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Collana
Di Viole e d’ombre e altri racconti
A cura di Fabio Fox Gariani
Editing e Redazione:
Fabio Fox Gariani e Angioletta Storaci
Progetto grafico e impaginazione: Roberta Toresani
Stampato da: Centro Stampa Moderna
In copertina: Foto del “Chiostro dei Glicini”, Società Umanitaria
indice
Presentazione
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Rotary International
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Prefazione
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Di Viole e d’ombre
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Quel de la Mascherpa
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Cascina Cuccagna
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Piazza Grandi
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Due mondi a confronto
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La scuola dei bianchi
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Un pò più a Nord
187
La necessità del fare
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Le cose non sono come sembrano
239
Generale Koster
259
Bruxa
281
Postfazione
365
Biografie autori
389
Cenni storici
397
quell de la mascherpa
di Enrico Toresani
“Coloro che sognano di giorno sanno cose che sfuggono a coloro
che sognano di notte soltanto”.
Edgar Allan Poe, scrittore americano (1809 – 1849)
Stupore. Questa l’espressione che si dipinse sul volto dell’anziana signora
quando il colpo d’ascia le aprì in due il cranio. Un secco rumore come di noci
schiacciate riempì il silenzio di ribrezzo. Colando dalla testa, il sangue e la materia grigia si portarono dietro la sua esistenza agiata.
Lui rimase immobile per qualche secondo, con la stessa espressione di stupore
sul viso, incredulo d’averlo fatto veramente.
Trasse un respiro profondo e si guardò attorno cercando di recuperare la sua
freddezza. Meticolosamente posizionò un catino a raccogliere il macabro gocciolio, selezionò i ceppi di legna più intrisi di rosso e li gettò nella stufa. Quindi,
con calma, raccolse il povero corpo, lo sdraiò sul tavolo ed iniziò a tagliarlo a
pezzi. Poi avrebbe pulito tutto, pignolo come sempre.
Ebbe un tuffo al cuore quando udì degli ordini marziali urlati in strada; corse a
sbirciare fuori dalla finestra. Sorrise di sollievo nel vedere il manipolo di Carabinieri svoltare da via Santa Marta in direzione Duomo, marciando compatti.
Era una metà mattina di un rigido inverno e Milano era nel pieno della propria operosità, ancora euforica per la liberazione dal giogo austriaco avvenuta soltanto pochi mesi prima. Si respirava aria di grande innovazione ed ogni
giornata nasceva sotto l’auspicio di qualche accadimento positivo. Via Torino
brulicava di gente, tutte le botteghe erano aperte e le persone andavano e
venivano indaffarate come formiche.
Ciononostante ogni attività rimase sospesa nel vuoto al passare del drappello di Carabinieri che transitavano di lì svoltando dalla vicina via Santa Marta.
Il Comando era stato reso operativo da poco meno di sei mesi e ad ognuno
sembrava il vero simbolo della cacciata dell’invasore.
Ambrogio, il formaggiàtt8 della via, non fece eccezione.
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Formaggiàtt: venditore di formaggio
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quell de la mascherpa
Rimase con la stadéra9 in mano ed alzò lo sguardo fuori dalla porta. Anche la
parola gli si troncò a metà in bocca ed un brivido d’ammirazione gli percorse
la schiena prima di sospirare come fanno gli innamorati. Avrebbe voluto urlare
“Evviva il re Vittorio Emanuele! Evviva Cavour!”, ma si trattenne ricacciandosi in
gola le parole. Non gli piaceva affatto lasciarsi andare mentre lavorava, considerandola una debolezza inutile. Concedeva pochissima confidenza ai clienti,
pur trattandoli col massimo del rispetto e della cortesia, sforzandosi di rivolgersi a loro in italiano ed evitando il dialetto, che gli sembrava quasi sminuire
il suo ruolo. Anche col suo garzone Carlo faceva attenzione a come parlava e
a quel che diceva, riducendo tutta la dimostrazione del suo affetto per lui al
soprannome Carlett, attribuitogli per la giovane età.
In realtà voleva molto bene al ragazzo che incarnava un po’ il figlio che lui e
la Luigia avrebbero sempre voluto avere, ma che disgraziatamente non era
arrivato.
Era un bravo quattordicenne, intelligente e scaltro, con tanta voglia di leggere,
studiare, istruirsi. Purtroppo la sua famiglia, composta da onestissimi genitori e
ben otto tra fratelli e sorelle, non aveva i mezzi per mandarlo a scuola ed allora
lo aveva preso a bottega sia per fargli guadagnare qualche piccola svanzica,
sia per passargli un po’ dei libri che aveva in casa e che non aveva mai avuto il
piacere di aprire e leggere.
Da un lato invidiava la sua predisposizione alle lettere ed agli studi, ma dall’altro era ben conscio che la situazione economica era un oggettivo impedimento alla realizzazione delle aspirazioni culturali del giovane. Una barriera
insormontabile. Con senso pratico tipicamente meneghino era giunto alla
conclusione che se studiare non si poteva, non si poteva e basta, per cui bisognava lavorare e stare zitti.
Di diverso avviso, ovviamente, era il Carlett, a cui consegnar formaggi a domicilio proprio non piaceva e che si sentiva decisamente più portato per la meditazione metafisica, l’arte contemplativa, le lettere. Di curiosità innata, avvertiva
il bisogno di sapere qualsiasi cosa e, una volta appresa, da vero indagatore, voleva conoscerne il perché e il per come. Inoltre leggeva e scriveva molto bene,
fatto alquanto raro per gli adolescenti del suo livello sociale. Era una specie di
mosca bianca.
Scomparsa alla vista l’ultima divisa dei Carabinieri, Ambrogio tornò a concentrarsi su quel che aveva interrotto.
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Stadéra: bilancia di origine romana, ormai in disuso, basata sul principio delle leve.
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- L’è assee inscì, scióra10? - disse guardando la fetta di taleggio che aveva posato sul piatto della bilancia, non accorgendosi di essersi espresso in dialetto.
- Sì, va bén, ma mì voeùra anca on tòchell de buttér11 - rispose la cliente con
fare altezzoso.
Subito il commerciante si riprese recuperando la sua impostazione abituale.
- Benissimo, signora Marchesi, desidera che glielo faccia recapitare a casa dal
garzone?- No, gràzie, l’è l’istèss, tánt adèss mì torni sùbit a cà. La me saluda la soa scióra,
nèh12?
- Sarà fatto, signora. Grazie a lei - disse con un mezzo inchino.
Il negozio restò vuoto e ripiombò nel silenzio.
Carlo stava seduto su una bassa pila di bancali di legno appoggiati per terra e,
come al solito, era immerso nella lettura. Ambrogio gli gettò un’occhiata d’impazienza e fu lieto di potergli dare un ordine per un’altra consegna a domicilio,
la terza della mattinata. Non lo faceva con cattiveria, era solo che lo voleva
vedere più impegnato, concentrato sul lavoro. Inoltre lo infastidiva la sua indifferenza nei confronti dei clienti, mai un saluto, un inchino, un segno di rispetto
o di buona educazione. Nel suo intimo era sicuro che quelle mancanze non
passavano inosservate e che l’immagine della sua attività ne subisse in qualche modo un danno.
- Carlo! - urlò come se ce ne fosse bisogno - devi andare a consegnare quest’ordine in Piazza della Vetra, al numero tre, famiglia Lanfranchi. Mi raccomando, fai in fretta e sta’ attento, che è tanta roba. Eppoi comportati bene, che sono
clienti importanti e già una volta la signora mi ha fatto notare come non saluti
con la dovuta educazione. Devi imparare ad essere più gentile, quante volte te
lo devo dire. Guarda che è importante, per te, per il tuo mestiere, per il negozio
e per me. Il Carlett non si mosse e continuò a leggere, assorto nel suo mondo.
- Allóra! Te see diventaa sórd?13 Sapeva che quando l’Ambrogio abbandonava l’italiano e urlava in milanese
era perché lo aveva fatto arrabbiare davvero. Alzò di scatto gli occhi al cielo,
L’è assee inscì, scióra?: è abbastanza così, signora?
Sì, va bén, ma mì voeùra anca on tòchell de buttér: Sì, va bene, ma vorrei anche un
pezzetto di burro.
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No, gràzie, l’è l’istèss, tánt adèss mì torni sùbit a cà. La me saluda la soa scióra, nèh: No
grazie, è lo stesso, tanto adesso vado subito a casa. Mi saluti la sua signora.
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Allóra! Te see diventaa sórd?: Allora! Sei diventato sordo?
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quell de la mascherpa
sbuffò. Gettò il libro per terra con un tonfo e, con il massimo dell’indolenza
possibile, si alzò. Passò al rallentatore davanti al povero Ambrogio e prese la
cesta del formaggio non profferendo parola. Senza degnarlo di uno sguardo
s’avviò all’uscita. Questa volta il capo perse la pazienza e gli assestò uno scappellotto un bel po’ più violento del solito.
Il ragazzo lamentò un “Ahi” e corse veloce. Lo stava ancora maledicendo quando iniziò a camminare in direzione Carrobbio; di lì avrebbe girato verso le Colonne di San Lorenzo e poi sarebbe sceso fino a Piazza Vetra.
