La Pratica Analitica - Centro Italiano di Psicologia Analitica
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La Pratica Analitica Rivista del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Milano V la biblioteca di VIVARIUM La Pratica Analitica - rivista annuale - nuova serie n. 5/2007-2008 Redazione: Comitato di redazione: Sezioni della rivista: Cipa - Istituto di Milano via Donizetti 1/A - 20122 Milano tel/fax: 025513817 e-mail: [email protected] Rossella Andreoli, Giorgio Cavallari, Monica Ceccarelli, Susanna Chiesa, Silvia Di Lorenzo, Nadia Fina, Gianni Kaufman, Laura Vanzulli RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA, a cura di S. Di Lorenzo, L. Vanzulli I MODI DEL PENSARE, a cura di G. Cavallari, S. Chiesa, N. Fina, G. Kaufman INFANZIA E ADOLESCENZA, a cura di R. Andreoli, M. Ceccarelli RECENSIONI, a cura della redazione Segreteria di redazione: N. Fina, G. Kaufman Direttore responsabile: Angela Maria Frigerio Abbonamenti: Collaborazioni: L’abbonamento alla rivista deve essere effettuato tramite un versamento sul conto corrente postale n. 38616462, intestato a: Associazione Vivarium, via Stoppani 12, 21014 Laveno M. (VA). - Abbonamento individuale € 12,00 (biennale € 22,00) - Abbonamento per Enti e Biblioteche € 15,00 (biennale € 28,00) - Abbonamento extra-Europa $ 80,00 Si collabora solo per invito. Gli articoli e le corrispondenze vanno inviati alla Redazione. Per i contributi da pubblicare è richiesto l’invio tramite posta elettronica o su supporto informatico PC compatibile e su carta. La rivista presenterà ai lettori tutti i libri ricevuti che interessano il suo campo di studi e recensirà i volumi più significativi. E’ gradito l’invio regolare delle pubblicazioni da parte di autori ed editori italiani e stranieri Registrazione Tribunale di Milano n. 468 in data 18/07/03 ISBN 978-88-87131-94-9 © 2007 La biblioteca di Vivarium Milano, via Caprera 4 Sommario Editoriale 5 I MODI DEL PENSARE Gianni Kaufman Vergogna: l’emozione del limite Bruno Meroni Superior stabat lupus Gabriella Mariotti Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea Anna Sabatini Scalmati L’insostenibile peso della vergogna 7 37 55 71 RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA Susanna Chiesa La vergogna nella relazione Enrico Ferrari Colpa, vergogna, vincoli emotivi 109 Nadia Fina La vergogna come malattia dell’idealità 129 93 INFANZIA E ADOLESCENZA Francesco Bisagni La corsa del Bambino Ombra Gianni Nagliero La vergogna nel transfert/controtransfert Alessandra Guarino Amato Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV Autori 145 167 187 227 5 La Pratica Analitica La proposta, per questo numero di Pratica Analitica, del tema “Colpa e vergogna nella società contemporanea” sollecitava una riflessione sul significato e sul peso relativo di ambedue i vissuti, nello specifico della società attuale, esperibili nel lavoro clinico e nella stessa vita quotidiana. Già a partire dai primi contributi il tema si è precisato come discorso sulle nuove sfide della società globale (o, come vuole un neologismo di successo, della ‘società liquida’) alla soggettività e all’identità personali. Di ciò si occupano in modo specifico i lavori di Gianni Kaufman (sugli sviluppi individuativi e anti-individuativi delle forme contemporanee della vergogna) e di Bruno Meroni (sul distacco crescente tra vergogna e coscienza morale, e sulla priorità dell’omologazione e dell’appartenenza di gruppo). Il tema è inoltre ripreso da Nadia Fina, che tratta le implicazioni cliniche del prevalere del registro narcisistico e dei principi della competizione, del disprezzo e del cinismo; da Enrico Ferrari, che ipotizza un distacco, tra colpa e codice paterno e un suo riproporsi nella forma più arcaica di colpa originaria di separazione; da Francesco Bisagni che prendendo spunto da un caso estremo di sindrome ipercinetica nell’infanzia — e dai connessi, drammatici vissuti di vergogna — guarda in maniera assai problematica alla situazione attuale della genitorialità. Di taglio più generale, ma comunque non privi di riferimenti all’attualità, sono i contributi di Gabriella Mariotti, sulla differenziazione tra senso di colpa ‘autentico’ e progressivo — di matrice edipica — e senso di colpa, più prossimo alla vergogna, legato a un’ideale narcisistico persecutorio; di Anna Sabatini Scalmati sul nesso tra vergogna di tipo post-traumatico (da grave violenza o seduzione sessuale) e stati dissociativi; di Susanna Chiesa su esperienze di vergogna — specie femminile — nella relazione analitica; di Gianni Nagliero sulla dinamica controtransferale della vergogna. Da ultimo Alessandra Guarino Ama- Editoriale 6 La Pratica Analitica La redazione to riprende il filo della contemporaneità, sia pure da un vertice molto specifico, trattando i vissuti di colpa e vergogna nella situazione sia personale che familiare, dei bambini e degli adolescenti affetti da infezione HIV. La redazione 7 I modi del pensare 1. — Chiamiamo ‘vergogna’ l’emozione che si accompagna a un’esperienza o alla consapevolezza più o meno inattesa ma sempre dolorosa del nostro limite, della nostra impotenza o vulnerabilità. Un limite che potremo incontrare come una cronica o occasionale inferiorità rispetto a uno standard posto dal collettivo o anche importante per noi soltanto (pensiamo al fallimento in un’attività, professionale o sportiva in cui si sia molto investito): parliamo allora di vergogna da inadeguatezza. O, ancora, come confine inavvertitamente o intenzionalmente profanato del sé (parliamo allora di vergogna da violazione); vergogna conseguente a un attacco alla nostra privatezza, intimità o integrità psichica fisica e sessuale; oppure a ogni abdicazione, più o meno imposta, a una credenza, a una norma, a un comportamento o ad altro aspetto che riteniamo o scopriamo essere qualificante dell’identità e del nostro senso del sé.1 La rilevanza dell’aspetto comune (si è detto: la vulnerabilità o l’esperienza del limite) trova riscontro nella validità relativa della distinzione. Così ad esempio il subire violenza, morale o fisica, sarà spesso vissuto — causa in quanto tale di ulteriore vergogna — anche come prova di incapacità/inadeguatezza a difenderci; e la rinuncia ad un traguardo fortemente investito potrà esser spesso più dolorosamente vissuta anche come lesione o tradimento dell’identità. Ma è sempre utile tenere in vita la distinzione ricollegandola, più che a diverse situazioni oggettive, alla differenza o a un mutamento possibile nel modo di viverle o di reagirvi; e è proprio da qui, come meglio vedremo, che dovrà muovere la riflessione intorno a vergogna e individuazione. Prima però di ogni altro distinguo interno alla vergogna, va articolata la sua diversità dalla colpa. Si tratta, in ambedue i casi, alla stessa stregua di imbarazzo ed orgoglio, di emozioni sociali, che cioè riguardano “la valutazione di noi stessi nei confronti degli altri o Vergogna: l’emozione del limite Gianni Kaufman 1. Riprendo la distinzione (in forma appena modificata) da A. Pandolfi, La vergogna, Franco Angeli, Milano, p. 17. Sulla vergogna come riferita al ‘senso di sé’ o all’’amor di sé’ vedi M. W. Battacchi, O. Codispoti, La vergogna, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 38-39. 8 I modi del pensare 2. Così L. Anolli, La vergogna, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 33-34. 3. M. W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit., p. 38. 4. L. Wurmser (1981, 1994), “Saggio fenomenologico sulla vergogna” in AA.VV., La vergogna, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 43-44. 5. Vedi A. Tagliapietra, La forza del pudore, Rizzoli, Milano 2006, p. 38. Gianni Kaufman da parte di altri”2 e che pertanto possono viversi solo in un contesto — o su uno sfondo — interpersonale. (Non è ad esempio così per la gioia, o per la collera o la tristezza che si producono anche in risposta a eventi materiali). Però la colpa ha sempre ad oggetto determinate azioni o omissioni — e la valutazione delle loro conseguenze su altri — mentre la vergogna tende a investire l’intero sé. Anche nel caso della vergogna morale, quale si prova per atti di viltà o tradimento o per qualsiasi manifestazione di debolezza morale di chi vi è coinvolto — atti che suscitano, probabilmente anche senso di colpa — è sempre in gioco l’autovalutazione globale della persona. “Non ci si vergogna per l’azione in sé ma per ciò che essa rivela o può far intendere agli altri di noi come persone, e non solo per il momento dato, ma per sempre (non ‘hai avuto paura’, ma ‘sei un vigliacco’)”.3 Molto efficace, ancora, questo esempio di Wurmser: “Il bambino prova vergogna per la sua azione di aver bagnato il letto, che si contrappone all’aspettativa di sua madre, la quale gli ha esplicitamente proibito simili perdite di controllo. Prova vergogna anche per tutta la confusione che consegue alla sua azione; ma ciò di cui soprattutto e più dolorosamente prova vergogna è l’implicazione che, adesso, lui è un ‘bambino cattivo’, un ‘bambino debole’, un ‘bambino sporco’, o qualunque altro valore altamente negativo la cultura familiare decida di imporgli”.4 Ancora. Se nella colpa è comunque in gioco una responsabilità, la vergogna può esser causata da situazioni su cui non abbiamo, nostro malgrado, nessuna influenza: un difetto fisico, una condizione familiare o sociale, le ricadute di un evento fortuito o di un’azione di altri, come l’azione turpe o riprovevole di un congiunto, o ancora (come nell’abuso o nella violenza subita — nella vergogna da violazione) anche di un’azione di cui siamo vittime.5 Può allora dirsi (ma è controverso se ciò si applichi anche alla vergogna morale) che la vergogna rinvia a un’impotenza nel farsi valere, la colpa all’aver prodotto, col proprio potere, un danno 9 Vergogna: l’emozione del limite per altri.6 Oppure che nella colpa l’altro ha il ruolo passivo di vittima, e il soggetto il ruolo di autore dell’azione o omissione; nella vergogna l’altro (che può però essere anche un altro interiorizzato) ha il ruolo attivo dell’umiliatore e il soggetto quello passivo di umiliato. Si osserva infine — e più sottilmente — che “Nella vergogna vediamo all’opera la figura del testimone, perché la vergogna è collegata all’esperienza del vedere e dell’essere visti. Nella colpa, invece, sono in gioco le immagini interiorizzate della vittima o del pubblico inquisitore, e la sensorialità implicata è piuttosto quella dell’udito, della cosiddetta ‘voce della coscienza’”.7 Così anche Goldberg: “La vergogna è dell’ordine dello sguardo mentre la colpevolezza è dell’ordine della voce (la voce della coscienza). Per questo essa dà luogo a un’etica”.8 L’opposizione probabilmente non va presa alla lettera — ci si vergogna, sicuramente, anche per essere stati ascoltati; ma ha il merito di dare enfasi al peculiare vissuto di esposizione che è nella vergogna,9 l’esposizione inattesa e più o meno improvvisa “di aspetti particolarmente sensibili, intimi e vulnerabili del Sé”.10 Di qui la peculiarità inconfondibile vuoi dei vissuti vuoi delle espressioni esteriori della vergogna. Chi si vergogna bramerebbe sparire, sprofondare, nascondersi, e tuttavia si sente congelato, quasi paralizzato, come se il disprezzo (anche solo temuto), il “crollo radicale del rispetto del soggetto in quanto persona”11 avessero l’effetto di una brutale cosificazione. Più che nascondersi allora conta non vedere, non incontrare lo sguardo dell’altro12 (tendiamo infatti a guardare in basso, a chinare il capo) quasi temendo, di quello sguardo, un magico effetto pietrificatore. Si può comprendere, visto tutto questo, perché la vergogna sia quasi sempre considerata più distruttiva, e anche più sterile della colpa: colpendo l’essere13 prima che il fare della persona non lascia spazio né dà I modi del pensare 6. L. Wurmser, op. cit., p. 42; J. Katz, “The elements of shame” in M. R. Lansky, A. P. Morrison, a cura di, The Widening Scope of Shame, The Analytic Press, Hillsdale and London 1997, pp. 243-245. Sul caso specifico della vergogna morale vedi G. Anders (1956, 1980), L’uomo è antiquato, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 98. 7. A. Tagliapietra, op. cit., p. 38. 8. J. Goldberg (1985), La colpa, Feltrinelli, Milano 1988, p. 81. 9. Ciò per la peculiare asimmetria che caratterizza la visione. Così M. W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit, p. 36. 10. Così H. M. Lind, On Shame and the Search for Identity, Science Editions, New York 1961 citato da L. Wurmser, op. cit., p. 61. 11. L. Wurmser (1981, 1994), “La struttura della vergogna” in AA. VV., op. cit., p. 105. 12. M. W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit., p. 29. 13. G. Anders, op. cit., vol I, p. 98 10 I modi del pensare 14. Su questo anche M. C. Nussbaum (2004), Nascondere l’identità, Carocci, Roma 2005, p. 246. 15. Su questo aspetto vedi L. Anolli, op. cit., p. 31; P. Mollon (2002), Vergogna e Gelosia, Astrolabio, Roma 2006, pp. 53-54; M. Lewis (1992), Il Sé a nudo, Giunti, Firenze 1995, pp. 161164 e 183-208; A. P. Morrison, Shame the Underside of Narcissism, The Analytic Press, Hillsdale and London 1989, pp. 101 sgg. e 106 sgg. 16. La coscienza e l’accettazione del limite sono condizione della relazione col Sé perché introducono alla consapevolezza della propria unicità. Così Jung: “Il sentimento dell’illimitato (…) si può raggiungere solo se siamo definiti al massimo. La più grande limitazione per l’uomo è il Sé”; ciò è palese nell’esperienza: ‘Io sono solo questo!’ Solo la coscienza dei nostri augusti confini nel ‘Sé’ costituisce il legame con l’infinità dell’inconscio. In questa consapevolezza io mi sento insieme limitato ed eterno, mi sento l’uno e l’altro. Se mi so unico nella mia combinazione individuale,vale poi a dire limitato, ho la possibilità di prendere coscienza anche dell’illimitato.” Cfr. C. G. Jung (1963), Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano 1978, p. 383. Gianni Kaufman indicazioni per alcun esito riparativo (come invece la colpa: la confessione o il risarcimento del danno, la riconciliazione con il danneggiato) né un indirizzo allo sviluppo morale.14 Per questo, probabilmente, è così spesso congiunta alla rabbia — rivolta al sé, ma prima ancora agli umiliatori — e, se protratta, esita in depressione.15 E tuttavia se deve farsi questione, nella vergogna, non solamente di inferiorità o fallimento (e anche qui la vergogna, in piccole dosi, può essere stimolo al miglioramento di sé) ma di coscienza e accettazione di limiti, sembra difficile non annettervi anche un valore individuativo.16 Si può provare, su questo punto, ad avanzare un’ipotesi. Si dà un percorso individuativo della vergogna quando essa si muova, nel vissuto dell’Io, dall’area ‘soggettiva’ dell’inadeguatezza (legata a criteri in qualche modo arbitrari di valutazione) a quella ‘oggettiva’ della violazione (perché riferita a confini del sé): se ad esempio mi interrogo sulle ragioni di un mio fallimento e giungo a pensare di aver fallito, potremmo dire, nel farmi violenza o nel tradire me stesso (o ancora nell’essermi lasciato indurre a tradire me stesso), nel perseguire e prima nel pormi scopi o valori non compatibili con i miei mezzi, o con i miei autentici interessi, i miei sentimenti o radicati principi etici. Si dà invece un percorso deindividuativo o alienante se mi assumo ed elaboro come mia insufficienza, o peggio ancora come difetto o mancanza, una violazione subita: ciò accade spesso, come è noto, alle vittime di abuso sessuale, ma accade pure, più sottilmente, in età evolutiva, come rifiuto o rispecchiamento mancato di emozioni infantili che siano assunti e così fatti propri dal bambino stesso, fino a produrre vere e proprie scissioni e costruzioni di falso Sé. Illustreremo ora brevemente l’uno e l’altro percorso rispetto a due aree certamente strategiche per l’individuazione: il corpo e, appunto, la vita emotiva. 11 Vergogna: l’emozione del limite 2. — Il corpo è oggetto per antonomasia di pudore e vergogna. Lo è in quanto tale, perché espressione e realtà stessa del nostro limite, di ciò che in noi è mortalità e finitezza, ma anche bruttezza, volgarità, pesantezza: che dunque vorremmo non accettare e certamente non teniamo a mostrare, ma che tuttavia ci definisce e identifica. “Questo corpo qui presente” — scrive Tagliapietra17 — “questo corpo malato, vecchio, ferito, dolente, difettoso, sgradevole, brutto, pieno d’imperfezioni, mi possiede, è me stesso, mentre quella dimensione ulteriore che è stata chiamata, nel corso del tempo, anima, interiorità, soggetto, coscienza, in realtà è sempre pronta a dileguarsi nel pensiero più vasto del genericamente umano. Dietro il pudore (…) sta il quasi nulla del corpo e della biologia, del difetto e del gesto, della differenza che è il segreto di ciascuno al fondo di ognuno. Così, se il pudore si dilegua, si dilegua anche l’individuo”. Troviamo dunque, in questa opposizione tra interiorità e corpo, come ha già visto per primo Sartre, una valenza individuativa che pare quasi costitutiva della stessa vergogna: il corpo, in quanto tramite del mio esser visto da altri, mi restituisce una oggettità, un ritrovarmi cosa tra le cose, la quale sovverte ma insieme trascende la mia qualità di soggetto. La sovverte nel senso proprio che la capovolge o la nega ossia me ne espropria a favore dell’altro e pone me dove prima era lui, nella posizione di oggetto.18 Ma la trascende (e qui è il momento individuativo) perché non mi è dato di liquidare questa oggettità come mera immagine prodotta da altri: essa è sì fuori, irrimediabilmente, dalla mia esperienza (non posso rendermi oggetto di me medesimo, solo per l’altro mi do come oggetto) ma io sono anche e senza alcun dubbio questa oggettità, mi ci riconosco e ne so responsabile. L’altro pertanto — qui sta per Sartre l’aspetto ineluttabile della vergogna — nell’atto stesso in cui mi trascende nel mio esser soggetto mi costituisce nel mio stesso essere e solo in questo esser sottratto a me stesso, in questo esser trasceso, I modi del pensare 17. A. Tagliapietra, op. cit., p. 215. 18. J. P. Sartre (1943), L’essere e il nulla, Net, Milano 2002, p. 273. 12 I modi del pensare Gianni Kaufman mi è dato di accedere alla coscienza di me. 19. Ibidem, p. 336. 20. E’ questa la prima ragion d’essere del pudore nella discussione di Hegel. Vedi in proposito A. Tagliapietra, op. cit., pp. 65 passim. 21. Ibidem, pp. 176-177. 22. Il pudore differisce dalla vergogna perché coinvolge sempre la responsabilità personale (Ibidem, p. 51) e non è un’emozione (M. W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit., p. 22). “La vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma, in generale, di essere un oggetto cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono ‘caduto’ nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono. Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità, non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettità senza difesa. Vestirsi, significa dissimulare la propria oggettità, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè d’essere puro soggetto. Per questo il simbolo biblico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva ‘capiscono di essere nudi’”.19 Il corpo però non simboleggia soltanto, come vuole Sartre, l’oggettità indifesa. È anche il confine simbolico dell’identità personale, sul doppio versante del suo distinguersi dalla natura animale20 — che pure è anche nostra — quindi da ciò che in essa può trascinarci al degrado, alla confusione e all’indifferenziazione; ma anche del suo difendersi e distanziarsi dal mondo esterno e nel differenziarsi dal collettivo. Il corpo allora, come misura della distanza e del rispetto reciproco, e come confine ultimo dell’intimità o del segreto: dell’inviolabile ma insieme anche dell’irriducibile, il non omologabile, il nucleo opaco ed inaccessibile della persona.21 Su tutto ciò, e non soltanto sulla nudità fisica, vigila il pudore: un timore diffuso, che sembra a volte quasi immotivato, ed è in certo modo anticipazione, segnale e insieme evitamento della vergogna.22 E in cui è primaria la dimensione relazionale: c’è meno pudore verso i familiari, ma anche in situazioni di quasi completa estraneità e anonimato come, ad esempio, quando ci capita di confidarci anche su vicende relativamente private con chi conosciamo solo occasionalmente e già sappiamo che non incontreremo mai più. Se ora il prender le distanze dall’assolutezza della 13 Vergogna: l’emozione del limite nostra libertà di soggetti per fare salvo (ma non è questa la posizione di Sartre!) con l’oggettità e i limiti del corpo anche il ‘segreto’ della differenza è già attitudine eminentemente individuativa,23 un primo esempio, purtroppo più attuale di declinazione alienante della vergogna è la prassi diffusa della spudoratezza. L’allentamento — di cui s’è appena detto — in situazioni di estraneità e anonimità del pudore ha la tendenza a divenire la regola quanto più diventano fluide e precarie le reti di rapporti e gli ancoraggi sociali dell’identità, e quanto più le identità divenute fragili cercano il conforto dell’esser guardati e dell’apparire. La resistenza all’oggettivazione — che è la vergogna — sembra rivolgersi nel suo opposto24 ed è quasi un obbligo l’esibizione, non solamente del nudo fisico ma dell’intimità, privata e familiare, di sentimenti e vissuti. Essa non mira solo a rispecchiarsi, a riecheggiarsi nella visione — o nell’ascolto — dell’altro, ma a confermare, se e quando possibile, un’appartenenza di gruppo — dunque un ancoraggio anche provvisorio dell’identità — che è sempre meno vincolata a valori o a offerte di ‘senso’, non più trasmesse né garantite da tradizioni e comunità sufficientemente durevoli, ma dalla sola condivisione di comportamenti.25 In questa coazione all’esibizione o a alla messa in comune è facile scorgere proprio la logica deindividuante che interiorizza una precarizzazione cronica dei confini del Sé; prodotta certo dalla ribellione, da parte dei singoli, contro gerarchie ed interdetti e nei confronti di ogni condizione, familiare o sociale che voglia imporsi come precostituita ed ascritta (la sfera intima, è stato scritto in modo pertinente,26 non è più solo il luogo del segreto ma soprattutto dell’emancipazione e della libertà da un destino); ma che è in ogni caso amplificata e imposta da una società di mercato globale che si sostiene sui due pilastri di una competizione senza garanzie e senza limiti — in particolare, senza più limiti e protezioni politiche — e dell’obsolescenza e sostituzione incessanti I modi del pensare 23. Sull’individuazione come ritorno nel corpo cfr. C. G. Jung, The Visions Seminars, Spring, Zürich 1976, pp. 472-478. 24. Una dinamica ben descritta da F. J. Broucek, Shame and the Self, The Guilford Press, New York and London 1991, pp. 131 e 138. 25. Così A. M. Pandolfi, op. cit., p.44. 26. A. Ehrenberg (1998), La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999, p. 152. 14 I modi del pensare Gianni Kaufman di oggetti di consumo ma anche di ruoli e saperi professionali, di istituzioni e persone. La transizione tra le due fasi è ben riassunta da Bauman: 27. Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 57-60. Sullo stesso tema, della continuità fra modernità e postmodernità vedi anche E. Pulcini, L’individuo senza passioni, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 165 sgg. 28. Z. Bauman (2005), Vita Liquida, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 31. Vedi anche, sempre sul tema dell’evanescenza dell’identità, U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 613-614 e 658-661. “Quando la modernità ha sostituito i ceti premoderni (che determinavano l’identità in base alla nascita, fornendo pertanto pochissime occasioni per porsi la domanda ‘chi sono io?’) con le classi, le identità sono diventate compiti che gli individui dovevano realizzare (…) attraverso la propria biografia. (…) Tuttavia (…) quella libertà di autoidentificazione nuova e senza precedenti seguita alla decomposizione della società dei ceti è giunta insieme a una fiducia nuova e senza precedenti negli altri, nonché dei meriti dell’associazione di diversi cui era stato dato il nome di ‘società’: nella sua saggezza, nell’affidabilità delle sue istruzioni, nella durata nel tempo delle sue istituzioni. (…) Gli osservatori più percettivi della vita moderna si sono accorti abbastanza presto, già nel XIX secolo, che la fiducia in questione non era così solidamente fondata come la ‘versione ufficiale’ (…) voleva far credere. (…) Il passaggio della responsabilità della scelta sulle spalle dell’individuo, e lo smantellamento degli indicatori di direzione e la rimozione delle pietre miliari, e insieme la crescente indifferenza delle alte sfere riguardo alla natura delle scelte fatte e alla loro fattibilità, erano due tendenze presenti nella ‘sfida all’autoidentificazione’ fin dall’inizio”.27 In questa situazione la pressione a esporre con spregiudicatezza e a mettere in gioco pubblicamente l’identità non fa che rifletterne la qualità ambivalente: l’affermazione dell’identità risponde sempre a un desiderio di sicurezza che tuttavia sembra più garantita, ora da rapporti o appartenenze stabili ora (per i più sicuri e per i meglio provvisti) da rapporti mobili e poco e impegnativi — per tener dietro ai ritmi del cambiamento — e da identificazioni sempre fluide e mutevoli. Ciò che è importante però è che “in nessuno dei due casi [che la si invochi in chiave difensiva o piuttosto offensiva] l’identità viene invocata in quanto tale”.28 Prevale pertanto, anche in chi si appella alle appartenenze e alla tradizione, un’attitudine in realtà strumentale verso l’identità (come una sorta di ‘cattiva coscienza’) che dà ragione dell’insicurezza e della cronica necessità di conferme. Sullo sfondo è 15 Vergogna: l’emozione del limite I modi del pensare sempre la pretesa, che lega insieme strumentalità ed apparenza — ed è la negazione quasi programmatica della vergogna — di un’adattabilità e una trasformabilità senza limiti. Come osserva Kilborne: “Quando c’è angoscia e vergogna per l’instabilità del mondo delle apparenze, il sé deve dirigersi tra l’immaginare se stesso e il riconoscere la necessità e la limitazione (…) Ma il sé può perdere la sua direzione se manca della ‘forza di obbedire, di arrendersi al necessario in se stesso, a quelli che si potrebbero chiamare i propri limiti’, o cede a ‘riflettere in modo fantastico se stesso nella possibilità’. (…) Questa sensazione che quello che uno è può, come la carrozza di Cenerentola, diventare una zucca, dissolversi nel nulla, si fa beffe della vanità e dell’ambizione in modi che Pirandello descrive così bene. Legata al concetto di Michael Balint di difetto fondamentale, guida il desiderio di scomparire o di reinventare se stesso in modo tale da non esser visto così difettoso”.29 3. — Un altro tema di vergogna, sempre ancorato nella realtà del corpo ma anche ricchissimo di implicazioni emotive è il territorio della sessualità. La nostra incompletezza — ossia il nostro limite — e il nostro sporgerci in direzione dell’altro sono iscritti nel corpo primariamente come differenza sessuale. Ma Il sesso è anche la potenza che si sottrae da sempre al controllo, al predominio dell’Io. Il sesso può allora esser visto come luogo esemplare della vergogna da chi intenda quest’ultima come caduta in una dimensione d’irresponsabilità, di non-libertà: “Il sesso, ciò che è proprio della specie, è appunto l’elemento schiettamente preindividuale, ciò che è sottratto alla libertà, l’es’ kat’exochen, che non appartiene all’individuo in quanto individuo”.30 Ci vergogniamo, pertanto, di mostrarci nudi, ma di più ancora (perfino a volte nell’intimità) di lasciarci andare al piacere e all’orgasmo. E questa vergogna alimenta da sempre le proiezioni più bieche, contro le donne — sempre troppo fisiche, troppo coscienti della propria sessualità (uno schema che ha origine, probabilmente, nell’equazione infantile tra alterità-oggettità del corpo e oggettità, cioè illimitata disponibilità, della madre31) — o 29. B. Kilborne (2002), Persone che scompaiono, Borla, Roma 2005, p. 125. Le frasi tra virgolette sono di Kierkegaard. 30. G. Anders, op. cit., vol. I, p. 99. 31. Vedi sul punto P. Mollon, op. cit., pp. 49-59; A. Green, Narcisismo di vita Narcisismo di morte, Borla, Roma 1985, pp. 229-233; J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996, cap. 1. 16 I modi del pensare 32. Su amore e libertà — in questa accezione di ‘libertà negativa’ vedi anche M. Zambrano (1955), L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma, pp. 234 sgg. 33. M. C. Nussbaum (2001), L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004, p. 717. 34. Ibidem, p. 829. Gianni Kaufman contro gli omosessuali. Se però il sesso è causa di vergogna in quanto rischio per la ‘libertà’,32 per il predominio dell’Io, lo è forse non tanto e non solamente in se stesso ma in previsione (o meglio ancora per l’imprevedibilità!) dei successivi sviluppi: dei desideri che possono accendersi in sé e nell’altro, delle richieste, dei coinvolgimenti, dei legami che suscita. La vergogna sessuale confina qui con la più diffusa ma radicatissima resistenza all’accettazione del limite, inteso come finitezza, imprevedibilità e, oltre un certo termine, irreversibilità dei percorsi vitali. Di ciò ha scritto molto bene Martha Nussbaum: “Perché non c’è niente di più umano che sottrarsi allo sguardo dell’amore. Di cosa si vergognano queste persone? Temono, e si vergognano, di darsi ad altri e per gli altri, il che significa che temono di imitare l’esempio di Cristo. Ma al contempo, la paura e la vergogna prendono a oggetto il corpo e le passioni erotiche. (…) La lumaca senza guscio (…) è una profonda immagine della nudità del corpo, un simbolo del nostro essere indifesi, penetrabili, della nostra vulnerabilità agli influssi del mondo e della morte. L’oggetto della vergogna e della paura non è la sessualità in sé, ma la sessualità vissuta come un segno della nostra impotente inadeguatezza. L’amore (…) esige che abitiamo questa inadeguatezza, aperti al mondo e agli altri”.33 E più avanti, commentando l’Ulisse: “Il romanzo suggerisce che la radice dell’odio non è il bisogno erotico, come tanta tradizione dell’ascesa continua a sostenere. È piuttosto il rifiuto di accettare la condizione di bisogno e l’imprevedibilità dell’erotico come fatti della vita umana. Dire sì alla sessualità significa dire sì a tutto ciò che nella vita sfugge al controllo — alla passività e alla sorpresa, a esser parte di un mondo in prevalenza dominato dal caso”.34 L’antidoto alla vergogna sessuale (o a ciò che essa cela) può allora trovarsi non più soltanto nel pudore fisico o nel self-restraint ma in una pratica razionalizzata ed astratta della sessualità stessa, un sesso sdrammatizzato e derubricato a consumo, tecnicamente e 17 Vergogna: l’emozione del limite contrattualmente messo al sicuro da malintesi o conseguenze indesiderabili. Del resto una sessualità così inoffensiva non è divenuta necessariamente più agevole ma è certamente — e ovviamente — assai incentivata in una società di mercato globale che da una parte si informa proprio all’imperativo di equiparare qualsiasi pratica o relazione (anche le persone e i rapporti fra esse) a oggetti di consumo; dall’altra premia (almeno a parole) sopra ogni cosa la flessibilità e la disponibilità al cambiamento — che presuppone però indipendenza e scarsità di legami; e impone comunque a una gran parte dei suoi cittadini una condizione di cronica precarietà e incertezza che li spinge a cercare, per quanto possibile, rapporti reversibili e disimpegnati.35 La condivisione, o anche solo la pratica (in apparenza) non conflittuale di questo modello, con il pretesto o di sottrarre il piacere sessuale a vecchi moralismi, o di una difesa senza cedimenti del proprio interesse in una società sempre più spietata e competitiva è un altro esempio, assimilabile alla spudoratezza, di effetto deindividuativo della vergogna. Wurmser avanza il sospetto, a questo proposito, che l’esibizione dell’intimità fisica o delle emozioni serva in realtà a sviare l’attenzione da “ciò che risulta davvero doloroso e umiliante come segno di debolezza e di fallimento”: “Si parla tanto degli affetti allo stato più crudo e si mostrano senza veli la violenza, il sesso e l’urlo primario (addirittura!) Ma le persone mostrano pur sempre un imbarazzo impermalito se si tratta di parlare dell’amicizia o di impegnarvisi. È sorprendente quanti pochi pazienti, a prescindere dalla loro patologia, rivelino di avere amicizie solide e stabili; quante poche persone in generale si offrano e siano pronte a ricevere forme non censurate, e al tempo stesso non finalizzate allo sfruttamento, di amicizia. Inoltre sembra essere diventato più difficile esprimere sentimenti di tenerezza, di rispetto, di soggezione, di idealizzazione o di riverenza: Il fatto di mostrarsi irriverenti sembra quasi entrato a far parte dello ‘stile giusto’. (…) La cultura della spudoratezza è anche la cultura dell’irriverenza, della demolizione e della svalutazione degli ideali”.36 I modi del pensare 35. Su questo R. Sennett (1999), L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 22-29 e l’intero lavoro di Z. Bauman (2003), Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul contesto sociale contemporaneo dei rapporti amorosi e di coppia vedi però anche U. Beck , E. BeckGernsheim (1990), Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 1996. 36. L. Wurmser (1994), “La spudoratezza” in AA VV., La vergogna, cit., p. 130. 18 I modi del pensare 37. Z. Bauman, Amore liquido, cit., p. 11. Sull’amore come apertura alla trascendenza vedi anche R. De Monticelli, L’ordine del cuore, Garzanti, Milano, p. 203. 38. Vedi ancora R. De Monticelli, op. cit., pp. 164-165, 168, 175-176 e H. G. Frankfurt (2004), Le ragioni dell’amore, Donzelli, Roma pp. 50-74. 39. Vedi in proposito, M. W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit., pp. 52-53: “Questa ‘vergogna ricorsiva’ è particolarmente importante perché produce, più spesso che il semplice vergognarsi, degli effetti psicologici negativi. Infatti, vergognandosi di vergognarsi, si perpetua il ciclo della vergogna, si intensifica la penosità del vissuto emotivo e si rafforza così la motivazione ad organizzare la propria vita sulla difesa dalla vergogna”. Gianni Kaufman Trattando sopra della vergogna da violazione abbiamo incluso non solamente la violenza fisica ma anche l’abdicazione più o meno forzosa a norme, a credenze o ad altri aspetti qualificanti del sé. È lecito chiedersi se in ciò non rientri anche la forma or ora descritta di sessualità che non per caso si è detta astratta perché enucleata più o meno a forza, per conformismo o per opportunità materiale, dalla rete complessa di implicazioni e diramazioni sentimentali e affettive da cui si origina e/o a cui può dar luogo; salvo addossarsi, in seconda battuta, questa stessa astrazione come conquista di emancipazione o di competenza adattiva. Con ciò però va sicuramente in larga parte perduta, perché in qualche modo soffocata sul nascere, la dimensione propriamente erotica della sessualità, il suo momento di trascendenza: il suo cercare la libertà o il mistero dell’Altro, che però implica, necessariamente, l’aprirsi al futuro, un offrirsi al destino che — è stato detto con felice espressione — è “accettazione della libertà dell’essere”.37 Così come va inevitabilmente perduto ciò che è il rimando individuativo del rapporto amoroso, ciò che posso vivere e apprendere di me stesso — dei miei valori e delle mie potenzialità — solo a partire dai sentimenti che gli altri mi suscitano (e che ovviamente mi concedo di vivere) e dai legami che instauro, nei cui oggetti e nei cui percorsi si svolge e si articola la mia identità.38 4. — La vergogna per la sessualità, come abbiamo accennato è già vergogna non solo del corpo ma anche delle emozioni (essa stessa emozione, la vergogna può avere dunque una qualità riflessiva, e anche ricorsiva: ci vergogniamo della nostra vergogna.39) Tutte le emozioni — non solamente la passione sessuale — tendono infatti a sopraffare il controllo dell’Io, e, più in generale, per il modo proprio del loro operare rivelano sempre la nostra vulnerabilità e incompletezza, perché reagiscono a eventi importanti per il nostro benessere ma che non siamo del tutto capaci di con- 19 Vergogna: l’emozione del limite trollare.40 Di fatto, nella nostra cultura è più frequente che siano gli uomini a vergognarsi delle loro emozioni, probabilmente perché sono educati, fin da bambini a coltivare la forza di volontà, a dare prova di autocontrollo e autosufficienza; e le emozioni, paiono allora ancor più vergognose quanto meno sono accettate, esaminate ed espresse e quanto più rimangono ferme, proprio per questo, a un livello infantile.41 La svalutazione, indotta ben presto nei giovani maschi, della sensibilità, della vulnerabilità e dell’apertura emotiva, è l’equivalente (nota Carol Gilligan42) ma in età più precoce della censura parziale del corpo e delle sensazioni corporee imposta nell’educazione delle ragazze: causa l’una e l’altra del venir meno dell’iniziale intensità, ricchezza e piacere della relazione col mondo, che tuttavia si potrà reincontrare — pensa la Gilligan — così ritrovando in qualche modo se stessi, nell’esperienza dell’innamoramento.43 A parte le differenze di genere, secondo Nussbaum, una vergogna persistente per le emozioni può derivare dal cronicizzarsi di una vergogna primaria legata a esperienze precoci di impotenza — più propriamente alla frustrazione, certo inevitabile, di pretese infantili all’onnipotenza — non temperate, perciò non corrette, dall’intervento tempestivo e affidabile dei caregivers: il mancato instaurarsi di un rapporto di fiducia darebbe conto del perpetuarsi dell’onnipotenza, o anche di fantasie di perfezione o di totale autosufficienza, del riproporsi delle frustrazioni quindi della vergogna.44 Ne risentirebbe anche la vita amorosa, per il protrarsi di questa stessa ‘vergogna primaria’ nella fase edipica. La condizione di dipendenza è a questo punto del tutto inequivoca perché chiaramente e irrimediabilmente asimmetrica: l’oggetto amato non ha nessun bisogno di noi — è cioè sottratto, una volta per tutte, all’onnipotenza — anche perché gli è possibile scegliere altri rapporti. Ma ciò è insopportabile “se la condizione di incompletezza e non autosufficienza viene sentita in quan- I modi del pensare 40. Per una discussione generale sulle emozioni vedi M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, cit., cap. 1. 41. Su questo punto ancora M. C. Nussbaum (2004), Nascondere l’umanità cit., p. 230 e P. Mollon, op. cit., p. 137 n. 1 che propone una spiegazione evoluzionistica: “Un’ipotesi diffusa è che gli uomini siano meno inclini delle donne a manifestare emozioni negative perché per i maschi il successo riproduttivo implica una competizione maggiore che per le femmine. Esprimere un malessere emotivo, secondo questa concezione, fra gli uomini sarebbe considerato un segno di debolezza e porterebbe a una perdita di prestigio, e quindi di attrattiva sessuale (riproduttiva) nei confronti delle donne.” 42. C. Gilligan (2002), La nascita del piacere, Einaudi, Torino 2003. 43. Sull’esperienza amorosa come ‘resa’ vedi E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell, L. Aron, a cura di, Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale and London 1999, pp. 228-229, 242. 44. M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 241 sgg. 20 I modi del pensare 45. Ibidem, p. 264. 46. Su questo concetto vedi comunque le distinzioni estremamente importanti introdotte da E. Gaddini, in Scritti, Raffaello Cortina, Milano 1989, p. 397. Del resto anche le illustrazioni proposte dalla Nussbaum rinviano a un quadro teorico più complesso, che non include solo l’onnipotenza ma anche la richiesta materna di ‘perfezione’. 47. P. Mollon, op. cit., p. 31. 48. Il conseguimento di una capacità di ‘autoconsapevolezza oggettiva’ quale presupposto necessario della vergogna è sostenuto da M. Lewis nel lavoro citato. Più convincente l’opposta opinione di F. J. Broucek, op. cit., e “Shame: Early Developmental Issues” in M. R. Lansky, A. P. Morrison, a cura di, op. cit., pp. 41-62 Gianni Kaufman to tale come qualcosa di vergognoso, e l’unico fine accettabile è il controllo assoluto”.45 Secondo questa lettura la vergogna per le emozioni sarebbe in radice vergogna da inadeguatezza: la risposta sensibile dei caregivers consentirebbe un’elaborazione della ‘vergogna primaria’ nel senso della rinuncia all’onnipotenza (dell’accettazione del limite) ovvero in senso individuativo. Ora, il richiamo all’onnipotenza non è inappropriato,46 ma è, con ogni probabilità, insufficiente a chiarire il rapporto, molto complesso, fra emozioni e vergogna, specie se si valutino a questo fine le condizioni della relazione primaria. A questo stadio, come prodotto di un’attitudine errata dei caregivers, sembra corretto considerare l’ipotesi, prima che di una vergogna da inadeguatezza, di una vergogna precocissima da violazione: di una vergogna, cioè, conseguente a un’attacco all’integrità psichica dell’infante — che si consuma con il mancato o difettoso rispecchiamento della sua vita emotiva. Di fatto, anche in età adulta l’assenza di risposta empatica ad una messa a nudo del sé — qual è in ogni caso un’espressione emotiva — produce vergogna: il sé esposto che non incontra la risposta solidale e perciò protettiva dell’empatia si sente minacciato.47 La differenza è che qui la vergogna è già mediata da una capacità riflessiva — pertanto investe anche una rappresentazione del sé — mentre nell’infante, ovvero nel caso della vergogna precoce questa capacità è ancora assente;48 ma non soltanto, proprio la vergogna e il vissuto di vulnerabilità che la provoca possono deviarne o comprometterne l’attivazione. Si deve a Winnicott il più famoso enunciato sul rispecchiamento. Guardando il viso della madre “di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge”. Ma se la madre è ansiosa, depressa o anche solo distratta — cioè non si rivolge o non è attenta al bambino — mostra solo se stessa: “In tal caso la faccia della madre non è uno 21 Vergogna: l’emozione del limite specchio. Così la percezione prende il posto di ciò che avrebbe potuto essere l’inizio di uno scambio significativo con il mondo, un processo a due vie, in cui l’arricchimento di sé si alterna con la scoperta di un significato nel mondo delle cose viste”.49 Si dà dunque il caso — contrariamente all’opinione di Sartre — di uno sguardo empatico, che non precipita necessariamente nell’oggettità, non pone a distanza ma conferma e rinforza il senso di efficacia, la vitalità e la fiducia del sé soggettivo.50 Per il bambino ancora incapace di una consapevolezza di sé che non sia insieme anche dialogo con l’altro e col mondo51 l’assentarsi improvviso di questo sguardo, vedere, senza più ritrovarsi, ‘il volto della madre’ equivale a interrompere la continuità dell’esperienza del sé. Come spiega Wrigth: “Il primo volto conferma e rafforza l’essere soggettivo del bambino, lo amplifica attraverso un circuito riverberante di riflessione e risposta. La seconda faccia mette il bambino a distanza, arresta la continuità del sentire soggettivo e offre al suo posto uno spettacolo del Sé cattivo che mette in questione la continuità dell’amore. (…) È come se vi fosse una dislocazione, uno strappare la persona dal suo Sé soggettivo, da cui diviene allora separato a causa di questa immagine e questa distanza che l’Altro interpone.52 (…) Potremmo dire che il Sé che è guardato in questo modo ora ha un ‘esterno’; ma, certamente, il trauma è sentire che questo ‘esterno’ non è semplicemente un complemento all’‘interno’ e qualcosa che può essere integrato con esso, ma un suo usurpatore, cosicché il Sé diviene completamente definito dall’esterno”.53 Lo sguardo non rispecchiante della madre, in altre parole, anticipa lo sguardo oggettivante, di cui parla Sartre, a una fase in cui la dislocazione dell’esperienza del Sé che ne segue, e in cui è la radice della vergogna, non ha alcun senso o efficacia individuativa perché non è ancora integrabile nella coscienza.54 Questo è possibile, in via di principio, solo all’interno di una relazione triadica. Ossia da quando, col differenziarsi del padre e identificandosi alla posizione di questi, il bambino può giungere già da I modi del pensare 49. D. W. Winnicott (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma 1974, pp. 191-192. 50. Per una discussione in questi termini dell’opera di Sartre vedi K. Wright (1991), Visione e separazione, Borla, Roma 2000. Un’interessante lettura in chiave psicologica dell’opera di Sartre è in R. D. Storolow, G. E. Atwood, B. Brandchaft (1994), La prospettiva intersoggettiva, Borla, Roma 1996, cap. 12. 51. Un’illustrazione molto efficace di questa fase è in K. Wright, op. cit., pp. 113-114 e in F. J. Broucek, Shame and the Self, cit., pp. 43-45. 52. K. Wright, op. cit., p. 55. 53. Ibidem, p. 65. 54. Ma ricordiamo, come ha mostrato per primo Sartre, che questa integrazione non è mai possibile in modo compiuto. 22 I modi del pensare 55. K. Wright, op. cit., pp. 148, 157-158, 295-296. La differenziazione del repertorio simbolico, secondo Wright, va ricondotta al divieto edipico di fare mentre è permesso guardare. 56. Ibidem, pp. 277-278, e R. Britton, Belief and Imagination, Brunner-Routledge, Hove and New York 1998, pp. 41-42. 57. K. Wright, op. cit., pp. 328-329. 