi
senza licenza».
Il Cavalier d’Arpino tutt’a un
tratto comprese, mentre la ciurma del fiscale entrava nella sua
sontuosa dimora a prendere i
quadri senza riguardi. Capì. Il
cardinal Scipione Borghese!
Quell’uomo la cui passione per
l’arte non conosceva limiti di
legge né di coscienza. Era avido,
vorace, possessivo. Suo zio Paolo V, con le buone o con le cattive, aveva assecondato l’insaziabile cupidigia del nipote e gli
aveva messo in mano un tesoro.
Uscirono da quel portone le opere di Michelangelo Merisi di Caravaggio, che il cardinale bramava di possedere: la Madonna dei
palafrenieri, acquistata dall’Arpino l’anno prima; il Bacchino
malato e il Ragazzo con canestra
di frutta, opere giovanili. Il Cara-
vaggio, quell’arrogante che era
stato suo aiuto in bottega e poi gli
aveva soffiato la fama. Ma era il
più grande!
Uscì di tutto da quel portone, sacro e profano. E quadri di frutta e
di fiori. Questi erano diventati
una moda a Roma, in particolare
da quando proprio Caravaggio
aveva affrancato la cesta di frutta
da ogni figura e perfino da ogni
contesto, e diceva che «tanta manifattura gli era a fare un quadro
buono di fiori come di figure».
Una povera cesta
di frutta
Quella cesta di frutta del Caravaggio, che il cardinal Del Monte offrì in dono al cardinal Federico Borromeo e che questi portò
in trionfo all’Ambrosiana, rappresenta la pietra miliare, la svolta nella pittura di quel che oggi
chiamiamo natura morta, già nota nelle Fiandre come soggetto a
sé, ma ora affrontata in maniera
pittorica e non solo rappresentativa. Roberto Longhi definiva
quella maniera nordica come
«sedulità descrittiva, presunzione
da erborista o da scienziato di
provincia, sfoggio di tecnica diligenza». Raffigurazione lenticolare, ossessiva, che mette la precisione imitativa al di sopra dell’impatto estetico, come in fondo
succede a tanto iperrealismo contemporaneo.
Caravaggio aveva agito come
suo consueto: esecuzione veloce,
direttamente sulla tela, alla ricerca di una sintesi pittorica, a cominciare dall’equilibrio compositivo e tonale. Il nuovo modo
aveva trovato presto dei seguaci
a Roma, all’interno di quel caravaggismo dai contorni sfumati
che in qualche decennio avrebbe
segnato l’arte europea.
Su tutto ciò si può riflettere ora
guardando con attenzione la stupenda mostra della Galleria Borghese di Roma intitolata L’origine della natura morta in Italia.
Caravaggio e il Maestro di Hartford, a cura di Anna Coliva e Davide Dotti, con un catalogo Skira
traboccante di saggi di grande interesse. Non si dimenticano i
maestri che il Merisi poté osservare ancora a Milano, a cominciare dai Campi. In questi, però –
prendiamo la Frutivendola di
Brera –, pur organizzando bene
la scena di un posto al mercato, i
tipi di frutti sono ordinatamente
classificati, separati e descritti
con precisione. Caravaggio mescola, fonde, nasconde, creando
drammaticità in una modesta cesta di frutta. E poi si va avanti
guardando e confrontando i diversi pittori.
Ma al malcapitato Cavalier d’Arpino furono sottratte pure alcune
tele, qui presenti e che allora
chissà a chi erano attribuite (forse con certezza). Noi dobbiamo
accontentarci di chiamarlo il
Maestro di Hartford, dal nome
della città americana dove è custodito l’esemplare più rappresentativo del suo esiguo catalogo. Comunque qui in mostra ci
sono ben sette dipinti di sua mano, che rappresentano già un numero sufficiente almeno per farsi
un’idea. E l’idea è: un caravaggesco DOC, ma duro nell’impaginazione e nei contrasti, un caravaggesco rigido che fa pensare alla
La celebre Canestra di frutta del Caravaggio e, sotto, una natura morta del
Maestro di Hartford.
pittura di genere, non al capolavoro. E tuttavia assilla gli storici
la sua identificazione. Chi è? Mina Gregori propose di identificarlo con il marchese Giovanni Battista Crescenzi che, valido pittore
egli stesso, teneva in casa una
sorta d’accademia dove ci risulta
che faceva esercitare gli allievi
con la pittura di nature morte. Per
ora rimane il dubbio, ma il pittore lo conosciamo meglio.
67
Clara Peeters, Natura morta con formaggi, madorle e Pretzels; sull’elegante coltello cesellato in primo piano si legge la firma dell’artista.
E non si può chiudere senza riferimento alle strepitose fiasche
con fiori del Maestro della fiasca
di Forlì, altro enigma pittorico,
ancor più intrigante perché in
questo caso la qualità è sublime.
Clara Peeters
Torniamo ora alle nature morte
fiamminghe, perché non vanno
denigrate. Se è evidente la differenza di stile con Caravaggio e
seguaci, non per questo la maniera nordica è priva di forza poetica. Sorprendente occasione di verifica è la mostra di Clara Peeters
al Museo del Prado di Madrid.
Qui si intrecciano bellezza e mistero: nei dipinti sicuramente,
malgrado la perfetta, dettagliata
esecuzione; ma anche nella figura
di Clara, una delle pochissime
donne che poterono dedicarsi alla
pittura nel Seicento, bravissima
ma di cui non si conosce praticamente niente. Viveva ad Anversa,
non sappiamo nemmeno se fosse
sposata, risultano solo quaranta
68
dipinti, quindici tra i migliori sono in questa mostra che rappresenta anche lo studio più completo sull’artista fatto finora.
La quasi totalità delle sue opere
sono nature morte che ritraggono
in belle composizioni ricchi servizi da tavola, fiori, frutti, pesci,
formaggi, olive, pane, dolci e
tanti altri elementi che, tolti al loro contesto ordinario, acquistano
la rilevanza di veri tesori. C’è un
coltello finemente lavorato che
compare in ben sei dipinti e sul
quale le piace apporre la firma.
Nei Paesi Bassi si mangiava molto pesce e di Clara sono le prime
nature morte con pesci che si conoscano. Categoria specifica costituiscono le cosiddette «nature
morte dolci», che raffigurano il
repertorio della pasticceria contemporanea. E poi il formaggio,
del quale si diceva che era «il pane dell’Olanda, la ricchezza dell’Olanda».
Il curatore della mostra, Alejandro
Vergara, che è anche curatore della sezione fiamminga del Museo
del Prado, ricorda che quando
Clara iniziò a dipingere, nella pri-
ma decade dei XVI secolo, svolgeva un lavoro pionieristico fondato sulla ricerca del reale in contrapposizione all’idealismo rinascimentale che aveva caratterizzato la pittura fiamminga nei due secoli precedenti. Cosa diversa,
penso, è la comune passione per il
dettaglio, presente in tutto lo sviluppo della pittura moderna nordica, da Van Eyck in avanti. Lo
straordinario è questo: che quelle
olive tanto realisticamente rese da
Clara col luccichio dell’umido e
la trasparenza della salamoia, non
cercano il realismo per il realismo, ma l’emozione lirica. In questo senso Clara si rivela artista
sorprendentemente grande, tanto
più se comparata con la pletora di
nature morte che dall’Olanda e
dal Belgio si diffusero in tutta
l’Europa. Senza dimenticare che
era contemporanea di Jan Brueghel il Vecchio, Rubens, Snyders
e Van Dyck, protagonista come
loro (con le limitazioni che una
donna trovava all’epoca) del grande apogeo dell’arte occidentale.