Mentre si sistemava sulle spalle la scomoda cesta in vimini a mo’ di gerla, deprecò la sua misera condizione e la tristezza del suo mestiere. Pensava a quanto gli sarebbe piaciuto essere a scuola per imparare le lettere e la matematica,
la geografia e la storia. Gli sarebbe piaciuto diventare un filosofo, oppure un
giurista, no meglio forse un medico, un maestro, o magari un poeta. Insomma,
avrebbe avuto modo di scegliere e decidere con calma, se solo avesse potuto
iniziare a studiare seriamente. Si sentiva oppresso, costretto com’era a passare
le sue giornate in quella puzzolente bottega e ad andare avanti e indietro da
quegli antipatici clienti ricchi che non facevano nemmeno la fatica di portarselo a casa da soli, il loro pezzetto di taleggio!
Sua mamma se lo sognava di farsi fare le consegne a domicilio quando aveva
qualche centesimo per fare un po’ di spesa. Anzi, diceva sempre che le piaceva andar per negozi, che almeno poteva scambiare due parole con qualcuno,
vedere un po’ la città.
“Ma non finirà così, troverò il modo di andarmene. Sì, sì, ce la farò. Dunque: guadagno circa dieci svanziche al mese. Dieci svanziche sono ottantasette lire. Se ne
dò solo ottanta al papà, ne metto via di nascosto sette. Sette per dodici fa ottantaquattro. In un anno metto via quasi dieci svanziche. Dovrei farcela ad iscrivermi
a scuola. Ma quanto costerà, poi, iscriversi a scuola? Boh! Eppoi ci sono i quaderni
e le matite da comprare. Beh… per quello posso usare il lapis dell’Ambrogio e scrivere nelle pagine bianche dei libri che mi passa da leggere”.
Mentre era assorto in quei pensieri contabili, senza rendersene conto, si era
fermato davanti alle Colonne di San Lorenzo. Fu ridestato da un ludico vociare
ed osservò con invidia un gruppo di coetanei che giocavano a rimpiattino. Erano tutti in calzoncini neri e camiciola bianca con i mocassini ai piedi. Avevano
abbandonato sul ciglio della strada le cinghie con le quali legavano i libri di
scuola. Sembrava una scena messa lì apposta per aumentare la sua frustrazione. Ad un tratto udì chiamare il suo nome.
- Carlett, Carlett! Riconobbe subito il suo vecchio amico Matteo, compagno di banco nell’unico
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anno di scuola che aveva potuto frequentare. Era il figlio del famoso notaio
Cattaneo, che in centro città conoscevano tutti e quindi a scuola ci andava
ancora, benché non ne avesse alcuna voglia. Un somaro in piena regola. Riflettendo su questa curiosa circostanza, il Carlo pensò che era proprio vero il detto
che chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane.
- Ciao Matteo - rispose di umor nero - allora, come stai? Cosa stai studiando a
scuola? - A scuola? - chiese con voce attonita - e che te ne importa, scusa? Perché non
giochi con noi a rimpiattino? Con te saremmo pari e potremmo dividerci in
due squadre per la lippa. - La voce risuonò acuta nell’aria.
- Non posso, devo andare a fare una consegna. Lo sai che lavoro, io. Ma cosa
state facendo in classe? - Uffa, con ‘sta scuola! Stiamo leggendo l’Odissea, una noia mortale - sbuffò.
- Odissea? E cos’è mai? - E’ un poema lunghissimo che ha scritto un tale dell’antica Grecia, narra di uno
che deve tornare a casa ma si perde. Uno scemo, praticamente… - E c’è da scriverci un poema? - Non lo so Carlo, a me non piace per niente. Per la verità non mi piace nemmeno studiare. Vorrei tanto essere libero come te. - E io come te, invece. - Fece una breve pausa. - Beh, adesso vado, altrimenti
l’Ambrogio ‘sta volta mi prende a cinghiate per davvero. Ciao, nèh, stai bene.
Ci vediamo in giro. Gli altri ragazzi avevano cominciato a reclamare a forza il rientro di Matteo nel
gioco.
- Arrivo, arrivo! - urlò con vigore. E poi, al Carlo, con una punta di tristezza negli
occhi:
- Ciao nèh, Carlett. Ci vediamo presto, spero. Mi manchi a scuola, sai? Carlo si voltò e se ne andò senza rispondere, con il capo chino che scompariva quasi tra le magre spalle. Mentre camminava si guardò i piedi cercando
di immaginarseli con su i mocassini anziché quei consunti e scomodi zoccoli
di legno. Una lacrima, scivolando dalla guancia, cadde proprio sulla punta di
quello destro.
Tra una cosa e l’altra il tempo era trascorso rapidissimo ed il giovane tornò al
negozio che era già pomeriggio.
Ambrogio era infuriato come un orco e si vedeva lontano un miglio.
Lo aspettava impettito, in piedi, tamburellando le dita di entrambe le mani sul
bancone di legno. Sospirò a fondo ed alzò il braccio destro. Carlo, istintivamente, si coprì la testa con gli avambracci, aspettandosi un sonoro scappellotto.
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Rimase esterrefatto quando sentì la manona dell’uomo posarsi con delicatezza sulla sua spalla.
- Carlo - attaccò con tono calmo e paziente - noi due dobbiamo parlare, ma
bisogna che tu mi ascolti, ché se continui così, mica vai bene, sai? Alzò gli occhi ed annuì, un po’ perplesso, un po’ preoccupato. Aveva messo in
preventivo di prenderle, non di ascoltare una predica così pacata.
- Mi vuoi spiegare come è stato possibile che ci hai messo quasi tre ore per
andare da qui in Piazza Vetra e tornare? Si può sapere dove sei stato? - Il tono
non ammetteva repliche.
Il giovane si mise ad osservare il pavimento che puliva tutte le sere come se lo
vedesse per la prima volta. Dapprima non rispose, ma poi cedette alle insistenze dell’Ambrogio.
- Sa, signor Ambrogio, ho incontrato il Matteo, ci siamo messi a parlare dell’Odissea, non me ne sono accorto mica che era così tardi. Eppoi i Lanfranchi
non la finivano più di parlare e di controllare che quello che ho portato fosse
tutto giusto. - Ma santi numi, ti rendi conto che hai un lavoro? Che hai dei doveri verso di me
e la bottega? Ci sono i clienti da servire e da accontentare, non puoi andartene
in giro per un pomeriggio intero! Vuoi perderlo, questo lavoro, eh? Vuoi dare
questo dispiacere a tua mamma e tuo papà? E come pensi che la prenderanno
se ti lascio a casa? Con tutta la fatica che fanno, poverini! Carlo cedette di schianto e cominciò a piangere ed a singhiozzare.
- Ma non è giusto! Io voglio andare a scuola, voglio studiare. Non mi interessa
di portare formaggi a casa della gente. - Gridò disperato.
Ambrogio non sapeva più che pesci pigliare, né a che santi votarsi, ma d’improvviso ebbe un’illuminazione:
- Ascoltami bene, Carlett - ricominciò arruffandogli affettuosamente i capelli
castani - guarda che il tuo lavoro è importante, sai? Devi farlo con cura ed attenzione, perché da esso dipendono tante cose. Molte più di quante tu possa
immaginarti. Davvero, nèh? Il ragazzo tirò un po’ su col naso, mentre si asciugava gli occhi con la manica.
Non appena riuscì a rimetterlo a fuoco, lo guardò come se si trattasse di una
fiera medievale, di quelle feroci che vivono nella selva nera.
Il vecchio formaggiàtt continuò, dosando con cura le pause, per essere sicuro
che capisse bene.
- Ma sì, non hai sentito cosa è successo a Parigi? Lo sai dov’è, no? Carlo annuì.
- Bene. Ma davvero non hai sentito niente? -
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Carlo scosse il capo.
- Tu non ci crederai, ma è grazie ad un formaggiàtt come me e te, che la polizia
ha arrestato dei formidabili furfanti! Carlo sgranò gli occhi ed aprì la bocca che si riempì d’aria e curiosità.
- Allora, era da un po’ di mesi che la polizia di Parigi andava cercando di sgominare una banda di ladri che rubava orologi di lusso nei negozi del centro della
città. Facevano il colpo di notte, quando nessuno li vedeva e poi via, di loro non
se ne sapeva più nulla. L’ispettore capo Canler14 era disperato, perché quelli
erano dei professionisti veri e non lasciavano mai degli indizi. Ma un bel giorno
… zàcchete, ecco che ti trova un bigliettino per terra dietro al banco di una
gioielleria appena svaligiata. E lo sai cosa c’era scritto su quel bigliettino? - No - rispose il giovane sempre più intrigato, fissandolo in attesa.
- Due libbre di burro! Capisci adesso? - urlò, scandendo trionfalmente ogni
sillaba.
- No - ripeté.
- Ma certo! - proseguì a gran voce l’Ambrogio alzando le mani al cielo - L’ispettore ha capito che il biglietto era caduto ad uno dei ladri e quindi si è messo ad
interrogare tutti i formaggiàtt di Parigi, finché qualcuno non gli ha dato la descrizione giusta di alcuni loschi individui che erano andati proprio a comprare
il burro nello stesso giorno del colpo. E indovina un po’? Li ha arrestati tutti! Il Carlett rimase immobile per qualche secondo, mentre la sua fantasia cominciava a galoppare lontano. Già si immaginava all’interno del commissariato,
mentre descriveva alla perfezione i lestofanti a cui aveva appena portato il
formaggio nel covo.
E poi la folla che lo acclamava e, magari, una medaglia al valore per l’importante contributo che aveva saputo dare alla polizia.
Ambrogio capì di avere fatto centro e non si lasciò sfuggire l’occasione.