58. Ibidem, pp. 76-77. Per un ripensamento in questi termini della vergogna vedi anche D. M. Orange, G. E. Atwood, R. D. Storolow (1997), Intersoggettività e lavoro clinico, Raffaello Cortina, Milano 1999, pp. 87-89. Gianni Kaufman se stesso a ‘vedersi’ dentro il rapporto che ha con la madre; a distanziarsi e a ridimensionare, anche grazie al possesso di un repertorio simbolico più differenziato,55 il ruolo assorbente e totalizzante di essa così che il mutare del suo atteggiamento abbia un effetto meno traumatico e dirompente.56 Un ultimo aspetto da considerare è che lo sguardo ‘oggettivante’ del genitore sarà comunque, il più delle volte, uno sguardo critico, disapprovante.57 Sempre nel rapporto tra l’infante e la madre ciò avrà un effetto di vergogna traumatica se faccia mancare un adeguato contenimento di situazioni ed espressioni emotive, sia di affetti gioiosi che, ancor di più di stati di disagio e affetti dolorosi. Il bambino tenderà infatti a far proprio quello sguardo critico — ciò che egli vive come il rifiuto o la svalutazione di queste emozioni — e perciò a scinderle e a censurarle come espressioni di un deficit consolidando, nei casi più gravi, un assetto stabile di falso sé. Ancora Wright: “[Il bambino] unisce le forze con questa madre che guarda, ripudia quel Sé che la madre non potrebbe contenere e che ha causato la rottura, e di qui in avanti il bambino guarda a questo Sé minaccioso come ha un Altro che ha l’aspetto che immaginava avesse per la madre che guardava. (…) Potrei dire che ciò che è guardato in un primo momento dalla madre e poi dal bambino stesso in questo modo che nega la vita, è ciò che la madre stessa non riesce a contenere o a gestire emotivamente. Questo fallimento del contenimento conduce quindi a far sì che la parte disturbante del Sé senziente sia trasformata in un oggetto visivo che è un Altro per il Sé. È chiaro che questi Sé spossessati non sono mai stati integrati nella struttura del ‘Sé che la madre ama’ e pertanto del ‘Sé che posso essere senza rischio’. La vita del Sé, pertanto tende a diventare una vita di apparenze, e il progetto del Sé diviene quello di consegnare alla madre apparenze accettabili, legate insieme a formare un involucro pseudo-coeso nella continuità del suo sguardo positivo. Questa pseudo-coesione del Sé agli occhi della madre diventa allora il sostituto di una genuina integrazione dei Sé senzienti e agenti, che avrebbe potuto avere luogo se questa madre fosse riuscita a “contenere la situazione in tempo”.58 23 Vergogna: l’emozione del limite Le conseguenze di tutto questo per gli sviluppi della vita emotiva potranno essere assai rilevanti. Mollon59 descrive ad esempio una Sindrome di omicidio psichico così definita in base all’impegno dell’ambiente infantile a “sbarazzarsi del bambino reale per sostituirlo con una versione alternativa preferita” ma in cui “il bambino si identifica con l’ambiente che l’uccide psichicamente”. L’intrusività e la grave carenza di empatia della madre causano uno stato di ‘vergogna generalizzata’ che spinge alla fuga da ogni legame di attaccamento e alla soppressione sistematica delle emozioni — quali condizioni di insopportabile vulnerabilità; al sabotaggio di ogni relazione sentimentale con partners adeguati (prima idealizzati come immagine scissa di ‘madre buona’ ma poi vissuti come soffocanti) e alla preferenza per i rapporti frustranti o alla promiscuità compulsiva; che provoca ansia generalizzata e tensioni somatiche (sempre a ragione della difesa dalle emozioni), un’identità incerta e instabile e una tendenza alla dissociazione. Lo stesso Mollon accosta la sindrome alla tendenza, segnalata da Kalsched,60 nelle vittime di abuso sessuale, all’identificazione con l’aggressore e al sistematico attacco delle parti vulnerabili e dei bisogni emotivi del sé (e di qui, come in un sistema immunitario impazzito, alla totalità del proprio mondo interiore) allo scopo di scindere il ricordo della violenza e di evitare, naturalmente, il riprodursi della situazione traumatica. Comunque — lo si è già anticipato — il danno più serio di una grave carenza di risposta empatica sarà la produzione di un deficit di capacità riflessiva. Sviluppando le intuizioni di Winnicott, di Bion e della Psicologia del Sé, Fonagy e i suoi collaboratori61 hanno mostrato in modo convincente che anche lo sviluppo di rappresentazioni secondarie dei vissuti emotivi (mentalizzazione), la loro distinzione dagli eventi fisici e la capacità di autoregolazione che ne consegue derivano da un’adeguata (e molto specifica) modulazione del rispecchiamento empatico dei caregivers, in primo luo- I modi del pensare 59. P. Mollon, op. cit., p. 63 passim. 60. D. Kalsched (1996), Il mondo interiore del trauma: difese archetipiche dello spirito personale, Moretti e Vitali, Bergamo 2001. 61. P. Fonagy et al. (2002), Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé, Raffaello Cortina, Milano 2005. 24 I modi del pensare Gianni Kaufman go, ancora una volta, dei vissuti di disagio e di sofferenza. Quando essa manchi, quando la risposta sia incongruente o distorta, ciò creerà in ogni caso un vuoto nel sé: il vissuto resterà privo di significato fino a far sopravvivere, nei casi più gravi, un’ansia primitiva di separazione o una necessità di fusione per il bisogno, rimasto in sospeso, di ritrovare la propria intenzionalità nella mente dell’altro. Il vuoto potrà peraltro venire riempito (è il caso già visto) identificandosi con l’aggressore, interiorizzando la stessa risposta maladattiva nella struttura del Sé come una sorta di corpo estraneo (sé alieno): il bambino potrà allora viversi come malvagio e mostruoso, con una serie di conseguenze. Nei casi più gravi di abuso o maltrattamento, (ma anche in situazioni meno drammatiche, di genitori emotivamente non accessibili o ostili) il bambino tenderà a inibire la mentalizzazione, in altri termini cercherà di proteggersi ripudiando la consapevolezza di sentimenti e pensieri dell’altro e di sé (un caso estremo quanto precoce — potremmo dire — della reazione tipica di vergogna che è il non incontrare lo sguardo dell’altro!). Ma ciò significa che non si svilupperà o non si radicherà la nozione, almeno nelle relazioni intime, di una realtà psichica indipendente e distinta dai comportamenti e dai fatti esteriori: così perpetuando una maggiore vulnerabilità per la difficoltà di riflettere, interpretare e eventualmente ridimensionare gli atteggiamenti dell’altro. (È questa, secondo Fonagy e i suoi colleghi una caratteristica dei soggetti borderline, manifestantesi in un eccesso di reattività e in un un’estrema rigidità di aspettative e reazioni). Ma non soltanto. La difficoltà cronica di ‘sentirsi’, ovverosia di rappresentarsi l’esperienza psichica spingerà l’individuo alla messa in atto ossia ad indurre, in se stessi o negli altri, l’esperienza all’esterno. E anche il bisogno di esteriorizzare il sé alieno per ritrovare una qualche coerenza — anche se a prezzo di un impoverimento — del sé, si esprimerà come esteriorizzazione nel corpo, cioè come pratiche autodistruttive, o su og- 25 Vergogna: l’emozione del limite I modi del pensare getti esterni il cui venir meno sarà vissuto come una perdita o una disorganizzazione del sé. Infine, sempre nelle gravi situazioni di abuso una carenza di mentalizzazione potrà esser causa di reazioni violente, facendo mancare ogni differenza significativa tra umiliazione e vera e propria distruzione del sé. “La vergogna non mentalizzata non è un’esperienza ‘come se’. Essa corrisponde alla distruzione del sé. Non sarebbe esagerato definire questa emozione come ‘vergogna ego-distruttiva’. Sono la coerenza della rappresentazione di sé e lo stesso senso di identità a essere sotto attacco. L’abilità di mentalizzare mitigherebbe questo processo, consentendo all’individuo di continuare a concepirsi come soggetto intenzionale e dotato di significato, piuttosto che privo di riconoscimento come implicato dalla figura d’attaccamento in quel momento. Più è robusta la capacità di mentalizzazione, più facilmente la persona può vedere cosa si nasconde dietro l’attacco, il suo significato, e non scambiarlo per la vera distruzione dell’Io. L’intensità dell’umiliazione potrebbe essere la causa immediata dell’inibizione della mentalizzazione che consegue all’abuso: e le cose vissute come interne (la soggettività) divengono esperienze cui opporre resistenza”.62 5. — Che rapporto sussiste — vogliamo chiederci in conclusione — fra i due livelli che abbiamo descritto, quello collettivo e quello individuale, di elaborazione alienante della vergogna? Ricordiamo che la ricerca spesso ‘spudorata’ di uno specchio pubblico dell’identità, come anche la pratica di una sessualità desituata ed astratta sono leggibili — in uno schema abbastanza simile, formalmente, all’assunzione di uno sguardo rifiutante all’interno del Sé — come il prodotto di adattamenti e di collusioni, da parte dei singoli, con situazioni di destabilizzazione cronica dell’identità e di svilimento di sentimenti e rapporti equiparabili, entro certi limiti, a violazioni del sé. Ma il nesso non è solamente formale. La propensione alla collusione — vedremo subito — sarà rafforzata in presenza di assetti di falso sé e, per converso, ne favorirà il riprodursi tramite modi impoveriti e coartati di accudimento e di ascolto. 62. Ibidem, pp. 327-328. 26 I modi del pensare 63. E. Gaburri, L. Ambrosiano, Ululare con i lupi, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 64. Ibidem, p. 56. Gianni Kaufman Gaburri e Ambrosiano, in un bel lavoro di impostazione bioniana63 hanno affrontato proprio questo tema, invitando a situare la relazione adulto-bambino nel suo contesto familiare e gruppale e a valutare la qualità della relazione col gruppo. Non è pensabile qualcosa come una rêverie della madre che non rinvii a un retroterra di significati, di idee e credenze, trasmessi anzitutto dalla famiglia ma condivisi con il gruppo più esteso, e che rispondono, in ultima analisi, all’esigenza di elaborare/aggirare i temi della morte (dunque del limite!) della perdita, della finitezza. Il gruppo opera, in altre parole, come contenitore del lutto: cresce e si articola su un substrato di miti, riti, principi etici, anche (e soprattutto) di illusioni, che mirano a rendere tollerabile — fino a negarla — la caducità e la condizione mortale e che precipitano e si consolidano in una mentalità ideologica, religiosa, scientifica. Ma il gruppo condiziona anche il modo — di nuovo in quanto contenitore del lutto — dell’adesione e/o della distanza verso il gruppo medesimo, della preoccupazione e dell’ottusità conformista o della partecipazione critica e differenziata: in una parola della capacità e possibilità per il singolo di accettare e di reggere la separazione nei confronti del gruppo. Ciò sia in ragione dell’ideologia che lo anima e dello spazio che questa riserva al pensiero e alla critica individuali che del momento e della congiuntura: “In ogni momento il clima emotivo familiare e gruppale, permeato dei bisogni di continuità e sopravvivenza, può sollecitare i membri verso una compenetrazione a massa in cui non sono presenti come individui, oppure verso una partecipazione differenziata. Entrambe le valenze sono, infatti, sempre disponibili e pronte ad attivarsi, nella scena familiare come in quella sociale”.64 L’apertura, o invece la chiusura al diverso, all’alterità, ma soprattutto all’incertezza e alla critica che il gruppo rende in questo modo possibili coincide dunque, e si interrelaziona con la natura individuativa o imitativa-parassitaria (di identificazione massificante 27 Vergogna: l’emozione del limite o fanatica) dell’appartenenza dei singoli: favorita, quest’ultima, in ogni caso, dal residuare di aspetti rifiutati e non elaborati del Sé, ancora in debito di riconoscimento e rappresentazione cosciente, quindi più esposti e più disponibili (falso Sé) a idealizzazioni e fusioni. Reciprocamente l’orientamento del gruppo supporta o svaluta ciò che Bion chiama la capacità negativa, la tolleranza del vuoto e del ‘non sapere’, del non saturato e del non ancora pensato che rende sopportabili, anzi valorizza, l’isolamento e il dissenso (l’apertura del gruppo all’innovazione) ma anche dispone all’accoglimento, alla ricerca e all’ascolto: ossia decide — qui è il punto essenziale — della qualità dei rapporti familiari e di coppia e infine della qualità dell’accudimento in quanto ispira la funzione di rêverie. Un’adesione preoccupata e acritica dei genitori ai protocolli del gruppo oltre a compromettere la creatività e la capacità innovativa del loro rapporto li farà più sordi più intolleranti e più ansiosi verso le espressioni di difficoltà o di diversità del bambino, fino a trasmettere e a riprodurre al suo interno la stessa propensione all’autocensura, la stessa ansia di adattamento e conformità. Se riportato al nostro presente un decorso del genere potrebbe sembrare, nonostante tutto, inattuale perché la pressione alla conformità che viviamo non è sempre esplicita. Essa si fonda proprio, al contrario, come già si è accennato, sull’impotenza e sulla rinuncia delle autorità pubbliche a un reale controllo sulle scelte private e sulle condizioni di vita, sul progressivo ridimensionamento delle competenze dello stato sociale e sull’abbandono quasi completo dei singoli al libero gioco della concorrenza globale. Ma a parte il fatto che ciò si accompagna a un richiamo incessante — quanto mai rumoroso — ad aggiornare (ossia a uniformare!) consumi e abitudini,65 indispensabili a sostenere la crescita, la riconsegna quasi completa al mercato delle condizioni materiali e giuridiche di produzione e lavoro ha comportato, con la crescente I modi del pensare 65. Consumi che includono — lo ricordiamo — anche le relazioni. E’ di poco tempo fa la notizia della pubblicità di uno studio legale statunitense, specializzato in diritto di famiglia: “Datevi una chance, concedetevi un divorzio!” 28 I modi del pensare 66. Z. Bauman, Intervista sull’identità, cit., pp. 38 sgg. 67. A. Ehrenberg, op. cit., pp. 306.307. Il corsivo è mio. 68. Z. Bauman, Intervista sull’identità, cit., pp. 46 e 91. Gianni Kaufman frammentazione, precarietà e disomogeneità delle situazioni dei singoli, la dissoluzione dei vecchi legami di solidarietà, l’irrilevanza di luoghi e soggetti di azione collettiva, e ciò che più conta, l’obsolescenza del vecchi criteri e delle vecchie nozioni, già declinate in chiave collettiva, di responsabilità e di giustizia.66 Le implicazioni, anche psicologiche, di tutto questo sono riassunte in maniera lampante da Ehrenberg: “L’allarme per la sofferenza partecipa in realtà della ‘deconflittualizzazione’ del sociale, la quale si riflette, ad esempio, nella crescita delle diseguaglianze interne ai singoli gruppi. Il conflitto tra opposti gruppi sociali è stato infatti soppiantato, oggi, dalla concorrenza individuale che colpisce in misura altrettanto spietata ma diversa (…). Assistiamo insomma a un doppio fenomeno: quello, astratto, della crescente universalizzazione — o globalizzazione — e quello, concreto, della accresciuta personalizzazione. Di fatto, se è possibile combattere collettivamente un padrone o una classe antagonista, come è possibile combattere la ‘globalizzazione’? In questo caso è più difficile invocare una giustizia collettiva, è più difficile far ricadere una responsabilità di cui non ci sentiamo titolari su un avversario identificabile. Tra l’altro è sempre più arduo differenziare sofferenza da ingiustizia, compassione da disuguaglianza, conflitti legittimi, garanzia di una più equa ripartizione della ricchezza prodotta, da conflitti illegittimi, frutto di corporativismi bene annidati all’interno dei rapporti di forza. Il risentimento si ritorce allora contro noi stessi (la depressione è una forma di autoaggressione), si proietta su un capro espiatorio (…) o si risolve in una ricerca di identità di tipo comunitario”.67 La ritirata dei poteri pubblici, pertanto, non ha allentato, semmai ha accresciuto la pressione sul singolo alla conformità: sia col lasciare libero corso alla privatizzazione e alla commercializzazione dei media sia, soprattutto, col rimettere in toto ai singoli individui, senza più riserve e senza più mediazioni, la responsabilità del loro percorso di vita, della riuscita o del fallimento. Con l’aggravante — che però è decisiva — che la sanzione per il fallimento è ora assai più temibile perché può tradursi più facilmente di un tempo, in un mercato sempre più innovativo e competitivo, nell’esclusione dal gioco.68 Anche in mancanza di as- 29 Vergogna: l’emozione del limite senso esplicito — anzi, in presenza di una crescente impotenza delle istituzioni della democrazia — la conformità ha la garanzia ben più solida della paura;69 e proprio il carattere sempre più impersonale, imprevedibile e arbitrario dei meccanismi che possono segnare una vita, se toglie senso e contenuto alla colpa, ha la valenza di un’esposizione individuale al destino e minaccia lo stigma più fatalistico e irragionevole della vergogna.70 “I colpi del destino sono inferti da forze misteriose, di provenienza diversa, nascoste dietro nomi bizzarri e impenetrabili, come: mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda. Come possono essere utili gli amici quando si perde il lavoro a causa dell’ennesimo ‘ridimensionamento’, quando ci si rende conto del carattere obsoleto di capacità acquisite con fatica, dell’improvviso deterioramento dei rapporti di vicinato, familiari o sociali? (…) La dispersione del dissenso, l’impossibilità di concentrarlo e di ancorarlo a una causa comune, nonché di dirigerlo contro un colpevole comune, rende solo più acute le pene. L’individualità, l’‘autenticità dell’io’, era un bel sogno e uno sprone al perseguimento di obiettivi grandiosi in un’epoca in cui lo sguardo invadente e onnipresente della comunità e la pressione a conformarsi quasi soffocavano l’espressione individuale. È diventata spiacevole quando il sogno si è avverato e l’individuo — nel suo trionfo o nella sua umiliazione — è stato lasciato solo sul campo di battaglia. Vittorie e sconfitte sono diventate ugualmente amare, odiose e ripugnanti quando si è costretti a rallegrarsene o dolersene per conto proprio”.71 La vergogna, peraltro, ha anche un fondamento assolutamente reale. Il rischio, per molti anche troppo concreto, di un’esclusione definitiva da ogni possibilità di lavoro tende a mutare la condizione — già transitoria e quindi emendabile — del ‘disoccupato’ in quella, stabile, dell’inattivo o dell’economicamente superfluo. Causa di vergogna perché non riparabile, e perché consistente (come detto a suo tempo) non in un ‘fare’ né in un ‘omettere’ ma in un modo di essere. E la vergogna ha un ulteriore rinforzo nella contiguità — a volta autentica a volte presunta nella percezione dei media e nelle politiche pubbliche — I modi del pensare 69. Z. Bauman (2006), Modus vivendi, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 75 sgg. 70. E’ questo un esempio, molto pertinente, del punto di vista di Anders che fa coincidere la vergogna col “non essere responsabile di qualche cosa”. Cfr. G. Anders, op. cit., vol I, p. 97. 71. Z. Bauman (1999), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 60-61. 30 I modi del pensare 72. Z. Bauman, Modus vivendi, cit., pp. 34 e 78-79; Z. Bauman (2006), Homo consumens, Erickson, Gardolo (TN), pp. 59-60; Z. Bauman (2001), Voglia di comunità, Laterza, RomaBari 2003, pp. 116-117. 73. Z. Bauman, Modus vivendi, cit., pp. 15 e 55-56; Homo consumens, cit., pp. 59-60. 74. R. Sennett, op. cit., p. 139. 75. Ibidem e Z. Bauman, Voglia di comunità, cit., pp. 95-103. Gianni Kaufman dei non occupati con la categoria dei ‘disadattati’ o degli ‘antisociali’ o, peggio ancora, degli ‘sradicati’ (gli esclusi temono di confondersi coi ‘non inclusi’, la massa crescente di immigrati e di profughi); nell’allarme diffuso dei cittadini economicamente integrati per la sicurezza; e infine nel materializzarsi dell’esclusione e dell’emarginazione sociale — specie nei grandi agglomerati urbani — in qualche genere di segregazione territoriale.72 Come fattori di ‘regressione’ (anche psicologica) nella qualità della convivenza queste tendenze vanno viste e capite in rapporto con altre. 1) La necessità per il potere statale di rilegittimarsi su un versante diverso da quello della garanzia dei diritti sociali — di qui l’insistenza sulla prevenzione e la tutela penale della sicurezza e dell’incolumità personale;73 2) la riscoperta, paradossale ma comprensibile, del valore del luogo (il territorio e la comunità locale) come ancoraggio anzitutto simbolico dell’identità e della sicurezza perdute, ma anche come spazio residuo per l’efficacia di scelte politiche;74 3) la tendenza a arroccarsi, specie da parte dei più sfortunati, in comunità difensive, spesso a base etnica, religiosa o razziale, e ciò sia, di nuovo, come recupero dell’identità minacciata, sia anche in risposta all’ostilità e alla discriminazione.75 Ciò che v’è di comune — e di psicologicamente importante — fra queste tendenze è il limitato rilievo pratico e il carattere, propriamente ideologico, di ‘sfogo’ o ‘espediente’: sia l’insistenza sulla sicurezza e sull’ordine che il ripiegarsi sulle questioni locali, infatti (per non parlare del lealismo etnico o dell’ortodossia religiosa) continuano ad essere del tutto impotenti ad attaccare le cause autentiche dell’insicurezza e della sofferenza dei singoli ma canalizzano l’ansia e la frustrazione tenendo in vita un’idea di controllo e presa sui problemi. E insieme offrono, demonizzando il diverso, l’estraneo, il non familiare, in una parola col dare un volto e un’identità alla paura, degli utilissimi capri espiatori. Specie gli stranieri, gli 31 Vergogna: l’emozione del limite immigrati ed i profughi — osserva Bauman76 — si prestano egregiamente a incarnare il pericolo esterno, l’alieno, dai connotati poco comprensibili, ma in ogni caso minaccioso e sfuggente. A questo punto ci sembra chiaro che i presupposti e la qualità dell’identità e del consenso, nelle società in cui viviamo, danno uno spazio alquanto limitato — riservato, comunque, a un’area ristretta di privilegiati — ai requisiti di apertura e di stimolo all’ascolto e alla critica, e di attenzione per la differenza, che si riassumevano come capacità negativa. Sia la ricerca di scorciatoie ideologiche e di capri espiatori che l’insistenza, tutta difensiva, sulla relazione col ‘simile’ e la chiusura al diverso sembrano intese a recuperare un residuo margine di sicurezza (non è ben chiaro fino a che punto illusoria) privilegiando la semplificazione del processi mentali e l’evitamento, per quanto possibile dell’alterità.77 La qualità di vere e proprie difese nevrotiche, dirette cioè da dinamiche inconsce, di queste attitudini ne rende probabile il riversarsi anche nel rapporto genitore-bambino con le conseguenze che abbiamo già anticipato. Meno tolleranza e anche meno curiosità per i disagi e le idiosincrasie del bambino (o dell’adolescente), maggiore ansia verso il malessere, in breve una più intensa e più frequente pressione (supportata, nel caso, da diversivi e da gratificazioni, o da interventi medicalizzanti) a non deludere le aspettative anche a rischio di scindere aree importanti del sé. Si tratterebbe, se tutto questo trovasse conferma, di una dinamica circolare della vergogna. La difficoltà, psicologica e pratica, di prender piena consapevolezza del proprio stato di vulnerabilità, e di farsene carico con iniziative politiche non di facciata, ne incoraggia il diniego o la proiezione all’esterno78 con un’ideazione, tutta difensiva, di qualità grossolana; se poi questa si estenda anche all’attitudine genitoriale, essa riprodurrà le strutture psichiche — di falso Sé — più favorevoli al riattivarsi di quelle difese: perché viziate I modi del pensare 76. Modus vivendi, cit., p. 54. 77. Ibidem, pp. 99-101. Bauman parla in proposito di ‘mixofobia’. 78. Sull’ubiquità della proiezione della vergogna vedi M. C. Nussbaum, Nascondere l’umanità, cit., pp. 257-260. 32 I modi del pensare 79. R. Peltz, “The manic society”, in L. Layton, N. Caro Hollander, S. Gutwill, a cura di, Psychoanalisis, Class and Politcs, Routledge, London and New York 2006, pp. 65-80. 80. A. Ehrenberg, op. cit., p. 256. 81. Ibidem, pp. 177-178. Gianni Kaufman da spazi vuoti — quasi sempre gli aspetti più vulnerabili e fragili — non rispecchiati e non elaborati del Sé, materia prima delle future identificazioni e seduzioni ideologiche. Psichiatri e psicologi più interessati al contesto sociale e politico del malessere psichico propongono analisi di questo genere. Peltz, con riguardo agli Stati Uniti, parla ad esempio di manic society — società maniacale, in cui genitori e figli, proprio reagendo alla totale carenza di garanzie e protezioni pubbliche, condividono identiche negazioni e idealizzazioni, rappresentandosi “un mondo di potenzialità illimitate in cui venire a contatto coi propri limiti equivale a fallire”. I genitori agiscono la propria insicurezza con il promuovere lo sviluppo precoce dei figli e un avvio prematuro delle funzioni dell’Io, i figli interiorizzano attese eccessive e proiezioni sadiche dei genitori, tendono a prendersi prematuramente cura di loro e a disprezzare i propri stati di bisogno.79 In tutt’altro ambito — quello francese — già Ehrenberg aveva notato, negli anni ’90, “una esacerbazione degli imperativi di riuscita individuale e scolare [che] affligge bambini e adolescenti”.80 Ciò in un contesto di instabilità e precarietà crescenti delle condizioni di vita, di aggravamento delle disparità sociali, di patologie psichiche sempre più riferite alla fatica e al trauma. Ma anche qui le difese vanno in direzione del potenziamento delle prestazioni (con un uso di farmaci che tende a volte a sconfinare nel doping); e dell’equazione della salute psichica con il benessere e l’evitamento del deficit (omettendo il conflitto, il confronto col quale imporrebbe comunque l’accettazione di limiti). Alla radice della crescente frequenza delle patologie depressive Ehrenberg vede non la colpa ma la vergogna: “Il depresso (…) nella sua fondamentale megalomania, non può ammettere le proprie insufficienze; non può ammettere di sentirsi limitato dalla realtà e in particolare dai limiti impostigli dalla sua storia familiare e dalle sue origini familiari”.81 E “la nuova cultura psicologica (…) appa- 33 Vergogna: l’emozione del limite ga il narcisismo dell’individuo, comportandosi tuttavia come una droga: alimentando un Io insaziabile, praticamente senza limiti. Le tecniche di miglioramento di sé disinibiscono l’individuo senza però metterlo nelle condizioni di ristrutturarsi”.82 Sempre per la Francia infine, più recentemente, Benasayag e Schmit, psicoterapeuti infantili,83 registrano il fallimento di un approccio educativo anche troppo diffuso, ricalcato sui rischi e sulla spietatezza della società di mercato, e che fa appello non al desiderio ma alla minaccia. Il futuro non è presentato come promessa ma come pericolo, e la cultura non viene offerta come valore — desiderabile — in sé; piuttosto il successo o l’insuccesso scolastico, e anche il valore di ciò che è appreso, sono da subito rapportati ai criteri economicistici della società adulta e si procede, su questa base, a una selezione precoce finalizzata a orientare i bambini “il più presto possibile”. L’approccio è distorsivo psicologicamente, oltre che discutibile sul piano etico, perché non riconosce la molteplicità interna della persona; e il riconoscimento non dovrebbe riguardare, secondo i due autori, solo le persone che hanno problemi “ma anche quelle che si considerano ‘normali’, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di ‘normale’, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…) Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’ della norma, che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di dover ‘essere forti’, ‘all’altezza’. Ma ‘trionfare’ nelle nostre società della tristezza è grave almeno quanto fallire, perché comporta un prezzo da pagare, quello della tristezza, della durezza e dell’angoscia di essere inclusi un giorno nel novero delle persone che rivelano una ‘falla’. Il trionfo presuppone che si recida ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità”.84 L’approccio, peraltro, è anche poco efficace perché soltanto il desiderio sa creare legami — legami sociali e anche di pensiero — mentre la minaccia alla sopravvivenza implica che “ci si salva da soli”. Questo ha I modi del pensare 82. Ibidem, pp. 168-169. 83. M. Benasayag, G. Schmit (2003), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004. 84. Ibidem, pp. 84-85. 34 I modi del pensare 85. Ibidem, p. 49. Gianni Kaufman un riscontro del tutto tangibile quando il messaggio sulla pericolosità del futuro è anche troppo creduto e proprio per questo non si scommette sul sacrificio e sul duro lavoro ma sul denaro veloce e facile (o sulla fuga nelle dipendenze). Una società che si fonda sul ‘tutto è possibile’ del sapere tecnico e sulla negazione del limite ha comunque un problema nel mettere un argine all’onnipotenza e nell’imporre divieti, e quanto più evoca questo orizzonte, col battere il tasto dell’emergenza, tanto più rischia di farsi rispondere con ‘attacchi al legame’ — agiti violenti o fughe autistiche nei giochi virtuali. Ma l’emergenza comprime anche il tempo per far operare il pensiero: “riflessi sociali di difesa prendono il posto occupato fino a ora dal pensiero e dall’elaborazione concettuale”.85 In questo senso può accelerare la ricerca dell’utile ma non stimolare l’interesse allo studio e all’attività culturale. Occorre invece, per rifondare sia le capacità di socializzazione che le possibilità di pensiero, attuare una clinica del legame che non dovrà porsi l’obiettivo — di stampo ancora individualistico — dell’estensione fine a se stessa dell’autonomia o del dominio dell’Io; e neanche procedere dall’idea astratta di un Sé che è sempre normalizzabile (cioè conformabile agli ideali sociali) perché nulla di quanto lo fa soffrire pertiene al suo essere ma è in qualche modo accidentale e esteriore. Piuttosto occorrerà muovere da un non sapere che lasci modo e tempo a ciascuno di assumere il proprio destino: di uscire cioè dall’alternativa irrealistica sottomissione/dominio che fa coincidere la libertà con l’indipendenza assoluta, col puro arbitrio, per farsi carico del proprio essere in situazione: cioè collocato in uno spazio non eludibile di fragilità che è interdipendenza, la molteplicità e complessità dei legami che definisce ovvero rende concretamente possibile la sua libertà. 35 Vergogna: l’emozione del limite Abstract The paper starts with the definition and the distinction between two kinds of shame: inadequacy shame and violation shame, and states their difference from guilt. On the basis of linking shame to the experience of “limits”, it suggests a criterion to differentiate between individuating and alienating developments of shame. Further such developments are analysed with regard to three different realms: body, sexuality and emotions. The third one is especially investigated with regard to dynamics and parental reactions in infancy and adolescence. As for the consequences of early shame the analysis refers to the development of a false – self and a deficit of reflective function. In addition the alienating developments of shame are illustrated in connection with the bonds and the contradictions of the present global society: especially the new phenomena of shamelessness, consumer sexuality and the effects of the mentioned contradictions on parental attitudes. I modi del pensare 37 I modi del pensare Nella nota favola di Fedro, “Il lupo e l’agnello”, c’è un lupo che decide di sbranare l’agnello che incontra mentre, come lui, si accinge ad abbeverarsi a un ruscello. Il lupo non passa subito a vie di fatto, ma argomenta con la preda i motivi che lo legittimano a divorarla. Oltre all’assurdità delle sue spiegazioni, colpisce il fatto che senta di doverle dare. Il racconto offre uno spunto di lettura trasversale: nonostante la sproporzione del rapporto di forza, fatto che renderebbe del tutto oziosa la giustificazione del suo agire, il lupo si dilunga a rispondere all’appello al senso di giustizia dell’agnello. I suoi argomenti, per quanto assurdi, sembrano dettati dalla necessità di salvare la forma. La forma, in questo contesto, può essere intesa come vergogna del sopruso che il forte dovrebbe provare nei confronti del debole innocente e indifeso. Fedro, che aveva ripreso le sue favole da quelle del greco Esopo, evoca il genere di vergogna che nell’antica Grecia era espresso col termine aidos, insieme di significati come rispetto, pudore, soggezione e, in particolare, senso del limite da non varcare; l’inglese awe ne rende bene il senso di ritegno misto a timore. È un senso teleologico del limite che preserva gli umani dal rischio di regredire all’onnipotenza dello stato ferino, come pure dall’esaltarsi nell’onnipotenza opposta, quella dell’inflazione che fa sentire innalzati allo stato di divinità. Questa potenza inflazionata, antitetica ad aidos, era chiamata hybris. Il suo significato rimanda a violenza, eccesso estremo, enormità. Indicava il non rispetto del limite estremo, l’aver superato il confine oltre il quale gli umani non devono andare. Oltraggiare l’orfano privo di protezione, consegnare l’amico ai suoi nemici, approfittare dell’ospite tradendo la sacra regola dell’ospitalità era avere in spregio l’aidos e cadere in preda alla hybris. Evento, questo, che avrebbe scatenato la collera e la vendetta degli dei, quindi temibilissimo. Liberarsi dell’aidos e commettere hybris era passare dal Superior stabat lupus Bruno Meroni 38 I modi del pensare 1. I grecisti ancora discutono sui termini e sulle accezioni di vergogna e colpa presso i greci antichi. Oltre ad aidos il senso di vergogna veniva indicato con aischyne, e a seconda delle epoche i due termini tendevano a sovrapporsi o a distinguersi. Attualmente sembra prevalere l’interpretazione di aischyne come di provare vergogna per aver commesso il fatto, quindi una vergogna già di fatto colpa. 2. Genesi III, Pentateuco e Hastaroth, traduzione di Luciano Caro, Marietti, Torino 1965. Bruno Meroni sentire verecondo all’agire colpevole; i termini greci, come si vede, distinguono le dinamiche relative alla vergogna da quelle della colpa.1 Il lupo di Fedro, che tiene protervamente a distanza il sentimento di vergogna di cui tuttavia intravede il senso, è un soggetto già umano. Come ha detto Mark Twain, l’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è anche l’unico ad averne bisogno. Gli animali non conoscono la vergogna; una storia della vergogna potrebbe fare da contrappunto alla storia dell’evoluzione della coscienza, dai cavernicoli ai nostri giorni. La coscienza, secondo la Genesi, nasce contemporaneamente alla comparsa del senso di vergogna della propria nudità. “…l’uomo e sua moglie erano nudi ambedue, ma non si vergognavano”. Il rivestimento di foglie che Adamo ed Eva si fecero subito dopo aver mangiato il frutto proibito suggella la genesi coscienziale “(…) Gli occhi di ambedue si aprirono ed essi si accorsero che erano nudi; misero insieme delle foglie di fico e se ne fecero cinture”. Come si vede, all’origine pudore e vergogna sono tutt’uno. Javeh accusa Adamo ed Eva di avere trasgredito il suo ordine sull’evidenza di avere provato vergogna, quindi paura. Quando chiama Adamo e gli chiede dove sia, questi risponde : “Ho udito nel giardino il tuo rumore, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto. Dio gli replicò: E chi ti ha fatto avvertito che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero del quale ti avevo comandato di non mangiare?” L’importanza della vergogna della nudità del corpo viene riconosciuta e diremmo avallata da Javeh, che concede di coprirla: “Il Signore Dio fece per Adamo e per sua moglie delle tonache di pelle e li vestì. Poi il Signore Dio disse: ‘Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi, in quanto conosce il bene ed il male (...)”.2 Dunque la conoscenza del bene e del male, secondo la nostra cosmogonia, si costella contemporaneamente al sentimento di vergogna e di colpa. Anche in questa prospettiva, la vergogna anticipa la colpa, la implica sottintendendola e questo, a mio avvi- 39 Superior stabat lupus so, ci riporta al significato originario del termine greco, aidos.3 Mancherebbe, rispetto al greco antico, l’esplicitazione vera e propria di ciò che diventa colpa, un termine equivalente di hybris. Sarebbe interessante un escorso filologico nell’antico aramaico per vedere se nel testo originario della Genesi se ne può rintracciare una presenza. Quando il lupo antropomorfizzato accampa argomenti pretestuosi viola l’aidos, quando divora l’agnello viola la hybris. Il suo salvare la forma con argomenti assurdi rivela il disagio che prelude alla vergogna di chi, per quanto egosintonico, avverte che il proprio agire lo pone fuori della norma, fuori dei valori condivisi. In questo la vergogna rivela l’affiorare nell’individuo di una verità oggettiva che il suo soggettivismo non del tutto inconscio ignora o trova comodo non riconoscere. Amleto apostrofa la madre con: “O vergogna, dov’è il tuo rossore?”. Le ultime parole con cui Kafka chiude il romanzo dell’assurdo processo all’arrendevole signor K, morente sotto il coltello del boia, sono: “‘Come un cane!’ disse, era come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”.4 Secondo le intenzioni di Fedro il suo lupo, molto umano, è metafora di persona prepotente, arrogante, che con sfrontatezza si consente di agire la violenza che governa il regno animale. Ubi maior minor cessat, l’antico detto latino, che trova riscontro nelle lingue di tutti i tempi, mantiene inalterata l’eterna attualità. Oggi tanto più offensiva quanto più il differenziarsi della coscienza collettiva dovrebbe affinare il senso etico degli individui, dovrebbe far avvertire come scandalose forme di prevaricazione che meno di un secolo fa sarebbero state tali in misura molto minore. Lo scandalo, forma accentuata e socialmente estesa di vergogna, si produce quando due condizioni entrano in conflitto: da una parte l’irrinunciabilità al senso della dignità dell’essere, principio garantito e difeso dalla costituzione di ogni stato di diritto; dal- I modi del pensare 3. Analogamente troviamo in latino: Ubi nullus pudor, ibi nulla honestas. 4. W. Shakespeare, Amleto, atto III, scena IV. F. Kafka, Il processo, Adelphi, Milano 1988. 40 I modi del pensare 5. J. Roth, La marcia di Radetzky, Adelphi, Milano 1996. Bruno Meroni l’altra la palese violazione di questo principio, sia essa subita o agita. Il senso di dignità dell’essere, assieme a tutti i contenuti valoriali elencati nel codice civile, come per esempio il comune senso del pudore, è soggetto all’influenza dello spirito del tempo. Vergogna e colpa, pur mantenendo viva la loro presenza, eternamente riaffiorante in quanto istanze archetipiche, sono indissolubilmente contrassegnate dai valori dello spirito del tempo, quindi mutanti nella forma e nel contenuto. Se al tempo dell’Impero austroungarico un capitano distrettuale sarebbe stato meno scosso dalla notizia della morte dell’unico figlio che dal saperlo autore di un atto disonorevole,5 oggi è difficile pensare che potrebbe accadere qualcosa di simile. Ugualmente, ciò che nell’ambito della sessualità solo cinquant’anni fa poteva venire considerato scandaloso, oggi trova una valutazione ben diversa. Il tempo in cui viviamo pone in massima considerazione la notorietà, che a sua volta valorizza acriticamente la figura del vincente, o anche solo dell’emergente. Da qui l’affievolirsi del senso di colpa, anche in seguito alla scoperta della trasgressione più eclatante; da qui il circoscriversi della vergogna in una dimensione relativa più alla Persona che alla coscienza morale. Se consideriamo il percorso compiuto nella storia dell’evoluzione della coscienza, dovremmo dedurre che più evolve la coscienza della collettività, più l’istanza etica del singolo individuo sarebbe portata ad affinarsi. Fatto che dovrebbe vedere immediatamente chiamato in causa il sacrificio degli aspetti egosintonici dell’Io, ossia la mortificazione dell’Ombra di pari passo con l’inibizione delle sue richieste. In realtà, oggigiorno si direbbe che l’Ombra si adoperi con successo perché questo non avvenga. Ombra collettiva prima ancora che individuale. Per niente indebolita dal conflitto etico, l’Ombra collettiva dell’attuale contesto sociale autorizza l’individuo a depotenziare 41 Superior stabat lupus sempre più il pudore e il senso del limite. In questo contesto sociale, ormai massificato in quasi ogni suo aspetto, risulta più che mai veridica l’asserzione di Jung secondo la quale il livello etico di un insieme di persone si abbassa proporzionalmente alla quantità di persone che lo compongono. La richiesta di più prestazioni simultanee (una sorta di ubiquità virtuale dovuta alla raggiungibilità da cellulari e posta elettronica) unitamente all’accelerazione della nozione del tempo operativo, tutto questo crea un aumento esponenziale di impiego di energia. Ne risulta una situazione in cui l’individuo fatica sempre più a reggere il passo; ridotto alla condizione dell’automa chapliniano di Tempi moderni, considera naturale e positivo essere omologato e appiattito nella dimensione di uomo massa. Diminuendo il senso della propria unicità l’essere umano, troppo umano, si sente sempre meno in colpa per le proprie inadempienze, per contro sempre più timoroso di restare fuori del gioco, di separarsi dall’inclusione nel sociale, di perdere l’apprezzamento del gruppo di appartenenza. Chi, magari persona in vista, ha trasgredito e viene smascherato pubblicamente, quindi soggetto più di altri suscitatore di scandalo, per prima cosa nega tutto, e clamorosamente continuerà a farlo contro ogni evidenza. Altro che aidos! Il senso di colpa, si direbbe, non lo sfiora, e nemmeno lo imbarazza un residuo di creanza, termine questo totalmente in disuso; ciò che veramente teme è l’emarginazione dal gruppo dei vip (very important person). La sola vergogna che paventa è non poter più esibire la posizione che la notorietà gli offre. Contrariamente al passato, la persona colpita dallo scandalo non si auto-esilia dalla collettività, ma fa di tutto per restare alla ribalta. Oggi può dire, con Oscar Wilde, si parli pure male di me purché si parli. Come si è arrivati a tutto questo? La figura di riferimento depositaria dei valori collettivi è, archetipicamente, il padre. Il depotenzia- I modi del pensare 42 I modi del pensare 6. A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, p.185 e sgg., Feltrinelli, Milano 1970. Bruno Meroni mento del principio archetipico a lui relativo va di pari passo con l’affievolirsi dei valori in cui la collettività si identifica. Alexander Mitscherlich, rifacendosi al pensiero di David Riesman, osserva che dal momento che “nella vita attiva è venuta a mancare la trasmissione diretta degli insegnamenti da parte del padre e quindi non esiste su questo piano una tradizione sicura, i coetanei tendono a orientarsi l’uno sull’altro. Il peer group, cioè il gruppo di coetanei nel quartiere, nella scuola, o nel luogo di lavoro fornisce la linea direttrice del comportamento. Questo vale sia per i bambini che per gli adulti; e di conseguenza i genitori rimproverano ai figli non tanto l’infrazione alle regole (inner standards), quanto l’incapacità di stabilire buoni rapporti con altri bambini e di essere ‘popolare’ fra di loro”. L’individuo gruppo-dipendente, è “preparato perché possa adattarsi a una trasformazione assai rapida della società e sfruttarla per il conseguimento dei suoi fini individuali”. L’orientamento, invece di essere fondato su norme ritenute immutabili e universali “viene impresso con il radar. In questo modo i cambiamenti di direzione possono essere continui: infatti l’uomo ‘other directed’ viene continuamente colpito da nuovi richiami di oggetti immediati, che egli afferra e poi abbandona altrettanto rapidamente. Anche questa docilità alle influenze esterne viene naturalmente assimilata sin dall’infanzia, e fa nascere quella figura di ‘progressista’ che crede nella tecnica, che disprezza il padre, che non trova in sé alcuna esigenza di sviluppo e per il quale esistono praticamente solo due categorie di giudizio: un ‘essere-informa’, ‘essere popolare’ nella società oppure l’essere dimenticati, sorpassati, senza valore”.6 È evidente come il consumismo, con relative derive negative, trovi nei presupposti qui descritti un fertilissimo terreno di cultura, anche irrorato dalla comunicazione commerciale di massa. Per contro, se in un paesaggio sempre più appiattito si pensa alla mancanza del padre che trasmette nella vita attiva i suoi 43 Superior stabat lupus insegnamenti, viene in mente un passaggio del Faust di Goethe che Freud cita più volte nei suoi scritti: ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero. Riesman ha scritto le sue osservazioni nel 1950,7 tuttavia la frammentazione della persona come individuo (il cui etimo, ricorda Jung, è individuum, ossia non-diviso) viene da un’onda lunga, il cui sommovimento attraversa tutta la vita sociale del novecento. Mi sembra utile soffermarsi su aspetti sociologici anche in queste pagine che, in verità, trattano più specificamente di pratica analitica. Ma, come sappiamo, lo spirito del tempo permea ogni seduta del nostro lavoro, e coinvolge l’analista in un rapporto controtransferale di cui non può non tenere conto; in parole junghiane l’analista con la propria Anima, Persona interna, Persona esterna, non può in nessun modo astrarsi dal tempo sociale in cui opera, fatto che oggi gli chiede un impegno adattivo sempre maggiore. L’intento è quello di sempre della psicologia analitica: far germogliare nell’analizzando lo specifico individuale affinché possa trovare un’integrazione nel suo ambiente il più possibile compatibile con la sua datità di individuo. Riguardo la mortificazione della possibile originalità di un soggetto, già nel 1931 Virginia Woolf denunciava che mentre in passato all’individualità dei politici che governavano i destini dell’Inghilterra era concesso di espandersi, “…oggi un singolo uomo non può reggere alla pressione delle umane faccende. Esse si abbattono su di lui schiacciandolo; lo lasciano privo di carattere, anonimo, un puro strumento nelle loro mani. La conduzione degli affari è passata dalle mani degli individui alle mani dei comitati. Persino i comitati possono solo dirigerli e sollecitarli e rovesciarli addosso ad altri comitati. Le squisitezze e le complicazioni della personalità sono ornamenti superflui che intralciano l’agire”.8 Andando ancora un passo indietro nel tempo, I modi del pensare 7. D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956. 