Pastori a Pereto (L`Aquila): la vita
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Pastori a Pereto (L`Aquila): la vita
Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita a cura di Massimo Basilici edizioni Lo Introduzione Quando si parla di pastori o pecore in Abruzzo, si pensa alla transumanza abruzzese, fenomeno migratorio che faceva spostare greggi dall’Abruzzo verso il Tavoliere delle Puglie e viceversa. È questo un fenomeno rimasto in vita fino agli inizi del Novecento. Migliaia di pecore si spostavano, con l’arrivo dell’inverno, verso il Sud della penisola italiana, per avere disponibilità di erbe. I pastori transumanti portavano con sé strumenti a dorso di muli ed asini, utilizzati durante la trasferta: bisacce, tascapani, ciotole, posate, sgabelli, secchi, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Questi strumenti erano utili sia durante la trasferta in Puglia, sia quando stanziavano presso il paese. Gruppi di cani viaggiavano con i pastori e mantenevano raccolto il gregge. A Pereto questa migrazione non è avvenuta, secondo i racconti dei pastori locali ed in base alla carte manoscritte finora rintracciate. In paese si sviluppò una transumanza locale e non verso il Tavoliere delle Puglie. Consisteva nel far pascolare gli ovini in montagna nel periodo estivo; durante la stagione invernale, invece, il gregge utilizza i foraggi dei pascoli della Piana del Cavaliere. Pereto ha una piana posta in basso all’abitato e tre vallate montane. Queste distese d’erba situate in altura erano destinate a pascolo durante i mesi compresi da aprile ad agosto. Avveniva una movimentazione dal piano alle vallate presenti in montagna e viceversa. Questi pascoli montani erano utilizzati anche per gli animali equini e bovini. A queste movimentazioni di greggi locali si affiancavano spostamenti di greggi provenienti dal Lazio. È stata condotta una ricerca attraverso le testimonianze orali dei pastori ancora viventi a Pereto e degli oggetti che si utilizzavano una volta per la gestione della pastorizia. Quanto raccolto è riportato nella presente pubblicazione. L’obiettivo della ricerca è stato quello di raccontare la pastorizia a Pereto in base alle conoscenze degli anziani del luogo. 1 Ringrazio: Valentina Bove, Matilde Dondini, Antonio Giustini, Romolo Giustini, Alessandro Ippoliti, Fernando Meuti, Giovanni “Giovannino” Meuti, Pierluigi Meuti, Anna “Annina” Sciò, Giacomo “Giacomino” Sciò, Camillo Vendetti per le informazioni. Massimo Basilici Roma, 15 aprile 2014 Note per questa pubblicazione ## Nella copertina della presente pubblicazione è riportata la foto di un gregge su Corso Umberto I, sotto dove si trovavano le baracche edificate con il terremoto del 1915. L’edificio scolastico doveva essere ancora costruito; la foto è datata fine anni Quaranta. Sono le pecore di Ottavio Giustini, conosciuto con il soprannome di sgherro. 2 Introduzione La pastorizia è una delle forme più antiche di allevamento, praticata con la maggior parte delle specie animali domestiche da reddito, principalmente ovini e caprini. Si contraddistingue dall'allevamento perché gli animali si nutrono muovendosi in un ambiente naturale e non sono nutriti con risorse dell'allevatore. Pecore e capre sono entrambi mammiferi domestici, ma appartengono a due diversi generi e differiscono fisicamente. Grazie alle capacità di adattamento a regimi alimentari diversi, di selezione degli alimenti ed anche di parti della stessa pianta, la capra è in grado di adattarsi a condizioni che sarebbero proibitive per altri animali considerati più "nobili", quali bovini e ovini. I pastori In paese quasi tutte le famiglie allevavano le pecore. Le capre le avevano tutti: tre o quattro capre andavano al pascolo con le pecore. Solo pochi allevavano esclusivamente le capre. Di seguito sono elencati i pastori che gli anziani del paese ricordano. Per alcuni è stato aggiunto il nomignolo o il soprannome per distinguerli, poiché esistevano degli omonimi. Per ognuno è stata cercata una fotografia da giovane; il numero apposto nella didascalia che accompagna l’immagine riguarda l'anno in cui potrebbe essere stata scattata la foto. Non è stato seguito un ordine per le fotografie, a mano a mano che sono stati individuati dei nomi è stata inserita una fotografia nella lista. Gaspare “Caspirucciu” Meuti (Figura 1), Sante "Santino" Meuti (Figura 2), Giovanni “Giovannino” Meuti (Figura 3), Giacomo “Giacomino” Sciò (Figura 4), Romolo Giustini (Figura 5), Mario Vendetti (Figura 6), soprannominato mirupittu, Giovanni Leonio (Figura 7), soprannominato stizio, Alfonso Cristofari (Figura 8), Marziantonio Iacuitti (Figura 9), Giovanni Iadeluca (Figura 10), soprannominato poietano, Mario Camerlengo (Figura 11), soprannominato maruzzo, Pietro Cappelluti (Figura 12), soprannominato caoluzzo, Gaetano Cristofari (Figura 13), 3 Ottavio Cristofari (Figura 14), Alfonso Giustini (Figura 15), Berardino Giustini (Figura 16), soprannominato rucchitto, Berardino Giustini (Figura 17), soprannominato bidone, Francesco Giustini (Figura 18), chiamato Checco ‘e Nello, Giuseppe Iadeluca (Figura 19), soprannominato maccascianu, Giuseppe Iadeluca (Figura 20), soprannominato peppeantonio, Alfredo Nicolai (Figura 21), soprannominato ciocione, Dante Nicolai (Figura 22), Luigi Pelone (Figura 23), soprannominato bugiardella, Mario Rossi (Figura 24), soprannominato battente, Berardino Santese (Figura 25), soprannominato ‘ndinulei, Antonio Sciò (Figura 26), chiamato Antonio ‘ngicchememma, Antonio Sciò (Figura 27) soprannominato cialatta, Giuseppe “Pippinu” Sciò (Figura 28), chiamato anche Ignazio, Luigi Sciò (Figura 29), Carlo Vendetti (Figura 30), Gustavo Vendetti (Figura 31), Nello Giustini (Figura 32), Alfredo Malatesta, soprannominato ciuciù (Figura 33), Antonio Ranati, soprannominato u capraru (Figura 34), Antonio Ranati, soprannominato maggiorani (Figura 35), Ottavio Giustini (Figura 36), Giovanni Maria Iadeluca (Figura 37), Antonio Giustini (Figura 38), Giulio Cicchetti (Figura 39) che allevava solo capre Di queste persone non è stato possibile rintracciare una foto: Ottavio Iacuitti, soprannominato di sgherro, ##luciana Carmine Iadeluca, soprannominato di tinaru, Giovanni Iadeluca, soprannominato di pennecone, Fernando Vendetti, Giovanni Cicchetti, Mario Giustini, Nicola Cicchetti che allevava solo capre 4 Figura 1 - Meuti Gaspare, 1927 Figura 2 - Meuti Sante, 1950 Figura 3 - Meuti Giovanni Figura 4 - Sciò Giacomo, 2014 Figura 6 - Vendetti Mario, 1959 Figura 5 - Giustini Romolo, ## 5 Figura 7 - Leonio Giovanni, 1941 Figura 8 - Cristofari Alfonso, 1956 Figura 9 - Iacuitti Marzioantonio Figura 10 - Iadeluca Giovanni, 1953 Figura 11 - Camerlengo Mario, 1953 Figura 12 - Cappelluti Pietro, 1941 6 Figura 13 - Cristofari Gaetano, 1931 Figura 14 - Cristofari Ottavio, 1936 Figura 15 - Giustini Alfonso, 1928 Figura 16 - Giustini Berardino, 1941 Figura 17 - Giustini Berardino, 1950 Figura 18 - Giustini Francesco, 1951 7 Figura 19 - Iadeluca Giuseppe, 1954 Figura 20 - Iadeluca Giuseppe, 1943 Figura 21 - Nicolai Alfredo, 1940 Figura 22 - Nicolai Dante, 1954 Figura 23 - Pelone Luigi, 1938 Figura 24 - Rossi Mario, 1953 8 Figura 25 - Santese Berardino, 1927 Figura 26 - Sciò Antonio, 1951 Figura 27 - Sciò Antonio, 1951 Figura 28 - Sciò Giuseppe, 1942 Figura 29 - Sciò Luigi, 1928 Figura 30 - Vendetti Carlo, 1952 9 Figura 31 - Vendetti Gustavo, 1927 Figura 32 - Giustini Nello, 1936 Figura 33 - Malatesta Alfredo, 1941 Figura 34 - Ranati Antonio, 1927 Figura 35 - Ranati Antonio, 1931 Figura 36 - Giustini Ottavio, 1951 10 Figura 37 - Iadeluca Giovanni Maria, 1951 Figura 38 - Giustini Antonio, 2014 Figura 39 - Cicchetti Giulio, 1954 In paese non esiste il termine gregge, per indicarlo si utilizzava il termine ‘na punta ‘e pecore. Quando il gregge era tanto si utilizzava l’espressione ‘na bella punta ‘e pecore. Questa era composta da alcune decine di pecore, fino ad arrivare ad un centinaio. Non esisteva l'affidamento delle pecore, in altre parole qualche possidente che dava in gestione giornaliera le proprie pecore a un pastore. Esisteva, invece, la soccida tra privati. Avveniva quando uno intendeva mettere su un gregge, ma non aveva la disponibilità economica per costituirlo. Un proprietario acquistava le pecore, un pastore le governava per cinque anni. Al termine del periodo si scioglieva la soccida e si divideva tra le due parti il capitale (pecore, latte, formaggi, ricotte, ecc.) in proporzione. Questo tipo di soccida non era svolto dalle locali confraternite, le quali costituivano soccide con gli animali bovini. 