- Hai capito adesso quanto è importante mettere impegno nel lavoro che si fa?
Qualunque esso sia, se tu lo farai con dedizione, un giorno sarai premiato. Annuì ancora e si sentì tremendamente in colpa.
Chiese scusa paonazzo, mentre nel suo intimo s’impose che da quel momento
in poi avrebbe rigato dritto.
Soddisfatto del risultato ottenuto, Ambrogio fu magnanimo.
- Dài, valà. Vai a casa a riposarti, che per oggi basta così, ma da domani si camL’episodio, realmente accaduto, risale al 28 novembre 1860. Due anni dopo l’ispettore Canler pubblicò le sue “Mémoires” ed a quella data si attribuisce la nascita della
letteratura francese di genere noir.
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bia registro, nèh? - Sì, Signor Ambrogio! - gridò mentre già correva in strada - E grazie. Invece di svoltare a destra, verso casa, Carlo tirò dritto verso l’osteria, dove sapeva che avrebbe trovato il Pin.
Quest’ultimo, al secolo Giuseppe Mazzoni, detto Pin per la sua bassa statura,
era un ex militare, convinto carbonaro ai tempi dei moti del ’48, cui partecipò
attivamente e durante i quali s’era guadagnato una grave ferita al ginocchio
destro, che per miracolo non gli era costata l’intera gamba.
Rientrato nei ranghi dell’esercito regolare austriaco durante l’occupazione,
aveva negli ultimi anni svolto semplici lavoretti d’ufficio all’interno della Cancelleria del tribunale civile e penale di Milano.
Era ormai a riposo e sopravviveva con la misera pensione che gli riconosceva
lo Stato. Passava le sue giornate in una delle tante osterie di via Torino, dove
ingannava il tempo fumando la sua lunga pipa e giocando di quando in quando a carte, chiacchierando con chi capitava, seduto fuori con la sedia in mezzo
al marciapiede.
Non disdegnava certo un buon bicchiere di vino di tanto in tanto.
In questo modo, grazie ai suoi frequentissimi passaggi lì davanti, aveva conosciuto il Carlett, che si era fatto voler subito bene per avergli più di una volta
regalato pezzetti del formaggio destinato ai ricchi clienti. Col passar dei mesi i
due avevano stretto una certa amicizia, anche perché il giovane non perdeva
occasione per farsi raccontare storie di guerra, di carboneria, d’atti eroici e di
insurrezioni. Quando arrivò, con un po’ di fiatone per la corsa, il vecchio era
come al solito seduto fuori, lo schienale della sedia appoggiato al muro del
palazzo e lui a dondolarsi oziosamente sulle due gambe.
Il garzone gli raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo durante la giornata, con particolare entusiasmo per la storiella del commissario
francese. Il Pin ascoltò con pazienza, gli occhi distratti. Sapeva già dove sarebbe arrivato il ragazzo.
- Capito, Pin? Se sarò fortunato, anch’io un giorno scoprirò qualcosa d’importante ed allora potrò diventare commissario, magari nei Carabinieri. Vero? L’ex militare ne aveva viste troppe nella sua vita per farsi trasportare da una
simile illusione, ma non voleva nemmeno ferire l’animo del giovane amico o
castrarne i sogni. Rispose accondiscendente.
- Valà, valà, che tì te see brào15. Vedrai che applicandoti con costanza riuscirai
ad avere un bel posto di lavoro. Per il momento sii paziente, leggi tanto e metti
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Valà, valà, che tì te see brào: Su, su, che tu sei bravo.
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attenzione ed impegno in ciò che fai. Hai capito bene? - Sì, sì, ma tu pensi che se mi arruolo adesso mi prendono? Posso cominciare
anch’io dalla gavetta, come fanno tanti, come hai fatto anche tu, non è vero? - Erano altri tempi, Carlett, e poi c’era di mezzo una guerra, che adesso invece è
finita. Sei troppo giovane perché ti prendano ora, ma cerca di stare tranquillo
e di fare quello che ti ho raccomandato, senza più far disperare l’Ambrogio,
povero diavolo anche lui. - Concluse scuotendo la testa.
Come sempre accade, il medesimo discorso, se fatto da un genitore o da un
datore di lavoro, è percepito come insopportabile ramanzina, se fatto da un
amico, come prezioso consiglio.
Tornò così a casa di buon umore e affamato; condivise la piccola cena con
tutti i suoi fratelli e poi si ritirò a letto, dove, però, non riuscì a prendere sonno
fino a tardi. I genitori ed i fratelli dormivano e vivevano in un unico stanzone
al di là dell’androne d’ingresso, mentre lui, essendo il maggiore, dormiva da
solo su uno scomodissimo giaciglio all’interno della guardiola della portineria.
Questo, però, gli faceva comodo quando, come in questo caso, non riusciva ad
addormentarsi, evento per la verità alquanto raro.
L’indomani andò a bottega prima del solito, pieno di buoni propositi. Salutò
con reverenza ogni cliente che entrò, dimostrandosi obbediente e propositivo
nei confronti del suo anziano mentore. Quest’ultimo, da parte sua, non poté
non notare la differenza e si gongolò pieno d’autocompiacimento. A mattinata inoltrata lo mandò a fare una consegna a casa della signora Perrocchio che
abitava proprio lì dietro, in via Santa Marta. La cosa gli fece particolarmente
piacere in quel momento perché l’anziana e ricca signora ogni volta regalava
un dolcetto al Carlett; riteneva che, benché i premi fossero sempre ben accetti,
quel giorno se lo meritasse in particolar modo. Anche il giovane garzone fu felice di accettare quella commessa. Prese la cesta ed uscì fischiettando allegro.
Il cielo era terso, il sole alto, la temperatura mite nonostante l’inverno. La via
sembrava traboccare di buona salute, d’allegria e d’ottimismo. Ogni cosa combaciava alla perfezione con lo stato d’animo di Carlo che si immerse felice in
quell’atmosfera.
Tirò dritto verso il Carrobbio, passando davanti al Pin, che lo salutò con un sorridente cenno della mano. Quindi girò a destra, poi di nuovo a destra.
Al civico 10 entrò nell’androne, transitando davanti alla custode in quel momento impegnata a pulire i vetri. Salì di corsa al secondo piano.
Aveva voglia di concludere in fretta il suo compito, ma desiderava ardentemente anche mangiarsi l’agognato dono zuccherino.
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quell de la mascherpa
Bussò con educato vigore.
Niente.
Riprovò titubante, guardandosi intorno.
Nessuna risposta.
La terza voltà chiamò a gran voce la signora Perrocchio, convinto che si fosse
addormentata.
Alla fine vide muoversi la maniglia verso il basso, l’uscio aprirsi lentamente
verso di lui. Durante il giorno, a quei tempi, non si usava chiudere a chiave.
Rimase di stucco.
Si presentò a lui un uomo distinto, alto, molto ben vestito, con la schiena dritta
dritta in una posa quasi presuntuosa. Aveva pochi capelli tutti concentrati ai
lati della testa, simili a irti cespugli ed il naso leggermente adunco, particolare
che ne rendeva l’espressione tetra e seria. Abbassò su di lui uno sguardo indagatore più infastidito che sorpreso e gli domandò cosa volesse.
Sulle prime credette di aver percorso, nella fretta di arrivare, un piano in meno
del dovuto e di aver sbagliato appartamento.
Stava per congedarsi scusandosi, quando lesse bene il nome Perrocchio sulla
targa dorata della porta. Si fece coraggio e l’affrontò.
- Buongiorno, sono il fattorino del negozio di formaggi di via Torino. Dovrei
consegnare del burro e della mascherpa alla signora Perrocchio. Ce l’ha ordinato tre giorni fa. - Ho il piacere di presentarmi - annuì l’uomo con un leggero inchino, impostando la voce da nobile stonandone il tono. - Mi chiamo Antonio Boggia e
sono il procuratore generale della signora. Anche se Carlo era troppo giovane ed ingenuo per accorgersene, la fretta nel
fornire spiegazioni non richieste tradì le reali origini dell’uomo. Era questi un
umile e indigente carpentiere cui la fortuna aveva regalato un’occasione unica
ed irripetibile. Assurto ad un ruolo più grande di lui, non era però in grado di
sostenerlo con un adeguato comportamento.
Cercando il giusto sussiego, continuò.
- Purtroppo lei però non c’è e sarà assente assai a lungo. Si è recata in riva al lago
di Como dove il clima più mite meglio si confà alla sua cagionevole salute. Non sapendo affatto come si comportavano i nobili e i ricchi in tali occasioni,
consentì al Carlo di passare.
Lo fece entrare in cucina, dove gli indicò il tavolo affinché vi poggiasse la cesta
e la svuotasse. Si frugò in tasca in cerca dei soldi.
Senza che ce ne fosse bisogno vista la circostanza, concluse:
- In verità è partita un po’ all’improvviso pochi giorni fa, cogliendomi di sorpre-
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sa nel lasciarmi la procura per l’amministrazione dell’intero stabile. Farà bene a
rammentarlo al suo padrone. Carlo era combattuto tra il guardare quello strano individuo e lo sbirciare in
giro per casa in cerca della signora e, sotto sotto, dei suoi meritati dolcetti. Fu
solo allora che notò il bastone da passeggio della signora, che ne aveva bisogno per reggersi in piedi, appoggiato tra la legna da ardere di fianco alla stufa
di ghisa.