8. V. Woolf, Scene di Londra, Mondadori, Milano 1982, p. 66. 44 I modi del pensare Bruno Meroni concludo questa escursione sulle radici non recenti dell’uomo a una dimensione, come lo ha definito Marcuse: riporto un brano di un saggio di Freud del 1908. Presenta la sua profetica preoccupazione per le conseguenze del crescente nervosismo moderno e, nello stesso tempo, lascia trasparire il Freud uomo del suo tempo, quello borghese-ottocentesco della cosìdetta Austria felix. Ma è proprio il conservatorismo della sua condizione che lo rende attento e particolarmente sensibile ai pedaggi che il progredire delle condizioni sociali stava comportando. Freud considera come gli specialisti delle malattie nervose del momento “…si siano fatti banditori della connessione esistente tra l’aumento del nervosismo e la vita civile moderna. (…) Dove essi cerchino le cause di questa dipendenza, sarà illustrato con alcuni brani tratti da dichiarazioni di eminenti osservatori. Wilhelm Erb: ‘L’interrogativo inizialmente posto si può dunque formulare così: le cause individuate sopra delle malattie nervose sono presenti nell’esistenza moderna in proporzione così cresciuta da spiegarci il rilevante aumento di tali malattie? A questo interrogativo si può senz’altro rispondere di sì, come mostrerà un rapido sguardo alla nostra vita moderna e alla forma che è venuta assumendo. Ciò risulta subito evidente da tutta una serie di fatti generali: le straordinarie conquiste dell’epoca moderna, le scoperte, le invenzioni in tutti i campi, il mantenimento del progresso di contro alla crescente competizione, tutto ciò è stato ottenuto e può essere mantenuto solo con un grande lavoro intellettuale. Il grado di prestazioni richieste all’individuo nella lotta per l’esistenza è notevolmente aumentato ed egli può soddisfare tali richieste solo impiegando tutte le proprie energie spirituali; allo stesso tempo i bisogni del singolo e le sue esigenze di godimento della vita sono aumentati in tutte le classi, un lusso inaudito si è diffuso in strati della popolazione che prima n’erano rimasti esclusi; l’irreligiosità, l’insoddisfazione e 45 Superior stabat lupus l’avidità sono aumentati in vaste sfere sociali. Attraverso la smisurata intensificazione del traffico e le reti delle comunicazioni telegrafiche e telefoniche che abbracciano tutto il mondo, le condizioni del commercio sono totalmente cambiate: tutto viene fatto nella fretta e nell’agitazione, la notte è impiegata per viaggiare e il giorno per gli affari; perfino i viaggi ‘di svago’ sono diventati occasioni di strapazzo per il sistema nervoso. Grandi crisi politiche, industriali e finanziarie diffondono l’agitazione in strati della popolazione molto più vasti di prima; la partecipazione alla vita politica è diventata generale: le lotte politiche, religiose e sociali, l’attività di partito, le campagne elettorali, lo smisurato aumento delle associazioni infiammano gli animi e costringono le menti a sempre nuovi sforzi, sottraendo tempo allo svago, al sonno e al riposo. La vita nelle grandi città diventa sempre più raffinata e inquieta. I nervi esausti cercano ristoro in stimoli più intensi, in piaceri piccanti, per stancarsi così ancora di più. La letteratura moderna si occupa prevalentemente dei problemi più scabrosi, che sommuovono tutte le passioni, incoraggiano la sensualità e la sete di godimento, il disprezzo di tutti i principi etici e di tutti gli ideali; essa presenta allo spirito del lettore figure patologiche, problemi di psicopatia sessuale, rivoluzionari e d’altro genere. Le nostre orecchie sono stimolate e sovraeccitate da una musica invadente e chiassosa, somministrata in grandi dosi; i teatri tengono avvinti tutti i sensi con i loro spettacoli provocanti; anche le arti figurative si rivolgono di preferenza al ripugnante, al deforme e all’eccitante e non esitano a metterci sotto gli occhi con rivoltante verismo anche gli aspetti più mostruosi offerti dalla realtà. Questo quadro generale mostra dunque già tutta una serie di pericoli insiti nell’evoluzione della nostra civiltà moderna: e per completarlo nei particolari si potrebbero aggiungere altri segni caratteristici!’”.9 Freud aggiunge poi altri interventi, di tenore I modi del pensare 9. S. Freud, “La morale sessuale ‘civile’ e il nervosismo moderno”, Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino 1972, p. 416. 46 I modi del pensare 10. Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari, 2003. 11. Z. Bauman, Media, spettatori e attori, p. 3, Vita e Pensiero, www.vitaepensiero.it. Bruno Meroni analogo, di Binswanger e di Kraft-Ebing. Sin qui alcune premesse alla genesi dell’attuale società liquida. È la nota definizione di Zygmunt Bauman; società divenuta tale per cause diverse, fra le quali spicca il liquefarsi dei quadri di riferimento non appena si costituiscono, quadri che normalmente sono i punti fissi che consentono e delimitano i comportamenti collettivi e individuali, quelli che custodiscono i valori condivisi che improntano l’orientamento e il senso di continuità della singola persona.10 Questa società liquida, fra le altre cose, a causa dell’onnipresenza delle telecamere ci ha trasformati tutti in spettatori globali, una immensa platea incessantemente sottoposta alla spettacolarizzazione della realtà. In una conferenza tenuta a Milano nel 2004, Bauman si chiedeva: “Gli esseri umani, fragili come sono, saranno capaci di sopportare con pazienza, integrità e dignità l’enorme peso dell’informazione? Potranno tollerare di conoscere tutta quanta la miseria umana, il male quotidianamente commesso e la sofferenza delle vittime? O piuttosto cercheranno, in modo meschino, vile, deprecabile, di sottrarsi a quel peso con calunnie reciproche, insulti, inutili polemiche e aperte rivalità, scorgendo colpevoli e malfattori ovunque tranne che in casa propria?”.11 Come si vede, Bauman pone l’accento sull’Ombra collettiva, il cui espandersi può produrre a livello individuale tratti di una psiche che si protegge rimanendo infantile; tanto l’elaborazione della vergogna come l’assunzione della colpa vengono eluse dal gioco dell’Ombra: una volta disattivata la vergogna, il peso della colpa si riduce al trovare un colpevole. Ho trovato un brano, in un libro di Garcia Marquez, che descrive con la finezza del grande scrittore come in una personalità adulta possano permanere aspetti d’Ombra che, sconcertantemente, hanno conservato integra la compattezza difensiva dell’infanzia. “Fin da bambina, quando si rompeva un piatto in cucina, quando qualcuno cadeva, quando lei stessa si chiu- 47 Superior stabat lupus deva un dito nella porta, si girava spaventata verso l’adulto più vicino in quel momento e si affrettava ad accusarlo: ‘È stata colpa tua’. Anche se in realtà non le importava chi fosse il colpevole né tantomeno di convincersi della sua innocenza: le bastava per lasciarle stabilità. Era un fantasma così manifesto che il dottor Urbino si era accorto per tempo fino a che punto minacciasse l’armonia di casa sua, e non appena lo intravedeva si affrettava a dire alla moglie: ‘Non ti preoccupare, amore mio, è stata colpa mia’”.12 Scorgere colpevoli ovunque tranne che in casa propria, ossia essere in balia delle proprie identificazioni proiettive, è un tratto peculiare del narcisismo, da cui scaturisce l’esito paranoide ulteriormente accentuato in chi vive con-fuso nella moltitudine dell’appartenenza. Se l’epoca omerica è stata definita “civiltà della vergogna”, essendo questa l’istanza più influente sulla cultura di quel tempo,13 il momento attuale, è opinione accettata, vede il narcisismo come il tratto dominante, quello che maggiormente caratterizza la vita sociale: la nostra età è l’età del narcisismo.14 In culture di tutti i tempi la fama, quando associata alla gloria, era un bene supremo: tramandava la memoria del personaggio alle generazioni future. Oggi il teleschermo elargisce una forma di fama — non importa se connotata dalla gloria o dall’infamia — che vive solo in tempo reale; se, come è stato detto, la televisione ha ucciso la realtà, allora si è sostituita alla realtà e può elargire fama comunque. Andy Warhol, nel 1968, profetizzava: nel futuro ciascuno sarà famoso in tutto il mondo per quindici minuti. L’autostima di un individuo poggia in larga misura sul riscontro positivo che avverte da parte del gruppo di appartenenza. Sentirsi parte integrata di un insieme di più persone fa sentire se stessi più forti: un gruppo coeso infonde vigore ed energia. L’aspetto adattivo, il gregarismo sono il grande rischio della Persona, che Jung vede come ostacolo poten- I modi del pensare 12. G. Garcia Màrquez, L’amore ai tempi del colera, Mondadori, Milano 1985, p. 217. 13. E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, 1978. 14. Ch. Lash, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1995. 48 I modi del pensare 15. S. Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, Opere, vol. 9, Boringhieri, Torino 1997, p. 304 e sgg. 16. Le ricerche nei campi della psicologia cognitivaevolutiva hanno prodotto ulteriori interpretazioni circa la relazione fra potenziale genetico e influenza ambientale. Si è così ulteriormente ampliato il dibattito sulla tesi che gli archetipi non vadano considerati come strutture genetiche innate ma possano essere equiparati a schemi di immagine formatisi nel primo stadio del processo mentale; in sostanza, più che di contenuti mentali innati si verrebbe a parlare di prodotti precoci dell’auto-organizzazione evolutiva, ossia di prime produzioni dello sviluppo mentale. Indipendentemente dalle posizioni assumibili in questo dibattito, che sicuramente coinvolge tutti noi, il termine di archetipo qui impiegato è da intendersi come una manifestazione costantemente rintracciabile nell’individuo e nella collettività lungo tutto il percorso della vicenda umana. 17. M.-L. von Franz, Shadow and evil in fairytales, Spring Publ., Zurich 1974. Bruno Meroni zialmente molto pericoloso riguardo il conoscere e integrare la realtà dell’Anima. Pericolo che, in modo meno specifico, non era sfuggito a Freud. Alle conseguenze della pulsione gregaria dedica uno studio particolare, rileva che “il mistero dell’influenza suggestiva aumenta ai nostri occhi se ammettiamo che essa non viene esercitata unicamente dal capo, ma anche da ogni singolo su ogni altro singolo, e dobbiamo rimproverarci di unilateralità per aver dato rilievo preminente al rapporto istituito con il capo sottovalutando indebitamente l’altro fattore, quello della suggestione reciproca”.15 È possibile che la tendenza ad aggregarsi, a omologarsi nella Persona, attualmente così urgente, sia una risposta allo smarrimento prodotto dalla trasformazione dei valori tradizionali. L’insicurezza spinge a rinserrare le fila. In ogni caso dietro questa spinta c’è un eterno flusso energetico che, in un’ottica junghiana, è riconducibile al grande vento emanato da un archetipo: quello dell’appartenenza. Come tutti gli archetipi racchiude una tremenda energia e gli umani, in quanto animali sociali, non possono vivere armonicamente in un proprio mondo autarchico; per i nostri antenati del pleistocene perdere il contatto con il gruppo di appartenenza significava la morte, proprio come accade a tutti gli animali sociali.16 Questo terrore originario, radicato nell’amigdala, ispira molte delle nostre iniziative, il cui scopo è rassicurarci che il posto che occupiamo nel contesto sociale non corre rischi di esclusione. Nel suo studio su come il male è rappresentato nelle fiabe, la von Franz rileva che quasi sempre esso si manifesta in circostanze di lontananza, di isolamento dalla comunità: la bambina che disobbedendo ai genitori si inoltra nel bosco abitato dalla strega, o che deviando dal percorso più frequentato incontra il lupo, come pure l’imprudente che si allontana troppo dall’oasi verso il deserto e incontra il genio cattivo.17 Per avere un’idea della potenza dell’archetipo del- 49 Superior stabat lupus l’appartenenza basti pensare che nell’antica Grecia, per i cittadini della polis, la pena più severa in cui un reo poteva incorrere, paventata più della stessa pena capitale, era l’ostracismo. L’esilio significava la perdita della condizione di cittadino, ossia la morte civile. Analogamente in Shakespeare, in Romeo e Giulietta, troviamo: “Non c’è mondo fuori dalle mura di Verona / se non purgatorio, sofferenza, anzi, l’inferno stesso. / Essere bandito da qui significa esser bandito dal mondo / ed esser bandito dal mondo significa morte”.18 Per la comunità la proscrizione di un individuo significava cancellare la stessa memoria che si aveva di lui. L’importanza dell’appartenenza è evidenziata con peculiarità britannica dal verbo inglese to remember, ricordare: letteralmente significa ricostituire un membro. Troviamo la stessa radice nel sostantivo francese remembrement, con significato di riunificazione, ricomposizione. La radice è analoga anche nell’italiano rimembrare. In analisi, la sofferenza da esclusione è tutt’altro che marginale e può manifestarsi in modi molto diversi. L’occhio dell’analista deve sapere coglierli: vanno dall’ansia precoce provata dal bambino che avverte complicità intese ad escluderlo dai giochi dei compagni, situazione spesso avvertita nei banchi di scuola, alle idee paranoidi di chi immagina complicità nel venire emarginato da parte di amici o colleghi di lavoro. L’inibizione a far parte della vita sociale era il motivo che aveva portato in analisi un giovane poco più che ventenne, figlio unico, impiegato amministrativo, che viveva in famiglia. Da sempre la sua vita solitaria era stata condizionata da una madre iperprotettiva e iperaccudente, che aveva concentrato su lui tutto il senso della sua vita. Il padre, periferico, era irrilevante anche per motivi di lavoro che lo tenevano quasi sempre via da casa. La madre aveva messo ogni suo pensiero sull’accudimento del figlio, coltivando per la famiglia scarsissime frequentazioni esterne, circoscritte a pochi parenti. Il rapporto affettivo che questa madre aveva con il figlio mi si era configurato I modi del pensare 18. W. Shakespeare, Giulietta e Romeo, atto III, scena III. 50 I modi del pensare Bruno Meroni in un ossimoro, un boa constrictor di miele. Aveva continuato a lavare la schiena al figlio, quando nella vasca di casa faceva il bagno, ancora quando aveva compiuto quindici anni. Fu allora che lui, in un sussulto di autonomia e di amor proprio, le disse che voleva lavarsi da solo. La scintilla della ribellione era scaturita quando si era vergognato nel sentire la madre, durante una conversazione con una parente, che parlava di questa abitudine come di una cosa normale. Come nella Genesi, la vergogna aveva anticipato il senso che qualcosa di non presentabile, di colpevole, veniva commesso. Il disagio che l’aveva indotto a entrare in analisi non era il pesante stato depressivo che pure avvertiva, accompagnato da svariate tematiche ipocondriache, bensì un problema immediato: l’incapacità di assumere alimenti fuori casa. Nell’intervallo di colazione mangiava alla sua scrivania, nell’ufficio della piccola azienda in cui lavorava, fatto che gli provocava un forte sentimento di disagio — una commistione di vergogna non priva di colpa — per non fare come gli altri colleghi, che nell’intervallo si recavano nelle pizzerie e nei bar vicini. Si giustificava con loro inventandosi motivi dietetici e risolveva il suo ostacolo alimentare portandosi da casa la colazione, preparata dalla mamma, che scaldava su un minuscolo fornellino elettrico. La consumava in solitudine alla sua scrivania, nell’ufficio deserto. Quando un nuovo arrivo, una segretaria, per economizzare seguì la sua consuetudine, una nota della direzione pose fine a tutto questo: i clienti avrebbero potuto sentire nell’aria odore di cibo, fatto poco professionale per l’azienda. Fu allora che iniziò il suo dramma. Spiluccare un panino nella confusione dei bar del centrocittà era per lui un’autentica sofferenza, e peggio ancora consumare un piatto pronto: oltre alla difficoltà a inghiottire, avvertiva come insultante quella parvenza di pasto. Su questo problema passammo circa due anni di sedute, due anni di autocompianto e svalutazio- 51 Superior stabat lupus ne, con alternanze di mestizia e agitazione; il lavoro inteso a far emergere la particolarità della sua dipendenza domestica, l’anomalia del suo legame con la madre e il materno prima ancora che col padre, non lo coinvolgevano più che tanto. Una svolta a questo stagnante stato di cose avvenne, inaspettatamente, un giorno in cui, in piedi al banco di un bar, scorse con occhi nuovi la sua immagine riflessa in uno specchio che occupava tutta una parete. Si vide attorniato da una quantità di persone, come lui intente a mangiare qualcosa. Inspiegabilmente, avvertì come un senso di sollievo del suo stato, finire il panino fu meno penoso. Poche notti dopo fece questo sogno: “Mi trovo nella piazza di una città che non conosco, ai lati ci sono delle aiuole e delle piante. Avverto il bisogno ad andare di corpo, so che dovrò farlo e sono agitatissimo, non vedo nessun posto possibile per farlo. Per disperazione vado dietro una pianta e con grande sorpresa scopro altre persone che, accucciate, fanno i loro bisogni. Mi unisco a loro. Penso che per pulirmi potrò prendere delle foglie dall’aiuola”. Che l’andare di corpo sia stata un’attività corale è testimoniato dagli scavi archeologici, che in ogni parte del mondo presentano testimonianze di androni con turche e seggi preposti all’uopo, disposti uno accanto all’altro. Ne parlammo col mio analizzando, gli lessi anche un punto del Viaggio in Italia di Goethe, dove l’autore descrive un episodio che gli accadde in un albergo a Torbole, sul lago di Garda. “Quando chiesi al servo come soddisfare una certa necessità, egli accennò al cortile di sotto: ‘Qui abasso può servirsi!’. Io gli domandai: ‘Dove?’. ‘Da per tutto, dove vuol!’ rispose cortesemente. In ogni cosa si manifesta qui la massima trascuratezza, ma anche molta vitalità e operosità”.19 Devo dire che all’epoca di questa analisi, la teoria dei neuroni specchio era ancora di là da venire. Le neuroscienze ancora non ci avevano parlato delle basi I modi del pensare 19. J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori 1993, p. 27 (nel testo le parole in corsivo sono in italiano). 52 I modi del pensare Bruno Meroni neurofisiologiche dell’intersoggetività, del fatto che, come esseri sociali, condividiamo con altri non solo azioni, emozioni e sensazioni, ma anche i meccanismi nervosi che le sottendono: sé e altro da sé sono correlati in quanto entrambi rappresentano opposte estensioni di uno stesso spazio noi-centrico. Se avessi saputo qualcosa di questo sistema della molteplicità condivisa mi sarebbe risultato meno singolare il fatto che per il mio analizzando la semplice vista nello specchio di se stesso attorniato da altre persone intente a mangiare, avesse segnato una svolta così particolare nel suo percorso evolutivo. In realtà, nonostante la collaborazione dei neuroni specchio, molto lavoro analitico ci attendeva; del resto, come le stesse neuroscienze chiariscono, nella dimensione della reciprocità condivisa c’è differenza fra empatizzare, attività ritenuta di natura pre-verbale e pre-razionale, e simpatizzare, campo dove l’Io dice la sua, con tutte le sue attese e i suoi irrisolti nuclei complessuali. Tuttavia dopo il sogno fu come se, inaspettatamente, un ciclo virtuoso avesse preso forma. Indipendentemente dalla teoria, è stupefacente la finezza del processo onirico che collega l’impossibilità di mangiare in pubblico con un irrisolto senso di vergogna, e lo stempera ponendo l’analizzando a fronteggiare, condividendola, una situazione che nell’ambito della vergogna è forse quella più limite di tutte le possibili. Penso che nel labirintico percorso del nostro lavoro analitico, l’archetipo dell’appartenenza, attivatosi in un aspetto soccorrevole, abbia giocato un importante ruolo riparativo. 53 Superior stabat lupus I modi del pensare Abstract The theme of the paper concerns the contemporary way of living guilt and shame, due to the collective pressure increasingly requiring accelerated performances: anxiety to affirm oneself (fear of not keeping the pace) flattened individual values to collective values, refuses to acknowledge any sense of limits, priority to auto-affirmation (and of becoming famous) over moral principles. The readiness to accept control from external influences proposed by parents since infancy, gives birth to a “progressive person” that believes in technique, despise the father and for whom there are only two categories of judgment “to be fit”, “to be popular” or to be forgotten, to be behind the times, without value. Freud had anticipated all this in his 1908 paper “ Civilized Sexual Morality and Moral Nervous Illness“, today reconsidered by Zygmut Bauman with his concept of the “liquid society”. The gregarious drive already theorized by Freud, can be expressed in Jungian terms as the archetypal predisposition to belonging. 55 I modi del pensare Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea Il cosiddetto “senso di colpa”, in psicoanalisi, ha una lunga storia, una storia che parte dalle origini. Potremmo dire addirittura che è stato un inscindibile ingrediente sia nel primo pensiero di Sigmund Freud, con il sintomo di conversione isterica posto a cavallo tra una sorta di travestitismo pulsionale e la punizione per la colpevolezza della pulsione stessa, e il suo pensiero successivo, quando, con l’istinto di morte, il sentimento di colpa sembra assumere un ruolo preponderante nelle dinamiche psichiche. Poi, soprattutto a partire dal kleinismo, per anni è stato assunto come inevitabile passaggio alla sanità, in quanto costitutivo della posizione depressiva: l’uomo colpevole freudiano diviene così il bambino colpevole kleiniano. Soltanto negli ultimi decenni, con la più ampia riflessione sul narcisismo e sul ruolo di quest’ultimo nella costruzione della personalità e del mondo interno del soggetto, si è aperta una prospettiva fondamentale a proposito del passaggio da colpa a inadeguatezza. Il narcisismo, da esecrato ripiegamento incurabile, “colpevole” di sottrarre investimento alla relazione d’oggetto, e liquidato tout court in tal senso, viene ritrovato prima con Reich nel concetto di corazza caratteriale, poi, nella forma della psicologia del deficit, indirettamente con Balint ed esplicitamente con Kohut, e ancora, per citarne soltanto alcuni, con Green, Grunberger, Lopez e Kernberg, nonché con tutti coloro che hanno sviluppato la teoria del rispecchiamento, primo fra tutti Winnicott. Il narcisismo sano viene dunque recuperato come “ingrediente” basilare della personalità, che ne garantisce la vitalità interna e la costanza di autostima anche di fronte alle delusioni (Mitchell, Black 1995), ingrediente pertanto indispensabile all’individuo sia per costruire un sé coeso sia per poter stare in adeguata posizione nella relazione d’oggetto. A questo tra- Gabriella Mariotti 56 I modi del pensare Gabriella Mariotti guardo si è giunti pur mantenendo vertici assai differenti dal punto di vista clinico-teorico. Focalizzandone soltanto alcuni, possiamo vedere infatti che il narcisismo viene descritto da Grunberger (1971) in accordo con il primo Freud e la sua ipotesi del narcisismo originario: rimanderebbe dunque a uno stato di elazione, cioè alla fondamentale fase iniziale di beata condizione fetale. Kohut (1977) ne sottolinea invece il ruolo di garante della omeostasi psicofisica del neonato e soprattutto ne fa il depositario del sé primariovirtuale, mentre la Mahler (1968) correla il narcisismo alla relazione con un oggetto fuso e indistinto, ab origine la madre. Davide Lopez, oltre ad aver recuperato il narcisismo originario di Freud, ne ha altresì arricchito il concetto, sottraendolo all’ambiguità cui lo hanno in certo modo condannato anche gli psicoanalisti che ne riconoscono il significato come fase iniziale fondamentale: Lopez infatti ne ribadisce il valore per l’inconscio attuale e ne configura il recupero come fonte di ritorno rigenerante su sé nella dimensione del vuoto anoggettuale (Lopez, Zorzi 2003), dimensione che, in alternanza con momenti di fusione, regola la buona tenuta della relazione con l’oggetto (Lopez, Zorzi 2005). Questo ampliamento di riflessione ha dunque permesso di distinguere il narcisismo sano dal narcisismo patologico, ha permesso di rendere evidente il suo intreccio con la relazione d’oggetto e ha permesso quindi di riconoscere il transfert anche nei pazienti narcisistici, che infatti oggi sono considerati curabili con l’analisi, contrariamente a quanto riteneva Freud. Coerentemente, si è modificata anche la concezione dell’essere umano: dal “soggetto colpevole” dell’epoca vittoriana e dal “bambino colpevole” della Klein, si passa al “soggetto inadeguato” della modernità, o, come dice Kohut, dall’uomo colpevole si passa all’uomo tragico. Tale maggiore attenzione al sentimento di inadeguatezza, rispetto al sentimento di 57 Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea colpa, appare più coerente con la effettiva condizione di impotenza e dipendenza dell’infante umano e, in particolare, appare fondamentale alla comprensione degli effetti di alcune dinamiche socio-culturali attuali, molto improntate al bisogno di rispecchiamento gratificante. A questo proposito, i principali studiosi della modernità (Bauman 2000, Sennett 1998, Beck 1990) hanno sottolineato il portato della cosiddetta modernità liquida nei termini di sovrabbondanza identitaria, superficiale e caotica, e di ripiegamento del soggetto, in cerca di stabilità e rispecchiamene rassicurante, sulla pseudointimità famigliare o di coppia, che viene intesa unicamente come riparazione (più o meno eccitatoria) e sostegno. Non possiamo ignorare che tali dinamiche si esprimono anche nelle modificazioni della tipologia patologica dei pazienti che giungono in analisi. E in effetti, alcuni psicoanalisti hanno focalizzato nei nostri attuali pazienti “lo slittamento progressivo ma inarrestabile verso il primato della problematica narcisistica”, con il corredo sintomatologico di instabilità identitaria, difficoltà di soggettivazione, autonomizzazione fragile o incompleta, vulnerabilità relativamente alla stima di sé e all’apprezzamento da parte degli altri, deficit di simbolizzazione, prevalenza dell’agire sul pensare, dominio del corpo e della realtà concreta (Cahn 2002, Jeammet 1985, Zucca 2005, Fina 2005). Sembra una grande, immensa, regressione collettiva: dal conflitto edipico si è scivolati indietro, al registro del rispecchiamento? Dal desiderio sessuale e dalla rivalità si è pian piano tornati al bisogno fusionale, allo sguardo contenitivo e sostenitivo di una madre sufficientemente buona? In un certo senso, sembra proprio così: “il valore dell’altro non passa più per la sua desiderabilità o per il suo opposto, ma per la funzione di garante narcisistico di cui si trova investito” (Cahn 2002), a tal punto che perdere l’oggetto implica perdere sé. Pertanto, i pazienti, come I modi del pensare 58 I modi del pensare Gabriella Mariotti sostiene Ehrenberg (1998) presentano raramente i segni della depressione franca, mentre è assai più frequente un’area sfumata, per quanto profondamente angosciosa, di vuoto, abulia, perdita di scopo, vacuità e noia. Nel lutto, non appare più il boomerang dell’oggetto che torna a colpire, col peso della colpa, chi è sopravvissuto, quanto piuttosto appare il crollo dell’immagine di sé, la frantumazione dello specchio che garantiva valore e coesione all’autorappresentazione: più che la perdita di un oggetto d’amore, appare la perdita di tanti oggetti-sé. Analogamente, dalla tensione verso la conoscenza, per quanto arrogante e pervicace, di Edipo, si scivola verso il non-pensiero, verso la ricerca di un’immagine di sé immediatamente “specchiata”, per quanto illusoria. E via via, insieme a questa tensione del pensiero di e su sé, va perduta la capacità di reggere la tensione relazionale e la tensione interna: le “protesi” elettroniche, principe tra tutte il telefono cellulare, “saturano” immediatamente qualsiasi manifestazione di ansia, soffocano qualsiasi capacità di “essere soli”. Mi è capitato più di una volta di vedere pazienti, soprattutto all’inizio di una analisi, assai in difficoltà di fronte al mio deciso invito a spegnere il cellulare durante le sedute. I motivi di tale disagio sono sempre gli stessi : angoscia di non essere in contatto col “fuori”, essere tagliati via dal “fuori”, in contrapposizione con un “dentro” rappresentato dalla seduta così ignoto e poco afferrabile da incutere una forma di autentica angoscia, marcata dal difficile spaesamento di chi si sente del tutto inadeguato al compito. Non si tratta, in questi casi, di “colpa” nel sottrarsi al richiamo del “fuori” (lavoro, figli, etc.), quanto piuttosto di incapacità a reggere il confronto con una dimensione percepita al contempo come necessaria e inquietantemente ignota: una incapacità, un senso di inadeguatezza appunto, che si ammanta di nobili sentimenti (dedizione al lavoro, alla famiglia, etc). Pare dunque ci sia poco posto per la colpa, in 59 Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea questo quadro, e molto posto soltanto per il sentimento di inadeguatezza. E questo, nella visione più classica, ci riporta alla considerazione di una grande regressione collettiva, culturale e affettiva, dal conflitto edipico, dalla relazione triangolare, alla relazione diadica, visione cui si può essere tentati di rispondere vagheggiando, come talora appare nella psicoanalisi di scuola francese, una sorta di ritorno al padre, inteso come ineludibile terzo sessuato, portatore di ordine superegoico e, appunto, di “terzità” (come se la “terzità” potesse essere garantita tout court dalla differenza sessuale, e non, come invece ritengo, dalla differenza insita in due persone, i genitori, sane e mature). In realtà è effettivamente vero che si rischia una regressione collettiva verso relazioni di rispecchiamento, tipiche della patologia narcisistica, ma è anche, questa sorta di regressione collettiva, una grande occasione per comprendere che il “prima di Edipo” è segnato dalla volontà omicida del padre, dalla devastante ferita inferta ai bisogni narcisistici sani del bambino. Se osserviamo tutto ciò, cogliamo appieno non solo che Edipo è stato “ucciso” nella mente dei genitori ( attualmente troppo spesso il bambino reale è sostituito dal “bambino della mente dei genitori”, come proiezione desiderativa di riparazioni del loro stesso narcisismo ferito, Mariotti 2006), che il suo smisurato orgoglio nasce anche in reazione a quella ferita, ma altresì cogliamo che l’omicidio parentale è dietro, è nella mente di Laio che vuole cancellare il figlio così come il figlio cancellerà il padre, sia fisicamente, uccidendolo, sia metaforicamente, occupandone il posto con Giocasta. Si tratta dunque, a mio parere, di cogliere l’occasione, di integrare e intrecciare più compiutamente il continuum dialettico tra Edipo e fasi preedipiche, andando oltre, a questo proposito, il concetto stesso di “fase da superare una volta per tutte”, il ritorno alla quale possa essere concepito solo come regressione maligna (Mariotti I modi del pensare 60 I modi del pensare Gabriella Mariotti 2001). E si tratta altresì di riflettere come sia possibile affrontare terapeuticamente questa “colpa assente”, per quanto, tornando alla clinica, essa appaia tutt’ altro che assente. Infatti, non si possono contare le volte in cui, in qualsiasi analisi, compare la parola colpa: “ho fatto questo e quest’altro..mi sento in colpa”, “alla fine ho acconsentito perché altrimenti mi sarei sentito troppo colpevole”. Ma si tratta veramente di “colpa”? Marx diceva “gratta l’uomo e trovi il tedesco”, volendo significare che sotto il termine onnicomprensivo e del tutto astratto di “uomo”, si nascondeva in verità l’idealismo tedesco, ammantato di umanesimo vago e generico. Potremmo parafrasarlo e affermare “gratta il senso di colpa e ci trovi il narcisismo”! Questa considerazione è in realtà presente ai nostri occhi e alle nostre orecchie in molte sedute, e si presenta a noi come possibilità interpretativa con apertura prospettica e costruttiva, assai più di una interpretazione che accolga tout court favorevolmente la manifestazione del senso di colpa e rischi così di inchiodare il paziente ad una astratta colpevolezza della quale inevitabilmente si sarebbe macchiato, diciamo così, ab origine. Ho certamente passato molte più ore, con i miei pazienti, a disfare sensi di colpa inutili e di copertura, che non ad accoglierli come funzionali e progressivi. Mi spiego meglio: il concetto, proposto da Lopez (2005), di collusione narcisismo-masochismo e l’intreccio del gioco dei doppi ruoli, chiarisce molto bene che, sotto le mentite spoglie della colpa e dunque dell’uomo buono, del figlio amorevole, del genitore sollecito fino al sacrificio, che si sente “colpevole” di ciò che ha fatto e detto, di ciò che non fatto e non ha detto, si cela la ferita narcisistica di chi non ha agito in sintonia con un ideale narcisistico di perenne bontà, oblatività, generosità, e dunque si sente, fondamentalmente, inadeguato rispetto a quell’ideale di perfezione e di onnipotente superiorità (chi ha molto da dare, chi ha sempre da dare, di- 61 Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea spone di molto più di chi riceve!). Relazioni di sottomissione, di “inspiegabile” masochismo, di generosità eccessiva, di disponibilità oltre il limite, nascondono infatti spesso la volontà di tenere per sé il ruolo di chi è “superiore” all’altro nella propria correttezza e di lasciare al partner il ruolo (al quale appoggiare la proiezione delle proprie voracità narcisistiche) del narciso avido e predatore piuttosto che del persecutore. In questa dinamica, appare evidente che il soggetto è incapace di tollerare se stesso, o meglio quegli aspetti di sé che, in quanto manifestazioni di un orgoglio teso alla superiorità, sono considerati non tanto come elementi colpevoli, quanto piuttosto come ferite al proprio narcisismo che vorrebbe un’immagine pura e avulsa da simili negatività. “Io no! Io non sono così!”, è sempre l’altro quello ambizioso, quello infantile, quello che “pretende”. La proiezione del proprio narcisismo avido e infantile sul partner, al quale poi sottomettersi “generosamente”, come vittima pura, soddisfa così un doppio scopo: è possibile mantenere una immagine altamente valorizzata di sé, appunto in quanto vittima pura, e al contempo, grazie a una proiezione identificatoria, agire “per interposta persona” il proprio narcisismo. Tra i molti vantaggi secondari, non dobbiamo dimenticare che in tal modo, acconsentendo ai capricci e alle istanze predatorie del partner (di coppia, ma anche figlio o genitore) lo specchio rappresentato dall’altro rimanderà, almeno per un attimo, uno sguardo di apprezzamento e di soddisfazione, non di critica né di rabbia. La colpa di “non aver fatto abbastanza”, di “non avere capito abbastanza”, di non essere stati abbastanza generosi, abbastanza comprensivi, abbastanza tolleranti etc, è dunque una colpa che, per essere “sciolta”, non può che implicare una disamina attenta e puntuale della fantasia narcisistica sottesa. Un altro esempio di ciò consiste in un tipo specifico di “blocco agli studi”: esami e tesi che si protraggono all’infinito, con dichiarazioni di colpa ad ogni esame I modi del pensare 62 I modi del pensare Gabriella Mariotti fallito e ad ogni giornata non dedicata allo studio. Sotto la colpa, un ideale narcisistico di trionfo e perfezione, di esami passati brillantemente e possibilmente senza “dover studiare”, di tesi rivoluzionarie che cambiano il corso del mondo, che riscuotono plausi e successi (spesso di superamento di una figura famigliare eccessivamente idealizzata e invidiata). Mi pare evidente che l’interpretazione in tal senso del sentimento di colpa nelle patologie narcisistiche è interpretazione che apre una via di elaborazione molto ampia, che rimette il soggetto in contatto con le dinamiche distorte del suo rapporto con l’Io ideale e il Super-io. È su questo piano infatti, che si gioca nuovamente la partita: un Io ideale grandioso megalomanico, a compensazione di una fragilità narcisistica, si allea a un Super-io feroce e svalutante, che pare pretendere sempre di più ed essere sempre pronto al disprezzo e alla vendetta (Lopez 1989). A questo proposito, Grunberger fa notare che “il soggetto si sente colpevole di tutto ciò che è incapace di fare”. Mentre Freud parla di una funzione protettiva del Superio che interdice ciò che non si è in grado di fare (lo scandaloso fallimento edipico di Freud), Grunberger capovolge il concetto: non è più il progetto a essere colpevole (l’incesto), non è più dunque una interdizione che protegge dall’incapacità del bambino a consumare l’incesto, bensì è il soggetto che diviene colpevole in quanto incapace, e in quanto incapace soggiace al disprezzo di un Super-io narcisistico sadico e svalutante. Pensiamo innanzitutto alla reale inferiorità dell’infante rispetto ai caregiver dai quali dipende completamente, inferiorità che si accompagna alla paura (il pianto disperato del bimbo spaventato perché non vede più la mamma vicino a sé): inferiorità e paura che vengono lenite dallo sguardo amorevole dei genitori, dalla loro ammirazione, dalla loro presenza affettuosa. Ma se questa risposta, questa holding sufficientemente buona, è invece disempatica, fredda, frustrante, ansiosa, depressa, iper- 63 Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea idealizzante, narcisistica o quant’altro, il sentimento di inferiorità — forse potremmo dire l’effettiva esperienza di inferiorità impotente — (che nello sviluppo sano viene via via bilanciato dall’ambiente adeguato fino a giungere all’Edipo e alla capacità di reggere sentimenti di rivalità e competizione) diventa quella “colpa per tutto ciò che si è incapaci di fare”: “ciò che non sono capace di fare è il farmi amare, è l’avere le risposte adeguate che cerco”. Di questa incapacità il soggetto si sente colpevole, istituendo così una sorta di automatismo incarcerante tra il dover conquistare mete sempre più megalomaniche e il sentirsi sempre più “colpevolmente” inadeguato a raggiungerle. Colpa e vergogna si sfumano così l’una nell’altra, tracimano reciprocamente, fino a far impallidire la distinzione tra Super-io e Io ideale. L’affermazione di Grunberger dunque è del tutto condivisibile ed evidenzia una sorta di avvitamento sul piano intrapsichico: ci dice chiaramente quanto il Super-io narcisistico persecutorio possa far sentire il soggetto colpevole della propria, più o meno realistica, inadeguatezza e simultaneamente ci riporta al tema della difesa da quello stesso sentimento di inadeguatezza: meglio colpevoli, cioè, che impotenti o inadeguati. In effetti, è proprio in situazioni di lutto, alla morte di una persona cara, che scatta facilmente la fantasia della colpa come difesa dal sentimento di impotenza. Anni fa, ho avuto in analisi una giovane donna che sembrava cercare punizioni, sembrava proprio l’articolazione del classico delinquente per senso di colpa. La “colpa” nasceva dal fatto che, da bambina, aveva aiutato la madre a svegliare il padre autista perché partisse al più presto (e ovviamente, al più presto tornasse): il padre morì quella stessa mattina in un incidente. Ella sapeva di essersi limitata a “fare il suo dovere”, poiché il padre doveva in effetti partire a quell’ora, ma la drammatica impotenza nella quale si trovò immersa sia nei confronti della morte sia nei confronti della grave depressione che so- I modi del pensare 64 I modi del pensare Gabriella Mariotti pravvenne nella madre, la spinse a una fantasia di “colpa”: per riscattare quella bimba impotente e terrorizzata, era giunta a pensare che la morte possa essere evitata e che dunque la morte del padre era stata certamente determinata da qualcosa che lei aveva fatto, e non da quella tragica fatalità che la faceva sentire del tutto indifesa e impotente. Un’analoga problematica può essere riscontrata in talune vittime di abusi, che si attribuiscono la “colpa” di aver accettato (quando non nutrono addirittura la fantasia di avere determinato) la seduzione: la colpa salva dal sentirsi veramente vittime delle circostanze, del fato, o più semplicemente, della vita. E’ come se questi pazienti pensassero “se sarò punito per quella colpa, allora potrò tornare degno e non sarò colpito da altre disgrazie”, ricordando appunto molto dappresso i “delinquenti per senso di colpa” di cui aveva parlato Freud. Questo sollievo dal sentimento di impotenza annichilente viene pagato col prezzo di una colpa altrettanto, se non maggiormente, annichilente. Dietro, come appare evidente, si annida la fantasia narcisistica di una possibilità di controllo sul mondo e sulla vita, fantasia che a sua volta nasconde la terribile e devastante esperienza infantile della totale impotenza a controllare alcunché di fronte ad avvenimenti traumatici. Ciò che sto affermando, e cioè la necessità di riconoscere, nelle patologie narcisistiche (ma non solo!), il senso di colpa come difesa dal sentimento di inadeguatezza, implica il chiedersi se non vi sarebbe dunque un senso di colpa autentico, se non vi sarebbero dunque colpe effettive delle quali dolersi autenticamente. Dobbiamo, a questo proposito, tornare al Super Io, a un Super Io che nella riflessione psicoanalitica è divenuto l’espressione di una morale normalizzatrice storicamente determinata, e a un Io-ideale megalomanico, che invece di spingere verso l’emancipazione opprime e perseguita con mete irrealizzabili 65 Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea e onnipotenti. Ecco, come si è detto, che colpa e vergogna si intersecano, che l’inferiorità, invece di essere una spinta emancipativa legata al desiderio identificatorio, diviene fonte di vergogna e spesso origina quel circuito paralizzante tra pretese sempre più pressanti e vergogna-colpa sempre più marcata. Un buon esempio è rappresentato da alcune forme di inibizione a parlare in pubblico: il desiderio esibitorio troppo marcato narcisisticamente si configura come fantasia di successi trionfanti, blocca la parola davanti al compito impossibile e il Super-io persecutorio accentua il sentimento di inadeguatezza con rimproveri estenuanti e svilenti. Fairbairn e Rosenfeld, come sottolinea giustamente Sassanelli (1998), adombrano un concetto similare, per quanto definito e collocato differentemente, quando parlano del sabotatore interno e dell’ Io antilibidico che attacca gli aspetti fragili, manchevoli, ma anche vitali e potenzialmente evolutivi. Ed è qui che si apre la distinzione tra un Super-io che equivale all’imperativo categorico derivato dalla introiezione automatica dell’autorità parentale, alleato a un Io-ideale megalomanico, e che dunque va dissolto come oggetto interno persecutorio e sadico, e un Super-io, alleato all’Io-ideale sano, che invece preserva e promuove gli ideali costruttivi della persona(Lopez 1989). La distinzione, lo spartiacque, è proprio lo slancio vitale: se il Super-io è istanza conservatrice e immobilizzante, l’Io-ideale sostiene invece l’emancipazione e la cosiddetta via del largo. Più che colpa, per quanto questa possa essere funzionale, potremmo parlare dunque di un sentimento di inadeguatezza verso il proprio stesso ideale, sentimento che, se al servizio di un movimento emancipativo e costruttivo, non assume mai le forme dello svilimento e della paralisi né, tantomeno, della colpa. Anche sotto i rapporti più palesemente sadomasochistici, dove il soggetto appare schiacciato dalla colpa per la propria incapacità di farsi amare, c’è un ideale sano, I modi del pensare 66 I modi del pensare Gabriella Mariotti quello appunto di un amore reciproco e solidale: si tratta “soltanto” di recuperare questo ideale, “staccandolo” dalla relazione negativa attuale, volgendolo a mete realmente soddisfacenti, e per farlo è necessario “ripulire” le incrostazioni narcisistiche che spingono a voler vincere onnipotentemente una partita già persa in partenza (e presumibilmente già perduta ab origine). La colpa “sana” è dunque molto rara, e, come ho affermato più sopra, è distinguibile soprattutto dal senso vitale e progettuale che include: ad esempio, sentirsi “in colpa” perché si è saltata una seduta, se non si riduce alla colpa nei confronti dell’analista-genitore (anche se questo è un passaggio spesso inevitabile e funzionale, in quanto l’analista rappresenta l’ideale sano e potente), è un progressivo confronto con il proprio sé più sano, attento cioè all’interesse complessivo della persona, superiore rispetto alle difese e alle resistenze. In questo senso, la colpa “sana” non abbatte, non umilia, non prosciuga le energie, quanto piuttosto stimola ad assumere sempre più consapevolmente la responsabilità della propria vita e dei propri ideali, misti di realizzabilità e tensione ad andare oltre. Concludo riferendomi proprio al passaggio da colpa a responsabilità, passaggio fondamentale perché include sia l’eliminazione di una sorta di autoassoluzione che spesso coincide con la dichiarazione di colpevolezza (come se tale dichiarazione fosse già in grado di annullare la colpa stessa), sia un movimento attivo-progressivo di effettiva modificazione e riparazione della eventuale “colpa”. Quest’ultima considerazione è di fondamentale importanza perché rimanda alla presa di consapevolezza del sé e del proprio mondo interno: se l’analista esaurisce l’interpretazione nel mostrare che la “colpa” coincide con un oggetto interno persecutorio (interpretazione già molto più prospettica rispetto alla tautologica lettura di una “colpa” effettiva in via di riparazione grazie al- 67 Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea la depressione), il paziente si ritrova a ingaggiare battaglia con qualcosa che gli appare come estraneo e dunque difficile da “scacciare”. Me se l’interpretazione non si ferma a questo, e, pur includendolo, mostra come quell’oggetto persecutorio sia “ri-creato” dal paziente con la sua collusione con gli elementi originari effettivamente persecutori, magari proprio al fine narcisistico di divenire egli stesso potente come quell’oggetto e/o di esserlo ancor di più vincendolo, allora il paziente può iniziare a sentirsi “responsabile” dell’attualità della propria sofferenza e facilitato a poterla eliminare, accogliendo contemporaneamente il dolore antico inferto dalle figure significative e il desiderio di liberarsene, di emanciparsene (Mariotti 2006). Bibliografia Bauman Z. (2000), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002. Beck U, Beck Gersheim (1990), Il normale caos dell’amore, Boringhieri Torino, 1996. Cahn R. (2002), La fine del divano?, Borla, Roma, 2004. Fina N., “Vulnerabilità e latenza terapeutica”, in Quaderni de Gli Argonauti V, 2005, 10: 79-91. Grunberger B (1971), Il narcisismo, Einaudi, Torino 1998. 