11 Di seguito sono illustrati gli oggetti che il pastore portava con sé durante il pascolo. Per camminare utilizzava un bastone per l’appoggio e per guidare le pecore, ovvero per toccà le bestie. Quando qualcuna cercava di allontanarsi dal gregge, il pastore la percuoteva con il bastone per farla ritornare tra le altre. Era un normale bastone. In Figura 40 è riportato il bastone di Giacomo Sciò (classe 1924), che ancora oggi, che ha smesso di portare le pecore da alcuni anni, utilizza per spostarsi. Attrezzo importante per il pastore era un fazzoletto. Questo, il più delle volte, era posto intorno al collo per proteggerlo dal freddo e dal sudore. A volte legato intorno all'addome. Era utilizzato per legature necessarie all’occorrenza o per contenere oggetti. Utile era l’ombrello, in tela colorata, di grosse dimensioni (Figura 42). Uno spago era legato alle estremità dell’ombrello e mediante questo spago il pastore lo portava a tracolla, come un fucile. Era utilizzato un tascapane, fatto di stoffa, che conteneva la colazione e il pranzo da consumarsi durante il pascolo. Figura 41 - Tascapane 12 Figura 40 - Bastone di Giacomo Sciò Figura 42 - Ombrello L’acqua da bere durante il pascolo era contenuta in una borraccia stipata nel tascapane. Alcuni utilizzavano anche delle cupellette, riempite con del vino. Per camminare erano calzati gli scarponi. Dai racconti degli intervistati non è stato evidenziato l’uso delle ciocie, indumento tipico dei pastori. Si racconta che le ciocie, fatte di pelle di pecora, fossero utilizzate per vangare. Agli scarponi erano associati i guardamacchie, costituiti da pezzi di pelle di pecora, legati intorno ai polpacci. Servivano per proteggere le parti basse delle gambe. In Figura 43 è mostrato un guardamacchia utilizzato dai pastori in epoche recenti, ma non quello che era realizzato con le pelli di pecora. Questo era posto intorno alla caviglia e tenuto stretto mediante le due fibbie. Quelli antichi erano legati con lo spago. ## guardamacchie vecchio Figura 43 - Guardamacchia 13 Il cappello a falda larga riparava dal sole, dalla pioggia e da altre intemperie. Questo era il corredo del pastore, oltre il vestiario. Fondamentale per la gestione delle pecore era la presenza di cani. In epoche recenti fu introdotto un tipo di cane che aggirava il gregge, facendo si che rimaneva sempre compatto durante il cammino o il pascolamento. Non è stato possibile ricavare, dalle interviste, il tipo di animale. Qualcuno ha segnalato che poteva appartenere alla razza del pastore maremmano. Questo animale era il compagno di viaggio del pastore, nutrito con le ossa degli animali macellati dal pastore o dai macellai locali. Figura 44 - Antonio Sciò con un suo cane Il pascolo La giornata tipica del pastore era la seguente. Prima dello spuntare del sole il pastore si recava alla stalla e cominciava la sua giornata lavorativa. Passavano la notte nella stalla, sia per essere difendese da eventuali predatori, sia per stare al caldo. Il pastore governava le pecore dandogli del fieno, se il gregge non poteva uscire per le condizioni climatiche, e cominciava la mungitura 14 (l’operazione era detta mette a magnà e a mugne). La durata della mungitura dipendeva dalla quantita di latte disponibile da ogni singolo animale e dal numero di animali da mungere. Non erano utilizzate operazioni particolari, era avvicinata la pecora da mungere e iniziava la mungitura. Al termine dell’operazione il sole era spuntato ed a questo punto il gregge si metteva in cammino uscendo dalla stalla. A volte, per tramandare la tradizione, al pastore si aggiungeva il figlio, il quale dava una mano nella gestione del gregge e nello stesso tempo imparava l’arte e i trucchi del mestiere. Per far uscire il gregge si aspettava che l’erba del pascolo fosse asciutta, in quanto l’erba bagnata poteva far abortire (le ficea sconcià) le pecore incinte. Raggiunto il punto dove il gregge doveva pascolare, il pastore prendeva una posizione per osservarle. Nel gregge, una femmina portava la campana; questo animale era il punto di riferimento sia per il gregge, che per il pastore. Anticamente si utilizzava riconoscere l’animale attraverso dei tagli praticati sulle orecchie, consistenti in fori, tacche o recisioni di parte del lobo dell’orecchio. Poi le pecore furono marcate con un liquido, chiamato la magra, di colore blu. Il liquido si realizzava mescolando terra blu con olio. In epoche recenti furono utilizzate delle vernici. Per marcarle si utilizzava un timbro (la merca) in ferro. In un catino era versata la magra. La pecora era fatta passare attraverso un corridoio (u vau), quindi bloccata con un uncino. A volte la pecora era marcata senza questo sistema di bloccaggio. La merca era immersa nel liquido e poi poggiata sulla pelle della pecora. Il timbro riportava le lettere del proprietario per riconoscere a chi apparteneva l’animale. Ogni anno si timbrava l’animale poiché con la tosatura e la crescita della lana, il marchio scompariva. Se c’erano proprietari di pecore con le stesse iniziali, si apponeva il marchio o alla spalla o alla coscia, per distinguere gli animali dei vari proprietari. 15 Figura 45 – La merca di Giacomo Sciò Figura 46 - Timbro di Giacomo Sciò, particolare In Figura 45 è riportato il timbro di Giacomo Sciò utilizzato per marcare le sue pecore. In Figura 46 è riportato un dettaglio del timbro, che mostra le iniziali SG. Quando due greggi si incontravano, i pastori cercavano di tenere le pecore distanti tra di loro per non farle mischiare (falle ‘nfrascà) e poi doverle separare con dispendio di tempo ed energia. Le pecore andavano tenute vicine tra di loro, altrimenti queste mangiavano le cime delle erbe e danneggiavano la parte rimanente, calpestando l’erba, sprecandola. Sono ruminanti, dopo aver masticato in modo sommario il cibo, lo immettono nella cavità ruminale, dove subisce una prima grossolana digestione. Il cibo poi torna, sotto forma di “rigurgito” nella cavità boccale ove subisce la masticazione completa. Poi passare nell’omaso dove incomincia la prima vera fase di digestione. 16 Come tutti i ruminanti, gli ovini non possiedono gli incisivi superiori, mentre gli inferiori sono molto taglienti e servono per recidere l’erba al pascolo. Questa loro caratteristica provoca lo scollettamento delle erbe, causando l’impoverimento del cotico erboso. Per questo si pratica il pascolo turnato, ovvero ## speiga La pecora quando è sazia si ferma e si corica per poi riprendere a pascolare dopo 1 o 2 ore. Durante il pascolo il pastore osservava il gregge, stando attendo che non sconfinasse, rispetto all’area dove doveva pascolare. Non aveva tempo per leggere. Qualche pastore, per passare il tempo, suonava l’organetto, ad esempio Santino Meuti. Non si ricorda se qualcuno suonasse la zampogna o il piffero. Nel frattempo erano raccolte erbe o funghi per essere poi cucinati. La pecora mangia quasi tutte le erbe. Normalmente sa distinguere bene le piante velenose o tossiche dalle altre. L’erba medica è una dell'erbe preferite, solo che se ne mangia tanta si gonfia, con la possibile morte dell’animale. L’unico rimedio preso, qualora avessero fatto indigestione di erba, era quello di tenere fermo l’animale con lo scopo di far sgonfiare l’addome.1 In alcuni giorni il gregge era portato in prossimità di zone ove erano presenti pietre lisce, sopra le quali i pastori depositavano il sale da far mangiare alle pecore. Queste località erano indicate con il termine salere. Il sale si acquistava in paese ed era somministrato ogni tanto.2 Secondo alcuni intervistati gli era dato come integratore alimentare, secondo altri per farle mangiare di più. Le pecore bevevano una volta il giorno; se il pascolo è verde, la pecora non è invogliata a bere. Non c’era un orario specifico, dipendeva quando si trovavano in prossimità di un fontanile o di un ruscello. 1 2 Questa azione oggi è considerata insufficiente, in quanto esistono altri metodi per combattere questo caso. Non è stato possibile avere un dettaglio sulla frequenza della distribuzione o la quantità di sale fornito al singolo animale. 17 Nel primo pomeriggio il gregge si rimetteva in moto per raggiungere il punto dove passare la notte. Se le pecore avevano figliato allora si effettuava una mungitura la sera. La vita delle pecore La pecora è un animale che ama vivere in gruppo. Non esiste una capogruppo, perché il primo che si muove è seguito dagli altri, è abitudinario e quindi tende a seguire gli stessi percorsi e gli stessi spostamenti. E’ un animale mite, ma non pauroso come erroneamente si crede, infatti, soprattutto in caso di difesa della prole, la madre attacca a testa bassa l’aggressore. Come la maggior parte degli animali, ha un buon fiuto, con il quale riesce a riconoscere la propria prole e le altre pecore del gregge da eventuali pecore estranee. Nel gregge si trovano queste tipologie di animali: Maschio abbacchio agnello Ciavarra montone Femmina Abbacchio Agnella Pecora Età Fino a 2 anni Da 2 anni in poi Dagli anziani intervistati sono citati principalmente due razze3 di pecore allevate in paese: - Maremmana, o nostrana, che dava lana più buona; - Sardegnola, bianca, che dava più latte. In realtà erano allevate pecore anche della razza Frisona, Siciliana, Faccia rossa ovvero Comisana. Nel gregge c’erano tre o quattro animali maschi (montoni) su un centinaio di pecore. In paese si utilizzava l’esclamazione venti a montone, per indicare il rapporto di quanti montoni dovevano esserci per un gruppo di pecore. 3 Le razze ovine in genere vengono divise in 3 gruppi: razze ovine specializzate nella produzione di latte, nella produzione di carne e nella produzione di lana. 18 Un carattere distintivo tra i maschi e le femmine degli ovini è dato dalle corna che di norma sono presenti nel montone e mancano nella pecora.4 Il momento in cui i maschi producono spermatozoi e le femmine ovuli fecondabili è detta pubertà. La pecora la raggiunge a circa 6-7 mesi. Quindi possono accoppiarsi tra di loro per procreare. I montoni avevano il compito di ingravidare le femmine. Con dei salti, ingravidavano più pecore al giorno. ## 6-7 pecore ## Più salti Ogni tre anni il montone andava rinnovato per tenere la razza più sana. Le pecore hanno un ciclo estrale (quella fase del ciclo ovarico in cui si ha l’ovulazione e la femmina accetta il maschio), ogni 19 – 21 giorni ed ha una durata di 48 ore. Quindi la femmina era fertile quasi ogni mese. Il montone con il fiuto individua subito la pecora in estro (il salto dura pochi secondi, ma può compierne più di venti al giorno). Le pecore presentano un’attività riproduttiva stagionale, con inizio durante l’ estate e termine durante l’ inverno. La più elevata percentuale di soggetti in estro si osserva nel tardo autunno. Anche gli arieti possono essere considerati come riproduttori stagionali, con un’attività sessuale massima alla fine dell’estate e durante l’autunno. La pecora partoriva in genere un agnello, qualche volta ne faceva due. La gestazione durava cinque mesi. Figliava due volte l'anno: Pasqua (il periodo doveva essere tra marzo ed aprile) e Natale (dicembre). Così si sarebbero venduti gli agnelli per l'occasione. Per non farle rimanere incinte prima del mese pianificato, il pastore utilizzava un accorgimento ai maschi del gregge. Si metteva la parannanzi agliu 4 Le pecore, secondo la razza, possono avere o non avere le corna e alle volte le possiede anche la femmina. 