Percorso di Educazione interculturale ESSERE GIOVANI NELLA
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Percorso di Educazione interculturale ESSERE GIOVANI NELLA
A.S. 2003/2004 LICEO SCIENTIFICO “G. MARINELLI” Via Leonardo Da Vinci 4 33100 UDINE Percorso di Educazione interculturale ESSERE GIOVANI NELLA SOCIETÀ GLOBALE Un viaggio tra identità e alterità Progetto e realizzazione a cura di S. Carnevali, P. Di Felice, E. Galletti, A. Martinazzi, M. Moles, A. Rossi, E. Santoro, A. Scuor, G. Toffoli, C. Zamparo. Grafica di copertina a cura di Massimo di Majo. Testi ad esclusivo uso interno e didattico. Proprietà Liceo “Marinelli” Udine Percorso di Educazione interculturale ESSERE GIOVANI NELLA SOCIETà GLOBALE Un viaggio tra identità e alterità OBIETTIVI EDUCARE CITTADINI RESPONSABILI IN UNA SOCIETÀ INTERCULTURALE 1. Scoperta della propria identità personale e sociale (io XY- giovane - in Italia / Nord del mondo). 2. Essere consapevole dei propri punti di vista, del proprio stile di vita e della loro relatività. 3. Cogliere quanto accomuna i giovani di diverse culture. DESTINATARI Classi prime e seconde, con una possibilità di proseguimento dell’esperienza nel triennio. REALIZZAZIONE CLASSE PRIMA CHE COSA: “autoconoscenza” di sé (I quadrimestre; collegamento con “Accoglienza”) approccio alla realtà giovanile in paesi del Sud e al tema dell’ “identità flessibile” (II quadrimestre) COME: attraverso testi narrativi; lettura, riflessioni in classe, scrittura autobiografica, ecc. CLASSE SECONDA Ogni classe avrà una classe partner; docenti e studenti si accordano per approfondire uno o più temi di vita quotidiana e su questi realizzano uno scambio epistolare (possibilmente via e-mail) CLASSI SUCCESSIVE: se ci sono le condizioni, scambio con mobilità, con modalità da definire. AMBITI CURRICOLARI “COPERTI” Approccio al testo narrativo; scrittura (autobiografia, descrizione, narrazione, esposizione); capacità di esposizione orale. LAVORO DA PARTE DEI DOCENTI FATTO: materiale per la classe prima (fascicoli con letture per la classe prima e relativi esercizi; altro materiale utile) NB le letture del secondo fascicolo sono relative a realtà africane o del vicino Oriente. DA FARE: accordi con i docenti della scuola partner e strutturazione del lavoro per le classi seconde. SUPPORTI Cicsene, ONG di Torino, che ha realizzato vari scambi epistolari e “fisici” con scuole del Sud e dell’Est: sia per trovare i partner che per reperire finanziamenti per eventuale mobilità; Altri possibili supporti: associazioni di emigranti presenti sul territorio udinese; Intercultura. A.S. 2003/2004 LICEO SCIENTIFICO “G. MARINELLI” ELENCO E UTILIZZO TESTI NARRATIVI per “ESSERE GIOVANI NELLA SOCIETÀ GLOBALE” GUIDA PER IL DOCENTE (elaborata nel corso dell’anno scolastico 2002/ 2003 e rivista nella riunione dell’8 settembre 2003) Tutti i testi verranno utilizzati per stimolare la riflessione degli allievi sulla loro esperienza di adolescenti; questa riflessione troverà un approfondimento negli esercizi di scrittura (da svolgersi a casa). Per questo motivo la lettura dei brani non va appesantita con annotazioni specifiche relative all’analisi narrativa, salvo i casi in cui questo risulti indispensabile alla comprensione del testo; anche eventuali esercizi di questo tipo sono stati proposti solo se effettivamente necessari, mentre quelli di scrittura sono tutti relativi alla produzione di testi autobiografici o comunque espressivi. Ciò non toglie che in un secondo momento, nel corso delle ore dedicate all’insegnamento delle caratteristiche delle tipologie testuali, l’insegnante possa far riferimento anche a questi brani. Per quanto riguarda la riflessione in classe sono fornite indicazioni di tipo generale; in itinere, in base alle esperienze con gli allievi, le docenti delle classi coinvolte decideranno se e come rendere queste indicazioni più specifiche. TEMA: i ricordi dell’infanzia TESTI Le pagine iniziali delle autobiografie di S. de Bouvoir, Levi Montalcini e Canetti; alcune pagine da “Profumo”di Suskind e le pagine sul “sapore della madeleine” di Proust (“Dalla parte di Swann”). RIFLESSIONE Invitare i ragazzi a riflettere sui propri ricordi; fare anche emergere dalla riflessione in classe il diverso approccio con cui gli autori letti scrivono un testo sui propri ricordi SCRITTURA. Consegna per la scrittura di un brano: “Scrivi l’inizio della tua autobiografia (Titolo: Ripercorro la mia infanzia, i miei primi ricordi), partendo da uno dei seguenti approcci: le foto mie o dei miei cari; quello che vedevo da una finestra di casa; gli spazi della mia infanzia; paure e fantasie; la lingua che sentivo parlare; i suoni che mi circondavano; gli odori; i sapori. Lunghezza: da un minimo di circa 2 colonne di foglio protocollo a un massimo di 3 colonne. (N.B. se i ragazzi chiedono di usare più approcci contemporaneamente, vietarlo espressamente, per evitare banalità. Suggerire, se lo desiderano, si esplorare una seconda possibilità, ma solo dopo aver portato a compimento la prima.) TEMPI: 2 h per lettura brani, 2 h per lettura testi allievi. TEMA: l’adolescenza, la consapevolezza del cambiamento TESTI F. Dolto, “Il dramma del gambero”; S. De Bouvoir, “Diventai brutta…” e A. Moravia, “Inquietudini”. COMPRENSIONE (per il solo testo della Dolto) Verificare l 'efficacia della pre-lettura. L'operazione di pre-lettura che hai compiuto ti è stata utile per mettere meglio a fuoco le informazioni principali del testo? Verifica la correttezza delle anticipazioni che hai fatto in fase di orientamento. Interpretare le evidenziazioni tipografiche. Nel testo compaiono alcune parole scritte a lettere maiuscole. Individuale e motiva le ragioni di questa scelta tipografica Porsi domande. Cerca nel testo la risposta alle seguenti domande, poi trascrivile sul tuo quaderno. In che senso l'autrice definisce l'adolescenza «come una SECONDA NASCITA»? In che cosa consiste l'analogia tra l'adolescente e il gambero? E che cosa usa allora l'adolescente come «guscio provvisorio»? Come viene interpretata dall'autrice l'abitudine degli adolescenti di vestirsi di nero? RIFLESSIONE Invitare i ragazzi a riflettere sui propri cambiamenti fisici e interiori (instabilità emotiva) SCRITTURA Scrivere di sé Ti sei riconosciuto in queste letture? Ti sembra che gli autori stiano parlando un po' anche di te? Tu come vivi l'adolescenza? È davvero un periodo così difficile? Scrivi di getto le emozioni che hai provato e i pensieri che ti hanno attraversato leggendo questo testo, come se stessi scrivendo una pagina del tuo diario. Sentirsi belli, sentirsi brutti “ Sentirsi belli” è un'espressione che la Dolto usa nel suo testo. Tu come ti senti? Concentrati intensamente su ciò che provi, cercando di cogliere ogni sfumatura e lasciando fluire liberamente tutto ciò che ti passa per la mente. Descrivi questa esperienza utilizzando la forma del monologo interiore, ossia registrando pensieri, sensazioni, sentimenti come ti vengono in mente. Scrivere uno slogan Scegli la frase all'interno dei testi che ti ha maggiormente colpito. Trasformala in uno slogan che saresti pronto a urlare al mondo. TEMPI: 2 h per lettura brani, 2 h per lettura testi allievi. TEMA: il conflitto con la famiglia I testi che seguono si legano strettamente a quelli precedenti, poiché il conflitto con la famiglia è intrecciato con l’analisi dei sentimenti nuovi e dolorosi che agitano l’adolescente. TESTI I brani del punto precedente; inoltre: di Brizzi “Quella pseudoprimaverile domenica pomeriggio”da “Jack Frusciante”; di D. Lessing “Martha Quest”. RIFLESSIONE Per facilitare la riflessione si propone un confronto tra i diversi brani, utilizzando la (disponibile su foglio A 4 per fotocopie) come come vede la come vede il come vede l’adolescente madre padre l’ambiente in vede se stesso/a cui vive tabella che segue qual è il rapporto col mondo degli adulti de Bouvoir Brizzi Lessing Moravia SCRITTURA. Consegna per la stesura di un testo: “Ripensando a tutti i brani proposti fin qui, ti riconosci negli adolescenti di cui hai letto disagi e conflitti? Oppure ti senti lontano dalle loro contraddizioni? Scrivi in forma autobiografica la tua esperienza in proposito, cercando di esprimere con chiarezza i tuoi sentimenti e atteggiamenti nei confronti della famiglia. Scegli il registro linguistico che meglio ritieni possa rendere i tuoi pensieri.” Lunghezza: da un minimo di circa 2 colonne di foglio protocollo a un massimo di 3 colonne. TEMPI: 2 h per lettura brani, 2 h per lettura testi allievi. Qualora si volesse utilizzare il brano di Brizzi in un secondo tempo per una ANALISI DELLE CARATTERISTICHE NARRATIVE si possono utilizzare alcuni degli esercizi che seguono il brano sull’antologia da cui è stato tratto (vedi fotocopia in allegato), in particolare si può fare un’analisi del linguaggio usato, del personaggio (Alex), della scena come forma della durata come l’adolescente vede se stesso/a de Bouvoir Brizzi Lessing Moravia come l’adolescente vede la madre come l’adolescente vede il padre come l’adolescente vede l’ambiente in cui vive qual è il rapporto dell’adolescente col mondo degli adulti TEMA: la scuola TESTI L’incipit de “Il giovane Holden” di Salinger, alcune pagine da “Infatti purtroppo. Diario di un quindicenne perplesso” di Nicola X; “Come si divertivano” di Asimov. RIFLESSIONE Invitare i ragazzi a riflettere su quanto di positivo, sul piano dei rapporti umani, può offrire l’esperienza scolastica, a partire dal brano di Asimov. A partire invece dal brano di Nicola X, si può iniziare una riflessione ( anche con brain storming o tempo del cerchio) su disagi e critiche dei ragazzi nei confronti della loro esperienza scolastica. SCRITTURA Consegna per la stesura di un testo: “Scrivi un testo in cui narri una tua esperienza scolastica utilizzando la tecnica narrativa di Salinger, ossia alternando la narrazione alla riflessione, usando espressioni gergali proprie dell’ambiente giovanile da te frequentato e un registro linguistico informale. Se vuoi dai all’esposizione un ordine analogico invece che cronologico.” Lunghezza: da un minimo di circa 2 colonne di foglio protocollo a un massimo di 3 colonne. TEMPI.: 2 h per lettura brani, 1 h per lettura testi allievi. Se fosse opportuno un approfondimento e una sintesi delle riflessioni, tramite brain storming o tempo del cerchio o altro, prevedere ancora 1 ora. Qualora si volesse utilizzare il brano di Salinger in un secondo tempo per una ANALISI DELLE CARATTERISTICHE NARRATIVE si potranno fare osservazioni sull’uso del flash back, delle associazioni analogiche e sul linguaggio (collegarsi con il brano di Brizzi). TEMA: l’amicizia TESTI K. Gibran, il passo sul tema da “Il profeta”; da “Il piccolo principe”, le pagine sull’incontro con la volpe, e da “L’amico ritrovato” le pagine sulla nascita dell’amicizia tra Hans e Konradin. . RIFLESSIONE Stimolare i ragazzi a condividere, se lo desiderano, esperienze ed emozioni sull’amicizia; un punto di partenza può consistere nel far notare come il narratore nel brano di Uhlman accenni più volte alla sua timidezza, alla mutevolezza del suo umore e ad altre caratteristiche tipicamente adolescenziali, chiedere quindi se l’amicizia può svolgere una funzione riequilibratrice nella vita di un/una ragazzo/a. SCRITTURA Consegna per la stesura di un testo: “Parla di una tua amicizia o di che cosa rappresenta l’amicizia per te.” Lunghezza: da un minimo di circa 2 colonne di foglio protocollo a un massimo di 3 colonne. TEMPI 2 h per la lettura dei brani, 2 h per la lettura dei testi scritti dagli allievi. OSSERVAZIONI DOPO LA PRIMA SPERIMENTAZIONE: TEMA: i ricordi dell’infanzia Fondamentale risulta la possibilità di non interrompere il dialogo iniziato dopo una lettura, perciò è bene collocare il lavoro in ore che siano seguite da una seconda sempre della stessa insegnante, così che, se necessario, si possa “sforare” di un poco. Poiché la lettura dei brani e la successiva condivisione dei ragazzi si protraggono oltre le due ore programmate, l’insegnate potrebbe scegliere di dividere l’esercizio di scrittura, ossia di assegnare diversi inizi di autobiografia o il racconto di un episodio infantile a partire da ciascuno degli stimoli suggeriti dai brani (la foto, la finestra, ecc.). Altri possibili esercizi: - riassunto - lavoro sul lessico: far sottolineare i termini sconosciuti e farli ricercare a casa sul dizionario, annotandoli sul quaderno. Davanti al titolo “Scrivi l’inizio della tua autobiografia” i ragazzi chiedono: “E il seguito?”; si può proporre di scrivere due episodi: uno relativo alla primissima infanzia (fino ai tre anni), uno relativo agli anni successivi. In alcune classi i ragazzi non desiderano leggere pubblicamente i loro scritti, in quanto molto personali, ma desiderano che l’insegnante li legga. Naturalmente la correzione va limitata all’aspetto formale. Questa richiesta aggrava il lavoro dell’insegnate, ma “libera” ore per il lavoro di lettura e confronto in classe. Sulla base delle letture e dei confronti, sono state svolte le prime verifiche di Italiano; questi i titoli assegnati: Compito “A” Dopo aver scelto una delle seguenti tracce, produci un testo narrativo-espressivo. Ricordati di indicare l’idea centrale e le idee secondarie, esprimendole con uno schema. 1. Racconta di un fatto accaduto nella tua infanzia che si è poi rivelato molto importante per la tua crescita e formazione. 2. Ci sono luoghi e persone della prima giovinezza che rappresentano ancora oggi il nostro riferimento. Racconta e descrivi secondo le modalità apprese dai testi. 3. L’adolescenza, con le sue difficoltà, è spesso più bella nei ricordi degli adulti che nel presente dei ragazzi. 4. Ripensando ai testi letti in classe, ti ritrovi nelle difficoltà e contraddizioni di quei personaggi? Racconta le tue impressioni di persona in crescita. Compito “B” Scrivi l’incipit della tua biografia seguendo queste indicazioni: • risali al primo ricordo della tua infanzia attraverso una percezione sensoriale molto forte (scegli a piacere tra visto, tatto, udito, olfatto e gusto); • narra i fatti ad esso collegati inserendo una breve descrizione o di un luogo o di una persona o di un animale o di un oggetto; • esprimi nel contesto il valore che ha per te questo ricordo. VERIFICA FINALE ORALE O SCRITTA Scegli il testo per te più significativo; indica dettagliatamente i motivi della tua scelta e traccia i rapporti tra questo e gli altri testi letti. OSSERVAZIONE RELATIVA A TUTTO IL FASCICOLO Se, per il protrarsi del tempo dedicato alle letture, si desidera utilizzarle anche con un lavoro di analisi testuale, è importante limitarsi alle osservazioni essenziali, a quelle caratteristiche che risultino chiare ed esemplari nel singolo brano e in ogni caso senza mettere questa analisi in primo piano: si tratta di mostrare la continuità tra ciò che si studia sulle tipologie testuali e queste letture, trattandosi di brani letterari, e di utilizzare dell’analisi testuale quanto possa aiutare a meglio comprendere il singolo brano. INDICE dei TESTI Simone de Beauvoir SONO NATA IL 9 GENNAIO… Rita Levi Montalcini LA CITTÀ DELL’INFANZIA Elias Canetti PRIMI RICORDI Patrick Suskind UN BAMBINO DALL’OLFATTO PRODIGIOSO Marcel Proust IL SAPORE DELLA MADELEINE Françoise Dolto L’ETA’ DEL CAMBIAMENTO Simone de Beauvoir DIVENTAI BRUTTA… Alberto Moravia INQUIETUDINI Enrico Brizzi QUELLA PSEUDOPRIMAVERILE DOMENICA POMERIGGIO Doris Lessing MARTHA QUEST Isaac Asimov CHISSÀ COME SI DIVERTIVANO Jerome D. Salinger IL GIOVANE HOLDEN Nicola X INFATTI PURTROPPO: DIARIO DI UN QUINDICENNE PERPLESSO Fred Uhlman NASCITA DI UN’AMICIZIA Antoine de Saint- Exupéry IL PICCOLO PRINCIPE E LA VOLPE K. Gibran L’AMICIZIA Simone de Beauvoir SONO NATA IL 9 GENNAIO… Simone de Beauvoir (1908-1990), scrittrice d francese, partecipò attivamente con le sue opere e la sua militanza personale alla lotta per i diritti della donna e dell'emancipazione femminile. Il saggio scritto nel 1949, Il secondo sesso, ha segnato generazioni di donne e ha avuto il merito di suscitare una riflessione critica contro i pregiudizi sull'impegno femminile nel mondo del lavoro e sociale. Con Memorie di una ragazza per bene (1958) la scrittrice cominciò una sorta di lunga autobiografia in più libri, destinati a scandire le tappe della sua vita (altri volumi sono L'età forte; La forza delle cose; A conti fatti, tutti editi in Italia da Einaudi). Compagna di vita e di pensiero del filosofo francese Jean-Paul Sartre, ha pubblicato una testimonianza sulla sua vita e sul sodalizio intellettuale con il filosofo: La cerimonia degli addii (tradotto in Italia da Einaudi). In altri racconti e romanzi, la de Beauvoir ha saputo cogliere con sensibilità tutta femminile episodi critici e delicati nella vita di una donna, come nel breve romanzo Una morte dolcissima (1964, pubblicato da Einaudi), incentrato sul rapporto madre-figlia. Memorie di una ragazza per bene (Einaudi), di cui riportiamo l’incipit, è l'autobiografia della scrittrice fino all'età di vent'anni: la vicenda di un'infanzia, di un'adolescenza e di una prima giovinezza raccontate con rara penetrazione psicologica e, insieme, la storia avvincente una formazione intellettuale e morale. Appena uscita dalla fanciullezza, Simone comincia a sentire i primi dubbi, comincia a intravedere un mondo assai diverso da quello ovattato della sua infanzia, pieno di pregiudizi, di avidità, di ipocrisie, di egoismi che cambiano assai presto la sua concezione del Vero e del Bene. Comincia anche a sentire una barriera che si frappone tra lei e il mondo degli adulti. Simone, che sta diventando adulta, che sta uscendo psicologicamente e fisicamente dal mondo dell'infanzia, a disagio per i cambiamenti del suo corpo, si accorge di non essere completamente preparata a vivere come adulta. Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail. Nelle foto di famiglia fatte l'estate successiva si vedono alcune giovani signore con lunghe gonne e cappelli impennacchiati di piume di struzzo, e dei signori in panama, che sorridono a un neonato: sono io. Mio padre aveva trent’anni, mia madre ventuno, e io ero la loro primogenita. Volto una pagina dell'album; la mamma tiene in braccio un neonato che non sono io; io porto una gonna pieghettata e un berretto, ho due anni e mezzo, e mia sorella è appena nata. A quanto pare, io ne fui gelosa, ma per poco. Per quanto lontano riesco a spingere la memoria, ero fiera d'essere la più grande: la primogenita. Mascherata da Cappuccetto rosso, con la focaccia e il burro nel panierino, mi sentivo più interessante d'una lattante chiusa nella sua culla. lo avevo una sorellina, ma lei non aveva me. Dei miei primi anni non ritrovo che un'impressione confusa: qualcosa di rosso, e di nero, e di caldo. L'appartamento era rosso, rossa la moquette, la sala da pranzo Enrico Il, il broccato che mascherava le porte a vetri, e le tende di velluto nello studio di papà; i mobili di quella stanza sacra erano in pero scurito; io m'accovacciavo entro la nicchia sotto la scrivania, e mi avvoltolavo nelle tenebre, era scuro, era caldo, e il rosso della mochetta mi feriva gli occhi. È così che passai la mia primissima infanzia. Guardavo, palpavo, apprendevo il mondo, al riparo. La sicurezza quotidiana la dovetti a Louise. Era lei che mi vestiva, al mattino, mi spogliava la sera, e dormiva con me, nella stessa stanza. Giovane, senza bellezza, senza mistero, poiché ella non esisteva - o almeno così credevo -che per vegliare su mia sorella e su me, non alzava mai la voce, non mi rimproverava mai senza ragione. Il suo sguardo tranquillo mi proteggeva mentre facevo le formine con la sabbia al Lussemburgo, mentre cullavo la mia bambola Biondina, scesa dal cielo una notte di Natale con la valigia contenente il suo corredo. Verso sera, Louise si sedeva accanto a me, mi mostrava delle figure e mi raccontava delle storie. La sua presenza m'era necessaria e mi pareva naturale quanto la terra su cui posavo i piedi. Mia madre, più lontana e più capricciosa, m'ispirava sentimenti amorosi; m'installavo sulle sue ginocchia, nella profumata dolcezza delle sue braccia, coprivo di baci la sua pelle di giovane donna; a volte, la notte, appariva accanto al mio letto, bella come un'immagine, nel suo spumeggiante abito a fogliami, ornato con un fiore color malva, o nel luccicante vestito di pagliette nere. Quando era arrabbiata mi faceva gli « occhiacci »; avevo un gran timore di quel lampo burrascoso che le imbruttiva il volto; avevo bisogno del suo sorriso. Quanto a mio padre, lo vedevo poco. Usciva tutte le mattine per andare al « Palais », portando sotto il braccio una cartella piena di cose intoccabili che si chiamavano dossiers. Non aveva barba né baffi, i suoi occhi erano azzurri e allegri. Quando rientrava, la sera, portava alla mamma delle violette di Parma, si baciavano e ridevano. Papà rideva anche con me; mi faceva cantare C'è un'auto grigia... o Aveva una gamba di legno; mi sbalordiva cogliendo sulla punta del mio naso una moneta da cinque franchi. Mi divertiva, ed ero contenta quando s'occupava di me; ma nella mia vita non aveva una parte ben definita. La principale funzione di Louise e della mamma era quella di nutrirmi, compito non sempre facile. Attraverso la bocca il mondo entrava in me più intimamente che non attraverso gli occhi o le mani. Non lo accettavo in blocco. La scipitezza delle creme di grano tenero, i brodi d'avena, i pangrattati, mi strappavano le lacrime; l'untuosità dei grassi, il mistero vischioso delle conchiglie mi rivoltavano; singhiozzi, gridi, vomiti, le mie repulsioni erano così ostinate che rinunciarono a combatterle. In compenso, approfittavo con passione del privilegio dell'infanzia, per la quale la bellezza, i lusso, la felicità, sono cose che si mangiano; davanti alle confetterie di rue Vavin restavo pietrificata, affascinata dallo splendore della frutta candita, dal cangiante dei marzapani, dalla screziata fioritura dei bonbons; verde, rosso, arancione, viola: agognavo i colori non meno dei piaceri che promettevano. Avevo spesso l'occasione di tramutare l'ammirazione in godimento. La mamma pestava delle mandorle tostate in un mortaio, mescolava quella poltiglia granulosa con crema gialla; il rosa dei bonbons digradava in sfumature squisite: affondavo il mio cucchiaio in un tramonto. Le sere in cui i miei genitori ricevevano, gli specchi del salotto moltiplicavano i fuochi d'un lampadario di cristallo. La mamma sedeva al piano a coda, una signora vestita di tulle suonava il violino, e un cugino il violoncello. Io facevo crocchiare tra i denti il guscio d'un finto frutto, una palla di luce scoppiava contro il mio palato con un sapore di ratafià o d'ananas: possedevo tutti i colori e tutte le fiamme, le sciarpe di velo, i brillanti, i merletti, possedevo tutta la festa. I paradisi dove scorrono il latte e il miele non m'hanno mai attirato, ma invidiavo alla Fata Tartina la sua camera da letto in marzapane: se quest'universo che abitiamo fosse tutto commestibile, che presa avremmo su di esso! Adulta, avrei voluto pascolare nei mandorli in fiore, mordere nelle mandorle tostate del tramonto. Contro il cielo di New York, le insegne al neon mi parvero giganteschi dolciumi, suscitandomi un senso di frustrazione. Mangiare non era soltanto un'esplorazione e una conquista, ma il più serio dei miei doveri. -Un cucchiaio per la mamma, uno per la nonna... Se non mangi non diventerai mai grande -. .Mi facevano metter:e con le spalle al muro dell'ingresso, tracciavano un segno all'altezza della mia testa, che veniva confrontato con un segno precedente: ero cresciuta di due o tre centimetri, si congratulavano con me, e io mi davo delle arie; a volte, tuttavia, mi spaventavo. Il sole accarezzava il parquet lucido e i mobili laccati in bianco. Guardavo la poltrona della mamma e pensavo: « Non potrò più sedermi sulle sue ginocchia ». D'improvviso, l'avvenire esisteva; mi avrebbe cambiata in un'altra che avrebbe detto io e non sarebbe più stata me. Ho presentito tutti i divezzamenti, i rinnegamenti, gli abbandoni e la successione delle mie morti. -Un cucchiaio per il nonno... - Mangiavo, tuttavia, ed ero fiera di diventar grande; non m'auguravo di restare per sempre una bambinetta. Devo aver vissuto questo conflitto davvero intensamente, per ricordarmi cosi bene, anche nei particolari, l'album in cui Louise mi leggeva la storia di Carlotta. Una mattina Carlotta trovava su una sedia accanto al suo letto un uovo di zucchero rosa, grande quasi come lei: anch'io ne ero affascinata. Era un ventre, una culla, eppure lo si poteva sgranocchiare. Rifiutando ogni altro cibo, Carlotta diventava di giorno in giorno sempre più piccola, piccolissima: per poco non annegava in una pentola, la cuoca la gettava per disattenzione nella pattumiera, un topo se la portava via. Veniva salvata: terrorizzata, pentita, Carlotta si rimpinzava con tanta avidità che si gonfiava come una vescica: la madre la portava da un medico, un pallone mostruoso. Contemplavo con saggia appetenza la dieta prescritta dal dottore, che le immagini illustravano: una tazza di cioccolato, un uovo alla" coque, una cotoletta dorata. Carlotta riacquistava le sue dimensioni normali, e io emergevo sana e salva dall'avventura che prima m'aveva ridotta a un feto e poi tramutata in una matrona. (S. de Beauyoir, Memorie di una ragazza perbene, trad. di B. Fauri, Einaudi, Torino 1960) Rita Levi Montalcini LA CITTÀ DELL’INFANZIA Rita Levi Montalcini è nata a Torino il 22 aprile 1909. Di professione biologa, nel 1986 ricevette il premio Nobel per la medicina e la fisiologia per le ricerche sui meccanismi che regolano la crescita delle cellule, in particolare quelle nervose; le righe che seguono sono quelle iniziali della sua autobiografia. Ai miei occhi infantili, la città monarchica e fluviale non appariva affascinante come allo sguardo d'artista di De Chirico. Dalle nostre finestre, al quarto piano di un caseggiato che fronteggiava gli alberi di un grande viale, contemplavo nei lunghi inverni i platani carichi di neve e, al di là degli alberi nella vicina piazza, Vittorio Emanuele II, “tutto in bronzo, coperto di nastri, di cordoni e di decorazioni”. La sua gigantesca figura, che a differenza di quella degli altri eroi nazionali poggiava su un piedistallo più alto dei palazzi ottocenteschi disposti in cerchio intorno al monumento, si stagliava contro il grigio cielo invernale, con l'imponenza che si conveniva al re e fondatore dell'unità nazionale. La soddisfazione per la missione compiuta traspariva dall' espressione altera e corrucciata del suo sguardo e più ancora dagli immensi baffi che decoravano il labbro superiore. La loro prominenza, evidente anche nei dagherrotipi del tempo, era stata volutamente messa in rilievo dallo scultore, a simbolo della sua virilità. Ma non era necessario accentuare in modo quasi caricaturale quei baffi per ricordare ai sudditi gli attributi mascolini del loro primo re. Essi erano anche troppo noti, almeno ai torinesi della fine del secolo scorso, che si compiacevano non tanto delle sue imprese guerresche quanto delle sue famose partite di caccia, occasioni di grandi bevute e delle libertà che si prendeva con le belle ragazze del luogo. Una di loro, la bella Rosina, era diventata leggendaria a Torino e se ne parlava ancora ai tempi della mia infanzia, ricordando come avesse fatto invaghire di sé il re e spodestato con un matrimonio morganatico la vera regina. Questo aspetto pittoresco della vita di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia per grazia di Dio e volontà della nazione, era in contrasto con la rigida tradizione di casa Savoia e con le tendenze ascetiche del suo immediato predecessore Carlo Alberto, re del Piemonte e della Sardegna. Le sue ben note scappatelle avevano dato origine alla diceria che era stato scambiato a balia con il figlio della sguattera, diceria che rifletteva le convinzioni dei torinesi perbene alla fine del secolo scorso, secondo i quali sguatteri o re si nasce e non si diventa. Tuttavia Vittorio Emanuele II, re era certamente diventato dopo la morte, come dimostravano l'espressione altera, i baffi, la figura impettita e tutti quei cordoni, medaglie e decorazioni. Quei famosi baffi che contemplavo dalla finestra erano di tali dimensioni, come affermava la mamma, che ognuno di loro avrebbe potuto servire da poltrona a un uomo adulto. M'impressionavano anche perché erano simili a quelli di mio padre, benché i suoi fossero definiti “ baffi alla Umberto” e cioè dello stesso taglio di quelli del figlio di Vittorio Emanuele passato alla storia, per mancanza di altre qualità più salienti, come “il re buono”. I baffi del padre e del figlio avevano dato un'impronta all'epoca non meno delle crinoline e dei vitini di vespa delle dame. Sia gli uni che gli altri mettevano in risalto i caratteri sessuali secondari con il proposito, ben esplicito, di sottolineare la differenza dei ruoli. Molto prima che fossi consapevole del loro significato, ancora nella prima infanzia, avevo sviluppato una repulsione per i baffi. Giustificavo la mia riluttanza a baciare mio padre adducendo la ragione, in buona parte motivata, che mi pungevano. “La Rita”, osservava con malcelato disappunto papà, “ non sa dare un bacio. Preferisce baciare l'aria invece che suo padre”. Avevo infatti preso l'abitudine, avvicinandomi a lui per il congedo serale, di voltare la testa al contatto del suo viso e di mandare il bacio in aria. Non sfuggiva certamente a un osservatore come mio padre che non avevo nessuna difficoltà a baciare la mamma; ma nel suo caso, non solo il vivissimo affetto che avevo per lei, ma il piacere di sfiorare la pelle morbida e profumata del suo viso, erano motivo sufficiente per vincere la mia naturale riluttanza per i contatti fisici. La questione dei baci si era presentata, seppure in modo differente, anche per la mamma. In un tema della seconda elementare, nel quale la maestra ci aveva chiesto di spiegare a cosa servono le dita, avevo scritto, suscitando l'ilarità di mio fratello Gino e di quanti ne erano venuti a conoscenza, “ a mandare i baci alla mamma”. Si trattava sempre di baci aerei ma, a differenza di quelli dati a mio padre, questi avevano un bersaglio ben preciso. Denotavano non soltanto il mio affetto per la mamma, ma anche uno scarso senso pratico, che sarebbe persistito anche in seguito. Questo vezzo, che sarebbe rimasto nell'adolescenza, non soltanto nei confronti di mio padre, e anche in assenza di baffi, avrebbe dovuto a una persona di grande sensibilità e intuito come lui rivelare molto della personalità di questa figlia, con cui non riusciva a creare i rapporti che aveva invece stabilito con le altre due. La mia gemella Paola, che lo adorava, fin dalla prima infanzia aveva manifestato un grande talento artistico che suscitava in me un' ammirazione incondizionata, senza invidia né rimpianti, forse proprio perché di quel dono io ero invece del tutto priva. Questa era soltanto una delle differenze, palesi sin dai primi anni di vita, tra noi. Le altre non meno significative, che rivelavano a prima vista la nostra gemellanza biovulare, trasparivano dall'aspetto fisico, dal carattere e dal comportamento. La forma e i lineamenti del suo viso erano diversi dai miei. Sotto la fronte alta, leggermente convessa, gli occhi azzurri, ridenti, denotavano una disposizione (in realtà più apparente che reale) all'allegria, che incantava nostro padre. Sebbene l'età non permettesse di indovinare il disegno ancora recondito dei geni nel modellare i tratti (un disegno che la pubertà avrebbe rivelato del tutto conforme alle speranze), era motivo di gioia e di orgoglio paterno constatare la straordinaria somiglianza di quel visino infantile con il suo. (Rita Levi Montalcini, Elogio dell’imperfezione, Garzanti, Milano 1987) Elias Canetti PRIMI RICORDI Elias Canetti nacque a Rustschuk il 25 luglio 1905, morì a Zurigo il 14 agosto 1994. Scrittore di lingua tedesca, nato in Bulgaria da genitori di origine spagnola, visse a Zurigo, Vienna, dove studiò chimica, e dal 1938 a Londra. Ricevette il premio Nobel nel 1981. Il mio più lontano ricordo Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: “ Mostrami la lingua!”. Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: “Adesso gli tagliamo la lingua”. lo non oso ritirarla, l'uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All'ultimo momento ritira la lama e dice: “Oggi no, domani”. Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca. Ogni mattina usciamo dalla porta che dà sul rosso pianerottolo e subito compare l'uomo sorridente che esce dall'altra porta. So benissimo che cosa dirà e aspetto il suo ordine di mostrare la lingua. So che me la taglierà e il mio timore aumenta sempre più. Così comincia la giornata, e la cosa si ripete molte volte. Me la tengo per me e solo molto tempo dopo interrogo mia madre. Da tutto quel rosso lei riconosce la pensione di Karlsbad dove aveva trascorso l'estate del 1907 con mio padre e con me. Per il bambino di due anni si erano portati dalla Bulgaria una bambinaia che aveva a malapena quindici anni. La ragazza ha l'abitudine di uscire con il bambino di prima mattina, parla soltanto bulgaro, eppure passeggia disinvolta nelle vie animate di Karlsbad, e ritorna sempre puntualmente con il piccino. Un giorno qualcuno la vede per strada con un giovanotto sconosciuto, lei non sa dire nulla di lui, spiega che l'ha conosciuto per caso. Dopo alcune settimane salta fuori che il giovanotto abita proprio nella camera di fronte a noi, sul lato opposto del pianerottolo. Qualche volta, di notte, la ragazza s'infila ratta nella sua stanza. I miei genitori, che si sentono responsabili per lei, la rimandano immediatamente in Bulgaria. Entrambi, la ragazza e il giovanotto, avevano l'abitudine di uscire il mattino molto presto, e devono essersi conosciuti in questo modo, cosi dev'essere cominciata fra loro. La minaccia di quel coltellino è stata efficace, il bambino ha taciuto la cosa per dieci anni. Orgoglio di famiglia Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un'immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c'erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli “spagnoli”, dove stavamo noi. C'erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena. C'era anche qualche russo, ma erano casi isolati. Essendo un bambino non avevo una chiara visione di questa molteplicità, ma ne vivevo continuamente gli effetti. Alcune figure mi sono rimaste impresse nella memoria semplicemente perché appartenevano a particolari gruppi etnici e si distinguevano dagli altri per l'abbigliamento. Fra la servitù che ci passò per casa nel corso di quei sei anni, una volta ci fu un circasso e più tardi un armeno. La migliore amica di mia madre era Olga, una russa. Una volta alla settimana, nel nostro cortile venivano gli zingari, tanti che mi parevano un popolo intero, e io mi sentivo invaso da un grande spavento di cui parlerò più avanti. Rustschuk era un'antica città portuale sul Danubio e come tale aveva avuto la sua importanza. A causa del porto aveva attirato persone da ogni parte, e del fiume si faceva un gran parlare. Si raccontava degli anni eccezionali in cui il Danubio era gelato; delle corse in slitta sul ghiaccio fino in Romania; dei lupi famelici che inseguivano i cavalli che trainavano le slitte. I lupi furono i primi animali feroci di cui sentii parlare. Nelle fiabe che le mie bambinaie bulgare mi raccontavano c'erano i lupi mannari, e una notte mio padre mi spaventò comparendomi davanti con una maschera da lupo sul viso. Mi sarà difficile dare un'immagine di tutto il colore di quei primi anni a Rustschuk, delle passioni e dei terrori di quel tempo. Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuk. Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che andava in Europa. L'Europa cominciava là dove un tempo finiva l'impero ottomano. La maggior parte degli “spagnoli” erano ancora cittadini turchi. Sotto i turchi si erano sempre trovati bene, meglio che gli schiavi cristiani dei Balcani. Ma poiché molti fra gli “ spagnoli” erano agiati commercianti, anche il nuovo regime bulgaro intratteneva con loro buone relazioni, e Ferdinando, il re dal lungo regno, era considerato un amico degli ebrei. Le convinzioni che questi “spagnoli” nutrivano erano piuttosto complicate. Erano ebrei osservanti, interessati alla vita della loro comunità; pur senza fervori eccessivi, essa era al centro della loro esistenza. Ma si consideravano ebrei di un tipo un po' speciale, e ciò dipendeva dalla loro tradizione spagnola. Nel corso dei secoli, dopo la loro cacciata dalla Spagna, lo spagnolo che parlavano fra loro si era modificato appena. Alcune parole turche erano entrate nella loro lingua, ma erano chiaramente riconoscibili come tali e le cose che esse significavano potevano essere dette quasi sempre anche con parole spagnole. Udii le prime canzoncine infantili in spagnolo, udii anche antiche romances spagnole, ma l'elemento dominante, al quale un bambino non poteva assolutamente sottrarsi, era la mentalità spagnola. Con ingenua presunzione si guardavano gli altri ebrei dall'alto in basso, la parola “ todesco” veniva sempre pronunciata con intonazione sprezzante e stava a significare un ebreo tedesco o ashkenazi. Sarebbe stato impensabile sposare una “ todesca” e fra le molte famiglie che conoscevo o di cui da bambino sentii parlare a Rustschuk, non ricordo un solo caso nel quale si fosse verificato un matrimonio misto di quel tipo. Non avevo ancora sei anni quando mio nonno mi mise in guardia da una simile mésalliance. Ma la cosa non si esauriva in questa generica discriminazione. Fra gli stessi “ spagnoli” c'erano le “ buone famiglie”, che erano poi le famiglie facoltose da varie generazioni. L'elogio più grande che si potesse sentir dire di una persona era che “ es de buena famiglia” . Quanto spesso, fino alla noia, ho sentito ripetere questa frase da mia madre! Quando andava in estasi per il Burgtheater, o leggeva Shakespeare con me, ma anche molto pii1 tardi, quando parlava di Strindberg, che era diventato il suo autore prediletto, mai si vergognava di dire di se stessa che veniva da una buona famiglia, che non ce n’era una migliore. Lei che aveva fatto della letteratura delle grandi lingue europee che sapeva benissimo il contenuto essenzia1e della .propria esistenza, non avvertiva lo stridore fra questo senso di appassionata universalità e l’arrogante orgoglio di famiglia che continuava incessantemente ad alimentare. Fin dal tempo in cui ero ancora completamente in suo dominio - fu lei a schiudermi tutte le porte dell'intelletto, e io la seguii con cieco entusiasmo - rimasi colpito da quella contraddizione, che mi dispiaceva e mi turbava, e in ogni periodo della mia giovinezza ne discussi con lei e gliela rinfacciai innumerevoli volte, senza che ciò le facesse la minima impressione. II suo orgoglio aveva trovato molto presto i suoi canali e li seguiva imperterrito, e proprio questa angustia mentale, che in lei non capivo, mi portò assai per tempo a schierarmi contro ogni pregiudizio di nascita. Non riesco a prendere sul serio quelli che coltivano un orgoglio di casta, qualunque esso sia: mi sembrano animali esotici, ma anche un po' ridicoli. Mi accorgo ad un tratto di avere pregiudizi opposti, cioè contro le persone che danno una certa importanza alla loro nascita altolocata. Ai pochi aristocratici con cui ho avuto rapporti di amicizia, dovevo innanzi tutto perdonare che parlassero di questa cosa, e se mai avessero potuto immaginare la fatica che tutto ciò mi costava, certamente avrebbero rinunciato alla mia amicizia. Tutti i pregiudizi sono determinati da altri pregiudizi, e i più frequenti sono quelli che nascono dai loro opposti. Va aggiunto poi che la casta alla quale mia madre si vantava di appartenere, a parte la sua origine spagnola, era una casta del denaro. Nella mia famiglia, e in particolare nella sua, ho visto che cosa il denaro può fare alla gente. Ho scoperto che le persone peggiori sono quelle dominate dalla passione del denaro. Ho imparato a conoscere tutti i passaggi che dalla rapacità portano alla mania di persecuzione. Ho visto fratelli che per avidità si sono rovinati a vicenda con processi di anni e anni, e che sono andati avanti a processarsi fino a quando il denaro svanì comp1etamente. Eppure appartenevano a quella stessa “ buona” famiglia di cui mia madre andava tanto fiera. Lo vedeva anche lei, ne parlavamo spesso. La sua intelligenza era penetrante, la sua conoscenza degli uomini si era formata sulle grandi opere della letteratura universale, ma anche attraverso le proprie personali esperienze. Conosceva benissimo i motivi insensati che avevano portato i membri della sua famiglia a dilaniarsi a vicenda: avrebbe potuto con facilità scriverci sopra un romanzo; ma la sua fierezza per quella stessa famiglia non ne veniva scossa. Se fosse stato amore, avrei potuto anche capirlo. Ma molti dei protagonisti di quelle vicende non li amava affatto, alcuni li considerava addirittura persone indegne, altri li disprezzava, ma per la famiglia in quanto tale provava solo orgoglio. Una cosa ho capito tardi, ed è che io, se si proietta tutto ciò sul piano dei più vasti rapporti umani, sono fatto esattamente come lei. Ho passato la parte migliore della mia esistenza a mettere a nudo le debolezze dell'uomo, quale esso ci appare nelle civiltà storiche. Ho analizzato il potere e l'ho scomposto nei suoi elementi con la stessa spietata lucidità con cui mia madre analizzava i processi della sua famiglia. Ben poco del male che si può dire dell'uomo e dell'umanità io non l'ho detto. E tuttavIa l'orgoglio che provo per essa è ancora cosi grande che solo una cosa io odio veramente: il suo nemico, la morte. «Kako la gallinica » Lupi e lupi mannari Una parola che sentivo pronunciare spesso, con fervore e tenerezza insieme, era “ la butica”. Così si chiamava la bottega, il negozio in cui il nonno e i suoi figli trascorrevano la giornata. Mi ci portavano di rado perché ero troppo piccolo. Si trovava in una strada ripida, che dall'alto dei quartieri ricchi di Rustschuk scendeva dritta fino al porto. In quella strada si trovavano tutte le ditte importanti; quella del nonno era in una casa a tre piani, che allora mi pareva alta e imponente, le case di abitazione sulla collina erano tutte a un solo piano. Nella “ butica” si vendevano coloniali all'ingrosso, era un locale molto ampio, in cui. si respirava un odore meraviglioso. Per terra c'erano grandi sacchi aperti con diverse qualità di cereali, sacchi di lenticchie, di avena, di riso. Se avevo le mani pulite, mi permettevano di affondarle dentro per sentire i granelli. Era una sensazione piacevole riempirmi le mani di grani, sollevarli, sentirne l'odore e poi lasciarli scorrere giù lentamente; lo facevo, spesso, e sebbene ci fossero nel negozio molte altre cose straordinarie, non ce n'era nessuna che mi piacesse di più, ed era difficile staccarmi da quei sacchi. Si vendeva tè e caffè e specialmente cioccolata. Tutto era in grandi quantità e bene imballato, non si vendeva al minuto come nei soliti negozi, e i grandi sacchi aperti sul pavimento mi piacevano in modo particolare anche perché non erano troppo alti per me e quando vi affondavo le mani riuscivo a distinguere le diverse qualità dei granelli. La maggior parte delle merci erano commestibili, ma non tutte. C'erano anche fiammiferi, sapone, candele. E inoltre coltelli, forbici, coti per affilare, falci e falcetti. I contadini che venivano dai villaggi a fare acquisti li osservavano a lungo e ne saggiavano la lama con il dito. Io li guardavo con molto interesse e anche un po' di paura, il permesso di toccare le lame affilate non l'avevo. Una volta un contadino, evidentemente divertito dalla mia faccia, mi prese il pollice nella mano, lo mise vicino al suo e mi mostrò come era dura la sua pelle. Ma non ebbi mai una tavoletta di cioccolata in regalo, il nonno, che se ne stava nel retro, seduto nel suo ufficio, dirigeva la ditta con severità e tutto era venduto all'ingrosso. A casa mi dimostrava il suo affetto, perché mi chiamavo proprio come lui, avevo anche il suo nome, non solo il cognome. Ma in negozio non mi vedeva molto volentieri e non mi dava il permesso di fermarmi a lungo. Quando lui dava un ordine, l'impiegato che lo riceveva correva via in fretta, spesso uno di loro usciva con dei pacchi. Quello che più mi piaceva era un uomo magro, poveramente vestito e piuttosto anziano, che sorrideva sempre con aria assente. Aveva dei movimenti incerti e sussultava ogni volta che il nonno diceva qualcosa. Pareva che stesse sognando ed era molto diverso dall'altra gente che vedevo nel negozio. Per me aveva sempre una parolina gentile, parlava in modo cosi indistinto che non lo capivo, ma sentivo che mi voleva bene. Si chiamava Tschelebon e gli avevano dato l'impiego per compassione, perché era un parente povero e incapace, un caso disperato. Io sentivo sempre chiamare Tschelebon come si chiama un domestico, ed è cosi che mi è rimasto nella memoria; solo molto più tardi venni a sapere che era un fratello del nonno. (E. Canetti, La lingua salvata, trad. di A. Pandolfi e R. Colorni, Adelphi, Milano, 1988) Patrick Suskind UN BAMBINO DALL’OLFATTO PRODIGIOSO Patrick Suskind (1949) è nato in Baviera, nella Germania meridionale. I suoi dati biografici sono molto scarsi poiché vive quasi in isolamento, difendendo gelosamente la sua privacy. È autore di teatro, di racconti e di romanzi, il più famoso dei quali, Il profumo (1985), ebbe immediato successo e fu tradotto in moltissime lingue. Oltre a Il profumo, al grande pubblico sono noti il romanzo breve Il piccione (1987) e Storia del signor Sommer (1991), un racconto per ragazzi illustrato da Sempè. Conoscere la realtà attraverso l’olfatto, esplorarne la complessità e non poterla comunicare perché il linguaggio umano è troppo limitato per esprimere la ricchezza e la varietà degli odori: questa è la condanna di Jean-Baptiste. Egli decifra il mondo attraverso gli aromi e le puzze; la sua è una vita fatta esclusivamente di sensazioni, corporea, che esclude i sentimenti e i concetti astratti perché non hanno odore. Come un pittore con i colori, così egli mescola fragranze, distilla essenze, crea profumi che sono opere d’arte, però la sua estrema sensibilità si rivela un handicap, che gli aliena l’amore degli altri. Ma anche chi, per malattia o per vecchiaia, ha perso l’olfatto si considera menomato e può addirittura arrivare alla depressione. Si tratta di una vera malattia, chiamata “anosmia”, che oltre ad essere pericolosa perché impedisce di riconoscere l’odore del pericolo ( del gas o di una pietanza andata a male, per esempio), priva chi ne è affetto della possibilità di destare ricordi e associazioni: che cosa c’è infatti di più evocativo di un odore, che ci riporta a tempi e a luoghi ormai perduti? Jean-Baptiste Grenouille, il protagonista de Il profumo, romanzo originalissimo e macabro, ha una caratteristica che ne fa un reietto della società: egli è nato senza odore nella puzzolente Parigi del Settecento. È fornito però di un olfatto straordinario, dote che gli permette un famoso profumiere. La sua ambizione e il suo desiderio di gloria lo portano ad una folle ricerca di nuove essenze, capaci di dominare il cuore degli uomini. Egli diventa perciò un assassino di donne giovani e bellissime per poterne distillare gli odori come se fossero fiori e creare un nuovo irresistibile profumo, in grado di garantirgli ciò che non ha mai avuto: l’amore. Nel sole di marzo, mentre era seduto su una catasta di ceppi di faggio che scricchiolavano per il caldo, avvenne che egli pronunciasse per la prima volta la parola "legno". Aveva già visto il legno centinaia di volte, aveva sentito la parola centinaia di volte. La capiva anche, infatti d'inverno era stato mandato fuori spesso a prendere legna. Ma il legno come oggetto non gli era mai sembrato cosi interessante da darsi la pena di pronunciarne il nome. Ciò avvenne soltanto quel giorno di marzo, mentre era seduto sulla catasta. La catasta era ammucchiata a strati, come una panca, sul lato sud del capannone di Madame Gaillard1, sotto un tetto sporgente. I ceppi più alti emanavano un odore dolce di bruciaticcio, dal fon- do della catasta saliva un profumo di muschio, e dalla parete d'abete del capannone si diffondeva nel tepore un profumo di resina sbriciolata. Grenouille era seduto sulla catasta con le gambe allungate, la schiena appoggiata contro la parete del capannone, aveva chiuso gli occhi e non si muoveva. Non vedeva nulla, non sentiva e non provava nulla. Si limitava soltanto ad annusare il profumo del legno che saliva attorno a lui e stagnava sotto il tetto come sotto una cappa. Bevve questo profumo, vi annegò dentro, se ne impregnò fino all'ultimo e al più interno dei pori, divenne legno lui stesso, giacque sulla catasta come un pupazzo di legno, come un Pinocchio, come morto, finché dopo lungo tempo, forse non prima di una mezz'ora, pronunciò a fatica la parola "legno". Come se si fosse riempito di legno fin sopra le orecchie, come se il legno gli arrivasse già fino al collo, come se avesse il ventre, la gola, il naso traboccanti di legno, cosi vomitò fuori la parola. E questa lo riportò in sé, lo salvò, poco prima che la presenza schiacciante del legno, con il suo profumo, potesse soffocarlo. Si alzò a fatica, scivolò giù dalla catasta, e si allontanò vacillando come su gambe di legno. Per giorni e giorni fu preso totalmente dall'intensa esperienza olfattiva, e quando il ricordo saliva in lui con troppa prepotenza, borbottava fra sé e sé “legno, legno”, a mo' di scongiuro.2 Cosi imparò a parlare. Con le parole che non indicavano un oggetto dotato di odore, quindi con concetti astratti, soprattutto di natura etica e morale, aveva le difficoltà maggiori. Non riusciva a ritenerle, le scambiava tra loro, persino da adulto le usò malvolentieri e spesso in modo sbagliato: diritto, coscienza, Dio, gioia, responsabilità, umiltà, gratitudine ecc., tutto ciò che queste parole dovevano esprimere per lui era e restò oscuro.3 D'altro canto la lingua corrente ben presto non sarebbe più bastata a definire tutto ciò che aveva immagazzinato sotto forma di concetti olfattori. Presto riconobbe all'odore non soltanto il legno, bensì diverse specie di legno, legno d'acero, legno di quercia, legno di pino, legno d'olmo, legno di pero, legno vecchio, giovane, putrido, marcio, muscoso, persino singoli ceppi di legno, frammenti e schegge di legno: e all'odore ne percepiva le diversità con una chiarezza che altri non sarebbero mai riusciti ad avere con gli occhi. Similmente avveniva con altre cose. Che quella bevanda bianca che Madame Gaillard somministrava ogni mattina ai suoi pupilli venisse comunque chiamata latte, quando per la sensibilità di Grenouille ogni mattina aveva un odore e un sapore del tutto diversi a seconda che fosse più o meno calda, a seconda della mucca da cui proveniva, di quello che la mucca aveva mangiato, della crema che vi era stata lasciata e così via... che il fumo, una struttura olfattiva in cui si riflettevano centinaia di singoli aromi, che di minuto in minuto, anzi di secondo in secondo si trasformava in un miscuglio nuovo, come il fumo del fuoco, possedesse appunto soltanto quell'unico nome "fumo"... che la terra, il paese, l'aria, che a ogni passo e a ogni respiro erano colmi di un odore diverso e quindi animati da un 'identità diversa, potessero essere definiti soltanto da quelle tre grossolane parole... tutte queste disparità grottesche tra la ricchezza del mondo percepito con l'olfatto e la povertà del linguaggio facevano sì che il ragazzo Grenouille dubitasse del senso del linguaggio in genere, e si rassegnasse a farne uso soltanto quando i rapporti con altri esseri umani lo rendevano indispensabile. (P. Suskind, Il profumo, trad. G. Agabio, Milano, Longanesi 1985) 1. 2. 3. Madame Gaillard: l’orfanello Jean-Baptiste cambia numerose balie prima di arrivare all’istituto gestito dalla vedova Gaillard. Questa donna, essendo completamente priva di olfatto, è l’unica infatti a sopportare la presenza di un bimbo senza odori e a non considerarlo un figlio del demonio. a mo’ di scongiuro: poiché il piccolo Jean-Baptiste identifica gli oggetti dagli odori, il suo processo di conoscenza del mondo che lo circonda è talvolta molto traumatico. Egli viene infatti quasi aggredito da certi odori: pronunciare un nome, associandolo ad essi, equivale per lui a recitare una formula magica per vincere le sue paure. Con le parole … e restò oscuro: il bambino riconosce dunque gli oggetti perché hanno odore ma ha difficoltà a comprendere concetti astratti. Questo spiega la sua assoluta mancanza di moralità e l’incapacità di distinguere il bene dal male. Marcel Proust IL SAPORE DELLA MADELEINE Il brano conosciuto con il titolo Il sapore della madelein è tratto dal monumentale ciclo di romanzi Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (1871-1922). In questa opera, fondamentale nella letteratura del Novecento, l'autore traccia un ampio affresco della società francese di inizio secolo, esplorando nel contempo la funzione conoscitiva della memoria per cogliere le trasformazioni alle quali il tempo sottopone la realtà. Nella scrittura proustiana il passato riemerge senza essere stato evocato, riaffiorando alla coscienza tramite una situazione e un sapore: basta poco per richiamare emozioni che si credevano perse per sempre e per rendere di nuovo attuali momenti dimenticati, sottraendoli all'azione devastatrice del tempo. Così, un'occasione a prima vista insignificante - il rito di una tazza di tè e il sapore del biscotto in esso inzuppato consente al narratore di recuperare, quasi per incanto, il magico mondo dell'infanzia, i ricordi legati al paese di Combray, che sembravano definitivamente perduti, e di evocarli con la suggestione di un tempo. Ciò che permette all'uomo di salvare una parte del suo passato, e quindi in ultima analisi un aspetto significativo di sé, è dunque la “ memoria involontaria” che, ridestandosi improvvisamente e in modo del tutto insperato, consente di rivivere ricordi ed emozioni. Il tempo così “ ritrovato” non diventa però possesso definitivo e completo: il passato riemerge infatti in modo frammentario, secondo quella che Proust chiama l' “intermittenza del cuore”, una sorta di illuminazione saltuaria e improvvisa che strappa all'oblio definitivo solo una piccola parte del nostro “ tempo perduto”. E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembol luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che l'accensione di un bengala2 o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio: abbastanza largo alla base, il salottino, la sala da pranzo, l'imbocco del viale non illuminato dal quale sarebbe comparso il signor Swann, l'ignaro responsabile delle mie tristezze3, il vestibolo nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala, che era così crudele salire e che costituiva da sola il tronco fortemente assottigliato di questa piramide irregolare; e, al vertice, la mia camera da letto con annesso il piccolo corridoio dalla porta a vetri per l'ingresso della mamma; in breve, visto sempre alla stessa ora, isolato da tutto ciò che poteva esistere intorno, si stagliava, unica presenza nell'oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quelli che figurano in testa ai vecchi copioni teatrali per le rappresentazioni in provincia) al dramma della mia svestizione; come se Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un'esile scala e come se non fossero mai state là, altro che le sette di sera. Per dire la verità, a chi m'avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore. Ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria dell'intelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto. Morto per sempre? Poteva darsi: il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del primo. Trovo del tutto ragionevole la credenza celtica4 secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti n,on arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all'albero o a entrare in possesso dell'oggetto che ne costituisce la prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l'incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte, e tornano a vivere con noi. Così per il nostro passato. È uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe). Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai. Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d'inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendo mi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano petites madeleines5 e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una "cappasanta6". E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa7 e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s'ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell'amore, colmandomi di un'essenza preziosa: o meglio, quell'essenza non era dentro di me, io ero quell'essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po' me- no della seconda. È tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola subito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo. Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente inferiore a se stesso; quando il cercatore fa tutt'uno con il paese ignoto dove la ricerca deve aver luogo e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Di più: creare. Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che lui solo può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce. Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l'evidenza della sua felicità, della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano. Cercherò di farla riapparire. Retrocedo col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaino di tè. Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge. E perché niente possa spezzare lo slancio con il quale cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma quando m'accorgo che il mio spirito s'affatica senza successo, lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare a qualcos'altro, a ritemprarsi prima di un tentativo supremo. Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente: avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate. A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l'immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile vortice dei colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta. Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo, quell'istante remoto che l'attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non lo so. Adesso non sento più niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporgermi verso di lui. E ogni volta la viltà che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar perdere, a bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani che si lasciano rimasticare senza troppa fatica. E tutt'a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell' ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non m'aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticceri, e la loro immagine s'era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota - erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare -loro, goccioline quasi impalpabili - l'immenso edificio del ricordo. E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito ( benché non sapessi ancora - e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta - perché quel ricordo mi rendesse tanto felice) la vecchia casa grigia verso la strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino8 e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all'unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d'acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne9, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. (M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. G. Raboni, Milano, A. Mondadori, 1987) 1. lembo: squarcio 2. bengala: fuoco di artificio 3. signor… tristezze: un vicino di casa; con le sue visite serali, impediva alla madre di salire per il bacio della buona notte al figlio, che si sentiva per questo infinitamente triste. 4. celtica: dal popolo dei Celti, antichi abitanti di vaste aree dell’Europa, tra cui la Francia e l’Italia settentrionale. 5. petites madeleines: dolcetti di pasta morbida (in francese). 6. cappasanta: mollusco marino racchiuso in una conchiglia a due valve. 7. uggiosa: noiosa 8. piccolo … giardino: piccola costruzione che si affacciava sul giardino. 9. Vivonne: fiume che, nell’imprecisa e personalissima geografia proustiana, scorrerebbe presso Combray. Françoise Dolto L’ETA’ DEL CAMBIAMENTO Françoise Dolto (1908-1988), specialista di psicanalisi infantile, è conosciuta in tutto il mondo per i suoi lavori scientifici e per la partecipazione appassionata ai problemi quotidiani dei giovani e dei loro educatori. Il dramma del gambero L 'ADOLESCENZA è la fase di passaggio che divide l'infanzia dall'età adulta e ha come momento centrale la pubertà. A dire il vero, i suoi confini sono piuttosto vaghi. Senza dubbio, ciò cui assomiglia maggiormente è la nascita. Al momento del parto, ci si separava da nostra madre tagliando il cordone ombelicale, ma spesso si dimentica che tra madre e figlio esisteva un legame straordinario: la placenta. La placenta ci forniva tutto ciò che era necessario per sopravvivere e filtrava molte delle sostanze dannose presenti nel sangue materno. Senza la placenta prima della nascita non era possibile alcuna forma di vita ma, una volta nati, per poter vivere è assolutamente indispensabile abbandonarla. L'adolescenza è come una SECONDA NASCITA che si realizzerà in tappe progressive. È necessario abbandonare a poco a poco la protezione familiare proprio come un tempo si è abbandonata la placenta. Lasciare l'infanzia, cancellare il bambino che è in noi, è una mutazione. Talvolta si ha l'impressione di morire. È una mutazione veloce, in alcuni casi troppo veloce. La natura lavora secondo ritmi propri. Bisogna sopravvivere e non sempre si è preparati. Si sa che cosa muore, ma ancora non si vede verso che cosa si sta procedendo. Qualcosa si è incrinato, ma non si sa bene né come né perché. Nulla è più come prima, ma si tratta di uno stato davvero indefinibile. Per esempio., per i maschi il mutamento del tono della voce è un fatto doloroso. E’ duro portare il lutto della propria voce, quella che da anni ci accompagnava. C'è INSICUREZZA nell'aria, ci sono il desiderio di venirne fuori e la mancanza di fiducia in se stessi. Si ha contemporaneamente bisogno di essere controllati e bisogno di libertà, e non è facile trovare il giusto equilibrio tra queste due esigenze. Per i genitori, così come per i figli, la misura ideale varia secondo i giorni e le circostanze. Si vorrebbe dimostrare di essere capaci di avventurarsi nella società.. La legge prevede che i genitori siano responsabili dei figli fino al raggiungimento della maggiore età, e tutti avvertono questo bisogno di protezione. Ma ognuno deve essere responsabile di se stesso. Considerata l'incredibile evoluzione che si produce in noi, avremmo bisogno di avvertire l'interesse dell'ambiente familiare, ma quando questo interesse si manifesta può trattenerci nell'infanzia o, al contrario, spingerci troppo in fretta a diventare adulti. In entrambi i casi ci si sente «bloccati» da questa attenzione, mentre si sarebbe voluto un aiuto. Si vorrebbe parlare da adulti, ma non se ne hanno ancora i mezzi. Si vorrebbe prendere la parola ed essere ascoltati con attenzione. Quando però ci è permesso parlare, troppo spesso serve a farci giudicare ma non a farci capire. Ci si fa strada con le parole e ci si ritrova in trappola. Si intuisce che è essenziale abbandonare un giorno i genitori. E allora è necessario cominciare con l'interrompere un certo tipo di rapporti con loro. Ci si vuole avviare verso una vita diversa. Ma che genere di vita? Non sempre si desidera avere quella dei propri genitori. Guardandoli vivere, si crede talvolta di vedere il proprio futuro e questo spaventa. Ci si sente scivolare impotenti lungo una china. Si perdono le difese, i mezzi di comunicazione abituali, senza aver potuto inventarne di nuovi. Quando i GAMBERI cambiano il guscio, per prima cosa perdono quello vecchio restando senza difesa durante il tempo necessario per fabbricarne uno nuovo. Ed è proprio in questo periodo che sono esposti a un grave pericolo. Per gli adolescenti è un po' la stessa cosa. E fabbricarsi un nuovo guscio costa tante lacrime e tante fatiche che è un po' come se lo si «trasudasse». Nei paraggi di un gambero indifeso c'è sempre un CONGRO1 in agguato, pronto a divorarlo. L'adolescenza è il dramma del gambero! Il nostro congro è tutto quanto ci minaccia, dentro e fuori di noi, e a cui spesso non pensiamo. Il congro è forse il bambino che siamo stati, che non vuole uscire di scena e che ha paura di perdere la protezione dei genitori. Ci trattiene nell'infanzia e impedisce di nascere all'adulto che saremo. Il congro in noi è anche quel bambino collerico che crede che si diventi adulti litigando con gli adulti. L'adolescenza è anche un movimento ricco di forza, di promesse e di vita: uno sbocciare. [...] Come germogli che spuntano, si ha bisogno di «USCIRE». [...] Sentirsi belli, sentirsi brutti COME I GAMBERI quando perdono il loro guscio, ci si ritrova adolescenti in un aspetto che cambia. È un po' la storia di tutti gli adolescenti. Il bambino si trovava molto bello con il guscio che conosceva. Durante l'adolescenza ci si continua a chiedere: sono bello? sono brutto? Ci si sente a disagio con quell'acne sul viso. Ci si sente troppo alti, troppo grassi, goffi. Ci si sente come un appartamento dove stanno lavorando i muratori e in cui non c'è un angolo tranquillo per riposare. Si è in piena mutazione: all'interno come all'esterno. Durante questo periodo si è completamente assoggettati allo specchio, al riflesso inerte rinviato dal cristallo, al riflesso vivo che si cerca di leggere negli occhi degli altri. Lo si spia per vedere se stessi conformi a un 'immagine ideale. Ma è uno specchio che non mostra mai veramente quello che gli altri vedono quando ci guardano, perché un viso non rivela la personalità se non quando si anima. Un sorriso può illuminare tratti che, fissi, sembrano sgradevoli. Occhi belli e ben truccati sono solo una facciata che può trarre in inganno, ma lo sguardo che parla da dentro è molto più importante: non si trucca. Talvolta non si sa neppure più chi si è e che cosa si vuole mostrare di sé. Ci si sente in imbarazzo con il proprio essere (ciò che si è) e con la propria apparenza (ciò che si vuole mostrare di sé). I mezzi di difesa interiori che si avevano prima, quando si era piccoli, non esistono più. Allora ci si difendeva con l'esteriorità, con l'apparenza, con l'abitudine. Poiché si avverte un senso di povertà, di vuoto interiore, si crede che farsi notare dagli altri sia un bene, sia un valore. E ci si nasconde dietro al proprio LOOK. E questo look è una specie di guscio provvisorio. Improvvisamente si hanno gusti propri. Per esempio IL GUSTO PER IL NERO. Non sono i genitori che dicono ai loro figli di portare il nero. Gli abiti, il trucco e spesso anche la camera sono neri. Forse, inconsapevolmente, è un modo di portare il lutto per la perdita della propria infanzia? E un mettersi in sintonia con le cupe idee che ci ispira il futuro? È, per le ragazze, la voglia di imitare la madre con il loro abitino nero? Nell'adolescenza ci si costruisce un'immagine ideale di sé basata sui criteri del gruppo, delle sue mode, della sua morale, dei suoi valori. Ci si sente belli o brutti nella misura in cui ci si avvicina o meno a questa immagine ideale di sé. Seguire una moda, quella del gruppo, è un modo di affermarsi e anche di portare la divisa del gruppo, ciò che gli altri hanno deciso di indossare. È un segno di allineamento, di integrazione; nella moda e nel gruppo (il «branco») ci si sente spesso al riparo. Dal momento che non ci si piace più, si cerca di vedersi belli nello sguardo degli altri. Ma le mode cambiano incessantemente e i canoni della bellezza mutano a seconda delle epoche e delle culture. Per seguire una moda si finisce spesso con il nascondere le cose belle e mostrare ciò che di meno bello si possiede. [...] Spesso, non sapendo più chi si è, si avverte il bisogno di attirare l'attenzione: facendosi notare si ha l'impressione di esistere. Si provoca per essere guardati. Ragazze e ragazzi molto belli ne invidiano altri che non sono meglio di loro ma che sono molto sicuri e sanno farsi notare. (F. Dolto, I problemi degli adolescenti, Milano, Tea Pratica, 1998) 1. congro: varietà di anguilla Simone de Beauvoir DIVENTAI BRUTTA… Tratto dall’autobiografia della scrittrice, Memorie di una ragazza per bene, il brano mostra come la giovane Simone viva angosciosamente il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Diventai brutta, mi si arrossò il naso; sulla faccia e sulla nuca mi spuntarono delle pustole che stuzzicavo nervosamente. Mia madre, oberata di lavoro, mi vestiva con negligenza; i miei vestiti sformati accentuavano la mia goffaggine. Imbarazzata dal mio corpo, sviluppai delle fobie; per esempio, non sopportavo di bere una seconda volta in un bicchiere dove avessi già bevuto. Mi vennero dei tic: alzavo continuamente le spalle, arricciavo il naso. -Non ti grattare le pustole, non arricciare il naso, - mi ripeteva mio padre. Senza cattiveria, ma anche senza riguardo, faceva osservazioni sul mio colorito, i miei pedicelli, il mio intontimento, esasperando il mio disagio e le mie manie. Il ricco cugino che aveva procurato il posto a papà organizzò una festa per i suoi figliuoli e i loro amici. Compose una rivista 1 in versi. Mia sorella, in una veste di tulle azzurro disseminata di stelle, i bei capelli sparsi sulle spalle, impersonava la «Bella di notte». Dopo aver poeticamente dialogato con un pierrot lunare, presentava in strofette rimate i giovani invitati in costume, che sfilavano su una passerella. Io, travestita da spagnola dovevo pavoneggiarmi, sventagliandomi, mentre lei cantava sull'aria di Funicu/ì funiculà: Ecco venir verso di noi una bella dama. Fiera la fronte eretta (bis) Adesso è di gran moda a Barcellona Il passo spagnolo (bis) I suoi grandi occhi certo non abbassa, pieni d'audacia... ecc. Con tutti gli sguardi fissi su di me, mi sentivo le guance in fiamme, che supplizio! Poco tempo dopo, assistei alle nozze di una cugina del Nord; e mentre il giorno del matrimonio della zia Lilì la mia immagine m'era piaciuta tanto, questa volta mi afflisse. La mamma si accorse soltanto quella mattina, ad Arras, che il mio vestito nuovo in crespo di Cina beige, metteva in risalto in modo indecente il mio petto che non aveva più nulla di infantile. Mi venne fasciato così strettamente che per tutto il giorno ebbi l'impressione di nascondere nel mio corsetto un'ingombrante infermità. Nella noia della cerimonia e di un interminabile banchetto, fui tristemente conscia di ciò che è confermato dalle fotografie: male acconciata, bambocciona, sgraziata, esitavo tra la bambina e la donna. [...] Il mio corpo cambiava, e con esso la mia esistenza; il passato mi abbandonava. Avevamo già traslocato, e Louise era andata via. Stavo guardando con mia sorella delle vecchie fotografie quando d'un tratto mi venne in mente che un giorno o l'altro avrei perduto Meyrignac. Il nonno era molto anziano, sarebbe morto; e quando la tenuta fosse passata allo zio Gaston - che ne aveva già la nuda proprietà - non mi sarei più sentita a casa mia; ci sarei andata da estranea, e poi non ci sarei andata più. Ne fui costernata. Papà e mamma dicevano sempre - e il loro esempio sembrava confermarlo - che la vita finisce per prevalere sulle amicizie d'infanzia: avrei dunque dimenticata Zazà? Con Poupette ci domandavamo inquiete se il nostro affetto avrebbe resistito all'età. I grandi non condividevano i nostri giochi né i nostri piaceri. Non ne conoscevo nemmeno uno che sembrasse divertirsi gran che: la vita non è una cosa allegra, la vita non è un romanzo, dicevano in coro. La monotonia dell'esistenza degli adulti mi aveva sempre afflitta; quando mi resi conto che tra non molto l'avrei condivisa anch'io, fui presa dall'angoscia. Un pomeriggio - stavo aiutando la mamma a rigovernare i piatti, lei lavava e io asciugavo - dalla finestra vedevo il muro della caserma dei pompieri, e altre cucine, con donne che strofinavano casseruole o pulivano la verdura. Ogni giorno, la colazione, il pranzo; ogni giorno fare i piatti; ore che ritornano indefinitamente e che non conducono a nulla: sarebbe stata questa la mia vita? Nella mia mente si formò un 'immagine, così nitida, così desolante, che me la ricordo ancor oggi: una fila di quadratini grigi che si estendevano a perdita di vista, rimpicciolendo secondo le leggi della prospettiva, ma tutti identici e piatti; erano i giorni, le settimane, gli anni. Da quando ero nata, ogni sera mi ero addormentata un po' più ricca della sera prima; mi elevavo a grado a grado; ma se in cima non avrei trovato nient'altro che un triste pianoro, senz'alcuna meta verso cui puntare, a che pro? No, mi dissi ordinando sul ripiano una pila di piatti, la mia vita condurrà in qualche posto. Per fortuna, io non ero destinata a una vita di massaia. Mio padre non era un femminista, ammirava la saggezza dei romanzi di Colette Yver in cui l'avvocatessa o la dottoressa finiscono per sacrificare la loro carriera all'armonia del focolare domestico, ma la necessità fa la legge: -Voi, bambine mie, non vi sposerete, - ripeteva spesso. - Non avete dote, dovrete lavorare -. Io preferivo infinitamente la prospettiva di un mestiere a quella del matrimonio; autorizzava delle speranze. C'era stata gente che aveva fatto cose: ne avrei fatte anch'io. Non sapevo bene quali. L'astronomia, l'archeologia, la paleontologia, mi avevano di volta in volta attirato, e continuavo ad accarezzare vagamente il progetto di scrivere. Ma erano progetti che mancavano di consistenza, e non vi credevo abbastanza per affrontare con fiducia l'avvenire. Portavo già in anticipo il lutto del mio passato. [...] L'amicizia, l'amore, erano ai miei occhi qualcosa di definitivo, di eterno, non un'avventura precaria. Non volevo che l'avvenire mi imponesse delle rotture, bisognava che includesse tutto il mio passato. Avevo perduto la sicurezza dell'infanzia; in cambio non avevo guadagnato niente. L'autorità dei miei genitori non s'era attenuata, e a mano a mano che il mio spirito critico si risvegliava la sopportavo con sempre maggiore impazienza. Non vedevo l'utilità delle visite, dei pranzi di famiglia, di tutte quelle corvées che i miei genitori ritenevano obbligatorie. Le risposte: «Bisogna», «Non sta bene», non mi soddisfacevano più affatto. La sollecitudine di mia madre mi pesava. Ella aveva «le sue idee», che non si curava di giustificare, e così le sue decisioni mi apparivano spesso arbitrarie. Avemmo una discussione violenta a proposito di un messale che donai a mia sorella per la sua comunione solenne; io lo volevo rilegato in cuoio fulvo, come quello che avevano la maggior parte delle mie compagne; la mamma riteneva che una copertina di tela azzurra sarebbe stata bella abbastanza; io protestai che i soldi del mio salvadanaio erano miei; ella rispose che non si dovevano spendere venti franchi per un oggetto che ne può costare solo quattordici. Mentre stavamo dal fornaio per comprare il pane, e poi salendo le scale per tornare a casa, le tenni testa. Infine dovetti cedere, con la rabbia in cuore, ripromettendomi di non perdonarle mai più ciò che consideravo un abuso di potere. Se mi avesse contrariata spesso credo che mi avrebbe precipitata nella rivolta. Ma nelle cose importanti - gli studi, la scelta delle mie amiche - ella interveniva poco; rispettava il mio lavoro, e anche i miei divertimenti, chiedendomi soltanto piccoli servizi: macinare il caffè, portare di sotto la pattumiera. Ero abituata alla docilità, e credevo che, in complesso, Dio l'esigesse da me; il conflitto che mi opponeva a mia madre non scoppiò; ma sordamente ne avevo coscienza; il suo ambiente l'aveva convinta che il ruolo più bello per una donna era la maternità, e lei poteva svolgerlo solo se io svolgevo il mio, ma io mi rifiutavo, con la stessa ostinazione di quando avevo cinque anni, a prestarmi alle commedie degli adulti. All'Istituto Désir, alla vigilia della nostra comunione solenne, ci esortavano a gettarci ai piedi delle nostre madri e chieder loro perdono delle nostre colpe; non soltanto io non l'avevo fatto, ma quando venne la volta di mia sorella, la dissuasi dal farlo. Mia madre ne fu offesa. Indovinava in me delle reticenze che la indisponevano, e mi rimproverava spesso. Mi risentivo del fatto che mi mantenesse in uno stato di dipendenza e affermasse dei diritti su di me. Inoltre, ero gelosa del posto ch'ella occupava nel cuore di mio padre, poiché la mia passione per lui era andata aumentando. [...] La mia vera rivale era la mamma. Sognavo di avere con mio padre rapporti personali; ma anche nelle rare occasioni in cui ci trovavamo noi due soli, parlavamo come se lei fosse presente. In caso di conflitto, se fossi ricorsa a papà, mi avrebbe risposto: - Fa' come ti ha detto la mamma! - Una volta mi accadde di sollecitare la sua complicità. Ci aveva condotte alle corse a Auteuil; il prato era affollato di gente, faceva caldo, non succedeva niente, e mi annoiavo; finalmente fu data la partenza; la gente corse alle staccionate, e una muraglia di schiene mi nascose la pista. Papà ci aveva preso in affitto dei seggiolini, e io volli salire sul mio. - No, - disse la mamma, che detestava la folla ed era innervosita da quello scompiglio. Io insistei. - No e poi no! - ripeté. E mentre lei si affaccendava con mia sorella, mi volsi a papà, ed esclamai con violenza: - La mamma è ridicola! Perché non posso salire sullo sgabello? - Egli alzò le spalle con aria imbarazzata, senza prender partito. Se non altro, questo gesto ambiguo mi permise di supporre che anche papà, da parte sua, trovava che la mamma, a volte, era troppo imperiosa; mi persuasi che tra lui e me esisteva una tacita alleanza. Ma fu un'illusione di breve durata. Durante un pasto, si stava parlando di un cugino dissipato, che considerava sua madre come un'idiota, e a detta di mio padre lo era veramente. Tuttavia egli dichiarò con violenza: - Un figlio che giudica sua madre è un imbecille! - Mi feci scarlatta e m'allontanai dalla tavola col pretesto di un malessere: io giudicavo mia madre. Papà mi aveva inferto un doppio colpo, affermando la loro solidarietà e trattandomi indirettamente da imbecille. Ciò che mi sconvolgeva ancor di più era che io giudicavo anche quella frase ch'egli aveva appena pronunciata: visto che la stupidità di mia zia saltava agli occhi, perché suo figlio non avrebbe dovuto riconoscerla? Non era un male, riconoscere la verità, e del resto, capita spesso che uno non lo faccia apposta; in questo momento, per esempio, non potevo impedirmi di pensare ciò che pensavo: ero in colpa? in un certo senso no, e tuttavia le parole di mio padre mi rodevano dentro, così che mi sentivo a un tempo irreprensibile e mostruosa. In seguito, e forse in parte a causa di quest'episodio, non accordai più a mio padre un'infallibilità assoluta. Tuttavia i miei genitori conservavano il potere di farmi sentire colpevole; pur vedendomi con occhi diversi dai loro, accettavo i loro verdetti. La verità del mio essere ancora apparteneva a essi quanto a me, ma, paradossalmente, la mia verità in essi poteva non esser altro che un simulacro, poteva essere falsa. Non c'era che un mezzo per impedire questa strana confusione: bisognava dissimular loro le apparenze ingannevoli. Avevo l'abitudine di sorvegliare le mie parole: raddoppiai di prudenza. Feci un passo più in là. Poiché non confessavo tutto, perché non osare atti inconfessabili? Imparai la clandestinità. S. de Beauyoir, Memorie di una ragazza perbene, trad. di B. Fauri, Einaudi, Torino 1960 1 rivista: spettacolo in cui si recita, canta e balla. Alberto Moravia INQUIETUDINI Alberto Moravia (pseudonimo di Alberto Pincherle, 1907-1991) è uno degli scrittori italiani del secondo dopoguerra. Esordì giovanissimo nel 1929 col romanzo Gli indifferenti.I principali temi della sua produzione narrativa sono i problemi dell’uomo nelle relazioni con la società e con i suoi simili. Alberto Moravia ha affrontato il tema della adolescenza a più riprese: con Agostino, ma anche con La disubbidienza, romanzo breve del 1948. Luca è un giovane quindicenne che si affaccia alla vita adulta, chiamato a formare la sua personalità in un mondo già preordinato e pieno di obblighi; il ragazzo mantiene un atteggiamento critico e chiuso verso il mondo adulto, che si concretizza in una continua, reiterata disubbidienza ai doveri, agli affetti e in generale al quadro dell'esistenza che gli viene suggerita o imposta. Proponiamo in lettura il primo capitolo del romanzo. Passate le vacanze nel solito luogo al mare, Luca tornò in città con la sensazione che non stava bene e si sarebbe presto ammalato. Egli era cresciuto in maniera anormale negli ultimi tempi e a quindici anni aveva già la statura di un uomo adulto. Ma le spalle erano rimaste strette e gracili; e nel viso bianco, gli occhi