Michele Dolz
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ARES NEWS
Spiritualità, letteratura, mariologia
Su Avvenire del 3 dicembre Antonio Giuliano, nel riflettere sul Natale, ha definito «intrigante» il
nuovo saggio del carmelitano Antonio Maria Sicari, La verità dell’amore. Dalla Trinità alla famiglia (Edizioni Ares, Milano 2016,
pp. 144, euro 10) e ha evidenziato
come esso riparta dall’«evento
che ha cambiato la storia del mondo e ci ha rivelato la Verità dell’Amore per risalire con parole chiare
e incisive al vero significato di
una parola oggi abusata e incompresa (amore) e di un’istituzione
mai così sotto attacco come la famiglia. Eppure “nella famiglia
l’uomo comincia a imparare che
la libertà vive solo quando l’io si
offre e si sente accolto, quando
l’io si impegna nella costruzione
di una casa ospitale per la propria
e l’altrui umanità”».
Queste parole si adattano perfettamente all’opera di santa Teresa di
Calcutta, la cui biografia scritta da
Riccardo Caniato, Una matita
nelle mani di Dio. Vita & santità
70
di Madre Teresa (Edizioni Ares,
Milano 2016, pp. 128, euro 9,90),
è stata recensita da Rino Cammilleri sul Giornale del 4 dicembre,
mettendo in rilevo come la finalità delle suore di Madre Teresa sia
di «accompagnare al Padre» anche chi è rifiutato dagli ospedali, e
da Andrea Vannicelli sul quotidiano La Croce del 10 novembre.
«Teresa veniva da una famiglia
benestante ed era piena di doti
(capacità di insegnare, allegria,
conoscenza delle lingue, spirito di
iniziativa, laboriosità, socievolezza ecc.) che ha messo pienamente
a disposizione di Dio», rileva
Vannicelli. «Ecco davvero un’altra lettura da consigliare a tutti per
liberare la mente dalla frivolezza
e dallo sfrenato consumismo quotidiano nel quale siamo immersi
(e pensare che siamo ancora in un
momento di crisi...), per riempirla
di buoni pensieri, buoni progetti,
buone preghiere».
Apparizioni
mariane
Sull’Eco di Bonaria del 16 novembre è stato menzionato il libro
di Edouard Sinayobye, Io sono la
Madre del Verbo. Nostra Signora
di Kibeho (Edizioni Ares, Milano
2015, pp. 240, euro 15), in correlazione con la consacrazione dell’Africa a Maria Madre di misericordia avvenuta il 15 settembre, festa
della Vergine addolorata, proprio
al Santuario di Kibeho legato alle
apparizioni di Maria Madre del
Verbo nel 1981 e 1989, i cui messaggi anticipavano i fatti della tremenda guerra fratricida del 1994.
Un ampio estratto del libro di Ge-
rolamo Fazzini, La mia vita è
cambiata a Medjugorje. I pellegrini raccontano (Edizioni Ares,
Milano 2016, pp. 264, euro 14) è
stato pubblicato dalla Provincia edizione di Como del 4 dicembre,
che ha definito l’autore «un giornalista che premette di non appartenere al club dei “medjugoriani”
convinti, ma che racconta la propria svolta dopo un pellegrinaggio
e raccoglie in un libro quelle di altri testimoni».
Al volume di Pierina Gilli, Diari.
Le apparizioni di Rosa Mistica a
Montichiari & Fontanelle con i
più importanti documenti d’inchiesta (Edizioni Ares, Milano
2016, pp. 720, euro 18), a cura di
Riccardo Caniato, hanno dedicato
un articolo-recensione Vittorio
Messori sul Corriere della Sera
del 1° dicembre, definendola come
la possibile «Lourdes italiana», e il
settimanale Oggi del 15 dicembre
il réportage fotografico di Fiamma
Tinelli e Massimo Sestini dai luoghi delle mariofanie, con varie te-
ri novità editoriali uscite in Italia
nel 2016 dalla giuria della quinta
edizione della Classifica di Qualità, formata dai redattori e collaboratori del supplemento e da scrittori, artisti, giornalisti e studiosi.
Spiritualità
& teologia
stimonianze di pellegrini dell’epoca e odierni, che numerosi accorrono a quella che nell’articolo è indicata come «la nuova Lourdes».
Eugenio Corti
& Elio Fiore
Alcune lettere ai famigliari dell’autore del Cavallo rosso, Eugenio Corti, tratte dalla raccolta di
epistole inedite «Io ritornerò».
Lettere dalla Russia 1942-1943
(Edizioni Ares, Milano 20152, pp.
248, euro 14), a cura di Alessandro
Rivali, sono state pubblicate con
l’affascinante titolo «La gioia nascosta tra i ghiacci di Russia» sia
sulla Provincia - edizione di Como
del 18 dicembre sia sulla Provincia di Lecco del 22 dicembre.
Sempre La Provincia - edizione di
Como del 19 dicembre ha pubblicato una prosa natalizia e due poesie contenute in Elio Fiore, L’opera poetica, raccolta di tutti i testi di
Elio Fiore a cura di Silvia Cavalli,
con prefazione di Alessandro Zaccuri (Edizioni Ares, Milano 2016,
pp. 728, euro 20), accompagnata
dall’analisi di Cesare Cavalleri, ripresa da Studi cattolici, 130 (dicembre 1971), su cui il trittico fu
originariamente pubblicato.
Il libro è stato menzionato l’11 dicembre anche sul settimanale La
Lettura del Corriere della Sera,
poiché è stato votato tra le miglio-
Nel ricordare, due giorni dopo la
scomparsa, il prelato dell’Opus
Dei mons. Javier Echevarría sul
quotidiano La Croce del 14 dicembre, Giuseppe Brienza ha
menzionato che tutti i suoi testi di
spiritualità sono stati pubblicati in
Italia dalle Edizioni Ares, tra i
quali il più recente è stato Eucaristia & vita cristiana (Milano
2014, pp. 264, euro 16). Brienza,
sullo stesso quotidiano, il 21 dicembre ha ricordato anche il saggio del vicario generale della Prelatura dell’Opus Dei, Mariano Fazio, Con Papa Francesco. Le
chiavi del suo pensiero (Edizioni
Ares, Milano 2013, pp. 112, euro
9,90), tradotto anche in portoghese, francese e inglese.
Su Avvenire del 22 dicembre,
Francesco Pistoia ha recensito
l’antologia di testi del predecessore di Echevarría, Álvaro Del
Portillo, Figli di Dio, figli della
Chiesa (Edizioni Ares, Milano
2016, pp. 232, euro 15), curata da
Gabriele Della Balda, dottore in
filologia e specializzato in Tradizione e interpretazione dei testi
presso l’Università di Urbino. «È
un bel libro», sottolinea Pistoia:
«informa, istruisce, educa, dà il
sapore e il profumo di un cristianesimo vissuto nel suo essere
profondo. È un breviario di teologia spirituale: insegna l’amore
per Dio e per la Chiesa (è un libro
di preghiera), l’amore per l’umanità e per il creato (è un trattatello di dottrina sociale); aiuta a
compiere un cammino di conversione e di riscoperta della bellezza della fede, aiuta a interrogarsi,
ad aprirsi al dialogo rispettoso e
fecondo. I pensieri sull’educazione, sulla scuola, sull’università,
sulla ricerca sono incisivi. Del
Portillo apre a prospettive di ampio respiro, illuminanti, gioiose».
Su Toscana Oggi del 13 novembre, Maurizio Schoepflin ha recensito il saggio dell’ausiliare e
vicario generale dell’Opus Dei,
Fernando Ocáriz, Carità senza
Dio? Il cammino cristiano dell’Amore (Edizioni Ares, Milano
2016, pp. 120, euro 12). «Nella
prima parte del volume, l’autore
concentra l’attenzione sul Duplice
precetto della carità, mettendo bene in luce il doppio movimento
dell’amore che scende da Dio sugli uomini e risale da loro verso di
Lui: in questo contesto, Ocáriz situa una lucida critica nei confronti di tutte quelle concezioni che,
per strade e motivi diversi, conducono a uno snaturamento del cristianesimo che lo riduce a una delle tante forme di umanesimo. Nella seconda parte del libro», prosegue Pistoia, «l’autore affronta la
questione della secolarizzazione
della carità, figlia di un antropocentrismo dimentico della Trascendenza, e riafferma con forza
le esigenze proprie dell’amore nei
confronti del Signore. La terza sezione del testo accoglie numerose
interessanti riflessioni sulla fraternità cristiana e sulle sue caratteristiche essenziali, che la distinguono da qualsiasi genere di filantropia».