19 montone, ovvero sotto la pancia del maschio era legato un pezzo di sacco, tela di iuta, per non permettere l'accoppiamento tra animali. Per l’accoppiamento si toglieva la parannanzi. Non c’era un alto grado di mortalità nel parto, era più facile che invece alcune pecore morissero di fame per mancanza di erba da mangiare. Trascorsi i cinque mesi di gravidanza la pecora, manifesta sintomi di irrequietezza belando e muovendosi di continuo, appare poi la borsa delle acque simile ad un pallone trasparente e di li a 5 minuti il piccolo è fuori con il cordone ombelicale spezzato. Usciva del liquido dalle mammelle di colore giallo, il colostro, e da dietro fuoriusciva la placenta che si mostrava come un filo rosso appeso. La madre incomincia a leccarlo. Dopo pochi minuti l’agnello è in grado di stare in piedi, barcollando si dirige per istinto verso i due capezzoli materni per suggerne il colostro, sostanza giallognola indispensabile per l’azione immunitaria che possiede in quanto l’agnello nasce senza anticorpi. La pecora secerne colostro per un periodo piuttosto ridotto, tanto che già 48 ore dopo la composizione del secreto è quasi costante e vicina a quella del latte normale. La pecora può essere portata al pascolo dopo un paio di giorni dal parto. Alla nascita gli agnelli hanno un peso medio che oscilla dai 2 ai 3 kg, in relazione alla razza ed allo stato di salute della madre. Durante l’allattamento c’era una produzione maggiore di latte da parte della pecora che aveva partorito.5 Parte degli agnelli nati era destinata alla riproduzione del gregge. Altri venduti o macellati. 5 La lattazione negli ovini presenta il seguente andamento: aumenta nelle prime 2-3 settimane dal parto, poi presenta un mese di stabilità e poi piano piano decresce. La durata media della lattazione oscilla dai 200 ai 240 giorni. 3 mesi 20 La vecchiaia di una pecora è mostrata dai denti, con il passare del tempo gli cadono. La pecora era considerata vecchia dopo 6/7 anni di vita.6 Passato questo tempo la pecora non produceva una quantità di latte sufficiente per la produzione dei formaggi. Cadendogli i denti per la vecchia, mangiava con difficoltà e di conseguenza produceva meno latte. La pecora era considerata vecchia anche quando era zoppa (cioppa), cieca (ceca) o camminava in modo sbilenco (struppa). La vecchiaia di un montone è possibile vederla dalle corna. Con il passare del tempo, queste gli crescono con un andamento a spirale. Più erano lunghe e più era vecchio. Solo che le corna potevano dare fastidio quando il maschio si muoveva. Questo era un motivo per cui le corna erano tagliate a partire dal secondo anno di vita. Si tagliavano con la sega. In tempi più antichi con un filo metallico.7 Le corna segate non avevano alcun utilizzo e per questo si buttavano. Anche le corna delle capre erano tagliate durante la crescita dell’animale o quando veniva macellato. Queste venivano utilizzate come manici dei coltelli. 8 Se non macellata, era venduta. Se non erano acquistate in paese, le pecore da vendere venivano portate alla fiera di Carsoli, che si teneva ogni mese, oppure presso altre fiere che si svolgevano nel circondario. La pecora fornisce latte, lana, carne, pelle e letame. Di seguito sono passate in rassegna le lavorazioni di questi prodotti. Da tener conto che la persona che si occupava degli animali era generalmente la stessa che provvedeva alla trasformazione dei prodotti. 6 Sono animali che possono vivere normalmente fino a 12-14 anni. Dai racconti è sucito fuori che si utilizzasse il filo della luce elettrica, quello tolto dai fili dei tralicci. 8 Le corna dei bovini si utilizzavano per realizzare la coa, ovvero la custodia della falce per il grano. 21 7 Il latte Per mungere il latte, il pastore si sedeva su uno sgabello di legno a forma di mezzaluna con tre piedi, chiamato prituicchia (Figura 47). Il secchio per il latte ben serrato tra le ginocchia, era posto avanti alla prituicchia. Figura 47 - Prituicchia In genere una pecora produceva poco più di un quarto di latte. La quantità fornita da ogni animale dipendeva dall’animale e se allattava. Per recuperarlo il pastore si sedeva sulla prituicchia, tirava a se l’animale e cominciava a mungere le mammelle. Negli ultimi tempi si utilizzò un meccanismo per mungere le pecore chiamato la cattura. Consisteva in una specie di una passerella delimitata ai lati. Gli animali, spinti, ad uno ad uno entravano in questo corridoio, al cui termine venivano bloccati. In questo punto il pastore mungeva l'animale che si trovava immobilizzato. Il latte in genere finiva in un secchio (marmittuccio). Qualcuno utilizzava un secchio particolare (u sicchiu ‘elle pecore) che aveva lo scopo di proteggersi dagli schizzi del latte e soprattutto di non far disperdere gocce di latte. Figura 48 - Marmittuccio Figura 49 – Secchio particolare Alle mammelle dell’animale non erano fatte pulizie particolari (avere l’acqua a disposizione era un lusso). 22 Se il latte munto era poco, questo era trasportato fuori dalla stalla utilizzando il secchio stesso in cui era stato raccolto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si utilizzò un recipiente di alluminio con un coperchio, chiamato in locale ghirba. Questo recipiente aveva lo scopo di proteggere il latte da insetti ed impurità e soprattutto di prevenire la dispersione (Figura 50). Aveva un manico, un coperchio ed un meccanismo per bloccare il coperchio. Il latte di pecora è meno diffuso di quello di bovino, ma è largamente impiegato nell’industria casearia. Il latte ovino è ricco di grasso e proteine ed è adatto alla caseificazione e meno adatto come bevanda.9 Per questo si realizzavano formaggi e ricotte. Figura 50 - Ghirba Il recipiente con il latte raccolto era portato presso un locale, dove sarebbe stato riscaldato. Questa cottura era svolta ogni mattina; il latte munto non poteva essere conservato a lungo in quanto non c’erano sistemi di conservazione disponibili. Al latte raccolto la mattina, si aggiungeva il latte raccolto la sera, quello munto quando le pecore erano nel periodo di allatta9 Il latte pecorino è composto da circa (dipende dall’alimentazione, sistema di allevamento etc.): - acqua 80% - proteine 6-7% - grassi 6-7% - lattosio 4,9% - sali minerali 1,2-1,3 23 mento. Si poteva mischiare il latte di pecora con quello di mucca (vacca) o di capra, se qualcuno lo aveva disponibile. Il latte di capra è simile a quello vaccino, ma diversa nella composizione chimica. È di difficile lavorazione perché il contenuto di caseina molto basso fa resistente all'azione del caglio. I globuli di grasso di cui è composto, molto piccoli, lo rendono un latte digeribile e leggero.10 Il latte era versato in un caldaio (callaro) di rame o stagnato, facendolo passare attraverso un pezzo di tela di canapa (cola). In genere era una tasca di tela, da cui fuoriusciva il latte versato. Quest'operazione, detta a colà lo latte, serviva a filtrare le impurità presenti nel liquido. In epoche recenti furono utilizzati dei colini in metallo con le maglie strette. Versato tutto il latte nel caldaio, questo era messo sul fuoco con un coperchio posto sopra. Figura 51 - Callaro Si aspettava che il latte raggiungesse una certa temperatura, il latte andava scaldato, non bollito. Per verificare la temperatura raggiunta, si basava sul tempo trascorso dal callaro sul fuoco, non cerano i termometri. Per essere sicuri che avesse raggiunto la temperatura giusta, l’addetto alla cottura poneva una mano sopra la superficie del liquido e, in base all’esperienza, ri10 Adatto alle persone con problemi di digestione, in quanto contiene poco lattosio e dunque è più digeribile, ma possiede un odore forte e deciso. 24 conosceva quando il liquido era pronto. Raggiunto il punto desiderato,11 si scostava il callaro dal fuoco, si scoperchiava, si aggiungeva il caglio (u cagliu). Il caglio era realizzato con lo stomaco dell’agnello ancora lattante. Estratto dall’animale, si faceva essiccare all’aria. Una volta secco era tagliuzzato con un coltello e ridotto in polvere. Era "condito" con l’aceto12 e sale in un contenitore e conservato. Quando serviva il caglio, con un cucchiaio, se ne estraeva una porzione che era messa in un bicchiere con dell’acqua fredda. Andava utilizzato mezzo cucchiaio di caglio per 10 litri di latte. Con il cucchiaio si mescolava questa miscela (lo da sciolle) e poi, filtrata, era versata nel callaro. In Figura 52, sulla destra si trova un barattolino contenente il caglio, realizzato con l’aceto. Al centro dell’immagine è mostrato un bicchiere con un cucchiaio di legno. Questo cucchiaio era utilizzato per prelevare il caglio e mescolarlo nel bicchiere con l’acqua. Aumentando la quantità di caglio diminuisce il tempo di coagulazione e viceversa. Aumentando la temperatura del latte si accelerava il tempo di coagulazione e viceversa. Per il latte troppo freddo o troppo caldo il caglio cessa il suo effetto. Figura 52 - Caglio Versato il caglio nel callaro, bisognava mescolare il latte. Per eseguire questa operazione si utilizzava un bastone di legno con alcune biforcazioni in 11 12 La temperatura doveva essere tra 35/40 °C. In mancanza di aceto si usava il succo di limone. 