troppo intensi parevano divorare le guance smunte e la fronte pallida. Fosse stato consapevole di questa sua gracilità e dei pericoli che comportava, si sarebbe forse raccomandato ai genitori affinché gli facessero sospendere gli studi; ma, come avviene in una età come la sua in cui la sensibilità è sveglia e la coscienza ancora assopita, egli non riusciva a stabilire alcun nesso tra questa indebolita condizione fisica e la sua profonda ripugnanza per gli studi. Era sempre andato a scuola e gli pareva naturale continuare ad andarci. Anche se talvolta gli sembrava che le cose che doveva imparare non gli si presentassero distribuite ordinatamente nell'avvenire, secondo i giorni e i mesi dell'anno scolastico, ma tutte raccolte davanti a lui, in una massa ritta e invalicabile, simile a una montagna le cui lisce pareti non offrissero alcun appiglio per aggrapparsi e sormontarla. Non era la volontà che gli mancava, bensì non sapeva che impulso fisico, che coraggio del corpo. Il quale gli pareva talvolta che gli mancasse disotto, come un cavallo stremato e ottenebrato dalla fatica sotto il cavaliere che lo sprona invano. Spesso, però, questo corpo si ribellava, quando meno Luca se l'aspettava, non di fronte ai compiti più gravosi ma per cose da nulla. Luca, in quel tempo, era soggetto a rabbie improvvise e furiose durante le quali il suo corpo, già così stremato, pareva bruciare le poche forze che gli restavano in parossismi di rivolta e di odio. Soprattutto la muta, inerte resistenza degli oggetti o meglio la propria incapacità a servirsene senza fatica e senza danno, aveva il potere di gettarlo in queste rabbie devastatrici. Una scarpa stretta o male allacciata in cui il piede non entrasse immediatamente, un tram che, recandosi a scuola, gli sfuggisse all'ultimo momento nonostante una lunga rincorsa, una bottiglia d'inchiostro che per un gesto brusco si rovesciasse sul quaderno costringendo Luca a ricopiare la pagina, l'urto impreveduto e doloroso della sua testa contro lo spigolo del tavolo mentre si rialzava dopo aver raccolto un libro caduto in terra, queste e altre simili inezie bastavano a metterlo fuori di sé. Allora o imprecava e digrignava i denti, talvolta giungendo puerilmente fino a percuotere con il pugno lo spigolo del tavolo o a scagliare in terra la bottiglia d'inchiostro, oppure scoppiava in un pianto violento in cui pareva sfogarsi tutto un antico dolore. Egli sentiva che il mondo gli era ostile; e che egli era ostile al mondo; e gli pareva di condurre una guerra continua ed estenuante contro tutto ciò che lo circondava. Questa ribellione degli oggetti e questa sua incapacità di amarli e dominarli, avevano raggiunto il loro colmo proprio quell'estate durante il suo soggiorno al mare. Un incidente, tra gli altri, aveva confermato definitivamente l'inimicizia che correva tra lui e la realtà circostante. Luca era pratico di meccanica spicciola e tutte le volte che in casa c'era un guasto di elettricità, si ricorreva a lui. Avvenne che una sera, per un corto circuito, la luce si spegnesse. Luca, chiamato a gran voce da sua madre per le stanze buie, accorse subito con i suoi ferri. Ma, sia che non avesse preso la precauzione di non poggiare i piedi in terra, sia che, al lume scarso della candela, non si fosse accorto del contatto prematuro dei fili, tutto a un tratto la corrente elettrica, ridestata, sprizzò scintillando tra le sue dita e gli corse per tutto il corpo. Luca prese a gridare e, intanto, per una reazione naturale, stringeva più che mai, con una forza raddoppiata dallo spasimo, i fili e il commutatore. La madre spaventata, non sapendo che fare, gli girava attorno, Luca urlava e la corrente continuava a vibrargli per il corpo con una forza maligna che non dai fili pareva partire ma dal mondo intero, misterioso e ostile, che egli odiava senza conoscere. Finalmente, dopo una lunga confusione, qualcuno andò a interrompere la corrente sul quadrante, e Luca, aperte le mani, si gettò singhiozzando tra le braccia di sua madre. Ella non capiva perché piangesse in maniera così disperata e lo stringeva meccanicamente, accarezzandogli il capo. A lungo, tremando per tutto il corpo, e sentendo nello stesso tempo con amarezza che le carezze materne non lo proteggevano né lo consolavano più come un tempo, Luca pianse. Poi, rifatta la luce, si scopri che la scossa elettrica gli aveva profondamente bruciato i polpastrelli di tre dita. Vi erano rimaste visibili le impronte dei fili e, per così dire, della scossa medesima, in una ferita che aveva la forma spezzata di una minima folgore. Un altro accesso di rabbia gli venne in treno, poco prima dell'arrivo in città, al ritorno dalla villeggiatura. Si era alzato assai presto e aveva mangiato in fretta, nella casa disfatta, fra i bauli e le valigie. Mentre inghiottiva una tazza di cattivo latte macchiato di surrogato di caffè, aveva udito la madre dirgli: «Mangia, perché il pranzo nei vagoni ristoranti è sempre molto tardi». L'idea del pranzo nel vagone ristorante, in cui non era mai stato, gli era subito piaciuta. Gli era sembrato che avrebbe mangiato veramente di gusto seduto a uno di quei tavolini minuscoli che, talvolta, aveva intravveduto, attraverso i finestrini, in altri treni, durante le fermate nelle stazioni. Immaginava che il pane, la minestra e la carne avrebbero avuto altro sapore, mangiate a un tavolino vero, con vere posate servite da camerieri, mentre la campagna sfilava a rovescio sotto i suoi occhi, nella corsa imperterrita del treno. D'altra parte Luca era sensibilissimo alla considerazione della gente e al decoro formale della vita. Egli odiava con tutta la forza dell'animo i pasti consumati sulle ginocchia, negli scompartimenti, tra cartacce, scorze e rimasugli, con cibi freddi e unti cacciati a forza tra le valve delle pagnotte spaccate. Durante questi pasti c'era sempre qualcuno che, in attesa di recarsi al ristorante, guardava con aria di sufficienza e di disgusto alla famiglia curva sui cartocci. All'andata questo testimone non era mancato nella persona di una vecchia signora sdegnosa e ben vestita. Luca si era accorto di vergognarsi di mangiare e al tempo stesso di vergognarsi della vergogna. Tra questi sentimenti umilianti, aveva appena toccato il cibo. L'idea di non avere a svolgere carte oliate e divorare panini gravidi lo rasserenò; e per gran parte del viaggio rimase tranquillo, osservando la campagna. Venne finalmente il cameriere a raccogliere le prenotazioni e il padre non prese i biglietti. Luca pensò che si riserbasse per la seconda serie e tornò a guardare il paesaggio. Udì allora suo padre che diceva: «In fondo possiamo comprare i cestini a Orvieto... costano molto meno e contengono cose migliori di quelle che danno al ristorante». Il padre, pronunziando queste parole, non mostrava alcun sentimento particolare; egli sentì che prendeva questa decisione non per avarizia bensì per semplice buonsenso. Né gli parve strano che la madre, sempre arrendevole di fronte a ogni deliberazione che comportasse un'economia rispondesse con indifferenza: «Come vuoi... io veramente avrei preferito il ristorante, se non altro per non ungermi le dita.» Erano due persone, insomma, che decidevano d'accordo sopra una cosa senza importanza. E infatti la discussione durò ancora due minuti, calma e affabile, concludendosi con la vittoria paterna; vittoria così mite, del resto, da sembrare piuttosto l'incontro di due menti sorelle al crocevia di due strade molto simili. Ma Luca concepì lo stesso, pur rendendosi conto che la cosa non era stata decisa in odio a lui, una grandissima rabbia. L'offese prima di tutto che nessuno dei due gli chiedesse il suo parere e che lo trattassero come una specie di oggetto, il quale, appunto perché è un oggetto, non ha preferenza né idee, né gusti né volontà. Provò al tempo stesso una delusione profonda, tanto più scuorante e precipitosa quanto più si era esaltato all'idea di mangiare nel vagone ristorante. Ma a tutti questi risentimenti, se ne aggiungeva un altro che non pareva avere alcuna origine precisa né dipendere da quel particolare contrattempo: il solito furore che l'assaliva ogni volta che constatava la ribellione e l'insubordinazione delle cose e delle persone di fronte alla sua volontà. Questo furore sembrava venir di lontano e divampò a un tratto, come un fuoco violento, ardendolo e scuotendolo tutto. Si fece bianco in viso, strinse con forza i denti e chiuse gli occhi. Si sentiva tutto irrigidito per la gran rabbia che gli tendeva il corpo; per un momento provò l'impulso di aprire lo sportello e gettarsi fuori dal treno. Questa tentazione suicida non lo spaventava né gli pareva assurda; era, come capì, lo sbocco naturale del furibondo senso di impotenza che lo sconvolgeva. Poi riaprì gli occhi e guardò i genitori. Come se la rabbia, quale una luce violenta e sgradevole, ne avesse scolpito i tratti in una maniera nuova, gli sembrò di osservarne i caratteri per la prima volta: bionda e magra sua madre, con un viso angoloso cui il naso grande e la bocca stretta davano un'aria di autorità e di saggezza; biondo anche suo padre, ma molle e rotondo, con tratti sfuggenti e bonarii. Per la prima volta egli sentì la durezza e virtù materne, il buonsenso e la benevolenza paterne come cose non soltanto esterne a lui ma anche ostili. Con le quali egli non poteva accordarsi in alcun modo; e che partivano da centri remoti sui quali egli non poteva esercitare alcun controllo. Capì, è vero, che se avesse manifestato il suo desiderio, essi l'avrebbero subito accolto; forse sua madre, che non amava tornare sulle decisioni, si sarebbe opposta, ma per poco. Ma capì nello stesso tempo che non voleva a nessun patto costringerli a fare una cosa a cui non parevano aver pensato; anche perché quel desiderio gli ispirava adesso a sua volta una certa quale rabbia, come un impulso assurdo e che non andava preso in considerazione. Comunque, il fatto più importante non era tanto mangiare nel ristorante o nello scompartimento, quanto sentire i suoi genitori fatti della stessa materia ostile e ribelle che avvertiva nelle altre cose. E come le altre cose, con tutto il loro amore per lui, inaccettabili. La rabbia, però, nonostante queste riflessioni, non gli passò: e giunti alla stazione di Orvieto, egli osservò con estrema ripugnanza suo padre mentre scendeva dal treno, comprava i cestini e tornava trafelato allo scompartimento. Il padre chiuse con cura lo sportello, tirò su il tavolino pieghevole fissato sotto il finestrino e vi posò sopra i tre cestini. Poi domandò a Luca con la premura superficiale e un po' lamentosa che gli era propria: «Chino, hai fame? Vuoi mangiare subito? Oppure vuoi che aspettiamo ancora un poco?» Egli rispose senza voltarsi: «Mangerò quando mangerete voi». Il treno ripartì; e parve a Luca che la vista della campagna che scorreva sotto i suoi occhi, calmasse per un poco il suo risentimento. Ma, d'improvviso, venuta da non sapeva dove, una nuova ondata di rabbia l'investì; e, incapace di contenersi, egli si alzò e uscì dallo scompartimento. Andò dritto alla latrina, vi entrò e chiuse con furia la porta sbattendola. Uno specchio era inchiodato sopra il lavandino, egli vi avvicinò il viso spalancando la bocca, come se urlasse, sebbene in realtà nessuna voce gli uscisse dalla gola. Ma sentiva che urlava egualmente, senza rumore, con tutto il proprio corpo convulso. Il treno correva adesso con una violenza disastrosa, infilando uno dopo l'altro gli scambi clamorosi. Tutto tintinnava e gemeva nell'angusta cabina, le assi di cui era contesto il vagone, il vetro nell'alveolo del finestrino, la cornice di ottone intorno il vetro, il bicchiere nel suo sostegno, il pavimento in cui parevano giocare e cozzare mobili piastre di ferro; Luca stava a bocca aperta con il senso di urlare più forte del fragore del treno e il suo furore gli pareva il treno stesso che a un certo momento dovesse uscire dalle rotaie e volare attraverso la scarpata per sfracellarsi contro il fianco di una collina. Egli rimase un pezzo così, tutto teso e stirato; quindi riaprì la porta e tornò nello scompartimento. Il padre aveva aperto i cestini e preparava i panini sopra un giornale spiegato sulle ginocchia. «Questo è per te,» disse tendendo a Luca il primo panino. E soggiunse rivolto alla madre: «Il vino lo vuoi subito? Ma forse sarà meglio mangiare prima e poi bere quando avremo le mani libere». Il padre parlava sempre in tono strascicato, come facendo deboli proposte che si aspettasse, già rassegnato in anticipo di vedere respinte. Luca prese il panino gonfio di carne fredda e lo morse con rabbia. Non aveva appetito e mangiò con sforzo, volgendo ostinatamente il viso verso il finestrino. Dallo scompartimento gli giungevano i fruscii dei cartocci svolti, le mezze parole di offerta e di commento del padre che parlava a bocca piena, della madre che rispondeva con monosillabi. Appena ebbe finito di mangiare, sentì che il cibo gli si era fermato in gola. La sua rabbia non si era attenuata, mantenendosi eguale in una tensione forse meno aspra ma non meno dolorosa per la sua continuità. Era come se tutto il corpo gli fosse rimasto stecchito e la mente confusa, per sempre. Guardava e non vedeva il paesaggio che era ormai quello della campagna nei pressi della città natale. E sullo stomaco sentiva il peso del cibo come quello di un grosso involto ben chiuso di carta paglierina da pizzicheria, pieno di roba mal masticata, in tutto simile a quei cartocci colmi che le massaie buttano dalle finestre, nei vicoli, per i gatti che vi albergano. La madre gli domandò cosa avesse, passandogli una mano sulla fronte a ravviargli i capelli scompigliati dal vento. E dal sollievo che gli procurò il contatto della mano fredda e leggera, accompagnato da un senso di nausea che gli riempì la bocca di saliva, comprese di star male. All'arrivo i genitori non si occuparono più di lui, indaffarati a metter giù le valigie. Ma come si avviarono verso l'uscita, tra la folla dei viaggiatori, lungo il treno fermo, egli capì che non avrebbe mosso molti passi senza dar prima dello stomaco. La nausea, molto forte, si esprimeva in un'acquolina acida e in una specie di stimolo incoercibile ad aprire la bocca. Ecco un vagone, poi un altro, poi un terzo. Da ogni vagone la gente scendeva giuliva, alacre, lasciando dietro a sé, negli scompartimenti vuoti, bucce, cartacce, cicche, bottiglie. Ecco un quarto vagone, già del tutto vuoto, con gli sportelli spalancati. E poi, ecco la locomotiva, con il suo quadrante gremito di maniglie e di tubi e la bocca rossa della caldaia aperta sullo sfondo di tutto quel ferro nero. Il macchinista stava affacciato, il viso affumato e unto, guardando alla gente e mangiando di buon appetito una mezza pagnotta piena di ciò che parve a Luca una specie di poltiglia gialla e verde: una frittata di spinaci. Alla vista della frittata, egli provò più forte il senso di nausea, come se tra quella poltiglia che il macchinista divorava con tanta ingordigia e l'altra poltiglia che gli fermentava nello stomaco, si fosse a un tratto stabilita una corrente di attrazione simpatica, allo stesso modo che tra una calamita e un pezzo di ferro. Ormai erano giunti al paraurti della locomotiva: egli si appoggiò a uno dei fanali e vomitò contro la macchina sbuffante. Udì sua madre che diceva con una voce che gli parve molto calma: «Lo sapevo che non stava bene,» e nello stesso tempo sentì una mano reggergli la fronte. Il padre badava a ripetere in tono bonario: «Non è niente... non è niente». E lui, pieno di rabbia e di non sapeva che fondo dolore, prese a singhiozzare forte. Ma mentre lo portavano via, disfatto e singhiozzante, e la madre gli diceva con voce irritata: «Ma perché piangi... sei quasi un uomo e ancora piangi», gli parve che l'aver vomitato sulla locomotiva, fosse stata una specie di vendetta contro il treno che inflessibilmente l'aveva riportato in città, alla scuola e agli studi; allo stesso modo che i genitori, inflessibilmente, gli avevano negato il vagone ristorante. (A. Moravia, La disubbidienza, Bompiani, Milano 1980) Enrico Brizzi QUELLA PSEUDOPRIMAVERILE DOMENICA POMERIGGIO La storia di Alex D. e quelle di Aidi, di Martino e degli altri personaggi che fanno loro da contorno danno voce alle inquietudini, alle speranze, alle aspirazioni, ai conflitti, ai desideri e ai dolori di un gruppo di adolescenti. Il linguaggio fresco e a tratti gergale, quotidiano ma con punte "alte" (non per niente il vecchio Alex è un liceale ed è stato per anni uno studente modello), trasmette mimeticamente 1'immagine anche linguistico-comunicativa di quel groviglio di contraddizioni che sono i giovani e i giovanissimi quando sono impegnati nella ricerca della propria identità. Il brano è tratto dall'opera prima di Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, romanzo che si è imposto come cult-book, libro culto della generazione dei giovani "tardoadolescenti" degli anni Novanta. ]ack Frusciante, chitarrista dei Red Hot Chili Peppers, dopo un paio d'anni ha lasciato il gruppo, proprio quando la band cominciava a diventare famosa e a fare soldi a palate. Perché? Forse la sua metamorfosi è simile a quella del vecchio Alex che, dopo anni di comportamento esemplare, cambia atteggiamento verso la scuola, la famiglia, la vita, anzi, addirittura... forse Alex lo sa perché Jack, come lui, "è uscito dal gruppo". Quella pseudoprimaverile domenica pomeriggio, il vecchio Alex aveva arrampicato le scale di casa con in testa il presagio, meglio, con in testa il telefoto-presagio, della sua famiglia barricata in tinello a guardare le pattonate americane via grundig1. Un istante più tardi, non s'era ancora sfilato il parka, aveva dovuto prendere atto che la telefoto, di un realismo agghiacciante, gli provava quanto le sue facoltà di preveggenza stessero raggiungendo, con 1'età, livelli negromantici2 sbalorditivi: erano tutti in salotto, e tutti variamente sgomenti o assorti di fronte alle forzute vicende del Rocky IV; il frère de lait, risucchiato nel video, che già sognava di diventare pugile professionista, uri giorno; la mutter, pericolosamente in bilico fra la visione di quelle forzute vicende e la lettura delle Bologna’s Chronicles su Repubblica; il Cancelliere3, seminghiottito dalla poltrona e inutilmente sorridente, che accompagnava gli uppercut4 dello Stallone nano con battutine da sistema nervoso in pezzi e imitazioni, depressive, della voce robotica d'Ivan Drago. -Gesù grande -, aveva mormorato il vecchio Alex, sentendosi improvvisamente senza forze. -Questi poveri costituivano, anni luce fa, una famiglia d'italiani viventi? -Be'stentava a crederlo, ..., anche se l'incredulità spirituale che gli divorava la mente e il cuore non gli aveva impedito di sedersi a propria volta di fronte al tv. Okay, sullo schermo radioattivo del grundig risplendeva il forzuto epos del tappo culturista -non potevano esservi dubbi, non si trattava di un prossimamente, stavano proprio trasmettendo tutto il fIlm -e in quella, mentre sullo Stallone nano incombeva l'oscura e forse definitiva minaccia del robot sovietico Drago, era squillato il telefono. Ora, non vi farò il torto di tacere che se il vecchio Alex avesse anche solo lontanamente immaginato che attraverso quegli squilli la soave Adelaide stava apprestandosi a fare irruzione nella sua vita, mica sarebbe andato a rispondere così ...e ciabattante come in effetti fece, ma si sarebbe fregiato d'un vestito di piume colorate e scarpe d'oro massiccio. -Pronto? -si era invece limitato a dire, sia pure con un magnifico timbro baritonale e fonogenico portatogli in dono da una pubertà devastante. -Casa D.? -Casa D. -, aveva convenuto il vecchio Alex. -Vorrei parlare con Alessandro, per favore. Sono una sua compagna. -Sono io -, aveva detto quel vecchio, mantenendosi in attesa degli eventi. -Ah, ciao. Senti, sono Adelaide -, aveva risposto la voce all'altro capo del filo. -L'amica di Francesca di prima C. Ecco, aveva connesso: Francesca era una tipa carina della scuola; cioè, erano anche stati insieme venti giorni, qualche tempo prima, e Adelaide, che veniva dalla Sicilia, era la sua migliore amica. Cos'altro sapeva? Ah, sì, che s'era accompagnata con Federico Laterza, una belva in gore-tex che al nostro stava sulla punta da morire, e che aveva una sorella più grande sorprendentemente carina. Aveva finito il liceo l'anno prima, la più grande: era in classe con Federico Laterza, e ormai volteggiavano entrambi nel mondo d'emmenthal dell'università. Francesca gli aveva sempre detto un gran bene di questa Adelaide, erano proprio molto amiche. Il vecchio Alex le aveva anche parlato, una volta. Di poesia, fra l'altro. -Ciao -, le disse, e non gli era venuto entusiasta come avrebbe voluto, ma sapeva che c'erano i barricati con le orecchie tese alle sue spalle e la cosa non gli facilitava l'esecuzione dal vivo. -Come va? -Bene, grazie. E tu? -Medio. -Così diceva sempre. -Meglio? -Non c'era uno che capisse. -Medio -, ripeté. -Non c'è niente che vada molto male, ma neanche niente d'entusiasmante. -Sapeva che il Cancelliere stava sorridendo sardonico, adesso. -Ah, medio. Senti, Alex, ti ricordi di quando abbiamo parlato di Cummings, quel poeta fenomenale che ti dicevo? -Cummings? Hai voglia! -le disse. -Certo che mi ricordo. Era l'unica cosa di cui avessero mai parlato, Cummings. Si parlava di poeti come modelli di vita, come miti, come piedi di porco per scardinare la mediocrità della vita di tutti i giorni e andare a far volare l'aquilone nel prato che c'era dall'altra parte. Lei aveva schierato Cummings, e il vecchio Alex quel kranio immenso di Baudelaire. Non sapeva cosa facesse nella vita, Cummings, ma lei gliene aveva parlato come di un genio, promesso che gli avrebbe prestato l'opera omnia da leggere, al limite. -Quel libro che ti dicevo, la raccolta... Voglio dire, ce l'ho, te la posso portare. «Incredibile», si disse il vecchio Alex, impugnando il ricevitore a due mani. «Cristo.» Si sentiva più alto di svariati centimetri. -Ehi, si può fare -, le disse. Decise di prendere tempo per non dare l'impressione dell'ansioso. -Il vecchio Cummings -, sospirò. -Perché non ci vediamo, più tardi? Voglio dire fra mezz'ora. Hai tempo, fra mezz'ora? -Va bene -, aveva risposto lei. -Facciamo fra mezz' oretta in centro? -Va bene. Ti porto il libro. «Cristo», si disse il vecchio Alex. Controllò l'orologio al polso con l'espressione più da tigre che riuscì a trovare, disse: -Adesso sono le tre e tre quarti e cinquanta. Facciamo alle quattro e un quarto quattro e venti davanti a Feltrinelli? -Alle quattro e venti, d'accordo. -Davanti a Feltrinelli -, ripeté, per essere sicuro non vi fossero dubbi. -Sotto le due torri. -Alle due torri -, fece la voce all'altro capo del filo. -Certo -, considerò il vecchio Alex. -Ci vediamo lì fra mezz'ora. -Si sentiva i palmi delle mani insensatamente umidi; attese che lei riappendesse, poi controllò di nuovo l'orologio. «Cristo», si disse, gli occhi che brillavano d'una considerevole luce mista a una straordinaria speranza. Attraversò il tinello con la sua espressione da tigre. Disse: -Io faccio un salto da Feltrinelli. " Il nano forzuto dello schermo stava correndo a perdifiato lungo una distesa di neve del Wyoming, forse. -È’ chiusa la Feltrinelli -, considerò il Cancelliere da dentro la poltrona. -Non devo andare in libreria -, disse lui. -C'ho solo un appuntamento davanti. -Come sarebbe? -fece la mutter, senza distogliere gli occhi dalle Bologna’s Chronicles. -Sei appena rientrato e già riesci? -Te l'ho detto, ho un appuntamento. -Con chi, un appuntamento. -Con una mia compagna, mutter. -Una compagna. Sarebbe a dire? -Non la conosci. Cosa ti cambia se ti dico un nome? Non la conosci, comunque. -Come si chiama -, insistette lei. -Hai studiato abbastanza, per domani? - gli disse. Autocontrollo. Prova della volontà, prova della volontà. -Sì, ho studiato. Al massimo stasera ripasso. Si chiama Adelaide, va bene? -Adelaide. E a che ora torneresti? Prova della volontà, prova della volontà. -Rientro per cena, d'accordo? -Cancelliere, ma lo sentite? Il principino vuoI rientrare per cena... Ascolta, pensi di vivere in un albergo, è così? -Dimmi tu, a che ora -, fece il vecchio Alex, infilando l'impermeabilizzato. -In ogni caso, no, non credo di vivere in albergo, mutter. Ho solo un appuntamento da Feltrinelli. -Quale ti sembrerebbe l'ora giusta? -disse il Cancelliere, continuando a sprofondare impercettibilmente. Prova della volontà, prova della volontà. -Va bene se torno alle sette? -Va bene, Fran? -Fran era il nome della mutter. -Tu credi che siamo tutti dei cretinetti, non è vero? Pensi di poter spadroneggiare -, disse la mutter. Va bene. -Comunque, esci pure. Va bene. -Ma il punto non è uscire o non uscire oggi, il punto è che tu qui ci stai finché ti fa comodo. Prova della volontà. Se alzi la voce va a finire che ti proibiscono di uscire. - Le sei e mezzo. Mi sembra un orario più che equo -, disse il vecchio Alex, chiamando a raccolta dalle profondità ctonie del parka tutte le risorse diplomatiche di cui disponeva. In quella, il frère de lait, riavendosi per un breve istante dai suoi torpori preadolescenziali rigorosamente asessuati, ma ancora visibilmente dentro il flusso del Rocky IV, disse: -Dov'è che vai, te? -Esce, poverino -, aveva considerato ironico il capo dei barricati. -Torna fuori perché qui si annoia. (E. Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Baldini & Castaldi, Milano) 1. le pattonate... via grundig: il termine gergale "pattonata" suggerisce tutta la disistima di Alex per la fiction televisiva di importazione americana. Grundig è una nota marca di apparecchi televisivi 2. negromantici: da magia. La negromanzia o necromanzia (da nekròs, "morto" e manteia, “divinazione”) in senso proprio è l'arte divinatoria fondata sulla evocazione dei defunti. 3. Cancelliere: Alex cita suo padre solo attraverso questo titolo, come indica la madre esclusivamente come "mutter". 4. . uppercut: colpo vibrato da sotto in su al mento. Doris Lessing MARTHA QUEST Doris Lessing (1919), scrittrice inglese nata in Iran, è vissuta fino a trent'anni nella Rhodesia meridionale (oggi Zimbabwe). Nel 1949 si è trasferita in Inghilterra dove vive tuttora. Una parte della sua opera narrativa è ambientata nell' Africa della sua giovinezza. Martha Quest è il primo di cinque romanzi che l'autrice ha scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e appartiene a un ciclo intitolato I figli della violenza. Tra le altre opere della Lessing ricordiamo: L'estate prima del buio (Bompiani, 1974); Il diario di Jane Somers (Feltrinelli, 1986); Se gioventù sapesse (Feltrinelli, 1988); La brava terrorista (Feltrinelli, 1987). La vita di Martha Quest, protagonista del romanzo omonimo, è fatta di ribellioni, conflitti, ripensamenti, e racconta i difficili anni della crescita di un'adolescente. Martha, giunta all'età di sedici anni, è preda di tutte le crisi e di molte delle insoddisfazioni tipiche della sua età. Come condurrà la sua vita? Quali saranno le sue scelte? Mrs Van Rensberg era quella che si usa definire una donna incolta; di questa sua condizione era sempre pronta a domandar perdono, pur non sembrandone affatto umiliata, se questo poteva far piacere ad altri; per esempio, quando Mrs Quest proclamava con aria aggressiva che Martha era una ragazza intelligente e avrebbe fatto molta strada. Che in occasioni simili Mrs Van Rensberg conservasse la calma e il buon umore, costituiva la prova di un notevole autocontrollo, perché Mrs Quest usava la parola «strada» non nel senso di qualcosa che Martha fosse effettivamente in grado di ottenere - una laurea in legge o in medicina - bensì come se si trattasse di un bastone levato sul capo del mondo intero, come a dire: mia figlia sarà qualcuno, mentre le tue saranno buone solo a prender marito. In passato Mrs Quest era stata una di quelle graziose fanciulle inglesi dall'aria sportiva, dai capelli castano chiaro, gli occhi azzurri, ingenue come un raggio di sole in primavera; e ora era esattamente ciò che sarebbe stata se fosse rimasta in Inghilterra, una signora matura un po' stanca e delusa, ma quanto mai decisa, la testa piena di piani ambiziosi per i figli. Tanto lei che Mrs Van Rensberg vivevano da lunghi anni in campagna, a oltre cento chilometri dalla città più vicina, la quale a sua volta era molto lontana dalla civiltà; ma ai nostri giorni, si sa, nessuna regione del mondo si può considerare davvero remota, e in casa loro c'era la radio, e i giornali arrivavano regolarmente da quelle che esse consideravano le rispettive patrie: giornali conservatori inglesi per i Quest, organi nazionalisti dell'Unione Sudafricana per i Van Rensberg. Ambedue erano abbastanza impregnate dello spirito dei tempi per capire che ai loro figli era permesso comportarsi in una maniera che, d'istinto, giudicavano deplorevole; quanto al titolo del libro che Martha metteva in mostra, esso aveva un suono clinico del tutto estraneo alla loro esperienza. In realtà a Martha non sarebbe toccato più del tradizionale, pacifico sospiro di protesta, se quel suo rimanere sui gradini non fosse stato di per sé una specie di sfida. A intervalli di mezz'ora Mrs Quest riteneva necessario ammonirla che si sarebbe presa un colpo di sole se non si decideva a mettersi all'ombra; e alla fine osservò che, a suo avviso, da una lettura del genere una ragazza non poteva ricavare alcun male. E anche questa volta, per tutta risposta, Martha scoccò nella loro direzione un' occhiata sprezzante, insieme sconsolata ed esasperata; perché sotto sotto capiva che la lettura di quel libro valeva solo come un'affermazione di sé, e ora si trovava in mano un'arma spuntata. Tre mesi prima, sua madre aveva detto, irritata, che Epstein e Havelock Ellis. erano semplicemente disgustosi: «Se fra mille anni la gente scaverà i resti di questa civiltà e scoprirà le statue di Epstein o di quell'altro, quell'Ellis, penserà che siamo stati tanti selvaggi». Questo accadeva all'epoca in cui gli abitanti della colonia, venuti involontariamente a contatto, in seguito ai recenti avvenimenti politici, con quella che genericamente definivano «arte moderna», reagivano come a un reiterato insulto rivolto a tutti loro. Affermavano di non riconoscersi neppure lontanamente nelle sculture di Epstein: osservazione che Mrs Quest pescò in un articolo di fondo dello Zambesia News, ed era probabilmente la prima volta, da vent'anni a questa parte, che le usciva di bocca un commento sull'arte o sulla letteratura. Perciò Martha s'era fatta prestare dai ragazzi Cohen, giù alla stazione, una monografia su Epstein. Uno dei vantaggi di chi non è cresciuto in una particolare tradizione di gusto è quello di poter ammirare le opere di un Epstein con lo stesso interesse e la stessa eccitazione di quando contempla le sculture di Michelangelo. Ed era esattamente quel che accadeva a Martha. Un po' sconcertata, mostrò il libro a sua madre. Ma Mrs Quest in quel periodo aveva altro da fare, e né allora né mai trovò modo di spiegare a Martha cosa ci fosse di così disgustoso e sconveniente in quelle opere d'arte. La stessa cosa si verificò per Havelock Ellis. Il risultato fu che Martha si senti sciocca e abbandonata; inoltre, si rese conto d'essere irascibile e villana. Per parecchi giorni di fila decise che «d'ora in poi» sarebbe stata del tutto diversa. Ma niente da fare: il demone tornava a prendere possesso di lei e bastava che la madre aprisse bocca perché lei s'impadronisse subito dell'osservazione, la esaminasse dal diritto e dal rovescio, e replicasse per le rime, quasi in segno di sfida... ma l'antagonista era già sparita, perché a Mrs Quest la cosa non interessava più. «Ach!» disse Mrs Van Rensberg, al termine di un breve silenzio, «non importa che cosa si legge, ma come ci si comporta.» E volse un'occhiata affettuosa e sorridente a Martha, ch'era rossa in faccia per la stizza e il sole. «Ti farai venire il mal di testa, ragazza mia», aggiunse automaticamente. E Martha, testarda, tornò a chinarsi sul libro, senza muoversi dai gradini, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Com'era inevitabile, le due donne attaccarono coi ricordi di quand'erano ragazze e del loro comportamento, ma con qualche riserva, perché Mrs Van Rensberg capiva che molte delle sue esperienze non sarebbero piaciute alla sua interlocutrice inglese; sicché, in effetti, ci fu uno scambio non di ricordi di ciò che era accaduto loro, bensì delle frasi fatte delle loro rispettive tradizioni, tra le quali del resto la differenza era minima, dato che Mrs Van Rensberg apparteneva alla Chiesa riformata olandese, e i Quest alla Chiesa anglicana. Come non discutevano mai di politica, così non discutevano mai... ma di che cosa discutevano in realtà? Martha spesso rifletteva che la loro amicizia era durata tanti anni, proprio grazie a tutto ciò che avevano bandito dai loro discorsi: vale a dire, tutto ciò che avesse qualche importanza; e siffatto pensiero riacutizzava in lei quel disprezzo per il proprio ambiente che era il suo sentimento fondamentale. D'altra parte, visto che l'una era una conservatrice inglese, e l'altra una conservatrice afrikaans, la loro amicizia poteva ben essere considerata un trionfo del tatto e della cortesia su ostacoli insuperabili, laddove le rispettive tradizioni avrebbero dovuto piuttosto renderle nemiche. Questa intesa, naturalmente, non piaceva a Martha, la quale aveva dell'amicizia un concetto così alto, che ancora attendeva che le si presentasse l'amico ideale. «L'Amico», aveva ricopiato in una pagina del suo diario, «è una di quelle meravigliose isole tra i flutti dell'Oceano Pacifico, coperte di palme, che sempre sfuggono al/a caccia del marinaio...». Più oltre, nella stessa pagina, era sottolineata quest'altra frase: «Si dice che l'isola sia abitata, ma il marinaio naufragato su queste sponde non vi ha ancora scorto l'orma di un piede umano». E ancora: «I nostri veri amici hanno solo una lontanissima parentela con coloro ai quali abbiamo donato il cuore». E Mrs Van Rensberg, si poteva considerarla anche solo una lontanissima parente? No certo: era come tradire il nome sacro dell'amicizia. Martha ascoltava ora, non per la prima volta, Mrs Van Rensberg raccontare con dovizia di particolari come Mr Van Rensberg le avesse fatto la corte: racconto che implicava una benevola presa in giro di tutto ciò che può essere definito (beninteso non da Martha, che istintivamente obbediva ai tabù del tempo) sentimentalismo. Seguì, da parte di Mrs Quest, la narrazione altrettanto umoristica, ma più scarna, del suo fidanzamento. Terminati questi due resoconti, abbondantemente benché inconsciamente censurati, le due signore guardarono Martha e assieme sospirarono rassegnate. La tradizione diceva loro di concludere il racconto con un insegnamento morale, edificante per i giovani, frutto delle loro esistenze rispettabili e assennate, ma l'espressione del volto di Martha le mise a disagio. Mrs Van Rensberg esitò, poi disse con una fermezza che in realtà era diretta contro la propria esitazione: «Una ragazza deve fare in modo che gli uomini la rispettino». Restò sorpresa nello scorgere l'espressione di odio e disprezzo che comparve negli occhi di Martha, subito levati a fissarla, e guardò Mrs Quest, in cerca d'aiuto. «Giustissimo», confermò questa, con tono un po' esitante, «un uomo non sposerà mai una ragazza che non rispetta.» Martha si drizzò lentamente, chiuse il libro con l'aria di chi non può ricavarne più nulla e le fissò con calma; era pallida per lo sforzo di trattenere l'odio che le ribolliva dentro. Si levò in piedi e, a voce bassa, disse fremente: «Siete ripugnanti, come se si trattasse di un calcolo di un mercato...». Non riuscì a continuare. «Siete disgustose», concluse balbettando, le labbra tremanti, poi voltò le spalle, scese in giardino e scappò nel bush1. Le due donne la seguirono con lo sguardo in silenzio. Mrs Quest era sconvolta, non comprendendo per quale ragione la figlia la trovasse disgustosa; e Mrs Van Rensberg cercava qualcosa di cordiale e affettuoso da dire alla sua amica. «È una ragazza così difficile», mormorò Mrs Quest con tono di scusa; e Mrs Van Rensberg: «È l'età, la mia Marnie è lo stesso». Non sapeva di aver toccato un tasto sbagliato: perché Mrs Quest non ammetteva paragoni tra sua figlia e quella Marnie, una ragazza così di cattivo gusto, che a quindici anni vestiva già come una signora e si metteva il rossetto e non faceva altro che parlare di «ragazzi». Mrs Van Rensberg non sospettava neppure la violenza dei sentimenti dell'amica: giudicava semplicemente la sua severità nei confronti di Martha una delle tante manie degli inglesi; e poi era certa che Martha sarebbe diventata una donna saggia, un'ottima moglie e madre. Continuò dunque a parlare di Marnie, e intanto Mrs Quest ascoltava con l'imbarazzo che si prova per una gaffe altrui, mormorando «già», e «proprio così», pensando tra sé che sua figlia era così difficile proprio perché doveva accontentarsi di ragazze che non andavano bene, del tipo appunto di Marnie. Ma Mrs Van Rensberg non si lasciava facilmente umiliare essendo il suo orgoglio nazionale pari almeno a quello di Mrs Quest, e in breve la loro conversazione tornò all'argomento cucina e servitori. Quella sera entrambe si sarebbero lamentate col rispettivo marito, l'una con velate allusioni all'inglese, sospirando che Mrs Van Rensberg «ha certe idee...»; mentre l'altra avrebbe detto chiaro e tondo che di quei rooinek2 ne aveva piene le scatole, che erano tutti uguali, persuasi di essere i padroni del mondo. Dopodiché, con un non confessato senso di colpa, si sarebbero attaccate al telefono e per mezz'ora buona avrebbero parlato di cucina e servitori. E, a conti fatti, tutto sarebbe continuato come prima. Nel frattempo, Martha, sentendosi infelice come solo un'adolescente può sentirsi, giaceva all'ombra di un albero tra l'erba alta, ripetendosi che sua madre era odiosa, tutte quelle vecchiacce erano odiose, quei parenti, quegli amici, capaci solo di menzogne, evasioni e compromessi, erano tutti disgustosi. Infatti Martha, come spesso accade ai ragazzi della sua età, soffriva per il timore che le circostanze l'avrebbero truffata di quella pienezza di vita che tutti i suoi istinti e ogni fibra del suo essere invocavano. “Dopo un po' la sua collera sbollì. Dentro di lei qualcosa si era irrigidito, e insieme le membra e persino i muscoli del viso si erano induriti. Lo sguardo che rivolse al bush arso dal sole attorno a lei, fu desolato e perplesso: non vedeva gli arbusti e l'erba, ma solo se stessa, e nell'unica maniera che le fosse nota, cioè attraverso la letteratura. Perché il lettore di romanzi d'altri tempi, se questi, come tutti speriamo e crediamo, riflettono fedelmente la vita della loro epoca, concluderà inevitabilmente che essere giovani allora era molto più facile che non oggi. Odiavano forse la scuola lo spensierato eroe X e l'eroina Y, disprezzavano forse i genitori e i maestri incapaci di comprenderli? Erano forse costretti a sprecare anni e anni della loro esistenza a lottare per emanciparsi da un ambiente troppo inferiore a loro stessi? No certo. Mentre fra cent'anni chi leggerà i romanzi del nostro secolo ne concluderà che per tutti, nessuno escluso, l'adolescenza somigliò a una malattia; ché non gli riuscirà di mettere mano su un libro che non descriva questa condizione. Nessuna meraviglia, quindi, per i tormenti di Martha: sofferenze senza scampo. Forse, si disse (ritirandosi nella tetraggine che in momenti simili era il suo rifugio), bisognerebbe semplicemente dare per scontati gli anni dai quattordici, diciamo, ai venti, in attesa del tempo felice in cui gli adolescenti, in pace con la propria coscienza, potranno ire a divertirsi. Che bellezza, pensò, per gli scrittori del futuro che potranno scrivere allegramente, senza la spiacevole sensazione di evadere un problema: «Martha andava a scuola come tutti, amava i suoi insegnanti, era affettuosa con i genitori, aspettava con fiducia una vita piena, un futuro felice!». Ma allora (e a questo punto provò dispetto e astio per gli insensibili mentori che con tanta freddezza e pervicacia analizzavano il suo stato d'animo in decine di volumi), di che cosa avrebbe potuto scrivere tutta quella gente? Questo modo di sfida e di difesa la fece sentire più leggera; tornò ad abbandonarsi fra l'erba quasi con fiducia, e pensò al suo problema. Se aveva spesso coscienza di dover portare un fardello ignoto ai giovani d'altri tempi, capiva anche che stava un po' alla volta forgiandosi lo strumento che le avrebbe permesso di reggerlo. Non era soltanto infelice, era anche capace di contemplare spassionatamente la propria infelicità. Questa capacità di distaccata osservazione, sentita forse come una zona lucida, sgombra proprio dietro la fronte, la doveva ai ragazzi Cohen giù alla stazione, e ai libri che le andavano prestando da due anni a questa parte. Joss Cohen studiava economia e sociologia: Martha leggeva queste opere con un certo distacco. Solly invece era innamorato (non poteva dirsi diversamente) della psicologia, pronto a difendere a spada tratta tutto ciò che con questa scienza avesse a che fare, anche quando i suoi eroi si contraddicevano l'un l'altro. E da questi libri Martha aveva tratto una chiara immagine di sé, imparando a vedersi dal di fuori. Era un'adolescente, e quindi portata a sentirsi infelice; inglese, e quindi goffa e ritrosa; viveva nel quarto decennio del ventesimo secolo, e quindi non poteva sottrarsi ai problemi di razza e classe; era una donna, e quindi costretta a respingere l'immagine della donna-schiava d'altri tempi. Il senso di colpa e di responsabilità e la coscienza di sé non le davano requie; ma non cercava di sottrarsi al tormento, anche se in certi momenti avvertiva chiaramente che per Joss e Solly, maliziosi com'erano, insegnarle a vedersi con tanta spietatezza doveva essere divertentissimo. E come dar loro torto? Sì, v'erano momenti in cui sinceramente li detestava. Ma una cosa forse i due non avevano previsto, e cioè che questa fredda, obiettiva immagine di sé la portasse a concludere, certo irragionevolmente: in fin dei conti, se tutto questo è già stato detto, perché occuparmene? Dal momento che lo conosciamo, perché sottoporsi alla pena di viverlo? Sentiva, benché oscuramente, che era tempo di cercare qualcosa di nuovo: basta col semplice dar nomi alle cose. E poi, gli autori stessi parevano tutt'altro che d'accordo sul come Martha avrebbe dovuto vedere se stessa. Ce n'erano di quelli che sostenevano che la sua vita era già fissata e stabilita fin da quando se ne stava rannicchiata nel buio utero di Mrs Quest. Martha era stata via via pesce, lucertola, scimmia, cullata dalle acque di mari antichi, dal suono ritmico delle maree. Ma queste maree - il sangue pulsante nelle vene di Mrs Quest - le avevano recato inequivocabili messaggi, canti d'amore e d'odio, paura e rancori, voci destinate a sprofondare ineluttabilmente nel tenero cervello del feto. Altri sostenevano che era stato l'atto della nascita a imprimere un impulso fatale alla vita di Martha. Durante la lunga notte di terrore, la notte del difficile parto in cui l'utero di Mrs Quest s'era spasmodicamente contratto nel tentativo di espellere il suo fardello attraverso la barriera che le ossa opponevano (Mrs Quest era un po' anziana, come primipara), da quella nascita da cui Martha era emersa sconvolta e stremata, con il volto violaceo segnato dalla stretta del forcipe, il suo carattere, e perciò la sua esistenza, erano stati decisi una volta per sempre. E che dire delle fitte schiere di coloro i quali su un punto solo concordavano: cioè che i primi cinque anni dell'esistenza di Martha avevano gettato le inalterabili basi di tutto il suo futuro? In quegli anni (anche se Martha non ne conservava ricordo alcuno) erano avvenute cose che avevano segnato in lei impronte indelebili. L'unico elemento che tutte queste scuole avevano in comune era l'idea del fato, della sorte implacabile. E Martha, in pieno contrasto con i suoi, si sentiva ripetere continuamente che nulla si poteva mutare dell'influenza esercitata su di lei dai suoi genitori, e che del resto era troppo tardi per mutare qualcosa in lei stessa. Era arrivata al punto di non poter leggere uno di quei libri, senza sentirsi poi esausta come al termine di uno dei suoi soliti litigi con la mamma; e quando sul veld3 appariva la figura di un indigeno carico di un nuovo pacco di libri inviatole dai Cohen, la sola vista di essi la irritava e doveva combattere un senso di stanchezza e di riluttanza prima di persuadersi a leggerli. In quel momento c'era in camera sua una mezza dozzina di libri nemmeno aperti, perché Martha sapeva perfettamente che alla fine della lettura avrebbe avuto solo altre nozioni sul proprio conto, e ancor meno idee sul modo di metterle a frutto. Ma, se la lettura dei libri di Joss e Solly contribuiva notevolmente alla sua infelicità, in compenso le visite ai Cohen giù all'emporio riservato ai cafri4 erano i più bei momenti della sua vita. Chiacchierare con loro le piaceva immensamente, e allora tutto le sembrava facile. Faceva una scappata da loro tutte le volte che i suoi andavano alla stazione; a volte ci si faceva portare da un'automobile di passaggio. Altre volte ancora, ma in segreto, perché i suoi non volevano, inforcava la bicicletta. Ma non tutto andava liscio in questa amicizia, a causa di Mrs Quest, che solo una settimana prima ne aveva dette a Martha di tutti i colori. Dato l'ambiente dal quale veniva, non aveva saputo dire chiaro e tondo alla figlia: «Non voglio che tu abbia a che fare con dei bottegai ebrei». S'era lanciata invece in una filippica contro ebrei e greci che, a sentir lei, sfruttavano gli indigeni peggio di tutti gli altri, e aveva concluso dicendo di non saper cosa fare con una ragazza come Martha, che faceva di tutto per rendere sua madre infelice. E per la prima volta da che Martha potesse ricordare, era scoppiata in singhiozzi. Se le sue parole erano insincere, non lo erano le sue lacrime, sicché Martha era rimasta assai male. (D. Lessing, Martha Quest, trad. di F. Saba Sardi, Feltrinelli, Milano 1991) 1. bush: inglese, “boscaglia” 2. rooinek: nella lingua Afrikaans, termine dispregiativo con cui sui designano gli inglesi (letteralmente: “collo rosso”). 