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The interpretation of the narcissistic dynamic underlying many of the feelings of guilt in evidence in the “new pathologies”, including apparent masochistic behaviour, is essential to make the patient conscious of his personal provision to his own suffering. I modi del pensare 71 I modi del pensare “Chi è malvagio? Colui che vuol farmi vergognare”. (Nietzsche, La gaia scienza) L’insostenibile peso della vergogna Accolto il suggerimento del serpente, Eva prova vergogna e vede la sua nudità. La traAnna Sabatini Scalmati dizione iconica ebraico-cristiana, che ripetutamente rappresenta questo evento, ricopre — a protezione dallo sguardo di Dio, solo allora percepito come esterno — con una ghirlanda di foglie i lombi di Eva e quelli del suo compagno. Riconoscimento di non-onnipotenza, di non-completezza, di un narcisismo chiamato a misurarsi con oggetti e spazi esterni al sé. Vergogna quale esperienza di visibilità, acuta consapevolezza della differenza sessuale, dell’innata fragilità e della duplice percezione di essere soggetto che prova e sente, e oggetto della propria e dell’altrui percezione. Deidealizzazione dell’originaria unione con il tutto, appercezione di sé, quale effimera particella di vita, esposta allo sguardo dell’altro. Stato d’animo che attraversa il sé e investe la relazione intersoggettiva. Comunicazione diretta tra interno ed esterno. Vergogna e pudore: lemmi siamesi nella comune radice latina di pudor: cinto di foglie a custodia di sentimenti e desideri che animano — massimo di realtà e massimo di mistero — il mondo interno. Pudore, velo tutelare della fragilità e dell’intimità del corpo e dei sentimenti, nell’accezione positiva di salvaguardia della propria soggettività. Pudore che misura le sue ali nella dialettica avvicinamento-allontanamento, separazione-individuazione, confronto me-altro da me, dipendenza-autonomia. Vergogna e sessualità, aree legate da stretti nessi associativi. La prima scuote e imporpora il sé non appena alla coscienza giungono visioni rappresentative estranee alla norma dei valori condivisi, la seconda si colora di vergogna non appena viene denudata. Ses- 72 I modi del pensare 1. Primigenio nel senso che non è ancora ‘oggetto di conoscenza’. Anna Sabatini Scalmati sualità come pudore violato; oltraggio all’area nucleare ove il fisico contatta un profondo, primigenio1 sentire emotivo. Ingresso del terzo: il corpo, l’altro e il guardare in senso attivo e passivo. Irruzione di esterno nell’interno che appiattisce il turbamento emotivo alla materialità del corpo. Incontro con uno sguardo che penetra lo spazio individuale e privato, ove hanno origine percezioni, fantasie inconsce e sentire emotivo. Ove germina la mente e la selva delle sue rappresentazioni, l’unicamente, l’assolutamente me. Allo spettro della vergogna, impossibile da isolare da una più ampia costellazione emotiva, mi avvicino operando una distinzione, fenomenologicamente discutibile, ma a mio parere utile, tra quattro stati di vergogna, allo scopo di comprendere l’ombra lunga che la vergogna riversa sulla psiche e le ricadute psicopatologiche che ne conseguono. Di questo complesso stato emotivo analizzo solo alcune sfaccettature che differenzio ponendomi da un vertice di osservazione che distingue la vergogna che apre al confronto intrapsichico e a nuovi orizzonti relazionali, dalla vergogna indotta, il cui segno e causa generante è di origine esterna: intersoggettiva e transoggettiva. VERGOGNA E VIOLENZA DI STATO Da anni seguo in psicoterapia psicoanalitica rifugiati politici, provenienti dall’Africa e dall’Asia, che negli anni della loro adolescenza o nella prima età adulta hanno conosciuto duri periodi di prigionia e tortura. Donne e uomini che calpestano i nostri stessi marciapiedi, rispondono alle nostre stesse esigenze primarie ma, più spesso di quanto pensiamo, i loro passi sono attraversati da immagini di paura, sensazioni di vergogna che li risospingono in un altrove, in un passato che si sovrappone al presente. Vivono 73 L’insostenibile peso della vergogna l’ambiguità, la “coesistenza dell’orrore con lo spettacolo di un’apparente normalità sociale” (Viñar, p. 208). Fanno i conti con due compresenti realtà: quella esterna e condivisa e quella che, imbottigliata nel loro tempo interiore, avanza inquietanti momenti di derealizzazione. Con il polo oggettivo, di fronte a cui provano vergogna, e quello soggettivo; poli che si sommano e amplificano reciprocamente. Dice una giovane donna: “Sono in strada, alla fermata dell’autobus. D’un tratto ho la visione di calci in faccia. Barcollo. Ho paura. Diffido delle persone che mi sono accanto”. Mi parla di immagini incollate nella sua mente, sporche di sangue e di paura, avvolte in un intenso, acre senso di vergogna. Queste immagini — come i pipistrelli che nel letargo invernale pendono a testa in giù dai pioli a cui sono aggrappati — sono saldamente ancorate nella sua mente. Ora una, ora un’altra esce dal letargo, allarga le ali e ripropone ricordi-percezioni-sensazioni che emanano puzzo di morte. La sua persona è nuovamente un corpo “svergognato”, manipolato, deriso, deprivato di ogni traccia di umanità. È nuovamente trasformata in oggetto, in una ‘cosa’ di carne umana. Il pudore articola un’accezione negativa: non velo protettivo a difesa delle proprie corde espressive, ma sipario strappato che rivela una relazione che è andata oltre il limite e ha deumanizzato l’umano. Per sopravvivere alle violenze e alle offese, la giovane ha fatto appello alla ferrea, benefica “follia” grazie a cui la mente si ritira, frappone una distanza di sicurezza tra sé e il corpo, lasciato, per così dire, a vivere il dolore della mera carne. La mente si allontana dall’apparato sensoriale. Fugge dalla situazione traumatica a cui non può sfuggire, le cui informazioni non può elaborare simbolicamente, chiamando in suo soccorso una potente difesa: la dissociazione peritraumatica. La mente, in funzione adattativa e difensiva, si protegge dagli affetti troppo violenti che I modi del pensare 74 I modi del pensare 2. La dissociazione adattativa e difensiva va distinta dalla dissociazione patologica. 3. A Denise Holstein, come racconta nel suo libro, sono stati necessari cinquanta anni. 4. Post Traumatic Stress Disorder. Anna Sabatini Scalmati minacciano la sua sopravvivenza, ammettendo alla coscienza solo aree circoscritte di esperienza. Si astiene dal contenere l’esperienza nella sua unitarietà e totalità; se lo facesse ne sarebbe accecata. Ma gli eventi trattenuti difensivamente in aree dissociate, una volta che la vita ha ripreso il suo corso ‘normale’, con sempre maggiore frequenza, sotto forma di pensieri intrusivi, flashback, incubi, premono alla porta della coscienza e chiedono di entrare in rapporto dialettico con altre aree della mente.2 Avanza il difficile processo di integrazione; l’oltraggio esce dal letargo, ma allorché ciò avviene, la morsa della vergogna stringe il petto, decelera i battiti cardiaci, disarticola la parola e il corpo, diffidente a occupare lo spazio relazionale, è percorso da tremiti. Le intrusioni traumatiche, quali sintomi dolorosi e destabilizzanti, quali immagini pietrificate, calamitano il presente nel passato; ripresentano i ‘fatti’ nella loro qualità grezza, psicologicamente non trasformata. Piegano l’individuo all’ascolto della ‘quasi morte’ del loro sé e degli oggetti a esso connessi. Tornano a essere l’oggetto deriso, degradato, vilipeso; tornano a riconoscersi nell’oggetto di ‘quella’ situazione, in quel corpo, in quella espressione della propria “oggettività senza difesa” (Sartre). A volte occorrono anni prima che l’integrazione inizi a divenire possibile,3 prima che divenga possibile uscire dal silenzio. Elaborare questi eventi e fare loro acquisire la qualità di ‘ricordi oggettivi’ è difficile, in parte impossibile. L’acronimo PTSD4 inquadra lo stato emotivo successivo ai gravi traumi, ma come rappresentare il senso di non ritorno, di perdita, i risvegli improvvisi, l’inattesa convivenza con eventi che residuano una vergogna fatta di violenza, ignoranza, malvagità, spudoratezza, sangue, feci, urina, muco, convivenza con la morte? Una signora congolese, moglie di un militare di alto grado del precedente regime, in prigione viene 75 L’insostenibile peso della vergogna picchiata e abusata davanti al figlio di sedici anni e questi davanti a lei. Da allora un sospetto terribile dà ulteriore corpo alla sua vergogna. Il marito sapeva quello che avviene nelle carceri? È invasa da una profonda vergogna per quello che ha visto, per la sua nudità di fronte al figlio e quella del figlio di fronte a lei e da una domanda intima, segreta che la fa tremare: “Se sapeva, come è possibile che io non abbia percepito l’orrore di tutto ciò nel suo sguardo? Mi sono fatta complice dei suoi misfatti, per non mettere in discussione il nostro benessere?” I suoi occhi insozzati da visioni orribili, di notte inscenano horror che la ricoprono di vergogna. La vergogna poi le torna addosso come una condanna a morte e sogna: “Mia sorella più piccola viene afferrata al collo dal fidanzato. Nessuno la difende, anzi viene presa e, per essere lapidata, seppellita viva fino al collo. Osservo terrorizzata la scena e mi sveglio urlando”. Questi incubi, così come la riattivazione delirante delle impressioni traumatiche, ricalcano la sintassi della conflittualità psichica, ma non hanno origine in essa; sono una ripresentazione di episodi vissuti. Una riproduzione allucinatoria della violazione dell’intimità relazionale, della perversione del vivere sociale e della sofferenza morale che hanno generato. Sono complessi rappresentativi di cui è difficile sopportare la violenza e la crudeltà, e come più volte mi sono sentita dire: “Hanno qualcosa di diabolico, di terribile e disumano”. La plasticità di questi sogni, la qualità allucinatoria delle immagini, è tale che nel sonno i sognatori si alzano dal letto per chiudere a chiave la porta della camera, nascondersi, o uscire. Eppure, mi assicurano, non hanno mai avuto episodi di sonnambulismo. Ad epigrafe di La tregua, tra altri versi, leggiamo: “Sognavamo nelle notti feroci Sogni densi e violenti Sognati con anima e corpo” (Primo Levi). I modi del pensare 76 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati Un paziente dell’Africa centrale, gravemente depresso, mi dice: “Ho visto cose che non volevo, né dovevo vedere. Una paura incredibile, che viene da stratificazioni di memorie che non so più ordinare, mi rende muto. In prigione dopo il primo interrogatorio ho capito che quello che credevo fosse il male supremo, sarebbe stata piccola cosa in confronto a quanto mi sarebbe capitato”. Ha un accorato scoppio di pianto. Ha vergogna per il suo sé denudato e vergogna per gli altri, per essere testimone del male compiuto da altri, per avere veduto fatti che non dovrebbero accadere. “Ero al cimitero per la sepoltura di mia sorella, la bara stava per essere inumata. Sullo sfondo vedo arrivare un camion. Noi recitiamo le preghiere. Il camion si ferma, la parte posteriore si solleva, e… centinaia di cadaveri cadono dentro una grande fossa. Come posso allontanare queste immagini?” La violenza che le/li ha resi impotenti e carichi di vergogna, non può essere lasciata a lungo fuori della coscienza. Guardarla, come ci mostra il sogno di questo giovane uomo, richiede una forza titanica: “Sono a letto. Come mia abitudine dormo con la faccia rivolta verso il muro. Ai miei piedi c’è una porta, sento che al di là celebrano un rito. La cerimonia finisce. Capisco che vengono a prendermi. Ma la porta è chiusa, non si apre. Si solleva un vento impetuoso, violentissimo, che sradica gli alberi, rompe i vetri e squarcia la porta. Frammenti di legno si conficcano nei muri. Io sono paralizzato, non posso muovermi. Mi sveglio, ho molta paura, giro leggermente la testa e apro un occhio, uno solo e guardo la porta. È chiusa. Dopo un po’ mi riaddormento. Un nuovo sogno mi ripropone la scena e la tempesta, ma questa volta nel sogno ho la forza di girarmi. Apro tutti e due gli occhi e guardo la porta. Devo fare una grande pressione sul mio corpo. La mia forza non può essere minore di quella sollevata dal vento. Mi sveglio per la seconda volta. La paura mi immobilizza. Continuo a fissare la porta per tutta la notte”. 77 L’insostenibile peso della vergogna Rappresentazioni di paura impregnate di ineffabili, magmatiche sensazioni di vergogna, crollo annichilente dell’immagine e dell’esperienza del Sé. Implosione che, come scrivono Ballerini e Rossi Monti è: “sprofondamento all’interno di sé che non solo trascina una crisi dei confini Io-ambiente con l’angoscioso vissuto della trasparenza, ma provoca una siderazione della comunicazione connessa ad un appiattimento dei significati del mondo esterno” (p. 122). VERGOGNA E CONFLITTO INTRAPSICHICO Da questa vergogna originata dalla storia, da eventi che rivelano la forza e l’orrore a cui giungono le emozioni umane, volgo ora l’attenzione al cauto e rispettoso interrogarsi, all’inquietante colloquio con i propri sentimenti, invisibili presenze interne, di cui si ha improvvisa e sconvolgente rivelazione. Esperienza di sé che dischiude un conflitto psichico la cui intensità — legata alla dinamica Io, Io-ideale e a considerazioni di ordine etico e sociale — chiede di essere trattenuta sulla soglia del non detto, sul limitare della luce. Racine, occhio osservante della coscienza di Fedra, non appena coglie nella sua eroina la incestuosa passione per Ippolito, cosparge le sue gote di un violento rossore: “Lo vidi: da rossore e da pallore fui invasa alla sua vista; lo scompiglio si impadronì dell’anima perduta; i miei occhi non vedevano, non riuscivo a parlare; sentii il mio corpo ardere e gelare Venere riconobbi, e i suoi fuochi temibili, tormenti inevitabili per chi è preso di mira dalla dea, ma che a furia di offerte mi illusi di stornare” (versi 273-279). I tormenti che assediano il cuore di Fedra, l’ossessione che la emargina dalla comunità etica e le fa I modi del pensare 78 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati contemplare la sua colpa, non possono essere rivelati: all’onta è preferibile la morte. “Volevo, con la morte salvare la mia gloria, nascondendo una fiamma così nera” (versi 309-310). In una regione non distante da Londra, nel primo quindicennio del diciannovesimo secolo, un’intensa vergogna germina nella giovane e orgogliosa Emma, la protagonista dell’omonimo romanzo della Austen, una nuova e matura coscienza di sé. Colta, sicura di sé, attenta ai sentimenti degli altri, ma non di meno certa delle sue opinioni e del suo giudizio, la giovane progetta il destino affettivo delle persone a lei care. Ma il volgere degli eventi, assieme alla vacuità dei suoi disegni, le svela un turbamento che getta luce su un affetto fino allora misconosciuto e le fa temere che l’uomo inconsapevolmente amato esca dal suo cerchio di attrazione. Moto di gelosia che scuote la sua presunzione, forza la porta della coscienza e la misura con l’affetto dissociato. “Emma distolse immediatamente gli occhi; e sedette riflettendo silenziosamente, immobile, per qualche momento. Pochi momenti le furono sufficienti per comprendere il proprio cuore. Una mente come la sua, una volta sfiorata dal sospetto, faceva rapidi progressi. Sfiorò — ammise — riconobbe tutta la verità. (…) Le attraversò la mente con la velocità di una freccia, che il signor Knightley non doveva sposare nessun altra se non lei stessa! Negli stessi pochi momenti si vide davanti non soltanto il proprio cuore, ma la propria condotta. Vide tutto con una chiarezza di cui non aveva mai goduto prima. (…) Quanto era stata egoista, indelicata, irrazionale, priva di sensibilità la sua condotta! Quale cecità, quale follia l’avevano spinta!” (Emma, pp. 410, 411). Emma, pervasa di vergogna e da un invasivo senso di colpa, coglie tra le macerie del suo sistema rappresentativo la dissennatezza che l’ha tenuta lontano da sentimenti che da tempo avevano radici in lei. Solo ora tra l’Io e l’Io ideale si declina una dialettica che spazia su nuovi orizzonti e le permette l’abbrac- 79 L’insostenibile peso della vergogna cio con sentimenti che considerava a lei estranei. Emma si apre al conflitto, alla valenza del legame e al lavoro psichico che esso richiede. Nella cecità emotiva in cui era rinchiusa, coglie i segni di un narcisismo che, nemico della crescita, aveva anestetizzato i suoi affetti e l’aveva resa ostile all’alterità di coloro che le erano accanto. L’introspezione, se sfugge alle ombre che la vogliono lontana dalla coscienza, conosce questi stati d’animo. Il mondo esterno, le persone con cui si scambiano gesti di vita, bussano alla porta e nel segreto della psiche organizzano rappresentazioni che svelano complessi e contraddittori sentimenti. L’esterno e l’interno si interrogano reciprocamente, si avvolgono in una doppia spirale e la conoscenza di sé si estende alla polisemia e all’ambivalenza affettiva che depenna dai sentimenti — senza con ciò sminuirne il valore e l’intensità — ogni valenza di assoluto. Discrasia tra sensi e pensiero, tra gli istinti inscritti nella carne e le regioni immacolate dello spirito. Strepitoso contrasto tra la vita e la morte con cui Conrad scolpisce la palpitante e cupa figura di Lord Jim. Assolutismo etico che spinge il protagonista del romanzo “a rendersi puntualmente alla chiamata del suo mondo di ombre” (p. 502). Lo misura con lo smarrimento, il salto nella scialuppa che lo porta in salvo e abbandona alle onde del Pacifico ottocento pellegrini. Jim simbolo di una vergogna che nessuna consolatoria pietas può estinguere. VERGOGNA E VIOLENZA All’incontro esterno/interno che apre alla dialettica e al dubbio, contrappongo ora l’esterno che espone, non alla conoscenza e al pudore, ma alla vergogna e al suo corteo di rabbia, depressione, violenza e vendetta. Stati d’animo che possono mettere in moto dolorose ‘introiezioni’, ‘identificazione con I modi del pensare 80 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati l’aggressore’, ‘rivolgimenti contro il sé’ e ‘trasformazione dal ‘passivo in attivo’. Mi riferisco alla umiliazione, alla sottrazione di riconoscimento umano-storico-culturale, all’autodisprezzo, che l’arroganza del privilegio, l’uso gratuito del potere può indurre in una persona o in un’intera comunità. Al magico, ma effimero gioco delle parti con cui il socialmente vincente, nell’altro che rimanda valori discrepanti alla rappresentazione narcisistica di sé — così come Dorian Gray sul proprio ritratto — riversa pesanti rappresentazioni di inferiorità. Mi riferisco alla altezzosità e alla spudoratezza, stati d’animo opposti alla vergogna, che chiedono sottomissione, silenzio e obbedienza; si arrogano il diritto di escludere gli altri dall’universo dei diritti e di ricoprirli con un sudario che li rende invisibili e li cancella dalla storia. “La perdita dell’amore che si registra nella vergogna può essere descritta come un crollo radicale del rispetto per il soggetto in quanto persona con una sua dignità: è una forma di indifferenza totale nei confronti del suo Sé, con i suoi diritti e il suo prestigio” (Wurmser, p. 105). In queste situazioni, e questo vale sia nella sfera della vita sociale sia nell’universo familiare, allorché un individuo non rientra nella ‘normalità’ (fisica, psichica, sessuale), la direttiva imposta è implicita. Vivere — rendendosi il più possibile invisibili — in funzione delle necessità e delle richieste del più forte. Regole tacite, emanate dalla freddezza dello sguardo, dalla sordità ai bisogni che fanno retrocedere il coraggio e dispensano lapilli di vergogna. Alto potenziale traumatico che incendia l’immaginazione e brucia spazi di riflessione e livelli di socializzazione. Oltraggio che investe la comunità, moltiplica l’indifferenza sociale, ottunde la visione del vicino, affievolisce il cordoglio, segrega gli individui e disconnette l’agire dall’affettività. Oltraggio che negli anni settanta, anni che vedono gli Stati Uniti impegnati a di- 81 L’insostenibile peso della vergogna spensare morte all’ingrosso nel Vietnam, ha reso vincenti nell’intero occidente espressioni quali killing without hate, fucking without love. Indolenzimento di massa, perdita di empatia e di identificazione. Diffuso stato d’animo a cui si contrappone la sensibilità di alcuni che si fanno carico di emozioni che altri non riescono ad avvertire. Recettori di una quantità incredibile di ‘sentimenti non sentiti’, di affetti che non trovano una sensibilità, una comunità che li accoglie, li soffre e li dipana. Piegati dalla loro umiliazione e da quella dei loro vicini, provano vergogna per l’agire spudorato dell’altro, per l’insolenza del suo fare e i delitti che il suo altezzoso respiro dispensa. Per il suo comportamento asserragliato sull’anticonoscenza e l’antiamore, sull’odio che uccide il pensiero e fa regredire l’agire a mera risposta istintiva, automatica, involontaria. I soldati dell’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945 entrano nel campo di Auschwitz. Li accolgono pochi macilenti sopravvissuti, cadaveri insepolti, fame, malattie. L’ingresso nei campi lega i loro sguardi a visioni che Primo Levi fissa in queste parole: “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quelle che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare ad un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, o non abbia valso a difesa” (La tregua, p. 158). La piaga della vergogna, e qui occorre includere la vergogna non provata dai testimoni del nostro tempo, ci riporta al ruolo che svolgeva il coro nelle tragedie greche, negli spazi sociali del teatro. Il coro, mentore della rappresentazione, voce delle coordinate morali del tempo, sottolineava la violenza e la I modi del pensare 82 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati gravità del delitto, commentava, com-prendeva gli eventi, senza condividere le passioni che insanguinavano gli spalti. La sua voce, interposta alla violenza, alla pietà e alla paura dei fatti rappresentati, distillava negli spettatori una riflessione che permetteva il distacco dalle passioni e il raggiungimento di un superiore livello di saggezza. Ora le quinte del mondo sono spalancate davanti al nostro sguardo, vediamo tutto, ma lo sguardo non va oltre l’immagine mediatica, non permettiamo che il vedere avvicini il conoscere e il pensiero si apra a una “angosciata immaginazione” (Arendt). Anni di umiliazione senza amore, di vergogna filtrati da una presunta e imposta ‘inferiorità’, chiedono un tributo. Lentamente, ma inesorabilmente, l’oltraggio penetra nel cuore e lo corrompe, il suo veleno scorre nelle vene e le fa scoppiare. L’esplosione ricade con distruzione e morte nel mondo esterno, oppure implode nel mondo interno, ove apre botole di morte che innescano circuiti violentemente autodistruttivi. Nel romanzo La vergogna, Salman Rushdie, quale epitaffio dei mali, scandali, cospirazioni, lotte intestine che insanguinano il paese (il Pakistan), introduce l’esile, ipersensibile, nervosa figura di Sufiya Zinobia: “miracolo andato a male”, “vergogna familiare incarnata”. La giovane, metafora di una profonda e secolare vergogna, di un dolore che “non può restare a lungo racchiuso in una struttura di carne e di sangue” impersona un dolore che cresce, “si alimenta e gonfia, finché i vasi sanguinei esplodono” (p. 253). Sufiya Zinobia vive nascosta agli sguardi degli altri finché attorno ai venti anni, “nei labirinti del proprio inconscio [scopre] il sentiero nascosto che unisce la sharam [vergogna] alla violenza” (p. 126). La piaga della vergogna invade “quella tragica creatura, la cui caratteristica principale era una sensibilità eccessiva ai bacilli dell’umiliazione” (p. 127). Accade pertanto che una forza irresistibile, carica della vergogna di se- 83 L’insostenibile peso della vergogna coli, trasfonde nel suo corpo la violenza repressa di milioni di esseri umani. La sua persona — espressione delle loro vite disconosciute e dimenticate — assorbe la violenza, la vergogna che trasuda dalla loro umiliazione. La giovane si trasforma in un pericoloso mostro, in una pantera sanguinaria. Il suo pericolo maggiore era dovuto al fatto che l’infelice creatura non si muoveva “in una landa di diavoli o basilischi, ma nel cuore stesso del mondo rispettabile. E di conseguenza questo mondo fece un grosso sforzo di volontà per ignorare la sua realtà, per non portare le cose al punto in cui gli sarebbe toccato affrontare il problema di questa incarnazione del disordine ed espellerla — perché la sua espulsione, avrebbe svelato ciò-che-nonbisognava-sapere-a-nessun-costo, e cioè l’intollerabile verità che la barbarie poteva crescere in un contesto di cultura, che la ferocia poteva nascondersi sotto la camicia ben stirata delle convenienze. (…) Capire Sufiya Zinobia sarebbe equivalso a mandare in frantumi, come un cristallo, l’idea che queste persone avevano di se stesse; di conseguenza non vollero farlo, e non lo fecero per anni. Quanto più potente diventava la Bestia, tanto maggiore erano gli sforzi di negarne l’esistenza” (p. 178). La giovane rivolge l’ira condensata in secoli di umiliazioni contro il mondo esterno; in altri casi, quali affilate stalattiti di ghiaccio, la vergogna scava nel proprio interno caverne di morte. Un mio giovane paziente, che negli anni centrali della adolescenza ha conosciuto carcere e tortura, dopo alcuni anni dai fatti si sveglia molto turbato da questo sogno: “Sono tornato nel mio paese. Mi viene a trovare un amico. Mi dice che non ce l’ha con me per quello che è accaduto, ma perché non mi sono piegato ai suoi ordini, non mi sono messo al suo servizio. Questo l’ha fatto impazzire. Ha preso forbici e coltello e ha sgozzato i suoi genitori e la figlia più grande. Poi mi si butta addosso, mi stringe in un abbraccio imbarazzante e mi chiede di ucciderlo con le stesse armi con cui ha ucciso i suoi. Io grido: non ti voglio ucci- I modi del pensare 84 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati dere, vattene, non ti voglio vedere! Io sto qui con la mia sofferenza”. La dialettica della violenza contro gli altri o se stessi trova in questo sogno una icastica e allarmante rappresentazione. Un altro paziente che da anni è aggredito da una profonda e preoccupante depressione, con un vissuto di vergogna che sembra voglia risucchiarlo entro le sue spalle magrissime, dopo aver superato una forte resistenza, mi parla di un particolare che gli fa tutt’ora molto male. Dopo il primo interrogatorio, e quindi le prime sevizie, gli comunicano che nel carcere ogni secondino ha il “suo animale”. Da ora in poi sarà un cane (un particolare cane di montagna del suo paese), verrà chiamato con quel nome e come quel cane si dovrà comportare. Poco dopo una guardia apre la porta della cella, gli punta gli occhi addosso e urla il nome del cane. Confuso, stordito, il prigioniero alza lo sguardo verso il secondino, questi gli si avvicina e gli orina addosso. Come catturare con la parola l’intensità di questa esperienza che nello spazio di pochi secondi brucia l’essere umano e cancella la sua individualità? “L’estro” spinge Ovidio “a narrare di forme mutate in corpi nuovi” (Metamorfosi, p. 5), ma le sue metamorfosi avvenivano a opera degli dei nel “Palatino del grande cielo” (ibidem, p. 13). Le metamorfosi di cui parliamo sono il prodotto di azioni umane che, tra le pieghe delle leggi e l’indifferenza del “buon senso comune”, trovano facili giustificazioni. Da questo universo che avvalla l’oltraggio si dirama una vergogna che si affaccia nel sottosuolo del pensiero notturno. Avvelena il sangue, rende la pelle umida e appiccicosa e fonde in un unico sentire la sofferenza maturata nel sociale e quella nella propria interiorità. Conoscerla senza averla provata è impossibile perché: “Esiste un mondo su scala tanto diversa da quello a voi noto 85 L’insostenibile peso della vergogna che le sue passioni non hanno alcuna rassomiglianza con le vostre: sono passioni di grado tanto diverso da essere diventate addirittura una specie diversa” (Wallant, p. 170). VERGOGNA E SEDUZIONE SESSUALE La fragilità e l’impotenza rendono l’infanzia facile oggetto di ‘attenzioni’ da parte di adulti che, per lo più offesi da altri adulti, con incolmabili aree di vuoto interno, non sono in grado di discriminare legami, ruoli e differenze generazionali. Sono incapaci di autoconsapevolezza riflessiva: incapaci di provare vergogna. Il loro mondo affettivo — fiorito lontano dall’humus della cura e della tenerezza genitoriale — confonde la premurosa e generosa affettività dell’amore con l’attività genitale. Privati dell’esperienza di essere stati amati, le loro emozioni sono indifferenziate, aspecifiche: espressione di mera empietà. Mera perché al di là della colpa e dei rimorsi. Eppure questi adulti non sono solo e sempre individui turpi. Sono anche il padre, la madre o l’adulto che provvede alla loro sopravvivenza. Li nutre, li copre nelle giornate fredde. In alcune situazioni con un dono generoso, da tempo desiderato, offre intense briciole di attenzione. Quale confusione e tragica intersezione di coscienze! L’odio si fonde alla gratitudine. La repulsione alla tenerezza. L’Io dell’uno si con-fonde con quello dell’altro. Oltrepassati i confini del corpo, sull’Io tracima una crisi che genera alterazione di identità, alienazione e perdita del Sé con conseguenti paradossali reazioni affettive e cognitive. Accade così che i piccoli, sopraffatti da una pervasiva sensazione di impotenza, non sono più capaci di articolare un suono. La lingua si appiccica al palato e diviene impossibile dare voce alla protesta. “(…) la forza prepotente e l’autorità degli adulti li ammutolisce, spesso toglie loro la facoltà di pensare. Ma questa stessa paura, quando raggiunge un certo livello, li costringe automatica- I modi del pensare 86 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati mente a sottomettersi alla volontà dell’aggressore, a indovinare tutti i suoi impulsi di desiderio, identificandosi completamente con l’aggressore” (Ferenczi, p. 421). La vita psichica deraglia dal progetto costituzionale e, come per primo ha radiografato Ferenczi, va incontro a un forzato processo di annientamento. All’evento inatteso e inimmaginabile, all’improvvisa discontinuità, allo shock fisico e rappresentativo, la mente ripristina e rafforza la struttura dissociativa di base della personalità a cui è affidato il compito di separare l’insieme, scindere le diverse sfaccettature dell’evento. La complessità viene frazionata; schegge della circostanza traumatica vengono espulse e proiettate in aree lontane, inaccessibili alla coscienza e, pertanto, sottratte alla consapevolezza. L’operare disgiuntivo della scissione — nella misura in cui forzatamente separa l’evento — rende conciliabili i termini oppositivi del conflitto; elementi che, per il principio aristotelico della non contraddizione, sono inconciliabili. Così sono separati i pattern relazionali incompatibili, le combinazioni e le configurazioni di esperienze. Sotto l’influenza dell’operare della scissione, in luogo di procedere verso il difficile e doloroso processo di chiarificazione, verso una lettura della complessità e dell’ambivalenza, la mente retrocede e lascia calare sull’esperienza una scure che ne frantuma l’unità. Tagliati i nessi associativi, separate le qualità percettive da quelle emotive, l’esperienza residua un terriccio senza odore, colore e forma. La dissonanza cognitiva (l’adulto cattivo, altre volte meno cattivo e a volte quasi buono), la ‘pazzia’ di cui essa è potenzialmente pregna, in luogo di essere sfidata, viene evitata. Si disarticola il nesso causale tra l’acuto malessere che li rinchiude in uno stato di profondo isolamento e le persone che sono loro accanto. Scrive Putnam al riguardo: “Grazie alla compartimentalizzazione di esperienze e senti- 87 L’insostenibile peso della vergogna I modi del pensare menti travolgenti, un bambino può sapere di essere terribilmente maltrattato da un genitore e al tempo stesso idealizzare quel genitore. […] la dissociazione permette all’individuo di evitare di confrontarsi con conflitti inconciliabili; permette anche di avere visioni diverse di sé e versioni e interpretazioni diverse della propria storia di vita” (p. 89). La complessità dell’insieme, la possibilità di elaborarla, per poi giungere all’opportuno distanziamento e quindi alla reale salvaguardia del sé, si fa impossibile. L’immagine integrata che permette di vedere le diverse modalità comportamentali e caratteriali dell’altro — malvagio/inatteso, premuroso/prevedibile — si fa impossibile. Parimenti per il piccolo diviene impossibile mantenere la continuità tra l’Io di oggi — tra il bambino che oggi ha incontrato la turpitudine — e quello di ieri. La sua mente vortica entra l’angustia cerchia dei fatti che gli si sono serrati addosso, lo taglia fuori dal volto del suo desiderio e dalla forma dei suoi sogni. Se la violenza si fa continuativa, la dissociazione da difensiva, adattativa all’evento traumatico, diviene patologica con evidenti menomazioni del comportamento5 e guasti di memoria. La parcellizzazione del sé e dell’esperienza diviene un modulo che si ripete in ogni situazione per cui al bimbo è impedito il pieno coinvolgimento nel qui-e-ora. Sul presente si allunga l’ombra della traumatizzazione e il lupo torna a invadere la scena. Differenziare tra angoscia segnale e angoscia traumatica diviene impossibile (Freud, 1926). Privato della possibilità di esprimere l’odio quale prima istintiva forma di negazione, di autoaffermazione attraverso la negazione dell’altro, l’Io affonda l’autenticità del suo sentire in aree profonde e inaccessibili dell’inconscio. Qui l’odio, non soggetto all’erosione del vissuto quotidiano, dei legami associativi che possono stemperarlo, mantiene integra la sua carica distruttiva. Corrode la personalità. Il male che la disintegra, quale tossico erosivo, altera tutto ciò 5. Vuoti di memoria, episodi di fuga, depersonalizzazione, derealizzazione, stati di trance, fino a doppia personalità. 88 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati con cui viene in contatto e ciò mentre i ricordi traumatici, per la loro natura non elaborati, si trasformano “in potenti influenze inconsce che determinano il comportamento dell’individuo in modi ampiamente inconsapevoli” (Putnam, p. 90). Dobbiamo ora aggiungere che accanto alla scissione e alla fuga dal pensiero, l’accelerazione emozionale indotta dall’evento attiva una “progressione traumatica” per cui, anzitempo, il piccolo si fa ‘saggio’. Con acuta percezione coglie la ‘malattia’ dell’adulto, il suo essere ‘pazzo’; ne percepisce la bassezza. Prova pena e comprensione per lui/lei e, evento carico di conseguenze, introietta il “senso di colpa dell’adulto” (Ferenczi, p. 422). All’intimidazione esplicita e implicita il bimbo, incapace di autoaffermarsi, si protegge non respingendo o fuggendo l’aggressore, ma modificando il proprio atteggiamento, misurando le proprie risposte sul comportamento dell’adulto, prevedendo i suoi desideri. Sviluppa “una curiosa conoscenza, direi quasi una forma di chiaroveggenza per ciò che riguarda i pensieri e le emozioni” (ibidem, p. 420) della persona che uccide la sua mente e mantiene in vita il suo corpo. I rimorsi, la colpa, che l’adulto non patisce e processa, con tutto il loro carico di oscurità, confusione, dolore fisico e impudicizia, ricadono sul piccolo che “diviene ancora più profondamente consapevole e vergognoso della colpa commessa” (ivi). Scrive al riguardo Eigen: “Quello che si fa a qualcuno diventa quel qualcuno: questa è la logica dell’annichilimento del sé nei mondi al di sotto dello zero, dove l’innocenza viene degradata, invasa, avvelenata, se non del tutto perduta” (pp. 135- 36). Mi soffermo ora su una peculiarità della vergogna, della doppia vergogna, della violenza sessuale: vergogna per la violazione del corpo e vergogna per il sé, per il terribile oblio che l’altro ha fatto della persona, dei desideri, della volontà dell’offeso. 89 L’insostenibile peso della vergogna La vergogna, come abbiamo visto, è legata all’ordine del disvelamento, allo strappo del velo del pudore, allo svergognamento. Ma una peculiarità di questo spettro emotivo è la sua difficoltà di elaborazione. La vergogna, tanto più quando essa è strettamente legata alla sessualità, non può essere simbolizzata, sublimata. Il corpo, oggetto in mano di altri e soggetto di violento sentire, è un corpo che, per così dire, sente due volte. Ma il suo è un sentire che non si può tradurre in parole, è un sentire legato alla carne, alla sua materialità di corpo. E il corpo ha un ventaglio limitato, fisso di parole. Non incrocia altri orizzonti rappresentativi, la parola non si solleva dal concreto, il ventaglio lessicale rimane chiuso entro la gabbia di nomi concreti. Abbiamo a che fare con l’opposto della provocazione operata da Magritte allorché sotto un disegno minuziosamente rappresentato, iperrealistico, di una pipa scrisse: Ceci n’est ne pas une pipe. Magritte invitava a guardare oltre, a sollevare il pensiero oltre la concretezza dell’oggetto, aprirlo all’imprevedibile soggettività di cui è intriso, al suo essere continuamente costruito e ricostruito. La vergogna sessuale, o viene magicamente annullata — operando contro il sé una violenza perpetrata “in modo non meno brutale e decisivo di quello con cui essa ha fatto la sua comparsa” (Ballerini, Rossi Monti, p. 125) — o intride il corpo di umori che lo legano a tripla mandata all’umiliazione subita. Umiliazione e vergogna che attestano la deprivazione, l’irreparabilità della perdita e, come un peso insostenibile, accompagnano la vita fino al suo limite estremo. “Con gli occhi ormai spenti K. vide ancora come i signori, guancia a guancia davanti al suo volto, spiavano l’attimo risolutivo. — Come un cane! — disse, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere” (Kafka, p. 250). I modi del pensare 90 I modi del pensare Anna Sabatini Scalmati Bibliografia Arendt H. (1946), Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino, 1999. Austen J. (1815), Emma, Oscar Mondadori, Milano, 2002. Ballerini A., Rossi Monti M., La vergogna e il delirio. Un modello delle sindromi paranoidee, Bollati Boringhieri, Torino, 1990. Conrad J. Lord Jim, Tascabili Bompiani, Milano, 1978. Ferenczi S., “Confusione delle lingue tra adulti e bambini”, in Fondamenti di psicoanalisi, vol. III, Guaraldi Editore, Rimini, 1974. Eigen M. (1999), Cibo Tossico, Astrolabio, Roma, 2003. Freud S. (1926), “Inibizione sintomo e angoscia”, OSF, vol. 10. Holstein D. (1995), Non vi dimenticherò mai, bambini miei di Auschwitz, Il melangolo, Genova, 2006. Kafka F., Il processo, Einaudi, Torino, 1983. Levi P., Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino, 1989. Levin S., Wurmser L., La vergogna Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Racine J., Fedra, Marietti, Genova, 1999. Rushdie S. (1983), La vergogna, Garzanti, Milano, 1985. Ovidio N., Metamorfosi, Einaudi, Torino, 1994. 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In order to understand the long shadow cast by shame on psyche and its ensuing psychopathological consequences, the author introduces\describes four types of shame: Shame and State violence; Shame and intrapyschic conflict; Shame and violence; Shame and sexual seduction. I modi del pensare 93 Riflessioni di clinica junghiana “Nei vuoti e negli inciampi dei rapporti umani, nelle incomprensioni, negli errori di percezione e di giudizio, nello sguardo vacuo e beffardo dove avrebbe dovuto esserci empatia, nella espressione di disgusto dove si aspettava un sorriso, nella solitudine e delusione del desiderio inarticolato, che non si può comunicare perché non si trovano le parole, nell’assenza tremenda e disperata dove il legame umano viene meno, nella desolazione della violenza, vuota e tuttavia colma di rabbia, qui in questi buchi e pezzi mancanti sta la vergogna”. (Phil Mollon) La colpa può essere confessata, espiata, può aspirare al perdono. La vergogna fugge l’incontro, cerca rifugio nel segreto. Nel bel libro Narcisismo di vita narcisismo di morte Andrè Green1 utilizza l’esempio di Edipo e Aiace per illustrare la differenza tra il tema della colpa e della vergogna. L’Autore sottolinea come Edipo, colpevole di parricidio e incesto, le più gravi trasgressioni alla legge del Super Io, sopporti fino all’ultimo dei suoi giorni la pena autoinflitta della cecità, lasciando che la figlia Antigone lo accompagni nell’esilio. Aiace invece è spinto alla vendetta dal furore di non essere stato giudicato degno di ricevere le armi di Achille. Reso folle da Atena, invece di colpire i suoi nemici uccide degli innocui animali e quando se ne rende conto non può che soccombere alla vergogna, suicidandosi. Nel furore della follia l’eroe si è coperto di ridicolo, ha perso il suo onore: al crollo dell’Ideale dell’Io nessun affetto può resistere e la morte gli appare come la sola via di fuga. Colpa e vergogna oscillano e si generano reciprocamente, ma l’esperienza della vergogna può rimanere indelebile, incapace di trasformazione e riparazione tanto che un meccanismo di difesa consiste- La vergogna nella relazione Susanna Chiesa 1. A. Green, Narcisismo di vita narcisismo di morte, Borla, Roma, 1992. 94 Riflessioni di clinica junghiana 2. J. L. Borges, Carme presunto e altre poesie, Mondatori, Milano, 1969. Susanna Chiesa rebbe proprio nella trasformazione della vergogna in colpa. La nascita della vergogna si annida nel fallimento della relazione primaria, nella mancanza di risposta empatica, in uno sguardo che, incapace di accogliere, rimanda al bambino un senso di estraneità e distanza incolmabile. La vergogna ci scopre ancora bambini, privati della possibilità di provare empatia per noi stessi: “io sono la sentinella detestabile di quelle immobili postazioni” scrive Borges.2 Una volta stabilitasi, l’esperienza della vergogna non ha più bisogno dell’altro, rinascendo ogni volta dall’interiorizzazione di uno sguardo beffardo. Capace di autoalimentarsi, trascende i limiti generazionali e fluisce attraverso il tempo. Non essere visti e sentirsi esposti, questo il paradosso della vergogna. Quando l’oggetto di investimento dei genitori non è il Sé autentico del bambino, questi può reagire ipersviluppando il Falso Sé per adeguarsi alle aspettative dell’ambiente famigliare a scapito della propria individualità. Nel fallimento della regolazione empatica il bambino può percepire l’isolamento e l’esclusione, mentre viene usato dal narcisismo materno che dirotta il naturale esibizionismo e la grandiosità infantile per i propri scopi narcisistici. In queste condizioni tende a svilupparsi una vulnerabilità narcisistica intensa e capace di generare stati di rabbia acuta e cronica. Ogni volta che l’individuo sente di non essere all’altezza di un Ideale dell’Io dalle pretese eccessive, si generano vissuti di sofferenza che possono evolvere in atteggiamenti auto o eterodistruttivi. Scrive A. M. Pandolfi nel suo saggio sulla vergogna: “Questo deficit narcisistico, la cui presenza segnala un’importante deformazione della relazione primaria segnata da un’insufficiente investimento og- 95 La vergogna nella relazione gettuale ma anche narcisistico di attaccamento da parte del caregiver, è a mio avviso un importante punto di repere clinico e spiega perché tante persone siano costantemente e forsennatamente dedite al miglioramento delle proprie prestazioni che però non risultano mai per loro abbastanza soddisfacenti, anche in quanto si rivolgono ad un oggetto fantasmatico percepito come insoddisfacibile”.3 Mentre scrivo mi accorgo di un disagio crescente nell’ avvicinarmi al tema del mio articolo: la vergogna nella relazione, come se entrare nel merito di quei momenti così particolari vissuti in seduta quando affiora il tema della vergogna — seppure con tutte le usuali precauzioni che non consentano riconoscimento alcuno — mi generasse un senso di inquietudine. Cerco di capire e mi domando se forse sia proprio per questo che la vergogna è un tema così raro nella letteratura psicoanalitica. Penso alla mia analisi, quando dovendo affrontare tematiche fonte di vergogna, rinviavo, mi nascondevo nell’abbondante materiale onirico e razionalizzando mi dicevo che forse era più importante, augurandomi in realtà di venire a capo del problema da sola, senza doverne parlare con l’analista. Sì, questa è forse la segreta speranza: fare da soli, usare il lavoro analitico per aggirare l’ostacolo e non dover dire di sé quelle parti nascoste. Rimane allora la solitudine, il peso di parti sottratte e non sviluppate nella relazione, il dubbio di non sapere se davvero esista per noi la possibilità di quell’amore incondizionato così necessario all’inizio della vita. La vergogna è segretamente sottesa all’incontro analitico e per molto tempo innominabile. Il terapeuta può riconoscerla, rintracciarne i segni dai vissuti e dalle fantasie controtransferali. Sto aspettando Enrico per il primo colloquio. So che è un uomo potente, molto occupato nei suoi viaggi di affari. Mi sento tesa e preoccupata. Ho cercato uno spazio nella giornata che garantisse un in- Riflessioni di clinica junghiana 3. A. M. Pandolfi, La vergogna - un affetto psichico che sta scomparendo?, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 49. 