25 una delle estremità, detto spino, conosciuto in locale con il nome di squagliarello (Figura 53). Si girava il latte per un breve periodo. Figura 53 - Squagliarello Dopo aver mescolato, si aspettava che il latte cagliasse, lasciandolo riposare. Mentre il latte riposava, si formava una sostanza gelatinosa sulla superficie del caldaio.13 A occhio si vedeva quando era stato raggiunto questo stato, in quanto il liquido era diventato una gelatina. Esisteva anche una prova per verificare se il latte si era quagliato correttamente. S'immergevano due dita nel liquido, se questo rimaneva attaccato alle dita era segno che la cagliata non si era ancora formata, viceversa se uscivano asciutte, ovvero non si attaccava il liquido, era segno che la cagliata era pronta. Il latte cagliato è chiamato giuncata (juncata) ed era il primo lavorato del latte della pecora. Dopo la formazione della cagliata, si rimetteva il callaro sul fuoco per poco tempo (#10/15 minuti) e si tagliea la cagliata, facendo con lo squagliarello una croce nel latte (forse come azione propiziatoria). Poi si tagliava ancora la cagliata, sempre con lo squagliarello, eseguendo altre linee. La cagliata andava rotta per favorire la separazione del liquido chiamato siero (seru). Rotta la cagliata, la si mescolava per non farla riaggregare. La sostanza gelatinosa, grazie all’azione di mescolamento, si divideva in parti più piccole. Si girava più volte la cagliata per ricavare dei chicchi molto piccoli, della grandezza dei chicchi di granturco. 13 Il caglio ha le proprietà di coagulare le proteine del latte (caseine) formando la cagliata. Questa si forma nell'arco di 45-60 minuti. 26 Al termine del mescolamento, era tolto il callaro dal fuoco e la cagliata intanto si depositava sul fondo del recipiente. A questo punto andava separata la cagliata dal liquido. Chi lavorava questo preparato, infilava le mani nel callaro e cominciava a mettere insieme i vari pezzi di caglio che si erano depositati e cominciava a premerli tra di loro. Raggiunta una certa consistenza, era estratto un pezzo (pallocca) della cagliata e messo in apposite forme (cassi) di legno di faggio, dove veniva pressato con le mani, a più riprese, per eliminare il siero eccedente. I cassi, prima dell’utilizzo, erano bagnati. Il liquido che fuoriusciva dalla pigiatura del formaggio nel casso non andava buttato poiché era ancora utile. Per questo si utilizzava u cacieru, una specie di piatto di legno, scavato, dotato di una punta, che raccoglieva il liquido che fuoriusciva. Questo liquido si rimetteva nel caldaio, niente andava buttato. Figura 54 - U cacieru Il casso era di varie altezze, in funzione della grandezza della pizza di formaggio che si intendeva realizzare. Era possibile regolare il diametro del casso utilizzando uno spago, quindi a parità di altezza si potevano realizzare pizze di formaggio di vario diametro. Questa variabilità del diametro era utile, in quando era variato in funzione della quantità di cagliata disponibile in quel momento. In Figura 55 sono mostrati quattro cassi, di varie altezze e gli spaghi per variare il diametro. Figura 55 - Cassi 27 Durante la cagliata, occasionalmente, quando c’erano presenti dei bambini, alcuni pastori realizzavano con il caglio una specie di mozzarellina calda, chiamata u surgittu, da mangiare subito. Infilavano le mani nel callaro, prelevavano un pezzetto di caglio (u pezzittu 'ello cacio) e formavano una piccola palla. La forma ricordava quella di un topolino bianco, da qui il nome surgittu/sorcetto. Era priopriu bona. Il siero di latte avanzato dalla lavorazione del formaggio veniva utilizzato per fare la ricotta. Il callaro era messo nuovamente sul fuoco, per questo si utilizza il termine ricotta,14 ovvero due volte cotta. Per fare la ricotta più bianca, all’inizio di questa nuova cottura si aggiungeva un bicchiere di latte, altrimenti la ricotta sarebbe venuta con un colore giallo pallido. Il siero era mescolato continuamente ed era portato a una temperatura maggiore rispetto a quella del formaggio.15 Dopo un po’, la ricotta saliva in superficie e, raccolta continuamente con la schiumarola, era messa in contenitori conici (frucelle) di giunco e fatta scolare. Figura 56 - Schiumarola Figura 57 - Frucella La lavorazione termina quando le particelle solide non salgono più in superficie, lasciando il siero. La maggior parte dei pastori lo dava ai maiali per nutrimento (u seru pegli porchi), mediante beveroni o impasti. Questo accadeva quanno gli tocchea all’animale, ovvero era possibile darglielo. In tempi non tanto antichi, per la fame, era bevuto da chi non aveva da che sfamarsi.16 Qualcuno faceva il ## formaggio con i vermi ## le mele 14 È un latticino prodotto dal siero, privo della caseina. È costituita da proteine, le quali con il calore tendono a denaturarsi e quindi coagulano 15 La temperatura doveva essere tra 80/85 °C. Non deve sobbollire. 16 Questo liquido conserva un valore nutrizionale. 28 Da evidenziare che durante la stagionatura il formaggio poteva essere il posto dove il moscone poteva deporre le uova. Da queste nascevano i vermi, ma erano diversi da quelli che nascevano dalla stagionatura del formaggio. Quelli del moscone erano più grandi. Non si faceva il burro con il latte di pecora o di capra.17 Il casso con il formaggio era stipato in qualche locale, su tavole di legno, rialzate dal pavimento. Qui riposava per la stagionatura. Due/tre giorni sopo si metteva del sale sulla faccia superiore del formaggio, ovvero avveniva la salatura a secco. Qualche giorno dopo si girava sottosopra il casso, mettendo il sale su questa altra faccia della forma di formaggio. Messo il sale sulle due facce della forma, non ci si metteva più sale. Dopo alcuni giorni il formaggio aveva già cominciato ad asciugarsi e per questo si levava dal casso. La stagionatura durava in base al prodotto che si intendeva realizzare, per il formaggio al taglio qualche mese, per grattarlo diversi mesi. Con il passar del tempo la forma di formaggio assumeva un colore dapprima giallo chiaro, poi più scuro fino a raggiungere una colorazione marrone o nera. Ogni tanto si andava a visionare le forme di formaggio e notare eventuali formazioni di muffe sulla superficie.18 Queste andavano subito rimosse con uno straccio per non dover poi gettare il lavorato. Il fatto di girare continuamente le forme, riduceva la formazione di queste muffe. In estate poi si riponeva il formaggio in luoghi freschi per non farlo trasudare, ovvero far uscire gocce di grasso. Formaggio Dai 7-10 giorni formaggio fresco Formaggio fresco (a cortello), di breve stagionatura Da 2-4 mesi a taglio Formaggio secco per grattugiare, di lunga stagionatura4 mesi pecorino da grattuggiare 17 18 Qualcuno in paese produceva rararmente il burro con il latte di mucca. Il formaggio è composto da sostanze organiche con la presenza di acqua, ambiente ideale per il proliferare di microorganismi. Il formaggio con le muffe sono un connubio naturale. Alcune sono sinonimo di "salute" del prodotto, altre invece no. 29 Durante la stagionatura, alcune forme potevano deformarsi, spaccare, rigonfiarsi, rammollire, diventare gessose o assumere un sapore amaro. Se si gonfiava, in altre parole presentava delle bolle internamente,19 era comunque mangiato. Questo formaggio alla lunga tendeva a sgonfiarsi. Se era gessoso, almeno nella parte esterna, si cercava di raschiare la parte esterna per recuperare parte del prodotto. Se era amaro, si dava la colpa a certe erbe che la pecora aveva mangiato. Nella maggior parte delle forme prodotte, questi casi di cattivo prodotto erano rari. Se il prodotto andava a male, questo era dato in pasto ai maiali. La lana La caratteristica posseduta dalle pecore è il vello formato da bioccoli e filamenti di lana. In inverno è molto lungo e folto che le serve per ripararsi dal freddo. La qualità della lana dipende dalla razza dell’animale e dalla parte del corpo da cui proviene. Il pelo della capra generalmente non è lanoso come quello della pecora, e per questo non andavano tosate.20 La tosatura delle pecore si faceva una volta l’anno, in primavera, prima di portare il gregge in montagna per il pascolo estivo. L’operazione consentiva una migliore pulizia e un maggior benessere dell’animale. Le capre non si tosano perché perdono da sole il pelo. I tosatori (carosini) venivano da fuori, pochissimi in paese facevano questa operazione. Di gente del luogo si ricordano: Fulvio Dondini, Giammaria Dondini, Ottavio Cristofari, Mariano Iadeluca, conosciuto con il soprannome di papà Mariano. Questi utilizzavano la macchinetta per tosare le pecore. 19 Si pensa che le bolle internamente si formavano a causa di colpi di vento che alteravano la stagionatura. 20 in alcune zone assai fredde del pianeta spesso sono ricoperte da una soffice peluria isolante, oltre ad un primo strato di lana più ruvida; tale peluria viene utilizzata per produrre vari tipi di lana, di cui la più nota è il cashmere. 