3. veld: “terreno aperto, privo di alberi”. 4. cafri: indigeni neri di razza Bantù. Isaac Asimov CHISSÀ COME SI DIVERTIVANO Isaac Asimov nacque a Petrovici il 2 gennaio 1920 e morì a New York il 6 aprile 1992. Scrittore statunitense di origine russa, docente di biochimica, fu autore di romanzi e racconti fantascientifici. Margie lo scrisse perfino nel suo diario, quella sera. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157, scrisse: "Oggi Tommy ha trovato un vero libro!". Era un libro antichissimo. Il nonno di Margie aveva detto una volta che, quand'era bambino lui, suo nonno gli aveva detto che c'era stata un'epoca in cui tutte le storie e i racconti erano stampati su carta. Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com' era previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c'erano le stesse parole che loro avevano già letto la prima volta. "Mamma mia, che spreco" disse Tommy. "Quand'uno è arrivato in fondo al libro, che cosa fa? Lo butta via, immagino. Il nostro schermo televisivo deve avere avuto un milione di libri, sopra, ed è ancora buono per chissà quanti altri. Chi si sognerebbe di buttarlo via?". "Lo stesso vale per il mio" disse Margie. Aveva undici anni, lei, e non aveva visto tanti telelibri quanti ne aveva visti Tommy. Lui di anni ne aveva tredici. "Dove l'hai trovato?" gli domandò. "In casa". Indicò senza guardare, perché era occupatissimo a leggere. "In solaio". "Di che cosa parla?". "Di scuola". "Di scuola?" Il tono di Margie era sprezzante. "Cosa c'è da scrivere sulla scuola? Io, la scuola la odio". Margie aveva sempre odiato la scuola, ma ora la odiava più che mai. L'insegnante meccanico le aveva assegnato un test dopo l'altro di geografia, e lei aveva risposto sempre peggio, finché la madre aveva scosso la testa, avvilita, e aveva mandato a chiamare l'Ispettore della Contea. Era un omino tondo tondo, l'Ispettore, con una faccia rossa e uno scatolone di arnesi con fili e con quadranti. Aveva sorriso a Margie e le aveva offerto una mela, poi aveva smontato l'insegnante in tanti pezzi. Margie aveva sperato che poi non sapesse più come rimetterli insieme, ma lui lo sapeva e, in poco più di un'ora, l'insegnante era di nuovo tutto intero, largo, nero e brutto, con un grosso schermo sul quale erano illustrate tutte le lezioni e venivano scritte tutte le domande. Ma non era quello, il peggio. La cosa che Margie odiava soprattutto era la fessura dove lei doveva infilare i compiti e i testi compilati. Le toccava scriverli in un codice perforato1 che le avevano fatto imparare quando aveva sei anni, e il maestro meccanico calcolava i voti con una velocità spaventosa. L'Ispettore aveva sorriso, una volta finito il lavoro, e aveva accarezzato la testa di Margie. Alla mamma aveva detto: "Non è colpa della bambina, signora Jones. Secondo me, il settore geografia era regolato male. Sa, sono inconvenienti che capitano, a volte. L 'ho rallentato. Ora è su un livello medio per alunni di dieci anni. Anzi, direi che l'andamento generale dei progressi della scolara sia piuttosto soddisfacente". E aveva fatto un'altra carezza sulla testa di Margie. Margie era delusa. Aveva sperato che si portassero via l'insegnante per ripararlo in officina. Una volta s'erano tenuti quello di Tommy per circa un mese, ,perché il settore storia era andato completamente a pallino. Così, disse a Tommy: "Ma come gli viene in mente, a uno, di scrivere un libro sulla scuola?". Tommy la squadrò con aria di superiorità. "Ma non è una scuola come la nostra, stupida! Questo è un tipo di scuola molto antico, come l'avevano centinaia e centinaia di anni fa". Poi aggiunse altezzosamente, pronunciando la parola con cura "Secoli fa". Margie era offesa. "Bé, io non so che specie di scuola avessero, tutto quel tempo fa". Per un po' continuò a sbirciare il libro, china sopra la spalla di lui, poi disse: "in ogni modo, avevano un maestro". "Certo che avevano un maestro, ma non era un maestro regolare. Era un uomo". "Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro?". "Bé, spiegava le cose ai ragazzi e alle ragazze, dava da fare dei compiti a casa e faceva delle domande". "'Un uomo non è abbastanza in gamba". "Sì che lo è. Mio papà ne sa quanto il mio maestro". "Ma va'! Un uomo non può saperne quanto un maestro". "Ne sa quasi quanto il maestro, ci scommetto". Margie non era preparata a mettere in dubbio quell' affermazione. Disse: "Io non ce lo vorrei un estraneo in casa mia, a insegnarmi". Tommy rise a più non posso. "Non sai proprio niente, Margie. Gli insegnanti non vivevano in casa. Avevano un edificio speciale e tutti i ragazzi andavano là". "E imparavano tutti la stessa cosa?". "Certo, se avevano la stessa età ". "Ma la mia mamma dice che un insegnante dev'essere regolato perché si adatti alla mente di uno scolaro o di una scolara, e che ogni bambino deve essere istruito in modo diverso". "Sì, però loro a quei tempi non facevano così. Se non ti va, fai a meno di leggere il libro". "Non ho detto che non mi va, io" si affrettò a precisare Margie. Certo che voleva leggere di quelle buffe scuole. Non erano nemmeno a metà del libro quando la signora Jones chiamò: "Margie! A scuola!". Margie guardò in su. "Non ancora, mamma". "Subito!" disse la signora Jones. "E sarà ora di scuola anche per Tommy, probabilmente". Margie disse a Tommy: "Posso leggere ancora un po' il libro con te, dopo la scuola?" "Vedremo" rispose lui, con noncuranza. Si allontanò fischiettando, il vecchio libro polveroso stretto sotto il braccio. Margie se ne andò in classe. L'aula era proprio accanto alla cameretta, e l'insegnante meccanico, già in funzione, la stava aspettando. Era in funzione sempre alla stessa ora, tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, perché la mamma diceva che le bambine imparavano meglio se imparavano a orari regolari. Lo schermo era illuminato e diceva: "Oggi la lezione di aritmetica è sull'addizione delle frazioni proprie. Prego inserire il compito di ieri nell'apposita fessura". Margie obbedì, con un sospiro. Stava pensando alle vecchie scuole che c'erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare. I maestri erano persone... L'insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo: "Quando addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4 ...". Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si divertivano! (Isaac Asimov, Il meglio di Asimov vol. I Trad. Hilja Brinis, Mondadori 1973) 1. codice perforato: indica un sistema informatico di perforazione di schede, in uso negli anni Settanta. Jerome D. Salinger IL GIOVANE HOLDEN Jerome David Salinger (1919), scrittore statunitense, ottenne la celebrità con il romanzo Il giovane Holden (1951), che racconta la storia di un ragazzo di diciassette anni che rifiuta l'educazione e la formazione tradizionali. Scritto con un linguaggio che mima il gergo degli studenti nei collegi americani, il romanzo si presenta ricco di umorismo e venato da una sottile ironia diretta contro il mondo borghese adulto, efficiente e ligio a valori spesso accettati senza convinzione. Tra gli altri romanzi ricordiamo Franny e Zooey (1961, pubblicato in Italia da Einaudi). Insensibile al fascino della società degli adulti, Holden, studente svogliato, sportivo assai tiepido e fumatore accanito, fugge da tutti quei traguardi a cui sembrano aspirare i suoi coetanei, ansiosi di entrare nel mondo dei grandi. Tra le varie avventure che lo accompagnano, la più traumatica è la vicenda della morte del fratellino Allie, che scriveva poesie sul guantone da baseball, simbolo della sana e felice gioventù americana. La vita incompiuta di Allie diviene così, in questo romanzo e per Holden stesso, il simbolo di un'altra incompiutezza, più grande e assoluta, che attanaglia tutta la vita e alla quale non sfugge nemmeno il protagonista del romanzo di Salinger. Holden sembra restare sempre giovane e non invecchiare mai. Ma che cosa si cela nella sua arguta e pungente ironia? Nella sua voglia di sconfessare sempre e comunque i valori del mondo adulto? Deluso da esperienze sbagliate, Holden si affida alle cure di una psicanalista. Il brano che riportiamo è tratto dalle prime pagine del romanzo, che suggeriamo in lettura a chi volesse approfondire la conoscenza del protagonista. Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di più di quel che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrà il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lì. È pieno di soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l'avete mai sentito nominare. Il più bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l'aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D.B., a sputtanarsi. Se c'è una cosa che odio sono i fIlm. Non me li nominate nemmeno. Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l'Istituto Pencey. L'Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c'è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c'è sempre scritto: «Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare». Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già così prima di andare a Pencey. Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l'ultima partita dell'anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. Mi ricordo che verso le tre di quel pomeriggio me ne stavo là sul cocuzzolo di Thomsen Hill, proprio vicino a quel cannone scassato che aveva fatto la Guerra di Secessione e tutto quanto. Di lì si vedeva tutto il campo, e si vedevano le due squadre che se le sonavano in lungo e in largo. Non si vedeva tanto bene la tribuna, ma si sentivano gli urli da maledetti, cupi e tremendi dalla parte del Pencey, perché tolto che mancavo io c'era la scuola al completo, e fiacchi e isolati dalla parte del Saxon Hall, perché la squadra ospite non portava quasi mai molta gente. Ragazze non ce n'erano mai molte, alle partite di rugby. Soltanto quelli dell'ultimo anno avevano il permesso di portare ragazze. Era una scuola terribile, da tutti i punti di vista. A me piace stare in un posto dove almeno ogni tanto si veda qualche ragazza in giro, anche se non fanno altro che grattarsi le braccia o soffiarsi il naso o anche soltanto ridacchiare e cose del genere. La vecchia Selma Thurmer - era la figlia del preside - veniva abbastanza spesso alle partite, ma non era certo il tipo da far smaniare di desiderio. Era una ragazza piuttosto in gamba, però. Una volta sono stato seduto vicino a lei nell'autobus di Agerstown, e abbiamo attaccato una specie di conversazione. L'ho trovata simpatica. Aveva un gran naso e le unghie tutte mangiucchiate a sangue, e portava quei dannati reggipetti imbottiti che stanno sempre in posizione di sparo, ma in un certo senso faceva pena. Quello che mi piaceva di lei è che non vi rifilava le solite merdate che suo padre era un grand'uomo. Doveva sapere che razza di marpione sfessato che era. Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giù alla partita, per il semplice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell'incontro con la Scuola McBurney. Ma l'incontro non c'era stato. Avevo lasciato fioretti, equipaggiamenti e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevamo dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l'ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci. L'altro motivo per cui non mi trovavo giù alla partita era che dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l'influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l'avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey. Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo Natale non dovevo più tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di mettermi a studiare - specie a metà trimestre, quando i miei erano venuti a parlare col vecchio Thurmer - ma io niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. È una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché. Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l'aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d'un colle. Io addosso avevo soltanto il cappotto doubleface senza guanti né altro. La settimana prima, qualcuno era andato fino in camera mia a rubar mi il cappotto di cammello, coi guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey c'erano un sacco di farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da famiglie ricche sfondate, ma c'erano un sacco di farabutti lo stesso. Una scuola, più costa e più farabutti ci sono - senza scherzi. Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l'addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio. Mi andò bene. Tutt'a un tratto mi venne in mente una cosa che mi aiutò a capire che stavo proprio tagliando la corda. D'improvviso mi ricordai di quella volta, doveva essere ottobre, che io e Robert Tichener e Paul Campbell stavamo passandoci il pallone, davanti alla scuola. Erano ragazzi in gamba, specialmente Tichener. Mancava poco all'ora di cena e fuori stava facendosi buio, ma noi continuavamo col palleggio. Continuava a far sempre più buio, e il pallone quasi non lo vedevamo nemmeno più, ma non volevamo smettere. Alla fine fummo costretti. Quello che insegnava biologia, il professor Zambesi, cacciò fuori la zucca dalla finestra della scuola e ci disse di rientrare in dormitorio a prepararci per la cena. Insomma, se mi tornano in mente di queste cose, un addio ce l'ho sempre a disposizione per quando mi occorre - quasi sempre, almeno. Subito dopo, mi girai e mi misi a correre giù per l'altro versante della collina, verso la casa del vecchio Spencer. Lui non abitava alla scuola. Stava nella Anthony Wayne Avenue. Feci tutta la strada di corsa fino al cancello grande, e poi mi fermai un momento per riprendere fiato. Ho il fiato corto, se proprio volete saperlo. Prima cosa, sono un fumatore accanito - o meglio, lo ero. Mi hanno fatto smettere. E poi l'anno scorso sono cresciuto di sedici centimetri. Ecco in pratica com'è che mi sono beccato la tbc e sono venuto qua per tutte queste visite mediche e accidenti della malora. La salute però è abbastanza buona. Ad ogni modo, appena ripresi fiato attraversai di corsa la Route 204. C'era una gelata del diavolo e per poco non finii per terra. Non so nemmeno perché stessi correndo - vuoI dire che mi girava così. Dopo attraversata la strada, mi sentii come se stessi svanendo. Era uno di quei pomeriggi pazzeschi, freddo da morire, senza sole né niente, e ti sentivi come se stessi svanendo ogni volta che attraversavi una strada. Ragazzi, m'attaccai a quel campanello, quando arrivai a casa del vecchio Spencer. Ero proprio gelato. Mi facevano male le orecchie e quasi non riuscivo più a muovere le dita. «Forza, forza, -dissi quasi ad alta voce, - che qualcuno la apra, 'sta porta». Finalmente l'apri la vecchia signora Spencer. Non avevano donna di servizio né niente, ed erano sempre loro ad aprire la porta. Di grano ne avevano poco. - Holden! - disse la signora Spencer. - Che piacere vederti! Entra, caro! Sei morto di freddo? - Credo che fosse contenta di vedermi. Le ero simpatico. O almeno credo. Ragazzi, entrai in casa come un razzo. - Come sta, signora Spencer? - dissi. - Come sta il professore? - Dammi il cappotto, caro, - disse lei. Non aveva sentito che le domandavo come stava il professore. Era un po' sorda. Appese il mio cappotto nel ripostiglio dell'ingresso, e io mi detti un colpo ai capelli con la mano. Di solito me li faccio tagliare a spazzola, e non c'è da usare molto il pettine. - Come sta, signora Spencer? - le dissidi nuovo, ma più forte per farmi sentire. - Non c'è male, Holden -. Chiuse la porta del ripostiglio. - E tu, come stai? - Da come melo domandò, capii subito che il vecchio Spencer le aveva detto che ero stato sbattuto fuori. - Bene, - dissi. - Come sta il professore? È guarito della sua influenza? - Guarito! Holden, si sta comportando come un perfetto... non so proprio cosa... È nella sua stanza, caro. Entra pure. Avevano ognuno la sua stanza e tutto quanto. Erano tutt'e due sulla settantina, e forse anche più. Però c'erano cose che li mandavano in sollucchero - in modo stupido, naturalmente. So che pare cattivo dirlo, ma non lo dico in senso cattivo. Voglio dire che ci pensavo molto al vecchio Spencer, e se ci pensavi troppo, finiva che ti domandavi perché diavolo vivesse ancora. Voglio di- re che era tutto piegato in due e stava su per miracolo e in classe, alla lavagna, tutte le volte che gli cadeva un pezzo di gesso, qualche ragazzo in prima fila doveva sempre alzarsi per raccoglierlo e darglielo. Per me questo è tremendo. Ma se pensavi a lui solo quel tanto, non troppo, dico, potevi farti l'idea che non se la cavava poi tanto male. Per esempio, una domenica che io e certi altri ragazzi eravamo andati a casa sua a prendere la cioccolata calda, ci fece vedere quella vecchia coperta Navajo che lui e la signora Spencer avevano comprata da un indiano a Yellowstone Park. Era chiaro che quell'acquisto mandava in sollucchero il vecchio Spencer. Ecco quello che voglio dire. Prendi uno che è un vecchio bacucco, come il vecchio Spencer, comprare una coperta può mandarlo in sollucchero. La sua porta era aperta, ma io bussai un pochino lo stesso, tanto per far l'educato e così via. L'avevo anche visto, oltretutto. Stava seduto in una grande poltrona di pelle, tutto avvoltolato in quella coperta che vi ho detto prima. Quando bussai mi guardò. - Chi è? -gridò. - Caulfield? Vieni, figliolo -. Gridava sempre, quando non era in classe. Certe volte dava sui nervi. Mi pentii d'essere andato nell'attimo stesso che entravo. Stava leggendo l' '' Atlantic Monthly", e c'erano pillole e medicine dappertutto, e tutto aveva l'odore delle gocce Vicks contro il raffreddore. Era un po' deprimente. Io non ho troppa simpatia per i malati, del resto. Cosa ancora più deprimente, il vecchio Spencer aveva addosso quella vecchia, tristissima, logora vestaglia con la quale probabilmente era nato o qualcosa del genere. A me non mi va tanto, di vedere i vecchi in pigiama o in vestaglia, ad ogni modo. Il loro vecchio petto bitorzoluto sta sempre in mostra, e le gambe. Le gambe dei vecchi, sulla spiaggia e dappertutto, sono sempre così bianche e senza peli. - Salve, professore, - dissi. - Ho avuto il suo biglietto. Grazie mille -. Mi aveva scritto quel biglietto per chiedermi di passare da lui a salutari o prima delle vacanze, visto che non sarei tornato. - Non c'era bisogno che si disturbasse tanto. Sarei venuto a salutarla lo stesso. - Siediti là, figliolo, - disse il vecchio Spencer. Voleva dire sul letto. Mi sedetti là. - Come va la sua influenza, professore? - Figliolo, se mi sentissi un tantino meglio, dovrei chiamare il medico, - disse il vecchio Spencer. Questo lo mise fuori combattimento. Cominciò a ridacchiare come un matto. Poi finalmente si riprese e disse: - Com'è che non sei giù alla partita? Credevo che la grande partita fosse oggi. - Infatti. Ero lì. Ma è che sono appena tornato da New York con la squadra di scherma, - dissi. Ragazzi, quel letto sembrava un sasso. ". - Lui cominciò a fare la faccia serissima. Me l'aspettavo. - Sicché ci lasci, eh? - disse. - Sì, professore. Mi sa proprio di sì. Lui attaccò il suo solito su e giù con la testa. Roba che in vita vostra non avete mai visto nessuno fare così su e giù con la testa come il vecchio Spencer. Uno non sapeva mai se muoveva tanto la testa perché stava pensando eccetera eccetera, o solo perché era un caro vecchiotto che non capiva un accidente. - Che cosa ti ha detto il dottor Thurmer, figliolo? Se ho capito bene, avete fatto una bella chiacchierata. -Sì. Altroché. Sono stato nel suo ufficio un paio d'ore, come minimo. - Che cosa ti ha detto? -Oh... be', che la vita è una partita e via discorrendo. E che va giocata secondo le regole. È stato abbastanza gentile, però. Voglio dire, non ha perso le staffe né niente. Ha solo continuato a parlare della vita che è una partita e via discorrendo. Lei sa bene. -La vita è una partita, figliolo. La vita è una partita che si gioca secondo le regole. -Sì, professore. Lo so. Questo lo so. Partita un accidente. Una partita. E’ una partita se stai dalla parte dove ci sono i grossi calibri, tante grazie -e chi lo nega. Ma se stai dall'altra parte, dove di grossi calibri non ce n'è nemmeno mezzo, allora che accidente di partita è? Niente. Non si gioca. -Il dottor Thurmer ha già scritto ai tuoi? -mi domandò il vecchio Spencer. -Ha detto che scriverà lunedì. -E tu hai dato tue notizie? -No, professore, non ho dato notizie perché probabilmente li vedrò mercoledì sera quando arrivo a casa. -E come credi che prenderanno la faccenda? -Be'... saranno abbastanza seccati, -dissi. -Non c'è dubbio. Sarà perlomeno la quarta volta che cambio scuola -. Scossi la testa. Scuoto la testa a tutto spiano, io. -Ragazzi! -dissi. Dico anche «Ragazzi!» a tutto spiano. In parte perché ho un modo di parlare schifo, e in parte perché certe volte, per la mia età, mi comporto proprio come un ragazzino. Avevo sedici anni, allora, e adesso ne ho diciassette, e certe volte mi comporto come se ne avessi tredici. E’ proprio da ridere, perché sono alto un metro e ottantanove e ho i capelli grigi. Sul serio. Da un lato -il destro -sono pieno di capelli bianchi, milioni. Li ho sempre avuti, anche quand'ero bambino. Eppure certe volte mi comporto ancora come se avessi appena sì e no dodici anni. Lo dicono tutti, specie mio padre. E in parte è vero, ma non del tutto vero. La gente pensa sempre che le cose siano del tutto vere. Io me ne infischio, però certe volte mi secco quando la gente mi dice di comportarmi da ragazzo della mia età. Certe volte mi comporto come se fossi molto più vecchio di quanto sono -sul serio - ma la gente non c'è caso che se ne accorga. La gente non si accorge mai di niente. (J.D. Salinger, Il giovane Ho/den, trad. di A. Motti, Einaudi, Torino 1961) Nicola X INFATTI PURTROPPO: DIARIO DI UN QUINDICENNE PERPLESSO Nicola è il nome reale dell’autore. Il cognome volutamente resta ignoto. Al tempo della pubblicazione del suo diario (1995), Nicola aveva quindici anni, viveva a Roma e frequentava il terzo anno del liceo classico. Dal diario si può dedurre che è guevarista, adora Bob Dylan, legge Kerouac, ha un culto per Salinger. Pensa della scuola cose terribili assolutamente fondate e traccia ritratti di insegnanti da far venire i brividi. We don’t need no education We don’t need no thought control No dark sarcasm in the classroom Teachers leave the kids alone Hey teacher leave us kids alone All in all it’s just another brick in the wall All in all you’re just another brick in the wall. Pink Floyd 21 settembre Sveglia. Un rumore che sembrava dimenticato, caduto in disuso. E invece eccolo lì, continua testardo nell’eroico tentativo di cancellare con un suono tre mesi di caldo torpore. Comincio con esasperante lentezza a mettere in fila la serie di gesti che preludono all’ingresso a scuola. Jeans, maglietta, lavaggio faccia e denti, un caffè, un biscotto. Ho la sensazione di un ciclista che dà la prima pedalata cominciando una lunga e massacrante gara: la consapevolezza di poter ripetere quel movimento un altro milione di volte mi dà la nausea. I miei compagni sono esattamente dove li ho lasciati il 10 giugno: accanto al primo albero da destra, appoggiati a una macchina, uno vicino all'altro. Uguali. È l'unica parola che mi viene in mente. Non sono neanche abbronzati, neanche spettinati, nulla. Sono la copia di loro stessi invecchiati di cento giorni, che a quindici anni non è un granché. Saluto cortesemente. «Ciao Nicò», risposta. Il «Nicò» starebbe per Nicola, perché sotto Firenze pronunciare un nome dall'inizio alla fine non si usa. Percorro trascinando i piedi i corridoi del Mamiani, in cerca di qualcosa di nuovo: una mattonella spostata, una scritta, una striscia di umidità sul soffitto. Niente da fare. D'estate nelle scuole il tempo sembra fermarsi. Le bidelle hanno dosato la polvere da lasciare sul monumento a «Mamiani Terenzio, valoroso garibaldino», in modo che ce ne fosse quanta ne avevo vista tre mesi fa. [...] Ecco che arriva la professoressa di matematica; calma, si siede. «Come state?». Nessuna risposta. «Forza parlate!». Ancora silenzio, nessuno osa dire la prima parola dell'anno scolastico. Ci guardiamo, io e Santini Federico, mio compagno di banco (stesso dell'anno scorso, lui con la stessa pettinatura, la stessa faccia, la stessa maglietta, dice le stesse cose). «Su, Nicola, come va?». Naturale che la sfiga dovesse capitare a me. «Bene, grazie», cerco di tenere uno sguardo freddo e professionale, la fisso come se mi aspettassi un voto. Dice: «L'estate vi fa male, ragazzi». 29 settembre Alcuni professori sono tornati, altri no. Si respira la solita aria di assoluto disinteresse: del mondo per la scuola, dei professori per gli alunni, degli alunni per i professori, di entrambi per l'esterno. Ci si scruta, loro (quelli che si sono degnati di essere già tornati da Caltanissetta o dalla Sardegna), dietro la cattedra, noi poco più in basso, secondo il sistema gerarchico (?!). La Torrioni, quella di lettere, ha timidamente cercato di interrogare in latino. Risultato: Mingozzi 4+, cercava di sostenere che «Bello Gallico» era un soprannome dato a Cesare a causa della sua venustà. Sartoretti Maria Cristina 5- -(mettessero mai dei voti meno complicati), Gavazzoni, che alla richiesta di un esempio sulla proposizione causale aveva risposto: «Catilina, poiché era marxista...». A posto con 5-. E così si va avanti, i registri dei professori si cominciano a riempire, con loro i nostri diari, già ricoperti di insulsi disegnini, filastrocche, insulti. Segni indelebili della noia che avvolge ogni nostro gesto. Non che la vita di classe sia più entusiasmante: le dinamiche del gruppo sono sempre le stesse, c'è una cellula di comando, che ha raggiunto un'incredibile abilità nel parlare di qualcosa senza dire nulla, un paio di subalterni, che girano attorno ai pianeti, e l'escluso. L'escluso è carne da macello, si chiude all'angolo e si usa per divertirsi. Il gruppo è fatto per divertirsi, in gruppo non si pensa, non si parla, ci si diverte. Ci si diverte? Per i discorsi seri c'è tempo, per discutere c'è tempo. Ecco, questo mi fa incazzare: chiedi a qualcuno qualcosa tipo: «Hai visto quel film?», lo liquiderà con un: «Fico!» o: «Intellettuale una cifra» o roba simile. Ora, io non pretendo seminari a porte chiuse sull'utilizzo del piano-sequenza nel cinema americano anni Sessanta, ma perlomeno un commento, ma neanche, una parola, un grugnito, una faccia. Ma che voglia dire qualcosa. Esprima. Ecco, io sono ossessionato dal fatto che la ggente (quella con due «g», scusate lo snobismo) non si esprime. E io ci sbrocco su 'sta cosa (là dove il verbo «sbroccare» può voler dire sia che sto bene, sia che sto male. E in questo caso che sto male). A ricreazione ci si riunisce e si vaga per la scuola, ci si prende a spinte, ci si sgambetta, si ride quando non si ha di meglio da fare. Si parla per far ridere. Se dici qualcosa e gli altri ridono, ti devi sentire molto importante. So già che state facendo una faccia vagamente nauseata, vi vedo. Ci state giudicando, ma, vi prego, non lo fate. Giudicare gli adolescenti è già lo sport nazionale. Sono stufo di essere carne da sondaggio. Grazie. Il capo del gruppo è «er Trappetta», l'unico di noi ad avere diritto al soprannome. Al Mamiani chi ha un soprannome è uno di un' altra categoria, «er Trappetta» sta rifacendo il quinto ginnasio per la terza volta, sempre qui, nel nostro glorioso e scrostato liceo. E’ alto tre chilometri e veste tutine tipo «operaio cassintegrato». In realtà è carico di soldi e abita a via Frattina (per chi non fosse di Roma, via Frattina sta a Piazza di Spagna. Se poi non avete neanche idea di quanto costi una casa a Piazza di Spagna... beh, non ho tempo di starvelo a spiegare), comunque è pieno di soldi, ma va in giro come un pezzente perché afflitto da «Gevarismus Tremens»1, malattia molto di moda al Mamiani. Comunque «er Trappetta» è anche abbastanza simpatico. Registro una conversazione tra due anonimi della mia classe, e la riporto con veristico rispetto: «Aò, Gavazzoni s'è tajato i capelli, tocca fontanallo!». «Epperché? Se uno se taja i capelli tocca fontanallo?». «Ette credo, hai visto quanto è brutto?». No, non sono dei mostri, fanno solo per dire. Alla fine non hanno mai fontanato nessuno. 5 ottobre La situazione si va normalizzando. I prof. sono rientrati dalle loro sterminate vacanze e mi fa un certo piacere vederli già immusoniti quasi quanto noi. La Torrioni ha cominciato una scheda su Manzoni, suonava più o meno così: Manzoni Alessandro, nato a Milano alla data x, morto alla data Y. Corrente letteraria: romantico, anno di conversione:1810, opera più importante: I promessi sposi. Sembra una scheda di Mixer2. Mi sono detto: la scuola è una scheda di Mixer, mi è scappato da ridere e ho rischiato di essere gentilmente mandato a prender aria in corridoio. Hanno tutti preso appunti diligentemente, meno Gavazzoni, che si è rifiutato dicendo che Manzoni era un democristiano di corrente andreottiana. Gli ho dato ragione. Non è successo un granché d'altro, non mi resta quindi che proseguire con qualche nota di carattere «folcloristico». Nel gruppo femminile è esploso un acceso dibattito sul tema: vale la pena di prendersi una cotta per Alessi Francesco di 3^ F? Ho dato il mio modesto apporto alla discussione sostenendo di no, nel vile tentativo di portare avanti la causa mia e dei miei compagni di classe. Mi è stato risposto a pomodorate in mezzo agli occhi stabilendo quindi che sì, vale la pena di innamorarsi di Alessi Francesco e ingaggiare la conseguente lotta per la conquista del suddetto «biondo con gli occhi azzurri». D'altronde, mi spiegava Marini Marina con il tono di chi espone un titolo nobiliare, è il «più fico della sezione F» (concorso, quello del «più fico», che si svolge con voto palese ogni anno, rigorosamente ordinato per sezione. Voglio sporgere protesta scritta perché vincono sempre quelli di terza, ma non so a chi rivolgermi visto che il preside non è stato informato). Embè certo, se ha vinto il concorso... L'amore è terreno minato, se ne parla poco ed esagerando molto, per sembrare degli eroi romantici. Ci si ubriaca, si piange, si portano alle massime conseguenze le emozioni. Avere la ragazza ti fa salire di grado sociale, più ne hai e più conti, le fidanzate si misurano a numero, come i pezzi di pizza. I sentimenti veri e propri sono guardati con diffidenza, una punta di disprezzo, forse paura. Sono considerati merce a uso e consumo quasi esclusivamente femminile. Poi un giorno, ti pigli la cotta disperata, allora esageri, mitizzi, fai casino, rompi i coglioni a tutti i tuoi amici tipo «dolori del giovane Werther». Posso permettermi una citazione colta? Bene... Diceva Giorgio Manganelli3: «... chi è trafitto da amore è un personaggio monotono, ripetitivo, dall'aggettivazione scialba e iterativa, affranto dal gravame dei luoghi comuni, emotivamente instabile [...], è una peste, un diluvio innocente, un farneticante, un ossessivo...». Perfettamente d'accordo. L'anno scorso un mio amico, una specie di rinoceronte con sette catenine di finto oro, vestito in canottiere stropicciate e assolutamente incapace di esprimersi in una lingua comprensibile a chiunque non fosse nato a Civitavecchia, si era innamorato di una, una qualunque, detto tra noi, neanche niente di che. Mi telefonava alle quattro del mattino, passava ore a parlare dei suoi golfini e, quel che è peggio, si era messo a scrivere poesie. Conservo il suo «capolavoro»: «O Giuseppina/mia luce mattutina/mia dolce stellina/tu sei la più bella». Gli ho detto che era meravigliosa. Sono troppo buono, io. Scusate la parentesi, torniamo a noi. Un'ultima nota di dolore: Le femmine pescano quasi sempre tra «quelli più grandi» (da noi profondamente disprezzati perché considerati ladri), e ai maschi non resta che osservare quelle più piccole, che però per noi di 3^ sono ben poche e, in verità, pure bruttine. Ora, io mi chiedo cosa diavolo ci trovino in uno, solo perché ha un anno in più. No, dico, fossero belli, avessero, che ne so, la macchina o una villa a Porto Rotondo, capirei pure. Invece no, sono dei mostri, hanno il fascino di una tinca lessa, non hanno manco una bicicletta, ma «sò omini». E non è che ce l'ho con loro per motivi personali, sia chiaro, ma ad esempio, il fidanzato ventenne di Cavilli Chiara 5^ A, ha meno qualità di un eschimese sordomuto e zoppo. E voi non avete idea di cosa sia Cavilli Chiara 5^ A... Altra cosa: la descrizione di un ragazzo tipo per una ragazza è: biondo, occhi azzurri, alto, spalle larghe, fisico da atleta eccetera. Ma questo è il cugino bello di Hitler! Non riesco a capire questo amore sconfinato verso i nazisti, a me uno così fa una paura nera. Magari anche con i capelli a spazzola e un bel paio di occhiali da sole a specchio. Non è colpa mia se mi sa tanto di campo di concentramento. Vabbè, siamo nati per soffrire... 12 ottobre È arrivata, rapida e deprimente come un acquazzone estivo, la prima interrogazione dell'anno. Cinque minuti ritagliati in fondo all'ora di greco. La Torrioni scorre il registro in silenzio, io guardo la punta dei miei piedi, cerco di non respirare per non attirare l'attenzione, come un fuggiasco braccato dalla polizia. Come me tutti i miei compagni. L'unica differenza tra me e loro, è che io sono uno sfigato cronico e gli altri no. L'unghia laccata in rosa della prof. si blocca con sadica soddisfazione sulla riga diciannove a me dedicata. Senza degnarsi di alzare gli occhi, pronuncia il mio nome. Adrenalina, sguardo da cane bastonato, mi avvio alla cattedra. Dieci domande contate, di seguito, come una scarica di mitragliatrice. Colpito, colpito, colpito, colpito, affondato. 5+. Vista da vicino è veramente orrenda: alta si e no quanto una carota messa in verticale, porta scarpe di pelle di leopardo, vestitino in pelle rosa e verde, cappellino con frutta e verdura. Ha quarantasette anni, ne dimostra quattrocentodiciassette (ci credo che sa il latino: è la sua lingua madre!). Per il 5+ non me la prendo, del primo quadrimestre non gliene frega niente a nessuno. A ricreazione, ho ascoltato il mio compagno di banco Santini Federico fare il seguente discorso: «Fra un anno, tre mesi e quattordici giorni posso buttà via 'sto schifo de F-10 (che non è un aereo ma un motorino) e me faccio er 125, sai che fissa? (traduzione per i nordici: pensa che bello). Ho cercato di spiegargli che non so bene che differenza ci sia tra un F-10 e un 125, a parte l'elementare questione numerica, che porta a una differenza di F-115. Non ha riso e mi ha detto: «Aò, te devi da fà 'na curtura». Sono tornato a casa con un numero di "Moto Giovani" nel tentativo di farmi una «curtura». Non ho ancora capito cos'è il «freno a disco», ma faccio passi avanti. Comunque, vorrei tornare un momento sull'interrogazione. L'interrogazione è più o meno il giudizio universale, la si aspetta con la timorosa rassegnazione con cui si aspettano le sciagure inevitabili come la morte o le bollette. Il problema è che io, di solito, l'aspetto senza studiare, e si vedono i risultati... Alla cattedra mi si abbassa la voce, gesticolo, muovo i piedi. Parlo a scatti. Gavazzoni batte le dita sulla cattedra al ritmo dell'«Internazionale», Tosini Francesca si gira attorno all'indice i riccioli biondi fino a strapparli. Pur essendo preparato, nessuno riesce mai a prendere con calma l'interrogazione, resta comunque una terribile disgrazia, una botta di sfiga, un'esperienza drammatica. Resterei qui a scrivere ancora per un po', ma devo andare a prepararmi per francese. Sentendo i Pink Floyd mentre gioco a tennis con il muro di camera mia... (Nicola X, Infatti purtroppo. Diario di un quindicenne perplesso, Theoria, Roma-Napoli 1995) 1.