96 Riflessioni di clinica junghiana Susanna Chiesa tervallo sufficiente a non rischiare l’incontro con altri pazienti. Ho posto più attenzione al mio aspetto ed ora riordino lo studio. Sono a disagio, con me stessa e nell’ambiente che mi è così famigliare…qualcosa che si è manifestato subito a partire dalle modalità insolite della prima telefonata. Mi rendo conto che ciò che provo ha l’inconfondibile sapore della vergogna. Capirò incontrando Enrico, quanto può essere fonte di vergogna per lui essere qui a chiedere aiuto, impotente a trovare ragioni di esistere nella sua potenza, costretto a nascondere la sua richiesta dietro una parata di distanza arrogante, mentre descrive il baratro di una solitudine tanto più grande perché incomprensibile a tutti. Attraverso meccanismi di identificazione proiettiva la vergogna entra nel campo analitico, non può lasciare immune il terapeuta che spesso è il primo ad avvertirne i segnali. Due persone, all’inizio assolutamente estranee, chiuse in una stanza, a dire e ascoltare segreti: come potrebbe non aleggiare la vergogna? (Quando andiamo dal medico, spogliandoci ed esponendoci allo sguardo dell’altro, trasformiamo il nostro corpo in un oggetto che deve essere manipolato, tastato, auscultato: consegnandoci nelle mani dello specialista cerchiamo di mettere a tacere il disagio trasformandoci in oggetti di indagine per difenderci dalla violazione dell’intimità, per non sentire la vergogna.) Ascoltando le storie di molti pazienti si percepisce il dolore del mancato riconoscimento, l’estraneità di una crescita dove è prevalso l’adattamento alle richieste ambientali a scapito di un autentico sviluppo rispettoso delle istanze individuative. Bambine e bambini non accolti per come erano ma forzati ad un dover essere, svelati nei loro tentativi, ridicolizzati ed esposti o derubati di un gioco prematuramente trasformato in impegno, formazione, 97 La vergogna nella relazione corso e attività, dove spesso la naturale creatività diventa stereotipo. Storie di infanzie e adolescenze amputate. In queste situazioni nasce ciò che molti pazienti mi hanno insegnato a chiamare “la paura del bluff”, cioè il timore di essere scoperti, visti oltre la rappresentazione e di essere inesorabilmente svergognati. Mara nasce solo un anno dopo la sorella portando nel mondo la delusione di essere una bambina e non il maschio tanto atteso. La madre è una donna molto giovane, che Mara vive come totalmente assorbita dalla primogenita, indisponibile alla relazione. Nel fallimento della relazione primaria la bambina si rivolge al padre, cercando con lui un rapporto privilegiato, cullandosi nell’illusione di poter rappresentare il figlio maschio. Crescendo tende a compiacerlo restando con lui nell’officina meccanica dove lavora e mostrando di interessarsi a macchine e motori. “Ricordo come fosse oggi il pomeriggio in cui, a nove anni, cercai di porgergli uno strumento molto pesante che non riuscivo a sollevare. Lui mi guardò spazientito e prendendomi in giro mi disse che non ce l’avrei mai fatta ad essere forte come un maschio. In seguito raccontò molte volte l’episodio ridicolizzandomi di fronte ad altri. Ogni volta mi sentivo avvampare e correvo a nascondermi…”. Mara mi racconta questo episodio molto tempo dopo l’inizio della terapia, mentre lavoriamo sul senso di inadeguatezza che continua a perseguitarla nonostante una carriera brillante. “Vivo sempre con l’incubo che tutti possano accorgersi che in realtà non sono quella che sembro e possano cacciarmi via”. Mara aveva impostato la sua vita su un modello maschile: gli studi di ingegneria, il rifiuto della maternità, una vita contrassegnata dal lavoro, distorcendo la sua personalità e irrigidendola nella rappresentazione di un falso Sé. Riflessioni di clinica junghiana 98 Riflessioni di clinica junghiana Susanna Chiesa Con l’avvicinarsi della menopausa era iniziata una fase depressiva sempre più profonda centrata sul rimpianto per un’interruzione di gravidanza nei primi anni del matrimonio, quando l’impegno lavorativo sembrava non concederle alcuno spazio. Nel lavoro analitico emerse il senso di rivalsa e riscatto dall’antico bluff della sua infanzia, la rabbia con cui Mara aveva cercato di dimostrare a tutti che poteva essere ciò che non era, continuando a tentare di compiacere la rappresentazione di un padre che avrebbe dovuto colmare il vuoto lasciato dal fallimento della relazione con la madre. Credo che si sottovaluti, nelle ricerche sul tema della vergogna, in particolare nelle donne, il ruolo avuto dal padre. Se si sottolinea il peso del fallimento dell’empatia nella relazione con la madre, non si presta sufficiente attenzione all’evoluzione del rapporto con il padre, cui la figlia si rivolge per tentare di compensare il vuoto. Se è vero che il tabù dell’incesto protegge il soggetto dalla ferita narcisistica del riconoscerne l’impossibilità, la vergogna può anche scaturire dal rifiuto di qualsiasi gioco edipico, ridicolizzando la figlia o il figlio, facendoli sentire esposti e derisi. È in questi contesti che può essere interiorizzato lo sguardo sarcastico capace di minare il senso di sicurezza necessario alla crescita. Viviana era sempre stata “una brava bambina”, reprimendo l’aggressività per paura di distruggere una figura materna molto fragile. La sua infanzia era trascorsa nell’ombra della malattia materna, con un padre troppo occupato per considerare i bisogni della figlia. Nell’equilibrio famigliare conveniva che Viviana restasse una bimba docile il più a lungo possibile. Nonostante le evidenti trasformazioni corporee, continuavano a trattarla e vestirla come una bambina, con calzettoni e abiti che mortificavano un corpo 99 La vergogna nella relazione ormai decisamente femminile, rendendolo oggetto di scherno da parte dei coetanei. Nella fase adolescenziale, la vergogna sottende inevitabilmente le trasformazioni fisiche e psichiche, anche quando negata e trasformata nell’esibizione, risente in particolar modo della mancanza di un adeguato rispecchiamento. Lo sviluppo puberale non riconosciuto, può fissare nel corpo e nelle sue parti motivi di vergogna, come accadrà a Viviana che finirà per vivere ogni manifestazione corporea come fonte di un disagio insostenibile. Come il corpo, il sentimento negato e non riconosciuto finisce per essere associato alla vergogna. Antonio andava in crisi ogni volta che doveva scegliere un regalo, finiva sempre per acquistare oggetti di marca, “banali ma sicuri”. “Non dicono niente di me e della relazione ma mi fanno sentire sicuro, affidandomi a una marca non sono io a scegliere, ma il mercato. Da bambino temevo il giudizio di mia madre: per lei tutto sembrava poco fine, derideva i doni che le maestre ci facevano preparare per la festa della mamma. Mi sentivo ridicolo e stupido col mio pacchettino in mano…” Il sentimento ridicolizzato può rimanere vincolato a un livello infantile e rappresentare un vettore di rabbia e vergogna: l’area lesionata, finchè non si entra in contatto con la ferita, non può crescere e svilupparsi, permane una cicatrice inestensibile e fragile come per un danno alla matrice. Vi sono variazioni della tecnica analitica che la sensibilità di ogni terapeuta è in grado di riconoscere come necessarie con questi pazienti. Il rifiuto o l’interpretazione di un regalo, per esempio, in alcune circostanze può diventare un atto di crudeltà soprattutto quando rappresenta l’offerta di un bambino alla madre, attualizzata nella relazione transferale. Primi giorni di primavera, Alba entra in studio of- Riflessioni di clinica junghiana 100 Riflessioni di clinica junghiana Susanna Chiesa frendomi un mazzolino di fiori di campo. (Immediato il ricordo della mia infanzia, quando raccoglievo le prime pratoline per portarle a mia madre.) Ringraziandola, commento la grazia con cui li ha disposti e mi affretto a metterli in un piccolo vaso tra noi. Azioni preludio della serie associativa che Alba produce e che nella seduta trovano uno spazio di elaborazione: la raccolta dei fiori seminati in autunno, lunghi mesi di attesa senza poter vedere nulla, temendo che il gelo uccidesse i germogli … e ora la sorpresa della fioritura primaverile. Come nei lunghi mesi di depressione, quando l’analisi, negli intervalli delle sedute, “sembrava sepolta sottoterra” e Alba osservava il gelo della sua vita chiedendosi se “sarebbe mai spuntato” qualcosa di buono… Il primo Natale, poco tempo dopo l’inizio della terapia, Mara mi stupì regalandomi dei cioccolatini: la scritta e il disegno della confezione, il modo con cui me la porse contrastavano con il suo usuale atteggiamento di donna cinica e anaffettiva. Me li porse al termine della seduta, con un gesto timido e furtivo, scivolando subito fuori dalla porta, quasi senza darmi il tempo di ringraziarla. Rimasi con la scatola fra le mani, pensando che sembrava il regalo di una bambina vergognosa, impaurita dalla possibilità di un rifiuto. I vissuti controtransferali, le fantasie che scandiscono il tempo della relazione sono fondamentali per orientarci nella comprensione del paziente, per intuire quando è il momento di tacere mostrando però di aver ricevuto il senso di un messaggio senza doverlo tradurre in un’interpretazione tanto più pericolosa quanto precoce. Così come un eccesso di neutralità può far sentire il paziente solo e privato di un punto riferimento affettivo. Mi accorgo per esempio che, se prediligo l’uso del lettino che libera me e il paziente dal peso di un con- 101 La vergogna nella relazione tinua visione frontale, spontaneamente lo accompagno con un’attenta modulazione della voce, colonna sonora della seduta. Nella mancanza di riconoscimento l’area affettiva può essere coartata e associata a un’esperienza di vergogna che mina il successivo stabilirsi di relazioni affettive: l’espressione di un sentimento, evocando l’aspettativa di un rifiuto, attiva la vergogna. In questa situazione la stessa relazione analitica appare pericolosa per l’inevitabile coinvolgimento di bisogni e affetti vissuti nella relazione transferale. Alcuni pazienti temono di mostrare il loro bisogno, assumendo condotte che possono anche essere opposte: da un appiattimento compiacente a ciò che s’immagina sia il desiderio dell’analista, ripetendo il modello della relazione con le figure genitoriali, al rifiuto ostile e rabbioso del rapporto, per negare l’emergere di una richiesta affettiva che li espone nuovamente al rischio di una ferita narcisistica intollerabile. La rabbia scaturisce dal percepire il bisogno di relazione come pericoloso perché riaccende un desiderio di rapporto che si vorrebbe poter cancellare e che testimonia lo scacco dell’annullamento dell’altro. Come ben descrive Phil Mollon nel suo saggio Vergogna e gelosia ciò che si tenta di uccidere è il sé emotivo nel suo bisogno di attaccamento.4 Ogni mancanza del terapeuta può scatenare attacchi aggressivi manifestati spesso con fredde razionalizzazioni tese a mascherare la rabbia. Il paziente, come sottolinea ancora P. Mollon, può temere che l’analista lo usi, come un tempo fece la madre, per accrescere il proprio narcisismo, rifiutando e ostacolando la crescita individuale. Gli elementi di crescita sono “impugnati” contro un fantasmatico genitore che tutto vorrebbe controllare. Si tratta allora di mostrare come possa esserci crescita senza rabbia, in una situazione che accolga le Riflessioni di clinica junghiana 4. P. Mollon, Vergogna e gelosia, Astrolabio, Roma, 2006. 102 Riflessioni di clinica junghiana Susanna Chiesa istanze di separazione, il diritto alle proprie scelte e alla fedeltà verso sé stessi. Penso che questo sia un tema fondamentale al termine della terapia, perché la conclusione non sia vissuta “contro” il lavoro analitico, come protesta adolescenziale, ma come reale momento di crescita e separazione. È necessario molto tempo per poter ammettere l’esperienza della vergogna perché ci si vergogna di vergognarsi. Come se fosse materia esplosiva va trattata con estrema delicatezza e a lungo potrà essere al massimo sottintesa con una modalità del tipo “io so che tu sai che io so”, nell’indicibilità dei contenuti, senza fretta di dover mostrare di capire troppo e subito ma dando il tempo al paziente di sperimentare l’accoglimento e la fiducia. Alla vergogna bisogna accostarsi con cautela, rispettando la distanza, come faremmo con un animale selvatico. Chi non ha vissuto l’esperienza dell’accoglimento e del riconoscimento di Sé teme che, mostrandosi in modo più autentico, riceverà un nuovo rifiuto. Particolare attenzione va data alla tipologia psicologica del paziente. Come gli studi sui tipi psicologici di Jung hanno sottolineato, l’orientamento naturale di ogni individuo, la sua tipologia, può non essere riconosciuto o addirittura avversato dall’ambiente fin dall’infanzia, quando l’inclinazione fisiologica del bambino non corrisponda alle aspettative e ai bisogni narcisistici della famiglia. Emanuele, per poter essere accettato da una famiglia che faceva del pensiero razionale la sua bandiera, aveva dovuto adattarsi finendo per svalutare il sentimento e l’atteggiamento introverso proprio della sua equazione personale. Per adeguarsi, sin da ragazzo aveva creato un falso Sé apparentemente estroverso e ben adattato, mentre la funzione di sentimento non aveva potuto svilupparsi, rimanendo confinata a una dimensione infantilizzante che gli provocava forti vis- 103 La vergogna nella relazione suti di vergogna. Furono gli attacchi di panico legati a situazioni sociali, a portarlo in analisi e a costringerlo a fare i conti con la sua realtà interna. A differenza della colpa, la vergogna non ha bisogno di grandi temi, è in queste situazioni che più che mai riaffiora dall’adulto il bambino. Occorre saper ascoltare, spesso con una silenziosa partecipazione, il racconto di esperienze infantili che, sebbene criticate dalla parte adulta, sanno ancora attivare violente emozioni. Sono episodi, frammenti di infanzia, che sono rimasti racchiusi e celati — mai dimenticati — nell’esperienza cocente della vergogna che fu del bambino. Talvolta è proprio la relazione con i figli, il rivedere se stessi nel ruolo di genitori che fa affiorare questi ricordi e ne consente l’elaborazione. La vergogna cresce sia alimentata dalla sovraesposizione di una parte vissuta come non autentica ma a cui il bambino sente di non potersi sottrarre, che dal non essere visti per come si è. Essere esposti allo sguardo, inseguiti fin nei più segreti recessi: invasi. Ci sono pazienti che immaginano di dover dire tutto all’analista, come in un confessionale pensano di doversi confessare e di non poter nascondere niente. In queste situazioni mi ricordo sempre di quando da piccola leggevo una scritta su un muro vicino a casa che ammoniva minacciosa “DIO TI VEDE”. (Erano i tempi dei fumetti di Nembo Kid — poi chiamato Superman — alla cui ultravista non sfuggiva nulla. Ma anche lo sguardo del super eroe trovava un limite nel non poter oltrepassare una barriera di piombo. La mia fantasia di Dio gli somigliava un po’ e per ripararmi dalla sua vista immaginavo che la scatola cranica proteggesse i pensieri come il piombo). L’ammonizione faceva parte degli strumenti educativi usati in passato quando la vergogna veniva stimolata come contrappeso delle cattive azioni, sapendo di poter contare su un deterrente più efficace e Riflessioni di clinica junghiana 104 Riflessioni di clinica junghiana Susanna Chiesa pervasivo della colpa. È proprio in questi pazienti che talvolta l’emergere della vergogna rappresenta un momento evolutivo importante della terapia che segna la rottura dello schema del falso Sé. “Dire tutto” non è più l’adeguamento all’ideale del paziente perfetto che corrisponde alle aspettative del terapeuta, ma una scelta valutabile. Si apprende il diritto ad avere spazi per sé che possono essere tenuti chiusi e separati. La vergogna segnala allora il limite che non deve essere oltrepassato e al di là del quale si viola lo spazio privato. Mai come oggi l’uso della tecnica ci espone allo sguardo e al controllo della nostra vita: facciamo la spesa e attraverso sistemi di codificazione è possibile sapere da ciò che consumiamo chi siamo e come viviamo, solo per fare un esempio. La vergogna si eclissa e si trasforma nel suo contrario dove ciò che conta è mostrarsi ed essere visti. Appartiene ai ricordi di ognuno di noi l’aver compiuto negli anni della scuola qualche bravata, ma è di oggi la sua trasformazione in evento mediatico visibile da tutti e che conquista le prime pagine dei quotidiani. Mentre si assottiglia sempre più la dimensione privata, prevale l’eccesso di adattamento a un pensiero collettivo che abdica al senso di responsabilità individuale per essere come coloro di cui si parla, non importa se bene o male, purchè se ne parli, appiattendosi in un percorso imitativo di immagini bidimensionali. La profondità del sentimento viene rimpiazzata dal sentimentalismo ipocrita di trasmissioni — palesemente false — in cui si enfatizzano i sentimenti e chi più piange, ride o grida, vince. Lo spazio privato e la capacità di stare con se stessi si riducono, minati dal frastuono collettivo. Scrive A. M. Pandolfi “ …Ora si idealizza il banale e l’insignificante. Infatti non guardiamo più a qual- 105 La vergogna nella relazione cosa di meglio cui aspirare, ma ci appiattiamo nel guardarci tra noi, pseudonarcisi globalizzati, in una sovrapposizione tra realtà e spettacolo. Quest’ultimo ha perduto la funzione di rappresentare, di drammatizzare, di emozionare, di far riflettere, di far pensare, nonché quella funzione catartica che è stata fondamentale nella nascita del teatro, a partire da quello greco”.5 In questo contesto non corrispondere al modello collettivo può diventare oggetto di vergogna: la timidezza, l’introversione sono considerati con sospetto di anormalità, si riducono gli spazi in cui il pensiero e la creatività nascono. Nel frastuono collettivo non c’è tempo e spazio per ascoltare, bisogna funzionare a qualunque costo: non a caso i nuovi antidepressivi sono stati reclamizzati anche come presidi contro la timidezza e la fobia sociale. Lo scarto ideale tra come si è e come si vorrebbe o dovrebbe essere idealmente aumenta nella fase involutiva della vita, quando nell’invecchiamento vengono meno gli aspetti di efficienza e produttività. Capita sempre più spesso di ricevere nei nostri studi domande di aiuto da parte di persone in là con gli anni che soccombono a vissuti depressivi, nella difficoltà di affrontare il lutto narcisistico dell’età e di trovare nuove fonti di investimento in se stessi. Se Freud sconsigliava di intraprendere percorsi analitici oltre una certa età per la rigidità dell’Io e la mancanza di tempo per il cambiamento, oggi, scorrendo la letteratura, sono sempre più frequenti i lavori di analisti che si confrontano con questi pazienti, riconoscendo l’utilità del lavoro analitico anche in questa fase della vita, spesso dolorosamente scandita dalla vergogna e dalla rabbia. In un mondo che si muove a velocità vertiginosa, il fisiologico rallentare del passo, la diminuzione della vista o dell’udito, sono visti come handicap vergognosi. Nonostante il continuo aumento della popolazione Riflessioni di clinica junghiana 5. A. M. Pandolfi, op. cit., p. 91. 106 Riflessioni di clinica junghiana Susanna Chiesa anziana, le nostre città sono sempre più difficili da vivere: semafori che mancano o sembrano fatti per atleti, mezzi di trasporto pubblico con accessi impervi, arroganza e prepotenza dilaganti contribuiscono a generare ansia, insicurezza fino a vere e proprie fobie. Pensiamo a quanta vergogna evochi nella persona anziana il tema delle truffe sempre più frequenti di cui sono vittime, una vergogna che in alcuni casi è giunta al suicidio. La vergogna è un sentimento da cui nessuno è immune, nascosto nelle pieghe della vita, rimane in attesa di trovare una possibilità di ascolto che con la condivisione attenui la solitudine. Sono molti i pazienti che descrivono l’esperienza di liberazione avvertita nel momento in cui, superando la paura del rifiuto, si mettono in gioco e scoprono il piacere del poter essere finalmente accolti anche in quegli aspetti di sé censurati dalla vergogna. Come terapeuti dobbiamo riconoscere le nostre esperienze legate alla vergogna per poter aiutare i pazienti a contattare le proprie ferite e a sviluppare nei confronti di se stessi l’empatia necessaria alla rinuncia a coincidere con l’Ideale dell’Io, sviluppando invece una tensione armonica tra Io e Ideale. Bibliografia Borges J. L., Carme presunto e altre poesie, Mondadori, Milano, 1969. Chasseguet-Smirgel J., L’Ideale dell’Io, Cortina, Milano, 1991. Green A., Narcisismo di vita narcisismo di morte, Borla, Roma, 1983. Grunberger B., Il narcisismo, Einaudi, Torino, 1981. Jung C. G., Tipi psicologici, Opere, Vol. 6, Boringhieri, Torino, 1979. Kohut H., Narcisismo e analisi del Sé, Boringhieri, Torino, 1976. Mollon P., Vergogna e gelosia, Astrolabio, Roma, 2006. Pandolfi A. M., La vergogna, un affetto psichico che sta scomparendo?, Franco Angeli, Milano, 2002. 107 La vergogna nella relazione Riflessioni di clinica junghiana Abstract This paper discusses those aspects of shame which arise from the failure of the emphatic relationship between a baby and its caregiver. Shame is anlysed in the different stages and the possibility of transformation through the analytical relationship. The Auctor shows, through the presentation of clinical examples, the emergence of shame in the transferencecountertransference dynamic, and ways of elaboration. The paper considers how today this question of shame can transform into exhibitionism in society. 109 Riflessioni di clinica junghiana Colpa e vergogna sono stati d’animo che caratterizzano esperienze differenti ma che, spesso, mostrano tra di loro connessioni di senso. Ciò sembra essere supportato sia dalla riflessione teorica sia dall’esperienza clinica, nell’ambito delle psicosi come in quello delle nevrosi. Accanto alla ricerca di tali connessioni di senso, si intende in particolare sondare l’esperienza della colpa nella contemporaneità, a partire dall’ipotesi che essa abbia soprattutto a che fare con i vissuti di solitudine e di tradimento conseguenti all’esperienza di separazione dalle appartenenze originarie. La conferma di tale ipotesi esige il superamento della tradizionale chiave di lettura edipica, funzionale alla rappresentazione della modernità ma insufficiente a cogliere i modi di essere della postmodernità. Colta in questa prospettiva, la colpa non risulta allora assente nella post-modernità, come facili sociologismi vanno sostenendo, ma forse vi si esprime, accanto alla vergogna, nella sua radicalità originaria. COLPA, VERGOGNA L’esperienza della colpa sembra nuclearmente avere a che fare con il carattere di autoreferenzialità dell’esperire umano. Con il sentirsi cioè soggettivamente responsabili di qualcosa che si situa nell’ordine degli accadimenti. L’esperienza della colpa consisterebbe dunque nel riportare su di sé la proprietà di senso di un’azione o di un fatto cui si attribuisce la valenza di male. In questo senso, sul piano oggettivo, essa rappresenta la possibilità del confronto con il male, dell’esserne contaminati, del sentirsene appartenenti. Sul piano soggettivo, invece, si situa agli antipodi della proiezione, psicodinamicamente intesa come Colpa, vergogna, vincoli emotivi Enrico Ferrari 110 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari inconscia attribuzione all’esterno di ciò che si nega appartenere alla soggettività. Forse, nel caso della proiezione di qualità negative, allo scopo di non sperimentare quell’affettività dolorosa che la responsabilità del male comporta. Viceversa, l’affetto che accompagna l’esperienza della colpa è rappresentato dall’angoscia, quella tormentante inquietudine che lega inesorabilmente il futuro atteso al passato già compiuto, in una pre-visione che si fa dolorosa perché chiusa nel già accaduto. Diversa, fenomenicamente e psicogeneticamente, è l’esperienza della vergogna. Emblematicamente accompagnata da affetti somatici, cioè da un’affettività psicologicamente poco declinabile e dunque esprimibile per lo più nell’immediatezza del corpo (in primis il rossore del viso), la vergogna si manifesta nell’esposizione della propria “nudità” [8] allo sguardo altrui. All’essere guardati là dove ci si vorrebbe nascondere. È l’esperienza della privazione del nascondimento e del segreto che esso consente di custodire. Forse per questo la vergogna è un sentimento molto diffuso nell’età adolescenziale, là dove la non ancora piena integrazione con l’Io di nuove istanze biologiche ed emotive esige spesso la protezione dallo sguardo. Così la vergogna, per sanarsi, riconduce al nascondimento, alla non rivelazione. Se la colpa trova sollievo nella confessione, quindi nell’apertura al collettivo che si fa garante del perdono o della punizione, la vergogna ha invece bisogno di fuggire il collettivo. Là dove alligna la colpa nasce l’esigenza della riparazione, che tende al ripristino e alla re-integrazione. Là dove alligna la vergogna non c’è riparazione ma fuga. Perché dominante è la paura, sentimento che a differenza dell’angoscia è specifico e non indistinto, e che qui è motivato dal poter essere s-coperti. Sotto il profilo della soggettività del vissuto, nella esperienza della vergogna non è tanto tematizzato il male e l’ineluttabile responsabilità verso di esso, 111 Colpa, vergogna, vincoli emotivi quanto l’orrore della nudità, della pochezza, del disvalore, della precarietà. Nel linguaggio junghiano: l’orrore dell’ombra, che in questo caso ci sembra di poter far coincidere con il rimosso sociale. Ombra che, quando nell’individuo viene s-velata, suscita appunto orrore e inadeguatezza per il suo improvviso divampare sotto la coltre sottile della persona (junghianamente intesa), suscettibile di essere guardata da quel collettivo che non può consentirsi di ospitare l’intero che sta nel profondo. È ciò che faceva dire a Sartre: “la vergogna non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per gli altri” [13]. Ci sembra scaturiscano da questo stato di cose le difese messe in atto da chi prova vergogna: l’evitamento oppure la negazione e, di conseguenza (fenomeno compensatorio tipico dei nostri tempi), la s-facciata ostensione del deprecabile. Colpa e vergogna, nel loro manifestarsi, appartengono dunque a circoli di significato differenti. Sociali ma anche individuali. Sociali perché, se nel vivere la colpa è implicata l’apertura alla dimensione collettiva, nel vivere la vergogna la dimensione collettiva è evitata o, al più, subita. Individuali perché, se l’esperienza della colpa comporta una sorta di “ipersoggettivizzazione”, dove il co-involgimento del soggetto raggiunge l’estremo antropologico della responsabilità del male (paradossalmente nascondendo, nelle situazioni estreme, anche un’inconscia onni-potenza), l’esperienza della vergogna comporta invece una “iperoggettivizzazione”, esigendo la fuga dal co-involgimento che nasconde un’inconscia (ma a volte anche conscia) im-potenza. Inoltre, è luogo comune considerare la vergogna esperienza paradigmatica della società contemporanea, in cui sarebbe invece stata archiviata la colpa. In parte, a uno sguardo soprattutto sociologico, ciò sembra senz’altro corrispondere al vero, in concomitan- Riflessioni di clinica junghiana 112 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari za con la crisi delle grandi appartenenze collettive e con il parallelo affermarsi dello statuto narcisistico nelle psicologie individuali. Ma, a uno sguardo più propriamente psicologico supportato dallo sguardo antropologico, sembra altresì che la vergogna accompagni spesso la colpa e che le due lambiscano un nucleo originario comune, da cui poi si divaricano sortendo orientamenti e comportamenti individuali diversi. Riandando al racconto biblico della Caduta, prototipo del percorso religioso occidentale incentrato sul Padre (forse, mai del tutto evoluto nel Figlio cristiano) ma contenente anche elementi indicativi di un pre-paterno (il serpente!), la verità mitologica che ne emerge è che colpa e vergogna coesistono là dove c’è la rottura dell’appartenenza alla paradisiaca unità delle origini. Il mito indica che ciò avviene nell’ascolto dell’animalità, dimensione ancor più primaria del divino personale, la quale, anche se celata nella sua potenza dalla vergogna, spinge all’uscita, alla storia, al male della separazione. Spinta che, a sua volta, suscita l’esperienza soggettiva e oggettiva della colpa. COLPA, SENSO DI COLPA, SENTIMENTO DI COLPA Sono queste le espressioni più comunemente usate in riferimento all’esperienza della colpa, spesso intercambiabili ma contenenti sfumature semantiche differenti. La pluralità di espressioni, assente nella nominabilità della vergogna, è probabilmente il segno della maggiore complessità dell’esperienza della colpa rispetto a quella della vergogna, ma anche della maggiore declinabilità psicologica della prima rispetto alla seconda, quindi della sua maggiore suscettibilità trasformativa. Le differenze tra le espressioni riportate sono legate sia all’interpretazione del fenomeno della colpa, sia ai diversi ambiti in cui essa viene rappresentata. 113 Colpa, vergogna, vincoli emotivi Colpa è il termine con cui, prevalentemente, viene indicata l’oggettività dell’esperienza. Esprime una connessione tra l’attore del male e l’esperienza del male stesso nel senso di una responsabilità riconosciuta dalla coscienza, generalmente supportata da un sapere codificato, come quello della legge, dell’etica, della tradizione. Con il senso di colpa, invece, il linguaggio comune esprime il vissuto dell’autoriferirsi la responsabilità di un danno altrui, anche se razionalmente non è detto che ci siano elementi per sostenerlo. Del senso di colpa, quale espressione principe della dimensione inconscia della vita affettiva, si è occupata principalmente la psicoanalisi [6] [12]. Situazioni tipiche sono rappresentate dall’esperienza di violazione di una norma garantita da un’autorità e dall’esperienza di responsabilità nella sofferenza vissuta dall’oggetto d’amore. Se nel primo caso (tipico di una società a statuto edipico) è soprattutto la paura della punizione o della perdita dell’amore a sostenere il senso di colpa, nel secondo caso è invece in gioco un’istanza inconscia scissa che induce al sentirsi in relazione, quasi fusionalmente, con un altro soggetto. Il pensiero corre, ad esempio, alla situazione di una madre il cui figlio è malato ed ella si sente in colpa perché non l’avrebbe tutelato. La madre vive la malattia del figlio come “propria”, perché il figlio, inconciamente, è sentito come parte di lei. Ella sa, razionalmente, che non è così, che la malattia del figlio trova risposta altrove, ma non riesce tuttavia a “non sentirsi nella colpa”. Così pure, una declinazione ulteriore e più tipica della società post-moderna di questa seconda categoria, per così dire affettivistica, del senso di colpa è costituita dalle esperienze di separazione dai contesti affettivi di appartenenza. Su queste ci soffermeremo più avanti, ma qui vogliamo sottolineare che anche il senso di colpa caratterizzante tali esperienze presuppone un legame “fusionale”, la cui re-cisione sembra oggi culturalmente e Riflessioni di clinica junghiana 114 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari psicologicamente più difficile da affrontare. In queste situazioni il senso di colpa sembra anzi fungere da freno all’investimento individuativo, facendosi garante, quasi sempre inconsciamente, delle sicurezze antiche a fronte delle novità arrischianti che la società contemporanea promette in abbondanza ma costringe poi a vivere nella solitudine. Più in generale, il senso di colpa ha a che fare con il “vissuto soggettivo” che lega a qualcosa o qualcuno nell’ordine della responsabilità personale. Può riguardare anche azioni oggettivamente colpevoli: è il modo di “sentire” l’azione a nutrire il senso di colpa. Modo che ha a che fare con il sentire la forza del male “dentro”, lasciata essere e non contrastata. Male “dentro” che è avvertito come senso di colpa in virtù dell’esistenza di un codice, ma, più radicalmente, in virtù dell’esistenza del male che precede il codice e a cui il codice ha cercato di dare un volto per arginarne l’inconoscibilità e l’incontrollabilità. Per cui, forse, il senso di colpa presuppone il sentimento di colpa. Quest’ultima è espressione usata soprattutto dalla psicopatologia a impronta fenomenologica nella descrizione delle esperienze depressive [3] [5] [14]. Per indicare quello stato d’animo (depressivo) che ci pone di fronte all’esperienza del male come categoria ontologica, del nostro esser-gettati nel mondo [9] sentendoci parte di una “condition humaine” che vive, patisce ed agisce il male [4]. Sentimento di colpa, dunque, come comunanza nel male che ci sovrasta e che permea ogni scelta e decisione individuale. Quando non è guadagnato lo sguardo “tragico”, che sopporta la tangenzialità di bene e male, ridando speranza alla soggettività e al suo poter contribuire a promuovere il bene e arginare il male, il sentimento di colpa diventa allora sprofondamento nel nichilismo e sortisce l’esperienza depressiva come unilateralità, dunque patologia. Il sentimento di colpa, in questo senso, può anche essere visto come la matrice del più tollerabile senso di colpa. 115 Colpa, vergogna, vincoli emotivi SENSO DI COLPA E CONTEMPORANEITÀ; PSICOANALISI E PSICOLOGIA ANALITICA Incoraggiando il senso di responsabilità, la colpa, soprattutto nella sua declinazione di senso di colpa che nel presente lavoro costituisce il principale oggetto d’indagine, ha rappresentato nella modernità l’architrave psicologico dei comportamenti sociali e, per contrasto, il parametro di giudizio della dissocialità. Il senso di colpa di cui si sta parlando è, soprattutto, quello dell’infrazione alla norma codificata. La psicoanalisi, che alla modernità ha fornito immagini e riti di rappresentazione, non a caso proprio nel complesso di Edipo [6] ha trovato la propria chiave ermeneutica. La narrazione edipica, infatti, indica il percorso della maturità nel mea culpa del desiderio che minaccia il codice paterno. Mea culpa che consente l’inibizione delle fantasie siderali, capitalizzando le energie risparmiate in investimenti sociali possibili, rinforzanti il codice statuito e promuovendo gratificazioni etiche. Parallelamente, sul versante economico della modernità, lo spirito del capitalismo non poteva che trovare nell’etica colpevolizzante del cristianesimo protestante il volano della propria espansione [15]. Ma che cosa, rimanendo nella narrazione edipica rivisitata e messa in scena da Freud, può valere la pena del mea culpa del desiderio? Come è possibile frenare le ondate desideranti che autoctonamente si presentano nell’uomo? La psicoanalisi della splendida Vienna di fine ‘800 sapeva di queste minacce, di questi oscuri e potenti fantasmi che la conservazione dell’ordine e della gentilezza sociali esigevano di tenere a bada. E ne ha spiegato il meccanismo, coltivando la soluzione del compromesso tra divieto e desiderio. Nella lotta tra l’ordine delle soggettività e le spinte oscure della specie, solo la paura della punizione e il conseguente obbligo a dimenticare (rimuovere) potevano ingenerare il mea culpa. Ma a Riflessioni di clinica junghiana 116 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari quel punto il mea culpa diventava sufficiente, e la psicoanalisi ha potuto contribuire a collocare la punizione su di un piano simbolico. L’esperienza della colpa è divenuta “senso di colpa”. Comprensibile, prima ancora che riprovevole. Ma ogni spiegazione, alla lunga, riduce la paura, privando il meccanismo dell’oscurità che lo protegge. Così, cammin facendo, la psicoanalisi, musa della colpa moderna, ha contribuito a depotenziare il codice paterno, il principio d’autorità. Certo, non stiamo parlando delle sue teorizzazioni, ma delle sue ricadute sul tessuto antropologico culturale. Sì, perché il soggetto desiderante, castrato, ha chiesto asilo nel tempio delle madri e ha trovato conforto nel richiamo balsamico delle psicologie. Soprattutto, a questo punto del percorso, post-freudiane [16]. La colpa, da esperienza necessaria, è diventata ferita da guarire. Mentre la psicoanalisi, via via, da spiegazione dei conflitti dagli esiti castranti e colpevolizzanti, è diventata garanzia delle consolazioni. La post-modernità, vista da questa angolatura, si fa allora promessa e pretesa dell’esilio del dolore. La psicoanalisi, in qualche modo, ne ha contribuito all’avvento, ma non ha potuto farne da musa. Forse perché troppo consapevole della limitatezza dell’umano. Nuova musa è diventata la Tecnica [7], apparato di strumentazione che si propone il-limitato non tanto allo scopo di appagare il desiderio, ma di allontanare il pensiero della sua limitatezza, vanificando il vissuto della colpa. Una Madre munifica, onnipotente e onninutriente, che non si fa limitare dalle regole del Padre ma se ne avvale per promettere ancora più potenza. Tuttavia, è la clinica a mostrarlo, anche nell’epoca post-moderna la colpa come esperienza soggettiva non è sparita. Privata degli oggetti della modernità, si è spostata a livelli più arcaici, antropologicamente più fondativi dell’esperienza stessa. Ridimensionato 117 Colpa, vergogna, vincoli emotivi il confronto con il codice paterno, istanza conoscibile e controllabile dei vincoli interpersonali e sociali, il confronto è più direttamente avvenuto con i vincoli stessi, con il loro carattere radicale di dipendenza e di sicurezza. Qui il contributo di Jung diventa ermeneuticamente essenziale. Perché, è vero, sempre più raramente in analisi capita di confrontarsi con personalità edipiche che vivano la colpa della trasgressione o del tradimento o dell’inganno. Tutte esperienze che dicono la deroga al codice. Non che queste esperienze, contenutisticamente parlando, non esistano. Non esiste o esiste molto meno, sul piano formale, il vissuto della colpa che le accompagni. È però altrettanto vero che la colpa abita altre regioni, diremmo più primarie. Sono le regioni che chiamiamo della differenziazione, intesa soprattutto come congedo dai legami, come necessità di oltrepassamento delle appartenenze emotive. È, per utilizzare lo sguardo descrittivo della fenomenica sociale, il sentimento di colpa del figlio che per lavoro lascia soli i genitori; o della madre che, lavorando, fatica a star dietro alla casa; o della giovane donna che non ha ancora figli; o del giovane padre che non sa coniugare i propri bisogni emotivi con quelli del proprio bambino. L’elenco potrebbe continuare. In gioco sembra esserci sempre la concretezza del legame che viene interrotto oppure l’impossibilità a mantenerlo “sensorialmente” in vita. Detto altrimenti, è in gioco la difficoltà all’esperienza simbolica del legame, che implica il disgiungersi (separarsi) prima di permettere il ricongiungersi in veste nuova e, appunto, simbolica. Non dunque tanto la colpa del male rispetto a un codice dato e giusto, ma la colpa della differenziazione che è all’origine dell’esperienza del male. Del male inteso come congedo dall’improblematico e dall’implicito. Dall’originariamente buono e avvolgente. Dall’eterno unificante non ancora “alterato” (da al- Riflessioni di clinica junghiana 118 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari ter) dalle storie individuali e dall’estraneità dei legami non legittimati dal sangue. Questa è la potenzialità interpretativa della psicologia analitica [11], quanto mai attuale poiché, a differenza della psicoanalisi, riesce a visitare le origini della colpa. E così a dirci qualcosa della colpa oggi, in un’epoca in cui, paradossalmente, accanto alla polverizzazione delle tradizioni, l’assenza di sicuri processi di riconoscimento sociale, o di rappresentazioni simboliche condivise, fanno sì che non sia più sufficiente per le psicologie attestare la propria osservazione sui conflitti tra individuo e società, ma divenga altresì necessario confrontarsi con le angosce più profonde che fanno confliggere la soggettività con le istanze della specie. Che, in altro modo, Jung chiamerebbe archetipi. Ci riferiamo, ad esempio, al senso del vuoto, dell’abbandono, o al bisogno del contatto, di un legame… L’ESPERIENZA DELLA COLPA PRIMORDIALE NELLA CLINICA La colpa come oggi si presenta in diverse condizioni cliniche, è dunque la colpa più arcaica, a volte inconsolabile e spesso inelaborabile, perché ha a che fare col sentirsi parte del male. Dove il male è vissuto soprattutto come separazione da un bene primordiale. Qui colpa e vergogna sembrano affiancarsi, coesistere, manifestando comunque orientamenti di senso diversi con cui si cerca di coagulare la dispersione dolorosa che nasce di fronte alla separazione dalle appartenenze originarie. Storie cliniche che, in qualche modo, rievocano il mito biblico dell’Origine, in cui, lo ricordiamo, alla colpa per aver infranto il divieto ad un’etica individuale (l’uomo conoscitore del bene e del male) che costringe a uscire da un originario che è al di qua del bene e del male, si affianca la vergogna della nudità, di quel mostrare la pochezza e la limitatezza dell’es- 119 Colpa, vergogna, vincoli emotivi sere se stessi che, se sopportato, consente però l’inizio della storia. Riportiamo qui tre esperienze di colpa, due clinicamente rientranti nel circolo delle nevrosi, una nel circolo delle psicosi depressive. La scelta è stata fatta escludendo casi dove la colpa e la vergogna siano state acutamente indotte da particolari traumatismi infantili, al fine di favorire il più possibile considerazioni trasversalmente utilizzabili, non strettamente connesse a particolarità biografiche. In queste storie di vita, la colpa si manifesta come tra-dimento del vincolo, iniziativa razionalmente legittimata e socialmente proclamata, ma emotivamente vissuta come nemica della sicurezza individuale. Come se la vita individuale mutuasse dal rispetto e dalla conservazione del vincolo di base (familiare o religioso) il proprio senso archeo-logico e teleo-logico: vale a dire la sensatezza dell’origine e della meta. Il tempo soggettivo individuale, che è il tempo dell’irregolarità e della novità, nell’epoca dell’individualismo esasperato che spesso non ha però cura dell’individuo, rivela nella clinica l’ombra della colpa di volersi sostituire al tempo collettivo, che è il tempo della conservazione come garanzia della sicurezza. 1. Mario e la colpa di non “pro-seguire” il padre Mario è il primogenito di una famiglia-azienda, dove vincoli di sangue e vincoli professionali sono tutt’uno. Suo padre, capo fondatore dell’azienda, è un uomo all’apparenza forte, dotato di molto senso pratico, scaltro negli affari e capace di ammodernamenti tecnologici che, nel tempo, hanno ingrandito e reso più competitiva l’azienda. Di lui colpisce la manifesta squalifica di ogni forma di debolezza che, sommariamente, viene identificata soprattutto nella femminilità e nell’emozionalità. Tuttavia ha “voluto” che tutti quanti restassero uniti nella famiglia-azienda, scorag- Riflessioni di clinica junghiana 120 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari giando scelte individuali differenti e allontanamenti da parte dei figli. Solo una figlia ce l’ha fatta, mettendo di mezzo tra sé e il padre migliaia di chilometri. La madre, meno determinante nelle dinamiche relazionali interne alla famiglia, ha anch’ella sempre lavorato a fianco del marito, al servizio dell’azienda, svolgendo mansioni amministrative. Mario da ragazzo frequenta un istituto tecnico, nonostante sia prevalentemente interessato a materie umanistiche. In adolescenza si scopre omosessuale. Terminate le superiori, vorrebbe iscriversi alla facoltà di Lettere, l’azienda non gli interessa. Ma non ha sufficiente coraggio per fare ciò che il padre non vuole: ha paura dei suoi giudizi, di essere svalutato. Soprattutto non regge all’idea di tradirlo e di fare una vita in cui il padre non ci sia. Non riesce a non continuare a fare i conti con lui ogni giorno, a vederlo ogni giorno, a sentirlo ogni giorno. Così si mette a lavorare in azienda, sentendosi sempre inadeguato, patendo ogni giorno la vergogna di non farcela. In azienda lavora anche il fratello minore, ma Mario si sente investito del ruolo di successore. Nessuno gliel’ha verbalizzato, ma lui lo dà per scontato. Vincolandosi, interiormente, ancora di più. Dopo un po’ di anni si rimette a studiare e frequenta la facoltà di Scienze Politiche. Si impegna molto, studia la sera e i fine settimana. Dà tutti gli esami, ma non ce la fa a scrivere la tesi. Arrivato alla soglia di una minima differenziazione si blocca: la fantasia di un perscorso alternativo a quello famigliare lo angoscia, gli fa provare un senso di colpa intollerabile. E l’unica differenziazione consentita è l’omosessualità, ma clandestina. Pagata con il prezzo della vergogna. La chiave di lettura freudiana dell’intollerabile innamoramento del padre, ci pare non raccogliere l’interezza di senso di una vicenda dove vergogna e colpa si intersecano nel provare orrore allo svelare se stesso e nell’angosciarsi al pensiero di tradire il pa- 121 Colpa, vergogna, vincoli emotivi dre, di andare oltre la sicurezza delle origini. Il compromesso è la solitudine nevrotica, che consente una rabbia che fa sentire anche la forza ma, al contempo, evita il dolore dello squarcio di una solitudine più evolutiva che tagli i legami di sangue. Quella di Mario è una vicenda in cui il senso di colpa e la vergogna rendono impraticabile la disobbedienza al padre, il non proseguire i suoi interessi e le sue iniziative. È il senso di colpa, soprattutto, a paralizzare la separatezza prima ancora che una concreta separazione. Colpa nel senso di poter deludere, di far franare la grandezza e l’unicità del padre, dimensione interiore della appartenenza “forte” basata sul sangue. La colpa di poter distruggere il castello, anche se finto, della forza e della stabilità familiare, dove unicamente abiterebbe la sicurezza. 