- Bene giovanotto - chiosò un po’ bruscamente - allora ci rivedremo. Verrò a
presentarmi in bottega. Come si chiama il padrone? - Signor Ambrogio. - Ah, bene, ci conosciamo già. Allora gli porti i miei rispetti. Addio. Carlo ritirò il denaro del pagamento ed uscì di fretta.
Scendendo le scale si sentì un po’ turbato, ma non ne capì il motivo. Certo, non
era stato molto simpatico con lui, con quell’insistere a chiamare l’Ambrogio il
padrone. E poi che brutto aspetto aveva. Ma soprattutto c’era la faccenda del
bastone della signora. Come mai era lì? Valutò se passare a raccontare al Pin
l’accaduto, ma si era ripromesso di correre a bottega appena finito. Inoltre che
cosa avrebbe pensato di lui il Pin? Che era un moccioso che si faceva impressionare da una storiella ridicola, che non era capace di farsi gli affari suoi. No,
no, se voleva diventare commissario aveva bisogno di deduzioni più convincenti, di vere prove. Prove di che, poi? Decise che sarebbe stato meglio non
parlarne con nessuno. Accelerò il passo.
Arrivato in bottega si limitò a portare i saluti del Boggia, mica che poi, parlando
con l’Ambrogio, saltasse fuori che se ne era dimenticato. “Però, anche il padrone, come lo chiama il Boggia, c’è rimasto alla notizia della partenza della signora”,
pensò infastidito.
Nel frattempo, al Comando dei Carabinieri di C.so San Gottardo, un altro uomo
distinto, il signor Maurier, si presentava a sporgere denuncia per la scomparsa
della madre, la signora Perrocchio.
Il giudice Crivelli, cui fu affidata l’istruttoria del caso, svolte le prime sommarie
indagini, convocò l’uomo che si era trasferito ad abitare nel suo appartamento, il signor Antonio Boggia. Questi, mostrandosi seccato per il disturbo arrecatogli, produsse le deleghe firmate dalla signora e spiegò freddamente che,
appunto, s’era trasferita sulle rive del lago di Como per ragioni di salute, aggiungendo che avrebbe da lì a poco contattato il figlio per metterlo al corrente
della decisione della madre, nonché per accordarsi con lui circa le percentuali
di spartizione degli incassi delle pigioni provenienti dagli affitti degli apparta-
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quell de la mascherpa
menti del palazzo, tutti di proprietà della Perrocchio. Il signor Maurier, che era
in rotta con la madre da anni per ragioni economiche, ingolosito dall’allettante
prospettiva di non faticosi guadagni, ritirò premurosamente la denuncia ed il
caso fu subito archiviato.
Qualche giorno dopo a Carlo tremarono le gambe quando sentì Ambrogio
commentare con la vicina di casa della Perrocchio lo strano caso della sua
scomparsa improvvisa.
- El savévi mì che l’andàva a finì inscì. L’éra tròpp témp che l’éra foeùra de coo
e poeù a mì chel Boggia là me pias minga tròpp16 - sentenziò la vicina, con uno
sguardo accusatore.
Carlo attese con impazienza d’essere mandato a fare una consegna: non vedeva l’ora di parlare col Pin. Finalmente la cesta fu riempita e lui poté correre
fuori. Lungo la strada trovò l’anziano amico al solito posto e gli raccontò tutto,
dal bastone visto in cucina al pettegolezzo appena udito dalla vicina.
- Capisci, Pin? Se il bastone era ancora là, vuol dire che la signora non se l’è
portato via, eppure lo sai anche tu che senza non poteva camminare. Quindi
significa che non è vero che è andata sul lago. Forse la tiene chiusa in casa,
oppure l’ha uccisa. Andiamo dai Carabinieri, Pin. Lo denunciamo, io fornirò le
prove della sua colpevolezza ed avremo la possibilità di metterci in mostra.
Magari mi fanno entrare nell’Arma! - disse tutto d’un fiato, il cuore in gola.
Il vecchio militare rimase in silenzio un po’ a pensarci su. Da un lato il ragazzo
aveva ragione su due punti: il primo era che di sicuro qualcosa di strano era
successo.
Anche lui, vivendo la strada, aveva sentito parlare del caso della signora ed
inoltre conosceva personalmente il Boggia e la sua dubbia reputazione un po’
spettrale. Il secondo era che poteva essere l’occasione giusta per ottenere della fama, una piccola rivincita sulle delusioni delle loro vite stentate. Dall’altro,
però, quello che avevano era ancora troppo poco e non sarebbe servito a niente sporgere denuncia in quel momento.
- Ascoltami bene - fece, abbassando il tono della voce, avvicinando la bocca al
suo orecchio - non è escluso che tu abbia ragione e devo dire che sei stato in
gamba a notare il bastone della signora, ma questo ci porta solo ad avere un
sospetto sul Boggia. Niente di più. Per poterlo denunciare e prenderci il merito
della sua cattura ci vuole ben altro. Sono d’accordo con te che forse è la volta
El savévi mì che l’andàva a finì inscì. L’éra tròpp témp che l’éra foeùra de coo e poeù a
mì chel Boggia là me pias minga tròpp: Lo sapevo, io, che andava a finire così. Era troppo
tempo che lei era fuori di testa e poi a me quel Boggia non piace mica troppo.
buona per fare qualcosa d’importante, ma lasciami parlare coi miei amici del
tribunale per saperne un po’ di più. - Ma Pin! Se aspettiamo va a finire che magari se ne va, scappa lontano e noi
rimaniamo a bocca asciutta. No, dai, ti prego, andiamo adesso dai Carabinieri. Il tono del Carlett era quasi supplichevole e lui temette che potesse mettersi a
piangere da un momento all’altro.
- Come siete tutti impazienti voi altri giovani! - sbottò seccato - Dammi un po’
di tempo e vedrai che faremo tutte le cosine per bene. Tu limitati a tenere gli
occhi e le orecchie ben aperte, ma non dir niente a nessuno, capito? A nessuno! Verrò io a dirti le novità, se ce ne saranno - concluse con un dito alzato.
- E va bene - sbuffò demoralizzato Carlo.
Anche quella sera dormì poco e male, preso tra l’agitazione di sentire la soluzione del mistero a portata di mano e la delusione del dover aspettare senza
fare nulla, subendo gli eventi.
“Però da domani lo tengo d’occhio, non voglio che se ne vada via indisturbato,
senza che nessuno se ne accorga. Passerò davanti a casa sua tutte le volte che potrò e così la vedremo!”. Fu questo l’ultimo agguerrito pensiero dell’investigatore
in erba prima di addormentarsi.
Dando seguito ai suoi propositi notturni, il Carlo cominciò ad allungare il giro
di ogni consegna per transitare davanti l’abitazione del Boggia o aggirarsi nei
suoi paraggi.
Questo, ovviamente, tornò ad esasperare l’Ambrogio, perché i tempi s’allungarono un’altra volta a dismisura.
- On dì o l’alter tì te diventaree ’me quell de la maschèrpa17 - gli disse una mattina con disperata rassegnazione. Vedendone l’espressione interrogativa, arguì
che Carlo non aveva capito. Allora gli spiegò.
- Un giorno, un ragazzo come te doveva portare del mascarpone, la mascherpa,
da Lodi a Milano. Gli caricarono la cesta sulla bicicletta e lui partì di buona lena.
Sarà stato il gran caldo, sarà stato che aveva la tua stessa voglia di lavorare,
insomma, andò a finire che ci mise diverse ore per arrivare, poiché continuava
a fermarsi ed a perder tempo. Quando finalmente giunse a destinazione, trovò
il cesto completamente vuoto, perché nel frattempo il formaggio si era sciolto
ed era colato tutto fuori. Capisci cosa significa?- Sottolineò questa domanda
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On dì o l’alter tì te diventaree ’me quell de la maschèrpa: un giorno o l’altro diventerai
come quello del mascarpone
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quell de la mascherpa
con tutto il corpo, piegando in avanti il busto, accompagnandolo con un movimento delle braccia che sfiorò il ragazzo. Fece una piccola pausa per deglutire,
poi proseguì.
- Vuol dire che non solo il garzone ci rimase di stucco, ma fece anche la figura
dello sciocco e si vergognò davanti ai clienti ed al suo datore di lavoro. Ecco, da
te mi aspetto che finirai col fare la stessa figura, se continuerai così. Carlo ci rimase molto male: preferì tacere e non difendersi piuttosto che svelare quello che lui ed il Pin avevano in ballo.
I giorni passavano senza che ci fossero novità di rilievo. Vedeva il Boggia sempre in giro, parlare d’affari con quello o con quell’altro: non c’era nulla di sospetto nei suoi movimenti. Il suo nervosismo crebbe di pari passo con quello dell’Ambrogio, finché decise che sarebbe andato lui a trovare il Pin, senza
aspettare che si facesse vivo di sua spontanea volontà.
Con sorpresa lo precedette e, sul far del mezzogiorno, venne in bottega. La
scusa era di farsi portare a casa la spesa. Riuscì finalmente a parlargli.
- Allora - esordì incamminandosi verso l’osteria - ho visto il mio collega della
Cancelleria del Tribunale. Mi ha detto che non è la prima volta che il Boggia
finisce nei guai. Il losco individuo ha alle spalle un fallimento che lo ha portato
a rifugiarsi in Piemonte prima di poter tornare a Milano. Una volta rientrato,
vedovo e con figli a carico, si è messo a fare dei lavori di carpenteria per poter campare, ma, non soddisfatto dei miseri guadagni recuperati, si è fatto più
volte trovare immischiato in affari poco chiari. Si sedettero ad un tavolo e Pin ordinò del vino.