“Gevarismus tremens”: neologismo inventato da Nicola prendendo spunto dal delirium tremens, crisi di agitazione psicomotoria che colpisce gli alcolizzati cronici; il protagonista vuole ironizzare sui comportamenti stereotipati dei suoi coetanei, che sembrano ammalarsi di mode, come quella del Che Guevara (1928-1967), noto rivoluzionario cubano di origine argentina. 2. Mixer : trasmissione televisiva che si occupava di informazione e di attualità in modo rapido e schematico. 3. Giorgio Manganelli: scrittore, giornalista e critico letterario contemporaneo. Fred Uhlman NASCITA DI UN’AMICIZIA Tedesco di origine ebrea, Fred Uhlman nacque nel 1901 a Stoccarda. Qui, dopo la prima guerra mondiale, si laureò in legge, ma fu costretto a interrompere la carriera di avvocato nel 1933 quando in Germania iniziò la dittatura nazista. Incalzato dalle leggi razziali di Hitler, Uhlman fu costretto a lasciare la Germania, per non tornarvi mai più. Stabilitosi in Inghilterra, vi morì nel 1985. Fu autore di pochi testi letterari, tra i quali destinò alla pubblicazione soltanto L'amico ritrovato (scritto in inglese, la lingua del Paese di cui era divenuto cittadino e dove aveva trascorso !'ultima parte della sua esistenza). Il breve romanzo L'amico ritrovato, dal quale è tratto il brano che segue, narra la storia della fuggevole ma intensa amicizia fra due ragazzi di sedici anni, compagni di scuola. Hans Schwarz, il narratore, nel quale si riflette autobiograficamente l'adolescenza di Uhlman, appartiene a una famiglia ebraica della buona borghesia; !'altro, Konradin, è il rampollo di una grande famiglia dell'aristocrazia tedesca, gli Hohenfels. La vicenda è presentata attraverso i ricordi di Hans che, ormai uomo maturo, vive in qualità di affermato professionista negli Stati Uniti. L'amicizia tra i due giovani era fiorita e terminata in meno di un anno, dal febbraio al dicembre del 1932, un mese prima che Hitler salisse al potere. L'antisemitismo aveva avvelenato l'atmosfera e per gli studenti ebrei la vita a scuola era divenuta impossibile: Hans aveva lasciato il suo Paese per stabilirsi presso dei parenti a New York, mentre Konradin, affascinato dalle teorie naziste, era rimasto in Germania, fedele alle tradizioni teutoniche della sua famiglia. Soltanto a distanza di trent'anni, casualmente, Hans apprende che l'amico era stato giustiziato dai nazisti per aver partecipato a un complotto ordito per uccidere Hitler: sull'onda struggente dei ricordi si riconcilia con la memoria dell'amico perduto e ora ritrovato. Il brano: Un giorno di febbraio del 1932 entra a far parte della classe frequentata da Hans, presso il liceo Karl Alexander di Stoccarda, Konradin, conte di Hohenfels. Un alone di ammirata curiosità e di rispetto subito circonda il giovane dal nobile portamento. Anche Hans ne rimane profondamente colpito: è l'inizio di una straordinaria amicizia. Tutto ciò che sapevo, allora, era che sarebbe diventato mio amico. Non c'era niente in lui che non mi piacesse. In primo luogo il suo nome glorioso che lo distingueva ai miei occhi da tutti gli altri, von 1 compresi. Poi il portamento fiero, i suoi modi, la sua eleganza, la bellezza del suo aspetto -e chi avrebbe potuto restare indifferente? -mi facevano pensare a buon diritto che avessi finalmente trovato qualcuno che corrispondeva all'ideale d'amico da me vagheggiato. Il problema era come attirarlo a me. Cosa potevo offrire a quel ragazzo, lo stesso che aveva gentilmente, ma fermamente, rifiutato le profferte degli aristocratici e del Caviale2? Cosa dovevo fare per conquistarlo, chiuso com'era dietro le barriere della tradizione, dell'orgoglio naturale e dell'altezzosità acquisita? Senza contare che sembrava perfettamente soddisfatto di starsene da solo e di non mescolarsi agli altri che frequentava solo perché vi era costretto. Come attirare la sua attenzione, come fargli capire che io ero diverso da quella folla opaca, come convincerlo che io e solo io avrei dovuto diventare suo amico, erano tutti quesiti di cui non conoscevo la risposta. L'unica cosa che avvertivo istintivamente era che avrei dovuto trovare il modo di farmi notare. Tutt'a un tratto cominciai ad interessarmi a quello che avveniva in classe. Di solito ero ben felice di essere lasciato in pace, a crogiolarmi nei miei sogni, senza che mi venissero sottoposte domande o problemi, in attesa che il suono della campana mi liberasse dalla schiavitù. Non c'era mai stata alcuna ragione perché dovessi far colpo sui miei compagni. Perché sforzarmi oltre il minimo necessario a passare gli esami, obiettivo che, peraltro, non si presentava molto faticoso? Perché darmi da fare per impressionare gli insegnanti, quei vecchi stanchi e delusi, intenti a ripeterci di continuo non scholae sed vitae discimus, anche se a me sembrava che, nel loro caso, avvenisse il contrario? Ma ora ero risvegliato alla vita. Alzavo la mano ogni volta che mi pareva di avere qualcosa da dire. Dissertavo su Madame Bovary3e sull'esistenza di Omero, attaccavo Schiller4, definivo Heine un poeta per commessi viaggiatori5 e Holderlin il maggiore lirico tedesco, «più grande persino di Goethe6 ». Ripensandoci, mi rendo conto di quanto fosse infantile quel mio atteggiamento, eppure riuscii a elettrizzare i professori attirandomi persino l'attenzione del Caviale. I risultati sorpresero persino me. I miei insegnanti, che avevano ormai rinunciato a ogni speranza, si avvidero tutt'a un tratto che i loro sforzi non erano stati vani e cominciarono a ricavare qualche soddisfazione dalla loro fatica. Si rivolsero a me con rinnovato ardore e con gioia commovente, quasi patetica. Mi chiesero di tradurre e di spiegare alcune scene del Faust e dell’Amleto7, cosa che feci con vero piacere e, voglio credere, con una certa abilità. La mia seconda prodezza ebbe luogo durante le poche ore destinate all'educazione fisica. [...] Il professore di ginnastica era un ometto energico e chiassoso. Si chiamava Max Loher, meglio noto come Max Muscolo, e perseguiva con ardore disperato l'obiettivo di svilupparci il torace, le braccia e le gambe nel breve tempo a sua disposizione. [...] Max Muscolo andò alla sbarra fissa, si mise sull'attenti, poi balzò in alto con eleganza e afferrò il sostegno stringendolo in una morsa d'acciaio. Con grande disinvoltura ed estrema perizia, si sollevò lentamente fino ad appoggiare il corpo alla sbarra. Poi si voltò verso destra, tendendo le braccia aperte, tornò nella posizione di partenza, si voltò verso sinistra e di nuovo al centro. Tutt'a un tratto parve cadere; invece rimase appeso per le ginocchia, con le mani che quasi sfioravano il pavimento. Infine prese a oscillare, prima lentamente, poi sempre più in fretta, fino a ritrovare la posizione che aveva all'inizio dell'esercizio, dopo di che con un movimento rapido e perfetto si lanciò nel vuoto e atterrò, leggero come una piuma, sulla punta dei piedi. La sua bravura era tale da far sembrare facile l'esercizio, anche se esso richiedeva un controllo totale, uno straordinario equilibrio e una buona dose di coraggio. Possedevo in una certa misura le prime due qualità, ma non si poteva certo dire che fossi coraggioso. Spesso, all'ultimo momento, dubitavo di riuscire a farcela. Esitavo a lasciare la sbarra e, quando finalmente mi decidevo, non osavo neanche pensare che avrei potuto cavarmela quasi altrettanto bene di Max Muscolo. La differenza era la stessa che passa tra un funambolo capace di destreggiarsi con sei palle e chi invece è ben contento di riuscire a maneggiarne tre. Questa volta, però, appena Max terminò la sua esibizione, mi feci avanti e lo fissai dritto negli occhi. Esitò qualche istante, poi disse: «Schwarz ». Mi avvicinai lentamente alla sbarra, mi misi sull'attenti e balzai in alto. Mi appoggiai, come lui, all'asta e mi guardai attorno. Sotto di me vidi Max, pronto a intervenire in caso di necessità. I miei compagni mi osservavano in silenzio. Rivolsi lo sguardo a Hohenfels e notai che mi teneva gli occhi addosso. Mi protesi prima verso sinistra, poi verso destra, poi mi lasciai penzolare tenendomi con le gambe piegate e presi ad oscillare finché, con un ultimo slancio, tornai ad appoggiarmi alla sbarra. La paura era sparita, sostituita da un unico pensiero: dovevo farlo per lui. Tutt'a un tratto mi sollevai in verticale, mi lanciai oltre la sbarra, e... bum! Almeno ero tornato con i piedi per terra. Si udirono delle risatine represse, ma poi qualcuno batté le mani. Dopotutto, non erano cattivi i miei compagni... Rimasi immobile e voltai gli occhi verso di lui. Inutile dire che Konradin non aveva riso. Per la verità non aveva nemmeno applaudito. Ma mi guardava. Qualche giorno dopo arrivai a scuola con alcune monete greche (collezionavo monete da quando avevo dodici anni). Avevo portato una dracma d'argento di Corinto, un gufo, simbolo di Pallade Atena, l'effigie di Alessandro il Grande e, appena vidi Konradin che si avvicinava al suo posto, feci mostra di esaminarle con la lente di ingrandimento. Konradin notò le mie manovre e la sua curiosità, come avevo sperato, la spuntò sulla sua riservatezza. Mi chiese il permesso di guardarle. Dal modo in cui le maneggiava, mi avvidi che non doveva essere del tutto inesperto. Le toccava come un collezionista tocca gli oggetti a lui cari e, del collezionista, aveva persino lo sguardo carezzevole e ammirato. Mi disse che anche lui collezionava monete e possedeva quella con il gufo, ma non l'altra con l'effigie di Alessandro il Grande. Ne aveva, invece, altre di cui ero privo. A questo punto fummo interrotti dall'ingresso dell'insegnante ma, all'intervallo delle dieci, Konradin, dimentico delle monete, lasciò l'aula senza degnarmi di uno sguardo. Eppure mi sentivo felice. Era la prima volta che mi aveva rivolto la parola e io ero ben deciso a fare il possibile perché non fosse l'ultima. Tre giorni dopo, il quindici marzo -una data che non dimenticherò più -stavo tornando a casa da scuola. Era una sera primaverile, dolce e fresca. I mandorli erano in fiore, i crochi avevano già fatto la loro comparsa, nel cielo -un cielo nordico in cui indugiava un tocco italiano8 -si mescolavano il blu pastello e il verde mare. Davanti a me vidi Hohenfels; pareva esitare come se fosse in attesa di qualcuno. Rallentai -avevo paura di oltrepassarlo -ma dovetti comunque proseguire perché sarebbe stato ridicolo non farlo e lui avrebbe potuto fraintendere la mia indecisione. L'avevo quasi raggiunto, quando si voltò e mi sorrise. Poi con un gesto stranamente goffo e impreciso, mi strinse la mano tremante. « Ciao, Hans,» mi disse e io all'improvviso mi resi conto con un misto di gioia, sollievo e stupore che era timido come me e, come me, bisognoso di amicizia. Non ricordo più ciò che mi disse quel giorno, né quello che gli dissi io. Tutto quello che so è che, per un'ora, camminammo avanti e indietro come due giovani innamorati, ancora nervosi, ancora intimiditi. E tuttavia io sentivo che quello era solo l'inizio e che da allora in poi la mia vita non sarebbe più stata vuota e triste, ma ricca e piena di speranza per entrambi. Quando infine lo lasciai, percorsi in un batter d'occhio la strada che mi separava da casa. Ridevo, parlavo da solo, avevo voglia di piangere, di cantare e trovai ben difficile non rivelare ai miei genitori la mia felicità, non dire loro che la mia vita era cambiata, che non ero più un mendicante, ma tutt'a un tratto ero diventato una specie di Creso. Per fortuna i miei genitori erano troppo occupati da altro per notare il cambiamento. Ormai erano avvezzi alle mie espressioni cupe e annoiate, alle mie risposte evasive e ai miei silenzi prolungati, che attribuivano alla crescita e alla misteriosa transizione dall'adolescenza all'età adulta. Di tanto in tanto mia madre aveva cercato di far breccia nelle mie difese, qualche volta aveva cercato di accarezzarmi i capelli, ma vi aveva rinunciato da tempo, scoraggiata dall'ostinazione con cui respingevo i suoi approcci. L'incontro non fu senza conseguenze. Dormii male, perché temevo il momento del risveglio. Forse Konradin mi aveva già dimenticato o si era pentito della sua resa. Forse era stato un errore fargli capire che avevo bisogno della sua amicizia. Forse avrei dovuto mostrarmi più cauto, più riservato. Forse aveva parlato di me ai suoi genitori che l'avevano messo in guardia dal diventare amico di un ebreo. Continuai a torturarmi per un pezzo, finché sprofondai in un sonno inquieto. (F. Uhlman, L'amico ritrovato, trad. M.G. Castagnone, Feltrinelli, 1986) 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. von: particella che, in tedesco, precede i cognomi dei nobili, come in italiano “di”, “da” o “de” Caviale: con questa espressione Hans designa un gruppo di compagni che noi definiremmo, ironicamente, la “crema”, i migliori o quelli che si ritengono tali Madame Bovary: celebre romanzo francese dell’Ottocento, scritto da Gustave Flaubert Schiller: poeta, drammaturgo e saggista tedesco del Settecento. L’opinione di Hans è giustificata dalla lontananza dei drammi di Schiller dal gusto moderno Heine…viaggiatori: poeta tedesco ;le sue Impressioni di viaggio ispirano ad Hans il giudizio poco lusinghiero Holderlin…Goethe: poeti e scrittori tedeschi Faust…Amleto: rispettivamente capolavori di Goethe e Shakespeare. un tocco italiano: una pennellata di luminosità, come quella che caratterizza il cielo italiano Antoine de Saint- Exupéry IL PICCOLO PRINCIPE E LA VOLPE Antoine de Saint-Exupéry nacque a Lione il 29 giugno 1900. Pilota civile, dal 1926 compì diversi voli intercontinentali e scomparve durante un volo di ricognizione fra la Corsica e la Francia il 31 luglio 1944. Le sue opere uniscono al carattere documentario un tono lirico, ispirato a una concezione eroica dell’uomo moderno. In quel momento apparve la volpe. « Buon giorno », disse la volpe. « Buon giorno », rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. « Sono qui », disse la voce, «sotto al melo...» « Chi sei?» domandò il piccolo principe, «sei molto carino... » « Sono una volpe », disse la volpe. «Vieni a giocare con me », le propose il piccolo principe, « sono così triste... » «Non posso giocare con te », disse la volpe, « non sono addomesticata ». « Ah! scusa », fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: « Che cosa vuol dire "addomesticare"? » «Non sei di queste parti, tu », disse la volpe, « che cosa cerchi? » « Cerco gli uomini », disse il piccolo principe. « Che cosa vuol dire "addomesticare"?» « Gli uomini », disse la volpe, «hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline? » « No », disse il piccolo principe. «Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare"? » «E’ una cosa da molto dimenticata. Vuoi dire "creare dei legami"... » « Creare dei legami? » « Certo », disse la volpe. « Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo ». «Comincio a capire », disse il piccolo principe. « C'è un fiore... credo che mi abbia addomesticato... » « È possibile », disse la volpe. « Capita di tutto sulla Terra... » « Oh! non è sulla Terra », disse il piccolo principe. La volpe sembrò perplessa: « Su un altro pianeta? » « Sì ». « Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?» « No ». « Questo mi interessa! E delle galline? » « No ». « Non c'è niente di perfetto », sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea: « La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? lo non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano... » La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: « Per favore... addomesticami », disse. « Volentieri », rispose il piccolo principe, « ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose ». «Non si conoscono che le cose che si addomesticano », disse la volpe. «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico a addomesticami! » « Che bisogna fare?» domandò il piccolo principe. «Bisogna essere molto pazienti », rispose la volpe. « In principio tu ti sederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino... » Il piccolo principe ritornò l'indomani. «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora », disse la volpe. «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti ». « Che cos'è un rito? » disse il piccolo principe. «Anche questa è una cosa da tempo dimenticata », disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza ». Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: « Ah! » disse la volpe, «... piangerò ». « La colpa è tua », disse il piccolo principe, « io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi... » « È vero », disse la volpe. « Ma piangerai! » disse il piccolo principe. « E’ certo », disse la volpe. « Ma allora che ci guadagni? » « Ci guadagno », disse la volpe, «il colore del grano ». Poi soggiunse: «Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. « Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto ». Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. « Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente », disse. «Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo ». E le rose erano a disagio. « Voi siete belle, ma siete vuote », disse ancora. «Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa ». E ritornò dalla volpe. « Addio », disse. « Addio », disse la volpe. « Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi ». « L'essenziale è invisibile agli occhi », ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. « E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi importante ». « E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa... » sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. « Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…» «Io sono responsabile della mia rosa...» ripeté il piccolo principe per ricordarselo. (A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, trad. N. Bompiani Bregoli, Bompiani, Milano, !994) K. Gibran L’AMICIZIA Kahlil Gibran, nato in Libano nel 1883, trascorsi alcuni anni dell’adolescenza a Boston, rientrò in patria, ove completò gli studi. Dopo un soggiorno a Parigi, si stabilì negli Stati Uniti, affermandosi come pittore e poeta. Morì a New York nel 1931. E un giovinetto disse: Parlaci dell'Amicizia. Ed egli rispose: L’ amico è il vostro bisogno corrisposto. È il campo che seminate con amore e che mietete rendendo grazie. È la vostra mensa e il vostro focolare. Perché a lui giungete affamati e in cerca di pace. Quando l'amico vi dice quel che pensa, non abbiate timore di dire il no, o il sì, che sono nella vostra propria mente. E. quando è silenzioso, il vostro cuore non cessi di .ascoltare il suo cuore; Giacché, nell'amicizia, senza parlare tutti i pensieri e desideri e aspettative nascono e vengono condivisi con gioia non acclamata. Quando lasciate l'amico, non rattristatevi; Perché ciò che di più amate in lui può sembrarvi più chiaro durante la sua assenza, come la montagna allo scalatore appare più nitida dal piano. E fate che nell'amicizia non vi sia altro fine se non l'approfondimento dello spirito. Poiché l'amore che cerca una qualunque cosa che non sia la rivelazione del proprio mistero non è amore, ma una rete gettata in avanti e si piglia solo ciò che è senza profitto. E che il meglio di voi sia per l'amico vostro. Se egli deve conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca pure il flusso. Poiché che amico è mai il vostro che lo dobbiate cercare nelle ore da ammazzare? Cercatelo sempre nelle ore da vivere. Giacché è il suo bisogno a colmare il vostro bisogno, ma non il vostro vuoto. E nella dolcezza dell'amicizia fate che vi siano risate e piaceri condivisi. Perché è nella rugiada delle piccole cose che il cuore trova il suo mattino e si ristora. (K. Gibran, Il profeta, trad. F. Brambilla, Feltrinelli, Milano, 1981) A.S. 2003/2004 LICEO SCIENTIFICO “G. MARINELLI” ESERCIZI PER L’ATTIVITÀ DEL SECONDO QUADRIMESTRE Il lavoro inizia con il gioco “Bafa Bafa” TEMA: scorci di vita da un’altra cultura 1. INDOVINA COME SI CENA STASERA (Tre testi di ragazzi africani da “Riso, to e tagliolini”: cene; rapporto uomini e donne; rapporto adulti e bambini; ospitalità) COMPRENSIONE - RIFLESSIONE • Elenca le caratteristiche di queste cene che ti colpiscono per la loro diversità rispetto alle nostre abitudini; quali di queste caratteristiche ti paiono positive e quali negative? (invitare in particolare a riflettere sul ruolo dei bambini e sull’ospitalità) • Nella seconda parte della lettera di Coura Seck si descrive anche una nostra cena: ti riconosci in quanto detto? Quali delle caratteristiche descritte ti paiono positive e quali negative? (invitare in particolare a riflettere sul ruolo e sul comportamento dei bambini e sull’ospitalità) • Rifletti sul pensiero finale della lettera di Coura Seck: quale delle due culture da lei citata è la nostra? In quale delle due idee di educazione ti riconosci? Motiva la tua scelta. SCRITTURA • Racconta una tua cena. • immagina di osservare una tua cena con gli occhi di uno straniero. • Come immagini e come vorresti che fosse, in una tua futura famiglia, il momento del pasto? Spiegalo o immagina il racconto di una cena. 2. F. Mernissi PRANZO NELL’HAREM (pagine da “La terrazza proibita”:la mancanza di privacy in una casa -harem) COMPRENSIONE - RIFLESSIONE • Il testo presenta in tutt’altra luce i pasti comunitari descritti dai ragazzi delle lettere che hai letto; a cosa pensi sia dovuta questa diversità di giudizio? Quanto ritieni sia importante la privacy nella tua vita? 3. W. Dirie, VITA DA NOMADE (pagine da “Fiore del deserto”: la vita dei bambini nomadi; il senso del tempo per il nomade) COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • Individua ed elenca le caratteristiche di: abitazioni, occupazioni dei bambini, alimentazione, rapporti con i vicini (I brano) SCRITTURA • Scrivi un riassunto del primo brano in terza persona. • Il secondo brano, nel riportare la meraviglia di Waris di fronte alla nostra concezione del tempo, è anche un esempio di come “gli altri” ci vedono; prova a scrivere un brano analogo su un’altra caratteristica della nostra società (uso del computer, tutela della privacy, burocrazia, uso delle automobili, vacanze estive e invernali…) • Quale valore dai tu al tempo? Sei soddisfatto dei tuoi ritmi di vita? Scrivi le tue riflessioni in proposito, oppure scrivi un racconto in cui immagini la vita nella società del tuo “tempo ideale”. Si può suggerire la lettura del breve romanzo di Ende “Momo”, che mostra quanto sia indispensabile un rapporto rilassato con la risorsa “tempo”, per avere relazioni umane autentiche e in generale una vita serena, pur se laboriosa. 4. Y. Tawfik, UN’INFANZIA FELICE (pagine da “La straniera”: rapporti genitori figli in una famiglia irakena) COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • La vita del protagonista, durante l’infanzia e l’adolescenza, è fatta di cose semplici, ma ha l’impronta della serenità e della felicità. Elenca le situazioni, le circostanze, i rapporti, tutto quanto sta, secondo te, alla base di questa serenità. • Il brano termina con un accenno all’Italia; condividi la visione che viene data del nostro paese dalla zia materna del protagonista? Secondo te su quali dati si basa questo giudizio? Come vorresti che le rispondesse il protagonista? 5. M. Mokedden, NELLA TESTA UN GRANELLO DI SABBIA (pagine da “Gente in cammino”: la ribellione al matrimonio come imposizione) COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • La “follia” di Leyla: - Che cosa sogna Leyla per il suo futuro? Perché le sembra una cosa irreale? - Quali sono i motivi della reazione di Leyla di fronte alla prospettiva del matrimonio? Analizza i diversi aspetti (lo studio, il rapporto con la famiglia, la sua idea di matrimoni, ecc.), individuando i riferimenti al testo. ANALISI TESTUALE • Individuare il sistema dei personaggi • Analizzare il ruolo dello spazio • Individuare la focalizzazione usata SCRITTURA • Uno dei principali temi del brano che hai letto è il rapporto tra la libertà individuale e le prerogative della famiglia (intesa in senso lato come l’insieme di genitori, fratelli, sorelle, nonni, zii, cugini) nella progettazione del destino dei suoi membri più giovani. Analizza in classe come questo rapporto si realizza nella nostra società e sintetizza per iscritto le osservazioni emerse. N.B. naturalmente, se l’insegnate lo ritiene opportuno, l’esercizio può limitarsi alla sola discussione in classe. Si suggerisce di tenere presenti i seguenti punti: o quali decisioni vengono prese dai genitori; o quali vengono prese insieme da genitori e figli; o quali vengono prese solo dai figli; o eventuali differenze tra la libertà di prendere decisioni riservata alle figlie femmine e quella lasciata ai maschi; o quali altri membri della famiglia (nonni, fratelli / sorelle, zii, cugini) partecipano o influenzano le decisioni riguardo i figli. Nel caso vi siano allievi stranieri, si potrebbe tentare un confronto tra quanto emerso dalla analisi precedente e le tradizioni delle altre culture di provenienza. TEMA: il desiderio di non essere diversi 6. A. Soueif “L’anima di un rocker” (pagine da “Aisha”) COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • Il peso della diversità Aisha soffre molto per il suo aspetto e per il suo modo di comportarsi che la identifica immediatamente come “straniera”. Di quali caratteristiche si tratta? Rispondi citando il testo. Spesso sono l’atteggiamento e le parole delle persone a farle pesare la sua diversità. Rintraccia nel testo esempi significativi distinguendo tra atteggiamenti apertamente “ostili”, paternalistici o semplicemente curiosi. • Stereotipi e realtà Aisha è presa di mira dalle sue compagne di scuola per il fatto di essere egiziana, che fa scattare nelle ragazze lo stereotipo dell’immigrato povero e ignorante. Perché in realtà è possibile dire che Aisha non corrisponde in nessun modo all’idea pregiudiziale che si ha di lei? ANALISI TESTUALE • Individuare narratore e focalizzazione SCRITTURA • racconta un episodio in cui tu stesso seiu stato vittima di stereotipi o ti sei mostratocondizionato da stereotipi nel giudicare qualcuno. • Riscrivi sinteticamente il racconto in terza persona e con focalizzazione zero, inserendo perciò anche eventuali riflessioni. 7. N. Chohra, COMUNIONE E PECCATO (pagine da “Volevo essere bianca”) COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • Il brano presenta le differenze tra la religione cattolica e quella islamica viste con gli occhi di una bambina: elenca le caratteristiche, secondo la protagonista di ciascuna delle due religioni. • Le idee della bambina presentano le due religioni in modo riduttivo: quali aspetti del modo di vivere la religione cattolica e quella islamica possono aver contribuito a creare certi stereotipi nell’immaginario della bambina? SCRITTURA • Riscrivi in sintesi il brano, trasformandolo in terza persona e con un narratore onnisciente che spieghi i motivi del comportamento di Nassera. TEMA: l’identità flessibile / in evoluzione 8. K. Komla-Ebri, MAL D’AFRICA, MAL D’EUROPA COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • Quali tra i seguenti sostantivi spiegano meglio l’atteggiamento della cognata nei confronti della ragazza? Per ognuno spiega la tua scelta con precisi riferimenti al testo. superiorità / ostilità / irrisione / insensibilità. • Quali tra i seguenti sostantivi spiegano meglio l’atteggiamento del fratello della ragazza nei confronti dell’Africa e della loro cultura? Per ognuno spiega la tua scelta con precisi riferimenti al testo. vergogna / rifiuto / indifferenza / nostalgia • Prova a descrivere i diversi comportamenti degli africani e degli europei nei confronti degli ospiti. Quali differenze noti? Secondo te queste differenze sono determinate da: differenti modelli culturali / differenti stili di vita / maggiore egoismo degli europei / maggiore disponibilità degli africani, che, a contatto con la vita frenetica degli europei tenderà fatalmente a diminuire. • L’insegnate divide la classe in due gruppi; ai ragazzi del primo chiede di scrivere l’elenco dei cibi italiani che più apprezzano e di cui sentirebbero maggiormente la mancanza all’estero; al secondo l’elenco dei cibi che si possono considerare “tipicamente italiani”. Si confrontano poi i due gruppi e si riflette su corrispondenze e differenze. ANALISI TESTUALE • Individua narratore e focalizzazione • Tempo del racconto / tempo della storia SCRITTURA • Di che cosa potresti provare nostalgia, se ti allontanassi dalla tua realtà? Nota: sarebbe interessante confrontare la duplice nostalgia della protagonista del racconto e le modificazioni alla sua identità con le esperienze dei ragazzi di ritorno da uno scambio annuale; si potrebbe anche chiedere agli allievi se conoscono persone immigrate da intervistare. 9. K. Komla-Ebri, UNA STRANA COPPIA DI NONNI COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • Perché ai nonni viene rivolta l’accusa di essere incoscienti? rispetto a che cosa sarebbero stati “incoscienti”? • Nel suo racconto il nonno fa riferimento a coppie miste che non andavano d’accordo. Quali argomenti vengono addotti da queste coppie per giustificare il loro fallimento? quali sono invece le vere ragioni di questi fallimenti? • Facendo riferimento alle parole del nonno e con l’aiuto del dizionario, spiega con parole tue il termine “etnocentrismo”. ANALISI TESTUALE • Individua narratore e focalizzatone • Osserva il valore dello spazio • Quale caratteristica dà al racconto l’uso massiccio del discorso diretto? • Distingui il tempo della storia e il tempo del racconto; individua le analessi . SCRITTURA • Rifletti sulle difficoltà, ma anche sulle opportunità di crescita che può vivere una famiglia multietnica. 10. S. Moussa Ba e A. Micheletti, NEGRI TURCHI, TERRONI COMPRENSIONE – RIFLESSIONE • Stereotipi, pregiudizi, paure Secondo te, cosa temono maggiormente i genitori di Walter? di essere confusi con i meridionali perché provano disprezzo per loro / di essere confusi con i meridionali perché i tedeschi ne parlano male / di sfigurare di fronte ai genitori della fidanzata di Walter / che i genitori della fidanzata giudichino male Walter. L’appartenenza religiosa della fidanzata è motivo di fastidio per la madre di Walter. Perché? perché voleva una cerimonia in chiesa per il matrimonio del figlio e vi deve rinunciare / perché teme che possano nascere contrasti tra i due sposi / perché teme il giudizio dei suoi parenti / perché disprezza tutti i protestanti. Servendoti di precisi riferimenti al testo, rintraccia, nella conversazione degli zii, parole e frasi che si riferiscono ai meridionali. Dopo aver esaminato queste espressioni, prova a definire quale immagine di meridionale emerge. Che cosa ne pensi di questa immagine? Discutine con i compagni. SCRITTURA • Trasforma il racconto (sinteticamente) in una pagina di diario di Antonio. INDICE dei TESTI INDOVINA COME SI CENA STASERA. Fatima Mernissi PRANZO NELL’HAREM Waris Dirie VITA DA NOMADE Younis Tawnik UN’ INFANZIA FELICE Malika Mokeddem NELLA TESTA UN GRANELLO DI SABBIA Ahdaf Soueif L’ANIMA DI UN ROCKER Nassera Chohora COMUNIONE E PECCATO Kossi Komla-Ebri MAL D'AFRICA, MAL D'EUROPA Kossi Komla-Ebri UNA STRANA COPPIA DI NONNI Saidou Moussa Ba Alessandro Micheletti NEGRI, TURCHI E TERRONI La s o c i e t à i n t e r c u l t u r a l e INDOVINA COME SI CENA STASERA. Le tre lettere che seguono sono tratte dal libro “Riso, to e tagliolini”, che raccoglie la corrispondenza intercorsa tra studenti del Senegal, del Burkina Faso e di Torino, all’interno di uno scambio realizzato tra le loro scuole. “Dalle nostre parti funziona così” di Evariste Sawadogo Caro Fabrice, nel prendere la penna per scriverti, ho pensato soprattutto di raccontarti le più belle storie della nostra regione, che mio nonno narra generalmente dopo cena. Oggi si trattava della sconfitta fatale della iena di fronte al più astuto degli animali, la lepre, in una gara che consisteva nel divorare un piatto di peperoncini senza demordere. Mio nonno terminava la storia con una morale: in ogni cosa, bisogna aver pazienza e riflettere prima di agire. Insomma, è stato dopo questo consiglio che, ispirato dalla temperatura mite della notte e dalla bellezza degli astri, ho deciso di inviarti questa lettera così lunga e che spero ti farà piacere. Il nostro rapporto di amicizia ha sempre privilegiato i racconti di vita quotidiana e soprattutto la. condivisione dei nostri patrimoni culturali. La tua ultima lettera mi ha permesso non solo di capire chiaramente che cosa sia una mucca pazza ma anche di vedere uno dei lati oscuri del progresso scientifico. Oggi mi fa piacere parlarti dei pasti africani e in particolare di come si cena dalle nostre parti.' Infatti, da noi mossi, il pasto, sembra essere una cosa sacra. Non puoi immaginare come siano le braccia dei nostri abili contadini, doloranti a forza di scavare nei campi pieni di sassi e molto spesso disseccati dall'assenza dell'acqua. La minima pioggia è l'oggetto di una grande smania. Per questo, il modo di disporre il cibo esige un certo ordine. Non si mette mai la salsa prima del to che è il cibo principale dei mossi. La cena è la principale occasione d'incontro, in quanto tutta la famiglia si trova riunita. Prima del crepuscolo, mia madre o mia sorella, secondo i giorni, si dedicano alla preparazione di due pentoloni, posati uno su un comodo focolare di tre sassi, l'altro su di un "focolare migliorato" per la salsa. La cottura del cibo coincideva con la presenza di tutta la famiglia. Per mio padre è un'esigenza. Desiderava che si cenasse assieme la sera. Mia madre serviva il cibo in tre grossi piatti: uno per gli uomini, un altro per le donne, il terzo per i bambini più piccoli. In quel momento, la saliva riempiva la bocca e lo stomaco ci rimbrottava soprattutto quando la mamma preparava la zuppa con il cosciotto della carne portata da mio padre. Carissimo Fabrice, nel momento in cui ti parlo, sento fuori i bambini svagarsi alla luce della luna, mentre alcuni continuano ad ascoltare il nonno con attenzione. Sento ugualmente la voce rauca del vicino che ride a crepapelle con papà. Era venuto a sincerarsi della salute della famiglia, capitando esattamente nel momento in cui il cibo era deposto presso il nonno. Mio padre lo invitò a cenare con noi. Finse di declinare l'invito, ma cedette alle insistenze del nonno e si accomodò nella poltrona di legno di liana che gli aveva portato il mio fratellino Sylvain. La mamma aveva portato il cibo e aveva augurato buon appetito a tutti. Eravamo sei attorno al piatto: il nonno, papà, il vicino, mio cugino, Sylvain ed io. Il vicino, essendo il più vecchio, ha avuto la precedenza nel lavarsi le mani. Tenendo l'acqua nelle sue mani, Sylvain lasciò che il vicino si lavasse; poi quest'ultimo ringraziò il nonno che immerse la sua mano callosa nel secchio che teneva Sylvain. Dopo, fu il turno di mio padre, in seguito quello di mio cugino e poi potei pulirmi io le mani. Prima di tutto, la preghiera, pronunciata da mio padre. Il primo boccone toccava a mio nonno, ed era una sequenza identica a quella del lavaggio delle mani. Per noi giovani, il pasto si svolgeva in un silenzio olimpico. Solo gli adu1ti potevano evocare, in modo succinto, i fatti che hanno segnato la giornata, o i raccolti dell'anno, che sono stati particolarmente scarsi a causa della mancanza. di pioggia. Nel corso della cena, mio padre mi ha rimproverato il fatto che quando si trattava del to, io mi accontentavo di bocconi contabili sulle dita di una mano. Infatti, spesso mi recavo presso la zia Zenabou, sul bordo della grande strada, per rimpinzarmi di un buon piatto di fagioli, di maccheroni o di patate annegate nell'olio d'arachidi e un po' piccanti. Una moneta da 100 franchi basterebbe per pagare la mia cena. In seguito, compravo dieci franchi d'acqua bella fresca per facilitare la digestione. Non che disprezzassi la cucina di mamma. Anzi, non ho mai avuto dubbi sulle sue doti culinarie, tanto buone che i vicini e gli invitati si leccavano le dita da staccarsi la pelle. Semplicemente, mi stufo di magiare la stessa cosa durante la cena. A mezzogiorno, il cibo è in genere più vario. .Il vicino non ha smesso un attimo di criticare la cucina di sua moglie per vantare quella di mamma. A casa sua regnava l'eterna "foglia di baobab". Raccontava tutto questo in modo ironico e il nonno fu costretto di ricordargli che era a tavola. Mio padre gli fece sapere che dava raramente del denaro per i condimenti, ma non cessava di ripetere che il suo dovere era che non mancasse mai il miglio. AI termine del pasto, fu il vicino che si alzò per primo, seguito da mio nonno e così di seguito fino a mio fratellino, che riportò i piatti alla mamma. Il vicino ringraziò i miei genitori e andò singolarmente a felicitare mia madre per il pasto delizioso. Poi gli fu offerta una tazza d'acqua per dissetarsi. Poco dopo, i bambini si riunivano attorno al nonno e io ero contento di ritrovarti tra queste righe. Mi piacerebbe ritrovarti presto con una lettera più lunga. Spero che ti abbia fatto piacere leggere quello che ti ho scritto. Anche tu potrai parlarmi della tua cena. Ti auguro di passare dei momenti felici con la tua famiglia. Arrivederci e a presto. “Cena in famiglia” di Ouangré Londry Il sole aveva appena terminato il suo corso giornaliero. Il nonno camminava allegramente dietro allo zio Tibila e a mio padre Basga, tutti visibilmente prostrati dai lavori nei campi, ma impazienti di tornare a casa, da cui erano partiti sin dal primo canto del gallo. Dopo di loro, io rincorrevo .la mandria che controllavo con difficoltà. Manifestavo tuttavia la gioia di poter infine ritornare a casa, proprio come i miei compagni pastori che la boscag1ia riversava nel villaggio sul far della notte. La mia gioia era ancora più intensa e si manifestava attraverso le grida inconsapevoli che emettevo e che contribuivano a disperdere i miei animali. D'altronde non poteva essere altrimenti quando pensavo al piatto che mi sarebbe stato servito e al riposo dopo questa dura fatica quotidiana. Giunto a casa, mi affrettai a far rientrare, le bestie e a versarmi un po' d'acqua sul corpo per rinfrescarmi. In seguito, raggiunsi il cerchio degli anziani riuniti nel bel mezzo del cortile del nonno, intenti a scambiarsi racconti e consigli. Poco tempo dopo, la zia Iempoaka che era rimasta a casa per prendersi cura della nonna e dei miei fratellini, arrivò e si inginocchiò. Dopo alcuni salame lecchi, annunciò l'arrivo della cena e ripartì. "Che bella notizia! Ma, anziché parlare, la zia avrebbe potuto darsi da fare a cucinare ed ,evitare a noi lavoratori l'attesa impaziente" mi dissi. Ad un tratto, i volti dapprima pallidi divennero rosei. La zia Iempoaka ritornò, accompagnata da mia madre. Nuovi salamelecchi, poi si inginocchiarono e posarono due piatti ugualmente profondi: un piatto pieno di "tò" di sorgo rosso e un altro colmo di salsa ben fumante. Alla vista del colore del "tò", mi permisi di fare un breve riassunto della mia lezione sulla circolazione del sangue. Ma non era il momento propizio per la ricreazione. Il nonno, che aveva appena finito un racconto, tacque e fu imitato nel suo silenzio. "Il re cibo ha orrore delle chiacchiere e spiccherebbe in volo se non lo si rispettasse" ci aveva confidato nonna Sidsaya. Le donne ripartirono e tornarono con dell'acqua. Una parte dell'acqua era in un piatto profondo in terracotta per lavare le mani. Il resto in una zucca per bere. Mia madre, che teneva il piatto in terracotta, si inginocchiò vicino al nonno prima di pregarlo di lavarsi le mani. Quando egli ebbe finito, mia madre passò successivamente davanti allo zio Tibia e a mio padre ed infine davanti a Biba, mio zio materno che era venuto a farci visita. Quando arrivò il mio turno, presi l'acqua, la posai davanti a me e mi lavai le mani prima di passarla ai miei fratellini. Quand'ebbero finito, il nonno invitò tutti ad avvicinarsi. Obbedimmo. I miei fratellini ed io prendemmo i piatti per l'orlo con la mano sinistra. Il nonno immerse la sua mano nel grande piatto ben riempito di "to" e ne riemerse con un grosso boccone che sarebbe in seguito stato affondato nella salsa prima di posarlo a terra dicendo: "Antenati, ricevete questo ed inviateci la vostra benedizione". Mio padre l'imitò ma chiamando il cane. Passò il "to" nella mano sinistra e chiamò il cane che non si fece pregare e lo divorò golosamente. Avrebbe indicato ogni cattivo segno. Dopo questo cerimoniale, gli anziani cominciarono a mangiare e, quando tutti ebbero immerso le loro mani, noi li seguimmo. Le mani si succedevano adesso nei..; piatti. L'abilità degli uni e degli altri permise di evitare che le mani si incontrassero. Nel frattempo, zia Iempoaka, mia madre e mia nonna si riunirono attorno al loro pasto proprio accanto alta cucina. 