2. Olga e la colpa di attendere a se stessa Olga viene in analisi dopo un episodio acuto di attacco di panico. La sua è la storia della figlia unica di una madre ipocondriaca. Madre che ha passato la vita nella protesta per l’ingiustizia di non essere stata “guardata” dalla famiglia d’origine e che ha utilizzato la propria famiglia acquisita per essere costantemente guardata (per beneficiare di un credito permanente), utilizzando il corpo (il Körper di cui parla Husserl) come oggetto al servizio del dolore della mente, quindi privo di intenzionalità emotiva (contatto, calore, apertura…). Olga ha un buon funzionamento sociale. Sta discretamente bene fino a quando i “grandi” compiti della prima metà della vita (matrimonio, figli, lavoro) non finiscono. A quel punto, intorno ai quarant’anni, il corpo si s-prigiona in un violentissimo attacco di panico, imprevedibile e incontrollabile. Esperienza che non si ripresenterà più, ma segnerà la sua vita successiva con una costante incertezza sulla pos- Riflessioni di clinica junghiana 122 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari sibilità di non essere nuovamente travolta dal caos del corpo. In analisi viene affrontato il rapporto con la madre, il suo non aver potuto essere da lei accolta e contenuta, il suo aver dovuto tras-curare la vitalità delle emozioni. La madre l’ha troppo intensamente cooptata al fine di essere da lei sempre guardata. Ora, non rispondere a tutti i richiami del corpo malato della madre sembra giusto, sacrosanto. Ma ricavare del tempo (interiore) per se stessa, non impedirsi spazi di vita per evitare di toglierne alla madre è tuttavia difficile. Il senso di colpa fa fare e disfare, dire e contraddire. La madre bisognosa di sguardi è dentro di lei a chiedere il sacrificio dell’evoluzione, della separazione. Ma alla lunga Olga, un po’, ci riesce. Già il venire in seduta regolarmente, resistendo ai richiami della madre che immancabilmente le si presentano qualche ora prima, è un successo. Ma quando la strada sembra aprirsi, ecco un nuovo, più potente, vincolo. Il figlio minore, che frequenta la scuola elementare, comincia a sviluppare nei suoi confronti una strana dipendenza. Fuori casa, a scuola o con gli amici, si mostra indipendente e solare; in casa è sempre avvinghiato fisicamente alla madre, che quando c’è il figlio non può star sola nemmeno in bagno o nel letto, perché lui la deve seguire, anche prendendo il posto del padre. E lei non regge alla colpa dell’arrecargli dolore, del costringerlo al distacco. Concomitante, e conflittuale, è la vergogna di sentire ostilità verso il figlio, di s-coprirsi arrabbiata verso di lui, di riconoscersi tentata di staccarlo da lei. Tramite il figlio nuovamente, e più potentemente, viene agita la fusionalità del rapporto, il vincolo che non si può spezzare pena un insopportabile senso di colpa che scompiglia ogni riflessione razionale. La lettura edipica freudiana in questo caso, pur sembrando a prima vista ben fruibile, risulta invece insufficiente. Anche per l’assenza di una problemati- 123 Colpa, vergogna, vincoli emotivi ca vissuta nella triangolarità, che nello schema freudiano rende possibile prima il conflitto e poi il compromesso tra i poli del desiderio e del divieto. Più appropriata, invece, ci sembra la chiave di lettura psicologico-analitica che qui consente di vedere un’esperienza edipica bloccata per la non ulteriorizzazione di un’esistenza individuale rispetto all’appartenenza materna. Con la colpa a frenare nuove scelte e la vergogna a frenare nuove elaborazioni psicologiche. Un ulteriore cenno merita il quadro clinico degli attacchi di panico, emblematico per la sua rappresentatività (qualitativa e quantitativa) della psicopatologia odierna. In esso sempre ricorrono l’iniziale condizione di mancata dipendenza e il successivo vissuto della colpa (unitamente all’angoscia del vuoto) quando la situazione originaria viene rivissuta all’interno di esperienze adulte di s-vincolo. 3. Carlo e la colpa di tradire la Madre …Chiesa Carlo è un sacerdote di 65 anni. Da sempre persona rigorosa, infaticabile, poco incline ai compromessi. Responsabile e affidabile, lungo il percorso del proprio ministero ha sempre ricoperto incarichi importanti e molteplici: dall’insegnamento, alla direzione di associazioni, alla guida di parrocchie. In quarant’anni di sacerdozio non ha mai fatto una vacanza. Da bambino era rimasto orfano di padre a pochi anni di vita. Figlio unico, è entrato in Seminario all’età di 11 anni. La sua è stata una vocazione senza tentennamenti, caratterizzata dal rigore nello studio e nella vita spirituale. Una vita, si direbbe, offerta alla “madre” Chiesa. La madre biologica, fino a quando è rimasta in vita, l’ha seguito nelle sue diverse sedi di impegno pastorale. A 65 anni, la prima vera crisi della sua vita, di fronte a nuove responsabilità dove si esigono non l’affermazione di valori e l’abnegazione di se stesso, ma Riflessioni di clinica junghiana 124 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari operazioni amministrativo-economiche tese a salvare le casse della parrocchia. Operazioni che hanno il carattere del relativo e del particolare, non potendo discendere da principi universali indubitabili. Operazioni lecite sul piano giuridico, ma che fanno sentire chi le compie ai confini dell’etica, di quel senso morale vincolante che sigilla l’appartenenza forte e indiscussa ai valori evangelici. Ma, al contempo, operazioni necessarie per evitare la bancarotta, che esigono l’adozione di un sapere e di un’azione individuali, non tutelati né da una tradizione né da responsabilità collettivamente condivisibili. Il senso di precarietà rispetto a questa regione compromissoria della vita si dilata e dilaga: nel giro, sorprendentemente, di poche settimane subentrano vissuti di indegnità morale, vergogna della propria miseria umana, senso di colpa rispetto a tutte quelle volte che ha garantito il perdono, indulgendo ai peccati, e non ha mostrato intransigenza a garanzia di fedeltà. La ruminazione ossessiva di tali pensieri non concede requie, impedendo il riposo notturno e consegnando ad una spossatezza estrema che esita nell’inerzia. In questo sprofondamento nella noche oscura (sono per altro suggestive alcune analogie anche biografiche con S.Giovanni della Croce), le idee di morte sembrano inarrestabili, non frenabili nemmeno da istanze religiose che riferiscono solo a Dio il poter disporre della vita. Qui l’inconscio impone un’altra religione, più antica e indifferenziata di quella cristiana, dove se non altro la potenza del numinoso è stata contenuta, umanizzata, entro rituali che evitano il dissolvimento dell’uomo. L’ “altra” religione è quella che non prevede la centralità dell’individuo e quindi non consente né l’espiazione della colpa con finalità redentive, né il perdono. Nell’ “altra” religione l’individuo va sacrificato per il gruppo, perché il gruppo è più importante dell’individuo. Se l’individuo tradisce, il suo tradimento deve diventare un segreto che va dissolto con l’individuo stesso. Più tardi, quando starà meglio, mi 125 Colpa, vergogna, vincoli emotivi dirà: “Sentivo che il mio segreto doveva essere cancellato insieme a me… Non avevo paura della morte… Mi sentivo come credo si sentano i kamikaze!”. La morte, qui come in ogni esperienza psicotica dove è impedita la relazione tra coscienza e inconscio, non può essere simbolica e neanche redentiva. La morte è solo cancellazione dell’individualità traditrice del vincolo della collettività. Certo, nel comunicare a me il segreto, Carlo aveva acconsentito almeno in parte al tradimento, ritualizzato in una pratica (quella psichiatrico-psicoterapeutica) disposta a riconoscere anche questo statuto di colpa, senza negarlo ma senza nemmeno subirne il carattere coattivo. Forse per questo Carlo si è avvicinato alla soglia del nulla, ma all’ultimo momento non l’ha varcata. CONCLUSIONI “Società dell’incertezza”[1] e “modernità liquida”[2], sono le due riuscite espressioni con cui il sociologo britannico Zygmunt Bauman ha recentemente descritto l’epoca contemporanea. In essa la precarietà e la provvisorietà dei legami sarebbero gli ingredienti della nuova libertà. La rinunzia ad ogni impegno duraturo e a ogni fedeltà, la garanzia per lo scioglimento dei vincoli di dipendenza. Questo lo sguardo sociologico. Non contraddetto dallo sguardo analitico, ma da questi amplificato, per poter cogliere anche l’ombra rimossa dell’angoscia sottesa al modello sociale. L’esperienza della colpa oggi, a differenza dell’epoca della modernità, si colloca proprio in quest’ombra rimossa. Per questo è la clinica a contribuire irrinunciabilmente anche alla riflessione teorica. E dunque, accanto alla pretesa solubilità dei modelli e dei comportamenti, quella che impietosamente si nota nelle ansie individuali come in quelle col- Riflessioni di clinica junghiana 126 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari lettive, è la riemersione di una sorta di sicurezza emozionale ricercata ed agita, del tutto inconscia ma visibile, che va affermandosi tra le pieghe dei conflitti affettivi, delle contraddizioni di carriera, delle cangianti opzioni politiche. E se il senso di colpa, oggi, non funge più da conservatore delle regole che, anzi, continuamente e vertiginosamente cambiano, funge però da conservatore dei vincoli emotivi che garantiscono sicurezza. Osservato nella clinica, che pur mostrando l’ “estremo” fa sempre anche da specchio alla società, il senso di colpa è dunque categoria rivelatrice delle tendenze ombra, del non detto, e spesso non pensato, che ugualmente agisce, anzi con maggior immediatezza. Ma forse, come nella società moderna la colpa era al contempo elemento di paralisi ma anche garanzia di stabilità, così anche in quella post-moderna sembra agire da freno là dove una nuova, più individuale, sicurezza non sia ancora stata raggiunta. Ancora una volta la psicopatologia, più che insensata anomalia, dissintona rispetto a una normalità proclamata, va guardata ed ascoltata come linguaggio dell’ombra [10], che esprime dolore ma anche riequilibra una univoca e dominante pretesa di luminosità. Bibliografia [1] Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999. [2] Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2005. [3] Borgna E., I conflitti del conoscere, Feltrinelli, Milano, 1988. [4] Borgna E., Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992. [5] Callieri B., Quando vince l’ombra, Città nuova, Roma, 1982. [6] Freud S., L’Io e l’Es, Opere, Vol IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1977. [7] Galimberti U., Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999. [8] Genesi, La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna, 1980. [9] Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971. [10] Hillman J., La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano, 1991. 127 Colpa, vergogna, vincoli emotivi [11] Jung C. G., Simboli della trasformazione, Opere, Vol. V, Bollati Boringhieri, Torino, 1970. [12] Klein M., Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri, Torino, 1978. [13] Sartre J.P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1968. [14] Schneider K., Psicopatologia clinica, Città nuova, Roma, 1983. [15] Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1965. [16] Zoja L., Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Riflessioni di clinica junghiana 128 Riflessioni di clinica junghiana Enrico Ferrari Abstract Analytical psychology perspective helps to understand the connections of meaning between guilt and shame, that are phenomenological different. In the post-modern age, this has become more evident as the experience of guilt has not disappeared but has moved to levels that are more archaic. Exactly where are situated the interruptions of interpersonal and social bonds, in overcoming the loss of strong bonds that guarantee dependency and security, as it is the case in the separation from parents, from sons, from groups. In all those situations, when and where the traditional Oedipal answer cannot be a sufficient explanation, is operating the removed shadow of the tendency to precariousness and liquidity of bonds so emphasized today. 129 Riflessioni di clinica junghiana La vergogna come malattia dell’idealità Viviamo in un’epoca che sembra aver obliterato il sentimento della colpa per lasciare il passo a quello della vergogna. Sentimento quest’ultimo che si presenta come un’esperienza emotiva pervasiva in grado di modificare profondamente il sistema di valori che orienta l’individuo nel suo rapporto con il mondo. La nostra società è prevalentemente governata da un registro narcisistico grazie al quale i principi della competizione, del successo, del disprezzo e del cinismo obnubilano la vita emotiva e perpetuano forme di coartazione delle funzioni vitali del Sé contribuendo a renderne sempre più intensa la vulnerabilità. Ne deriva una forma di indebolimento dell’intera struttura di personalità che depriva il soggetto, impoverendolo, delle risorse che gli sarebbero necessarie per vivere l’esperienza e per muoversi adeguatamente tra i differenti livelli che la definiscono. La mente tende a irrigidirsi polarizzandosi, spesso, in aree psicologiche e affettive che si possono definire “estreme” per l’ipersensibilità che le caratterizza, e che stimolano l’individuo a trovare rifugi difensivi altrettanto estremi e dannosi per la vita psichica. Penso, in modo particolare, a quei pazienti che sembrano essere privi di un apparato di pensiero, privi di contatto con il loro proprio mondo affettivo e che vivono la loro paura di bisogno di relazione attraverso forme di diniego così intense da rimanere totalmente prigionieri di un passato che si ripete inesorabilmente. Questa forma di ritiro e di solitudine che depriva il soggetto dell’esperienza, non consente lo sviluppo di un apparato mediatore tra stimoli e impulsi, tra mondo interno e mondo esterno. La realtà, lì fuori, diviene abnorme con le sue richieste, con i suoi tempi, con le sue sollecitazioni. Abnorme e determinante in termini di giudizio. Ne deriva una forma di autarchia della mente, fa- Nadia Fina 130 Riflessioni di clinica junghiana Nadia Fina vorita anche dall’intima collusione di queste forme di ritiro schizoide (espressioni di un narcisismo infantile onnipotente) con sistemi socioculturali e politici annichiliti e privi di capacità progettuale vitale. Tale collusione, infine, sostiene il soggetto in una logica individualistica da “arrembaggio”, sollecitandolo alla ricerca di un successo anch’esso individualista e cinico bramato per allontanare il sentimento di vuoto pauroso di un Sé prossimo al collasso. La vergogna è un sentimento che ben si presta a delineare e sottolineare forme e stili di vita in cui il valore di sé viene dato (e viene cercato), per l’apprezzamento e per il giudizio che gli altri possono assumere, rendendo il soggetto ipersensibile e fortemente dipendente da questo sistema valoriale. Diventa estremamente faticoso, per l’individuo, fermarsi e trovare le risorse per confrontarsi con il proprio mondo interno, quando si trova invece tutto decentrato verso il bisogno di appagamento e gratificazione immediata. L’analista ha molte difficoltà a lavorare con questi pazienti che non possono essere compresi da una mente e da un setting dalle modalità classiche. L’inadeguatezza come sentimento che sottende il vissuto della vergogna li rende infatti ipersensibili alle parole del terapeuta, che viene ascoltato, per lungo tempo, in una abnorme condizione di “allerta” tesa a evitare ogni piccola forma di discrepanza, di frustrazione, di rottura sintonica. Ciò che normalmente una relazione richiede — e ancor più la relazione terapeutica — è la conoscenza reciproca progressiva, fatta di modulazioni in cui la vicinanza e la distanza definiscono la crescita del rapporto, la costruzione di codici linguistici e affettivi in cui la coppia analitica impara a muoversi e a capirsi. Tutto ciò richiede tempi adeguati e strategie terapeutiche che con questa tipologia di pazienti si trasformano in tempi lunghi e strategie molto complesse. La vulnerabilità narcisistica sottesa al sentimento 131 La vergogna come malattia dell’idealità della vergogna rende la personalità del paziente talmente “forte” nella sua ipersensibilità da sospingerlo verso forme di arroccamento estreme, in quanto l’altro — il terapeuta in questo caso — assume ai suoi occhi una valenza totalizzante del valore e del giudizio e, in un circolo vizioso scandito da acting del paziente, può suo malgrado rinforzarne l’arroccamento narcisistico e la tendenza alla scissione del sentimento e dell’emozione.1 Autori come Jacques Goldberg2 e Sidney Levin3 rimarcano, nei loro lavori, che la vergogna è espressione di un conflitto tra Io e Ideale dell’Io ricordando, entrambi, che spesso i pazienti evitano di parlare della vergogna, mantenendola piuttosto a lungo relegata in un’area di segretezza, per evitare che l’analisi entri pienamente nel merito di questo sentimento dietro il quale sta nascosto il sentimento d’inadeguatezza. Vero nucleo, questo e in questi casi, dell’identità del Sé.4 Non essere adeguato equivarrebbe infatti a non essere, a non esistere. L’analisi della vergogna comporta quindi un primo, doloroso, passaggio necessario: la consapevolezza di una propria debolezza che modifica l’immagine ideale. D’altra parte la necessità di mantenere un’immagine ideale del tutto compensatoria ha lo scopo di tenere lontano dalla consapevolezza l’esperienza stessa del limite. Nelle situazioni di vulnerabilità il limite non è tollerabile poichè esso viene percepito come un difetto di insufficienza e il sentimento che lo connota è quello dell’umiliazione. Le storie che i nostri pazienti ci raccontano e di cui si vergognano, quando ci parlano della loro vita e della loro infanzia, descrivono situazioni in cui carenze e confusività dell’ambiente primario hanno generato blocchi evolutivi, rendendo difficile l’attivazione di funzioni vitali necessarie a costruire un adeguato apparato mediatore tra stimoli e impulsi. Tra Riflessioni di clinica junghiana 1. N. Fina, “La vulnerabilità del Sé”, in Quaderni de Gli argonauti, n. 10, CIS, Dic. 2005. 2. J. Goldberg (1985), La colpa - Un assioma della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1988. 3. S. Levin (1971), “The Psychoanalisis of shame”, in The International Journal of Psycho-Anlysis, vol. 52, 1971. 4. N. Fina, “La funzione relazionale del segreto”, in Analysis — Rivista internazionale di Psicoterapia clinica, n. 2, Borla, Roma, 1991; N. Fina, “Un tempo tutto per noi”, relazione presentata al convegno Tempo e Memoria, novembre 2002, Palazzo delle Stelline, Milano. 132 Riflessioni di clinica junghiana Nadia Fina bisogni espressi e risposte adeguate. Tra spinte vitali e necessarie convalidazioni che rendano tali spinte naturalmente progettuali. A causa del conseguente congelamento del Sé vitale, il mondo emotivo riduce il suo spazio di crescita agglomerandosi piuttosto tutto intorno alle difese da un dolore che davvero non sarebbe da parte sua gestibile. Sandro è un uomo di circa trent’anni, avvocato, giunto in analisi per gravi problemi di abuso di alcol. La sua vita lavorativa e affettiva era stata gravemente compromessa da questo problema. L’abuso di alcol è stato per lungo tempo argomento difficile da trattare. Rimaneva sullo sfondo delle sedute, come qualcosa che era ovviamente conosciuto da entrambi ma su cui raramente potevamo soffermarci. Quando accadeva, Sandro saltava le sedute successive adducendo scuse spesso banali. Era evidente a entrambi che le assenze erano indotte da un sentimento di vergogna al limite della tollerabilità per lui. La vergogna, anzi, innestava un circolo vizioso rispetto all’abuso di alcol. Per placare quel sentimento così pervasivo e annichilente il ricorso all’alcol era per il paziente l’unica via d’uscita possibile come in una sequenza ripetitiva che lo catturava stordendolo tanto quanto la sostanza che da questo circolo vizioso veniva, nel suo effetto, dilatata. La vita affettiva ed emotiva, il pensiero erano costantemente messi in scacco da questo circolo vizioso. Significativamente, le sedute diventavano una ripetizione infinita di brevi racconti, sempre gli stessi e sempre con la stessa modalità astiosa, circa le gravi mancanze dei genitori nei suoi confronti e nei confronti dei suoi fratelli fin dalla loro tenera età. Indubbiamente una famiglia arida, priva di autentico interesse e sincera preoccupazione per i figli. Una coppia genitoriale totalmente assorbita da pesanti dinamiche ricattatorie, da puerili giochi di potere, imprigionata da sempre in un legame intriso di odio. Lo stordimento di Sandro era cominciato, sempre 133 La vergogna come malattia dell’idealità con l’alcol, nell’adolescenza, quando arrivava a ostentare le sue ubriacature senza peraltro ricevere segnali significativi di risposta. Ubriacarsi era stata una necessità, quella cioè di ottundere la violenza dell’impatto con quel tipo di clima affettivo familiare. Una relazione familiare traumatica e traumatizzante che si perpetuava e dalla quale era difficile sottrarsi. Sandro si vergognava della sua impotenza nei confronti dei genitori e perpetuava l’abuso di alcol nella speranza di scuoterli, senza capire che si offriva in questo modo come vittima sacrificale in una dinamica sado-masochistica che ripeteva, in realtà, la stessa logica di annientamento e di umiliazione che circolava nella coppia dei genitori e ricadeva, da sempre, nella relazione con i figli. A trent’anni il paziente rimaneva inchiodato nel nucleo familiare, a voler testimoniare il fallimento educativo dei genitori senza comprendere appieno che in questo stesso modo egli dimenticava se stesso. Non comprendeva cioè quanto profonda fosse la sua collusione nel rendersi vittima di quella dinamica di odio, disprezzo e umiliazione che era la cifra della relazione tra i suoi genitori. Anzi, questa forma perversa di relazione con loro alimentava una sua parte onnipotente perché lo faceva sentire artefice di uno scacco che rendeva tutti vittime, tutti legati da uno stesso destino a questo punto deciso da lui stesso. Diventare avvocato, come il padre, gli era sembrata una soluzione per ottenere, da lui, una forma di riconoscimento. Laurearsi aveva significato, nei confronti della madre, un tentativo di riscatto verso quella donna che era stata, per lungo tempo prima del matrimonio, “una semplice segretaria” del padre. La logica perversa della doppia identificazione — carnefice come il padre, vittima come la madre — logica che soffocava ogni possibilità di autentica vitalità, veniva da Sandro amplificata assumendo una modalità che lo teneva ancorato ad un passato inesorabilmente ripetitivo. Riflessioni di clinica junghiana 134 Riflessioni di clinica junghiana 5. G. M. Bromberg (1998), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano, 2007. Nadia Fina Le sue relazioni affettive si sviluppavano seguendo un copione del tutto simile a quello genitoriale soprattutto per l’odio da lui provato quando il legame cominciava ad avere pregnanza. L’amore dell’altra generava in lui disprezzo e desiderio di annientamento. Le fragilità e i bisogni che le sue partners manifestavano mano a mano che la relazione cresceva diventavano, per lui, motivo di denigrazione. La vicinanza, il contatto fatto di tenerezza e di piacere gli apparivano come trappole tese per annientarlo umiliandolo. L’altro veniva sospinto a diventare il protagonista di una interpretazione tragica il cui testo raccontava dell’estrema vulnerabilità a cui la relazione affettiva espone, illudendolo di liberarsi della sua propria inadeguatezza e dell’angoscia conseguente. Una sorta di “traslocazione”, per usare una felice immagine di Fonagy, in cui la fragilità, la paura, la vergogna stessa erano deposte e sistemate in altro luogo. Il lavoro di analisi con questa tipologia di pazienti è particolarmente complicato. Le tensioni specifiche di questa particolare forma di vulnerabilità del Sé impattano con una struttura interna che non è in grado di regolare gli affetti e, come acutamente osserva Bromberg, che non è “sufficientemente forte da resistere al contributo proveniente dalla soggettività dell’altro senza che questo minacci di sopraffare il suo senso di Sé e scatenare così un’ondata di vergogna e inadeguatezza”.5 Il lavoro va dunque inizialmente centrato soprattutto sul rinforzo e sulla valorizzazione della capacità che il paziente ha di “mantenere” viva la sua disponibilità alla terapia nonostante i tentativi di sabotaggio e di fuga generati proprio dalla difficoltà di tollerare la vergogna e l’umiliazione, sentimenti questi di cui il terapeuta diventa l’impegnativo testimone. Sentirsi esposto allo sguardo del terapeuta tocca, violandola, la parte più vulnerabile resa ancora più sensibile dal- 135 La vergogna come malattia dell’idealità la paura della dipendenza che la relazione di analisi genera. Nel lavoro di analisi con Sandro ho voluto dare valore alla sua ambivalenza, riportandone il significato al suo bisogno di negare l’emozione della vicinanza tra noi, negazione causata dalla paura che l’intimità potesse trasformarsi, per lui, in una esperienza di potere su di lui. Questa paura aveva una sua ragione storica che nel transfert si riattualizzava densamente. Questo tipo di transfert che nasce dall’estrema condizione di bisognosità di questi pazienti è così intenso e precoce che può comportare, da parte del paziente, un abbandono della terapia. L’assenza di un apparato mediatore che funzioni come contenitore sollecita iperattivamente e sensorialmente il paziente spaventandolo. E d’altra parte un contenitore adeguato a trasformare gli stimoli in pensieri digeribili richiede tempo, fiducia e capacità di tollerare il fatto che l’analista abbia i suoi pensieri sul paziente, le sue ipotesi, le sue strategie. La costruzione di un’alleanza terapeutica era dunque un lavoro molto laborioso perché trovare la distanza relazionale ottimale che permettesse a Sandro di non vivere le risposte empatiche di vicinanza e tenerezza per le sue fragilità come trabocchetti da osteggiare, né di vivere le interpretazioni della sua corazza caratteriale nelle sue espressioni di masochismo come sprezzanti giudizi, ha comportato vissuti cataclismatici, con ripetuti agiti di fuga dall’analisi. Espressioni tutte, queste forme di acting, dei difetti a carico dello schermo protettivo che filtra gli affetti dolorosi e in assenza del quale insorge, come accennavo, una grave insufficienza della capacità di elaborazione psichica. Lavorare per la ricerca di un consolidamento dell’alleanza terapeutica a partire dalla comprensione del modo in cui il paziente si pone in “relazione con” vuol dire aiutarlo a dare innanzitutto nome ai contenuti che esprimono le paure, a riconoscere, differenziandoli, quali sono gli affetti dolorosi Riflessioni di clinica junghiana 136 Riflessioni di clinica junghiana Nadia Fina da cui si rifugge e dai quali si ha necessità di difendersi, e quali sono i bisogni che si temono, vergognandosi, perché ritenuti segnali di colpevoli deficit che espongono al giudizio sprezzante dell’altro. Il bisogno primario di queste situazioni è quello di riuscire a vivere validamente e pienamente per la prima volta, all’interno di una relazione finalmente protetta, gli affetti traumatici per farli convergere in un’area di intimità all’interno della quale la rêverie diventi un vero sostegno per la costruzione di un Sé che sia capace di tollerare, di sé, pensieri e sentimenti dolorosi. Penso, a tale proposito, che il rispecchiamento — nel suo significato di validazione dell’esperienza emotiva per la comprensione del fatto che affetti come buono e cattivo, bene e male, rabbia e amore, odio e rancore hanno una loro ragione d’essere e un loro scopo per l’animo umano, potendo in esso convivere — si realizzi nel suo valore strutturante nel momento in cui il paziente arriva a riconoscere e accettare la mutualità come momento per lui strutturante. È questa una delle necessarie esperienze di sviluppo per il Sé la cui meta è la “soggettivizzazione”. Nel lavoro analitico con Sandro, un passaggio molto significativo, in termini di cambiamento, è avvenuto quando il paziente, dopo una seduta particolarmente difficile, mi ha telefonato ubriaco chiedendomi aiuto. Nel corso della telefonata mi disse che voleva farmi conoscere bene Sandro “posseduto dall’alcol”. Voleva che mi rendessi conto in quale stato di “perdita di sé” veniva a trovarsi. Nel corso del colloquio telefonico il paziente non esitava a parlarmi del suo sentimento di vergogna, riferendosi a sé con parole di disprezzo miste ad una angoscia profondissima. La sensazione nel mio ascolto oscillava tra la percezione di una vicinanza estrema nell’attimo e quella di una distanza che lo rendeva inafferrabile. Sentivo le mie parole perdersi in un vuoto vorti- 137 La vergogna come malattia dell’idealità coso inglobante e scomparire come segni privi di eco. Più percepivo la mia impotenza più mi sentivo, come le parole che pronunciavo, trasportata in quel vortice di vuoto. Ebbi la netta sensazione che il paziente non voleva solo farmi “sentire” come stava quando era ubriaco. Voleva piuttosto che lo accompagnassi in quel vortice di vuoto, ancorandolo a me per poter tornare indietro una volta per tutte. Quel momento era un momento in cui l’intero Sandro era in gioco. Comprendevo infatti l’enorme sforzo che il paziente stava facendo di parlarmi di sé in modo “lucido” nella sua condizione alterata invece dall’alcol. Fin dall’incontro successivo a questo episodio Sandro poté cominciare a parlare con maggiore disponibilità della vergogna che aveva provato nei miei confronti per il suo alcolismo, per i suoi insuccessi lavorativi, per i suoi sentimenti di inadeguatezza, e della ostilità covata contro di me che lo facevo sentire, in alcuni momenti,“senza pelle”. Il valore terapeutico specifico di quella telefonata era stato vivere nell’esperienza con me un passaggio cataclismatico in cui lo sconvolgimento regressivo della disparità esperita tra valore (terapeuta) e nullità (paziente), da cui Sandro era sempre rifuggito. Si rendeva così manifesta la paura della disintegrazione che una tale disparità minacciava in quanto esperienza traumatica che si era ripetuta all’infinito attraverso i suoi agiti autolesivi, potendola finalmente affrontare in un nuovo contesto affettivo. Una componente decisiva per lo sviluppo del Sé è, infatti, la possibilità per il soggetto di trasformare l’esperienza subita passivamente in esperienza attiva. Questa possibilità nei pazienti traumatizzati si realizza grazie a forme di identificazione con l’oggetto traumatizzante nell’illusione che il passaggio identificatorio allontani l’umiliazione dell’essere in balia dell’assoggettamento. Con la sua telefonata Sandro ha interrotto questo processo di rimando infinito aprendo la strada ad Riflessioni di clinica junghiana 138 Riflessioni di clinica junghiana 6. C. Zucca Alessandrelli, “Il marchio” in Gli Argonauti, n. 66 CIS, 1995. 7. G. M. Bromberg (1998), op. cit. Nadia Fina una nuova, diversa esperienza di passaggio da una condizione passiva a una attiva, sottraendosi alla rigidità di uno schema saturo di sofferenza. Quella sensazione da me provata, nel corso della telefonata, di enorme distanza era sicuramente determinata, come ho detto, dalla netta percezione di una parte del paziente profondamente scissa. Ma ciò che mi sembra importante è pensare a quella parte come a una parte viva, logorata e dolente. Un Sé mai cresciuto e in preda a grandi bisogni celato, come direbbe Winnicot, dentro un nucleo congelato in attesa di essere scoperto e aiutato. Molto più tardi, dopo mesi di astinenza dall’alcol, un nuovo, importante passaggio significativo ha avuto luogo nel momento in cui il paziente si è riferito al suo passato esprimendosi con sentimenti di colpa ripensando al danno di cui lui stesso si era reso vittima. Un momento di autentico contatto con il dolore senza timore di soccombere. Storie analoghe a quella di Sandro ci permettono di comprendere quanto la vergogna sia un sentimento che si alimenta sostanzialmente di se stesso, a causa del fatto che il suo compagno di strada è lo scacco subito dall’immagine di Sé. Scacco di intensa angoscia poiché l’immagine viene rimandata da colui che, osservandoci, ci valuta e ci definisce. Il terrore dunque è quello di esperirsi come “non persone”, di essere cioè individui privi di significato e di valore in quelle relazioni i cui affetti possono ritenersi, per i loro diversi destini, comunque vitali.6 Il sentimento della vergogna è sotto ogni prospettiva un affetto che segnala un “attacco traumatico alla propria identità personale, conducendo a processi dissociativi necessari a preservare il senso di sé”.7 Il soggetto non ha soltanto il bisogno di allontanare la frustrazione che ne deriva, ma si trova anche e soprattutto nell’incombenza di evitare un’esperienza di annichilimento. Non a caso, infatti, una via d’uscita dalla qualità annientante a carico del sentimen- 139 La vergogna come malattia dell’idealità to della vergogna è la rabbia. Rabbia narcisistica dalla duplice funzione: segnale della profondità del danno a carico del Sé e motore perpetuo del processo di polarizzazione e scissione contro il rischio di frammentazione del Sé. La vergogna viene dunque per questo motivo considerata, giustamente, come “un’emozione del Sé (nella sua globalità) più di quanto non lo sia il senso di colpa che risulta invece essere emozione morale”.8 L’angoscia determinata dal sentimento della vergogna è per questo motivo un’angoscia che necessita di un capro espiatorio, di qualcuno che all’esterno funga da catalizzatore della frustrazione e ne diventi l’artefice in termini di responsabilità. Nella nostra epoca le patologie sono notoriamente patologie del Sé, in cui il deficit narcisistico disorienta l’individuo per il senso di svuotamento che lo domina. La ricerca pressante di riempire il vuoto sposta il soggetto nella sua ricerca di senso esistenziale. Il sentimento di inadeguatezza per inferiorità assume la sua qualità di tessuto connettivo che dà forma alla sacca di vuoto; il bisogno estremo è di uscire da quel sentimento, di riuscire a trovare significato e valore almeno attraverso forme di gratificazione percettivamente godibili che illudano di non essere inferiori e inadeguati. Il sentimento della vergogna rende difficile un confronto con se stessi perché l’individuo si sentirebbe colpevole di inferiorità e quindi annullato sul piano esistenziale. La tensione ideale dell’Io, normalmente motore di sviluppo e di ricerca di senso, si trasforma in un Io ideale tiranno, agli occhi del quale limiti e mancanze non divengono mai nuove possibili occasioni di crescita e trasformazione, bensì difetti imperdonabili e dunque condannabili. La letteratura psicoanalitica e quella di natura sociologica hanno a lungo associato la colpa e la vergogna. La parentela tra i due sentimenti nascerebbe dalla considerazione che entrambi sono associati al- Riflessioni di clinica junghiana 8. M. Lewis (1992), Il Sé a nudo, Giunti, Firenze, 1995. 140 Riflessioni di clinica junghiana 9. P. Mollon (2002), Vergogna e Gelosia, Astrolabio, Roma, 2006; R. SpezialeBagliacca, Ubi Maior, Astrolabio, Roma, 2006; R. Speziale-Bagliacca, Colpa - Considerazioni su rimorso vendetta responsabilità, Astrolabio, Roma 1997; J. Chasseguet-Smirguel (1975), L’ideale dell’Io, Cortina, Milano, 1991. Nadia Fina l’ordine del giudizio. Per entrambi questi affetti si è parlato di “malattia di idealità” e “depressione di inferiorità”. Tuttavia concordo — perché mi sembra rilevante ai fini della costruzione e della conduzione di un progetto di analisi — con quegli autori che rimarcano, tra le differenze, quella che tra il sentimento della vergogna e della colpa definisce quest’ultima come espressione dell’ordine relazionale. Il sentimento della colpa è infatti manifestazione di una tensione interna di tipo conflittuale in quanto sussiste grazie a una forma di dialogo interiore con la norma introiettata con il suo significato valoriale. Tale valore diviene garante dello sviluppo proprio in quanto polo conflittuale con cui l’individuo deve misurarsi per una piena legittimazione di sé. In questa situazione è dunque presente almeno una possibilità di confronto con il “limite”; limite determinato dal riconoscimento stesso dell’alterità come ineludibile presupposto per il passaggio evolutivo dalla sensazione di essere esposti alla sua presenza arbitrale — reale o immaginata che sia — a una interiorizzazione “dialettica” di norme che generano il sentimento di piena responsabilità.9 Colpa come responsabilità, dunque, perchè reggere il senso di colpa prelude alla maturazione soggettiva e allo sviluppo; alla responsabilità come percorso emotivo. Responsabilità che ha alla sua base la scoperta di saper rispondere a sé e ai propri bisogni, in un nuovo respiro di vita. In questo modo i genitori onnipotenti muoiono, finiscono sullo sfondo con il loro bagaglio di esseri umani, con la loro prerogativa cioè di essere stati anche soggetti di vita e non solo oggetti affettivi. Il risultato ultimo che viene da questo riconoscimento di “essere umani” è quello di sentirsi indubbiamente più liberi. Non si tratta qui di dimenticare o di perdonare mancanze e inadeguatezze dei genitori perché né l’u- 141 La vergogna come malattia dell’idealità na cosa né l’altra sono in realtà mai davvero possibili nella profondità dell’essere umano. Si tratta invece di procedere, di andare oltre assumendo la propria vita come priorità. Anche se dolorosa per la consapevolezza delle mancanze che hanno contraddistinto lunghi periodi della vita infantile e adolescianziale, questa collocazione sullo sfondo dei genitori contribuisce alla riuscita del passaggio dalla ricerca di un senso di sé (e per sé) prevalentemente ancorata al loro riconoscimento, a quello di una nuova espressione di sé pienamente autolegittimata. Una nuova capacità emotiva di ritrovarsi uscendo dalla logica di una identificazione adesiva che ha contribuito a confondere l’oggetto con il Sé. Si esce grazie a questo passaggio da una dimensione claustrofobica e claustrofilica che inibisce il soggetto nella sua comprensione di quanto la sua stessa vita gli appartenga decentrando, invece, la sua attenzione nella malsana e soffocante convinzione di appartenenza perpetua agli oggetti primari, deprivandosi della piacevole esperienza di sentirsi parte del mondo grazie al pieno investimento soggettivo su di esso. Bibliografia Bromberg G. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano, 2007. Chasseguet-Smirguel J., L’Ideale dell’Io, Cortina, Milano, 1991. Fina N., “La funzione relazionale del segreto”, in Analysis - Rivista Internazionale di Psicoterapia Clinica, n. 2 Borla, Roma, 1991. Fina N., “Un tempo tutto per noi”, relazione presentata al convegno Tempo e Memoria, nov. 2002, Palazzo delle Stelline, Milano. Fina N., “La vulnerabilità del Sé”, in Quaderni degli Argonauti, n. 10 CIS, Milano. Goldberg J. (1985), La colpa - Un assioma della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano 1988. Riflessioni di clinica junghiana 142 Riflessioni di clinica junghiana Nadia Fina Levin S., “The psychoanalisis of shame”, in The International Journal of Psycho-Analysis, vol 52, 1971. Lewis M. (1992), Il Sé a nudo, Giunti, Firenze, 1995. Mollon, P. (2002), Vergogna e gelosia, Astrolabio, Roma, 2006. Speziale-Bagliacca R. (1997), Colpa - Considerazioni su rimorso, vendetta, responsabilità, Astrolabio, Roma, 1997. Speziale-Bagliacca R., Ubi Major, Astrolabio, Roma, 2006. Zucca Alessandrelli C., “Il marchio”, in Gli Argonauti, n. 66 Cis, Milano, 1995. 143 La vergogna come malattia dell’idealità Abstract We live in an epoch that has obliterated the feeling of guilt in order to leave the place to the feeling of shame. The latest profoundly modifies the individual’s value system that regulates his relation to the world. Shame is a feeling that can delineate and underline the subject difficulties in relating to his internal world. Inadequacy, a pervasive state for these patients that cannot be understood in a classical analytical setting, requires to the analyst a different mental attitude. Using case material the paper purpose is to demonstrate the tight link existing between shame and the illness of Ego ideal, and how in the analytical process the necessary modulations indicates the necessary “technical” modifications in the setting. Riflessioni di clinica junghiana 145 Infanzia e adolescenza Faut-il partir? Rester? Si tu peux rester, reste; Pars, s’il le faut. L’un court, et l’autre se tapit pour tromper l’ennemi vigilant et funeste, le Temps! Il est, hélas! des coureurs sans répit… (Charles Baudelaire) SANGUE PSICOANALITICO E IPERCINESIA INFANTILE Il cestino di plastica bianca ha una piccola macchia rossa, quella del sangue che mi esce da una leggera ma bruciante ferita della pelle della mano. Non ho potuto afferrare bene il cestino, nella sua traiettoria verso i miei occhi. Mi è un po’ scivolato dalla mano mentre tentavo di fermarne il movimento rotatorio che avrebbe voluto colpirmi in viso e così mi sono ferito. Uno dei bordi è un po’ tagliente e soprattutto la rotazione è stata così veloce da obbligare la mia mano a un movimento di protezione tanto rapido da non lasciare tempo al pensiero. Dovevo pararmi la faccia e la mano ha fatto automaticamente da schermo, prima di ogni mia decisione consapevole. La ferita è venuta quindi prima di ogni lucida scelta, oltre ogni intenzione. Il bruciore me ne fa accorgere e si impone alla concitazione di un momento che in gran parte non solamente impedisce ogni pensiero ma anche ostacola la presenza consapevole del corpo a se stesso. Corpo rapito in un movimento inconsulto. Senza più Instinct to Master, per dirla con Freud. Mano senza memoria di relazioni fondanti. Corpo dell’altro, urlante di velocità scomposta e dissennata. Di fronte al mio corpo che arranca sui fianchi d’un pensare sdrucciolo. In questo movimento caotico e de-simbolizzante la mano smarrisce il suo portato rappresentativo più essenziale. Quello di raccontare il ritmo originario della relazione tra madre e bambino, il suono cadenzato del primo e più fondamentale degli incontri, l’intersezione danzante degli sguardi e le prime pa- La corsa del Bambino Ombra Francesco Bisagni 146 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni role odorose di latte. Oggetto presente al neonato per rappresentare sé col seno assente, ricostruendo su una innata traccia sonora di tattile e olfattiva attesa il proprio potenziale di vita. Per non dire dei picchi e delle valli delle dita e dei loro spazi, e del disegno d’andirivieni che essi raccontano infinite volte. Giocata in solitudine, la mano è anche il primo racconto di cura e di significazione nella relazione che un neonato regala a se stesso, a fondamento d’ogni altro vicendevole e imperfetto darsi una mano. A sanguinare qui non è dunque solo un sottile strato del mio derma messo allo scoperto da un bordo di plastica tagliente. Mi alzo perentoriamente dalla sedia e con decisione, senza a questo punto poter più lasciare ombra di dubbio, tolgo dalla mano di X-CHILD il cestino e lo butto da un lato, con la mano sana faccio un movimento abile e lesto, questa volta molto consapevole, afferro X-CHILD per un polso e lo stringo. Analiticamente, tento con la mano un atto di parola che consenta altre parole. Il mio fine — analitico e non terapeutico — è di de-comprimere lo spazio, resosi asfittico, del discorso possibile e della sua bisessualità psichica. Voglio fargli sentire che sono il più forte, forse che — se volessi — potrei davvero ucciderlo. Lo guardo fisso negli occhi, duro. Lui mi guarda, trionfante. Sorride beffardo. L’attimo di collera cieca che è riuscito ad accendere in me è una sua temporanea vittoria che certo non si lascia sfuggire e gode di avermi piegato. Ma sono deciso a lasciarlo godere per poco. E comprenderà di sicuro la differenza tra la rabbia e la determinazione, tra la violenza e la forza. Io stringo. “…bastardo…mi fai male al polso...”, dice. Già facendo parodia d’un lamento autentico. Rispondo, guardandolo bene dritto negli occhi: “Sì”. Cambia espressione. Un velo di paura. Gli dico che mi ha tagliato col cestino, e che que- 147 La corsa del Bambino Ombra sto non deve assolutamente succedere, che lo voglia o no. Ora deve stare fermo intanto che provvedo al mio taglio. Resta immobile a guardarmi, senza dire nulla. È ovvio che sarà per poco. L’UOVO E LA GALLINA. COME SI CREA UN BAMBINO OMBRA Quindici anni fa, al momento dell’episodio che ho appena raccontato, tratto da una qualsiasi seduta della sua breve e inconcludente analisi, X-CHILD ha nove anni, i capelli biondi e ricci come quelli di un putto alato, i lineamenti delicati da miniatura, gli occhi celesti luminosi e profondi. Potrebbe essere bellissimo e dolcissimo, un vero angelo. È un demonio di eccitazione e di furia, un serpente velenoso di capacità ricattatoria e schiavista. Incessante turbolenza di un tiranno spietato. Non dategli il potere quando sarà grande, penso spesso. Se vi fosse un società pronta a moltiplicarne i tratti personali, di certo la vicenda finirebbe come nella Germania del ’33. È figlio unico, perché dopo di lui i genitori non hanno più avuto voglia di sfidare la sorte e probabilmente non hanno più avuto energie per pensare di poter mettere al mondo qualcosa di vivo e di sano. Depressi e intrappolati dal tiranno, frastornati dalla sua concitazione, silenziati e impossibilitati alla quiete, non hanno fatto che pentirsi della sua nascita, maledicendone ogni nuovo giorno e ogni riapertura degli occhi al mattino, sfidati e sconfitti da lui, dannati dal suo fermarli sul fondale della loro incapacità di inventare vita. Nasce e da subito piange più del dovuto, fatica a prendere il seno, niente sembra quietarlo. Pare destinato a non trovare soddisfazione. Non pare godere dei suoi genitori, certamente loro non godono Infanzia e adolescenza 148 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni mai di lui. La gioia non si installa tra loro. Forse la mamma, che ha i suoi stessi occhi lucenti ma appena più velati d’una fatica ormai pensata senza sollievo, ha dei lutti antichi di cui non sa neppure riconoscere la natura e quando resta incinta di lui magari cerca un riempimento impossibile a un vuoto remoto. Ma forse nulla del genere. Forse il papà non voleva figli, non lo ha mai cercato un figlio. È possibile che nemmeno sapesse che vuol dire essere padre, neppure per approssimazione. Forse ha solo dato retta alla moglie che voleva una gravidanza. Forse ha ceduto a una pressione sociale che lo voleva genitore, dietro promessa che non avrebbe mai dovuto occuparsi di lui. Ma poi che vuol mai dire occuparsi? Ed ora non vi è minuto in cui il figlio non gli intasi la vita come fosse una vecchia latrina ingorgata. Ingorgarsi invece che occuparsi. Strano destino. O forse, a distanza di quasi un decennio, non fa che spostare al passato il suo desiderio di ucciderlo, ora, subito e per sempre. Ma forse nulla del genere. Da subito bambino sbagliato, ostinato e oppositivo ma soprattutto mai fermo. In-fermo. Malato e non solido. Senza fermezza ricevuta. Senza colonna vertebrale. Cade continuamente da piccolo. Cade e si ferisce. Accident prone, come si usa dire. Contusioni e fratture a segnare un corpo impensato. E a replicarne il non senso nella mente dell’altro. Sei colpevole delle mie ferite. Ti ferirò per sempre ferendomi. E non comprenderai mai. Nemmeno se mi ferirò fino a morire, come tu vuoi. Irrequieto ovunque. Notti insonni una dietro l’altra. I vicini che si lamentano. La pediatra che non sa che pesci pigliare. La madre con le occhiaie che sembrano bare. E seppelliscono l’azzurro degli occhi. Il padre furente. Di voglia di fare l’amore nemmeno a parlarne. Prima vittoria del tiranno. Divide et impera. Inadattabile a ogni contesto. Ingestibile a scuola. 