- Me ne dai un po’? - chiese il Carlett guardando con ingordigia la piccola brocca in mezzo a loro. L’anziano militare liquidò l’inaspettata richiesta con un cenno della mano che significava “Tì te see màtt”18. Continuò:
- In particolare, mi ha riferito che fu coinvolto nella presunta scomparsa di un
noto commerciante, il Signor Marchesotti. Se non mi confondo era quello che
vendeva stoffe in Montenapoleone, ma forse mi sbaglio S’interruppe un secondo o due, aspettando un cenno di assenso che non arrivò. Ingollò un sorso e proseguì.
- Ad ogni buon conto, era stato visto parlare di un eventuale lauto guadagno
con lo stesso Boggia e si era fatto prestare i soldi da un suo conoscente. Qualche giorno dopo due denunce erano state presentate: una dalla madre del
Marchesotti, preoccupata per l’assenza prolungata del figlio, l’altra dallo stesso
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Tì te see màtt: Tu sei matto.
suo creditore, in ansia per la sorte dei quattrini imprestati. Il caso è poi stato
archiviato e sentito anche il Boggia. Il Pin fece un’altra breve pausa, cercando di interpretare le reazioni del giovane
scrutandone l’espressione del viso. Il ragazzo era assorto e meditabondo: non
diede cenno di accorgersi dell’interruzione. L’ex militare aggiunse al suo tono
un’ulteriore dose d’enfasi e concluse col finale a sorpresa:
- Per ultimo… senti senti… pare che il famoso notaio Cattaneo, gli abbia rifiutato una procura generale rilasciata dall’anziana e poco lucida Perrocchio e
che la sua istanza di interdizione della signora sia stata rigettata solo perché
lei risulta residente sul lago di Como. Ma il buffo è che si ritiene sia là solo sulla
base delle affermazioni del Boggia! - Però! - si limitò a dire Carlo sempre più immerso nella sua concentrazione.
- Già. E come se non bastasse, ha saputo che qualche anno fa è stato condannato e rinchiuso in una casa di cura per malattie mentali per il tentato omicidio
di un tale signor Comi. Sembra che questo sfortunato non volesse prestargli
dei soldi e lui abbia cercato d’ammazzarlo. - Se vuoi dico al mio amico Matteo, che è il figlio del notaio Cattaneo, di chiedere un po’ a suo padre come sono andate le cose con la signora Perrocchio.
In ogni caso direi che i nostri sospetti sono più che giustificati. Andiamo dai
Carabinieri adesso - disse agitato.
- No, Carlett, dobbiamo trovare delle prove più convincenti, te l’ho già detto. Rimase un attimo in silenzio, poi sospirò profondamente e, tremando un poco,
aggiunse:
- Io avrei un piano, però mi devi dire con sincerità se te la senti, perché potrebbe essere molto pericoloso - sussurrò.
Apriti cielo. Ancora un po’ e Carlo si metteva ad urlare. Pieno di entusiasmo,
non stava più nella pelle: si vedeva già in azione, come un vero investigatore
del crimine. Cercare di contenerne l’eccitazione era impresa impossibile e così
il Pin espose la sua idea per placarlo.
- Apri bene le orecchie e cerca di calmarti, che non è un gioco. Come ti dicevo, conosco appena il Boggia, ma mi è sufficiente per cercare d’avvicinarlo e
distrarlo con la scusa di un ghiotto affare. Mentre lui sarà impegnato con me,
tu dovrai entrare in casa sua, o meglio della Perrocchio, cercare ogni tipo di
prova o indizio che riuscirai a scoprire. Dobbiamo riuscire a dimostrare che
c’è un nesso diretto tra le persone scomparse ed il nostro amico dalla cupa
espressione. E’ tutto chiaro? - Sì, tutto chiaro. Ma io come farò a sapere quando potrò andare su? - Di quello non ti devi preoccupare. Domani mattina gli chiederò di incontrarci
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quell de la mascherpa
nel pomeriggio ad una cert’ora, non appena la saprò verrò a dirtela. Tu entrerai
mezzora dopo l’orario che ti riferirò. - Ho capito, mezz’ora dopo l’ora che mi dirai tu. Adesso cosa facciamo? Saltellò.
- Niente, tu cerca di stare tranquillo e non ti agitare, ma sopprattutto non dire
niente a nessuno, me raccomandi19. - Non vuoi che parli col Matteo? Magari ci dà qualche informazione in più. - Preferisco che non si sappia in giro che stiamo cercando di incastrare il Boggia. Come potresti giustificare una domanda del genere con il tuo amico? No,
meglio lasciar perdere, almeno per il momento. Se ne avremo bisogno glielo
chiederai un’altra volta. Adesso torna al negozio, va’, che l’Ambrogio starà già
dando i numeri. Carlo salutò e si avviò mesto, pronto per l’ennesima sgridata che arrivò puntuale come il sorgere del sole.
Passò il resto della giornata e tutta la notte con la testa completamente tra
le nuvole, sognando ad occhi aperti gloria e fama. Cercava di immaginarsi
cosa avrebbe trovato a casa di quello che per lui era già un feroce assassino,
pensava ad armi e strumenti di tortura, passaggi segreti, nascondigli e misteri
terrificanti. In tutto ciò, con l’incoscienza dei quattordici anni, non avvertiva la
benché minima paura o preoccupazione, incapace di percepire l’imminente
pericolo a cui si stava per esporre.
La mattina seguente ebbe un sussulto quando vide comparire il Pin sul marciapiede davanti alla bottega. Uscì senza neanche chiedere il permesso ed
ascoltò cos’ebbe da dirgli.
- Ci è cascato in pieno. Dovevi vedere che faccia ha fatto quando gli ho detto
che ci sono da guadagnare alcune centinaia di Lire. E’ veramente ingordo ed
avido, come pensavo. E’ talmente accecato dal desiderio dei soldi che non si è
insospettito per niente. Gli ho raccontato che c’è un ricco sciocco che crede di
essere bravissimo al gioco delle carte e che oggi pomeriggio vuole fare una
partita. Gli ho detto che faremo finta di non conoscerci quasi per niente ed
essendo invece d’accordo tra noi, lo spenneremo. - Ma chi è questo ricco, eh? Dove lo hai trovato? - Domandò sgranando gli
occhi.
Il Pin rise di gusto e diede uno scappellotto affettuoso al garzone.
- Non c’è nessun ricco, non l’hai mica capito? Lo aspetteremo invano per
un’ora, almeno spero, così tu avrai tutto il tempo. Alla fine gli dirò che il pollo ci
ha bidonati, che ha avuto paura e la cosa finirà lì. - Porca sidèlla, Pin, tì te seet on gèni20! - Esclamò il ragazzo.
- Valà, mócchela lì21. Ricordati bene piuttosto che mi incontrerò con lui alle tre
oggi pomeriggio. Lo porterò verso Porta Ticinese, così ci impiegheremo del
tempo per andare e tornare. Tu alle tre e mezza sali, d’accordo? Però devi farmi una promessa, promessa molto seria, Carlett, ti prego. Devi giurarmi che al
minimo accenno di pericolo tu scapperai anche se non avrai ancora trovato
nulla, capito? Non commettere imprudenze, nhè? Me lo giuri? - La voce aveva
assunto un tono seriamente preoccupato.
Carlo si fece serio come forse non era mai stato in vita sua e giurò solennemente per quanto era vera la Madonnina del Duomo, ma, vista l’apprensione
dell’anziano amico, fu invaso da una certa tensione; non era ancora paura, ma
ci si stava avvicinando parecchio.
La fortuna volle che nel primo pomeriggio l’Ambrogio gli ordinò di uscire per
una consegna dandogli la cesta piena di formaggio. La cosa lo risollevò alquanto. Si stava infatti arrovellando su come trovare una scusa per andarsene
alle tre e mezza. Poiché era ancora troppo presto, fece un largo giro prima di
tornare in via Torino allo scoccare della mezza. Girò in Stretta Bagnera e da lì
arrivò il via Santa Marta 10, dove s’infilò nel portone col cuore in gola. Tremava
da capo a piedi quando passò davanti alla guardiola della portineria. Come
sperava, la portinaia non fece domande. Anzi, sapendo bene chi fosse, non si
curò affatto di lui.
Salì le scale rapido e silenzioso come un puma e, mentre si avvicinava al secondo piano, fu colto da un improvviso terrore: “E se trovo la porta chiusa a chiave?
Oppure se lui ha avuto un intoppo e non è uscito col Pin? E se entro e me lo trovo
davanti? Cosa faccio? Cosa dico?”.
Si fermò un attimo a rifiatare, a prepararsi qualche scusa plausibile nel caso ce
ne fosse stato bisogno. Quindi, armatosi di coraggio, chiuse la mano a pugno e
bussò. Se il Boggia fosse stato in casa avrebbe risposto e lui avrebbe potuto difendersi dicendogli di essersi sbagliato di piano. Ma non arrivò nessuna risposta. Contò fino a dieci, impugnò la miniglia e la girò verso il basso, pregando il
Signore di trovarla aperta. La porta si aprì con un clack metallico e fu dentro.
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Me raccomandi: Mi raccomando
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Porca sidèlla, Pin, tì te seet on gèni: porca miseria, Pin, sei un genio.
Valà, mócchela lì: ma dai, smettila.