Matteo Andolfo
71
LIBRI & LIBRI
L’autentico
san Francesco
Augustine Thompson, O.P., Francesco d’Assisi. Una nuova biografia,
traduzione di G. Desantis e R. Cappelli, Edizioni di Pagina, Bari 2016,
pp. 336, euro 25.
Se c’è un santo
molto noto è
certamente
Francesco d’Assisi. Della sua
vita e figura esistono numerose
ricostruzioni,
ma hanno quasi
tutte il difetto di coartare la sua persona storica all’interno di «tipologie» connesse alle diverse temperie
culturali: ecco il Francesco ecologista, romantico, mistico della natura
e degli animali, hippie, pacifista o
femminista di tante rivisitazioni
moderne (cattoliche e laiche). A
queste si devono aggiungere le interpretazioni teologiche della biografia storica del Santo che si sono
moltiplicate nell’Ordine francescano, e non solo. Inoltre, le fonti medievali su Francesco sono intrise di
elementi «leggendari», o talora sbrigativamente tacciati come tali senza
ricercare la verità storica che si cela
dietro di essi, sicché alcuni studiosi
ritengono sia addirittura impossibile
individuare il vero Francesco della
storia. Ciò ricorda la conclusione di
Olof Gigon sull’inattingibilità del
Socrate storico per le contraddizioni
tra le fonti su di lui.
A esiti opposti è pervenuto il saggio
del domenicano Augustine Thomp-
72
son, professore di Storia alla Scuola
domenicana di filosofia e teologia e
membro della Core Doctoral Faculty della Graduate Theological
Union, entrambe a Berkeley (California), la cui edizione originale è
stata insignita nel 2013 del Premio
Internazionale Ennio Flaiano di Italianistica, assegnato dall’Istituto
Italiano di Cultura di New York.
In modo «spietatamente critico» (p.
7), per usare le sue parole, Thompson ha «scarnificato» la tradizione
delle fonti biografiche francescane
per ritrovare il nucleo dei fatti che la
critica storica può ragionevolmente
attribuire alla vita di san Francesco.
Il risultato è un libro diviso in due
parti: nei primi otto capitoli è ricostruita la biografia «scientifica» del
Santo suddivisa nelle sue diverse fasi: dalla vita «nel peccato» alla conversione, dalla fondazione dei francescani all’approvazione della Regola, dal ritiro dalla guida dell’Ordine alla morte. È fruibile da tutti i lettori, anche non specialisti, e affascina per la figura storica di un Francesco più vicino agli uomini del suo
secolo, il XIII, e soprattutto molto
coinvolto dalle problematiche relative alla direzione dell’Ordine da lui
fondato e nella dialettica tra l’autorità e gli ideali di umiltà. Inoltre, dalla ricostruzione di Thompson emerge come il fulcro della vita spirituale di Francesco non consista principalmente nella rinuncia ai beni materiali, in quella povertà che è riconosciuta dalla communis opinio come la sua caratteristica principale,
quanto in una pervasiva dimensione
eucaristica. La seconda parte del
volume è più consona agli storici e
agli agiografi, poiché l’autore discute approfonditamente le basi filologiche della sua ricostruzione biogra-
fica. In otto capitoli, corrispondenti
a quelli della prima parte, vengono
esaminate le fonti relative ai singoli
eventi della vita del Santo. Come
cattolico, conclude Thompson, la figura di Francesco così ricostruita
«mi ha insegnato che l’amore di Dio
è qualcosa che trasforma l’anima e
fare il bene per il prossimo ha origine da questo, non è semplicemente
un fare il bene al prossimo. Francesco era più per l’essere che per il fare. E il prossimo [...] deve essere
amato per sé stesso, non importa
quanto sia indegno di amore, non
perché possiamo cambiarlo con le
nostre buone opere. In secondo luogo, piuttosto che una chiamata a
compiere una missione [...], la vocazione religiosa riguarda un cambiamento della percezione che si ha di
Dio e della creazione. [...] In terzo
luogo, la vera libertà dello spirito
[...] nasce dall’obbedienza, non dall’autonomia» (p. 10).
Matteo Andolfo
Su Kierkegaard
Stig Dalager, L’uomo dell’istante,
Iperborea, Milano 2016, pp. 416,
euro 18,50.
«Ho vissuto nella
bizzarra cabina della malinconia». È
tutto qui il volo tragico di Søren Kierkegaard
(18131855), il grande
Malinconico. Ora
possiamo conoscere più che mai il suo
cuore triturato grazie a L’uomo dell’istante, lo splendi-
do romanzo di Stig Dalager, forse
uno dei libri più intensi usciti nel
2016. Dalager, stipendiato a vita dalla Danish Arts Foudation, è narratore, poeta e drammaturgo, e ha uno
spiccato talento per le biografie (come quella di Hans Christian Andersen o di Marie Curie). Il suo nuovo
lavoro si basa sia sulla sconfinata
produzione letteraria dell’autore di
Aut Aut sia sulla rigorosissima ricerca kierkegaardiana di Joakim Garff
(Søren Aabye Kierkegaard – Una
biografia) tradotta da Castelvecchi
nel 2013. Il Kierkegaard di Dalager
è al crepuscolo. Lo incontriamo in
ospedale. Solo, sfibrato dalla tosse.
Sa di dover morire e lo spiega ai medici, increduli, perché il male non
sembra così decisivo. Kierkegaard è
senza un soldo e vuole andare incontro al suo Dio a mani nude. Ha
42 anni, ma potrebbe averne centinaia, perché la sua sensibilità scoperta lo ha trascinato per decine di
vite, tutte interiori. Eppure, il suo
cuore era di brace. E il climax del romanzo è proprio la sua storia d’amore con Regine Olsen. Interrotta, ripresa e poi spezzata per sempre. Da
una parte c’è il filosofo che stenografa la sua anima sui Diari, che vive di frammenti contro il Sistema di
Hegel, l’assetato di verità, dall’altra
una ragazza dalla pelle di seta e con
la passione per Mozart e Beethoven.
Kierkegaard è stupito quando Regine accetta il fidanzamento. A lei
interessa il suo spirito magnetico,
la sua capacità di leggere l’anima
degli uomini, non le importa se per
gli altri lui soffra di mania di grandezza, abbia gambe sottili, schiena
storta, vestiti bizzarri, stivali troppo grandi. È un Leopardi che dialoga con i mari del Nord: «Il mio
spirito è come una macchina a vapore, ma il motore è troppo grosso
rispetto alla struttura della nave, ed
è per questo che soffro. Per questo
sono afflitto dalla malinconia».
L’amore sembra vincere sui demoni di Kierkegaard, che ora versa
tutto il suo entusiasmo nella scrittura. È un gigante liberato quando le
confida: «Nel volto di ogni fanciulla vedo tratti della tua bellezza, ma
credo che dovrei possedere tutte le
fanciulle per poter trarre dalla loro
bellezza la tua; dovrei circumnavigare l’intero pianeta per trovare il
continente che mi manca e che il
più profondo segreto dell’intero
mio io mi indica come il polo: e
nell’istante successivo tu mi sei così vicina, così presente, colmi con
tale potenza il mio spirito che mi
sento trasfigurato a me stesso e
sento che è un bene essere qui...».
Il lungo mantello nero che ha imprigionato Kierkegaard sembra che sia
stato strappato dal vento di Regine.