149 La corsa del Bambino Ombra Già segnalato ai Servizi per l’Infanzia fin dalla scuola materna. Un fallimento completo. Continuo e inarrestabile. La diagnosi: Sindrome Ipercinetica con deficit dell’attenzione. Facile a dirsi. Col garbato messaggio ai genitori, implacabile dietro il velo di ipocrisia. Vostro figlio è insopportabile. Cosa avete fatto di lui… vergognatevi tutti! Ma qualcuno per pietà o per compiacenza dice che è intelligente. Cosa riesca in realtà a intelligere resta negli anni un mistero insoluto. A parte sviluppare una incredibile abilità alla fuga e un godimento incontenibile quando riesce — come accade quasi sempre — a fregare chiunque. Astuto come Satana, qualcuno dice di lui. Corri oggi e corri domani e finisci per vivere alla periferia di te stesso, nelle banlieue dell’esistere. Altro che deficit dell’attenzione… E come si può imparare a essere attenti a qualcosa se mai si è sperimentata attenzione genitoriale? E come possono mai genitori che vengono iterativamente deprivati dai loro bambini d’attenzione e di normalità d’amore, veder crescere in sé capacità d’attenzione amorevole e salda? Non si sa mai se arriva prima la gallina o l’uovo. In tutto ciò, X-CHILD a scuola ride e picchia e non sta nel banco, provoca e si fa costantemente intollerabile. San Sebastiano nei cuori degli insegnanti. Il loro modello segreto. Gli altri bambini lo evitano. Patiscono a fatica le sue angherie e le sue provocazioni. A fatica non meditano e non agiscono di continuo vendette, stando al suo gioco. Confermandogli ogni giorno che questo è il mondo. Coi loro genitori, senza mezzi termini, si dicono contenti quando lui sta assente. Si facesse assente dalla vita stessa nessuno se ne lagnerebbe. Nessuno ha mai sentito la sua mancanza. E l’espe- Infanzia e adolescenza 150 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni rienza di mancare a qualcuno ha — come è ben noto — un rilievo narcisistico sano non secondario. Consolida il senso del valore di sé. Terapie su terapie. Psicoterapie si intende. Fin da piccolissimo. Tutto inutile ovviamente. Tutti fanno finta di crederci ancora. Nessuno pensa all’unica cosa che andrebbe pensata. Sedarlo farmacologicamente. Non certamente in un’impostazione psichiatrica di semplice controllo del sintomo. Ho visto lussuosi ospedali psichiatrici americani per l’infanzia, desolanti di silenzio e di bambini addormentati, ho ben visto con tale orrore da non rischiare d’esser scambiato per uno che vuol compiere simili operazioni di mutilazione. Al contrario, penso ora a un farmaco (ma non ancora lo pensavo all’epoca dei fatti narrati), all’ interno di un’inversione provocatoriamente psicoanalitica del discorso medico e dei suoi corollari psicoterapeutici e normalizzanti. La subversion subjective, per dirla con Lacan, può richiedere atti psicoanalitici preliminari e paradossali. Iniziative dirompenti. E oggigiorno per essere sovversivi bisogna davvero raschiare il fondo del barile. Soprattutto nell’analisi dei bambini, così pressata dalle esigenze terapeutiche — e non di curativa significazione — a opera dell’ambiente. Almeno si potrebbe, in mancanza di meglio, tentare di mantenere col paziente e il suo contesto una sempre utile e vecchia posizione psicoanalitica: fare qualcosa che risulti inaspettato, non previsto, sconvolgente ed anomalo. Che rompa l’usuale. Un dribbling simbolico. Dunque un farmaco, a cui però nessuno ha pensato. Non un farmaco per togliere parola, ma per farla praticabile e potenzialmente soggettivante. Pro tempore. Per rendere lui più tollerabile a se stesso e aprirgli domande. Per lasciare un po’ d’ossigeno residuo a una soggettività forse già irrimediabilmente uccisa da un sintomo troppo gravante. Per rendergli possibile davvero una psicoanalisi. Per renderlo 151 La corsa del Bambino Ombra più sostenibile al suo contesto e far si che il contesto, genitori in primis, trovi meno torturante, e meno stupidamente eroico, avere a che fare con lui. E dunque per restituirgli un briciolo di altrui semplice e umana voglia di volerlo. Vita, in buona sostanza. E non di aspettare solo che si addormenti a fine giornata. Con la segreta speranza che non si risvegli mai più. Ma anche chi scrive, e che oggi non esiterebbe a prescrivere un farmaco ben virilmente assestato come presupposto d’ogni discorso di ipotetica creazione di senso, dunque per scopi analitici e rigorosamente non terapeutici, ai tempi ormai lontani della vicenda che vado descrivendo, cadeva vittima di un equivoco. Anche perchè era malato di una onnipotente e giovanilista, e peraltro assai epidemica, arroganza epistemologica. La quale, in giusto contrasto con la medicale attitudine psichiatrica, predicava una psicoanalisi presunta dura e pura e pertanto gridava al sacrilegio alla sola idea di somministrare degli psicofarmaci ai ragazzini, in ciò certamente corroborata dalla qualità non brillantissima degli interventi biochimici di molti colleghi psichiatri infantili, sia da questa che da quella parte dell’Atlantico… Chi avrà la pazienza sufficiente, leggerà presto un mio articolo dove metterò per iscritto le osservazioni di questi ultimi anni di lavoro, in cui a volte e per periodi limitati prescrivo io stesso psicofarmaci ad alcuni miei pazienti in analisi, bambini e adolescenti. Discuterò in questo prossimo scritto modalità di prassi, implicazioni di transfert, risvolti concernenti l’Ideale dell’Io e quant’altro. Ma ora non è la sede. Valgano dunque per ora solo le considerazioni generali sull’uso analitico, in antitesi a quello terapeutico, di cui penso possano risultare chiari i presupposti epistemologici. Certamente la psicoanalisi non è una psicoterapia, per le sue finalità essenziali di soggettivazione, per il rapporto non utilitaristico del suo sapere con l’amore di transfert, per il suo lavorare nella parola e nella Infanzia e adolescenza 152 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni capacità di torsione del simbolico sugli assetti fondamentali del Sé. Non potendo forse trovare l’ardire di dimetterci in massa dagli Ordini professionali che ci incatenano in modo così ecclesiale, o di chiudere le nostre Scuole di Psicoterapia che la Legge — mettendoci paura — anni or sono ci ha obbligato ad aprire, almeno dovremmo sempre tener presente e anche domandarci come mai è così facile scordarlo, che il miglioramento e la modificazione del sintomo (che spesso d’altronde se vuole si modifica da sé e poi ritorna al punto d’inizio) sono effetti collaterali di quella che dovrebbe essere solamente cura della soggettività. Fuori da qualunque prospettiva scientista. O di adattamento sociale. D’altronde però nessuno più degli analisti dell’infanzia sa cos’è la pressione collettiva a ripristinare o creare un funzionamento che appaia a sufficienza adeguato, silenziato, normotico. Una pressione molto maggiore di quella che si esercita ai bordi dell’analisi di un adulto e che di sicuro in noialtri attiva difese (anzi, concretisticamente, meccanismi di difesa) non voglio dire ubiquitari ma certamente ben solidamente diffusi in alcune rinomate parrocchie di analisti dell’età evolutiva. Un certo ordine di concatenazioni difensive occorre più di sovente. Se la difesa contro la pressione normalizzante non è in modo palese quella della codardia non pensante, che di fatto lascia con sottile razzismo ai cattivi organicisti l’onere di medicalizzare gli scarti del mondo privandoli — per definizione — di mente e di soggettività, resta sempre a disposizione l’onnipotenza psicoanalitica, che d’altronde sul terreno di quella stessa codardia trova fertile humus. Ecco dunque enfiarsi l’arroccamento in una presunta purezza del metodo, fatto che ovviamente ha per tradizione visto gli psicofarmaci dati ai bambini come fossero la peste, malamente usando un giusto senso di scandalo. Mescolandosi a questo stream difen- 153 La corsa del Bambino Ombra sivo, si somma poi l’illusione, a un tempo grossolanamente psico-terapeutica e insieme del tutto onnipotente, che qualunque condizione sindromica del bambino possa essere affrontabile con metodo analitico — purché altissimo purissimo durissimo — a prescindere dalla possibilità realistica di soggettivazione consentita dall’intensità e dalla pervasività del sintomo. Ciò crea l’analista infantile donchisciotte. Per solito si tratta di impavidi professionisti d’ambo i sessi, spesso ma non solo d’imprinting anglosassone (absit iniuria verbis!), goffamente identificati con gli o le ancestors più sacerdotali che la storia del movimento psicoanalitico possa vantare. Il lettore non si rassicuri, poiché le specie in questione non smettono di clonare, forti di solidissime e rinomate Istituzioni. E dunque mi spezzo ma non mi piego. Anzi il ragazzino violento, succulento bocconcino, fa l’analista ancor più gorettianamente eroico e verginale martire e ne esalta il senso d’un fallico incedere per le vie dell’umana disgrazia e dell’assoluto narcisistico. Sia perciò ben inteso. Nella remota vicenda di cui sto narrando, assolutamente nessuno poteva dirsi bastevolmente sano. Ed è da qui che si ha da partire per riflettere, per non perpetuare errori nefasti. La famiglia di X-CHILD si vergogna di lui. Da sempre. Niente relazioni con le famiglie degli altri bambini della scuola. Si sa che loro lo vorrebbero morto o almeno molto ma molto lontano. Niente amici, né per sé né per il loro figlio. Niente gruppo. Dei gruppi essi sono l’espulso. Nessuno ha voglia di frequentare casa loro. È un’esperienza estenuante. Il padre scappa e si rifugia al lavoro. Dove nessuno sa chi sia suo figlio. Preferisce tacere. La madre va alla chetichella dal parrucchiere o al supermercato e si accorge che chi ormai la conosce la evita e tira un sospiro di sollievo quando si accorge che X-CHILD non è con lei. Perché X-CHILD al su- Infanzia e adolescenza 154 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni permercato urla, corre, ride convulso, fa gli sberleffi alle cassiere, tira giù la roba dagli scaffali, ricatta la madre fino allo sfinimento. Niente tram o autobus. Anche per venire da me ci vuole l’auto. Grossa auto fallica. Molto visibile per nascondersi meglio. Ma anche perché deve essere attrezzata con ogni sorta di intrattenimenti elettronici per tenere occupata la piccola serpe. Altrimenti a ogni stop lui apre la portiera e bisogna inseguirlo nel traffico. E a Milano non è attività che possa dirsi salubre. Subito la dolce creatura scopre che vicino a me c’è un negozio di articoli sportivi. Ricatta la mamma e spesso riesce a farsi comprare costosissime magliette di calciatori. Sono quelle ufficiali e costano un patrimonio. Madre svenata. Ma si vergogna della sue urla. E compra. Papà non lo accompagna quasi mai da me, si vergogna troppo degli sguardi dei passanti che dopo un po’ lo riconoscerebbero mentre aspetta sotto al mio studio. I miei vicini e i negozianti limitrofi che mi conoscono da anni e ne hanno viste sentite e odorate di ogni sorta, un po’ sgomenti mi chiedono… “ ma chi è quello lì?” col tono di chi vuol sapere quando la cura comincerà a funzionare. Il pizzicagnolo quasi perde la sua usuale cortesia. Il barista di fronte suda più del solito e nasconde le sue bambine e l’algida moglie che fa la maestra d’asilo. L’ottico, che già a suo tempo se l’era presa coi marocchini, so che medita azioni inconfessabili. Pochi metri più in là, il formaggiaio — minoranza silenziosa — pare l’unico indifferente, avvolto com’è dai suoi effluvi. Io sorrido, copro la mia vergogna arrampicandomi maldestro su uno scivoloso eroismo. Terapeuta in gelida trincea con scarpe di cartone. Analista morto. Qui giace… La mia via diventa — come un microcosmo — la rappresentazione in sedicesimo di tutta una società sen- 155 La corsa del Bambino Ombra za mente materna. Dunque senza principio paterno nella madre. Non sappiamo più pensare. Non sappiamo più dar senso all’esperienza. Nutrire e delimitare. Travolti da fatti insensati e da movimento rapido. Solo desiderosi d’espulsione. Kaputt. Simboli perduti. Archetipi in rotta. Bambini senza futuro, travolti dal momentaneo. Ombra. X-CHILD potrebbe essere un extra-comunitario, certamente è già extra rispetto alla comunità della pensabilità e della significazione dell’esperienza, esattamente come un magrebino spacciatore o un albanese stupratore, o come un cinese schiavo e schiavista di quelli che puzzano d’aglio fabbricando paccottiglia in fetidi e affollati scantinati, o come una puttana senegalese con il fondotinta bianco spalmato sulla faccia per cacciar via gli spiriti maligni e con loro magari anche l’AIDS. Noi invece gli extra li produciamo così, belli biondi occhi azzurri viso d’angelo ben nutriti e firmati. XTRA-NOI. Il nostro grave e insoluto problema è però che questi extra nostrani dal punto di vista delle relazioni sociali sono considerati tali solo per eccesso di quantità, non certamente per difettosa qualità della sostanza. Ed è qui che essi inducono e potenziano la malattia psicoterapeutica della psicoanalisi. Vengo al punto, per tentativi ed approssimazioni. ANTI-SENSO E USUALITÀ DELLA PERVERSIFICAZIONE NELLA CORSA Sotto un profilo strettamente clinico nell’analisi dell’età evolutiva si considera la perversificazione come una complicanza di una certa gravità, tale da rendere la prognosi più incerta, perché allontana di molto un già remoto dolore e una già devastata gioia. Il termine a dire il vero non mi piace, per il troppo gravame moralistico che lo condiziona. Ma alme- Infanzia e adolescenza 156 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni no ci comprendiamo. Con esso non si intende ovviamente un concerto comportamentale relativo alla sessualità palese (peraltro tutt’altro che trascurabile in età evolutiva), ma certamente piuttosto un complesso di qualità di relazioni d’oggetto espresse in sovrastrutture difensive variamente assestate come corazza caratteriale più o meno irrigidita e compatta. Maniacalità, eccitamento, disprezzo e trionfo, diniego e proiezione intensa di sentimenti di vergogna (attinenti al senso del Sé) e di colpa (attinenti alla fantasia intorno all’oggetto) ne sono i principali connotati strutturali. Tentando di articolare. Si tratta di difese essenzialmente maniacali quanto alla negazione della sollecitudine vitale, conservativa e di riparazione verso l’oggetto. L’oggetto viene anzi magicamente ritenuto passibile d’esser riportato in vita, in una integrità tuttavia non soggettivata e che dunque infinite volte ne legittima l’annientamento, infinite volte resuscitato a opera d’un Io onnipotente. Oggetto che dunque interminabilmente può essere ucciso e crudelmente smembrato senza alcun sentore di responsabilità. Vengono in grande aiuto al consolidarsi di questo schema relazionale: lo spostamento e — suo corollario — la promiscuità, intesa come intercambiabilità e sostituibilità veloce dell’oggetto disperso nella molteplicità, prima che si affacci il tempo della consapevolezza sulla sorte dell’oggetto medesimo. Si incanala qui un senso esaltato — dal passo masturbatorio — quasi assoluto e incoercibile di padronanza della vita e della morte, propria e altrui. Luciferino. Ciò per definizione non prevede che dell’Altro — e di sé parimenti — ci si debba occupare e preoccupare, o amorevolmente prender per mano e curare, come occorrerebbe per qualcosa che avendo un valore e una potency non illimitata sia sentito come unico e fragile, prezioso. L’Altro è sovente, e soprattutto nei bambini questo è visibile, equiparato a una parte del corpo, eccitabile all’infinito e indefinita- 157 La corsa del Bambino Ombra mente eccitante. Stimolante un pur precario senso di esserci che — in una dimensione di accecante sensorialità chiusa alla dimensione del simbolico — non colma realmente il vuoto, ma ne annulla la oscura percezione di morte. E più facilmente appare che il fantasma terrifico concerne la morte della Madre, più che — come ad esempio nell’autismo — il liquido sfaldarsi del Sé. Dove dunque la morte del Sé consegue alla morte dell’oggetto. Ciò fa di queste condizioni patologiche un complesso sindromico sostanzialmente e tragicamente anti-depressivo, denso di riverberazioni narcisistiche, fino a divenire ipercineticamente anti-tragico, più che in nuce anti-psicotico. Per quel che ovviamente queste distinzioni possono valere in una situazione dove inevitabilmente si gioca una grandissima e complessa congerie di fattori. Con ogni evidenza il quantum di eccitamento racconta in modo direttamente proporzionale il quale del diniego — inevitabile — dell’amore narcisistico più vivo e dell’amorevole dedizione all’ oggetto. E naturalmente con ciò ogni lutto è fuori dall’orizzonte, per definizione. La vergogna si attiva e si riverbera anche in sostituzione parziale di una colpa non raccolta dalla responsabilità e dunque nutrita per via tutta inconscia. In analogia con gli esiti dell’abuso sessuale nell’infanzia. Perché in comune c’è il disprezzo dell’Altro e di Sé in quanto Altro — per — il — Sé. La complessità tortuosa dei movimenti proiettivi è — insieme alla maniacalità — l’altro tratto saliente delle condizioni che sto cercando di descrivere. Di ambedue vanno ovviamente tenute in conto, come è nel vertice d’osservazione di questo scritto, le risonanze sociali e le fenomenologie culturali, inclusa quella che concerne la psicoanalisi e la sua posizione in riferimento e in opposizione ai metodi, alla prassi e ai fini delle psicoterapie. Come ben descrive la situazione del mio paziente e della sua famiglia l’efficacia espulsiva e negatoria, Infanzia e adolescenza 158 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni quanto alla vergogna, è piuttosto limitata. Fondamentalmente solo X-CHILD, almeno per quel che ho potuto dedurre, era in grado di operare un massiccio diniego del sentimento inconscio di vergogna, legato alla componente nucleare di danno narcisistico, e così pure della colpa, connessa fondamentalmente all’azione sadica di attacco all’oggetto, il quale era sì anche rappresentante del Sé denigrato, ma grazie alla posizione maniacale non era mai percepito in vero pericolo. La promiscuità oggettuale, di per sé molto legata al meccanismo proiettivo, faceva il resto. Al prezzo certamente elevato di non potersi mai fermare, cosa che lo avrebbe messo in contatto con la pena sconfinata della sua colpa e col senso di indegnità e di disvalore, X-CHILD poteva escludersi da ogni percezione soggettiva di dolore mentale. Non così i suoi familiari, marcatamente catturati nelle spire di un pesantissimo Super-Io sociale, che evidentemente oltre che farina del loro sacco era in sopraggiunta appesantito da tutto ciò che era scisso, denegato e proiettato dal loro bambino. Il contesto sociale, scolastico e ambientale in genere, facilmente poteva utilizzare questo bambino e la sua famiglia come rappresentanti per via proiettiva di tutto il male più cupamente incombente. Come la metafora degli extracomunitari mi ha prima aiutato a descrivere. E come la mancanza di mente del contesto delle persone della mia via anche adeguatamente illustra. Come però dicevo il problema di X-CHILD e della amenza sua e del contesto è solo una questione del troppo. Non fa ormai scandalo che condizioni economiche e scadimento delle protezioni sociali, se non ostacolano in modo assoluto la possibilità concreta di scegliere una genitorialità, quanto meno impediscono sempre più pesantemente alle madri una dedizione sufficientemente libera, completa e prolungata ai lo- 159 La corsa del Bambino Ombra ro bambini. L’esempio della società americana è certamente inquietante da questo punto di vista, dove le madri devono tornare al lavoro pochi giorni dopo il parto, altrimenti perdono il posto. Se pensiamo poi alla gran diffusione delle famiglie monogenitoriali, composte da madri abbandonate da uomini in fuga, o da donne che supportate dalla tecnologia mettono al mondo bambini per partenogenesi, con un netto bypass di ogni lavoro di lutto sul loro essere, volenti o nolenti, sole... Se pensiamo al crescere progressivo di sacche di povertà che costringono uomini e donne al lavoro della sopravvivenza nell’occidente opulento… se pensiamo a questo e ad altro ancora, non possiamo non verificare l’incedere di una sindrome collettiva da deprivazione di mente materna. E non parliamo solo di donne che — per emancipazione o per miseria — abdicano giocoforza alla più tradizionale delle funzioni d’accudimento, da sempre a ciò preposte. Non parliamo solo di uomini lontani e non cresciuti, per connaturata povertà d’animo e materiale indigenza. Parliamo di mondo. Mondo non dedicato alla cura dei propri piccoli. Mondo certo fatto da quegli uomini e quelle donne, ma che quegli uomini e quelle donne ormai trascende e plasma a un affrettato procedere di miseria consumante. Uomini e donne, coi loro cuccioli, s’ammalano così di vergogna e di indegnità. Stuprandosi e comprandosi. Vendendosi e ridendosi addosso. Scambiando per libertà la coazione a dire di sì. Facendosi cristianamente fedeli alla centralità della colpa per non farsi responsabili delle loro colpe. O consapevoli di quelle altrui. Vittime per godimento e per immediata disponibilità di vendetta. Illusi di innocenza per oblio e per diniego e non più innocenti per precristiana disposizione d’animo. Imperdonabili campioni di facile perdono. Se guardiamo attentamente i nostri bambini comprendiamo una legge non scritta. Infanzia e adolescenza 160 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni Irridere e non sorridere. Deridere e non gioire. Correre per non patire. Basta non esagerare, facendo sì che sia sufficiente il non eccedere i limiti d’un adattamento al non pensare innocuo. Il problema di X-CHILD è solo che esagera. Nessuno domanda il senso del suo essere così. Nessuno si preoccupa che il suo essere soggetto s’è già forse perso per sempre, senza rimedio. A nessuno importa che coi suoi genitori faccia gruppo di marginali ben vestiti e danarosi, più soli che se fossero appestati. Basterebbe solo che urlasse di meno, che corresse di meno, che non tirasse giù le cose dagli scaffali. Che non facesse tutto quel casino in strada e a scuola, che non toccasse il culo alle vecchiette e non facesse il verso al suo analista… Godesse pure del suo forsennato consumo d’oggetti, ma con un po’ più di discrezione! Si eccitasse pure a trionfare annichilendo la dignità di chiunque per non sentire la propria miseria, eiaculasse pure mietendo vittime per affermare l’illusione del proprio potere!... ma per dio! Con un po’ più di creanza! Un po’ più di misura! … diverrebbe un uomo di successo, magari in politica… e poi… è così bello…! Non è per questo in fondo che lo mandiamo in Terapia? E non è forse che perversione e perversificazione — come io stesso ho prima adombrato — diventano e vengono considerati sempre meno termini politically correct? Qual è allora il nostro orizzonte del legittimo oltre le strettoie moralistiche? A che punto e su che cosa occorrerebbe opporre politicamente qualche scomodo no? PSICOANALISI E DERIVA TERAPEUTICA. CONCLUSIONI DI FEDE Non voglio qui certamente approfondire una que- 161 La corsa del Bambino Ombra stione teoreticamente rilevante che in anni recenti sta in modo fecondo occupando la ricerca in ambito junghiano, e che di alcuni fondamenti del pensiero di Jung rappresenta uno sviluppo potenzialmente molto creativo. Il modello dell’Emergente. Trattasi di qualcosa che potrebbe avere importanti ricadute concettuali anche per ciò che riguarda il lavoro coi bambini e gli adolescenti. Non fosse altro perché va oltre al concetto stesso di “sviluppo” e rivisita radicalmente le questioni che hanno a che fare con le concatenazioni causali. Comprese quelle che si rifanno a una qualche sorta di entità causale sovraordinata. Per porre l’accento invece sul declinarsi spontaneo dell’Emergente dal suo sostrato. Dove d’altronde spontaneo non significa che avvenga in automatico o senza interlocuzione e cura. Cura dall’oggetto e dell’oggetto. Non entrerò nel dettaglio della Teoria della Complessità che dell’Emergente è sfondo teorico, dando per scontato che i termini della questione siano almeno a grandi linee — che è poi quello che ci interessa — noti a chi legge. Diamo per scontati i processi neurali — che personalmente da ex medico mi affascinano ma non mi fanno più alcuna simpatia dopo un paio di volte consecutive che ne sento disquisire — sottostanti all’emergere della mente, mente che indichiamo come proprietà sopraveniente non più riducibile alle sue determinanti fisiche. Diamo per ovvio che siamo fatti di materia e che tendiamo ad avere disposizione a diventare qualcosa che non più si identifica o si riduce alla materia. Con ciò decido: di materia facciamo a meno nel discorso successivo, non essendomi più di alcuna utilità euristica. L’Emergente — così parrebbe — opera su una linea di confine tra l’ordine e il caos, e caos ha da intendersi non già come un random disordinato e senza costrutto bensì come una complessità non decifrabile. Infanzia e adolescenza 162 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni E che tale speriamo resti per sempre. Ci piace ritenere insomma che — se non certamente da semplificate e semplicistiche linearità causali — la mente sorga e continuativamente ri-sorga non già da un bugliolo di informi casualità ma da una complessità di cui ci sfuggono contorni e connotati. Intenderei dunque che a questo caos sfuggente e complesso s’attribuisca una potenzialità genetica. È esso da intendersi anche come intonso e puro? Perché il caos del mio paziente prima descritto, e quello della sua famiglia e del suo contesto sociale (incluso quello dei miei vicini di casa) certamente non aveva nulla di puro e di intonso, essendo anzi il risultato d’una specie di primigenia calata dei lanzichenecchi, e certamente non mostrava più d’avere alcun germe di potenzialità generativa, come dimostra il fatto che da quella cura analitica non è effettivamente emerso un bel niente. Non certamente e non solo improbabili soluzioni, ma nemmeno — secondo quello che forse sarebbe il realistico ammonimento di Jung — un accettabile outgrown. Così è avvenuto a causa dell’impurità di quel caos? O un altro e generativo caos s’è asfissiato cammin facendo, anzi cammin correndo, e l’abbiamo così perduto? Resistenza globale nei confronti di un introvabile potenziale? Cecità di transfert? Atto di parola senza bersaglio? O parola moscia? Si dice che l’amplificazione si pone su quel bordo a stimolare l’Emergente. Rilevante punto, io credo. Se infatti l’amplificazione, intesa come cura nella parola, non è una ipnopompica conferenza in miniatura, ma un fare ampio ciò che ormai tenderebbe a rinsecchire e contrarsi nell’anidra assenza di senso… Se non abbiamo forme ereditate in dizionari pletorici di noiose simboliche, ma tracce di disposizioni all’incontro che la parola muta in senso e forma utilizzabili… se dunque amplificare nutre l’Emergente e gli dà spazio… se parimenti il libero associare non si identifica col ridurre ma con l’aprire e se l’interpretare fonda 163 La corsa del Bambino Ombra nuove identificazioni e non solo svela antefatti… e se e se… allora questo malanno ipercinetico è anti-amplificante, anti-parola, e come tale anti-Emergente. L’archetipo, traccia senza rappresentazione delle disposizioni innate poste al nucleo della formazione complessuale, perde l’incontro con la parola che lo renderebbe Emergente, discorso, sul bordo estremo del caos. Malanno — di moltiplicazione in moltiplicazione e di corsa in corsa — non più stigma di quella donna e di quell’uomo e di quel loro bambino. Ma di un mondo oltre a loro e di ogni bambino X figlio di quel mondo. Malanno adatto alle psicoterapie, figlie o sorelle bastarde della psicoanalisi. Adatto agli agiti terapeutici e ammutolenti la parola del sintomo. E alla loro coatta velocità. E al loro sapere utilitaristico. Per far godere e godersi il guarire come piacevolissimo sovrappiù dell’esperienza psicoanalitica occorre — da parte nostra — nuovamente abbandonare il furor sanandi da cui già Freud metteva in guardia e — nonostante ciò dovrebbe essere del tutto assimilato nella prassi analitica da più di cent’anni — cominciare a riconsiderare con rinnovato e laico rigore la differenza lenta tra benessere e adeguato funzionare. Soprattutto nella cura psicoanalitica dei bambini e degli adolescenti. Che dovrebbe essere la meno psicoterapeutica di tutte le cure. Lasciando le psicoterapie a chi ormai ha poco o malamente da vivere. È affare di fede? E in che misura? Confesserò a chi non mi conosce personalmente che il termine mi genera immediati e fastidiosi pomfi orticarioidi della mente, per remote ragioni personalissime che certo non interessano a nessuno. Ma tuttavia il termine tende ad imporsi. Fede in O, come diceva Bion? Nell’irraggiungibilità della cosa in sé? Nella sua potenzialità generativa non riducibile? Fede nella natura poietica dell’inconscio? Fede nel bordo sottile tra caos e ordine dove l’E- Infanzia e adolescenza 164 Infanzia e adolescenza Francesco Bisagni mergente, sincronicamente, si palesa? O fede nei bambini? Nelle loro madri e nei loro padri, quando fortuitamente sovvertono un destino di velocità? Purché mi si lasci la libertà laica di non infilare subdolamente una qualsiasi mistica psicoanalitica, che trovo bastarda quanto la deriva psicoterapeutica e che di questa rappresenta il limitare difensivo e la buia anticamera, son disposto a dirmi uomo di fede. Fede che pone il sapere e il transfert in un rapporto di reciproca e non addomesticata verità e di produzione di effetti inattesi. Fede che possano esserci bambini e bambine, donne e uomini sovvertiti che — fattisi responsabili e gioiosi, non più comprati e non più venduti, non più irridenti ed irrisi, innocenti e non più facilmente perdonati — non debbano un giorno aver più nulla di cui vergognarsi. 165 La corsa del Bambino Ombra Infanzia e adolescenza Abstract The paper offers some theoretical and clinical reflections on children affected by ADHD as a stimulus to consider what may be defined as a deficit in the symbolizing capacity in contemporary western societies. ADHD are commonly based on deprivative-depressive backgrounds, less frequently are connected to psychotic structures. In psychiatric terms ADHD could be defined as a mono-polar manic syndrome where biological and psychological elements are aetiologically intertwined. Social and cultural components are also involved in a very complex way, considering what I elsewhere defined a “society without a maternal mind” where the function of containment is dramatically threatened. Among many aspects involved, which have a narcissistic quality, these children suffer a deep experience of shame and a weak sense of dignity and legitimacy to live. Shame is commonly denied through manic mechanisms and in many ways split off and projected. In this way no dawn of responsibility and guilt is made possible, symmetrically to what seems to be the social functioning. Socially hyperkinesias is regarded as tolerable insofar as it does not exceed certain limits of adaptation, and remains within the boundaries of “innocuous” non-thinking. I define these children “shadow children”, as representative of a suffocated subjectivity. A clinical example is described in the paper, taken from the analytic treatment of a latency child. 167 Infanzia e adolescenza La vergogna nel transfert/ controtransfert Intendo il lavoro analitico come lo svolgersi di un processo che riguarda il paziente e l’analista, in una relazione di cui ci interessa soprattutto il livello inconscio. Jung ha parlato della necessità di infezione psichica in un processo che si svolga in un “vas bene clausum”; Fordham ha lavorato molto sulla interazione analitica, Bion ha esaltato l’importanza di essere nella relazione focalizzando l’attenzione sulla relazione contenitore-contenuto, la reverie, l’assenza di memoria e desiderio, per poter analizzare la relazione inconscia che si verifica nel “campo”, concetto quest’ultimo introdotto da tempo dai Baranger. E un po’ tutte le teorie psicodinamiche mettono in risalto l’importanza della relazione: ma è diverso il modo in cui essa viene definita e secondo quale vertice di osservazione viene analizzata. In questo lavoro cercherò di mettere in evidenza l’influenza reciproca inconscia tra paziente e terapeuta. Porterò un contributo clinico per stimolare la riflessione sulle difficoltà controtransferali che si attivano e che impediscono al terapeuta di essere in sintonia con il paziente, poterlo comprendere e, come dice Fordham, restituirgli quello che abbiamo capito di lui. In particolare, attraverso un esempio clinico, proverò a evidenziare la difficoltà di empatizzare dell’analista su un sentimento di vergogna della paziente. Utilizzando, per quanto è possibile in uno scritto, la riflessione sui miei sentimenti controtransferali, cercherò di mettere in rilievo i motivi più o meno inconsci di questa difficoltà. Penso che possa risultare piuttosto facile provare sentimenti concordanti con lo stato d’animo dei pazienti in occasione di eventi gravi come un lutto importante, mentre può non risultare facile empatizzare con la disperazione di un paziente per la perdita di un oggetto cui era affezionato, ma che per è noi banale, o per un’evenienza della vita, per noi poco significativa, con il relativo sentimento di vergogna che Gianni Nagliero 168 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero si prova, come succede con la paziente nell’esempio clinico che presenterò a breve. Ho pensato cioè di concentrare l’attenzione sulla difficoltà dell’analista a empatizzare con aspetti che non lo coinvolgono più di tanto e che non suscitano, all’apparenza, un particolare interesse in lui stesso. Scrivere sul controtransfert ha sempre presentato una certa difficoltà per gli analisti e solo relativamente tardi, rispetto alla nascita della psicoanalisi, essi hanno cercato di osservare e poi riferire anche questi fenomeni così importanti, anzi determinanti, nello sviluppo della relazione analitica. Ma scrivere sul controtransfert presenta indubbiamente alcuni problemi legati al rendere pubbliche le difficoltà che noi incontriamo nel lavoro che facciamo. Spesso si dice che non possiamo parlare di noi stessi per non danneggiare proprio i pazienti: essi perderebbero fiducia in noi come persone, avrebbero difficoltà a vivere un certo e giusto livello di idealizzazione del terapeuta che consenta loro di affidarsi con sicurezza all’altro (di solito come prima fase dell’analisi). E questo può essere vero. Ma spesso la difficoltà a scrivere sul controtransfert è legata alla vergogna che si prova nel mostrare le proprie lacune e i propri errori. Il processo analitico non potrebbe andare avanti, però, se non ci fossero difficoltà ed errori, perché è attraverso essi che si procede, sia da parte del paziente che dell’analista, nella conoscenza di se stessi. L’analista dovrebbe cercare di non farsi trascinare dai modelli dominanti di perfezione, e dunque dovrebbe poter rinunciare alla gratificazione narcisistica onnipotente, insita nel sentirsi considerato perfetto dal paziente. Così l’idealizzazione potrebbe essere rivolta ad altri aspetti, quali l’umiltà di accettare i propri limiti e di riparare. Tutti abbiamo difficoltà a guardare i nostri aspetti controtransferali, abbiamo difficoltà a prendere coscienza delle nostre carenze o abbiamo resistenze a vedere tratti particolari della nostra personalità che 169 La vergogna nel transfert/controtransfert sono sollecitati a emergere proprio nella relazione con un dato paziente. Ma analizzare queste difficoltà è una parte essenziale del lavoro analitico, inteso come lavoro relazionale di cui ho parlato poco sopra. Definiamo questo indispensabile lavoro come autonalisi, perché è un lavoro che facciamo con noi stessi, che non prevede alcuna necessità di mostrare ad altri le nostre difficoltà e i nostri errori, i punti ciechi che compaiono nel campo terapeutico. Ma anche l’autoanalisi deve superare il sentimento di vergogna davanti a se stessi, ad altre parti di noi stessi, verso cui possiamo provare un vero e proprio senso di vergogna. Come si può parlare di invidia di se stessi, così penso si possa parlare di vergogna di fronte a se stessi. È questo tipo di “vergogna intrapsichica” che può essere stata importante nel causare una certa difficoltà a scrivere sul controtransfert, più che la vergogna nei confronti degli altri. Cercando di dosare le rivelazioni dei problemi controtransferali limitandole a quelle che possano avere un’utilità per il lavoro dei colleghi, farò delle riflessioni su un caso clinico, fermandomi di tanto in tanto a fare le mie considerazioni teoriche. ESEMPIO CLINICO Quasi tutti gli elementi dell’esempio, che risale ai primi anni della mia attività come analista qualificato, sono stati cambiati per rendere non identificabile la persona di cui parlo. Caterina, la giovane donna, che all’epoca di Dante sarebbe stata a metà del cammino della vita, mi fu inviata da un collega psichiatra per una analisi. Dopo la fine del primo incontro, nella sala di attesa, dove C. è rimasta prima di iniziare, notai un libro degli animali, (che tenevo soprattutto per eventuali attese di bambini), lasciato aperto alla pagina in cui era illustrata una coccinella, quella rossa a punti- Infanzia e adolescenza 170 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero ni bianchi. Poco più avanti nella terapia pensai, non senza qualche preoccupazione, che quell’insetto fosse un po’ l’autopresentazione della paziente: un interno fragile protetto da una piccola corazza dai colori vivaci e attraenti. La domanda di terapia, emersa nella paziente per una situazione di sofferenza ormai datata, era ambivalente, tra il desiderio di stare genericamente meglio e lenire gli stati di angoscia di cui soffriva, e la paura che analizzarsi significasse rompere il rigido involucro protettivo e mostrare il fragile suo mondo interno. E questo ovviamente non era poi tanto lontano dal vero. Ma le prime relazioni con la madre, intrise di sfiducia e mancanza di contenimento (o, per chi preferisce questo linguaggio, l’attaccamento disturbato e ambivalente che aveva avuto), l’avevano lasciata in uno stato di costante allarme di fronte alla possibilità di essere aiutata dall’altro. Dopo qualche mese di analisi affermò di aver sempre pensato che sua madre non era stata una buona madre. Ed era così che spesso mi sentivo nel transfert/controtransfert. Ma la richiesta di analisi, pensata da tempo e dopo una esperienza interrotta precocemente, era pressante e questo le rese possibile iniziare a venire. Il lavoro analitico era pieno di aspettative basate, per così dire, sulla fantasia riparativa che si potesse ricreare un ambiente primario di accoglienza e contenimento, annullando magicamente ogni ferita narcisistica. Anche le comunicazioni inconsce e i sogni parlavano di fantasie di una nuova nascita. Ma spesso affioravano prepotenti fantasie fusionali e desideri infantili di presa in carico totale. Fantasie che, nella mia rilettura del caso, mi avevano spaventato non poco, soprattutto per l’intensità estrema di tali vissuti, del tipo tutto o nulla, e dunque con scarsa possibilità di elaborazione. Nel controtransfert l’analista passava dall’impersonare il ruolo di un genitore totalmente buono e accogliente, come se la paziente fosse nei suoi primi mesi di vita, al rifiuto di questo ruolo, pas- 171 La vergogna nel transfert/controtransfert sando a una vera e propria attrazione erotica. Nel gioco delle identificazioni e controidentificazioni cioè si era sempre agli estremi, e analista e paziente potevano facilmente passare dal sentirsi in una relazione arcaica fusionale a una relazione adulta erotizzata. Nel primo anno di terapia le comunicazioni della paziente consistevano, il più delle volte, in richieste di ottenere gratificazioni, attraverso la pressione sull’analista ad agire, a fare variazioni di setting a volte insignificanti e banali, altre volte più significative: dallo spostamento di pochi minuti dell’ora della seduta, alle richieste di un parere esplicito su un quesito di dubbia importanza o alle fantasie di essere consolata e abbracciata. Per il tema che stiamo trattando in questo lavoro, è interessante notare che, fin dai primi mesi di terapia (durata complessivamente tre anni), iniziarono a emergere delle paure di essere capita troppo in profondità: da una parte C. sognava molto, raccontava i suoi sogni ma dall’altra aveva paura di scriverli e associare perché, riferì più volte, pensava che dallo scritto e dalle associazioni io potessi capire chissà quali aspetti nascosti di sé, di cui si vergognava. Dopo aver raccontato un sogno o un evento si fermava e mi chiedeva cosa ne pensassi, temendo il mio giudizio negativo. Anche la sua postura sul lettino rivelava entrambi gli aspetti: la sua fragilità e il bisogno di contenimento, quando si metteva spesso su un fianco in posizione quasi fetale, nei momenti di maggiore regressione; o il suo bisogno di essere apprezzata come donna e di sedurre l’uomo, segnalati dal tipo di abbigliamento o dalla postura seducente. Ho sempre pensato a una grande ferita narcisistica precoce, di cui C. si vergognava con se stessa oltre che con l’altro, che aveva portato la paziente a cercare di proteggere un suo fragile mondo interno, limitando sempre più le sue relazioni significative. La scelta di venire in analisi costituiva un fatto nuovo Infanzia e adolescenza 172 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero che mostrava anche l’attivazione del desiderio di una relazione importante e il coraggio di mostrare all’altro le proprie mancanze per arrivare a mostrarle a se stessa, ossia a prenderne coscienza. Dopo pochi mesi di analisi iniziò a dirmi di avere delle cose importanti da dire ma che, allo stesso tempo, non riusciva a dirmele perché se ne vergognava moltissimo. Si era in un periodo in cui i temi delle sedute riguardavano alternativamente la relazione da adulta con l’analista o le prime difficili relazioni della sua prima infanzia. Anche nei sogni la figura dell’analista compariva in vari modi e i toni del controtransfert, come ho detto, dal paterno-materno all’erotico. Dopo più di un anno di terapia ipotizzerò che il transfert/controtransfert erotico fosse, in qualche modo, un compenso, una sorta di riparazione al vissuto di grande fragilità e insicurezza. Ma mi sembra anche che fosse un modo inconscio, messo in atto dalla parti distruttive della paziente e dell’analista (sia come aspetti personali che come proiezioni e identificazioni proiettive) per rendere inefficace il cammino dell’analisi. Ipotizzerò anche che proprio lo sforzo e il lavoro di contenimento e autocontenimento, quel lento, ripetitivo e a volte noioso lavoro di ruminazione o digestione, abbia poi incoraggiato la paziente, a “tirare fuori” anche per se stessa i ricordi traumatici della sua infanzia. Cosa che fino a quel momento era stata piuttosto difficile per lei (e che resterà in qualche modo sempre problematica). Ma, dicevo, le “resistenze” al progresso nell’analisi erano sempre attive e quando poi la paziente iniziò a ipotizzare di interrompere l’analisi chiedendo al terapeuta l’indicazione di un’analista donna con cui poter riuscire a confidarsi, l’analista pensò a eventi, più o meno traumatici, connessi con la sessualità. D’altra parte poco prima e in varie circostanze C. aveva parlato della sua grande difficoltà a parlare di suo padre. “Non ho capito perché ho tanta paura di 173 La vergogna nel transfert/controtransfert parlarne… ma forse lo saprò dopo”. E la seduta seguente esordisce con: “Sono venuta con l’intenzione di parlare di mio padre… sì… avrei dovuto dirle qualcosa anche l’altra volta… solo che non mi viene naturale… credo di essermi imposta di dirle questo l’altra volta… c’erano delle cose che volevo dirle e non ci sono riuscita… e su questo rapporto con mio padre ho pensato un pochino in questi giorni”. Ma poco dopo aggiunge: “Non credo di avere dei ricordi”. Come è mia prassi considero le comunicazioni della paziente come derivati che hanno certamente a che vedere con il rapporto con me. Cerco dunque di arrivare a capire il senso di tali comunicazioni, e in particolare il tipo di rapporto da lei descritto come un derivato del rapporto che si svolge tra noi in seduta. Ipotizzo dunque che lei stia parlando anche delle difficoltà di parlare e vivere il rapporto con me, o il rapporto della sua parte bambina e regredita con un padre da cui è attratta e con cui non riesce a sentirsi sicura e ad avere fiducia. Ipotizzo anche, e ne farò qualche cenno più avanti, che i miei problemi controtransferali nell’accettare questo tipo di relazione primaria, possano aver inciso significativamente sulle difficoltà di C. a comunicare il suo “segreto”. Nonostante tutte queste difficoltà, Caterina continuava a venire e iniziava a portare nuovo materiale, in particolare iniziava a parlare sempre di più del suo desiderio di relazione con me o a esternare vissuti di transfert negativo nei miei riguardi, e, anche se in modi piuttosto riservati e inibiti, delle sue esperienze sessuali. Aumentarono anche, come abbiamo visto nelle sue frasi, gli accenni al “segreto” che la paziente avrebbe voluto rivelare, anche per liberarsi dal suo peso angosciante, ma di cui continuava a vergognarsi enormemente. A parte altre considerazioni sul controtransfert, i suoi accenni al segreto fatti in coincidenza con gli accenni alle difficoltà di parlare della relazione con suo padre, mi portavano a ipotizzare una relazione Infanzia e adolescenza 174 Infanzia e adolescenza 1. Ritengo che ci sia stata anche una “ipersensibilizzazione”, a volte interessata a creare spazi di potere, a scapito proprio dei pazienti. Vedi il mio lavoro: “Ascolto del bambino abusato: tra necessità legali e bisogni terapeutici”, Psicoanalisi e Metodo, Ed. ETS, Pisa, 2004. 