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quell de la mascherpa
Il cuore gli batté all’impazzata in petto; sentì il sudore colargli dietro alle orecchie finendo giù per la schiena. Uno scricchiolio d’assestamento di un vecchio
mobile lo fece letteralmente saltare per la tensione. Decise di cominciare dalla
cucina, che già aveva visitato diverse volte; in quel momento aveva disperatamente bisogno di vedere qualcosa di familiare, di rassicurante.
Entrando notò subito che il bastone da passeggio della signora era svanito nel
nulla. Appoggiò la cesta sul tavolo, proprio di fianco ad una sega che nella sua
immaginazione alterata parve sinistra come un cupo presagio. In quell’istante
cominciarono i suoi peggiori incubi.
Sentiva dei rumori tutt’intorno, ma non gli riusciva d’identificarli. Continuò
a guardarsi a destra, a sinistra, senza scorgere niente, senza mettere a fuoco
nulla. Poi sentì dei passi. Quasi si mise a piangere. S’accucciò sotto il tavolo ed
aspettò. Evidentemente i passi erano fuori, forse provenivano dal piano di sopra. Si chiese da quanto se ne stava lì sotto, rendendosi finalmente conto che
non aveva ancora cercato un bel niente.
Che razza di investigatore sarebbe mai stato se si fosse sempre comportato
in quel modo? La chiarezza improvvisa dell’obbiettivo da raggiungere gli restituì quel minimo di lucidità che lo accompagnò fuori dal suo improvvisato
nascondiglio, conducendolo ad ispezionare il resto della casa. Il problema era
che aveva perso la cognizione del tempo e non aveva la benché minima idea
di quando il Boggia avrebbe potuto far ritorno. La paura d’essere scoperto o,
peggio, di trovarselo di fronte, crebbe come un mare in tempesta. Aprì e chiuse
con furore tutti gli armadi ed i mobili che incontrò senza notare alcunché di
interessante. Infine entrò in camera da letto.
Cominciò dall’armadio a muro, dove, con orrore, rinvenne tutti i vestiti della
signora Perrocchio. Questo particolare gli fece capire definitivamente che non
era mai stata vera l’affermazione del Boggia che la Perrocchio se n’era andata
sul lago. Gli tremarono le mani e le gambe. Non riusciva a respirare bene. Con
la forza della disperazione aprì i cassetti del comò.
Fu investito da un acre e sgradevole olezzo di biancheria stantia, logora, riposta senza essere lavata dopo l’uso. La spostò con ripugnanza, come se stesse
toccando il cadavere della vecchia. A fatica combatté contro i conati di vomito sempre più violenti. Interruppe la ricerca ed andò barcollando alla vicina
finestra che dava sulla via. Ne aprì uno spiraglio aspirando a pieni polmoni
la fumosa umidità dell’invernale aria cittadina. Ripresosi tornò al comò, senza
chiudere la finestra. Solo in fondo all’ultimo cassetto trovò nascosto un corposo fascicolo di documenti.
Erano per lo più carte che provavano i diretti coinvolgimenti del Boggia con
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le persone scomparse di cui aveva parlato il Pin. Nell’oscurità terrorizzata della sua mente Carlo non capì bene di cosa si trattasse. Riuscì però a leggere
sulle carte nomi a lui ormai sinistramente noti, come quelli della Perrocchio,
del Comi, del Marchesotti. Riconobbe il nome del papà del suo amico Matteo
Cattaneo. Altri gli erano completamente ignoti, come quello del ferramenta
Meazza e del signor Riboni.
Posate le carte rinvenì alcuni oggetti, che reputò essere probabilmente appartenuti a quelle che ormai era chiaro fossero state delle vittime: il pomello
d’argento del bastone della Perrocchio, un orologio da tasca in argento con
l’iniziale M, “di Marchesotti?” pensò, un tutore ortopedico da uomo di proprietario ignoto, una nota di credito intestata al Boggia e firmata dal Comi.
Tanto bastò all’investigatore in erba per farsi un’idea precisa e per ritenere di
aver trovato le prove che cercavano. Si fermò un attimo a pensare se fosse
opportuno o meno prendere tutto l’incartamento per consegnarlo poi ai Carabinieri insieme alla denuncia, ma temeva anche che il Boggia potesse accorgersene prima. Mentre era assorto in queste valutazioni, sentì dalla strada un
saluto entrare attraverso la finestra lasciata provvidenzialmente aperta:
- Buondì, scior Boggia - urlò una voce maschile.
Carlo ripiombò nel panico più nero.
Chiuse in fretta e furia il cassetto e corse fuori, affannato, pregando di riuscire
a raggiungere il portone prima di lui. Mentre era già sulle scale sentì ancora
delle voci e dei passi decisi. Sbirciò oltre il corrimano e vide qualcuno che stava
iniziando a salire le scale. Pensò velocemente che non poteva far finta di niente ed incrociarlo. L’avrebbe riconosciuto immediatamente.
Decise allora di salire silenziosamente al terzo piano, confidando che si fermasse a casa sua. S’appiattì contro il muro ed attese di sentire il rumore della
porta che s’apriva e chiudeva. Fu in quel momento che, con sgomento, realizzò
d’aver dimenticato il cesto del formaggio sul tavolo in cucina.
Cominciò a tremare come una foglia e a sudare ancor più di quanto avesse
fatto in precedenza. Appena udì il Boggia entrare, corse giù, silenzioso come
un gatto, facendo ben attenzione a diventare tutt’uno con il muro.
Aveva calcolato mentalmente il tempo che avrebbe impiegato a trovare il cesto e a correre fuori. Era ormai al piano sotto, quando poté vedere il Boggia che
s’affacciava sul ballatoio ed emetteva un grugnito di rabbia che prometteva
vendetta.
Con il cuore impazzito attese qualche secondo dopo che fu rientrato.
Poi si scaraventò giù di corsa.
Quando finalmente si trovò nella luce opaca del tramonto invernale, credette
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quell de la mascherpa
di rinascere; sapeva anche di averla combinata grossa. Corse a perdifiato fino
all’osteria dove si incontrava col Pin ed aspettò, nascondendosi dietro ad una
pianta dall’altra parte della strada. Quei pochi minuti gli servirono per contare
i morti ed i feriti della sua sciagurata prima missione da investigatore. Aveva effettivamente trovato delle prove, ma aveva altresì messo in allarme il presunto
colpevole con la scioccehzza del cesto. Adesso il Boggia sapeva che qualcuno
era stato a curiosare in giro per casa e, a meno che non fosse uno stupido, doveva ormai sapere anche chi fosse. A ciò s’aggiungeva che ora sarebbe dovuto tornare a bottega senza cesta e giustificare all’Ambrogio la sua prolungata
assenza nonché la perdita dell’attrezzo del suo lavoro. Sicuramente si sarebbe
arrabbiato tantissimo e, per la gravità della cosa, quasi sicuramente sarebbe
andato a parlare con suo padre, che gliele avrebbe suonate di santa ragione. Si
mise a piangere sommessamente, commiserandosi, vergognandosi in anticipo per ciò che avrebbe detto il suo amico.
Il Pin arrivò poco dopo. Scorse subito il giovane che aspettava contrito sull’altro marciapiede. Attraversò e lo raggiunse preoccupato.
- Se l’è succèss? Perchè te seet adrée a piáng22? In modo convulso e disordinato, mischiando la cronologia degli eventi tra un
singulto ed una lacrima, Carlo gli raccontò ogni cosa.
Quando finì il Pin si nascose la faccia tra le mani ed imprecò dentro di sé,
sentendosi responsabile d’essere stato tanto stupido ed imprudente da aver
esposto un ragazzino così giovane ad un rischio troppo grande per lui. Fu assalito dai sensi di colpa, consapevole che ora il Carlo si trovava in guai molto
seri per causa sua.
Avrebbe voluto piangere anche lui ed implorare perdono per il suo stupido
egosimo. Accecato dalla voglia di riscatto sociale, aveva perso di vista il bene
più grande: l’integrità fisica e morale del piccolo Carlett.
Cosa si poteva fare per rimendiare? Ovviamente, pensò, si sarebbe assunto le
proprie responsabilità di fronte all’Ambrogio ed al padre di Carlo, ma questo
avrebbe presupposto raccontare ogni cosa riguardo alla loro indagine trasversale sul Boggia.
Fu il garzone ad interrompere questo rimuginare.
- E a te come è andata? - Chiese all’improvviso, tirando su la candela di moccio
col naso.
- Non benissimo. E’ un uomo molto diffidente e pericoloso. Dopo un po’ che
22
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Se l’è succèss? Perchè te seet adrée a piáng?: Cosa è successo? Perché stai piangendo?
aspettavamo il presunto pollo, ha inziato ad insospettirsi. Ho fatto molta fatica
a trattenerlo un po’ di più. Voleva che gli dessi dei soldi per il disturbo, accampava scuse una dietro l’altra ed ha cercato in tutti i modi di portarmi nella sua
cantina in Stretta Bagnera. Avresti dovuto vedere i suoi occhi, sembrava indemoniato. Penso che sia lì il posto dove cercare. Nella sua malefica cantina, forse,
ci sono le prove definitive della sua colpevolezza. Visto quello che è successo
oggi, non ci rimane altro da fare che provare una sortita questa notte stessa,
ma sia ben chiaro, tu lì dentro non entrerai.
- Concluse perentorio.
- Ma come, non puoi lasciarmi fuori proprio adesso! Voglio venire con te ed
arrivare fino in fondo - Protestò con la voce ancora incrinata dall’emozione.