Non c’è più il padre in preda agli
scrupoli. Il corteo dei lutti famigliari. I fallimenti (il sogno di essere
giurista o drammaturgo). È una primavera bellissima quando le scrive:
«Sai che la Chiesa cattolica insegna
che le preghiere di un uomo pio procurano conforto alle anime del purgatorio; io so che è così, e ogni volta che menzioni il tuo amore, smetto di udire lo sferragliare di catene, e
sono libero, infinitamente libero come l’uccello nell’aria, sono libero e
felice nella mia libertà, testimone a
me stesso della mia gioia, così come
prima ero prigioniero del mio carceriere». E invece i carcerieri ritornano. La malinconia bussa alla porta.
Per questo Kierkegaard decide di
abbandonare Regine. Non vuole che
lei soffra accanto a lui. Preferisce
per lei un matrimonio borghese, ma
sicuro, piuttosto che vivere accanto
a un uomo ferito e con le ali troppo
grandi. Per questo lui simulerà di essere un uomo diverso, anche cattivo.
Forse così la separazione sarà meno
lacerante. Regine è sconvolta. Si dice pronta a condividere tutto con lui,
anche il buio. Gli manda un biglietto che non lascia scampo: «La tua
lettera mi ha fatto più male di quanto tu non possa immaginare. Non
credo l’avresti scritta se avessi saputo quanto mi avrebbe distrutta. Ti
prego nel nome di Gesù Cristo e per
la memoria del tuo defunto padre di
non lasciarmi». Kierkegaard ci ripensa, la riprende, ma i fantasmi gli
parlano ancora e arriva il secondo
definitivo addio. Entrambi ne usciranno con le ossa rotte. Lei si chiuderà nel silenzio, lui nel lavoro:
«Scrivere è una liberazione dall’u-
mor nero, una vera e propria voluttà
della penna che può nascondere anche un’angoscia vertiginosa, qualcosa che allo stesso tempo apre all’infinito e fa mancare la terra sotto
i piedi». Søren e Regine s’incontreranno ancora molte volte per le vie
di Copenaghen, ma senza parlarsi.
Anni dopo lui, schiacciato dalla nostalgia, tenterà una riconciliazione.
«Sono stato crudele, è vero. Perché?
Già, tu non lo sai... Solo Dio sa
quanto ho sofferto... Tuttavia tu mi
hai amato, come io ho amato te; ti
devo molto, e ora sei sposata: bene,
ti offro un’altra volta ciò che posso e
oso offrirti: riconciliazione». Søren
chiuse queste righe in una busta al
marito di Regine. Voleva poter tornare a dialogare con lei, ma solo con
l’espressa autorizzazione del marito,
che invece rispose indignato. Da
quel momento la notte di Kierkegaard rimase senza stelle.
Alessandro Rivali
L’ultimo Pavese
Franco Ferrarotti, Al santuario con
Pavese. Storia di un’amicizia, EDB,
Bologna 2016, pp. 118, euro 11,50.
Queste pagine
ricordano un’amicizia, come
può nascere fra
un uomo più
maturo, per tanti
versi già disilluso e ferito, Pavese, e uno più
giovane, Ferrarotti, brillante, curioso di libri, di
viaggi, che sarebbe poi diventato
uno dei massimi sociologi del nostro
Paese. Ma cominciamo dal fondo:
solo un amico, che abbia passato del
tempo con Pavese, condividendo
con lui non solo discussioni libresche, forte quindi anche della conoscenza diretta, può cogliere in sintesi il nucleo dell’esperienza letteraria
dell’autore della Luna e i falò misurandone la radicale unicità: «Già
con Lavorare stanca il realismo es-
73
senziale di Pavese aveva dato prove
convincenti, e si affermava con assoluta originalità in un panorama
letterario che alla magniloquenza fascista e alla bolsa retorica altro non
aveva saputo opporre che le preziose, criptiche espressioni poetiche
dell’ermetismo e i vacui virtuosismi
della bellettristica. Naturalmente, in
Pavese il nuovo linguaggio non solo
non rifiutava, ma, anzi, si nutriva di
suggestioni mitologiche classiche e
di fermenti mistico-religiosi che i
laicisti non tarderanno a esorcizzare
come “deviazioni” irrazionali». Così, quelle che qualcuno, non capendo forse subito come il culmine della produzione pavesiana siano proprio I dialoghi con Leucò – dominati come sono dal tema del sangue,
della terra, del principio e della fine
–, ha chiamato «deviazioni mitologiche», altro non sono se non il superamento pavesiano della poetica
del «fanciullino», che diventa ricerca delle pulsioni archetipiche vive in
ciascuno di noi. L’elemento su cui
maggiormente insistono queste pagine, a proposito dello spirito di Pavese, è il fatto che in quest’intellettuale sofisticatissimo, fosse sempre
presente «e nel fondo misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo
storicismo “laicistico” e lo spingeva
invece allo studio dei grandi miti, archetipi strutturali, racconti metastorici, risposte criptiche alle pulsioni
profonde» che agitano l’uomo». Un
uomo come Pavese, di una complessità così spiccata, non poteva andare
d’accordo con la mentalità settaria,
e, in fin dei conti, ristretta, del più
settario laicismo militante, che imperava, e per certi versi trionfava,
nel panorama culturale dell’Italia di
fine anni Quaranta, prendendo a volte le forme di un neorealismo assai
riduttivo. Al contrario, nella sua ricchezza, Pavese non si lascia imbrigliare in una formula chiusa e definita; e Ferrarotti smonta, pian piano,
in queste pagine, una certa vulgata
sedimentata su di lui, non solo a proposito del suo impegno politico, ma
anche circa una certa qual vena misogina che gli sarebbe stata spesso
rinfacciata e, infine, sul suo suicidio:
74
L’ultima partenza si sofferma sull’ultima, caldissima estate di Pavese. Ferrarotti ribadisce che non fu
«solo» per l’estrema, contingente
delusione d’amore con Constance
Dowling che Pavese si tolse la vita.
Forse «la giovane americana gli
aveva dato l’idea di un mondo diverso, di una vita diversa, di una libertà totali, il recupero di un’innocenza perduta»: illusioni, appunto,
destinate a sommarsi ad altre sorgenti, non meno brucianti, di doloroso senso di fallimento. Il congedo,
com’è noto, avviene in un’estate
caldissima, quando «erano tutti in
vacanza. E anche lui decise di partire. Aveva solo 42 anni». Ma per il
più giovane amico, che visse quell’amicizia anche come una forma di
fraternità, il ricordo forse più intenso è quello da cui prende il titolo del
volumetto, e che ne costituisce un
po’ il cuore pulsante: quando «ai primi chiarori dell’alba saliva[n]o lentamente, al modo di improbabili pellegrini medievali, venendo da Casale Monferrato per l’erta ripida del
Santuario di Crea, zainetto in spalla
e bordone in mano, con due soli incontri, nell’aria ferma e tesa della
guerra civile». E l’esperienza di
quelle solitarie passeggiate, dell’entrata in piccoli villaggi, poco più di
un pugno di case, con la chiesetta e
l’immancabile campanile, con le
pievi, povere e modeste, che però
sapevano creare un senso di continuità nella storia personale di ogni
uomo, risuona così a lungo nell’animo di Ferrarotti. Al santuario con
Pavese è un aureo libretto: senza
pretese di esaustività, ma con eleganza, e incisività, sull’onda dei ricordi, Ferrarotti trova modo di parlarci di tanti argomenti di grande peso specifico: delle fatiche del traduttore, della cosiddetta «eclissi del sacro», del sentirsi parte di una Comunità come accadeva quando, paradossalmente, in un’Italia più povera,
schiacciata dalla dittatura prima e
dalla guerra civile poi, quando «tutti si occupavano esclusivamente del
mangiare e del bere, dei bisogni elementari, per vivere [...] ecco che almeno una volta la settimana, la domenica, secondo la liturgia, nei pic-
coli paesini sperduti, preti discretamente ignoranti, forse inconsapevoli, dicevano parole di alta spiritualità». Ed è proprio in questo scenario
che trova posto un’amicizia particolare, con un gigante della nostra cultura, di cui Ferrarotti coglie, in un
flash, l’essenza: «Da sempre Pavese
sapeva che tutto nasce dal basso, che
il divino non va ricercato nelle alte
spere delle idee iperuranie, ma nella
naturale esperienza quotidiana. In
lui, il contadino langarolo vinceva
sempre sull’intellettuale».