'Ogni tanto si poteva sentire la nonna parlare, ma è sempre stata di poche parole... Le rughe sui nostri volti, le rughe che la fame aveva disegnato, fecero posto alla lucentezza. Il nonno, che era il solo autorizzato a parlare, apprezzò la salsa di gombo fresco di zia Iempoaka. Il cerchio si accontentò di approvare con un cenno del capo. Egli parlò in seguito dei benefici della stagione piovosa prendendo a testimone la nostra salsa di gombo. Molto in fretta, i piatti si svuotarono del loro contenuto. Gli sguardi, grazie alla luce pallida della lampada, s'incrociavano e si abbassavano in segno di riconoscenza. Gli anziani si lavarono le mani, poi mio padre chiamò zia Iempoaka e chiese da mangiare per noi. Un altro piatto di "tò" fu presentato e noi non impiegammo molto tempo a svuotarlo. Quando tutti si furono lavati le mani ed ebbero bevuto l'acqua per unire l'utile al dilettevole, il nonno ringraziò ancora gli antenati prima di ricominciare i suoi racconti. . In segno di soddisfazione generale, i rutti scaturirono da ogni dove. In quel preciso momento, dei colpi risuonarono alla porta. Il nonno rispose. Uno sconosciuto entrò. lo ero scontento di sapere che il cibo che doveva servire da colazione per il mattino seguente gli sarebbe stato presto offerto. Dovevo quindi recarmi al campo con la pancia vuota. Lo zio Tibila fece portare dell'acqua e del "tò" al nostro ospite. Questi mangiò, bevve, conversò e se ne andò. Il nonno richiamò all'ordine del giorno un consiglio che non cessava di darci: "il pasto non si rifiuta all'ospite, ed ogni uomo, chiunque sia, è un ospite". La mia coscienza cacciò via l'idea ipocrita ed egoista che mi pervadeva e realizzai il senso acuto della solidarietà e dell'unione nel villaggio. Adesso io tuonavo di rabbia pensando agli uomini della città. Questi sedicenti cittadini i cui pensieri si soffermavano su un solo argomento: la "pancia". Questa gente che ignora Dio sul lavoro e che canta mangiando. Questi cittadini della civiltà che richiama l'uomo nelle sue bassezze, fuggendo i mendicanti e rifiutando loro l'acqua da bere. Ruttai ancora una volta, pensai alla mia cena. Pensai al senso di rimpianto che avrei provato se fossi restato in città. La notte che già copriva il villaggio col suo spessore s'appesantì molto di più e, colti da stanchezza, ci coricammo e il sonno ci trasportò nelle sue profondità. Nulla di più normale! “Le mie cene” di Coura Seck Io mi chiamo Coura, ho 17 anni e vivo a Torino ma non sono italiana, vengo dal Sénégal in Africa. Vivo a Torino solo da due anni e mezzo; infatti, sono partita dal mio paese d'origine quando avevo 14 anni e mezzo per raggiungere la famiglia, anzi per lasciare una famiglia e raggiungerne un'altra. Diciamo che ho due famiglie con differenti caratteristiche di lingua, razza, cultura, religione. E' per questo che vi racconterò -anziché la mia cena - le mie cene, vissute in momenti e spazi differenti e soprattutto con modalità diverse. Il mio racconto inizia dal passato... ricordo che era una sera qualunque ed ero ancora in Sénégal. Strano ma vero: in genere le famiglie africane sono molto allargate, invece la mia, pur sempre numerosa, era diversa dalla solita famiglia africana -almeno nell'ultimo periodo -perché in quegli anni tutti gli zii e le zie erano andati nelle altre città: chi per studiare, chi per lavorare o -nel caso delle donne, mia mamma compresa -per vivere a casa dei loro mariti; insomma in famiglia eravamo rimasti io, mia nonna, una cugina, un nipote di mia nonna e uno zio, non c'erano né papa né mamma; in più avevamo un ospite: un adolescente che durante l'anno scolastico stava con noi per studiare e durante le vacanze ritornava a Dakar, la sua città. La cena. Ricordo che mio zio non arrivava mai all'ora di cena, ma sempre dopo, per cui bisognava lasciargli la sua parte e incominciare a mangiare noi. A mia nonna, abituata a mangiare con tante persone, noi non bastavano mai, anche se eravamo un bel numero. Infatti tutte le sere alle 7:55 in punto mandava me o mia cugina nelle case delle vicine per chiamare qualcuno che venisse a farci compagnia. Quando trovavamo una o due persone disposte a mangiare con noi, potevamo iniziare. In Sénégal si mangia tutti quanti insieme in un unico piatto, grandi e piccoli, ospiti e non. Anche se in altre famiglie i grandi mangiavano da una parte e i piccoli dall'altra, mia nonna preferiva che anche noi piccoli partecipassimo al pranzo, per "insegnarci a mangiare” diceva sempre: "Anche per mangiare ci vuole educazione, perché mangiare è una cosa e saper mangiare è un'altra". Infatti noi bambini non eravamo liberi di mangiare come volevamo, c’erano delle regole da seguire. Prima di tutto eravamo seduti sul tappeto messo per terra intorno al grande piatto, mentre le poche sedie che c'erano non erano per noi, ma per i grandi. Noi bambini dovevamo essere seduti in un determinato modo, non importava se scomodo o no, tutti con l’indice che teneva il grande piatto perché non si muovesse neanche di un centimetro; nemmeno noi potevamo muoverci più di tanto, dovevamo stare fermi e zitti sempre con lo sguardo basso, non ci si guardava l'un l’altro e tanto meno si guardava la tv. I grandi invece avevano più libertà soprattutto i maschi che potevano sedersi sulle sedie e mangiare col cucchiaio, cosa che neanche le donne potevano fare, perché il loro compito era quello di tagliare o la carne o la verdura non solo per loro ma anche per noi bambini, che non avevamo il diritto di allungare le mani più di tanto, e poi per i maschi che non si dovevano sporcare le mani. Diciamo che era come una catena, il più piccolo rispettava il più grande e il più grande rispettava il più anziano e così via, per cui i grandi ci davano ordini su come comportarci a tavola e nello stesso tempo li ricevevano da mia nonna che era la più anziana. A parte l'ospite che ormai faceva parte della famiglia, quando ne arrivava un altro bisognava essere ancora più educati. Innanzi tutto gli ospiti non avvisavano mai del loro arrivo, non ti chiamavano né ti scrivevano, insomma te li trovavi davanti da un momento all'altro per cui bisognava sempre preparare due porzioni in più del dovuto, perché non si sa mai; se poi gli ospiti non arrivavano, il cibo si portava alla casa più vicina dei discepoli o a qualcun altro che ne aveva bisogno. Infatti in casa mia c’era un piatto chiamato "il piatto degli ospiti”; mia nonna preferiva preparare prima quel piatto e poi il nostro, anche perché -diceva -"Bisogna sempre dare il meglio di sé". Quindi se si preparava il riso con la carne, il pezzo più grosso della carne andava agli ospiti e a noi quello che rimaneva, perché l'ospite è molto importante. Infatti c'è un detto che dice "l’ospite è colui che viene a curiosare e andrà a dire ciò che ha visto in giro, perciò è meglio trattarlo bene". E oggi? una cena qualunque in via Belfiore a Torino? Oggi è diverso. Anche se questi paesi -l'Italia e il Sénégal - non sono poi cosi lontani, spostarsi dall'uno all'altro è come saltare da un pianeta in un altro mondo. Se devo dire la verità, le prime cene che ho fatto nella mia seconda "famiglia" all'inizio mi hanno stupito; adesso non più, anzi potrei stupirmi se un giorno dovessi ritornare alla mia famiglia d'origine, forse non saprei più come comportarmi a tavola. Bene, adesso vi dirò perché mi sono stupita delle mie cene in Italia: innanzi tutto non ho più ritrovato quella catena di cui ho parlato prima o, se l'ho trovata, va nel verso opposto, cioè i piccoli hanno più "voce in capitolo" dei grandi, ma - mentre i grandi sanno quali sono i comportamenti accettabili o non sia nella società sia nella famiglia -ai piccoli invece nessuno ha mai insegnato come comportarsi, forse perché non c'è nessuna nonna che dia ordini ai grandi in modo che poi questi li trasmettano ai piccoli. Per fortuna in Italia si mangia ancora tutti insieme (più o meno), ma non nello stesso grande piatto e nemmeno con le mani: ognuno ha il proprio piatto, le sue posate e il suo bicchiere, mentre in Senegal si beveva tutti nello stesso bicchiere. Sono poi passata dal tappeto per terra al tavolo; per stare seduti i bambini hanno bisogno non solo di una sedia come i grandi, ma anche di un cuscino o di qualcosa che li faccia stare più in alto: altro che dare le sedie ai grandi, se mai sono i grandi che le danno ai piccoli! Inoltre mi domando: a che cosa servono le sedie dal momento che i bambini non stanno mai seduti? Sono sempre in piedi e ogni boccone è seguito da una passeggiata tra la sala da pranzo e le camere o il bagno. Alla fine non mangiano neanche, perché oltre alla passeggiata sono presi dalla tv, tanto che non potendo mangiare da una parte e avere la testa girata dall'altra, per non farsi venire il torcicollo preferiscono non mangiare piuttosto che rinunciare aria televisione. Il ruolo dei grandi? lo penso che possiamo anche saltarlo dal momento che è stato violato dai piccoli. Passiamo invece alla posizione dell'ospite. Veramente io di ospiti non ne vedo, l'unica sono io, e poi dov'è andato a finire il "piatto degli ospiti", se mai dovessero arrivare? è sparito anche quello. La pasta viene misurata contando i componenti della famiglia; e se arrivasse qualcun altro? Ma gli ospiti in Italia avvisano prima! Però se colui che viene non conosce questa abitudine, per esempio un africano? Mangia quello che c'è! Infatti è successo che i senegalesi si sono presentati, così senza avvisare, e la mia "mamma italiana" era un po' scocciata perché non abituata a ricevere ospiti senza preavviso; anche mio padre, che è senegalese, non è più abituato a vedersi piombare gente in casa da un momento all'altro, insomma l'unica che pensa sia una cosa normale sono io. Da questo confronto ho dedotto aspetti significativi sulla diversità: uno di questi è il modo di ragionare delle diverse culture: in una si dice che il bambino crescendo impara a distinguere il bene dal male, l'altra gli insegna a distinguerlo già nei suoi primi anni di vita. (Riso, to e tagliolini, pubblicazione a cura del Comune di Torino, 2000) Fatima Mernissi PRANZO NELL’HAREM Nata nel 1940 a Fez (Marocco) Fatima Mernissi è considerata in tutto il mondo una delle più autorevoli ed originali intellettuali dei paesi arabi, grazie al suo innovativo lavoro di sociologa e studiosa dell’Islam. Nota anche in Italia per i libri Charazad non è marocchina, Le donne del Profeta, Le sultane dimenticate, si è sempre distinta per le coraggiose prese di posizione a favore della libertà femminile, che giudica perfettamente compatibile con i precetti del Corano. Ha completato la sua formazione accademica studiando alla Sorbona e alla Brandeis Univerity negli USA e oggi insegna all’Università Mohammed V di Rabat, in Marocco. Nel romanzo La terrazza proibita, la scrittrice narra la sua infanzia, trascorsa in un harem, ossia un’ampia casa in cui convivono le famiglie di due fratelli (suo padre e lo zio) assieme a molte donne loro imparentate e ai servitori. Il racconto fa giustizia della visione stereotipata dell’harem, ma nello stesso tempo mostra con chiarezza come questo sia il simbolo della sottomissione delle donne alle regole degli uomini e un luogo da cui esse non possono uscire senza permesso. Nelle vicende raccontate dalla scrittrice emerge continuamente il contrasto tra tradizione e modernizzazione, l’intreccio tra l’orgogliosa difesa della propria cultura e il desiderio di libertà femminile. […] Si mangiava sempre a orari rigidamente stabiliti, e mai tra un pasto e l'altro. Dovevamo sederci ai posti prescritti intorno a uno dei quattro tavoli comuni. Il primo tavolo era riservato agli uomini, il secondo alle donne di una certa importanza, e il terzo ai bambini e alle donne di minore importanza, il che ci rendeva felici, perché significava che la zia Habìba poteva mangiare con noi. L'ultimo tavolo era destinato ai domestici e a chiunque arrivasse in ritardo, senza distinzioni di età, rango e sesso. Quel tavolo era spesso affollato, ed era l'ultima possibilità in assoluto di trovare qualcosa da mangiare, per quelli che avevano commesso l'errore di non arrivare in tempo. Mangiare a orari fissi era quello che mia madre più detestava della vita in comune. Insisteva di continuo con mio padre perché lasciasse la casa natia e portasse la nostra famiglia a vivere per conto suo. […] Soprattutto, era il pranzo a orario fisso, quello che mia madre non riusciva a mandar giù. Era sempre l'ultima a svegliarsi, e le piaceva indugiare in una tarda e generosa colazione che si preparava da sola, con ostentato tono di sfida, sotto lo sguardo di disapprovazione di nonna Làlla Mànì. Si preparava uova strapazzate e baghrìr, crespelle sottili ricoperte di miele puro e burro fresco, accompagnate da tè in abbondanza. Di solito mangiava alle undici in punto, proprio quando Làlla Mànì si accingeva a dare inizio ai rituali di purificazione per la preghiera di mezzogiorno. E, una volta fatta quella colazione, due ore dopo, alla tavola comune, mia madre spesso era assolutamente incapace di fare onore al pranzo. A volte lo saltava del tutto, specialmente quando voleva infastidire mio padre, perché saltare un pasto era considerato un atto di tremenda maleducazione, oltre che di aperto individualismo. Il sogno di mia madre era quello di vivere sola con suo marito e i suoi figli. «Chi ha mai sentito di una decina di uccelli che vivono tutti insieme, stipati in un solo nido?», era solita dire. «Non è naturale vivere in gruppo, a meno che l'obiettivo non sia quello di fare star male le persone». Mio padre, pur ribattendo che lui non ne sapeva molto sul modo di vivere degli uccelli, simpatizzava con la mamma, e si sentiva combattuto fra i suoi doveri verso la famiglia tradizionale e il desiderio di far felice sua moglie. Si sentiva in colpa all'idea di tradire la solidarietà della famiglia, poiché sapeva fin troppo bene che le grandi famiglie in generale, e la vita dell'harem in particolare, stavano rapidamente diventando reliquie del passato. Arrivava a profetizzare che nei prossimi decenni saremmo diventati come i cristiani, che non andavano quasi mai a fare visita ai loro anziani genitori […] «Finché mia madre è in vita», diceva spesso, «non tradirò la tradizione». Tuttavia mio padre amava sua moglie, e gli dispiaceva a tal punto non poterla accontentare che non si stancava mai di proporle compromessi, uno dei quali, per esempio, era quello di rifornirle un’ intera credenza di provviste per lei sola, nel caso volesse mangiare qualcosa, sempre con discrezione, a parte dal resto della famiglia. Infatti, uno dei problemi della casa comune era che, se qualcuno, per caso, aveva fame, non poteva semplicemente aprire il frigorifero e agguantare qualcosa da mangiare: in primo luogo, non c'erano frigoriferi a quel tempo; secondo, e più importante, l'idea di fondo dell'harem era che tutti dovevano adeguarsi ai ritmi del gruppo, per cui era inammissibile che un singolo individuo potesse prendere e mangiare solo perché gliene era venuta voglia. Lalla Ràdiya, la moglie di mio zio, aveva la chiave della dispensa, e anche se dopo cena chiedeva sempre cosa volevamo mangiare il giorno dopo, si doveva comunque accettare quello che il gruppo - al termine di lunghe discussioni - aveva stabilito. Se il gruppo si accordava per il cuscùs con ceci e uva passa, quello ti toccava. E se per caso non ti piacevano i ceci e l'uva passa, non avevi altra scelta che star zitto, e accontentarti di un frugale pasto a base di poche olive e molta discrezione. «Che perdita di tempo», diceva mia madre, «queste discussioni interminabili sui pasti! Gli arabi starebbero molto meglio, se lasciassero decidere a ogni singolo individuo quello che vuole mangiare. Forzare tutti a condividere tre pasti al giorno non serve ad altro che a complicare la vita. E per quale sacro proposito? Nessuno, questo è certo». Quindi proseguiva, dicendo che la sua intera esistenza era un'assurdità, che niente aveva senso, mentre mio padre continuava a risponderle che non poteva lasciare tutto quanto. Se lo avesse fatto, sarebbe morta la tradizione: «Viviamo in tempi difficili, il paese è occupato da eserciti stranieri, la nostra cultura è minacciata. Le tradizioni sono tutto quello che ci resta». A questo ragionamento, mia madre usciva completamente dai gangheri: «Tu pensi davvero che stare tutti pigiati in questa casa assurda ci darà la forza necessaria a cacciare gli eserciti stranieri? E cosa è più importante, per te, la tradizione o la felicità della gente?». Questo metteva bruscamente fine alla conversazione. Papà cercava di accarezzarle la mano, ma lei la ritirava. «La tua tradizione mi sta soffocando», gli sussurrava, con gli occhi pieni di lacrime. Così papà continuava a offrirle dei compromessi. Non soltanto faceva in modo che mia madre avesse le sue provviste personali, ma le portava anche cose che sapeva a lei gradite, come datteri, noci, mandorle, miele, farina e olii pregiati. E lei poteva preparare tutti i dolci e i biscotti che voleva, ma non doveva mettersi in mente di cucinare pietanze e pasti completi. Quello avrebbe significato l'inizio della fine dell'accordo comune. Le sue colazioni individuali, preparate con ostentazione, erano già uno schiaffo in faccia al resto della famiglia. Una volta ogni tanto, mia madre riusciva a preparare un pasto completo, pranzo o cena che fosse, e a passarla liscia, pur se doveva stare attenta non solo a farlo con discrezione, ma anche a dare alla faccenda una sorta di connotazione esotica. Di solito ricorreva allo stratagemma di mascherare il pasto da picnic notturno in terrazza. […] Dopo queste serate di grazia, mia madre rimaneva di umore insolitamente dolce e quieto per un'intera settimana. Poi cominciava a dirmi che qualunque cosa avessi voluto fare della mia vita, dovevo riscattare la sua. «Voglio che le mie figlie abbiano una vita entusiasmante», diceva, «molto entusiasmante, e ricca di felicità al cento per cento, né più né meno». (F. Mernissi, La terrazza proibita, Giunti, Firenze, 1996) Waris Dirie VITA DA NOMADE Waris Dirie è nata in Somalia, in una tribù nomade che vive nel deserto. Ribellatasi al matrimonio a cui il padre la voleva costringere è fuggita a Mogadiscio e da lì è approdata a Londra. Dopo essere passata, con molto coraggio, attraverso innumerevoli difficoltà, è diventata una donna indipendente e serena. Modella di successo, è attualmente la portavoce ufficiale di “Face to face”, la campagna internazionale dell’ONU contro le violenze nei confronti delle donne. Fiore del deserto è la sua autobiografia. “Eravamo costantemente in cerca di cibo e acqua…” Come gran parte dei somali, conducevamo una vita da pastori. Benché fossimo continuamente in lotta per la sopravvivenza, secondo gli standard del nostro paese eravamo piuttosto ricchi, per via delle numerose mandrie di cammelli, bovini, pecore e capre che possedevamo. Come da tradizione, i miei fratelli si occupavano, in genere, degli animali più grandi, bovini e cammelli, mentre le ragazze curavano le greggi. Essendo nomadi, ci spostavamo di continuo, senza mai sostare nello stesso posto per più di tre o quattro settimane. Questo incessante movimento era imposto dalle cure richieste dai nostri animali. Eravamo costantemente in cerca di cibo e acqua, e nell'arido clima della Somalia non era molto facile trovarli. La nostra casa era una capanna portatile di paglia intrecciata, che svolgeva le stesse funzioni di una tenda. La struttura era in legno, e mia madre intrecciava tappeti di erba che poi venivano sovrapposti a quella struttura a cupola di circa due metri di diametro. Quando arrivava il momento della partenza, smontavamo la capanna, impacchettavamo i legni della struttura e i rivestimenti, e insieme ai nostri pochi averi li fissavamo sul dorso dei cammelli, i quali, essendo animali molto forti, trasportavano anche i bambini più piccoli, mentre gli altri procedevano a piedi, guidando gli animali verso il successivo accampamento. Quando trovavamo acqua e terreno adatto al pascolo, ci fermavamo. Queste capanne offrivano riparo ai bambini più piccoli, ombra a mezzogiorno e uno spazio adeguato alla conservazione del latte. Di notte, si dormiva all'aperto, sotto le stelle, e i bambini venivano sistemati tutti insieme su un stuoia. Quando il sole tramonta, nel deserto fa freddo, e siccome allora non c'erano abbastanza coperte per tutti, e avendo noi, per giunta, pochi vestiti, dovevamo riscaldarci con il calore dei corpi. Mio padre dormiva un po' appartato, guardiano e protettore della famiglia. Al mattino ci alzavamo con il sole. Come prima cosa, raggiungevamo i recinti in cui tenevamo gli animali e li mungevamo. Ovunque andassimo, tagliavamo arboscelli per costruire recinti, in modo che gli animali non scappassero. I piccoli venivano tenuti separati dalle madri, affinché non bevessero tutto il latte. Uno dei miei compiti era la mungitura delle mucche: dovevo prendere una parte del latte fresco per fare il burro, lasciandone a sufficienza per i vitelli. Terminata la mungitura, lasciavamo che i cuccioli bevessero il resto. A quel punto, facevamo colazione con latte di cammello, che è più nutriente di quello di qualsiasi altro animale perché contiene vitamina C. Poiché la nostra regione è estremamente secca, priva dell'acqua necessaria all'agricoltura, non avevamo né verdura né pane. Talvolta, per trovare delle piante, seguivamo i facoceri, grossi maiali selvatici africani. Questi animali sono in grado di fiutare radici commestibili e di scavare con le zampe e il muso fino a raggiungerle. La nostra famiglia approfittava della loro abilità e ne prendeva una parte per sé per arricchire la dieta. La macellazione degli animali era considerata uno spreco e vi si ricorreva solo in caso di emergenza o in particolari occasioni, come i matrimoni. Gli animali erano troppo preziosi perché potessimo ucciderli per sfamarci: li allevavamo per il latte e per scambiarli con altri beni di cui avevamo bisogno. Per il sostentamento quotidiano, potevamo contare soltanto su latte di cammello a colazione e, di nuovo, a cena. A volte, non ce n'era abbastanza per tutti, cosicché toccava prima ai bambini più piccoli, poi a quelli più grandi e così via. Mia madre non osava mai toccare cibo finché tutti gli altri non avevano mangiato; anzi, non ricordo di aver mai visto mangiare mia madre, anche se, ovviamente, deve pur averlo fatto. Se mancava il cibo per la cena, non c'era nulla di strano, nulla di cui preoccuparsi. Inutile piangere o lamentarsi. I più piccoli magari piagnucolavano, ma noi bambini più grandi conoscevamo le regole e ce ne andavamo a dormire. Cercavamo di restare allegri, di mantenere la calma, e l'indomani, a Dio piacendo, avremmo trovato una soluzione. In’shallah, che letteralmente significa «se Dio vuole», era il nostro motto. Sapevamo che la nostra vita dipendeva dalle forze della natura, le quali erano sottoposte al potere divino. Il massimo del lusso consisteva in un sacco di riso che mio padre ogni tanto portava a casa. In quelle occasioni, festeggiavamo come altrove si fa nei giorni comandati. Usavamo persino il burro che preparavamo agitando il latte vaccino in un cesto intrecciato. Di tanto in tanto, cedevamo una capra in cambio di grano cresciuto in regioni più umide della Somalia e lo macinavamo nei nostri piatti per produrre una sorta di porridge, o lo facevamo saltare in padella sul fuoco. Quando invece eravamo insieme ad altre famiglie, dividevamo sempre tutto. Se qualcuno di noi possedeva altro cibo - datteri o radici - oppure aveva ucciso un animale da mangiare, lo si cucinava e se ne spartiva la carne. Condividevamo la nostra fortuna perché, pur rimanendo spesso isolati, e viaggiando con una o due altre famiglie al massimo, appartenevamo a una comunità più ampia. E, poiché non c'erano frigoriferi, la carne e tutti gli alimenti freschi dovevano essere consumati immediatamente. Tutte le mattine, dopo la colazione, si facevano uscire gli animali dai recinti. All'età di sei anni ero già responsabile di un gregge composto da circa sessanta o settanta tra pecore e capre, che dovevo condurre nel deserto a pascolare. Prendevo il mio lungo bastone e partivo, da sola, con il gregge, cantando una canzoncina per guidarlo. Se un animale si staccava dal gruppo, usavo il bastone per farlo tornare indietro. Non vedevano l'ora di partire, perché sapevano che uscire dal recinto significava mangiare. Muoversi di buon'ora era fondamentale per trovare il posto migliore con acqua fresca ed erba in abbondanza. Tutti i giorni mi davo da fare per dimostrare di essere la pastorella più veloce, poiché in caso contrario altri animali avrebbero bevuto la poca acqua disponibile. Del resto, con il passare delle ore, il terreno arso dal sole l'avrebbe assorbita tutta. Mi assicuravo che gli animali bevessero quanta più acqua potevano, perché prima di trovarne dell'altra avrebbe potuto passare una settimana. O due. O tre... Chi poteva saperlo? A volte, in periodi di siccità, la cosa più triste era assistere all'agonia degli animali. Ogni giorno ci spingevamo più lontano in cerca dell'acqua, e il gregge si sforzava di proseguire, finché non ce la faceva più. Quando gli animali crollavano a terra, venivamo sopraffatti dalla più cupa disperazione, poiché sapevamo che non c'era più nulla da fare. In Somalia i pascoli non sono mai proprietà privata; stava a me, quindi, essere scaltra e scoprire le zone più verdi per le capre e le pecore. Con l'istinto di sopravvivenza addestrato all'individuazione di ogni tipo di segno, scrutavo il cielo in cerca di nuvole, ma anche gli altri sensi entravano in gioco, poiché un odore particolare o una certa atmosfera potevano far presagire pioggia. Mentre gli animali pascolavano, io mi occupavo di tener lontani i predatori, onnipresenti in Africa. Talvolta, le iene si avvicinavano di soppiatto e sottraevano un agnello o un capretto allontanatisi dal gregge. C’erano i leoni e i cani selvatici, che si spostavano in branco, mentre io ero sola. Osservando il cielo, calcolavo attentamente le distanze da percorrere per tornare a casa prima che facesse buio, ma molte volte sbagliavo i calcoli e finivo per trovarmi nei guai. Mentre inciampavo nell'oscurità, diretta verso casa, le iene potevano attaccare, capendo di non essere viste. Ne cacciavo una da un lato, e un'altra ne spuntava alle mie spalle. Quando mi provavo a scacciare quest’altra, una terza si avvicinava senza farsi vedere. Le iene sono il peggior nemico, perché sono instancabili: se fiutano la preda, non la mollano più. Ogni sera, dopo aver ricondotto gli animali nei recinti, li contavo e ricontavo diverse volte, per accertarmi che non ne mancassero. Una volta, giunta a casa con il mio gregge, mi accorsi di aver perduto per strada una capra. Contai e ricontai più volte finché all'improvviso mi resi conto che mancava proprio Billy. Mi misi a correre tra le capre e, non trovandolo, andai da mia madre in lacrime: «Mamma, Billy è scomparso... E adesso che cosa faccio?». Ovviamente, era troppo tardi, e lei non poté far altro che accarezzarmi la testa, mentre io piangevo il mio piccolo e grasso capretto sbranato dalle iene. “Il presente era tutto…” Essendo cresciuta in Africa, non possiedo quel senso storico che sembra essere così importante in altre parti del mondo. La nostra lingua, il somalo, ha ricevuto la sua prima formulazione scritta nel 1973 e fino ad allora nessuno di noi imparava a leggere e a scrivere. Il sapere veniva tramandato oralmente, attraverso la poesia, i racconti popolari e, soprattutto, gli insegnamenti dei genitori. Mia madre, ad esempio, mi trasmise l'arte di intrecciare con l'erba secca recipienti adatti a contenere il latte; mio padre mi mostrò come accudire gli animali e accertarmi della loro buona salute. Non parlavamo molto spesso del passato: non ne avevamo il tempo. Il presente era tutto, e le questioni che ci ponevamo quotidianamente erano: che cosa faremo oggi? I bambini sono tutti a casa? Gli animali sono al sicuro? Come facciamo a recuperare il cibo? Dove possiamo andare a prendere l'acqua? In Somalia vivevamo alla maniera millenaria dei nostri antenati: nulla di significativo era cambiato. Essendo nomadi, non avevamo elettricità, telefoni e automobili, né tanto meno computer, televisori o astronavi. Ciò, insieme alla naturale inclinazione a vivere nel presente, rendeva la nostra cognizione del tempo completamente diversa da quella occidentale. Come tutti i miei familiari, non conosco di preciso la mia età: posso solo fare congetture. I bambini che nascono nel mio paese hanno poche probabilità di arrivare a compiere un anno di vita e, in tali circostanze, l'uso di tener conto dei compleanni non può rivestire molta importanza. Ai tempi della mia infanzia, si viveva senza programmi definiti, orologi o calendari. Ci regolavamo sulla base delle stagioni e del sole, pianificando i nostri spostamenti secondo il bisogno di acqua, e organizzando le giornate secondo la durata della luce naturale. Stabilivamo l'ora osservando la posizione del sole: se l' ombra si proiettava verso Occidente, era mattina; se si nascondeva sotto i piedi, era mezzogiorno; se si protendeva verso Oriente, era pomeriggio, e quanto più questo avanzava, tanto più si allungava la mia ombra, indicandomi che era ora di riprendere la via di casa. La mattina, quando ci alzavamo, si suddividevano i compiti, che ognuno di noi svolgeva il meglio possibile e fino in fondo, a meno che nel frattempo non fosse calato il buio. Non esisteva l'idea di svegliarsi e avere di fronte a sé una giornata già programmata. A New York capita spesso che qualcuno tiri fuori la propria agenda e mi domandi: «Sei libera a pranzo il giorno 14? O forse preferisci il 15?». La mia risposta, di solito è: «Chiamami quando vuoi, purché con un giorno di anticipo». Per quanto mi sforzi di prendere nota di tutti gli appuntamenti, non riesco ad abituarmi all'idea. La prima volta che arrivai a Londra, restai sbalordita dal modo in cui molta gente, dopo aver guardato l'ora, sobbalzava, dicendo: «Devo scappare!». Avevo l'impressione che tutti corressero e che ogni azione fosse cronometrata. In Africa, invece, non esisteva fretta: il tempo, laggiù, è estremamente lento, placido. Quando si dice: «Ci vediamo domani verso mezzogiorno», significa che ci si incontrerà verso le quattro o le cinque. Negli anni della mia infanzia in Somalia, non mi è mai capitato di proiettarmi con la mente nel futuro o di immergermi nel passato al punto di chiedere a mia madre come fosse cresciuta. Di conseguenza, so ben poco della storia della mia famiglia, anche perché l 'ho abbandonata molto presto. Ora provo spesso il desiderio di ritornare e di porre finalmente queste domande. Mi piacerebbe sapere come fosse la vita quando mia madre era una ragazza o da dove provenisse sua madre, o ancora come sia morto suo padre. Mi disturba l'idea di poter rimanere all'oscuro di tutto ciò. (W. Dirie, Fiore del deserto, Garzanti, Milano 1998) Younis Tawnik UN’ INFANZIA FELICE Younis Tawnik è nato nel 1957 a Mosul (Ninive) in Iraq. Ha pubblicato poesie sulle maggiori riviste del suo paese e in Italia, dove vive dal 1979. a Torino nel 1986 ha conseguito la laurea in Lettere. È giornalista per “La Stampa”, “La Repubblica”, “Il Mattino”. Si dedica soprattutto alla divulgazione della letteratura araba, come traduttore e curatore. Il brano che segue è tratto dal romanzo La straniera, che narra, sullo sfondo di una Torino multietnica, l’incontro casuale tra due immigrati. In apparenza nulla hanno in comune: lui iracheno, architetto affermato, lei tunisina, prostituta per sopravvivere, ma la vicinanza li porterà a rivisitare il proprio passato e a scoprire quanto siano forti le radici che li uniscono. Noi, figli di Agar, figli della fame e della terra arida. Soli nel tempo, diversi, tristi e depressi, cattivi e buoni, andiamo errando: cerchiamo il sole nella neve, e la Stella Polare nella sabbia dorata. Soli nella notte, e nella morte. Noi, figli della schiava figli di quella terra bruna, figli del dolore, della, fatica. Soli nella patria gravida, morti prima delta nascita. Mio padre, lo Shaikh Salih, come lo chiamavano, stava seduto sulla sua vecchia sedia, a guardarmi preparare la valigia. Non diceva una parola: fumava, come suo solito, e tossiva forte. I medici gli avevano proibito di fumare, ma lui non aveva mai obbedito. Fumava ancora quelle sigarette fatte a mano, al mercato del tabacco, da un suo vecchio amico. Sono veleno dentro la carta bianca. Il mio vecchio e io ci volevamo bene, ma tra noi c'era un conflitto permanente. Ci scontravamo per qualsiasi cosa, e non andavamo d'accordo neanche per le canzoni che piacevano a tutti e due, malgrado la nostra differenza di età. Negli ultimi anni, ci siamo scontrati anche su argomenti politici. A lui piaceva il sistema. Diceva che era necessario per il paese e per i giovani. Io, invece, mi infuriavo accusandolo di essere reazionario e tradizionalista. Lui si risentiva e si chiudeva nel silenzio. Per lui, ero la classica figura del figlio ribelle, quello che un giorno sarà prodigo. Naturalmente non era d'accordo sulla mia partenza per l'estero, ma io ero deciso. Era lì, come il passato e la memoria millenaria, a osservare in silenzio, quasi in agguato, il tempo che passa e i figli che se ne vanno. Il mio accusatore, avvolto nella sua jellaba1 bianca, come l'ho sempre visto, era una figura solare che emanava bontà e, nello stesso momento, determinazione e fragilità. Amava la solitudine. Spesso si ritirava nella sua camera lasciando che noi, i suoi sette figli, urlassimo giocando nel cortile, bersagli delle babbucce di nostra madre. Lei urlava più di noi e ci correva dietro per darci le botte dove capitava. Noi eravamo tosti, come tutti i bambini: dopo un piagnucolio finto, ritornavamo al gioco e al chiasso. Lui invece era assente, si chiudeva nella sua camera a leggere il Corano o ad ascoltare i suoi dischi preferiti. Aveva un vecchio grammofono italiano, portava un'etichetta con un cane. Più tardi avevo scoperto che si trattava de "La Voce del Padrone". Era uno di quelli ancora con la tromba e andava caricato a mano, con la manovella. La voce metallica e frusciante del disco rovinato dal tempo attraversava il cortile e andava a morire nell'umidità del vicolo. Dalla finestra, lo vedevo seduto sulla stuoia per terra, appoggiato al cuscino cilindrico, che fumava con gusto. Ascoltava con trasporto quelle canzoni egiziane degli anni Venti e Trenta. I suoi cantanti preferiti erano Abduh el Hamuli e Sayyid Darwish. Anche a lui piaceva Umm Kalthum, ma soltanto nei suoi primi dischi. A me non spiacevano i suoi cantanti, ma preferivo quelli moderni, che lui prendeva in giro per come cantavano e per come si vestivano. […] C'era un albero gigantesco di gelso, piantato nel centro del grande cortile di marmo bianco. Ombreggiava metà della casa o quasi. Contavamo i giorni per veder maturare i suoi frutti. Quando era il momento ci voleva mio padre per trattenerci, per non farci venire il mal di pancia a forza di mangiare more. In estate, sotto quell'albero, mia madre ci preparava la colazione del mattino e la merenda del pomeriggio. Quando non faceva troppo caldo, lì si pranzava anche. Tutti seduti per terra sui materassini, radunati attorno a un enorme vassoio. Si mangiava insieme, un piatto unico. Capitava di litigare per l'ultimo boccone, e di prendere un pugno in testa da uno dei genitori. Del resto, i bambini sono ingordi, quando si mettono, e sono capaci di litigare per la minima cosa. Fa sempre parte del gioco. […] Alla sera si dormiva sul tetto piano della casa. Avevamo due terrazze: una inferiore, dove dormivano i miei genitori con i fratelli più piccoli; l'altra superiore, dove dormivo io con mia sorella più giovane e con mio fratello. La nostra casa era abbastanza alta e dominava le altre del quartiere. Si potevano vedere bene i vicini, anche quelli più distanti. Alcuni avevano letti di ferro battuto protetti da zanzariere. Altri, più poveri, dormivano su brande o per terra. Certi vicini creavano per quelle serate un bellissimo ambiente arabesco, portando fin lassù lumi e lampade. Avevano coperte di ogni tipo, con strane sfumature di colori e disegni molto carichi. Qualcuno portava con sé la radio che, più tardi, sarebbe stata sostituita dalla televisione. La città sembrava sempre sveglia e viva. Non veniva voglia di dormire. Per noi era una festa. Si portava l'anguria e l'acqua nelle brocche di terracotta. Sotto la luce della luna, ognuno mangiava la sua fetta e ascoltava con stupore e curiosità l'avvincente favola raccontata da mia madre. Da grande era poi la radio a raccontarmi il mondo prima di dormire. Sul letto, prima di chiudere gli occhi passavo un tempo indefinito a osservare le stelle. Il ciclo non sembrava nero ma quasi blu scuro. Pareva come un'enorme cupola della moschea ornata con migliaia di luci argentate e tanti lampadari di cristallo sospesi nell'aria. Potevo vedere bene le costellazioni e immaginavo altre figure disegnate dai pianeti. La brezza notturna accarezzava il mio volto con dolcezza e mi trasportava nei sogni più lontani. […] Quei giorni d'estate restano per me indimenticabili. Erano così lunghi e intensi, ma non bastavano mai. Con l'inverno, corto e piovoso, le cose perdevano i loro colori. L'albero si spogliava, e con lui lo spirito della gente. L'estate era la stagione della mia crescita: soprattutto il silenzio del pomeriggio, quando tutti dormivano. Era un momento tutto mio. Lo avevo vissuto nelle sue fasi più intense e variabili. Allora fare la siesta era un'usanza, una regola per tutti. Io ero il ribelle della situazione. Non riuscivo a dormire, e siccome non potevo giocare, rimanevo steso sullo stuoino di bambù, sistemato naturalmente sul pavimento sotto l'albero, a fantasticare. In casa, il ventilatore tedesco, nero, marca Kodak, girava a tutto andare, ma non serviva più di tanto contro i quaranta o anche più gradi dell'estate mediorientale. Quando mio padre si alzava, era il segno della liberazione, era la fine della noia, dell'angoscia. Ormai tutti potevamo alzarci e giocare. A lui piaceva tanto lavarsi. In estate, appena si alzava, si metteva sotto la doccia e si lavava con l'acqua fredda. A noi, invece, piaceva lavarci con la gomma nel cortile, sotto l'albero. Giocavamo più che altro. Ci spruzzavamo con l'acqua per ore, finché mia madre non decideva di chiudere il rubinetto. Era giunta l'ora del tè. Lui, dopo il tè, si pettinava con la brillantina e si profumava, prima di uscire. Andava al caffè o a trovare la sua vecchia madre. Amava il profumo di sandalo indiano. Con quel profumo usava anche l'incenso, che alla sera avvolgeva il cortile e raggiungeva i vicini, che lo benedicevano per quell'olezzo di paradiso che il Profeta tanto amava. Non c'erano muri tra le case. Sembrava che tutto l'isolato fosse una sola casa. Le porte non si chiudevano, se non per andare a dormire. Nessuno si azzardava a entrare per rubare. Chi passava davanti alla porta di una casa lanciava un saluto e veniva invitato a mangiare o a prendere il tè. Pareva che gli arabi avessero sostituito le tende del deserto con muri e soffitti di pietra, ma senza porte. Con gli anni avevo chiesto io stesso a mia madre di mettere almeno una tenda di stoffa sulla porta d'ingresso della casa. Sono le generazioni che cambiano le cose. Non capisco ancora oggi perché l'avessi chiesto. So che adesso le cose vanno ancora peggio. L'antica porta di legno mio fratello l'ha rimpiazzata con una più sicura di acciaio. Da bambino, entravo nelle case dei vicini senza essere invitato. Nessuno mi rimproverava o mi mandava via. C'era una coppia di coniugi di mezza età che abitava in fondo al vicolo. Non avevano figli, ma erano felici lo stesso. Lui faceva tappeti di lana in casa e lei lo aiutava. Venivano dei contadini e anche dei beduini dal deserto a comperarli. Passavo il