- No, Carlett, tu hai già fatto anche troppo ed hai corso rischi enormi. Ho sbagliato a proporti un’impresa così folle come quella di oggi. Ci è andata bene
per un pelo, ma non possiamo chiedere di più al destino. Al punto in cui siamo
possiamo solo sperare di trovare quello che cerchiamo questa notte e domani
andare a fare la denuncia. Non penso affatto che uno come il Boggia se ne
starà buono e fermo ad aspettare che due come noi lo smascherino. Lo capisci,
vero? - Il Pin fissò i suoi occhi in quelli di Carlo. In quello sguardo c’era tutto ciò
che mille parole non avrebbero potuto spiegare. Pentimento, paura, affetto,
ammirazione, ammonimento. Con il viso tirato tanto che il mento sembrava
arrivargli all’ombelico aggiunse:
- Senti, facciamo così. Ci troviamo al Carrobbio più tardi, allo scoccare delle
undici. Andremo in Stretta Bagnera, io scenderò in cantina e tu farai la guardia.
E che Dio ce la mandi buona. Con riluttanza Carlo accettò.
- Va bene, Pin, come vuoi. In realtà, però, era assai sollevato dall’idea di non dover scendere con lui. Gli
era bastato l’orrore che aveva vissuto nel pomeriggio, quando aveva dovuto
affondare le mani tra i vestiti della signora Perrocchio, esperienza che non giudicava poi molto dissimile dal trovar cadaveri veri.
- Adesso va’ a bottega, che ci sarà l’Ambrogio disperato e furibondo. Poi, domani, gli verrò a parlare io, ma tu, per adesso non dire niente, mi raccomando. Il giovane si era dimenticato completamente di quello che lo attendeva da lì a
poco ed il sentirselo ricordare fu per lui un altro fulmine a ciel sereno di quella
tremenda giornata.
Le previsioni dell’ex militare furono non solo azzeccate, ma addirittura troppo
ottimistiche. Il formaggiàtt era letteralmente fuori di sé; minacciò Carlo di lasciarlo senza lavoro, gli disse che avrebbe parlato con suo padre l’indomani e
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quell de la mascherpa
raggiunse il culmine dell’esasperazione quando il Carlo dovette raccontargli
di aver perso la cesta.
- Ti tratterrò i soldi dalla paga, malnato che non sei altro. - Sbraitò con furore, il
viso paonazzo come se stesse per avere un attacco cardiaco.
- Sciagurato, invece di aiutare i tuoi poveri genitori, li uccidi di dispiacere e
vergogna! Adesso fila a casa, che per oggi non ti voglio più vedere. La mortificazione di Carlo non aveva mai raggiunto livelli così alti da quando,
qualche anno prima, il parroco Don Angelo lo aveva allontanato dall’altare durante una funzione perché continuava a ridere col suo amico Matteo, umiliandolo davanti a tutta l’assemblea dei fedeli.
Rincasò mesto, senza però dire nulla a suo padre.
Finito di cenare si ritirò a letto. Rimase vestito, sdraiato a fissare il soffitto mentre in preda ad una profonda depressione ripensava alla sua situazione. Era
veramente indeciso su chi, tra il Boggia e suo padre, l’avrebbe ammazzato per
primo, non avendo alcun dubbio sul fatto che quella sarebbe stata certamente la sua fine di lì a pochi giorni, se non addirittura a poche ore. Aveva ormai
perso ogni eccitazione per l’indagine che stavano conducendo, né aveva più
tanta fretta d’entrare nel corpo dei Carabinieri. Non aveva nemmeno voglia di
presentarsi all’appuntamento col Pin, ma non avrebbe mai avuto il coraggio
d’abbandonarlo in una questione tanto pericolosa.
Attese pazientemente fino a quando sentì i rintocchi cupi che segnavano le
dieci e trenta della sera. Rimase immobile sul letto ancora un poco e poi, piano
piano, s’alzò ed uscì facendo bene attenzione a non far alcun rumore.
Quando richiuse il pesante portone di legno alle sue spalle si trovò immerso
in una fitta nebbia. Avvertì un gelo inconsueto, fatto d’immobilità e di morte.
L’intera città gli sembrava congelata, cristallizzata sotto quella coltre palpabile
di freddo disperato.
La luce tremula dei lampioni a gas faticava ad avere la meglio sull’oscurità e
l’intera via Torino pareva un tetro vialetto di cimitero.
Arrivò al Carrobbio con qualche minuto di anticipo. All’eco bronzeo ed ovattato delle ventitré Pin non c’era ancora. Iniziava giusto a preoccuparsi quando
udì il suo passo strascicato preannunciarlo. Uscì dall’ombra del portone vicino
al quale si era nascosto e gli andò incontro, anche se la sua volontà lo avrebbe
voluto portare in una direzione opposta a quella delle sue gambe.
Si salutarono con un bisbiglio complice e, senza ulteriori indugi, si diressero in
Stretta Bagnera, che era lì a due passi. Un brivido angosciante scosse Carlo dalla testa ai piedi quando vide apparire la via, angusta e tetra davanti a loro. Gli
sembrava un luogo abbandonato e maledetto, in cui nessuno avrebbe potuto
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entrare senza mettere a repentaglio la sanità mentale, la propria stessa vita. Un
osceno antro abitato da un orco moderno e famelico.
Rimanendo muto come un pesce osservò l’anziano militare per capire cosa
intendesse fare. Lui si fermò ed allargò un braccio perché Carlo facesse altrettanto.
Si guardò intorno con circospezione. Poi sussurrò.
- Va bene, tu rimani qui, mettiti all’ombra, contro il muro, un po’ scostato dalla
luce del lampione. Non farti vedere da nessuno. La nebbia ti sarà d’aiuto. Se
noti qualcosa di strano fammi un fischio, ma non ti muovere per nessun motivo, a meno che tu non sia in pericolo. Se qualcosa dovesse andare storto, tu
corri a casa e racconta subito tutto a tuo padre. Per l’amor di Dio, sii prudente
- mormorò nel nero pece di quella folle notte.
Il Carlett rimase impressionato da quelle parole più che da tutto ciò che gli
era successo nella giornata. Provò una paura sincera, pura e profonda, come
l’acqua di un laghetto scuro e ghiacciato. Non disse niente. Si mise dove gli
aveva ordinato il Pin, predisponendosi all’attesa con lo stesso stato d’animo
di chi sente pronunciare l’ordine “puntat” dal comandante di un plotone di
esecuzione.
Il Pin fu risucchiato dall’oscurità e non lo vide più per minuti eterni e crudeli.
Trascinando la gamba ferita, resa ancora più rigida dall’atmosfera, il vecchio
soldato marciò lentamente passo dopo passo in quello stretto vicolo. Usò i
suoi sogni come artiglieria pesante contro il terrore.
Non sapeva di preciso come identificare la cantina del Boggia, non essendoci
mai stato. Senza l’ausilio di una torcia o di una luce qualunque, tastò palmo a
palmo i muri di entrambi i lati della via corta e stretta. Rimase sorpreso dall’assenza di porte o d’ingressi ai cortili.
Trovò solo un cancello chiuso con un catenaccio che dava sull’interno di un
condominio. Gli bastò infilare la faccia tra due delle gelate sbarre per capire
che le entrate delle cantine erano state spostate all’interno e che non vi erano
più i consueti accessi dalla strada.
Non potendo fare altro desiderò andarsene, ma qualcosa lo trattenne. Non
seppe identificarlo bene nemmeno lui.
Era una specie di sensazione che proveniva dal basso, come una presenza che
premeva da sotto terra per uscire, invocando il suo aiuto. Inizialmente pensò a
qualcuno che fosse imprigionato e cercasse di evadere.
Poi, invece, percepì con chiarezza soprannaturale quello che avvertiva. Era l’essenza della morte, così vivida e palpabile da sembrare concreta. Fu colto dal
panico. Con uno sforzo tremendo si voltò e tentò di tornare indietro, ma gli
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quell de la mascherpa
sembrò di camminare a vuoto, di non spostarsi d’un millimetro.
Trascorso un tempo imprecisato, finalmente Carlo lo vide emergere alla penombra della luce artificiale.
Ormai stremato dall’ansia e dal terrore non seppe resistere, buttandogli le
braccia al collo. Anche il Pin, visibilmente sollevato dall’essere con lui, si lasciò
trasportare in un affettuoso e prolungato abbraccio.
Entrambi avevano i connotati visibilmente segnati dalle emozioni provate durante tutto il giorno, con il colorito della pelle cinereo, terreo. Delle profonde
occhiaie contornavano occhi cupi, scavati e vitrei.
- Siamo arrivati alla fine della storia, mio giovane investigatore. - Sussurrò infine il Pin.
- Hai trovato i cadaveri? Cosa c’è nella cantina? Dì, allora, è lui l’assassino, vero?
Lo faremo condannare, nèh? - domandò speranzoso.
- No, Carlett, nulla di tutto ciò. Lo stabile è appena stato ristrutturato e senza chiave non si può entrare in cortile. Non c’è neanche un’uscita posteriore.
Niente da fare, alla cantina non mi sono avvicinato per niente - rispose, sottacendo ciò che aveva appena vissuto affacciandosi alle sbarre del cancello.
Carlo si sentì crollare il mondo addosso; percepì le gambe diventargli molli
come formaggio e credette di svenire all’istante.