Silvia Stucchi
Per Paolo VI
G.B. Montini, Un uomo come voi
(Testi scelti 1914-1978), a cura di
Giovanni Maria Vian, Marietti,
Milano 2016, pp. 198, euro 16.
La vita interiore
di Paolo VI traspare da queste
pagine in tutta la
sua ricchezza.
Da oltre trenta
scritti di tutta
una vita il direttore dell’Osservatore ha ricavato una silloge per la
collana di saggistica della Marietti in
cui è possibile ritracciare non solo
l’amore e la lungimiranza del Pastore, ma l’integrità dell’uomo Montini. Ne risulta un ritratto apprezzabile e quanto meno interessante per la
vita di fede di molti. «Forse la nostra
vita non ha altra più chiara nota che
la definizione dell’amore al nostro
tempo, al nostro mondo, a quante
anime abbiamo potuto avvicinare e
avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero», scrive il beato in un appunto del ’64. Ma sembra possibile
rileggere le parole che egli indirizzava a un suo amico già nel 1914: «Ecco dunque il mio ideale: la mia vita
passerà rivolta in alto». C’è qui il
Montini che parla anche all’uomo
d’oggi. «Fare presto, fare tutto, fare
bene. Fare lietamente» è un programma di vita valido anche oggi.
Non manca certo il Montini sacerdote e Papa: «“Diligis me plus his?”
[...] Come si fa, al vespro ormai della vita terrena, a salire su questo vertice?» appunta nell’agosto 1963.
«La mia elezione indica due cose: la
mia pochezza, la Tua libertà, misericordiosa e potente». È il dialogo che
intesse anche con la Chiesa: «Abbi il
senso dei bisogni veri e profondi
dell’umanità; e cammina povera,
cioè libera, forte e amorosa verso
Cristo». E con i distanti: «Perché
questo fratello è lontano? Perché
non è stato abbastanza amato. [...] I
lontani spesso sono gente male impressionata da noi, ministri della religione. [...] Ebbene, se così è, fratelli lontani, perdonateci».
testo numerose citazioni e rimandi a
diverse altre opere. Per permettere al
lettore di confrontarsi lui stesso e approfondire quelle parti che più lo attireranno. Un libro che affronta temi
moderni, e che a mio parere va letto
poco per volta e con pazienza, lasciandosi guidare passo dopo passo
dagli spunti e dalle riflessioni proposte, senza voler tracciare un percorso stabilito, ma lasciandosi portare
come dal vento. Allora così si potrà
apprezzare pienamente l’erudizione
di quest’opera.
Dario Romano
Gianni Celati, Romanzi, cronache e
racconti, Mondadori, Milano 2016,
pp. 1984, euro 80.
Magia dei libri
Alberto Valentini, Revolt. L’anticipazione della scomparsa dell’uomo
sarà segnata dall’eclisse del suo libero pensiero, Bordeaux, Roma
2016, pp. 580, s.i.p.
«Non si tratta di
far leggere, ma
di far pensare».
Con questa citazione di Montesquieu si apre
la premessa al
volume del nuovo lavoro di Alberto Valentini, giornalista della
RAI. Una citazione che tocca l’obiettivo di questo libro: invitare alla riflessione e al dialogo le persone, e
magari stimolarle all’azione. Perché, come rileva l’autore già fin dal
sottotitolo, bisogna tenere acceso il
libero pensiero dell’uomo, perché
quando esso scomparirà, allora anche l’umanità sarà destinata a finire.
È importante non spegnere il dialogo, che dev’essere portato avanti anche confrontandosi con il pensiero
degli antichi, e che continui ad arricchirsi di lettura in lettura. Per questo
motivo l’autore, accanto al suo punto di vista personale, ha inserito nel
Luca Montagner
L’elenco della vita
Gianni Celati è
di quegli autori
per cui nella
scrittura rientra
tutto lo scrivere.
Narrare, discorrere, tradurre. In
tutto
occorre
mettere lo stesso
coinvolgimento e lo stesso estro.
Escono ora contemporaneamente
una sua raccolta di saggi e il Meridiano Mondadori che raccoglie
quasi tutta l’opera. Proprio dai saggi – Studi di affezione per amici e
altri (Quodlibet, Macerata 2016,
pp. 288, euro 16.50) – prendo lo
spunto per iniziare. Le Operette morali è il libro più citato e ammirato
in queste pagine, come modello di
una scrittura asistematica, anti-classica, ondeggiante nelle andature del
pensiero e dello stile. Ma le Operette sono anche perfettamente bipolari, divise tra la cupezza più oscura e
la levità più aerea. Il paragone può
valere per Celati: gli entusiasmi e le
euforie dei suoi primi libri – Le avventure di Guizzardi, La banda dei
sospiri, Lunario del paradiso – vanno a esaurirsi nelle depressioni e sospensioni dei Narratori delle pianure, delle Quattro novelle sulle appa-
renze e di Verso la foce. Se l’immagine tiene e si può proseguire: le cose migliori dell’ultimo Celati, i racconti dei Costumi degli italiani, sono come la composizione delle due
tensioni: esaltazione e spaesamento,
entusiasmo e quiete lì si trovano,
non solo nello stesso racconto, ma
in una stessa frase. Questo è quasi il
massimo che una scrittura può ottenere, e ricorda proprio le Operette.
Il centro dell’ispirazione di Celati è
anche il suo grande dissidio: dare
voce alla vita con i suoi stessi mezzi, la parola orale. Lo scrittore che a
un certo punto smette di far parlare
sé stesso. Tutto il suo desiderio ormai è di far parlare il mondo e rendere la propria scrittura una mescolanza di voci. Ciò che all’inizio non
riusciva a fare – far tacere sé stesso
– ora è la sua sola gioia. Questo che
per molti è una conquista raggiunta
con gli anni o con i decenni per Celati è stato quasi un inizio. Fare un
vuoto per ascoltare la vita com’è:
drammatica, comica, tragica, triste,
lieta quasi nello stesso istante. Non
è un caso che una delle figure più ripetute nello stile di Celati sia quella
dell’elenco, la figura che più ci parla della nostra relazione col mondo.
Camminando, guardando, non abbiamo in testa che elenchi, i cui elementi non sono ordinati gerarchicamente: vediamo un palo della luce,
un lenzuolo steso, un’antenna, il
cielo. L’elenco riporta il disordine
come lo trova. Riporta però anche
l’armonia quando una serie di oggetti fa un disegno comprensibile. E
testimonia di un atto di apertura
verso il mondo. La lettura di Celati
rimette sempre davanti agli occhi,
di colpo, tutta la forza e le risorse
del narrare. Di poche cose ha bisogno l’essere umano come di racconti. Se non ne ha di grandi, belli, veri, si nutre di quelli che trova. E
mentre racconta, intesse il passato a
sé stesso, e sé a chi ascolta. «La letteratura», scrive Peter Bichsel, «ha
il compito e il senso di continuare la
tradizione del narrare, perché noi
possiamo sostenere la prova della
nostra vita solo raccontando».
Marco Stracquadaini
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doppia
IN LIBRERIA
La Doppia classifica, come dice il nome, si divide in
due parti. La pagina sinistra, qui sotto, offre una classifica mensile dei libri più venduti, compilata rielaborando le liste dei bestseller diffuse dalle principali fonti giornalistiche. Vale come un sintomo dell'aria che
tira nel mercato editoriale. Il numero su fondo nero ¶
indica la posizione attuale; il numero su fondo chiaro
¬ indica la posizione nel mese precedente; la stellina
H segnala le nuove entrate. La presente elaborazione
si riferisce al mese di dicembre 2016.
Letteratura
Varia
Gennaio non riserva grandì novità: continua il «miracolo» leopardiano di D’Avenia, mentre sia riaffaccia la tenebrosa Barcellona di Carlos Zafón.