30 Si ricordano persone forestiere, provenienti dal Cicolano, in particolare dalla frazione di Sant’Elpidio, nel comune di Pescorocchiano (RI). Questi si portavano gli attrezzi per tosare. Figura 58 - Forbice Per tosare le pecore si usava la forbice (Figura 58), poi venne introdotta la “macchinetta” a mano ed a seguire quella elettrica. Prima di tosarle si dovevano abbagnà, ovvero lavare. Si portava il gregge agliu ponte risiccu, una località in prossimità delle nuci ‘elle mole, verso il paese di Oricola. L’acqua era quella del fosso Fioio. Qui andavano i vari pastori di Pereto a “lavare” le pecore. In questa località si formava un laghetto e le pecore erano fatte scendere in questo bacino. Bastava mandare una pecora nel laghetto che le altre la seguivano. Uscite dall’acqua non erano spazzolate, si aspettava che si asciugassero con il sole. Se avevano addosso pezzi di terriccio o escrementi (patacche), queste gli rimanevano, la lana era pulita dopo la tosatura. Dopo qualche giorno avveniva la tosatura. Non c’era un punto preciso per quest'operazione; ogni pastore faceva carosare le proprie pecore in prossimità della stalla, o dello stazzo, o in un punto dove c’era la commodità. Per non far muovere l’animale durante la tosatura, si legavano le zampe (la pecora era 'mpastorata). In altri casi, se c'erano più persone disponibili, si tosavano senza legare l'animale; due reggevano le gambe ed uno tosava la pecora. 31 Figura 59 - Alfonso Cristofari, mentre tosa unna pecora Per proteggere le reni delle agnelle dagli agenti atmosferici, sul dorso era lasciato, dopo la tosatura, un rettangolo di lana, chiamato la bardella. Tutti i batuffoli di lana raccolti da un unico animale costituivano un toso. Principalmente la lana era di colore bianco, era raro avere lana scura dovuta a qualche pecora di colore bruno o nero. La lana tosata era messa in sacchi per essere poi portata alla lavorazione. L’operazione di tosatura poteva protrarsi anche per giorni, in base al numero di pecore; il proprietario all’occorrenza preparava il pranzo e/o la cena. La maggior parte della lana era venduta. Ci furono varie modalità di vendita della lana in base ai tempi. Inizialmente si vendeva ai privati che intendevano acquistare la lana. Ai tempi del Fascismo fu attivato l'Ammasso. I proprietari dovevano conferire obbligatoriamente o volontariamente i prodotti agricoli per essere poi distribuita sul mercato, tra cui la lana delle pecore. Era portata a Carsoli. Era pagata poco al pastore e rivenduta cara a chi la comprava. Il pastore ne poteva trattenere poca per un proprio utilizzo familiare. Si racconta che alcuni che avevano venduto privatamente dei prodotti agricoli, furono incarcerati. 32 In seguito furono vendute al Consorzio di Carsoli, oltre che a privati. Il Consorzio si trovava ## via del fioraio all’angolo ##Adaveni la resa In tutte le epoche analizzate, non c’era alcun controllo di qualità sulla lana prodotta e venduta.21 Per la famiglia erano lasciati alcuni tosi per la produzione della biancheria intima (maglie di lana, calzini, sottane e camicie). Di seguito sono descritte le operazioni eseguite in paese per utilizzare la lana recuperata dalla tosatura. Dopo il taglio la lana veniva messa a bagno con soda e acqua tiepida per una settimana in grossi recipienti; ogni giorno l’acqua veniva cambiata. Figura 60 - Lavaggio della lana In Figura 60 è mostrata una foto d'epoca che mostra un callaro con dentro l'acqua e la lana che era a bagno per sciogliere le patacche. L’obiettivo era di sciogliere le incrostazioni di terra o escrementi che erano ancora attaccati alla lana. In seguito era messa nei cesti, se era poca, o nei tini (piunzi) e trasportata con i muli fino al lavatoio comunale o al fosso. Qui si sciacquava e si portava poi a casa. 21 Oggi si considerano: Finezza, ovvero diametro del filo di lana, Purezza, ovvero presenza di altre lane, Increspatura, ovvero il numero delle ondulazioni del filo di lana, Lunghezza del filo. 33 Nella case, per una settimana, rimaneva ad asciugare sopra i teli (i pannuni), o qualunque straccio che permettesse l’asciugatura. La sera davanti al fuoco, le donne la scioglievano, allargando fiocco per fiocco (se scellea). Figura 61 - Lavorazione della lana In Figura 61 sono mostrati due donne ed un ragazzo che di fronte l'abitazione, su via Vittorio Veneto, stanno scellendo la lana. Con questa prima lavorazione, la lana prodotta poteva essere utilizzata per riempire il materasso. Per essere tessuta la lana andava separata, in altre parole cardata (scardata). Per fare quest'operazione serviva un artigiano, lo scardalano. A Pereto non esisteva e per questo la gente del luogo doveva portare la lana ad Anticoli Corrado (RM), dove viveva, uno scardalano, nativo di Pereto. Era Pasquale “Pasqualino” Giustini. Questi aveva sposato una donna di Anticoli e quindi si era trasferito li. Il padre di Pasquale, Domenico, abitava a Pereto ed era soprannominato scardalano. L’attività dello scardalano era di cardare la lana. Questi riusciva a produrre fili di lana della lunghezza di un metro (i maccaruni). La lana cardata era poi trasportata in paese e con i fili si formavano dei gomitoli (ciammelle). Con la lana cardata si potevano realizzare anche piccoli rettangoli, alti qualche millimetro (le pernecchie), utilizzati per produrre le imbottite. Le coperte si realizzavano con la lana o un misto lana e cotone. Le matasse di lana utilizzate per le coperte, dopo essere state lavate con acqua tiepida e soda, erano tinte con i colori rosso, verde, nero e azzurro per realizzare stri34 sce colorate. Le tinture erano acquistate presso qualche negozio del paese. Con i fili colorati, la tela era lavorata creando strisce o quadrati di diversi colori. I processi di filatura e tessitura della lana erano analoghi a quelli della canapa. La carne Alcuni agnelli erano fatti crescere per ripopolare il gregge. Altri erano venduti o macellati per sfamare la famiglia. La capra veniva anche allevata per la carne.22 Ha un sapore piuttosto simile alla carne d'agnello, tuttavia, secondo l'età e le condizioni dell'animale, la carne può assumere sapori simili alla selvaggina. La carne macella della pecora, in genere, non era conservata, essendo poca rispetto ad una mucca, era consumata nel giro di due/tre giorni. Qualcuno la essiccava per poi mangiarla all’occorrenza, ma erano rari questi casi, vista la fame. La parte più ricercata della pecora era la coscia, per il sugo era meglio la spalla.23 Il piatto tipico realizzato con la carne di pecora era la pecora al sugo, il quale sugo era preparato per condire le sagne o gli gnocchi. Il piatto semplice erano le bistecche cotte al fuoco. La pecora alla cottora, una ricetta conosciuta oggi in paese, è stata introdotta di recente. Della pecora non si buttava niente. Uno dei piatti ricercati era la scannatura. Quando veniva scannato l’animale, il sangue veniva fatto cadere in una bacinella e qui coagulava con il passare del tempo. Una volta raffermo, si separava a pezzi, si cuoceva nell’acqua e poi era fritto, quindi si mangiava. Sembrava un cioccolato! Con le interiora si preparava la coratella. Il fegato era fritto. L’ultimo pezzo dell’intestino, quello fino all’ano (u mazzu), era ricercato. Una volta estratto, era pulito l’interno, lavato e tagliato in tre strisce. Con 22 23 Dal punto di vista nutrizionale contiene meno grassi e colesterolo di quella di pecora. la carne è gustosa, bianca, digeribile, ricca di acqua, di discreto valore nutritivo, la frazione proteica rappresenta il 20%, quella in grassi appena l’1%, sono carni ipocaloriche. 35 queste strisce si costruiva una treccia, intrecciando le strisce. Questa si cuoceva in padella con le patate oppure allo spiedo. I zampetti si facevano al sugo, con la testa si faceva il brodo ed il cervello era fritto. Le ossa degli animali macellati erano date in pasto ai cani che seguivano il gregge. L’agnello è associato a Gesù Cristo ed in particolare alla Pasqua. Per questo in quel periodo era richiesta la carne di agnello (abbacchio) per essere poi cotta alla brace durante le scampagnate del periodo pasquale. La pelle Una volta macellato, l’animale era scuoiato. La pelle era stesa ad asciugare all'aperto, appesa a dei bastoni. Succedeva che a volte erano stese sulle reti dello stazzo, prima con la faccia interna rivolta a sole, dopo alcuni giorni veniva rovesciate. Sulla pelle, nella zona prossima agli arti, erano apposti dei bastoncini di legno. Con l'essiccazione la pelle tendeva ad accattocciarsi, per mantenere stesa la parte di pelle riguardante gli arti, si mettevano questi bastoncini per tenere aperta e non farla accartocciare. Localmente, le pelli erano usate per realizzare le ciocie e i guardamacchie. Ogni tanto in paese veniva un pellicciaio che comprava queste pelli. Qualcuno ha segnalato che proveniva dai Castelli romani, altri da Riofreddo, chi da Carsoli. Inizialmente veniva con degli animali da soma, poi con un camioncino. Non è stato possibile capirne che uso ne era fatto. Il letame Durante la giornata, le pecore producono escrementi che rappresentano un letame naturale. Chi aveva un terreno ed intendeva concimarlo, chiamava un pastore che con il suo gregge concimava (stabbiava) il terreno con il posteggiare sul luogo. Da segnalare che le vallate montane di Pereto erano coltivate a grano. Le pecore erano richieste per concimare, in modo naturale, gli appezzamenti montani di terreno per i prossimi raccolti. Il letame era prodotto anche nella stalla, quando le pecore si trovavano rinchiuse. Il pastore tra aprile e maggio metteva fuori dell’area questo letame, 36 per rendere agibile la stalla. Era sparso sul terreno prima dell’aratura così da ottenere una concimazione organica utile per le erbe foraggiere da mettere a disposizione degli ovini stessi. Era fertilissimo a tal punto che acquirenti venivano dalla piana del Fucino per comprarne sacchi di questo concime. Questi erano armati di zappa e pala e loro stessi svuotavano la stalla dal letame. Lo riponevano nei sacchi e lo portavano via. Anticamente con animali da soma, poi con dei camion. È stato raccontato che alcuni di questi acquirenti facevano cambio a zucchero. Invece di pagare in soldi consegnavano dei sacchetti di zucchero, prodotto che era realizzato nel Fucino. Gli intervistati di questa ricerca hanno raccontato che con il formaggio e la carne il pastore ci viveva, la lana ed il letame invece erano il guadagno del pastore. Le stagioni Il movimento dalla pianura alle vallate montane e viceversa dipendeva dalle condizioni metereologiche. Dal 15 marzo le pecore erano portate in montagna.24 A causa del protrarsi della cattiva stagione si aspettava in alcuni casi la fine di aprile o gli inizi di maggio. Così, con l’arrivo della primavera, lasciavano la stalla in cui avevano passato parte dell’inverno. Per pascolare in montagna si pagava una tassa comunale. Il termine fida è sconosciuta agli intervistati, era utilizzato per i pastori forestieri. Il pastore non seguiva un percorso preciso per andare in montagna. Le zone di pascolo erano Campo catino, Campo secco, Macchia lunga e Serrasecca. A queste distese d’erba vanno aggiunte le località di Santo Maro, Pirumaru e l’Oppieta. Non c’era un punto preferito per il pascolo, dove capitava si portavano. Il pascolo più buono in montagna era quello di Campo secco e dell'Oppieta. Riguardo il piano, il pascolo più buono erano gli appezzamenti di terra situati a Prato marano in quanto erano rigogliosi e c’era vicina l’acqua. 