Ebbe la forza di ribattere con un’angoscia senza fine:
- E adesso? Mi ucciderà, vero? Per me è finita, Pin, tanto vale che me ne vada via
da questa città subito, senza voltarmi indietro. Questa volta l’ho fatta proprio
grossa, nèh? All’anziano s’inumidirono gli occhi ed ebbe chiara la visione della tensione che
aveva fatto subire al povero Carlo. Si maledisse ancora per la sua ingorda idiozia. Poi, con calma, si schiarì la voce e con il tono più rassicurante che seppe
recitare cercò di consolarlo.
- Non aver paura, mio coraggioso amico. Ora ci rimane solo una cosa da fare.
Domattina andremo insieme dai Carabinieri, racconteremo tutto e lo faremo
finalmente arrestare, dopodiché ogni cosa sarà finita ed il merito solo ed esclusivamente tuo -.
- Ma Pin… - balbettò il ragazzo.
- Sssstt, tás adèss. Andèmm a cà toa, che te gh’hee de dormì on ciccinín23 -.
Arrivarono al portone. Carlo lo aprì con molta attenzione e fece per infilarvisi
dentro, ma fu agguantato per una spalla dal Pin.
Sssstt, tás adèss. Andèmm a cà toa, che te gh’hee de dormì on ciccinín: Silenzio, taci adesso. Andiamo a casa tua, che hai bisogno di dormire un pochino.
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- Dormi un po’ e sii tranquillo, che io starò qui fuori a vegliare su di te. Carlo non rispose. Avrebbe avuto voglia di urlargli che gli voleva bene.
La mattina seguente uscì prestissimo e trovò il militare a far la sentinella, come
promesso. La sua resistenza al freddo ed alla stanchezza era stata stoica.
S’incamminarono di buona lena verso il Comando dei Carabinieri, fendendo
l’aria pungente del mattino, mentre ripassavano insieme la versione dei fatti
più convincente possibile per esporre la loro denuncia nei confronti del Boggia.
A Carlo, dopo qualche ora di sonno profondo e senza sogni, era tornato un po’
di ottimismo; si sentiva vicino alla consacrazione nel mondo dei grandi e dei
valorosi.
Stavano quasi per entrare dalla porta piantonata da due statuari uomini in
uniforme nera, quando udirono un frastuono di cavalli e carri che arrivavano in
gran carriera. Si voltarono di scatto e ciò che videro li lasciò a bocca aperta.
C’erano due Carabinieri al galoppo, con la sciabola sguainata, che aprivano la
strada. Dietro di loro veniva un calesse chiuso, trainato da due destrieri candidi
come la neve. Il corteo era poi chiuso da altri quattro soldati che urlavano secchi ordini, anche loro con le spade in mano. Fecero appena in tempo a vedere
dentro la carrozza, legato e sorvegliato da due gendarmi, il Boggia.
- L’hanno già arrestato! - urlò Carlo euforico e sollevato.
Solo qualche istante dopo, guardando la faccia sconsolata e stanca del Pin,
capì che questo sanciva il fallimento del loro tentativo. Ormai la loro denuncia
sarebbe stata inutile.
Il Carlett provò quella strana sensazione che non avrebbe più dimenticato
per tutta la vita. Si sentiva esterrefatto, ma al tempo stesso incredibilmente
stupido: come aveva fatto a sperare veramente in un’impresa così campata
per aria? Come aveva potuto illudersi di migliorare la propria posizione in un
modo tanto strampalato?
Trovò solo il fiato sufficiente per sibilare al Pin:
- Forse… Se fossimo andati a denunciarlo subito… Successivamente, tramite le conoscenze del Pin, seppero che il figlio della Perrocchio era stato nuovamente sentito dal giudice Crivelli, che aveva aperto
un’inchiesta approfondita sul Boggia.
Estendendo il campo d’indagine, erano emerse tutte le nefandezze commesse
da Antonio Boggia, responsabile di ben quattro omicidi, della signora Perrocchio, del ferramenta Meazza, del commerciante Marchesotti e di un tale sig.
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Ribbone, che né Carlo né Pin avevano mai sentito nominare.
Appresero i particolari più piccanti da un articolo pubblicato sul quotidiano
“La Gazzetta del Popolo Lombardo”24, che confermò la bontà delle intuizioni
del Pin:
“Milano: orrore e mistero in Stretta Bagnera.
In seguito ad approfondite indagini coordinate dal giudice Crivelli, ieri all’alba le
giovani ed eroiche reclute del Corpo dei Carabinieri hanno effettuato un’irruzione
nell’angusto vicolo che collega via Torino con via Santa Marta. Scopo dell’operazione è stata la perquisizione dello scantinato di proprietà di Antonio Boggia, al
momento unico indagato per pluriomicidio. […] Sotto un’apparenza di normalità,
eseguiti pochi scavi, lo scenario che si è presentato agli inquirenti è stato quanto
mai raccappricciante. Sono stati rinvenuti i corpi parzialmente mutilati e putrefatti di tre vittime, tutte morte per un violento colpo inferto con un’ascia, che ha
aperto loro il cranio in due parti. Ad almeno due degli assassinati sono state amputate le braccia, mentre una testa è stata trovata completamente spiccata dal
collo. Uno scempio d’inaudita violenza che ha lasciato sgomenti i militari, alcuni
dei quali sono stati colti da malore. Il fatto, però, che fossero solo cadaveri di sesso
maschile, ha lasciato aperto l’inquietante interrogativo: che fine ha fatto la signora Perrocchio, per trovare la quale l’inchiesta è stata avviata? […] Ciò ha indotto
i militari a cercare nel condominio di via Santa Marta 10, dove è stato tratto agli
arresti Antonio Boggia. […] Notando una fresca muratura nel sottoscala, è stata
aperta una breccia che ha disvelato una nicchia nascosta. All’interno se possibile
un orrore ancora maggiore di quello della cantina. Avvolto in un misero telo di
ruvida canapa v’era il corpo smembrato di un’anziana signora, che gli inquirenti,
pur in assenza di conferme, ritengono essere senza dubbio quello della povera signora Perrocchio, benemerita cittadina milanese, che tutto il vicinato conosceva e
stimava. […] Il cadavere, completamente svestito, è stato tagliato a pezzi per consentire al folle omicida una più agevole sepoltura. Anche in questo caso la testa
decapitata, macabramente rotolata fuori dal pietoso involucro, è stata spaccata
in due con un’ascia. […] Ci domandiamo quale pazzia satanica abbia potuto guidare una mano così feroce e spietata”.
Durante il processo nessuno abboccò alla strategia di fingersi malato di mente messa in scena dal Boggia per evitare la pena capitale. Trascorsi due anni
Quotidiano milanese diretto da Emilio Treves. Il nuovo corso politico seguito alla liberazione dagli Austriaci, consentì una certa maggior libertà al giornalismo che si apprestava a diventare moderno. Il Treves ne approfittò arricchendo la sua testata con articoli
di satira e di cronaca. Quello qui riportato è di fantasia.
da quei drammatici eventi, il 6 aprile 1862, fu impiccato davanti ad una folla
inferocita, alla presenza, purtroppo, anche di un nutrito gruppo di ragazzini
sbeffeggianti.
A quell’epoca Carlo era ormai stato assunto come banconiere nel negozio divenuto famoso dell’Ambrogio, mentre l’incarico di garzone era svolto dal più
piccolo dei suoi fratelli maschi, il Mariét.
La prima volta che ne combinò una, l’Ambrogio, pieno di emozione, sentì il
Carlo dire a suo fratello:
- T’el disi mì, on dì o l’álter tì te restaree ’me quell de la maschèrpa.25 -
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T’el disi mì, on dì o l’álter tì te restaree ’me quell de la maschèrpa: te lo dico io, un giorno
o l’altro tu resterai come quello della mascherpa.
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biografie degli autori
MARILOU CERIA
(Di viole e d’ombre)
Nata ad Aosta e cresciuta a Courmayeur fino all’adolescenza, negli
anni del liceo e dell’università ha vissuto a Milano presso la famiglia materna.
Saldamente attaccata ai valori della famiglia, ha profuso nella propria
grandi energie, occupandosi in prima
persona dell’educazione dei suoi due
figli. Per oltre una dozzina d’anni si è
dedicata all’insegnamento della lingua italiana per stranieri, esperienza
che le ha permesso di arricchirsi sul
piano umano, e di avvicinare e conoscere culture diverse per stile e tradizione.
Sempre spinta dalla curiosità della
conoscenza per la conoscenza, oltre
alla lettura, ha coltivato, negli anni,
svariati interessi: dal cinema, al teatro,
alla musica. Tuttora dedica tempo allo
studio del pianoforte, e alla cucina all’arte dell’Ikebana, dalla grafologia
alla cartapesta. E’anche appassionata
di vela, di viaggi e di fotografia.
Da molti anni risiede stabilmente a
Milano.
ENRICO TORESANI
(Quell de la Mascherpa)
È nato a Milano, dove ha compiuto gli
studi e dove tutt’ora vive e lavora.
Ama leggere qualunque cosa, dai
classici ai contemporanei, con una
certa predilezione per i generi giallo,
noir ed horror, da Stephen King a Sir
Arthur Conan Doyle. George Simenon è tra i suoi autori preferiti.
Ha trascorso più di metà della sua vita
su libri di lettere e di diritto.
Per uno strano scherzo del destino è
finito a lavorare in una banca.
In Fabio Fox Gariani e nei suoi compagni del Corso di Scrittura Creativa
e del successivo Workshop della Società di Umanitaria ha trovato una
degna combriccola di complici per
organizzare la perfetta evasione dal
mondo dei numeri.
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