¶ ® Jeff Kinney, Diario di una schiappa. Non ce la
posso fare!, Il Castoro, Milano 2016, pp. 218, € 13.
¶ ¬ Alessandro D’Avenia, L'arte di essere fragili.
Per Greg, la «schiappa» più famosa al mondo, arriva un campeggio senza cellulare, Pc o videogiochi... Ne uscirà vivo? Sorrisi per grandi e piccini.
Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016, pp. 216, € 19.
10 e lode al sorprendente «profduepuntozero» che
aiuta a scoprire quanto il nostro tempo abbia bisogno di poesia e di tenerezza. #Infinito #Stelle.
· Á Roberto Saviano, La paranza dei bambini,
Feltrinelli, Milano 2016, pp. 352, € 18,50.
Meglio lo scrittore del tribuno moralizzatore.
¸ ® J.K. Rowling con John Tiffany e Jack
Thorne, Harry Potter e la maledizione dell’erede, Salani, Milano 2016, pp. 368, € 19.
Sembra un déjà vu. Delude, nonostante il botteghino.
¹ H Carlos Ruiz Zafón, Il labirinto degli spiriti,
Mondadori, Milano 2016, pp. 832, € 23.
«L’ombra del vento è fenomenale, un romanzo pieno di splendore magico e botole scricchiolanti, dove anche le sottotrame hanno sottotrame», così Stephen King salutava il primo episodio della tetralogia dedicata al «Cimitero dei Libri Dimenticati»
che qui arriva alla conclusione: 35 milioni di lettori concordano con il re del Thriller...
º ¯ Paula Hawkins, La ragazza del treno, Piemme, Milano 2015, pp. 374, € 19,50.
Bentornata Hawkins, il suo treno vale l’Orient Express della Christie, ma c’è più scavo nei personaggi.
76
· ¯ Aldo Cazzullo, Le donne erediteranno la terra,
Mondadori, Milano 2016, pp. 214, € 17.
«Le donne erediteranno la terra perché sanno sacrificarsi, guardare lontano, prendersi cura»: sul Il genio femminile c’è soprattutto l’intramontabile opera
di Giovanna della Croce e La donna di Edith Stein.
¸ H Bruno Vespa, C’eravamo tanto amati. Amore,
politica, riti e miti. Una storia del costume italiano, Mondadori, Milano 2016, pp. 372, € 19,50.
«Siamo stati i primi a inventare la radio, il fax, persino il computer e abbiamo perso tutto...». Viaggio
in un secolo italiano con molta nostalgia e qualche
barlume di speranza. Il primo capitolo ricorda il bel
tempo in cui si scrivevano lettere, si può accompagnare con «Ti scrivo che ti amo». 299 lettere d’amore italiane (UTET) a cura di Guido Davico Bonino.
¹ Á Valter Longo, La dieta della longevità, Vallardi,
Milano 2016, pp. 302, € 15,90.
Secondo l’autore, i 5 pilastri della dieta «mima-digiuno» consentono di vivere spensierati fino a 110 anni:
chissà che cosa ne pensano «Spartaco» Kirk Douglas
(100 anni) o l’infaticabile Gillo Dorfles (106)...
º H Luciana Littizzetto, La bella addormentata in
quel posto, Mondadori, Milano 2016, pp. 188, € 18.
Meglio calare il sipario. ↓↓↓↓↓↓↓↓
classifica
IN REDAZIONE
di Mauro Manfredini
Qui sotto, nella pagina destra, figura un'altra classifica, che non si basa sulle vendite ma sulla qualità: è
una rassegna di volumi consigliabili e consigliati sulla
base del gusto, del buonsenso e di opinioni magari
sindacabili ma, di norma, non dissennate.
Entrambe le classifiche, quella di destra e quella di sinistra, sono accompagnate da brevi giudizi che forniscono sintetiche indicazioni critiche per un tempestivo orientamento e non pregiudicano recensioni particolareggiate in successivi numeri della rivista.
Letteratura
Varia
¶ Arthur Rimbaud, In questi deserti senza strade. Lettere alla madre, a cura di Vito Sorbello, Aragno, Torino 2016, pp. 258, € 20.
¶ Pedro Casciaro, Al di là dei sogni più audaci,
Ares, Milano 2016, pp. 248, € 16.
«Quest’oggi, tu o Isabelle, venite a Marsiglia con treno espresso. Lunedì mattina mi amputano la gamba.
Pericolo di morte». Il carteggio dettaglia il tormentato rapporto del poeta-Veggente con la madre. Per
Aragno escono libri bellissimi: Addio, anima mia (le
lettere tra Leopardi e Ranieri) e Il laboratorio di sé,
i tre volumi della corrispondenza di Stendhal.
· Ethel Mannin, Tardi ti ho amato, Castelvecchi,
Roma 2016, pp. 378, € 19,50.
Gli inizi dell’Opus Dei in Spagna narrati dal piglio
vivacissimo e sognante di Pedro Casciaro: una necessaria ristampa da affiancare al San Luigi Gonzaga (Ares, pp. 296, euro 18) di Manlio Paganella.
· Henri J.M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia
2016, pp. 224, € 16.
Lo scrittore Francis Sabre oscilla tra impegni mondani e amicizie effimere fino all’incontro che innescherà la redenzione... Romanzo di formazione con
ampi orizzonti, tra i preferiti di Papa Francesco.
Nouwen, l’autore dell’Abbraccio benedicente, si
immerse per sette mesi nel silenzio trappista per interrogarsi sui quesiti più urgenti: intensificare la
preghiera, vincere l’impazienza, la gelosia e la scarsa stima di sé stessi, fare di Cristo il centro della
propria esistenza. Uno splendido panorama dopo la
scalata su una parete mozzafiato.
¸ Thomas Merton, La montagna delle sette balze,
Garzanti, Milano 2016, pp. 500, € 22.
¸ Stefano Zecchi, Paradiso occidente, Mondadori, Milano 2016, pp. 240, € 19.
Un grande viaggio verso Dio: evergreen di un’anima inquieta per il nostro tempo tumultuoso.
«C’è ancora una bellezza che possa testimoniare la
nostra umanità?», è il quid di un suggestivo percorso
sulla nostra decadenza e «la seduzione della notte».
¹ Giampiero Neri, Via provinciale, Garzanti, Milano
2017, pp. 100, € 15.
Ritorna un «maestro in ombra» della nostra poesia
con i suoi temi più cari: la contemplazione della natura, l’origine del male, il senso della storia.
º Albert Spaggiari, Le fogne del paradiso, Oaks,
Milano 2016, pp. 224, € 18.
Per la «rapina del secolo» compiuta «senza armi,
senza odio, senza violenza» da uno spregiudicato avventuriero cosmopolita c’è Cesare Cavalleri a p. 50.
¹ Marco Bussagli, Bosch, Giunti, Firenze 2016, pp.
304, € 75.
Sontuosa monografia illustrata in grande formato
per il pittore visionario che incantò Filippo II di
Spagna come Margherite Yourcenar.
º Marco Busca, Beato chi cammina nella legge del
Signore, ITL, Milano 2016, pp. 104, euro 12.
Mappa ragionata sull’enciclica Laudato si’ per iniziare con slancio spirituale il nuovo anno.
77
FAX & DISFAX
E il passero
volò
L’assuefazione alle dicerie può diventare sconvolgente, può addirittura modificare la percezione della
realtà, la quale finisce per essere appannaggio dei comunicatori. Come
stavano le cose non te lo dicevano
le osservazioni che facevi vivendo,
crescendo, parlando e interrogando
per conto tuo, come si faceva una
volta quando le comunità erano luoghi dove si interagiva con la parola;
adesso ci sono le statistiche, i tolchisciò, il CENSIS, le percentuali
progressive sulle verifiche passate
al setaccio degli «algoritmi»: i «ritmi» li avevamo capiti, sono gli «algo» a lasciarci perplessi.