24 I vari intervistati non conoscono i riferimenti riguardanti le date di Sant’Angelo di maggio o di settembre. 37 Si utilizzava qualche animale da trasporto (mulo, somaro) per portare materiali utili per il soggiorno in montagna. Non c’era un punto preferito dove impiantare lo stazzo (u stazzu), ovvero il recinto fatto con la rete di spago di canapa, utilizzato per riparare il gregge durante la notte. In Figura 62 è riportata una fotografia di una rete utilizzata per uno stazzo. Figura 62 - Rete Si infilavano dei bastoni nel terreno per delimitare l'area dello stazzo. Per questa operazione si utilizzava u magliu, una specie di martello di legno, fatto apposta per questo lavoro. Figura 63 – U magliu In cima, nella parte rigonfia del legno si trovava un buco, ed era questo che aiutava nell'azione di infilare il paletto dello stazzo nel terreno. In Figura 64 è mostrata la cavità di questo attrezzo. Figura 64 – U magliu, particolare 38 Su questi bastoni veniva posta la rete che così delimitava lo stazzo. Pastori, che non avevano le reti per delimitare lo stazzo, realizzavano un’area recintata delimitandola con dei spini. Alcune volte più pastori radunavano i loro greggi realizzando degli stazzi attigui tra loro (u precojo).25 Dai racconti è stata segnalata la presenza di un muro a secco in località Coppetegli (Figura 65). ## ara ciocione Sembra uno stazzo delimitato da pietre, in realtà era un terreno coltivato a grano, delimitato dalle pietre. In un determinato periodo dell’anno vi sostava un gregge per stabbiare la zona. Figura 65 - Stazzo in pietra Un elemento di fastidio del gregge è il sole, ovvero non amano i pascoli troppo assolati del pieno giorno; per questo le pecore si mettevano vicine, a contatto tra di loro, per stare più fresche o cercavano dei punti ombreggiati. Si proteggono tenendo la testa all’ombra della pancia delle altre pecore e tutte insieme stanno ammassate allo stesso modo. Questa operazione era chiamata ‘ngozzaturo. Quando il pastore aveva messo le pecore vicine tra loro per stare al fresco si utilizzava l’espressione, rivolgendosi a lui, le si ‘ngozzate le pecore, ovvero hai messe le pecore al riparo. Resistono, invece, bene alle basse temperature, perché coperte dal vello oltre che da uno strato di grasso, la lanolina, ancora oggi usata come base per 25 Non si comprende se costruissero una costruzione per condividerla tra loro. 39 creme di bellezze. La lana ha un odore caratteristico dovuto alla lanolina, grasso che la impregna e serve all’animale per rendere impermeabile il mantello. Per dormire il pastore utilizzava u capanno, costituita da 5 o 6 archi di legno ricoperti con la paglia. Potevano dormirci due persone. La costruzione non era fissa, si spostava con il gregge, caricandola in spalla. Ogni giorno veniva posizionata in un altro posto. Il luogo dove dormivano i pastori era chiamato iaccio. Nel capanno erano sistemate le rapazzole, sacchi ripieno di paglia, utilizzati come materasso. Quando il terreno era bagnato, era posto uno strato di sassi, sopra a questi venivano messe delle frasche, poi poggiate le rapazzole e sopra messa la capanna. Alcune famiglie del luogo realizzarono, per non portarsi appresso la capanna, delle costruzioni a secco, realizzate con delle pietre. Erano queste delle costruzioni patronali, utilizzate per uso proprio durante il pascolo. Di seguito sono riportate quelle rintracciate: La casetta di ‘ngicchememma, in località Oppieta, realizzata da Francesco Sciò, bisnonno di Maria Sciò, soprannominata Maria la bionda.26 Si racconta che chi costruì questa casetta aveva fatto un sogno, che in quella località c’erano sepolti dei soldi, un tesoro. Non si sa se li trovò o meno, solo che vi realizzò questa costruzione. 26 Si racconta che chi costruì questa casetta aveva fatto un sogno, che in quella località c’erano sepolti dei soldi, un tesoro. Non si sa se li trovò o meno, solo che vi realizzò questa costruzione. 40 Figura 66 - Casetta di ‘ngicchememma In Figura 66 è riportata la struttura. In basso all’immagine si trova una macera, realizzata a secco con sassi, che delimitava lo stazzo. Sopra a questa macera si notano due muri che sono le strutture della stalla. In Figura 67 è riportata una foto di questa stalla, realizzata con pietre a secco. In cima all’immagine è riportata la casetta, che anticamente era realizzata anch’essa in pietre a secco; ultimamente# quando 1995-1996 è stata restaurata con la stuccatura tra un sasso e l’altro per evitare che entrassero topi o rettili. Figura 67 - Casetta di ngicchememma, stalla 41 La casetta di Pennacchia, ovvero di Luigi Cristofari, situata all’inizio dell’Oppieta, quando di sale dalle Coste del banco; ## quando fu realizzata Figura 68 - Casetta di # La casetta di Furiè fu realizzata da Domenico Camerlengo, dopo che ritornò dalla Svizzera, dopo la Seconda Guerra Mondiale. La realizzò in località Piaseri. Figura 69 - Casetta di Furiè Quando il gregge era in montagna, il latte era munto sul luogo poi le donne del paese lo andavano a prendere per portarlo in paese e lavorarlo. Nel frattempo le donne portavano da mangiare a chi accudiva le pecore. Questo succedeva ogni giorno, ovvero con un'animale da trasporto le donne raggiungevano lo stazzo. Qualcuna, non dotato di animale di trasporto, ci andava a piedi con non poca fatica. Dagli intervistati non si è fatto riferimento ai figli per prelevare il latte in montagna. Il piatto tipico serale del pastore era la mpanata, il latte con un po' di pane secco, messi in una scodella. Qualcuno racconta, che mancando anche le scodelle, si inzuppava il pane direttamente nel secchio dove si trovava il latte. I pastori più poveri, per nutrirsi, bevevano il siero, ovvero lo scarto della lavorazione del latte della pecora. 42 Il gregge rimaneva in montagna fino alla fine di agosto. A quell'epoca le pecore scendevano nel basso del paese poiché il grano, il granturco e la paglia erano stati già raccolti e quindi non c’era pericolo che danneggiassero le culture. Inoltre si risparmiavano i viaggi ai membri della famiglia che ogni giorno erano costretti a raggiungere il pastore per recuperare il latte e portare i viveri. Al ritorno al paese il gregge era fatto sostare in terreni per stabbiare. Figura 70 - Gregge alla Piana del Cavaliere In Figura 70 è mostrata una foto che riporta Giacomo Sciò con le sue pecore nella piana. In lontananza si vede il paese di Pereto. Alcuni proprietari di appezzamenti di terreno, per motivi vari, non desideravano che un gregge brucasse l’erba del loro terreno. All’epoca non esistevamo i recinti, ma una convenzione. Il proprietario metteva una biffa, ovvero il terreno era biffato. La biffa consisteva in una o più frasche infisse nel terreno che segnalavano ai pastori di non transitare o sostare in quel terreno. In caso di non osservanza del divieto era richiesto dal padrone del terreno un risarcimento. Il proprietario del terreno negava l’accesso alle pecore in quanto avrebbe utilizzato il pascolo per animali di sua proprietà (cavalli, mucche, pecore, ecc.). Questa non disponibilità di pascoli nella piana del paese creava difficoltà ad alcuni pastori. Questi, nel periodo settembreaprile, migravano verso altri paesi del limitrofi. È il caso di Santino Meuti che per diversi anni passò l’inverno con il gregge in terreni della Campagna romana, non avendo un proprio terreno dove far pascolare le pecore. 43 Quando faceva freddo o c’erano precipitazioni, le pecore rimanevano nella stalla ed il pastore le accudiva fornendo del fieno che era stato raccolto durante l’estate. Per somministrare alle pecore del fieno questo era messo in cesti cilindrici (u cajone). Erano realizzati con i rami di nocciolo, intrecciati in alto, al centro ed in basso. 