mio tempo a guardarlo lavorare. Lei mi dava sempre qualche caramella e mi diceva di non mangiarla tutta intera, ma divisa in due. Una volta mi ero appartato in un angolo del vicolo e avevo provato a mettere in bocca una caramella intera. Era troppo grossa e, scivolando in gola, quasi mi aveva soffocato. Non riuscivo a sputarla né a ingoiarla. Mi mancava il respiro. Avevo perso i sensi. Ero svenuto. Era stata lei a salvarmi. Non vedendomi seduto sullo sgabello dove di solito mi mettevo a guardare suo marito, si era insospettita. Come diceva lei, Dio gliel'aveva comunicato. Diceva sempre che io ho degli angeli che mi proteggono. Con il passare del tempo, qualche volta, ho dovuto darle ragione. Al mattino presto, mia madre si svegliava per fare il pane nel piccolo forno di terracotta, installato in un angolo isolato del cortile. Quando cominciavo a scendere le scale dal tetto della casa, dove si dormiva nella stagione calda, sentivo quel profumo di pane appena cotto e mi svegliavo di colpo. Aveva un effetto strano su di me. Era il risveglio dello spirito e della mente nel mio mondo personale. Da piccolo quel pane era la delizia di essere ancora con mia madre, nella nostra dimora. Da grande, invece, lo spezzavo con adorazione e lo annusavo come fosse il corpo di una donna, il corpo della terra madre, l'odore del ricordo. Mio padre aveva il suo posto riservato: uno stuoino in fondo al cortile, con un piccolo materasso sopra e un cuscino per appoggiare la schiena, il posacenere di legno e il bicchierino di vetro. Questo era di stile turco, di vetro sottile decorato d'oro, con piccoli disegni di fiori e cerchi. Di solito si usa per bere il tè o il carcadè. Lui stava seduto lì, in un silenzio arcano, con in mano il rosario, uno della sua collezione di cui andava tanto orgoglioso. Anche quello aveva la sua piccola storia: era di ambra profumata e costava "un occhio della testa", come diceva lui. Un giorno l'aveva perso, e non si sapeva dove. Forse gliel'avevano rubato nella moschea o al caffè, ma per orgoglio non lo ammetteva. Non l'avevo mai visto così triste, mi faceva una gran pena. Avrei voluto fare qualcosa per lui, ma avevo solo undici anni. Mi ricordo di essermi avvicinato timidamente e di avergli detto: "Papà, mi dispiace." Gli diedi un bacino sulla guancia. Era la prima volta che baciavo mio padre. Di solito, si faceva solo il bacio della mano durante le feste. Lui mi guardò stupito e mi abbracciò a lungo. In quel momento, mentre stavo per andare via, quanto desideravo poterlo rifare! Erano passati dieci anni, e non sembrava ieri; come si dice, perché lui era invecchiato, e io ero cresciuto, ero diventato uomo, forse così credevo. La sua barba era più bianca di allora, anzi era quasi tutta bianca. Era più curvo e addirittura più piccolo, ma sempre imponente e mite. I vicini, con i nostri parenti, continuavano a sfilare nel cortile della vecchia casa. Alcuni mi auguravano di avere successo, e altri dicevano che non avrei dovuto lasciare il paese per andare a studiare all'estero. La mia zia materna, che io ritenevo un serpente imbottito di invidia e di cattiveria, mi disse con malignità: "Non capisco cosa ci sia in Europa di così attraente. Se è per le università, qui ce ne sono, e non sono meno buone né meno importanti; invece... se è per le ragazze le nostre sono più belle, e poi quelle là non sono mica tanto serie." Non avevo la minima voglia di discutere con lei, e nemmeno con il suo viscido marito, che a sua volta ribadiva: "Dicono che sono facili e disponibili, le ragazze di quelle parti. Ti divertirai senz'altro. Pensami quando sarai là. Ma, a proposito, dove vai di preciso?" Aveva ricevuto una serie di insulti da mia zia per quelle sue affermazioni poco delicate. La mia risposta arrivò lenta e irritata: "In Italia." "Ah, però!" esclamò lui, e aggiunse maliziosamente: "Bella... Molto bella. Un mio amico c'è già stato per turismo. Dicono che la mafia è la padrona di tutto, là. Si spara per le strade e i delinquenti rubano in pieno giorno. Sono capaci di tagliarti un dito per rubarti la fede. Non portare niente di valore con te... Ma perché non vai in Francia? Oppure, ancora meglio, in Inghilterra? Sì, almeno le università inglesi sono migliori, e anche le ragazze." Disse questo rivolgendosi a mio padre, che lo squadrò con aria sprezzante, senza dare nessuna risposta: "Non è vero? non è vero Shaikh Salih?” (Y. Tawfik, La straniera, Bompiani, Milano, 1999) 1 jellaba: tunica Malika Mokeddem NELLA TESTA UN GRANELLO DI SABBIA Malika Mokeddem è nata in Algeria da una famiglia tuareg. (I tuareg sono una popolazione nomade di origine berbera. Famosi guerrieri, prima difesero la loro posizioni di commercianti fra il Maghreb e l'Africa subsahariana, poi si convertirono all'islamismo e contribuirono alla diffusione di questa religione; attualmente si dedicano all'allevamento dei cammelli e all'artigianato.) Malika trascorre l'infanzia in un villaggio algerino ed entra ben presto in contrasto con le regole di condotta imposte alle donne dalla tradizione islamica più intransigente: essere unicamente mogli e madri e vivere all'interno delle mura domestiche. Prosegue perciò gli studi e si trasferisce in Francia, dove si laurea in medicina. Ha pubblicato finora tre romanzi, incentrati sulla guerra d'indipendenza dalla Francia, sul fondamentalismo islamico, sui temi dell'immigrazione e del multiculturalismo. Gente in cammino, il romanzo da cui è tratto il brano, è fortemente autobiografico; narra le vicende di una famiglia algerina dagli inizi alla fine del Novecento, soffermandosi in particolare sul periodo della guerra contro la Francia (1954- 1962). Emerge in particolare la figura della giovane Leyla, una ragazzina impegnata nella ricerca della libertà contro le rigide norme della tradizione, aiutata nella sua lotta dal "granello di sabbia nella testa", simbolo di sensibilità, lucidità e indipendenza che ha ereditato dai membri più stravaganti della famiglia, dalla saggezza della nonna Zohra, dall'amore per la sua terra. Nelle pagine che leggerai, Leyla, appena entrata nell’adolescenza, si scontra con una delle più resistenti consuetudini dettate dalla tradizione, il matrimonio combinato: deve sposarsi con un giovane scelto dall'anziano prozio. A casa, le venne incontro la madre. La sorprese in cortile, appena varcò la soglia. Si sarebbe detto che la stava spiando. La prese per mano e la costrinse a fermarsi. Leyla aveva una sola voglia: sedersi in una stanza, ritrovare il dolce ronzio dei condizionatori. Assumendo un'aria grave, forse un poco colpevole, Yamìna le disse, con tono di confidenza: «Ascolta, figlia mia, questa volta non possiamo fare veramente nulla, tuo padre, tua nonna ed io. Abbiamo le mani legate. Tuo prozio Zobri ti ha data a Kaddùr, il figlio dei Lùnis». Sua madre le assestò quelle parole nel cortile con il pavimento in cemento e i muri imbiancati a calce, tutto un concentrato di calore. Cortile bocca di vulcano. Lava impalpabile che cadeva dal cielo. Eruzione interiore che la inceneriva con le sue parole incandescenti. Fortuna che sua madre la teneva sempre per il braccio. Zobri? Oh, sì. Ma era una ragione? Zobri era il fratello maggiore e unico di Zohra, il patriarca di tutto il clan familiare, e abitava a El-Bayad. Avendo resistito alla sedentarizzazione fino al 1958, era stato l'ultimo della famiglia a rinunciare alla vita nomade 1. La prigionia e la morte di uno dei suoi figli sotto la tortura e di un secondo tra i partigiani2 lo sconvolsero e lo indussero a stabilirsi a El-Bayad. Era venuto a trovarli due o tre volte. Leyla rammentava a stento i suoi lineamenti. Si ricordava soltanto che aveva la pelle molto scura, quasi nera. Il bianco dei suoi occhi ne risultava splendente, e contrastava molto con il colorito dei viso. Per questo aveva occhi penetranti che, sotto la volta del suo shèsh3, scintillavano come due fuochi neri attizzati da strani pensieri. Di quando in quando, se un viaggiatore o un commerciante venivano da El-Bayad, gli Ajalli4 ricevevano sue notizie. «Zobri ha scritto a tuo padre una ventina di giorni fa. È Portalès5 che ha letto la lettera. Sempre quest'ultimo ha scritto una risposta sotto dettatura di tuo padre. Tayeb6 ha garantito allo zio la propria obbedienza, ma l'ha scongiurato di esortare i Lùnis ad avere un po' di pazienza. Ha implorato per te un rinvio di ancora due o tre anni. Il tempo di ottenere il tuo diploma, di maturare un poco. Tuo padre non voleva che Khellil7 lo sapesse. Così ha nascosto la lettera e ha mantenuto il segreto, temendo che, nell'intento di proteggerti, l'impetuosità di Khellil lo inducesse a qual che proposito irriverente verso il venerabile vegliardo. Esclusa tua nonna, è il solo shibàni8 ancora in vita dalla parte di tuo padre. Bisogna trattarlo con ogni riguardo». Ma a questa risposta Zobri, quel vecchio fossile, si era infuriato. Ai Lùnis venuti a chiedere notizie, dichiarò perentorio: «Per Allàh, Tayeb vaneggia. Perché vuole tenersi sua figlia ancora due o tre anni? Solo le ragazze brutte o che hanno qualche difetto si sposano vecchie. Quella ragazzina era graziosa. Dev'essere in età da sposarsi, ora. Allora, ve ne faccio dono, bell'e vestita». Dato che la loro domanda era stata accettata, i Lùnis arrivarono con il montone e le offerte per celebrare il fidanzamento. «Vieni, ti metto un foulard in testa. Verrai con me ad abbracciarli». Un foulard? Era sempre così che tutto incominciava: foulard, fùta9 e poi il velo e la morte di ogni sogno, di ogni speranza, sotto una valanga di gravidanze; e l'universo che si restringe, si restringe fino a non permettere più altro che i dolorosi aneliti10 della schiavitù, che i sospiri della rassegnazione. Meglio la morte, quella vera, che sotto qualche palata di sabbia avrebbe accolto e protetto il riposo, piuttosto che lo strangolamento del foulard, piuttosto che il sacrificio di tutte le scelte di una vita! Ma, sul baratro del pericolo, Leyla era a mille miglia da tutti quei discorsi. Solo l'acuto sentimento dell'imminenza di quel pericolo tendeva, fino a spezzarlo, l'arco dei suoi pensieri. «No!», fu l'unico urlo di una voce che strideva nel tumultuoso silenzio della sua testa. «Aspetta, aspetta! Lasciami respirare. Prima vado a posare la cartella e a lavarmi la faccia. Sono coperta di sudore. Verrò a dire loro buongiorno tra cinque minuti», azzardò prudentemente Leyla cercando di liberarsi dalla stretta di sua madre. Yamìna, sospettosa, la scrutò a lungo in volto, alla ricerca di qualche segno di ribellione. Leyla cercò di assumere un'espressione serena. Rassicurata, sua madre le lasciò il braccio e si diresse verso la cucina. «Non tardare troppo. Non dimenticarti di mettere un foulard!», le gridò dietro. Leyla entrò nella stanza che divideva con sua nonna. Posò la cartella. Poi, piano piano, aprì la finestra che dava sull'esterno. Arrampicandosi su una sedia, scavalcò il davanzale, saltò velocemente dall'altra parte e fuggì con l'energia di un animale braccato. Correva, correva! il paese era deserto. Agonizzava sotto la tortura del cielo. L'aria era una fiamma, e lei aveva in testa un beindir11 affannoso! Correva. La sua "ancora di salvezza" si stava spezzando. Sarebbe naufragata in quel mare di sabbia, mare di fuoco. Fuoco sul suo corpo, nella sua testa dove non c'era più nulla, soltanto quella fuga a perdifiato, sino a dove?… Forse, sino alla morte. Ma mai, mai verso i foulard, i hayk12, verso le prigioni ancestrali13 delle donne... Un'automobile si fermò vicino. Il suo cuore non si era già fermato? Non sarebbe morta, lì, subito? Erano loro che volevano impadronirsi di lei, loro, i foulard e i hayk. «Perché corri così?», le chiese una voce. Si sentiva svenire. Ma la voce non era in collera. Ma la voce non era ostile. Allora si voltò: era solo il magazziniere del cantiere! «Ho lezione a Béchar alle quattro e mezza, arriverò in ritardo!», mentì con un acuto grido di liberazione. L'uomo aprì la portiera. Lei salì al suo fianco. Lui l'accompagnò in paese. Per fortuna, proprio in quel momento passava un taxi. Lo fermò. Uhf! Era fuori pericolo, almeno per il momento. Per la strada, la corsa sfrenata del suo cuore si calmò. Aveva bisogno di riflettere... C'era solo Khellil, per trarla d'impiccio. Ma la sua vecchia paura, che aveva dimenticato, si era ora risvegliata. Sconvolgeva le sue idee, oscurava ogni speranza e la faceva dubitare dei suoi più solidi alleati. E se anche lui si fosse lasciato prendere dal gioco vischioso14 delle buone creanze? Dopo tutto, aveva già abdicato una volta. Si era lasciato sposare lui stesso. Cosa poteva fare, lei? Sarebbe scappata! Non sarebbe andata dagli uomini. Non avrebbe mai subìto quello che avevano fatto a Sàadia15. Si sarebbe arrampicata sulla Barga16. Sarebbe andata a morire nell'erg17. Quel caldo mare, che era così spesso la sua culla, sarebbe stato anche la sua tomba. Non l'avrebbero presa viva. Con il tempo che passava e tutte quelle domande di matrimonio rifiutate, con i discorsi della signora Chalier18 ancora caldi nella testa di suo padre, con la assaporata libertà dopo l'entrata alle medie, si era creduta fuori pericolo. Ma chi era lei per sfuggire alla sorte di tutte le donne? Non aveva nulla in più di loro, e neanche nulla in meno. Soltanto, forse, un grano di sabbia19 che le riempiva la testa di sogni così belli e così proibiti da sembrarle una follia. I brevi momenti di lucidità, di contatto con il reale, le davano la spiacevole sensazione di cadere da molto in alto su un terreno così duro che restava, per un bel po', come annientata. E quando riprendeva le forze, le rimaneva in bocca un gusto aspro e stridente di disillusione. Il succhiello della paura le trapanava il ventre: «Non potrò mai uscirne! Non potrò mai vedere gli altrove inebrianti20. Quel deserto che mi imprigiona dalla nascita, ora vuole la mia morte». Arrivata a Béchar, riprese a correre. Irruppe col fiato corto nell'ufficio di Khellil. Come una furia, gli urlò: «Vogliono farmi sposare! Se tu non glielo impedisci, io scapperò. Mi ucciderò! Non abdicherò mai. Mai, mi capisci?». «Calmati, siediti qui e raccontami tutto. Mi hai fatto paura. Ho pensato al peggio» . «Ma è il peggio!», esplose lei tra i singhiozzi. Quando finalmente conobbe i particolari della storia, Khellil le disse: «Vai da tua zia Sàadia. Questa notte resterai là. Domani mattina, ti porterò le tue cose di scuola. Fra poco, andrò a dire ai tuoi quello che penso del loro modo di comportarsi. Non ti preoccupare. Finché sarò vivo, nessuno ti obbligherà a sposarti contro la tua volontà. Vai, adesso! ho da lavorare. Passerò a trovarti domani mattina presto, verso le sette e mezza. Ti racconterò il seguito. Non aver paura». Quindi, Leyla andò da zia Sàadia e le raccontò la sua disavventura. «Hai fatto bene a scappare», le disse lei. «Più ancora dell'intervento di Khellil, è quel fatto, la tua fuga, che ti libererà da questa minaccia e dagli altri pretendenti. Credi alla mia triste esperienza: una ragazza capace di sfidare a tal punto l'autorità dei genitori e di infischiarsene di tutte le convenzioni sociali, fa paura. Può ricominciare! Del resto, penso che prima ancora che Khellil arrivi a casa, quegli "invitati di Dio" si saranno già ricreduti. Non vorranno correre il rischio di una futura cattiva condotta che potrebbe disonorarli!»21 aggiunse, scoppiando a ridere. Ebbe assolutamente ragione. Yamina, dopo aver lasciato sua figlia, era andata ad annunciare ai suoi "invitati" che Leyla era rientrata da scuola e si stava rinfrescando prima di venire a salutarli. Dato che sua figlia tardava a prepararsi, andò a cercarla. Alla vista della stanza vuota e della finestra spalancata, indovinò l'inganno. Discretamente, fece chiamare Tayeb e l'informò della situazione. Questi cercò invano Leyla intorno alla casa e verso la Barga. Non trovandola da nessuna parte, si preoccupò e telefonò a Khellil. Quest'ultimo lo tranquillizzò e gli disse che sua figlia era sana e salva. «L'ho messa in un posto sicuro, fuori dalla portata di tutti i seccatori, compreso quel vecchio patriarca che crede ancora di regnare su un clan. La sua età non gli concede diritti sulla vita di persone lontane e che conosce appena». «Che cosa risponderò ai Lùnis?», si lamentava Tayeb. «Di' loro semplicemente la verità. Tu hai sempre promesso che sarò io a decidere per tutto ciò che riguarda Leyla. Lei vuole continuare gli studi. Allora, lasciala in pace! Questa sera, rientrando, glielo spiegherò io stesso, con gentilezza. Sono brave persone. Capiranno. Se non dovessero capire, tanto peggio per loro! Quanto a Zobri, spero che così si sentirà scottato e rinuncerà a questi arcaici appannaggi22 sotterranei con il clan e con la vita nomade. La sua suscettibilità offesa può fulminarmi con tutte le maledizioni che vuole. Io, comunque, non lo lascerò rovinare la vita di una ragazzina. Che assapori con tranquillità il crepuscolo della sua esistenza, invece di brigare e accendere i tizzoni di rancori e discordie! Intanto, che i Lùnis vengano degnamente ricevuti, come esigono le leggi dell'ospitalità e in nome della nostra antica amicizia! Che Yamìna e Mùnya preparino un banchetto per cercare di mitigare la loro fatica e la loro offesa! » Gli "invitati di Dio" si erano resi conto di tutto quel trambusto? Si preoccuparono. Perché la loro futura nuora non veniva ad abbracciarli? L'espressione contrita e sperduta di Yamìna non li rassicurò certo. Agli assalti delle prime domande, mortificata, confessò la sua hashùma23. Gli occhi delle donne in preda allo stupore furono per lei una tortura, e il loro silenzio sbalordito la sentenza del disonore che colpiva la famiglia... Zobri li aveva quindi imbrogliati, i Lùnis! Leyla non era la ragazza onorata che lui diceva. Erano venuti da così lontano, in tutta amicizia, a onorarla scegliendola come moglie per il figlio. Rigettando ogni buona creanza e anche ogni pudore, la ragazza aveva fatto loro questo immeritato affronto. Una grande hashùma. L'indomani stesso, i Lùnis ripartirono per El-Bayad. Che un'amicizia così antica avesse conosciuto una tale delusione per l'arroganza di una ragazza testarda e sfrontata rattristava profondamente Tayeb e Yamìna. Quanto a Zohra, lei non fece alcun commento, non rivolse a Ley1a alcun rimprovero. Ma la fissava con occhi mezzo ironici, mezzo affettuosi, che sembravano dire: «Ti riconosco bene. Per A1làh, tu mi vieni dai Bùhalùfa!»24. (M. Mokeddem, Gente in cammino, trad. di C.M. Tresso, Firenze, Giunti, 1994) 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. sedenterizzazione…nomade: il resto della famiglia era passato alla vita sedentaria subito dopo la seconda guerra mondiale. partigiani: i combattenti per l'indipendenza dell'Algeria dalla Francia. shèsh: lungo foulard usato come turbante per ripararsi dal sole, dalla sabbia e dal vento. Ajalli: la famiglia di Leyla. Portalès: il francese datore di lavoro del padre di Leyla. Tayeb: il padre di Leyla. Khellil: lo zio paterno di Leyla. shibàni: termine rispettoso per "vecchio". fùta: triangolo di tessuto usato dalle donne berbere come grembiule. aneliti: desideri dolorosi perché irrealizzabili nello stato di schiavitù a cui il matrimonio è paragonato. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. beindir: un rullo di tamburi. hayk: velo bianco usato in Nordafrica ancestrali: esistenti dai tempi degli avi. vischioso: che impedisce la libertà. Sàadia: una donna della famiglia Ajalli dalla triste storia: orfana di madre, vittima di violenza sessuale, scappa dal villaggio, ma viene rinchiusa in un bordello, da cui esce solo dopo quattordici anni per condurre una vita libera e solitaria. Barga: la grande duna vicino alla quale vive la famiglia di Leyla. erg: parte del deserto formata da dune mobili. signora Chalier: la maestra francese di Leyla, che ha convinto il padre a far continuare gli studi alla figlia. un grano di sabbia: Zohra, la nonna di Leyla, era solita dire che alcuni membri della famiglia avevano ereditato da un nonno leggendario un granello di sabbia nella testa, che li rendeva "folli" e geniali. inebrianti: sono i sogni di Leyla: vivere libera, studiare, lavorare, viaggiare, vivere cioè una vita diversa da quella che la tradizione riserva alle donne. Non vorranno…disonorarli: non vorranno rischiare di accogliere nella loro famiglia una ragazza dai comportamenti così irrituali. arcaici appannaggi: prerogative, diritti vecchi e superati. hashùma: vergogna. Bùhalùfa: "l'uomo del maiale" è il soprannome dello zio del marito di Zohra ( a causa di un cinghiale che lo seguiva ovunque), figura originale e stravagante che trasmise ai discendenti il "granello della follia Ahdaf Soueif L’ANIMA DI UN ROCKER Ahdaf Soueif è nata in Egitto nel 1947. Scrittrice, giornalista, si è formata al Cairo e in Inghilterra; ha poi insegnato letteratura americana presso le università del Cairo e di Riyad (Arabia Saudita). Nel 1983 scrive Aisha, il suo primo romanzo, che già anticipa nello stile e nei temi In the eye of the sun (1994), in cui, sullo sfondo della travagliata storia del Medio Oriente, gli elementi autobiografici si intrecciano con uno spaccato della vita delle donne arabe. Aisha racconta la storia di una donna egiziana che, trasferitasi in Inghilterra all'età di quattordici anni, vive divisa tra due culture, quella del paese di origine e quella inglese. La protagonista ripercorre la propria storia: ai ricordi d'infanzia si mescola e si sovrappone la sua vita presente. Sullo sfondo l'Egitto e l'Inghilterra, due mondi tra i quali è difficile scegliere. Aisha diverrà una donna capace di mediare tra le due culture, in grado di comprendere che dalla diversità può derivare una grande ricchezza; nel brano riportato, incontriamo Aisha appena arrivata in Inghilterra: un nuovo paese, una nuova vita, tutta l'energia e la curiosità di un'adolescente, il desiderio di assomigliare il più possibile ai propri coetanei, di essere accettata e condividere con loro momenti felici, la voglia di trasgredire le norme imposte dai genitori e nello stesso tempo la consapevolezza e il peso della propria diversità. Non succedeva mai niente. La vita mi passava accanto. Poi un giorno - ero appena tornata dalla lavanderia mia madre mi disse che dei ragazzi, i figli del Pastore che abitavano lì vicino, mi avevano invitato ad uscire con loro quella sera. Lei aveva accettato per me. Ero emozionata. Vennero a prendermi. Due ragazze alte e angolose, con sopracciglia sottili e i capelli legati in una coda, e un ragazzo con i capelli cortissimi, occhiali e un vestito a quadretti. Ebbi un moto di delusione, ma ero decisa. Sarei uscita con tre «ragazzi della mia età». Non sapevo dove saremmo andati, ma le possibilità erano infinite. Potevamo andare al bar in fondo alla strada a sentire musica al juke box: l'avevo visto luccicare attraverso la vetrata. Potevamo andare al cine ("Si dice cinema, tesoro"). Potevamo andare in un club; ne avevo sentito parlare e me li immaginavo simili al Gezira Club del Cairo, solo molto più emozionanti e liberi. Invece andammo in chiesa. Non era neppure una chiesa antica. Era moderna e spoglia e le panche erano lontane chilometri dal pulpito e il padre dei miei nuovi amici predicò per molto, molto tempo. Mi dissi che era bello che non ci avessero pensato due volte a portare me, una musulmana, nella loro chiesa. Era una prova che appartenevo a quel mondo, almeno un po’, che non ero così diversa come temevo. Pregammo tutti. Sapevo qualcosa sulle preghiere dai libri che avevo letto e feci i movimenti appropriati, e quando chinammo la testa e chiudemmo gli occhi, in silenziosa comunione con Dio, io pregai che qualcosa mi sollevasse dal tremendo tedio della vita. Sapevo che era vagamente assurdo chiedere qualcosa di divertente in una chiesa, ma ero alla disperazione. "Amici". Il Pastore parlò all'improvviso. "Oggi nella nostra città troviamo sempre più gente che viene da luoghi lontani: gente di razze diverse, di religioni diverse. Alcuni di loro sono tra noi stasera. Se qualcuno in questa assemblea desidera unirsi a noi nell'amore di Gesù Cristo, alzi la mano ora, mentre i nostri occhi sono chiusi nella preghiera, e io più tardi li cercherò per guidarli verso l'amore di Nostro Signore. Ora alzate la mano". Tenni gli occhi chiusi e i pugni serrati ai fianchi. Non riuscivo a deglutire. Non avevo dubbi che si stesse rivolgendo a me. Più tardi andammo a prendere il tè in una sala dello stesso edificio. Erano tutti alti e pallidi, con capelli lisci castano chiaro e abiti di tweed1. Mi sentivo esageratamente piccola e scura ed ero dolorosamente conscia del mio aspetto diverso, e in modo particolare dei miei capelli diversi, mentre aspettavo di essere scovata e guidata verso l'amore di Gesù Cristo. Grazie al Cielo, ciò non avvenne. Ma ero stata tradita - seppure inconsapevolmente - e sapevo che non sarei mai più uscita con i figli del Pastore. Sulla strada di casa cercavo con lo sguardo i Teddy Boys e i Rockers2 che si pavoneggiavano agli angoli delle strade. Provavo un desiderio struggente di stare con loro, con le loro motociclette e le loro ragazze appariscenti nei vestiti colorati. Rappresentavano tutto quello che mi mancava, e ogni volta che mi capitava di passare davanti ad uno di loro, il cuore cominciava a battermi al solo pensiero che avrebbe potuto rivolgermi la parola. Era una speranza inutile, lo sapevo. I miei genitori non mi avrebbero mai permesso di frequentarli. E quando un giorno un gruppetto di loro mi fischiò dietro, seppi che era ancora peggio. Perché erano ostili. Mi resi conto che con i miei atteggiamenti da educanda e la vocetta pedante, non mi avrebbero accettata comunque. Ero un pesce fuor d'acqua: avevo i modi di un intellettuale borghese occidentalizzato e l'anima di un rocker (sebbene nessuno oltre a me lo sospettasse ancora). [...] Nessuno mi aveva detto che si trattava di una scuola femminile. In Egitto frequentavo scuole miste e mi ero sempre trovata meglio con i ragazzi che con le ragazze. D'improvviso la scuola non sembrava più una cosa così bella; era un luogo grande e freddo con migliaia di ragazze alte in gonna blu. "Tu puoi essere esonerata dalla preghiera, dal momento che sei maomettana", mi sussurrò l'insegnante che mi aveva portato là. Niente paura. Quello che desideravo di più era mescolarmi, amalgamarmi silenziosamente e appartenere al gruppo, e non avevo intenzione di dichiararmi maomettana o anche solo musulmana, per finire seduta nel corridoio con l'aria annoiata, insieme alle pachistane con i loro calzoni bianchi sotto la gonna. "Per me va bene", dissi. Il mio tentativo di scomparire nella massa non ebbe successo. Durante il primo intervallo mi portarono da Susan, capogruppo del terzo anno. "Da dove vieni?", era una ragazza esile e pallida, con le lentiggini e i capelli rossi. "Dall'Egitto". "È dove ci sono i Faraoni e i coccodrilli e roba del genere", spiegò alle altre. "Vai a scuola col cammello?", questo venne accompagnato da una risatina, ma io risposi seria: "No". "Com'è che vai a scuola, allora?". "A dire il vero, la mia scuola è molto vicino a casa. Ci vado a piedi". Mentre lo dicevo mi resi conto dell'ambiguità della mia risposta: non avevo spiegato chiaramente che, anche se la scuola fosse stata lontana, non ci sarei andata comunque a dorso di cammello. Così ricominciai: "Per la verità, i cammelli li vediamo soltanto..." "Stai in una tenda?". "No, abitiamo in un palazzo belga". "Un che?". "Un palazzo di proprietà di una multinazionale belga". "Ma perché parli così?". "Così come?". "Come un professore, sai". No, non lo sapevo. Sapevo che loro parlavano cockneys3 e io parlavo un 'buon inglese'. Sicuramente ero io nel giusto. Il mio istinto, comunque, mi suggeriva di non dirglielo. "Quante mogli ha tuo padre?". "Una", risposi sdegnata. "Ah, non c'ha dieci mogli allora? Ma comunque che lavoro fa?". "I miei genitori sono tutti e due professori universitari". Un errore questo che avrei rimpianto per sempre; fui associata subito alla professione del nemico. ( A. Soueif, Aisha, London, Bloosmsbury, 1995) Il romanzo non è pubblicato in Italia; il brano, tradotto da R Alunni è tratto dall’antologia scolastica “Scritture e linguaggi del mondo”, ed. La Nuova Italia 1. 2. 3. tweed: stoffa pesante invernale, tipicamente inglese. Teddy boys e Rockers: gruppi di giovani inglesi degli anni Sessanta, caratterizzati da atteggiamenti esibizionisti. cockney: originariamente un dialetto di Londra; qui designa un modo di parlare caratterizzato da un forte accento locale e da deviazioni dall’inglese standard. Nassera Chohora COMUNIONE E PECCATO Nassera Chohra è nata nel 1963 a Marsiglia, da genitori saharawi, le popolazioni nomadi del Sahara. Ha studiato in Francia, dove ha lavorato per il cinema e la televisione; vive stabilmente in Italia dal 1989. Nel suo libro autobiografico Volevo diventare bianca, scritto assieme alla giornalista Alessandra Atti Di Sarro, Nassera ci pone di fronte con leggerezza ed ironia ad episodi che riflettono alcuni dei temi più scottanti dei nostri giorni: il conflitto tra l’Islam e l’Occidente, l’identità femminile nelle culture del Sud, la fatica di vivere degli immigrati. Annie era l'alunna preferita della maestra. La più coccolata e la più viziata. Quella mattina le stavamo tutte intorno perché aveva portato in classe i confetti della prima comunione. Ci raccontava con enfasi tutti i particolari della cerimonia e della grande festa che era seguita. Descriveva con orgoglio il suo lungo vestito bianco e decantava tutti i regali che le avevano fatto parenti e amici. Non capivo bene che cosa fosse questa prima comunione: per quel che ne sapevo, abito bianco e confetti si usano ai matrimoni. Ero curiosa, ma a lei non volevo dare la soddisfazione di domandare nulla. E poi, era già un po' che non ci parlavamo, noi due. Non avevo fatto mistero con le mie compagne di quel che pensavo di Annie, che era una ragazzina troppo capricciosa e antipatica, e lei se l'era presa a morte. Ero invidiosa di lei, perché sua madre veniva a prenderla tutti i giorni a scuola con la macchina, perché abitava in una villa lussuosa e perché la maestra di tanto in tanto andava a casa sua a bere il caffè. Anche un'altra delle mie compagne, Valérie, stava per fare la stessa festa. Non era una delle mie amiche preferite, ma era meno antipatica di Annie, così decisi di rivolgermi a lei per saperne di più. Valérie fu molto gentile, non solo mi spiegò rapidamente in che cosa consistesse la prima comunione, ma mi invitò anche a casa sua per il ricevimento. Soltanto di una cosa si raccomandò vivamente: di non presentarmi vestita come in genere andavo a scuola. Vale a dire, con la gonna sopra i pantaloni. Valérie abitava non molto lontano da casa mia. Era una delle pochissime francesine che vivevano alla Cayolle. Questo perché suo padre era l'amministratore, una sorta di portiere responsabile di tutti quegli appartamenti che lo Stato dava in affitto; ed era l'unico, perciò, ad avere una casa con il cortile recintato e un elegantissimo portoncino di ferro all'ingresso. Se quello che avevo intravisto nelle fotografie di Annie era vero, la cosa più bella della comunione era il vestito, mezzo da fata e mezzo da sposa. La sera tornando a casa andai subito da mio padre a chiedergli quand'è che anch'io avrei fatto la prima comunione. Lui non si scompose affatto. Era abituato alle mie domande strampalate. Con gentilezza mi spiegò che non l'avrei mai fatta perché quella era una cosa cattolica e noi musulmani non facevamo nulla di simile. Fu chiaro e conciso. Non come mia madre che ogni volta dava in escandescenze. Però, e forse proprio per questo, non mi convinse affatto. Non volevo rinunciare al mio abito bianco e perciò mi occorreva un parere più autorevole. Chi meglio del vecchio Aftari, il mangiatore di animali, poteva darmelo? Tutti dicevano che era un esperto di cose religiose e io ero stufa della solita, identica, risposta: « Perché non sei cattolica », che tutti mi davano con l'aria di volermisi togliere di torno. Il vecchio Aftari sarà felice di darmi una risposta, se è vero che la religione è il suo passatempo preferito, mi dissi. L'unica cosa che mi tratteneva dall'andare a trovare il vecchio era che da due settimane sua moglie non si vedeva più in giro e i bambini del quartiere dicevano che lui l'aveva ammazzata e poi se l'era mangiata. Da qualche giorno, infatti, nessuno accettava più le sue caramelle. « Buongiorno Monsieur Aftari, come sta? » cominciai io timidamente. « Ciao, cara. Io sto bene. Entra un attimo, a mia moglie farà sicuramente piacere vederti » rispose lui affabile. Se sua moglie vuole vedermi vuoi dire che non è morta, e che lui non se l'è mangiata, pensai tra me e me e mi feci coraggio. Era la prima volta che andavo in quella casa. Non so nemmeno se qualcun altro c'era mai entrato. Mi colpì il buio e l'odore fortissimo di naftalina. Ogni volta che lo sento - ancora oggi - mi fa venire i brividi: non so perché, ma lo associo istintivamente all'idea della morte. Madame Aftari era sdraiata sul letto e nella stanza si sentivano forti i suoi lamenti e il respiro affannoso; anche senza vederla, in quella penombra, si capiva che stava molto male. Con un filo di voce mi disse: « Vieni vicino a me. Sai, ormai ci vedo poco. Vieni più vicino. Quanto sei cresciuta, sei proprio caruccia ». Ma come faceva a vedere che ero carina se in quel buio io distinguevo appena il contorno dei mobili? Sarà perché per le persone anziane i bambini sono tutti carucci, pensai. Il vecchio Aftari camminava a passetti corti e svelti. Si fermò di fronte al vecchio comò. Avranno più o meno la stessa età, lui e questo mobile d'antiquariato, mi dissi. Dal cassetto tirò fuori delle caramelle. Erano quelle alla menta, le riconobbi subito dalla carta verde che le avvolgeva. Costavano poco e non erano tra le migliori. Comunque le accettai con un sorriso. Le misi in tasca senza mangiarle, così almeno ero sicura che non si sarebbe offeso. Mi sedetti in fondo al letto. I miei piedi non toccavano terra. Non avevo mai visto un letto tanto alto. La vecchia mi fece un sacco di domande: « Sei brava a scuola? Tua madre come sta? ». Risposi distrattamente e, con l'aria di chi non vuole perdere altro tempo, mi rivolsi al marito: « Voglio fare la prima comunione, come devo fare? ». E lui, perplesso: « Ma come fai a fare la comunione, tu non sei cattolica, sei musulmana! ». Non volevo credere alle mie orecchie, anche lui la stessa risposta. Ma non mi arresi: « Qual è la differenza? » chiesi a bruciapelo. E lui, molto lentamente, misurando le parole: « La differenza è che noi musulmani non mangiamo maiale, non beviamo alcolici, preghiamo Allah e quando moriremo andremo dritti in paradiso ». A me sembrava che Valérie e Annie vivessero già in paradiso; ed era quel tipo di paradiso che mi interessava, più di ogni altra spiegazione. Salutai in fretta e me ne andai. Prima dì incamminarmi verso casa di Valérie, rubai dei fiori dall'aiuola dei vicini. Non volevo presentarmi a mani vuote, ma chi me li dava i soldi per comprarle un regalo? Davanti al cancelletto d'ingresso giocavano dei bambini e dentro si intravedeva una lunghissima tavolata bianca con vasi di rose a intervalli regolari, piatti in abbondanza e bottiglie di vino a decine: roba che a casa mia non s'era mai vista. La sorella maggiore di Valérie mi venne incontro con un vassoio di dolci in mano, ma stentava a riconoscermi e mi guardava con sospetto quasi pensasse che volessi imbucarmi. « Sono Naci. Sono un'amica di Valérie. Stiamo nella stessa classe. Mi ha invitata lei alla festa! Valla a chiamare, per favore » le dissi un po' agitata. Valérie, da lontano, sembrava proprio una piccola sposa, o una fatina: Quanto è bella - pensai - è così che lo voglio il vestito! La guardavo ammirata: anche le scarpe, le calze, persino i guanti, era tutta bianca! Dopo questa visione non avevo più dubbi, dovevo a tutti i costi diventare cattolica, così avrei potuto indossare anch'io l'abito bianco della prima comunione. Appena mi vide, Valérle mi sorrise e mi invitò a entrare Davanti a me, sulla tavola imbandita, c'era ogni ben di Dio. E, a proposito: non ero più certa di quale Dio generoso si dovesse ringraziare per tutte quelle leccornie, ma non mi interrogai oltre, in quel momento ero preoccupata d'altro. Tutti mi offrivano qualche cosa e mi facevano sentire davvero bene, al centro dell'attenzione. Discretamente mi riempii le tasche di caramelle e dolci per i miei fratelli che erano rimasti a casa. Mentre li prendevo, guardandomi intorno un po' imbarazzata, pensai che quel che stavo facendo non era il massimo dell'educazione, che mia madre non avrebbe approvato di sicuro, ma era più forte di me, non potevo proprio farne a meno. Alla mia destra ragazzi e ragazze avevano acceso il giradischi e s'erano messi a ballare, incollati il più possibile gli uni alle altre. Se fosse stata una festa musulmana una cosa del genere non sarebbe mai accaduta. Le feste, da noi, per qualsiasi motivo si facciano, sono sempre divise in due, una per gli uomini e una per le donne. E inoltre, mai e poi mai si vedranno, a una festa araba, maschi e femmine seduti alla stessa tavola, tanto meno poi a ballare insieme, tutti stretti e appiccicati, come stavano facendo questi miei nuovi amici cattolici. Oltre ai dolci, sul buffet c'erano anche salame, salsicce, prosciutto e vino rosso: un concentrato di peccati gravissimi, secondo il Corano. Li osservavo a distanza cercando di non attirare l'attenzione. Loro non sapevano che quel giorno la mia vita sarebbe cambiata. Quando mi fossi completamente confusa tra la folla e nessuno avesse più badato a me, allora avrei potuto dare inizio alla mia conversione. Come? Mangiando il salame e bevendo il vino, naturalmente. A sentir tutti, era solo quella la differenza tra noi e i cattolici! Il salame aveva un sapore salato e il vino aveva un po' il gusto dell'aceto rosso al quale era stato aggiunto dello zucchero. Li avevo ingurgitati in un istante, senza quasi masticare. Ripetei quel gesto più volte, come fossi una ladra. Ogni boccone era sempre più grande e ogni sorso di vino sempre più abbondante, finché ritenni che potesse bastare. A quel punto dovevo per forza essere diventata cattolica. La mattina seguente, a scuola, avevo già fatto gli inviti per la mia festa a tutta la classe, quando la maestra cominciò a farmi delle strane domande: « Dimmi, Naci, è vero quel che ho sentito dire a proposito della tua festa di prima comunione? ». Il sangue mi si gelò nelle vene. Quella maledetta spia stavolta me la paga!, pensai inferocita. « Naturalmente, signora maestra, è tutto vero. La festa si farà la prossima settimana ». « E i tuoi genitori ne sono al corrente? ». « Ancora no, ma glielo dirò quando tutto sarà pronto. Eppoi c'è ancora molto tempo ». La maestra mi guardava perplessa. Prese in mano una penna, si sedette e ricominciò: « Sai Naci, ognuno ha la sua maniera di vivere, di concepire le cose, di pregare, di vestirsi o di mangiare in modo differente. Questo non vuoi dire che certe persone siano peggiori o migliori di altre, semplicemente hanno una cultura diversa. E devi sapere che nel tuo caso non è possibile fare la comunione perché i tuoi genitori sono musulmani e non credo che condividerebbero questa tua decisione». « Lei ha detto bene, signora maestra, i miei genitori sono musulmani, ma io non più ». La mia interlocutrice incrociò le braccia e fece un profondo respiro. « Scusami, non capisco. Come mai tu non sei più musulmana? Ti hanno per caso battezzata? ». « Sa, signora maestra, io sono diversa dai miei genitori, io mangio il salame e bevo il vino, perciò sono cattolica ». Lei scoppiò a ridere: « Ma questo non basta! Prima dovrai farti battezzare in chiesa, da un prete cattolico, e soltanto dopo potrai fare la comunione. Se ci tieni tanto a diventare cattolica potrai sceglierlo quando sarai più grande. Non è mai troppo tardi per convertirsi, c'è gente che lo ha fatto anche a ottant'anni ». Che diceva mai, quella lì? Che cos'era quella faccenda del battesimo, del prete? Nessuno me ne aveva mai parlato. Pensai che fossero tutte balle, ma sotto sotto il dubbio cresceva. Sapevo bene che la maestra, come la mamma, aveva sempre ragione. E allora? Avevo ingoiato quelle cose disgustose per niente. Non ci sarebbe stata nessuna festa e non avrei avuto nessun abito bianco! D'un tratto fui assalita dal terrore. Se non sono diventata cattolica, vuoi dire che sono ancora musulmana. E se sono ancora musulmana ho un gravissimo peccato sulla coscienza: vino e salame, pensai angosciata. E se il mio buon Allah mi avesse cancellata? Che cosa sarò mai adesso? E dopo la vita che farò? Non potrò andare in nessun paradiso, né