Anche se una città – metti Roma –
che, compreso il suo hinterland periferico, ammucchiato, disorientato
e sempre sotto pressione mediatica,
conta cinque milioni di persone, in
realtà non si tratta di un mondo
«globale», nel senso che tutti vi sono riconoscibili secondo parametri
comuni, ma di un territorio composto di piccoli serbatoi umani e distanti, legati sotto la copula della televisione dei consumi e degli spot. I
problemi sono uguali, ma le soluzioni fanno la differenza. Il prof.
Pier Pierri se ne accorse quando cominciò a uscire e ad andare per il
mondo. Due fatti lo avevano convinto che bisognava dare argomenti
nuovi e rinnovate ragioni a san
Francesco di Sales, patrono dei
giornalisti e a Gabriele Arcangelo,
protettore della comunicazione.
Non che i due insigni abitatori delle
celestitudini non conoscessero co-
78
me stavano esattamente le cose, ma
da un po’ li avevano messi da parte,
come i fumatori che leggono che gli
verrà il cancro ma continuano a non
crederci.
Primo fatto: l’indagine del CENSIS
sull’impoverimento della classe
media. Secondo fatto: i libri dell’insigne archeologo Carandini
sulle meraviglie di Roma (in pratica: le pietre senza le persone). Il
fatto che il Pier Pierri toccasse
queste due realtà, una indagatoria,
I’altra asseverativa, lo esponeva a
pericolosi, per non dire temerari,
inconvenienti: stava a indicare che
non li temeva. Era suo dovere capire il cambiamento. Gli era successo quando andando a Porta
Maggiore come faceva da qualche
anno a comprare il giornale, non
trovò più il passerotto. Dice: il passerotto? Certo, che ne sanno il
CENSIS o il Carandini di questa roba limitrofa e metafisica? Si spieghi meglio; mi spiego, disse il
prof. Pier Pierri. Porta Maggiore,
come già al tempo di Costantino
imperatore, è il luogo da dove si
parte per andare a sud, oggi definito periferia della città come fosse il
porto di Palos, di Ostia, di Creta, di
Atene, da dove si va alla scoperta.
La ragnatela delle tranvie cittadine
romane si incrocia quasi tutta qui,
e quindi anche la gente. È la stessa
che abitava Roma duemila anni fa:
arabi, orientali, mediterranei, europei e oggi anche sudamericani; anche i romani provenienti dalle provincie umbro-calabro-siculo-abbruzzo-campane ormai acquisiti
nello ius civitatis, e tanti giovani
perché la Sapienza (università) e i
disoccupati sono l’una generatrice
degli altri. Ora, da quando gli
gnocchi alla sorrentina sono stati
scalzati dalla Bellezza alla Sorrentino, è successo che Carandini racconta la Roma antica dove i monumenti sono luoghi meravigliosamente descritti – ci vuole poco a
farlo – ma vuoti delle persone e
dove la Bellezza è una cosa per il
business turistico, mentre la gente
è presa in ostaggio dal CENSIS per
farci sapere che i giovani di domani saranno dei disperati morti di fame e i nonni se la passano male
con pensioni da fame e perciò fuggono a Cuba o si esiliano per farsi
bastare il modesto guiderdone.
Tutte cose che anche senza Carandini e senza il CENSIS si sapevano
già, perché la gente vivendo e osservando la realtà coi proprio occhi
e sulla propria pelle, te la racconterebbe meglio, ma si vergogna. Gli
archeologi descrittivi e gli istituti
di statistiche sociologiche hanno
questo in comune: pretendono di
raccontare il mondo, I’antico o
I’attuale non fa differenza; hanno
in comune anche il fatto di pretendere che come lo raccontano loro,
quello è il vero mondo. In quei libri le terme di Caracalla sono abitate dai fantasmi, descrivere i romani che ci giocavano a palla, come da famosa canzonetta, esaltava
il fantasioso archeologizzare dei
moderni Vitruvio e Tito Livio, ma
non aiuta a preservare I’industria
dell’antico dai crolli, dalle erbacce
che lo scarnificano e dalla neglettitudine; quanti scavi abbandonati
dopo essere stati esaltati dal Carandini – e non solo – pullulano intorno a noi. E il CENSIS, entrando nel
merito della socialità, non ci spiega perche questa società si sta immiserendo.
di Franco Palmieri
Pier Pierri, che è un provocatore, dice: è colpa loro. Si spieghi meglio;
mi spiego con un esempio. Giorgio
era un idraulico bravo e in altri tempi ha lavorato e guadagnato molto,
ha comprato casa, due negozi, una
casa per i figli e la villetta al mare.
Poi è andato in pensione e i figli all’università, lavoretti precari, redditi bassi, tasse alte. Giorgio non ha
mai pagato le sue tasse in proporzione ai guadagni, tutto in nero: ergo, la pensione è misera. Lo Stato
che tassa fingeva di non saperlo e a
quel tempo era necessario perché i
soldi, in rosso o in nero, sempre
spenderli bisognava, quindi i consumi tiravano; ma adesso su quei beni
immobili non si riescono a pagare
le gravose tasse che vi incombono.
Il CENSIS non lo sapeva, ma Francesco di Sales e Gabriele Arcangelo lo
avevano capito, e ne temevano le
conseguenze da un pezzo. Infatti,
avevano provveduto secondo le loro capacità, ispirando coloro che gli
si rivolgevano a dire come stavano
davvero le cose, a non dare seguito
ai proclami dei tolchisciò, a spiegare che se i monumenti sono vuoti è
perché si esalta I’estetica da sfruttare e non la Bellezza da preservare;
e, soprattutto, non si è tenuto conto
della scomparsa del passerotto di
Porta Maggiore.
Avete capito bene. I romani, quelli
di sempre, quelli di Porta Maggiore, conoscono due cose, il negozio
di ricambi elettrodomestici e l’edicola dei giornali. Voi andate a
comprare l’accendigas e rimanete
nel negozio due ore perché il bravo
signor Claudio vi mostra e vi racconta la storia di Porta Maggiore
dall’anteguerra a oggi, e con il suo
straordinario archivio fotografico
mostra com’era Porta Maggiore
durante il fascismo, negli anni della guerra. Poi uscite dal negozio
rinfrancati perché un pezzo di
mondo sconosciuto al Carandini e
al CENSIS vi si è miracolosamente
rivelato, anche grazie allo zampino
invisibile di Francesco di Sales e di
Gabriele Arcangelo, e rimanete
sconcertati: cartacce, bottiglie di
birra sparse, i giardini intorno al
glorioso portale marmoreo sopraffatti da erbacce e alberelli che crescono tra le architetture e allora voi
– facendo finta di non vedere che
dall’altra parte, all’imbocco della
Casilina, c’è anche una specie di
postribolo all’aperto appena fa un
po’ buio –, andate all’edicola dei
giornali: il segnale tragico è arrivato con il terremoto, proprio lì.