27 Uno specialista di queste costruzioni era Menestra .Erano poggiati in terra e per non farli cadere erano appesi al soffitto della stalla, mediante le corde. Quando il foraggio presente nel cesto era finito, il pastore lo riempiva con del nuovo foraggio. La pecora si avvicinava al cesto e con la bocca addentava il fieno. Figura 71 - U cajone Si racconta che per permettere di addentare più facilmente il fieno, si tagliavano le corna al montone, il quale, se le aveva, poteva non riuscire a mangiare o poteva dare fastidio agli altri animali che si avventavano al cesto. Nella stalla era presente un abbeveratoio, mentre mancava la condotta idrica. Per questo motivo il pastore, appena aveva l’opportunità, faceva uscire le pecore sia per mangiare, sia per bere. Se le condizioni climatiche non lo permettevano, era costretto a fornire alle pecore di fieno ed acqua, trasportata con i secchi. Per mantenere al caldo le pecore nella stalla, si utilizzava la paglia, mettendola in terra come lettiera. Se era possibile si cambia più volte nell’arco del mese, ma era difficile in quanto la paglia era fornita come alimento. Per risparmiare la paglia durante l’inverno, come lettiera era utilizzata lo scarto della lavorazione della canapa (i cannucci). Appena faceva bel tempo in inverno, comunque sia, si faceva uscire il gregge per brucare l’erba disponibile. Dai racconti sembra che le grosse nevicate in tempi antichi non erano frequenti e per questo bastava portarle ad esempio sopra le Fonticelle, località posta vicino all’abitato per sfamare il gregge. A marzo ricominciava il ciclo della transumanza montana. 27 In seguito saranno realizzati in ferro da Giorgio Eboli, fabbro del paese. 44 Le avversità Le pecore sono soggette all’attacco di virus, parassiti ed animali. Di seguito sono passate in rassegna le avversità raccontate dai pastori del luogo. Le malattie Le malattie a cui le pecore possono andare incontro sono tante, in base alle attuali conoscenze. In passato molte di queste avversità erano sconosciute alla gente del luogo e non se ne capiva la pericolosità per gli animali e per le persone. Non c’era alcuna disinfestazione delle stalle o degli ambienti dove gli animali si radunano, neanche con l’utilizzo della calce. Una volta l’anno si puliva la stalla per recuperare il letame. La zoppia La zoppia28 è una malattia dei piedi degli ovini causata da batteri. Le lesioni sono inizialmente localizzate nello spazio tra i due unghielli, ma possono estendersi causando il distacco parziale o totale dell'unghia. Un'insufficiente cura degli unghielli favorisce la proliferazione di questi batteri e l'insorgenza della malattia. Il sintomo più evidente è l’animale che cammina zoppicando. Questa malattia era la più diffusa tra le pecore. A Pereto era chiamata u forcone. Questo termine aveva origine dal fatto che lo spazio tra i due unghielli a causa dell'infezione aumentava mostrando una specie di forcone. Andava fatta scoppiare questa bolla che nasceva tra i due unghielli, spaccandola, facendo uscire il pus e curando la zampa. Afta epizootica È una malattia molto infettiva causata da un virus, facilmente trasferibile e che può infettare vaste aree in pochi giorni. Le cause di diffusione sono gli stessi animali infetti, il vento, altri animali che possono trasportare la malattia, l’abbigliamento. 29 A Pereto sono stati registrati dei casi. Il rimedio preso erano delle punture. 28 29 Conosciuta anche con il nome di zoppina, o pedaina. L’afta tende ad essere una malattia invernale, Il virus è facilmente ucciso attraverso disinfettanti o condizioni mediamente acide, ucciso anche dalla luce del sole. 45 Gonfiamento della pancia Quando troppo gas è prodotto nel rumine delle pecore, il fianco di sinistra è dilatato e respirare diventa difficile per l’animale. Ciò può accadere improvvisamente, particolarmente quando l'animale sta mangiando sul pascolo bagnato di mattina. Può causare la morte anche in una ora. Oggi si conoscono le cause ed alcuni rimedi. In passato l’unico accorgimento preso era quello di non far muovere la pecora, con l’obiettivo di far svuotare l’aria presente nell’animale. La lingua blu La lingua blu, febbre catarrale degli ovini, è una malattia infettiva dei ruminanti trasmessa da un insetto. Questo succhia il sangue da un capo e lo trasmette all'altro. Gli animali infettati avranno febbre molto alta per un periodo di una settimana. Il morbo colpisce l'apparato boccale con incapacità quindi di nutrirsi e conseguente calo di peso dell'animale. La zona della bocca e le zone vicine presenteranno delle erosioni dell'area boccale e delle gengive con colore cianotico in un secondo momento.30 È di diffusione recente; gli intervistati più anziani non la ricordano. La assuccarella Si racconta che gli animali colpiti, prima avevano la febbre, a seguire si ingrossavano le mammelle e producevano così poco latte da rendere secche (assucche) le mammelle.31 In questa situazione non potevano allattare i figli. Erano curate con delle punture. ## mastite La visciòla Era un verme che si propaga all’interno delle viscere dell'animale.32 30 Lingua blu deriva dalla cianosi della mucosa linguale osservata negli animali colpiti in modo più grave. 31 Questa malattia è conosciuta con il nome di mastite ed ha varie forme, più o meno pericolose per l'animale. 32 Si tratta della Fasciola hepatica, un verme piatto molto diffuso, parassita delle vie biliari di molti animali domestici ed in particolare di bovini ed ovini. È lungo 20-30 mm e larga 8-12 mm. Questo verme ha un ciclo di vita complesso. Quando dei mammiferi erbivori, pascolando lungo i corsi d'acqua o sulle rive dei laghi o degli stagni, mangiano le 46 Anche in questo caso si risolveva con delle punture o delle pillole. I vermi Sono dei parassiti intestinali. Ogni tanto gli si dava della polvere per bocca per farli sverminare. Esistono altre malattie della pecora, che non erano conosciute dai pastori. Eventuali comportamenti anomali di una pecora erano visti come se l’animale fosse diventato scemo. Le zecche Le pecore, pascolando, venivano attaccate dalle zecche. Non c’era alcuna prevenzione in merito e nessun controllo, da parte del pastore, se un animale era stato attaccato dalle zecche. Questo parassita, mediante il rostro di cui è fornito, si infila nella carne dell’animale producendo dei fastidi e delle infezioni di cui alcune mortali. Gli intervistati hanno raccontato che non erano tanto pericolose le zecche che attaccavano la cute dell’animale, quanto quelle ingerite, mangiando l’erba, che si annidavano nell’apparato digerente. La rogna È una patologia infiammatoria della cute degli animali provocata da parassiti. Sintomi comuni sono: perdita del pelo, prurito ed infiammazione cutanea. L’animale attaccato era curato con la creolina. Dai racconti non si ricordano abbattimenti di animali per epidemie. I lupi In tempi antichi i lupi facevano stragi delle pecore, ma con la loro diminuzione le razzie sono diventate sporadiche. Il lupo era capace di staccare dal gregge qualche decina di pecore, poi le scannava saziandosi del loro sangue. erbe su cui sono fissate le metacercarie, queste si introducono nell'apparato digerente dell'animale e raggiungono poi il fegato, danneggiando poi vari organi. 47 Il lupo attaccava anche i cani messi a protezione del gregge. Per questo motivo, diversi cani erano dotati di collare antilupo. Era un collare con degli spuntoni in ferro che uscivano in fuori. Serviva per proteggere il collo del cane, uno dei punti vulnerabili dell’animale. Lo proteggevano dai lupi, ma anche da altri cani più violenti. In casi estremi i pastori utilizzavano dei bocconi avvelenati per uccidere i lupi. Dai racconti sembra che le razzie di questi animali, che potevano uccidere diverse pecore in poco tempo, sono state rare, segno che i lupi erano pochi. Da tener conto che i lupi attaccavano altri animali, come buoi, mucche e cani. Si racconta che un pomeriggio, dal ritorno dal pascolo, battente (Mario Rossi) si trovava in località are papa. Di scatto le pecore si sono bloccate ed i cani che erano al seguito del gregge erano scappati. Correndo, battente si accorso che un lupo aveva azzannato una pecora e la stava trascinando. Per difendersi e per non perdere queste e altre pecore del suo gregge, battente si scaravento contro il lupo, colpendolo più volte sulla groppa. Alla fine l’animale, lasciò la preda e scappò all’interno della vegetazione. Al ritorno in paese, battente mostrava a tutti il suo bastone a cui erano rimasti impigliati dei peli del lupo. Erano incirca gli anni 1984-1985 Curiosità Di seguito sono evidenziate alcune differenze tra le pecore e le capre. La coda delle capre è sempre rivolta verso l'alto, mentre quella delle pecore punta sempre verso il basso. Le corna della capra sono cave, lunghe e dirette verso l’alto e all’indietro, mentre quelle della pecora hanno un andamento a spirale e sono quasi piene. Le capre hanno delle evidenti protuberanze cutanee sotto la gola, conosciuti con il nome di lacinie, barbazzali o tettole; in dialetto si chiamano i cercegli. Questi sono assenti nella pecora. I maschi della capra sono dotati di barba e non possiedono un folto pelo, caratteristico invece della pecora. Gli ovini riescono a vedere anche di notte e ciò fornisce specialmente in estate il pascolamento notturno. La Forestale, ovvero il Corpo Forestale dello Stato, vietava di portarle in montagna in quanto le capre mangiano le foglie delle piante e quindi danneggiano il bosco. Sono in grado di arrampicarsi sugli alberi che abbiano il tronco un po' contorto e/o rami sufficientemente bassi. 