in quello cattolico, né in quello musulmano. Il problema si faceva a ogni istante più drammatico. Non sapevo più che fare. Ancora una volta dovetti ricorrere al vecchio Aftari. In fondo lui me l'aveva detto di lasciar perdere. Comunque saprà trovare una soluzione, mi dissi, mentre camminavo svelta verso casa sua. Ma come glielo dico che ho bevuto il vino e mangiato la carne proibita? Si arrabbierà di sicuro. Entrai in casa del vecchio arabo senza neppure bussare: «Monsieur Aftari, lei mi deve assolutamente dire come fa un musulmano a farsi perdonare da Allah quando ha commesso un gravissimo peccato ». «Vedi, figlia mia, dipende dal tipo di peccato... ». Guardai in basso, ma non confessai nulla. E lui continuò: «Un buon musulmano può sperare nella clemenza di Allah chiedendogli semplicemente perdono, poi sarà l'Onnipotente a decidere se il suo discepolo lo merita o no. Ma Lui fa sempre la cosa giusta. Comunque un buon metodo è quello di rispettare scrupolosamente il periodo di digiuno. Un buon musulmano affronta questo sacrificio con orgoglio, non come fanno oggi tanti giovani che lo considerano il peggiore dei calvari. Poi bisogna ringraziare spesso Allah d'averci dato la vita e questo si fa in un modo molto semplice: appoggiando la mano destra sulle labbra, baciandola e poi portandola alla fronte e infine verso il cielo. Così, vedi? » e ripeté più volte quel gesto come per assicurarsi che lo avessi visto bene. Poi continuò a spiegare, tenendo una mano appoggiata sul cuore. Lo faceva sempre quando parlava di religione. « Allah è grande e sa che l'uomo non è perfetto. Nella vita tutti possono sbagliare, chi più chi meno, ma Lui nella sua immensa grandezza perdona ogni uomo che gli si avvicina. Sai Naci, il mio unico rimpianto è di essere troppo vecchio per andare sino alla Mecca. Quello è il posto dove si è più vicini ad Allah. Tutti i buoni musulmani dovrebbero andarci almeno una volta nella vita, ma il viaggio costa... » All’improvviso, mentre il vecchio Aftari parlava, mi sentii sollevata. Finalmente mi pareva di aver capito come funzionavano le cose. Uno poteva peccare quanto gli pareva purché alla fine si pentisse almeno un po', facesse regolarmente il digiuno e, se era molto ricco, andasse anche in pellegrinaggio alla Mecca, così sarebbe stato certo di poter parlare con Allah quasi a quattr'occhi. (N. Chohra, Volevo diventare bianca, , a cura di A. Atti di Sarro, edizioni e/o, 1993) Kossi Komla-Ebri MAL D'AFRICA, MAL D'EUROPA Kossi Komla-Ebri è originario del Togo. Nel 1997 ha partecipato al concorso per scrittori immigrati «Eks & Tra», vincendo il primo premio con il racconto”Quando attraverserà il fiume”; nel 1998 si è aggiudicato il quinto posto con “Mal di. ..”In questi e in altri suoi racconti affronta i temi dei contatti fra persone di culture,lingue e tradizioni diverse, evidenziando le difficoltà di comunicazione e comprensione, ma anche le possibilità di incontro e di scambio. Una giovane ragazza del Togo decide di raggiungere il fratello medico in Italia. I rapporti con la cognata e i nipotini si dimostrano subito difficoltosi e freddi. il suo ruolo è ridotto a quello di domestica obbediente e premurosa. La nostalgia delle abitudini di casa diventa ogni giorno più struggente e le regole imposte dal fratello e dalla moglie insopportabili. fino al momento della ribellione. Anche la precaria indipendenza raggiunta, però, risulta difficile da gestire e il ritorno in Africa si delinea come l'unica strada percorribile. Eppure, giunta finalmente a casa, l'aspetta qualcosa di imprevedibile: la nostalgia dell'Italia. Mio fratello mi aveva fatto venire per badare alla sua casa e ai suoi figli, perché lui e la moglie lavoravano tutto il giorno. Lui, la moglie italiana e i loro due bambini abitavano a Torre Boldone, un paesino non lontano, dove lavorava come medico. Mi avevano destinato una stanza nella taverna della loro villetta. Si vedeva che stavano bene, anche se trovavo mio fratello un po' succube della moglie, che comandava come mia madre, ma in modo più esplicito. All'inizio fu difficile comunicare con mia cognata e i miei nipotini, perché non capivo la lingua, e mio fratello si rifiutò di farmi da traduttore. Subito mi raccomandò di tenere la mia stanza in ordine, di usare le «pattine» quando entravo in salotto, di non farmi la doccia tutti i giorni perché il riscaldamento costa, di non lasciare le luci accese nelle scale e in bagno, di non impiegare tre ore per stirare, di non parlare nella nostra lingua e di tenere basso il volume di quella «nenia» di musica africana. Incluso nel sacrosanto decalogo, vi era il divieto di cucinare cibi che richiedevano troppo tempo di cottura, e che soprattutto impregnavano la casa per giorni con la scia degli aromi dei condimenti (la «puzza»). Sentivo che era sempre angosciato di vedermi fare qualche gaffe, tipo: sgranocchiare le ossa durante il pasto, cosa che a lui piaceva tanto fare al paese. Ma chissà perché qui sembrava suscitare in lui come un senso di vergogna. Non riconoscevo più mio fratello, si lasciava chiamare dai figli col suo nome, come se fosse un loro coetaneo. Lui e la moglie davano sempre precedenza a loro in tutto e dovevano pure supplicarli per mangiare carne! Erano troppo viziati. lo, i miei figli (ne volevo almeno sei), li avrei educati all'africana: obbedienza e rispetto. Non mi piaceva come i bambini rispondevano ai loro genitori. Sorrido ora a ripensare a queste cose, al mio stupore quando vidi per la prima volta mio nipote inscenare una delle sue isteriche commedie, perché si era formata della «pellicina» sul latte. Quando vidi mio fratello alzarsi, mi rallegrai pensando al giusto ceffone che stava per dargli, invece prese un cucchiaio per asportare semplicemente quel velo e implorarlo: - Dai, pulcino, bevine ancora un po’! Ero davvero sconvolta! Dovevo badare a loro, ma non riuscivo a farmi obbedire. Un giorno in cui ero fuori di me, li sgridai nella mia lingua, perché mi era più facile e loro scoppiarono a ridere, scimmiottando letteralmente il mio «parlare africano» con «Abuga, bongo bingo!» «Eppure» - pensai con amarezza - «questa è la lingua dei padri del vostro padre!», ma non proferii parola. Non sapevo più come comportarmi. Mia cognata mi faceva sentire un'intrusa, mi guardava con aria sospettosa, perché, per educazione, non la guardavo negli occhi quando le parlavo. La sentii un giorno dire al una sua amica al telefono che ero sorniona e ipocrita. Il mio sogno d'Europa stava tramutandosi in un incubo: troppo freddo, poco tempo, e poi l'indifferenza, la solitudine... Me ne stavo sempre di più rinchiusa nella mia stanza a cullarmi nella nostalgia. Feci presto a consumare il sacchetto di farina di manioca e le arachidi che mia madre m'infilò in valigia. Non riuscivo a adattarmi a mangiare sempre la pasta: anche se loro dicevano che c'era differenza fra tortellini, bucatini, spaghetti e lasagne, per me era sempre pasta. Avevo voglia di gustare la pate (polenta bianca non salata) con un buon sugo di gombo e di pollo, con tanto peperoncino dentro, assaporarla con le mani, prendere un boccone scottante e fumante, triturarlo per bene, arrotolarlo da farne una pallina ed improntarci un solco profondo con il pollice da poter raccogliere per bene il sugo prima di inghiottirlo, poi leccarmi le dita con delizia e rosicchiare un pezzo d'osso... [...] Devo la mia salvezza a Conception, una ragazza filippina che faceva la colf presso una famiglia nella villetta contigua alla nostra e parlava un po' di francese. Ci vedemmo per la prima volta sui balconi, mentre ero intenta a battere un tappeto, poi ci trovammo a fare la spesa al supermercato. Lei era già in Italia da cinque anni e la sua amicizia ed i suoi consigli furono per me come manna nel deserto. Presto imparai la lingua, a cucinare e a tenere la casa meglio. Lavoravo svelta e mi avanzava tempo per leggere e guardare la televisione. Ben presto avevo imparato ad apprezzare il cibo. Cercai di assimilare più cose possibili, di dimenticare totalmente quella che ero. Intanto diventai più esigente, volevo che mio fratello mi lasciasse uscire ogni tanto, volevo la mia giornata di libertà come Conception, volevo soldi per poter mandare un regalo a mia madre, per comprare vestiti nuovi come piacevano a me e non più riciclare quelli di mia cognata. Nella discussione che ne nacque con mio fratello ci scambiammo accuse reciproche, che non avrei mai pensato di poter formulare. Disse: «Sei un'ingrata!», quando gli annunciai di aver trovato lavoro presso una signora anziana a Bergamo, perché volevo guadagnarmi la mia indipendenza. Dapprima urlò: «Se volevamo pagarci una baby sitter o una colf, non c'era bisogno di mandarti a chiamare dall' Africa, sai!», poi di fronte alla fermezza della mia decisione, tentò la carta sentimentale: «Non t'importa di lasciarci così in difficoltà, di abbandonare i tuoi nipoti, fingevi allora di volergli bene! Sei proprio senza cuore!» [...] Passato il primo momento di rabbia, e dopo una lettera di nostro padre, mio fratello venne a trovarmi di nascosto dalla moglie. Lì da me, ritrovavo il Fofo che avevo sempre conosciuto, parlavamo nella nostra lingua, gli preparavo piatti nostri, piccanti, che inghiottiva golosamente... con le dita, poi spezzava l'osso con i denti e ne succhiava voluttuosamente il midollo, facendo un rumore infernale e lo sentii infine ridere come si usa da noi a piena gola e parlare e ricordare della gente, degli episodi del villaggio. Un giorno, vedendolo ballare scatenato al ritmo di una musica tradizionale, lo sfottei: -Dottore, se ti vedessero i tuoi pazienti! E lui ribatté ridendo: -Diranno: eppure sembrava uno come noi! Se ne andava poi con passo leggero, con dentro gli occhi la luce ironica di chi si diverte a tradire se stesso. [...] Un giorno Fofo mi trovò a casa con delle amiche a ballare un motivo del paese. Al suo arrivo, si fece un silenzio di rispetto, ma carico di rimprovero, perché in molti lo consideravano come un «traditore». Non tanto perché aveva sposato una bianca, ma perché, dicevano, era diventato come un bianco: freddo ed indifferente alla sua gente, come se si vergognasse delle sue origini e poi non si capiva perché, con tutto lo spazio che aveva in casa sua, non organizzasse ogni tanto qualche serata per ballare, almeno per le feste importanti. Si sentiva a disagio e dopo un po' scappò via con la scusa di un paziente da visitare. Da allora prese a telefonarmi prima di arrivare come usano in Europa. Non per dìfenderlo, ma capivo che aveva fatto la scelta di stare definitivamente in Italia, e per la pace della sua famiglia era dovuto scendere a compromessi con se stesso. Conoscendo mia cognata, sapevo che non poteva portare «gente» in casa così all'improvviso, come usiamo fare da noi e ospitarli per pranzo o cena o addirittura stare a dormire. Qui è tutto diverso, da noi con l'abitudine della grande famiglia e il fatto di cucinare piatti unici a base di sugo, si fa presto a riscaldarne un po', a rigirare in pentola un po’ di pate o pestare del fufu per fare posto attorno al piatto per l'ospite. Alcuni davano la colpa a mia cognata, ma credo che qui, il ritmo della vita è tale che il tempo annacqua i sentimenti divorando la vita e la gente. Se a lui andava bene così, come mi confessò un giorno, doveva andare bene anche per noi, perché lui rivendicava il suo diritto a vivere la sua vita come libertà individuale e non collettiva come predica la solidarietà africana, e poi non si sentiva l'obbligo di frequentare qualcuno per il solo fatto che quello era nero oppure proveniva dall'Africa. - Qui in Europa -sentenziò -ognuno deve pensare per sé, punto e basta, io mi sento in. dovere solo nei confronti dei miei parenti stretti e solo se bisognosi o meritevoli. Certo non condividevo il suo punto di vista. Replicai soltanto: - Fofo, questo paese, questa nebbia non fa per me, mi manca il sole, le feste al villaggio, il tempo, le risa della gente, il vivere assieme con le persone. Eppure, continuai a lavorare, risparmiando soffocata dalla nostalgia con un unico pensiero e traguardo: tornare a casa per aprire il mio negozio di sartoria. Infine due anni fa, con un groppo in gola abbracciai tristemente la signora Maria, che era stata così buona con me, sapendo che la mia partenza coincideva con il suo ingresso in un ricovero. Trattenendo a stento le mie lacrime nascenti, salutai mio fratello, Conception e tutti i miei amici, e me ne tornai a «casa» con la valigia piena di regali, di piatti e posate, con un sogno da realizzare. Al mio ritorno in Africa, passata la prima settimana d'effervescenza, capii che non potevo più vivere al villaggio, dove non c'era né luce né acqua corrente, abituata com' ero ormai a vivere con certe comodità. [...] Decisi di trasferirmi in città, un po' per sfuggire all'assalto quotidiano dello sciame dei parenti che si allineavano per la questua, un po' perché il caldo, le mosche, le zanzare mi erano diventati insopportabili e sentivo la necessità di vivere in un ambiente climatizzato, ordinato e tranquillo. Il primo anno non fu così facile, ma lentamente incominciai a farmi una certa clientela e una delle mie clienti, Sonia, che ha il suo negozio di parrucchiera dirimpetto al mio, è diventata la mia migliore amica. Sonia è una ragazza formosa, gentile e decisa: è tornata dalla Germania, dove lavorava «nello spettacolo» due anni prima di me, per investire i suoi risparmi nel suo salone. Ora per me le cose vanno meglio. In verità dovrei dire, ora andrebbero meglio, se non fosse per quella strana sensazione d'irrequietezza che ogni tanto mi invade tutta fin dentro le ossa. Allora prendo la mia auto, vado in centro città a girare per i negozi, entro nei supermercati a comprarmi degli spaghetti, delle scatole di pelati, della carne venuta dalla Francia, un po' di taleggio e poi ritorno a casa a cucinare il tutto e ad invitare Soma a cenare con me. A volte andiamo a prendere l'aperitivo al «Gattobar» e poi via di corsa a divorare una pizza «Da Silvia» per concludere la serata a vedere qualche bel film con Mastroianni e Sofia Loren. [...] Ah, l'Italia! Pensare che in Italia, volevo tanto tornare a casa! Ormai mi sento come inquilina di due patrie: a volte ne sono felice, a volte mi sento un po' dimezzata, un po' squilibrata, come se una parte di me fosse rimasta là, eppure so che lì avrei di nuovo il mal d'Africa. Forse la mia è nostalgia, o più semplicemente mal di... mal d'Europa. (Kossi Komla-Ebri, Mal di..., in AA.VV., Destini sospesi di volti in cammino, Santarcangelo di Romagna, Fara, 1998) Kossi Komla-Ebri UNA STRANA COPPIA DI NONNI La famiglia di Davide è una famiglia multietnica: la mamma è italiana, il papà africano, la moglie brasiliana mentre la sorella e i nipoti risiedono da anni in Francia. Le vacanze di Natale sono l'occasione per andare a trovare i genitori in Africa, dove vivono ormai da molto tempo, e rievocare tutti insieme gli anni trascorsi in Italia, quando essere una «coppia mista» - un'italiana sposata a un africano - era una cosa insolita da vedere, che suscitava curiosità e diffidenze nelle persone con cui si entrava in contatto. Davide, sua moglie e i loro due figli erano venuti a passare le vacanze di Natale dai genitori in Africa. Per i bambini era ormai diventata una tradizione quella di fare Natale ogni due anni con i nonni, alternandosi con i cuginetti della Francia, i figli della zia Sarah. Quando i cugini andavano a Natale, toccava loro andarci d'estate e viceversa. Avevano lasciato le colline innevate della Brianza1, le sue serate nebbiose e il suo freddo pungente per piombare dopo poche ore di viaggio nel caldo torrido, umido e afoso della terra africana. I bambini erano tutti eccitati, perché a loro piaceva quel modo di passare un Natale diverso senza l'abituale albero con i calzettoni appesi, i panettoni e i pandori. L'atmosfera magica dei chiari di luna africani tingeva le serate d'un alone di mistero che li affascinava e, nella semplicità ritrovata, sembrava di gustare maggiormente la gioia dello stare assieme, di sentirsi uniti, di sentirsi famiglia. Il piccolo Selom, di dodici anni, in particolare, si pregustava le serata in compagnia del nonno, perché lo avrebbe «stressato», come diceva suo papà, per farsi raccontare favole e storie del passato. A dire il vero, con quel chiacchierone di suo nonno, era difficile a volte distinguere le une dalle altre2. Alla piccola Seyenam, che aveva dieci anni, piaceva anche l'idea di farsi coccolare e viziare dalla nonna. Erano arrivati da una settimana, che era volata via come d'incanto, presi com'erano a ritrovare i loro amichetti per rincorrersi all' aperto, lontani dai soliti videogames, a crearsi giochi, a tuffarsi nell'oceano, a costruire un presepe gigante nel giardino, a girare per i mercati alla ricerca di cose insolite e, a volte, nella serata, ad andare a vedere ballare, sotto il ritmo sfrenato del tam tam, la gente del vicino villaggio. Seyenam, che era meno timida, si lasciava travolgere dal ritmo e seguiva con il corpo il muoversi sensuale delle danzatrici, mentre Selom si accontentava di accompagnare il ritmo con la testa, battendo le mani. Andavano a letto stremati ma felici, sprofondando in quella dolce piccola morte che è il sonno. Erano davvero felici di appartenere a mondi un tempo così diversi e così simili. In un certo senso si sentivano dei privilegiati. La vigilia di Natale, dopo cena, dopo che il sole gigantesco e rosso aveva macchiato l'oceano come l'olio di palma, prima di sprofondare sazi nelle sue braccia3, si erano seduti sulla veranda tutti e sei. Tre generazioni unite da un profondo affetto: il nonno africano nella sua sedia a dondolo stava riempiendo la sua pipa, la nonna italiana trafficava con aghi e filo di lana per rifare un coniglietto per la sua adorata nipotina. Papà Davide e la moglie brasiliana erano concentrati sul gioco della dama, mentre Selom e la sorellina cantavano una cantilena, seduti l'uno di fronte all'altro, battendosi le mani, alternandole poi incrociandole, accelerando sempre più il ritmo di un gioco vecchio come il mondo. Dopo un po' si stancarono e Selom, come in tante altre sere, si avvicinò al nonno, che sembrava appisolato nella sua sedia, tiracchiandolo per la manica del suo bel boubou4 azzurro, ricamato con colori vivaci, dicendo: - Nonno! Nonno! Stai dormendo? - Subito suo padre alzò la testa dal gioco per ammonirlo: - Selom! Non disturbare il nonno! - Ma che disturbare! - ribatté subito il nonno destandosi, attirandolo a sé. - Vieni qui, piccolo principe, dimmi! - Nonno, mi racconti ancora di te e della nonna? - Oh Dio! - esclamò la nonna scherzosamente con voce di finta noia - ancora queste vecchie storie, lo sai piccolo che quando tuo nonno comincia non finisce più! E affermando questo, lanciò uno sguardo di dolce complicità al suo «vecchio negro» come lo chiamava nell'intimità. Aggiunse poi: - Chi è causa del suo mal... E la nipotina concluse sveltamente: -…pianga se stesso. - Dài nonno! - insisté Selom. Il nonno, che adorava raccontare le storie, non si fece pregare più di tanto. Mentre i nipotini srotolavano una stuoia ai suoi piedi, e si accomodavano, egli accese la pipa, sotto lo sguardo di rimprovero di suo figlio. Si sistemò per bene nella sua sedia, tirò una bella boccata di fumo ed iniziò cosi: - Conobbi vostra nonna quando ero un giovane studente in Italia. Allora qui non esisteva l'Università. Di africani in Italia in quegli anni ce n'erano ben pochi, e la gente non era abituata a vedere, come si diceva allora, della «gente di colore». Per strada, ovunque, ti guardavano con una certa curiosità e a volte con diffidenza. Non era raro sentire i bambini mormorare al tuo passaggio: «Mamma, mamma, guarda quel signore è sporco!», oppure più semplicemente: «Mamma, un negro!» - Erano proprio stupidi! -fu il commento di Selom. La nonna intervenne precisando: - Erano bambini! Anche qui in Africa, i primi tempi, i bimbi mi correvano dietro gridando: «Yovo! (bianco) Yovo! Bonsoir, ça va bien, merci!5». Lo dicevano pure a Davide e Sarah. Ti ricordi che Sarah le prime volte si stupiva, sbuffando: «Ma come! Qui mi chiamano bianca e in Italia mi dicono negra!» - Si, però - riprese il nonno - a te non capitava di salire sul metrò, di vedere la «sciura»6 stringersi la borsetta al corpo appena ti vedeva salire, oppure non vedere nessuno sederti accanto sul treno, finché tutti gli altri posti non erano occupati! - Cosi avevi tutto il posto per te, nonno! -commentò pratica Seyenam. - Lo volete lasciare raccontare? -intervenne papà Davide, che aveva smesso di giocare, per avvicinarsi alla moglie e sentire questa storia che ormai conosceva a memoria, per averla sentita centinaia di volte. La sua bellissima e dolce moglie, di natura silenziosa e riservata rincarò a sua volta: - Zitti bimbi, sentiamo il nonno! - Insomma, erano altri tempi! - riprese quest'ultimo. - La nonna, l'ho incontrata ad una festa di compleanno da amici. Tutti ballavano, tranne lei. - Ballavi anche tu, nonno? - chiese la piccola a cui sembrava impossibile che il nonno potesse ballare. - Certo che ballava! - rispose la nonna. - Era un bravo ballerino e tutte le ragazze andavano pazze per lui! - Adesso non esagerare! -disse lui con falsa modestia. - Per molte, era solo ed unicamente della semplice curiosità, il fascino dell'esotico. Insomma, mi attirava questa fanciulla che non mi degnava neanche d'uno sguardo, allora mi sono avvicinato a lei per conoscerla. - E subito vi siete innamorati! - concluse romanticamente la piccola Seyenam, mentre tutti si misero a ridere, e lei s'imbronciò pensando di essere presa in giro. - Non fu proprio così, ma mi era piaciuta subito perché sapeva ascoltare e non solo sentire7. - Lui invece mi aveva conquistata - sussurrò la nonna - con quella sua calma, quel suo fare sicuro, maturo e poi sapeva incantarti e raggirarti con le parole. Mi piaceva, punto e basta, e non mi ero neanche posta il problema che fosse nero. - E così abbiamo cominciato a frequentarci, ma lei non voleva cedere subito! - Come cedere subito? - chiese Selom. - Papà! -esclamò Davide con voce di rimprovero. - Oh! Figliolo! Sono cose della vita. Altrimenti non saremmo tutti qui oggi! - La nonna non voleva cedere alla corte del nonno - spiegò la mamma a suo figlio che fece un «Ah!» d'intendimento. - Poi, alla fine - concluse la nonna - cedetti al suo «charme»8 irresistibile, ci sposammo e nacquero vostro papà Davide e vostra zia Sarah. - Che bello! -esclamò la piccola Seyenam. - Sì, -riprese il nonno, - possiamo dire oggi che la nostra è stata ed è, tuttora, una bella storia d'amore, anche se non fu sempre facile. Abbiamo dovuto, come tutte le coppie, imparare a conoscerci meglio, a superare i nostri piccoli egoismi, le nostre abitudini di vita legati al fatto di essere di cultura diversa. Per esempio, io non ero abituato a fare i lavori di casa, perché da noi erano considerati «roba da donna», e facendoli, mi sembrava giusto averne un riconoscimento, quasi una medaglia da parte sua. Mentre lei, tornando come me dal lavoro, faceva le stesse cose, e mi sembrava del tutto naturale che lo facesse senza averne ricompensa. Poi ero, a dire la verità, un po' permaloso, e me la prendevo nelle discussioni quando lei alzava la voce, perché mi sembrava che mi volesse comandare, allorché contrariamente alle nostre abitudini, mi consideravo già magnanimo perché discutevo ogni cosa con lei. - Io invece - proseguì la nonna - non sopportavo inizialmente, quando abbiamo vissuto in Africa, tutta quella promiscuità, parenti di qua e di là, gente che ti arrivava in casa a qualunque ora, anche all' ora di pranzo e che l'ospitalità africana obbligava ad accogliere a volte anche per dormire, addirittura nel salotto. Non mi sentivo più in casa nostra, continuavo a ripetergli che avevo sposato lui e non l' Africa. Condividevo tutto il bel discorso della solidarietà, della famiglia allargata, del senso della comunità, ma da brava brianzola9 mi sembrava che tutto questo fosse del puro e semplice parassitismo. Il vostro nonno non aveva il senso del tempo, quando mi diceva «torno alle cinque», bastava che incontrasse qualcuno, se ne stava a fare «palabre»10 e se ne tornava alle sette, senza neanche telefonare. - Da noi in Africa il tempo non esiste! -sentenziò il nonno. -Poi un poco alla volta ci siamo «imparati». Ognuno ha cominciato a levigare un po' del suo11, ad uscire dal suo etnocentrismo, e... - Cosa vuole dire «et... nocentrismo» nonno? -chiese Selom. - Vuol dire pensare che le nostre abitudini di vita, il nostro modo di pensare e di fare, solo perché nostri, siano quelli buoni e giusti. Invece ci sono cose buone e non buone in ogni cultura, in ogni paese. E abbiamo cercato di prendere le cose buone delle nostre due culture per insegnarle a tuo papà e alla zia Sarah. In un certo modo siamo stati fortunati, perché eravamo della stessa religione, perché se fossi stato per esempio un musulmano praticante, avrei potuto sposare altre donne, e... - Ti sarebbe piaciuto! - scherzò la nonna, ma lui continuò come se non avesse sentito. - E poi non abbiamo avuto ostacoli da parte di nessuno dei genitori. - Perché dovevano essere contrari se vi amavate? - chiese giudiziosamente Seyenam. - Perché allora - rispose suo papà - le coppie cosiddette «domino»12, le coppie miste, in Italia erano viste come strane, perché per la gente era una novità. Ricordo che addirittura avevano invitato nonno e nonna a Roma ad una trasmissione televisiva sull'argomento. - Sembra incredibile - mormorò Selom. - Sì, lo ricordo anch'io - proseguì il nonno. - E ricordo che già all' epoca tuo papà che aveva all'incirca la tua età, ri... - Invece aveva nove anni, anzi mancavano due mesi ai suoi nove anni! - puntualizzò la nonna che in fatto di memoria per le date era sempre stata una campionessa. - Insomma, già allora tuo padre rimase stupito quanto te, e mi confidò che per lui una coppia mista era un uomo che sposava un robot. Ma purtroppo, non tutti la pensavano così. Lo slogan era «moglie e buoi dei paesi tuoi». Ho visto degli amici minacciati di morte per essersi innamorati di una donna bianca. Ho visto genitori tagliare i ponti con le loro figlie, perché avevano la sola colpa di essersi innamorate di un negro. - Sembra incredibile, nonno!- intervenne ancora Selom. - Come facevano i nipotini a vedere i nonni? - Erano tempi duri; alcune coppie che non andavano d'accordo si rifugiavano dietro il paravento degli scontri culturali per giustificare il loro fallimento, nascondendo così quello che era un'incompatibilità di carattere. - Alcuni ci dicevano - aggiunse la nonna - che eravamo degli incoscienti, perché, secondo loro, i nostri figli non avrebbero saputo in che cultura identificarsi, mentre noi eravamo sicuri che il fatto di poter attingere a due culture diverse era una vera ricchezza per loro, una opportunità da invidiare. - È cosi bello per noi - convenne Selom - poter girare per l'Africa, l'Europa e il Sud America, parlare in francese, italiano e portoghese, sentire tante favole diverse, poter mangiare tanti piatti diversi. - Tu pensi solo alla tua pancia! - ribatté subito sua sorella. - Devi ammettere, papà, - aggiunse il figlio Davide, - che voi eravate genitori un po' speciali, che vi amavate seriamente, che tu non hai sposato la mamma solo per poter avere la cittadinanza e metterti in regola. Ci avete insegnato fin da piccoli ad essere orgogliosi di ciò che siamo, rispettando gli altri, a contare sulle nostre capacità, a non giudicare la gente dalle apparenze, ma ad avvicinarla con la consapevolezza che siamo tutti portatori di valori complementari!13 - Abbiamo fatto quello che dovrebbe fare ogni genitore responsabile. - Sì, in teoria! - ribatté il figlio. - Poi ci avete ,dato soprattutto tanto affetto, che per me è stato l'ancora di salvezza per affrontare tutte le avversità. Sapevo di essere amato da voi e questo mi bastava e non pretendevo di essere amato e di essere accettato da tutti. E di chi non mi accettava per il mio colore caffelatte avevo solo compassione, perché non aveva ricevuto l'affetto che voi mi avete saputo dare. Dopo queste parole, la nonna cercò di nascondere la sua emozione dietro una tosse nervosa e il nonno prese un fiammifero per riaccendere la pipa. La nonna, rivolgendosi a Davide, disse semplicemente: - Grazie, Davide. - E poi? - chiese ancora Selom. - E poi bimbi, è ora d'andare a nanna - rispose la mamma - i nonni sono stanchi Domani è Natale, bisogna svegliarsi presto per la messa. Date il bacio della buonanotte ai nonni e subito a letto. Domani, il nonno vi racconterà il resto. (Kossi Komla- Ebri, Sognando una favola, in AA.VV., Destini sospesi di volti in cammino) 1 Brianza, zona della Lombardia 2 le une dalle altre, le favole dalle storie, ossia i racconti fantastici. Soltanto immaginati, dai fatti realmente accaduti. 3 nelle sue braccia, nelle braccia del nonno. 4 boubou, ampio mantello che copre fino ai piedi 5 Bonsoir…merci!, in francese: Buonasera, va bene, grazie! 6 "sciura", in dialetto milanese, signora. 7 sapeva ascoltare e non solo sentire, ossia la nonna sapeva ascoltare con attenzione e interesse le parole del nonno. 8 "charme", in francese, fascino. 9 brianzola, della Brianza. 10 far "palabre", chiaccherare; in spagnolo, palabra significa parola. 11 levigare un po' del suo, modificare alcune proprie abitudini per facilitare la convivenza. Saidou Moussa Ba e Alessandro Micheletti NEGRI, TURCHI E TERRONI Saidou Moussa Ba, nato in Senegal e residente in Italia dal 1988, e Alessandro Micheletti, milanese, collaboratore editoriale, si sono conosciuti nel 1989 durante un'assemblea antirazzista a Milano. Dal loro incontro è nata la volontà di lavorare e scrivere insieme. Nel 1991 hanno pubblicato La promessa di Hamadi e, nel 1995, La memoria di A., da cui è tratto il brano che segue. Saidou Moussa Ba è anche autore di due racconti (1995), Ritmo senza rumore e Nel cuore di un clandestino, e del testo teatrale Nessuno può colpire l'ombra (1995), scritto con M. Martinelli per il gruppo «Le Albe» di Ravenna. Antonio, un quattordicenne di Milano, si trova in Germania con il nonno Guerino, di origini friulane, trasferitosi in Lombardia quando era ancora giovane. È lì in occasione del matrimonio del cugino Walter, i cui genitori, immigrati molti anni prima, possiedono una grande gelateria. Da una pacata conversazione sui preparativi delle nozze, nasce una discussione dai toni molto aspri contro gli immigrati dell'Italia del Sud e contro i turchi. Gli zii di Antonio temono il giudizio dei parenti della fidanzata del figlio, non vogliono essere scambiati per mafiosi, hanno solo il desiderio di fare bella figura. Eppure Antonio riconosce nelle loro parole le stesse accuse che, qualche giorno prima, i suoi genitori avevano rivolto contro gli immigrati di colore, i «negri», colpevoli di vivere vicino a loro. Antonio ebbe appena il tempo di sistemare i vestiti nella parte di armadio che gli era stata messa a disposizione nella camera di Christian1, un’ampia mansarda, tappezzata di manifesti coi volti dei cantanti rock di fama internazionale. Fece una doccia e, visto che era già sera, scese per la cena ed ebbe modo di verificare in quale misura i suoi ricordi corrispondessero ancora alla realtà2. Per la verità, in sala da pranzo trovò le stesse persone di prima, zia Teresa3, Walter e il nonno. Ma di lì a poco arrivò anche lo zio Marco4, che aveva lasciato Christian al banco dei gelati ed era corso a casa per dare il benvenuto ai parenti. Si salutarono con grandi abbracci e grande commozione, si scambiarono le frasi di rito su quanto tempo era trascorso dall'ultimo incontro, le esclamazioni e le spiegazioni sull'incidente di Anna5. Antonio notò che il nonno non aveva specificato né alla nuora né al figlio le circostanze in cui era accaduto. Poi si misero subito a tavola, perché Marco doveva tornare in fretta al lavoro. [...] -Allora, cosa dite della nostra casa nuova? -chiese Marco con orgoglio evidente. -Le vostre due case nuove lo corresse Guerino. -Già, visto che c'eravamo abbiamo pensato anche ai figli. Appena in tempo. Walter ed Erika sono fidanzati da due anni e non hanno voluto nemmeno aspettare che la loro parte di casa fosse finita, tanta era la fretta di sposarsi. Quanto a Christian, quando si sposerà, con qualche piccola modifica ci sarà posto anche per lui, tutto calcolato. L'unica differenza è che nel sotterraneo i ragazzi hanno voluto ricavare un locale-taverna per ricevere gli amici, poi vi porto a vederlo, anche se è ancora un cantiere. Noi invece abbiamo preferito farne una cantina in piena regola per il Merlot, il Tocai e il Picolit! Comunque, nell'insieme è stato un lavoro grosso. Il progetto è del padre di Erika, l'architetto Muller -precisò Marco con una punta di compiacimento. [...] -Sai, Antonio, che Christian ha appena preso la patente e sta mettendo da parte i soldi per comperarsi una moto? [...] -Potete proprio essere orgogliosi dei vostri figli -sentenziò Guerino. -E tu, Walter, a quanto ho capito hai trovato una brava ragazza... Marco si affrettò a rispondere al posto del figlio. -Una brava ragazza sicuro. Si è appena laureata in biologia. Il padre è architetto, te l'ho detto, e la madre insegna non so cosa. Un'ottima famiglia... -Peccato solo che... - s'intromise Teresa con un sospiro - avevo tanto sperato di vedere mio figlio sposarsi in chiesa, con una bella cerimonia come si deve, non come quando ci siamo sposati io e Marco, che non avevamo nemmeno i soldi per i fiori. Invece... -Invece? -chiese Guerino. Teresa e Marco abbassarono gli occhi sul piatto e per un attimo nella sala da pranzo calò il silenzio. - Erika è di famiglia protestante - spiegò infine la donna. - Ricchi, educati, istruiti. .. fin troppo -interloquì Marco. -…ma protestanti. Con tutte le ragazze cattoliche che ci sono, Walter ne ha scelta una di una religione diversa! L'interessato si spazientì: - Ma quale religione diversa? I Muller sono di fede evangelica, ma in fondo sono cristiani anche loro. Non sono musulmani, no? - Grazie al cielo! - Ci mancava solo d'imparentarsi coi turchi! - sbottarono i genitori, e Antonio cominciò a respirare aria di casa. - E allora volete dirmi dov'è il problema? Si fa un bel matrimonio civile...- Non è come sposarsi in chiesa, Walter, lo sai bene - sospirò Teresa con aria rassegnata. - Comunque è già tutto definito e non vale più la pena di tornare sui soliti discorsi.- Appunto - Walter si rivolse ad Antonio che, come il nonno, era rimasto tagliato fuori dalla discussione. Strano che non abbiano citato il loro proverbio preferito: «moglie e buoi dei paesi tuoi». Come se questo non fosse il mio paese! È la prima volta che me lo risparmiano. Se Antonio sperava che, chiuso quell'argomento spinoso, la conversazione tornasse tranquilla, si sbagliava. Il vero temporale scoppiò di lì a poco, scatenato da una domanda apparentemente innocua di Marco al figlio. - A proposito, Walter, sei riuscito a sistemare le cose per il pranzo di nozze? - Alla fine sì. È stata una fatica, perché non è facile fissare un pranzo per sessanta persone con una settimana d'anticipo. D'altra parte non si poteva immaginare che all'ultimo momento al ristorante Der Blaue Gans bruciassero le cucine per un corto circuito. Comunque ho rimediato: ho prenotato da O Sole mio. - Cosa? - Ma sei impazzito? Teresa rimase col bicchiere in mano, Marco picchiò la forchetta sul tavolo. Antonio e Guerino si guardarono senza capire. - Una pizzeria! - esclamò Teresa. - Una pizzeria napoletana! - fece eco il marito. - No, no, Walter, dammi retta, non va bene. La madre sembrava irremovibile: - È una pizzeria! Non è all'altezza della situazione. - Ma cosa vi salta in mente? Passa per uno dei ristoranti più rinomati del centro. C'è una sala per ricevimenti molto elegante e all'occorrenza si può avere anche un suonatore di mandolino... - Scherzi? - Suo padre divenne paonazzo. - Vuoi che gli invitati della sposa ci prendano per camorristi6 e mafiosi7? Teresa scosse la testa: - Ma cosa devo sentire ancora? Possibile che a ventiquattro anni compiuti mio figlio dimostri il cervello di un bambino di quattro? - Ma io... - Ti rendi conto che in questo paese ci sono riviste che non aspettano altro che di uscire col titolo «Pizzaioli e gelatai uguale mafia»? Ti rendi conto che, quando la Polizia scopre che i pizzaioli e i baristi meridionali pagano il «pizzo»8 ai mafiosi, c'è sempre qualcuno che ha il vizio di generalizzare? Insomma, chi non vede di buon occhio gli italiani non sta a fare tante distinzioni tra noi e loro. Se Marco era furibondo, Teresa sembrava più che altro sconfortata. - Walter, Walter, che cosa ti è saltato in mente? Pensa che cosa direbbero i Muller: «nostra figlia s'imparenta con dei mafiosi». …Poveri noi! Walter cercò di ribattere, ma con poca convinzione, come se gli argomenti dei genitori non gli apparissero del tutto infondati. Di colpo pareva un ragazzino sorpreso a falsificare una firma sul libretto delle assenze. - Va bene, ma dovete capire che a una settimana di distanza si deve prendere quello che si trova... - Niente affatto! - gridò suo padre. - Io piuttosto vendo la Mercedes e prenoto per sessanta persone al ristorante dell'hotel Schlossgarten, hai capito? Ci siamo offerti di pensare noi al pranzo di nozze e dimostreremo a questi Muller che i Guarneri non sono spilorci come loro e non sono neanche mafiosi come i terroni9! Antonio seguiva imperturbabile la discussione, quasi ci si divertiva. Adesso si senti va proprio a casa. Lo zio Marco era della stessa tempra di sua sorella Anna. Parlava dei terroni con la stessa grinta con cui lei parlava dei negri. Nonostante la distanza che li separava, i coniugi Guarneri avevano molto in comune coi coniugi Bellet. Al tempo stesso, il fatto di essere in un'altra città, in un altro ambiente, faceva apparire ad Antonio le cose sotto una luce diversa, come se ne rimanesse al di fuori, a distanza. Se Antonio vedeva nel padre un modello da imitare, al momento con lo zio lo stesso meccanismo non scattava, forse perché Marco era zio materno anziché paterno, forse per via della somiglianza con Anna o forse per qualche altro motivo. Comunque, come modello di comportamento non «funzionava», e anzi la facilità con cui prendeva fuoco parlando dei terroni gli appariva ridicola. (Saidou Moussa Ba -Alessandro Micheletti, La memoria di A., Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1995) 1. Christian: fratello minore di Walter 2. verificare…realtà: Antonio ha un vago ricordo dell’ultima volta che gli zii vennero a trovarlo, quando aveva otto anni. 3. Teresa: zia di Antonio. 4. Marco: zio di Antonio, figlio di Guerino. 5. incidente di Anna: Anna , la mamma di Antonio, qualche giorno prima si è fratturata la caviglia durante una manifestazione contro la costruzione di un centro per immigrati. 6. camorristi: chi fa parte della camorra, associazione criminale napoletana nata sotto il domino degli spagnoli e affermatasi nel XIX sec. 7. mafiosi: chi fa parte della mafia, organizzazione criminosa nata in Sicilia nel XIX sec. 8. pizzo: tangente estorta da camorristi e mafiosi a negozianti,imprenditori. 9. terroni: meridionali in senso spregiativo. In origine la parola, nei dialetti dell’Italia meridionale, indicava semplicemente i contadini, quelli che lavoravano la terra LA SOCIETÀ INTERCULTURALE Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa, prima di essere importato nel resto del mondo. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati o tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. S'infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell'Est, e va in bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, tutte di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava col sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra derivato dai sumeri o dagli antichi egizi....... Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un'antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventata in Cina; il suo coltello è d'acciaio, lega fatta per la prima volta nell'India del Sud; la sua forchetta ha origini medievali italiane; il cucchiaio è un derivato da un originale romano.... Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un'abitudine degli indiani d'America... Mentre fuma, legge le notizie del giorno, stampate in caratteri inventati dagli antichi semiti, su un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all'estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indoeuropeo ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano. R. Linton ( cit. in U. Fabietti, L'identità etnica Storia e critica di un concetto equivoco, La Nuova Italia scientifica, Roma, 1995)