All’edicola dei giornali del signor
Luciano tutti i giorni entrava il
passerotto, uno vero, svolazzava,
si faceva i suoi giretti tra i giornali, saliva sulla spalla della signora,
piluccava le mollichelle, la gente
entrava e lo salutava, era una specie di segnale, la forma di quell’intenzione metafisica che la tradizione iconografica classica ha sempre
attribuito a una certa simbologia
espressa nel volo, dalla colomba al
passerotto, che sempre – come il
cardellino – ha illuminato d’immenso pitture e scritture: del resto,
Gabriele Arcangelo vola. Ebbene,
nei giorni del terremoto che ha distrutto la cattedrale di San Benedetto a Norcia, il passerotto è
scomparso. Quando il professor
Pier Pierri è andato per il giornale
e il signor Luciano dell’edicola gli
ha detto che il passerotto era scomparso, c’è stato un attimo di pausa
pensosa, poi il Pier Pierri ha detto:
«Era inevitabile, non ce lo meritavamo». Anche nel negozio-archivio del signor Luigi di Porta Maggiore la gente adesso pare più frettolosa. Ci sono mondi che non si
parlano più, li interpretano i sociologi che pensano di rendersi comprensibili eliminando le complessità necessarie, e così arrivano al Carandini, nel vuoto, sul versante non
delle idee ma dell’utile, non sull’etica di Francesco di Sales e di Gabriele Arcangelo, me nel dire per
distrarre. L’aveva scoperto Urbano
Cairo, della RCS Corriere, di La7,
tv dei tolchisciò. Una mattina si era
svegliato presto: «Fammi un po’
vedere come raccontano le notizie
i miei pargoli», e s’era messo davanti al televisore che lui tiene acceso 24 ore su 24. Facendosi la
barba, per poco non si sgozzava
col rasoio, quello a lama come faceva suo nonno a Cairo Montenotte. In primo piano, a tutto schermo,
mentre la voce commentava i titoli, la camera inquadrava le pagine
dove campeggiava la pubblicità di
Ferragamo cravatte, oppure dell’acqua Lete, dell’orologio Longines, della Tissot, della Cartier, oltre a magliette e scarpe varie. Sì
c’erano dieci centimetri di scritto
sottolineato e illeggibile, ma lo
spot furbo era iI messaggio. Urbano andò su RaiNews24, idem; anche lì a mezzanotte pagine pubblicitarie e dieci centimetri di notizia.
È un trucco delle aziende o una
furbata dei conduttori, registi, giornalisti? Stanno indagando. La faccenda è comica, I’effetto è disturbante e la conseguenza ammonitrice, perché Francesco di Sales e Gabriele Arcangelo stanno meditando
di dare le dimissioni.
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LIBRI RICEVUTI
Ringraziamo gli editori per l’invio delle loro novità. Il giudizio critico, nei limiti dello spazio disponibile alle rubriche, è cronologicamente indipendente da
questo annuncio bibliografico.
digmi per la teologia della liberazione), traduzione e cura di L. Spegne,
Castelvecchi – LIT Edizioni, Roma
2016, pp. 64, euro 7,50.
Francesco Mario Agnoli – Ettore Beggiato – Nicolò Dal Grande, Veneto
1866 (Da Lissa all’Unità: resistenza,
plebiscito, emigrazione), presentazione di A. Morganti, Il Cerchio Iniziative Editoriali, San Marino 2016,
pp. 104, euro 14.
Pierre Favre, Memorie spirituali, traduzione e cura di G. Mellinato, Castelvecchi – LIT Edizioni, Roma 2016,
pp. 192, euro 17,50.
Antonio Allegrini, Sentiva nei boschi
odori di altri mondi (Poesie e prose),
a cura di A. Sana, Editrice Morcelliana, Brescia 2016, pp. 194, euro 16.
Vincenzo Guarracino (cur.), Il fiore della poesia italiana, tomo I: Otto secoli, Puntoacapo, Pasturana (AL) 2016,
pp. 248, euro 20.
Kiko Argüello, Annotazioni (19882014), presentazione del card. R.
Blázquez Pérez, traduzione dallo
spagnolo di E. Pasotti e F.J. Sotil
Baylos, Edizioni Cantagalli, Siena
2016, pp. 250, euro 20.
Vincenzo Guarracino – Mauro Ferrari
– Emanuele Spano (cur.), Il fiore
della poesia italiana, tomo II: I contemporanei, Puntoacapo, Pasturana
(AL) 20162, pp. 330, euro 20.
Roberto Mutani, Il sogno e l’arte (Il linguaggio dell’anima), Allemandi, Torino 2016, pp. 134, euro 28.
Francesco Langianni, Due stanze, Robin Edizioni, Torino 2016, pp. 296,
euro 16.
Martha Nussbaum, La speranza degli
afflitti (Il lutto e i fondamenti della
giustizia), a cura di P. Costa, EDB,
Bologna 2016, pp. 74, euro 9.
Marco Busca, Beato chi cammina nella
legge del Signore (Riflessioni sull’enciclica «Laudato si’» e altri testi
di Papa Francesco), ITL, Milano
2016, pp. 104, euro 12.
Padre Benigno Calvi, Prediche e meditazioni, introduzione di mons. E.
Apeciti, presentazione di padre P. Janes, nota di E. Mauri, con DVD, Mimep-Docete, Pessano con Bornago
(MI) 2016, pp. XXIV-48, euro 12.
Gianfranco D’Ambrosio, Mutare in inno l’elegia, prefazione di N. Di Stefano Busà, postfazione di N. Bonifazi, s.l. 2016, pp. 160, s.i.p.
Jakob H. Deibl, Poetica del congedo
(Hölderlin e la nominazione del divino), traduzione dal tedesco di M.
Coser, EDB, Bologna 2016, pp. 142,
euro 12.
di M. Bocchiola, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2016, pp. 276, euro 18.
La notte respira la sua luce (Poesie e
canti di Natale dei Padri della Chiesa), a cura di A. Peri, Castelvecchi –
LIT Edizioni, Roma 2016, pp. 144,
euro 15.
Giacomo Leopardi, Inno a Nettuno.
«Odae adespotae» (1816-1817), a
cura di M. Centenari, Marsilio Editori, Venezia 2016, pp. 288, euro 26.
Giacomo Leopardi, Scrivimi se mi vuoi
bene (Lettere e pagine fra Natale e
anno nuovo), a cura di F. Elli e V.
Rossi, Interlinea Edizioni, Novara
2016, pp. 96, euro 10.
Giacomo Leopardi – Antonio Ranieri,
Addio, anima mia, (Carteggio), a cura di V. Guarracino, Nino Aragno Editore, Torino 2016, pp. 136, euro 15.
Alexandre Dumas, Storia di uno Schiaccianoci (Favole di Natale), con le illustrazioni originali di Bertall, traduzione di M. Vaggi, Interlinea Edizioni, Novara 2016, pp. 196, euro 12.
Mauro Giuseppe Lepori, Si vive solo
per morire?, Edizioni Cantagalli,
Siena 2016, pp. 152, euro 13.
Echi da Babele (La voce del traduttore
nel mondo editoriale), presentazione
João Batista Libânio, Continuare a sognare un mondo umano (Nuovi para-
Madre Teresa di Calcutta, Amiamo chi
non è amato (Testi inediti), prefazione di Papa Francesco, EMI, Bologna
2016, pp. 96, euro 9,50.
Ethel Mannin, Tardi ti ho amato (Romanzo), traduzione dall’inglese di F.
Ballini, Castelvecchi – LIT Edizioni,
Roma 2016, pp. 384, euro 19,50.
Mille e una Callas (Voci e studi), a cura di
L. Aversano e J. Pellegrini, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 640, euro 26.
Carlo Ossola, Ungaretti, poeta, Marsilio
Editori, Venezia 2016, pp. 288, euro 17.
Antonio Palmieri, Internet e comunicazione politica (Strategie, tattiche,
esperienze e prospettive), FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 154, euro 19.
Angela Pellicciari, Martin Lutero (Il lato oscuro di un rivoluzionario), Edizioni Cantagalli, Siena 2012, pp.
208, euro 14,50.
Clemente Rebora, Il tuo Natale di fuoco
(Poesie, lettere, pagine di diario, postille e inediti), edizione accresciuta
con autografi ritrovati a cura di R.
Cicala e V. Rossi, Interlinea Edizioni, Novara 20162, pp. 220, euro 12.
Sebastian Smee, Artisti rivali (Amicizie,
tradimenti e rivoluzioni nell’arte moderna), traduzione di V. Bellocchio,
UTET, Novara 2016, pp. 352, euro 20.
Aldo Maria Valli, 266. Jorge Mario
Bergoglio Franciscus P.P., Liberilibri, Macerata 2016, pp. 210, euro 16.
Questo fascicolo (n. 671) è stato chiuso in tipografia l’11 gennaio 2017. Il fascicolo precedente (n. 670) è
stato consegnato al C.M. Postale di Perugia, per l’inoltro agli abbonati e alle librerie, il 22 dicembre 2016.
80
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