48 Questi animali non forniscono lana, bensì latte e carne. Per questo motivo erano poco allevati in paese. Si allevavano perché la capra è meno signora della pecora. La pecora predilige le erbe del piano, mentre la capra mangia anche le erbe che nascono tra i sassi e questi non sono mai mancati a Pereto. Secondo le voci dei paesani, il protettore delle pecore è San Pasquale. Non c’era un ricorrenza particolare da parte dei pastori o della gente del luogo. Da segnalare che in paese esiste nel rione Aota un dipinto scolorito. I locali indicano una figura presente nell’affresco come San Pasquale (vedi Figura 72). Figura 72 - San Pasquale nel rione Aota Il giorno di Sant’Antonio abate, il 17 gennaio, avviene per tradizione la benedizione degli animali. In passato i pastori di Pereto portavano il proprio gregge in prossimità della chiesa di Sant’Antonio, situata fuori dell’abitato, nelle vicinanze del castello. I vari animali, condotti dai loro padroni, ricevevano la benedizione da uno dei sacerdoti locali, al termine della celebrazione svolta preso la chiesa. In Figura 73 è mostrata un’immagine degli anni Settanta, che mostra il sacerdote che benedice un gregge. Figura 73 - Benedizione delle pecore Una festa connessa con le pecore è l’Ascensione, considerata la festa dei pastori. Presso lo stazzo i pastori si radunavano e si cantava, mangiava e ballava per tutta la giornata. Quel giorno non era prodotto il formaggio. 49 In paese, in questa occasione, i vari rioni preparavano dei falò. Al calare della notte la gente del rione si radunava intorno al falò e quindi era dato fuoco alla catasta di legna. I pastori offrivano ai presenti la giuncata. Quando si faceva la prima cottura del latte, si recuperava la cagliata e si disponeva in un piatto per offrirla. Vista la fame che c’era, era una manna per la gente del luogo. È stata ricercata una possibile preghiera che i pastori recitavano in qualche occasione. Viste le alzatacce, prima del sorgere del sole, la giornata passata nelle condizioni climatiche più disparate, il ritorno a casa a tarda sera, era più qualche parolaccia (ca biastima) che un’invocazione. A Pereto visse Enrico Cicchetti, conosciuto in paese con il soprannome di Richetto il cieco. Nato nel 1908, era non vedente dalla nascita ##. Suonava l’organetto come sua attività.33 Si racconta che alcuni pastori, al ritorno dal pascolo, la sera erano allietati dalla musica di Richetto. Al termine della giornata riusciva a rimediare qualcosa da mangiare, offerto dal pastore a cui aveva suonato. Un proverbio paesano riporta u maglio, ovvero lo strumento in legno utilizzato per fissare i paletti dello stazzo nel terreno. Riporta: mamma, moglie o magliu, per indicare ## I pastori forestieri Oltre ai greggi locali, i pascoli montani del paese erano utilizzati da pecore forestiere. Greggi provenivano dal Lazio per pascolare sui monti di Pereto, ovvero vi era una transumanza dalla Campagna romana verso l’Abruzzo. Ad ogni padrone ( u mercante) il Comune assegnava un lotto (posta) su cui pascolare, dopo il pagamento di una tassa (fida), proporzionale al numero delle pecore e che andava alle casse comunali. ## Come venivano aggiudicati i pascoli? Con aste con le candele Le greggi arrivavano i primi giorni di giugno. Agli inizi del Novecento il percorso si copriva a piedi e durava circa tre giorni. Negli anni che segui33 La professione registrata nella sua carta d’identità è: suonatore ambulante e venditore di storie. 50 rono, i trasferimenti si svolsero metà con il treno, fino alla stazione di Oricola - Pereto, metà a piedi, risalendo le montagne di Pereto. A seguire si utilizzarono autotreni, adattati al trasporto degli ovini. Qualche giorno prima della partenza del gregge alcuni addetti portavano le masserizie sul lotto loro assegnato. Raggiunto il posto, realizzavano gli stazzi, il dormitorio, i mungitoi, la cucina da campo, la dispensa. Queste realizzazioni servivano a far operare gli addetti che seguivano il gregge e per fornire un servizio di “vitto e alloggio”. Nei giorni successivi arrivava il gregge. Esistevano due figure particolari tra le persone al seguito della masseria. - U biscino, un ragazzo (vaglione), che era al seguito del gregge ed eseguiva alcune operazioni, tra cui spingere le pecore verso colui che le doveva mungere. - Un altro ragazzo che trasportava formaggio fresco e ricotta dallo stazzo a Pereto o Cappadocia per venderli ai negozi, ai villeggianti e agli abitanti del luogo. Dopo la mungitura del mattino, sistemato nelle ceste le forme e le ricotte, montava su un somaro o mulo e si metteva in viaggio alla volta del paese. Qui cerca di piazzare i prodotti che trasportavano. Nel frattempo faceva la spesa per acquistare eventuali generi alimentari necessari in montagna. ## rapporti con i locali ## coabitazione negli stessi pascoli A settembre era tempo di ritornare. I pastori forestieri abbandonavano le costruzioni realizzate per il soggiorno montano e la transumanza verso la Campagna romana aveva inizio. Aneddoti In tempi di miseria, diversi paesani avanzavano delle pretese, anche se inesistenti, verso un pastore, il quale era chiamato a risarcire con il formaggio o con la carne di pecora l’eventuale misfatto. I furti di pecore, o meglio degli agnelli, in tempi in cui la fame era tanta, erano all'ordine del giorno. Trovare un agnello, nasconderlo sotto la giacchetta o in qualche sacco era facile. Disgraziato chi perdeva l’animale. Di 51 seguito riporto due aneddoti raccontati in paese relativi a questo tipo di furto. Un affamato del paese seguiva da lontano un gregge. Ad un certo punto riesce ad arraffare un agnello e lo nasconde sotto la giacca. La madre dell’agnello sente l’odore del figlio e comincia a belare forte verso il ladro, avventandosi contro di lui. Questi si rivolge al pastore gridando: Sta pecora messe magna, vella a leà. La madre bela sempre più forte per richiamare il figlio e non molla il ladro. Questi continua a richiamare il pastore per far allontanare questa pecora. Il pastore si avvicina e con due, tre toccate sulla schina (dei colpi di bastone sulla groppa dell’animale) lo allontana. La sera, il pastore parlando con il proprietario delle pecore racconta l’accaduto segnalando che una pecora si era aizzata contro uno che era passato nei paraggi del gregge. Il pastore termina il suo racconto dicendo: Issu (riferendosi all’uomo che aveva avuto paura della pecora) è proprio stupitu, se missu paura de ‘na pecora. Il proprietario gli rispose: Conta po’ gli abbacchi. Lu stupitu non è issu, ma si tu che te si fattu frega ‘n agnello. Un ladro incallito di pecore viene continuamento ammonito dal prete del paese, il quale lo invita a smettere con i furti e soprattutto di confessare le sue ruberie. Un giorno il ladro si convince a confessarsi. Il prete, vista l’occasione, comincia una lunga predica al ladro. Il prete lo esorta a non rubare più, di trovare un lavoro, di procurarsi il cibo in modo onesto, e così via. Mentre avviene la confessione, sta per avvicinarsi alla chiesa un gregge, possibile occasione per compiere un altro furto. Il ladro rapidamente si rivolge al sacerdote dicendo: Zi pre’, sbrigate che sento la campana. Questo per indicare che stava per perdere un’occasione se la predica fosse continuata ancora. Anni fa da Francesco Giustini (Checco ‘e Nello) aveva messo su un gruppo di capre tra cui c’era un grosso ariete (u zappu). Questo esemplare era combattivo e protettivo nei confronti delle femmine del suo branco. Non c’era giorno che Checco ritornando a casa, tornava con qualche livido prodotto dalle cornate dell’animale che non voleva che fossero toccate le capre. In paese diverse persone avevano visto la aggressività di questo animale. Il padrone fu costretto ad abbatterlo in modo cruento, aiutato da varie persone. 52 Considerazioni Oggi i vecchi pastori, quelli ancora viventi, rimangono con la loro esperienza ed i loro ricordi. Una persona di Pereto, Domenico “Mimmo” Giustini, ha messo su un allevamento di pecore, con non poche difficoltà. I pastori di una volta, la loro storia è quasi scomparsa. La capra è considerata una specie a ciclo poliestrale stagionale in quanto presenta cicli estrali continui solo in alcuni mesi dell'anno, intervallati da un periodo di anaestro la cui lunghezza è variabile in funzione della latitudine e della razza. In determinati climi, le capre sono in grado di riprodursi per tutto l'anno; le razze di provenienza nordica o montana tendono invece ad avere un ciclo riproduttivo basato sulla lunghezza del fotoperiodo. La stagione riproduttiva, per questi animali, inizia quando le giornate cominciano ad accorciarsi, per terminare all'inizio della primavera. Alle nostre latitudini il primo calore si manifesta, solitamente, nei mesi di giugno luglio; se non vi è accoppiamento si può presentare una lunga serie di estri ad intervalli regolari (21 giorni), oppure si può verificare un ulteriore periodo di anaestro. Di norma la ciclicità diventa regolare a partire da agosto settembre fino alla metà di dicembre. Nel periodo fertile, la femmina è ricettiva per un periodo che va dalle 2 alle 48 ore; le femmine manifestano il loro stato sventolando spesso la coda, vocalizzando più spesso, stando sempre nella vicinanza del caprone (se questo è presente), a volte perdendo l'appetito e diminuendo la produzione di latte. La gestazione dura in media 150 - 155 giorni, al termine dei quali nascono solitamente due gemelli, anche se non è raro trovare parti trigemini o di un solo cucciolo, mentre è assai poco comune assistere a figliate di quattro, cinque o addirittura sei capretti. I parti si verificano tra novembre ed aprile con punte massime in gennaio - febbraio. Dopo il parto, solitamente, la madre mangia la placenta, per rimpiazzare parte dei nutrienti persi nello sforzo e per calmare l'emorragia da parto. Il parto coincide con l'inizio della produzione di latte: una capra d'allevamento produce circa 2,5 l di latte al giorno per 305 giorni (tanto dura l'allattamento), anche se tale quantità può variare a seconda del numero di parti e della razza di capra (in casi eccezionali si arriva ad oltre 7 l di latte giornalieri). 53 54