2. J. Herzog (1984), “Fathers and young children: fathering daughters and fathering sons”. In: J. D. Call, E. Galenson, R. Tyson (a cura di), Foundations of Infant Psychatry. Basic Books, N.Y., vol. 2, pp. 335-343. Le citazioni sono da S. Akhtar, “Le prime relazioni e la loro interiorizzazione”, in Ethel S. Person, Arnold M.Cooper, Glen O. Gabbare (a cura di) Psicoanalisi, R. Cortina, Milano, 2006. Gianni Nagliero incestuosa. Si era anche nel periodo in cui si parlava molto di abusi sessuali e non escludo che anche questa sorta di pressione sociale a rilevare gli abusi subiti dai pazienti possa avermi “sensibilizzato” a tenere presenti questi aspetti.1 Fatto sta che quando la paziente diceva: “ci sono cose che non riesco a dirle…” oppure: “ho paura di quello che lei possa pensare… “forse è il caso che io non venga più… perché penso che certe cose non riuscirò mai a dirgliele… forse fra un po’ di tempo ci riuscirò… magari con un’analista donna”, io pensavo proprio a un incesto o a una violenza sessuale. Vorrei interrompere l’esposizione del caso e mettere in evidenza due aspetti che emergono in questa prima parte di materiale clinico. Nella riflessione sul mio percorso analitico con C., ho molto riflettuto sulla particolare natura della nostra relazione transferale/controtransferale e, come è mia prassi, ho cercato di non attribuire solo al paziente o solo all’analista le difficoltà, le mancanze o anche i buoni risultati di un lavoro analitico. Ed è in questo senso che espongo le mie considerazioni seguenti. La prima considerazione riguarda l’intensa pressione cui venivo sottoposto nel controtransfert, pressione di cui mi renderò più conto a posteriori, quando rivedrò le sedute. Mi sembra che tale pressione sollecitava un mio comportamento, frequente nei rapporti tra padre e figlio, descritto da Herzog,2 che ha studiato la differenza tra la sintonizzazione della madre con il bambino rispetto a quella del padre. Le considerazioni che sto per fare non sono forse del tutto appropriate alla teoria e prassi analitica: devo dire che non ci ho riflettuto molto, ma sono stato molto interessato a esse perché mi hanno consentito di osservare, da un vertice particolare, quello che accadeva nella relazione con Caterina. Ovviamente in questa sede farò solo alcuni accenni che però posso- 175 La vergogna nel transfert/controtransfert no permetterci di ipotizzare alcune conclusioni sul perché della vergogna e sul senso che essa assume nella particolare relazione transferale/controtransferale con me. Dunque Herzog distingue l’interazione madrebambino come favorente la continuità del gioco del bambino (“sintonizzazione omeostatica”), mentre quella padre-bambino (quando non è presente la madre), come rottura rispetto al gioco (“sintonizzazione dirompente”). La prima alimenta il senso di sé del bambino, la sua sicurezza di trovare una conferma nella madre, la seconda proietta il bambino fuori dal rapporto primario per aprirsi a nuove esperienze, ma interrompe il tema del gioco del bambino. Mi ricorda il discorso di Fordham3 che ipotizza, fin dai primi momenti di vita, una dinamica deintegrativa, che permette al bambino l’incontro con il mondo fuori di sé e dunque anche nuove esperienze, e una dinamica reintegrativa, (l’allattamento ne è il tipico esempio) in cui il bambino si rassicura e si contiene nel rapporto con la madre. Sappiamo che entrambi questi aspetti sono necessari per un sano sviluppo del bambino, ma dobbiamo considerare come tempi e modi del loro accadere, possano definire, in senso positivo o negativo, l’uno o l’altro. Nel caso della mia paziente ho realizzato che quando lei portava comunicazioni o richieste di contenimento primario, e si aspettava una risposta di sintonizzazione omeostatica che servisse a confermarle la presenza di un ambiente materno contenente, l’analista operava, attraverso domande, commenti o interpretazioni, una sorta di “sintonizzazione dirompente”. Questo fatto portava la paziente a cambiare argomento, a non poter sperimentare un senso di sicurezza infantile che le permettesse di rivelare i suoi segreti senza paura di essere svalutata, ferita. Anzi, nel momento in cui l’analista proponeva un cambiamento di campo, lei probabilmente sentiva non confermati proprio Infanzia e adolescenza 3. M. Fordham, “Integration-Deintegration in infancy”, in M. Fordham et al (Edited by), Exploration into the self, Vol. 7, The library of analytical psychology, Academic Press, London, 1985. 176 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero i suoi bisogni primari e non poteva rivelare il suo segreto a una persona percepita come inaffidabile. Ma, come quasi sempre fanno i pazienti, la responsabilità di queste difficoltà nella relazione, veniva attribuita esclusivamente a se stessa, alimentando ulteriormente il proprio senso di insicurezza e di colpa e la vergogna di fronte all’altro. Per sintetizzare quanto detto mi sembra che non riuscissi a comportarmi come analista quanto piuttosto come un padre che sollecita, inconsciamente, la figlia, a “cambiare gioco”, a cambiare argomento per non restare in quello, angosciante, che propone lei. Vedremo più avanti, dopo aver svelato il segreto, quali aspetti della relazione controtransferale potessero essere la causa di questa difficoltà della paziente ad affidarsi all’altro. Quando Fordham descrive l’analista come “non umano” penso intenda esattamente questo: riuscire a restare nella dimensione analitica e non farsi trascinare nelle relazioni e nelle modalità di comportamento umane. Nella vita normalmente cerchiamo di evitare l’angoscia, nell’analisi cerchiamo di tollerarla e coglierne il senso. Torneremo su questo. Il secondo aspetto che vorrei enfatizzare, prima di riprendere la illustrazione del caso, riguarda la reazione inconscia dell’analista al vissuto della paziente sul segreto, ossia la possibilità o meno di essere sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda del paziente. Qui vorrei tornare a segnalare che la “non umanità” dell’analista è forse quello che permette di poter comprendere l’imbarazzo, il dolore mentale della paziente e, dunque, come proprio questa caratteristica di reagire non umanamente può permettere all’analista di comprendere a fondo la vergogna della paziente. Non si tratta di una contraddizione in termini o di un facile gioco di parole; sono convinto che l’affermazione di Fordham, non accattivante al primo impatto, rappresenti invece una chiave importante di lettura del modello di relazione analitica; e in parti- 177 La vergogna nel transfert/controtransfert colare offra un parametro importante di valutazione delle nostre reazioni nel campo terapeutico. Credo che Fordham voglia mettere in evidenza la contraddizione tra la modalità umana di fare l’analista (dove per umano intendo la reazione spontanea di un essere umano di fronte a un certo evento) e la modalità analitica, l’astinenza e l’importanza data all’elaborazione mentale, piuttosto che all’agire. All’inizio parlavo della facilità con cui si può “empatizzare” con un paziente che ha perduto una persona cara, e della difficoltà che si può avere invece a empatizzare con vissuti più personali, come l’imbarazzo per alcune proprie caratteristiche fisiche che per noi non costituiscono un problema. Penso ad esempio alla difficoltà di condividere il dolore mentale di una ragazza che si vergognava del proprio aspetto fisico e passava ore a nascondere, con un trucco pesantissimo, la propria faccia e le proprie forme definendosi terribilmente brutta e insignificante, quando, “umanamente” mi sembrava invece una ragazza bella e originale. Allora diventa indispensabile, per empatizzare con un vissuto del genere, che il terapeuta cessi di usare i suoi parametri umani di riferimento e indossi i panni dell’analista, di colui che è cioè chiamato a patire, qualitativamente, le stesse angosce della paziente per cogliere il senso inconscio del sentirsi brutta e cercare di andare in fondo a questo sentimento di vergogna e di sofferenza. D’altro canto la relazione analitica e la pratica analitica hanno ben poco di umano: si tratta di una relazione estremamente intima tra due persone che non devono conoscersi, che decidono di vedersi un certo numero di ore a settimana, in una certa stanza, e farsi governare da una serie di regole, chiamate setting, che spesso sono almeno piuttosto strane. È una situazione artificiosa, creata ad hoc, con lo scopo di fare analisi. In una situazione come questa, che penso sia chiara per tutti, non si possono poi avere dei comporta- Infanzia e adolescenza 178 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero menti che rientrano invece nella normalità della vita. Nella vita di tutti i giorni non incontreremo quasi mai qualcuno che ci fa notare di essere arrivati a un appuntamento con due minuti di anticipo o di ritardo, anzi, ci dirà di non preoccuparci, che non è un problema, proprio per evitare il nostro imbarazzo. Saranno in pochi a metterci in condizione di parlare, fin dal primo incontro, di eventi personali dolorosi o scabrosi, ecc. Un analista, invece, dovrà rinunciare a queste consuete modalità di comportamento e cercare di entrare, per quanto possibile, nel mondo poco conosciuto dei sentimenti, delle emozioni, delle reazioni corporee a essi intimamente legate. Tutto ciò, per poter essere intimamente presente al senso di disperazione per la bruttezza (inesistente agli occhi del mondo) di una sua paziente, per ammalarsi, come dice Jung, della stessa malattia di cui soffre la paziente, per cercare di contenere, elaborare, digerire proprio questo tipo di dolore mentale e dargli un senso per arrivare a una restituzione detossificata. Questo tipo di funzione analitica può restare viva solo all’interno di un setting stabile di riferimento. In mancanza di tale stabilità saremmo facilmente portati a comportarci “umanamente”, a dire cose che il senso comune, le convenzioni, i nostri rapporti sociali ci spingono a dire ma che il paziente si sente dire dovunque, e che non gli portano altro giovamento che una consolazione momentanea. Quante volte alla ragazza che si percepiva brutta i parenti, gli amici, gli insegnanti avranno tentato di dire quanto invece era bella? Ma senza risultato alcuno, come quando si sprona una ragazza anoressica a mangiare… Lo scopo del nostro lavoro analitico dunque non è quello di lenire i sentimenti negativi, né tantomeno nasconderli o non prenderli in considerazione. Il setting stabile favorisce proprio l’emergere dei sentimenti negativi perché offre un ambiente contenitivo e sicuro. Ma il setting sicuro, come diceva Michele Pignatelli di Cerchiara scrivendo sulla strutturazione del setting, non 179 La vergogna nel transfert/controtransfert piace a un buon numero di analisti proprio perché favorisce l’emergere di angosce importanti. “Un altro fattore sta nella paura che molti terapeuti provano per le parti più regressive e psicotiche della personalità sia propria che del paziente — parti che emergono soltanto in presenza di una strutturazione del campo sicura e solida, per cui essi inconsciamente tendono ad alterare il campo per evitare tali pericolosi approfondimenti”.4 I pazienti però frequentemente riportano la sensazione di contenimento percepita in un setting stabile mentre, al contrario, riferiscono di non sentirsi sicuri in un setting labile. Un brevissimo flash per chiarire cosa intendo, attraverso le parole di una tardo adolescente. La ragazza, venti anni, al suo primo incontro con me per concordare l’inizio di una psicoterapia analitica, riferì di avere seguito una psicoterapia settimanale presso una ASL, per oltre un anno. Racconta, con un senso di disperazione penosa pur se contenuta, che la precedente terapeuta (una analista qualificata in un’associazione riconosciuta) le dava diverse buche e che, spesso, invece che alle 8.30 la vedeva almeno un quarto d’ora dopo, e lei doveva correre per non far tardi a scuola…e non sapeva mai bene a che ora iniziavano. La percezione di questa ragazza era chiaramente di un contenitore bucato o non stabile, un contenitore che non permetteva di affidarsi e fidarsi. Un contenitore che non le permetteva nemmeno di piangere: “mi scusi se piango”, mi disse in quella stessa occasione, “ma non ne posso fare a meno” e, a fine incontro, mi ringraziò per aver potuto piangere senza che io le dicessi di non farlo, di calmarsi, di stare tranquilla, come faceva la collega… Ma, in oltre un anno di tale terapia, la paziente non aveva mai confidato alla collega, che aveva subito un abuso sessuale intrafamiliare continuo fin dalla tenera età. Perché probabilmente, non aveva mai percepito di essere in una situazione adeguatamente contenente. Infanzia e adolescenza 4. M. Pignatelli di Cerchiara, “L’inizio dell’analisi e la strutturazione del setting”, Dispense dei corsi AIPA, non pubblicate, Roma, 1984. 180 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero Un po’ come la mia paziente Caterina con cui evidentemente non sono riuscito (non siamo riusciti), per un certo tempo, a costruire un ambiente che permettesse la comunicazione del segreto. Dunque man mano che andavamo avanti, sempre più spesso Caterina faceva allusioni a questa cosa bruttissima, di cui si vergognava enormemente, che mai pensava di poter dire ma che, allo stesso tempo, sapeva di dover dire, a me o un’altra ipotetica analista donna. Nonostante cercassi di non far correre la mia fantasia in modo troppo indirizzato, spesso, come ho detto, mi veniva in mente che anche lei avesse subito un abuso sessuale. La rivelazione del segreto avvenne dopo circa due anni dall’inizio della terapia. Con molta sofferenza, lunghe pause, e veramente un grande senso di vergogna e disistima, Caterina mi disse di essere stata bocciata a scuola. Qui vorrei parlare delle possibilità/capacità di empatizzare con eventi che colpiscono in modo diverso l’analista e il paziente. Ho citato altre volte in alcuni seminari questo flash clinico, come esempio per convalidare l’ ipotesi che è la realtà psichica del paziente, non il nostro parere, che conta di più in un lavoro analitico. Per la paziente la bocciatura è “il” trauma, quello che lei ritiene le abbia rovinato la vita. Noi potremmo dire che forse non è proprio così, che la bocciatura ha rappresentato un qualcosa che può aver fatto traboccare il vaso, che alla base dell’angoscia che ha portato la paziente in analisi non può esservi “solo” una bocciatura a scuola....Noi possiamo fare le nostre fantasie e associazioni, ma dobbiamo cercare di capire il senso che hanno per noi, per distinguerlo dal senso che hanno per il paziente. Guardando dentro noi stessi potremo sperare di trovare l’origine delle nostre angosce o dei fattori di evitamento delle angosce che da sempre abbiamo avuto 181 La vergogna nel transfert/controtransfert e che forse abbiamo cercato di negare. La distinzione tra gli aspetti che sono nostri e quelli che sono del paziente è uno dei compiti più difficili dell’analista, proprio perché il lavoro analitico richiede la disponibilità all’infezione psichica, ad ammalarsi della stessa malattia del paziente. Poi dobbiamo però poter distinguere e riconoscere quanto dell’uno e dell’altro ci sia in una data problematica. Dobbiamo essere capaci di attivare una nostra funzione che osserva la relazione analitica anche dal di fuori. Per questo è necessario un lavoro di “controllo” o di supervisione con un collega o anche di autosupervisione. Ma dobbiamo partire dal fatto che noi lavoriamo per aiutare il paziente, e, sebbene il lavoro su noi stessi faccia parte del lavoro analitico, dobbiamo sempre pensare che la realtà psichica di cui tenere primariamente conto, è la sua e non la nostra. Se dunque la mia paziente riferiva di essere angosciata per qualcosa che aveva vergogna a dire, e questo qualcosa era la bocciatura, per me questa deve essere la realtà da cui partire per aiutarla. Se svalutiamo questa realtà della paziente, non facciamo altro che svalutare lei, non facciamo altro che una ulteriore forma di violenza psicologica sulla paziente stessa. Bion dice che “…nella stanza d’analisi per ‘imbarazzo’ si intende dolore mentale”.5 Penso che quando parliamo di vergogna, esprimiamo proprio un imbarazzo per le parti interne di noi che riteniamo più fragili. Anche il termine vergogna, un po’ come “imbarazzo” e un po’ come “ansia”, sono, sempre secondo Bion nello stesso passaggio, svalutati, ritenuti banali, non presi in considerazione. Bion ci segnala che tali termini, nell’uso che ne fanno i pazienti, assurgono a un ruolo molto importante e definiscono un dolore mentale. E dolore mentale era quello che torturava la paziente, perché — ipotizzo — la bocciatura si inseriva in una problematica di crescita e di sviluppo. La boccia- Infanzia e adolescenza 5. W. Bion, Seminari Tavistock, Borla, Milano 2007, p. 108. 182 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero tura, per il periodo in cui si era verificata, alle soglie dell’adolescenza, esprimeva un giudizio pesante da parte dell’adulto-insegnante, e cioè che C. non fosse pronta a diventare donna. Possiamo anche pensare che l’insegnante sia stato per così dire, la longa manus della parte scissa della paziente che aveva paura di accedere all’età adulta. D’altra parte tutti i suoi racconti sulle difficoltà di contenimento o sull’attaccamento disturbato del primo anno di vita, davano anche un senso a queste paure, in quanto C. non si sentiva sufficientemente sostenuta per l’acquisizione di un ruolo adulto. In particolare riferì che suo padre non aveva mai partecipato all’educazione dei figli e demandava questo ruolo unicamente alla moglie. In un’altra occasione C. riferì di non essere stata mai abbracciata dal padre, facendo ipotizzare problemi edipici mai risolti e illuminando con una luce più chiara le difficoltà del transfert e controtransfert di cui ho parlato. Quasi cioè che, bocciata al passaggio all’adolescenza, essa non avesse altra strada che fare un salto direttamente all’età adulta che prevede la conquista della sessualità. Vorrei ora soffermarmi sul il vissuto controtransferale rispetto all’importanza del segreto, al peso dato, nel controtransfert, alla vergogna della paziente per il fatto rivelato. Dopo la rivelazione del segreto la mia prima sensazione fu di delusione e di rabbia: come si fa, pensai, a stare tutto questo tempo su un segreto così “banale”? Mi sarei aspettato un evento più significativo e grave, perché tutto questo problema per una bocciatura? E cosa c’è da vergognarsi tanto per un evento del genere? E, conseguentemente, cosa c’è dietro una mia reazione del genere? Perché svaluto l’accaduto e il grande imbarazzo provato nel raccontarlo? Noi che facciamo questo lavoro “sappiamo” che quello che noi avvertiamo, che percepiamo, che pensiamo entra inconsapevolmente nel mondo relazionale della stanza di terapia. Si tratta di fenomeni si- 183 La vergogna nel transfert/controtransfert mili, dalle prime osservazioni di Freud sui fenomeni transferali e l’associazione libera, all’identificazione proiettiva kleiniana, all’empatia e al contenimento di Bion, e all’infezione psichica junghiana. Non abbiamo “prove scientifiche” per dimostrare questo passaggio, non numeri e diagrammi, non prove di efficacia da toccare con mano, che vanno tanto di moda oggi. Ma “sappiamo” che il nostro metodo di lavoro si base su forme di conoscenza diverse da quelle obiettivabili e rilevabili con strumenti e test vari. E finché non sarà trovata una qualche forma più chiara che ci porti le prove appunto di questa contaminazione, di questo passaggio di informazioni da una unità psicosomatica all’altra (cosa auspicabile ma non necessaria per il nostro lavoro attuale), noi dobbiamo continuare a esercitare la nostra funzione di analisti continuando a credere nel nostro lavoro e a cercare le prove della sua efficacia attraverso gli strumenti che utilizziamo come analisti e non come “scienziati” di scienze che usano parametri diversi dai nostri. Anche se qualcuno storce il naso perché tutto ciò implica un livello di fiducia o fede nel lavoro che facciamo e a cui ritengo che non dobbiamo rinunciare. Il nostro sapere si basa sull’esperienza dell’incontro in cui paziente e terapeuta si influenzano reciprocamente (pur se con ruoli diversi), sulle conferme o disconferme inconsce che appaiono nel materiale portato dal paziente, e sulla riflessione, a posteriori, su quello che è “accaduto” in seduta. È in questa linea che presento questo lavoro e che espongo la mia riflessione su questo caso. Le mie prime riflessioni si fermano dunque su questi fenomeni: cosa è accaduto nella relazione con la mia paziente nel corso della prima metà della terapia? Abbiamo visto come si fosse creata una sorta di scissione tra un vissuto transferale/controtransferale di cure materne primarie e un vissuto di erotizzazione. Ho ipotizzato che questa sorta di scissione si fos- Infanzia e adolescenza 184 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero se verificata anche per il mancato sostegno genitoriale alle fasi di sviluppo della paziente. Noi qui ci siamo soffermati soltanto sui ricordi della paziente che riferisce una infanzia di mancato rapporto sia con la madre che con il padre e sui problemi insorti in fase primo-adolescenziale; fase in cui l’iniziale sviluppo verso l’età adulta è stato svalutato e scoraggiato sia attraverso alcuni atteggiamenti del padre che non credeva a quello che gli diceva Caterina (come in occasione di una prima esperienza di conoscenza sessuale tra ragazzini quando C. venne colpevolizzata e aggredita dal padre, che credette alla versione dei fatti di conoscenti e non quella della figlia), sia dall’episodio della bocciatura. Nel trasfert/controtransfert si sono alternativamente verificati momenti o periodi in cui l’analista veniva percepito (e si sentiva “spinto” a essere) un genitore solo buono e accogliente, tipico delle primissime fasi della vita infantile, o un amante appassionato dell’età adulta. Il “territorio di mezzo” non era quasi mai esplorato, e per C. non era facile arrivare a quell’incontro tra gli opposti che avrebbe potuto consentirle di mettere insieme i vantaggi e svantaggi dell’essere adulta e bambina. Specularmente per il terapeuta non era facile integrare questi due momenti e il lavoro analitico procedeva con difficoltà. E qui vorrei affrontare la domanda sul perché l’analista abbia svalutato dentro di sé l’importanza del segreto rivelato, ossia abbia svalutato l’importanza del dolore mentale connesso alla vergogna per aver subito una bocciatura a scuola. In altri termini, si può dire che l’analista non è stato in grado di empatizzare con il dolore mentale della paziente per questo evento. Per l’analista, inizialmente, non è stato facile empatizzare con la paziente perché riteneva che essere bocciati a un esame, pur non essendo piacevole, non può essere considerato qualcosa di cui vergognarsi per tutta la vita, soprattutto dopo aver conseguito ti- 185 La vergogna nel transfert/controtransfert toli di studio ed essere arrivati a una carriera lavorativa di soddisfazione come nel caso di Caterina. Ma non era facile per me empatizzare su un fatto che, proprio per averlo subito, lo ritenevo, in modo più o meno difensivo, un evento non così importante nel condizionare gli studi, il lavoro e la vita intera di una persona. Allora oggi penso che quello che si è inconsapevolmente attivato in me, nella relazione con lei, sia stata una sorta di svalutazione dell’evento bocciatura, per non riattivare un dolore mentale e un’angoscia vissuti all’epoca della adolescenza e non adeguatamente elaborati. La fantasia dell’analista che l’angoscia della paziente per una bocciatura è “banale”, equivale a definire irrilevante per lei, e perciò anche per se stesso, questo episodio. Questo tipo di stato d’animo o di vissuto nella relazione terapeutica non permette alla paziente di sperimentare un ambiente contenente, stabile e sicuro, che le possa permettere di affidare il suo dolore mentale per la bocciatura a qualcuno in grado di riviverlo, contenerlo, digerirlo e restituirglielo detossificato. Forse questo ha a che vedere anche con quello che afferma Jung quando dice che un analista non può portare il paziente più avanti del punto che ha raggiunto lui stesso. D’altro canto il lavoro sul transfert/controtransfert consente anche all’analista un lavoro su se stesso, utile per sé e per il paziente. La rivelazione del segreto che finalmente la paziente riesce a fare in un ambiente che pian piano è diventato più contenitivo conferma l’utilità e l’efficacia del lavoro sul controtransfert, che ha reso possibile la formazione di un contenitore più accogliente. E nel momento in cui la paziente può superare la vergogna della rivelazione anche l’analista si rende conto di essersi concesso di pensare e dare un nome alla propria vergogna. Infanzia e adolescenza 186 Infanzia e adolescenza Gianni Nagliero Abstract The analytic position is seen as a transference-countertransference work and the necessity for the analyst to analyse his own personal life events, so to become empatic towards the patients life events and Is then emphasized the importance of keeping in mind and analyse the link between the patient’s present experiences and the precocious infantile experiences, as reported in the clinical case. 187 Infanzia e adolescenza PREMESSA Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV Il tema della colpa è particolarmente complesso e molti scritti illustri lo hanno affrontato da vari vertici. Se si pensa poi a come la colpa si possa intersecare alla vergogna, ci rendiamo conto che il discorso si arricchisce e si complica in misura esponenziale. Alessandra Guarino Amato In questo scritto intendo quindi affrontare la questione della colpa e della vergogna elettivamente in relazione al tema dell’infezione da HIV (Human Immunodeficency Virus) e in particolare per ciò che concerne il bambino infetto o malato. È comunque importante specificare che l’AIDS pediatrico nella quasi totalità dei casi è una malattia familiare che, come tale, coinvolge in misura diversa più componenti di uno stesso nucleo, aumentando la complessità della sua gestione non solo da un vertice organico, ma anche e soprattutto, sul piano del contenimento del dolore psichico e dell’angoscia che inevitabilmente attiva. Questa malattia ha avuto, negli ultimi 20 anni, una vasta eco anche in Italia e molti sono stati i casi segnalati anche nel nostro paese. Certamente la frequenza e la prevalenza dell’infezione da HIV in Italia non è paragonabile a quella che si registra nei paesi in via di sviluppo (dove l’infezione, la malattia e la mortalità hanno dimensioni davvero sorprendenti), ma il suo “peso” in termini psicologici è elevatissimo. Se è intuitivo che l’AIDS (Acquired ImmunoDeficency Sindrome) ha una componente di dolore psichico inimmaginabile, questo è ancora più intenso nel caso sia il bambino a essere contagiato. La gestione dell’infezione pediatrica da HIV ha subito in questi anni un andamento particolare. Infatti, dopo aver affrontato l’emergenza AIDS pediatrico da un vertice esclusivamente organicista e aver garantito (almeno nei paesi industrializzati) una sopravvivenza e una qualità di vita sufficientemente 188 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato buone, ci si è trovati ad affrontare la malattia anche nelle sue componenti psicologiche che necessariamente si vanno a intrecciare con l’eventualità di psicopatologia familiare preesistente al contagio. Nei paragrafi che seguono cercherò pertanto di fornire un quadro della malattia in ambito pediatrico, almeno per quella che è stata la mia esperienza nell’ambito dell’Ospedale A. Meyer di Firenze. Dal 1991 (anno in cui ho iniziato a occuparmi di HIV pediatrico) a oggi la questione dell’HIV pediatrico è molto cambiata — e migliorata — in relazione al mutamento di numerose variabili. Tali cambiamenti non hanno però riguardato i temi della colpa e della vergogna che ancora, pesantemente, interferiscono con una malattia di difficilissima gestione e di grande impatto emotivo. Un’esperienza “pionieristica” Quando nel 1994, da giovane analista in formazione, mi fu chiesto di occuparmi della psicoterapia dei bambini con HIV/AIDS che afferivano all’ospedale in cui portavo a termine la mia specializzazione in Pediatria (Ospedale Pediatrico A. Meyer - Firenze), ebbi necessità di riflettere a lungo. Fu importante interrogarmi sul mio vissuto rispetto a una patologia che in quel tempo era considerata la “peste del secolo”. L’AIDS evocava infatti molti fantasmi difficili da gestire e non esisteva in Italia nessuna esperienza precedente in ambito psicoterapico a cui far riferimento. Le problematiche dei bambini sieropositivi erano completamente nuove, i loro vissuti sconosciuti e l’aspettativa di vita un grande punto interrogativo. Non avevo statistiche a cui appigliarmi, né libri o articoli che riportassero cosa mi potevo aspettare. Tutti noi medici (e anch’io come psicoterapeutapediatra) eravamo intimoriti e contagiati dall’idea di una loro morte imminente. In quegli anni effettiva- 189 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV mente la mortalità era davvero alta (Dianzani 2004) e ciò rendeva oltremodo difficile qualsiasi intervento terapeutico: non era semplice prendersi cura di questi piccoli pazienti. Quell’anno una bambina aveva avuto “difficoltà” nell’essere ammessa alla scuola elementare nel sospetto che potesse essere infetta: il padre e la madre erano stati tossicodipendenti ed erano morti da poco a qualche mese di distanza l’uno dall’altra. Il primo giorno di scuola tutti i genitori non avevano mandato i loro bambini (per paura e protesta) e lei si era trovata completamente sola in classe, in una atmosfera greve e surreale. In quello stesso periodo si erano create in Toscana situazioni di analogo sospetto riguardo ad altri casi, tanto che certi istituti avevano addirittura richiesto ad alcune famiglie di portare il test dell’HIV per poter iscrivere il bambino a scuola (cosa assai grave e illegale!). Fu proprio in quella occasione che i medici iniziarono a interrogarsi su quali fossero le problematiche psicologiche di questi bambini, quali i loro vissuti in una situazione di così grande precarietà fisica e con un rischio così elevato di emarginazione. Evidentemente questi eventi carichi di dolore e discriminazione, unitamente all’aumento della sopravvivenza dei bambini infetti, avevano creato lo spazio interno necessario per iniziare a “prendersi cura” di loro. A distanza di tanti anni credo che sia stato un momento cruciale per ospitare una domanda che riguardava la persona nella sua interezza. Fino a quel momento, infatti, l’Ospedale si era fatto carico della cura del corpo dei bambini malati, senza preoccuparsi della loro sofferenza psicologica che quindi rimaneva inascoltata, non vista e impossibile da accogliere. Il vertice organicista “puro”, che riguardava il bambino ricoverato in Ospedale era, se possibile, amplificato per i bambini con infezione da HIV. L’idea prevalente era che fosse una lotta senza quartiere, Infanzia e adolescenza 190 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato energie disperse: che senso aveva occuparsi della psicologia di bambini che non avrebbero vissuto più di qualche anno? Da allora molte cose sono cambiate. All’interno dell’Ospedale A. Meyer di Firenze esiste oggi un “Servizio di Psicoterapia per il Bambino HIV Positivo e per la sua Famiglia”. Il Servizio dispone di una stanza adatta alla psicoterapia infantile e attrezzata per la Sand Play Therapy (Kalff 1966) e, in tutti i nuovi casi, viene proposto un colloquio con la psicoterapeuta. Da circa un anno due psicoterapeute (con formazione analitica) lavorano con questi pazienti ed è stato possibile così differenziare le terapie infantili dal sostegno genitoriale. Inoltre, con l’uso dei nuovi farmaci, molti dei bambini di allora sono cresciuti e, diventati grandi, sono ora seguiti dai centri di infettivologia degli adulti. Le dimensioni dell’infezione Sebbene l’eco dei mass media sia notevolmente scemata, portandoci a pensare che l’emergenza AIDS sia terminata, le cose sono in realtà assai diverse. Il panorama dell’infezione cambia molto in relazione all’area geografica interessata: infatti l’Africa sub-Sahariana è al primo posto per incidenza e prevalenza, seguita dall’Asia, America latina, nord America ed Europa occidentale. E, come emerge dalle stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la mortalità infantile per infezione da HIV/AIDS riflette la prevalenza della patologia ed è significativamente più elevata nelle aree in via di sviluppo (550 mila morti all’anno) rispetto all’Europa occidentale e all’America del nord (circa 100 morti all’anno). Alla fine del 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stimava che nel mondo almeno 42 milioni di persone, di cui 28,6 milioni adulti e 3,2 milioni di bambini, aveva contratto l’infezione da HIV (World Health Organization, 2005). Da tutto questo 191 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV si comprende che nei paesi meno industrializzati l’AIDS è una patologia ancora in rapido aumento ed estremamente grave, mentre nei paesi industrializzati l’emergenza sanitaria ha trovato qualche possibilità di prevenzione e cura che contrasta l’evoluzione naturale della malattia. La difficoltà (o impossibilità) di applicare gli stessi protocolli farmacologici e preventivi in paesi economicamente più disagiati impone una riflessione sulla ricaduta che ciò ha sulla sopravvivenza degli individui, sulle complesse questioni morali intorno alle dinamiche economiche e di potere che dominano questo millennio. ASPETTI MEDICI DELL’INFEZIONE DEL BAMBINO La questione medica potrebbe apparire lontana dalle possibili dinamiche psicologiche attivate nella malattia da HIV. Tuttavia il registro organico si interseca così profondamente all’area psichica che i due aspetti si influenzano reciprocamente in misura così significativa da essere inscindibili. Gli aspetti biologici della malattia hanno una valenza talmente penetrante sul piano simbolico e rappresentazionale che un’excursus riguardo a ciò appare fondamentale per poter riflettere sul profondo legame che esiste tra ciò che accade nel corpo e ciò che accade nell’area psichica. Trattandosi poi di bambini che contraggono l’infezione dalla propria madre in varie fasi del loro sviluppo embrionale-fetale-neonatale, è evidente quanto il contagio si vada a inserire in una fase arcaica della relazione madre-bambino e possiamo intuire quanto ciò vada a pesare nell’ambito dello sviluppo psichico del bambino, del legame con la madre e in definitiva della vita stessa. Infanzia e adolescenza 192 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato Differenza tra infezione e malattia In questo lavoro compariranno spesso questi due termini ed è necessaria una precisazione: essere infetti o sieropositivi significa essere entrati in contatto con il virus HIV, non necessariamente si è sviluppata la malattia denominata AIDS. Tutti i pazienti con AIDS sono infatti sieropositivi e infetti, ma non viceversa. Esistono poi vari stadi di malattia di crescente gravità in relazione ai sintomi e alle malattie AIDS correlate presenti. La questione dei termini (che nel linguaggio comune vengono spesso usati erroneamente come sinonimi) è di primaria importanza perché simbolicamente riflettono realtà e gravità completamente differenti. Si può essere sieropositivi essendo “sani”, maggiormente se la carica virale (quantità di virus nel sangue) è bassa (talvolta così bassa da essere indeterminabile) e se i linfociti (cellule deputate a difendere il nostro organismo producendo anticorpi) sono sufficientemente numerosi. La malattia determina proprio questo aumento del virus nel sangue parallelamente alla distruzione di quella particolare popolazione di linfociti che difende dalle infezioni. Si crea cioè una immunodepressione marcata per cui gli individui malati diventano molto fragili e rischiano di contrarre infezioni anche gravissime ogni qual volta incontrano agenti patogeni anche non particolarmente aggressivi. Le loro barriere difensive sono così vulnerabili che anche un’infezione banale (per esempio una Candida cutanea) può diventare mortale. Questo ci apre a una riflessione sul tema del contagio: dato che il virus dell’HIV è “fragilissimo” e in ambiente esterno non sopravvive che pochi secondi, la persona sieropositiva non è affatto un pericolo per chi gli sta intorno (se non si scambiano siringhe o non hanno rapporti sessuali), ma è vero il contrario. Sono i soggetti sani, immunocompetenti, che rapprendano un 193 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV potenziale pericolo per l’immunodepresso! Modalità di infezione in età pediatrica Sono solo pochi i casi descritti di infezione pediatrica in seguito a trasfusione o all’uso di emoderivati. La quasi totalità dei casi viene invece contagiata dalla madre infetta (trasmissione verticale) per cui si parla di infezione perinatale. Questa considerazione ci introduce però anche a una riflessione su quello che si profila essere sul piano biologico e psichico, il legame madre-figlio: la relazione si impasta fin dai primi momenti di gestazione di un’aura di simbiosi inscindibile in cui aleggiano malattia e morte che legano per sempre madre e figlio in un vincolo difficile (se non impossibile) da sciogliere. Il pericolo di contagio è la stessa madre senza la quale però non c’è vita (conditio sine qua non di ogni gestazione). Le vie di trasmissione dell’infezione ripercorrono le “zone” in cui e per cui il legame madre-figlio viene sancito: il virus può attraversare la placenta assieme ai nutrienti di cui l’embrione-feto ha necessità per vivere. In questo caso simbolicamente vi è una zoppìa di quella funzione materna di filtro che lascia passare ciò che nutre e trattiene ciò che è pericoloso o mortifero. La placenta non riesce a trattenere il virus HIV che può attraversarla e diffondersi nel sangue del bambino in formazione. Ma il contagio si può verificare anche durante il parto. È questo il momento in cui madre e figlio lavorano insieme e, con fatica e dolore, attuano il loro primo distacco: il taglio di cordone ombelicale che ratifica l’avvenuta separazione e la nascita di una nuova vita, di una nuova identità. Nelle fatiche del travaglio e nella commistione di sangue e affetto, in quella prossimità di vita e morte che ogni parto ha in sé e che crea la nascita della relazione, si nasconde il rischio della trasmissione della malattia. La terza via possibile di contagio è il latte materno. Sappiamo il valore che ha l’allattamento al seno sia Infanzia e adolescenza 194 Infanzia e adolescenza 1. Certamente la consapevolezza della propria infezione in gravidanza è fondamentale per poter attuare le misure per prevenire il contagio. Nonostante le iniziative di incoraggiamento all’uso del test di screening per l’infezione da HIV in tutte le donne in gravidanza indipendentemente da eventuali comportamenti a rischio, questo non sempre viene eseguito. In molti casi le donne ancora oggi addirittura si oppongono tenacemente al test, confermando che l’HIV porta ancora con sé la dimensione del perturbante. 2. Ogni bambino che nasce ha un corredo anticorpale identico a quello della propria madre: gli anticorpi infatti riescono a passare attraverso il “filtro” placenta e difenderanno il bambino dalle infezioni dei primi mesi di vita finché egli non “fabbricherà” i suoi anticorpi dopo l’incontro con vari virus e agenti patogeni. La placenta della madre sieropositiva fa passare quindi, oltre agli altri, anche gli anticorpi contro l’HIV, che però non sono affatto protettivi verso il virus. Accade cioè un piccolo paradosso: quando un organismo entra in contatto con il virus dell’HIV crea gli anticorpi anti HIV, che però non riescono a proteggere dallo stesso virus (non riescono a uccidere il virus). In generale (vale per tut- Alessandra Guarino Amato nello sviluppo del neonato che nella nascita del legame affettivo. Sappiamo anche che un allattamento artificiale “sufficientemente buono” può essere adeguato per lo sviluppo fisico e psichico del neonato. In tutti questi casi però il senso di colpa materno inerente la propria infezione-malattia va a inserirsi nelle maglie della relazione che viene inquinata e contaminata dagli aspetti Ombra della madre mortifera. Se queste sono le principali modalità di contagio in età pediatrica, in adolescenza compaiono altri rischi di infezione: esiste infatti oggi la possibilità (e l’elevato rischio) di acquisire l’infezione per via sessuale (rapporti non protetti) o tramite scambio di siringhe (uso droga per via endovenosa). La trasmissione sessuale ci pone di fronte alla urgente questione (su cui stiamo lavorando da molti anni) della comunicazione della diagnosi ai bambini infetti. È certo ormai che ogni bambino deve essere informato della propria situazione sanitaria, con parole adatte alla sua età e alla sua capacità cognitiva e con attenzione riguardo la sua situazione emotiva (Guarino Amato 2000, 2004a; Baldassari 2002a). È parimenti necessario che tutti i bambini sieropositivi possano contare su un sostegno psicologico che permetta loro di elaborare la propria malattia e il lutto che ne deriva, premessa fondamentale affinché, da giovani adolescenti infetti, non contagino in maniera inconsapevole o meno i coetanei con cui si troveranno in intimità erotica. Per quanto riguarda il nostro paese, i dati del Registro Italiano per l’infezione da HIV-1 in età pediatrica riportano oggi, oltre 1433 bambini con infezione perinatale da HIV-1 (Prof. de Martino M., comunicazione personale). Questi dati sono sicuramente sottostimati dato che non esiste in Italia l’obbligo di segnalazione all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dei bambini sieropositivi, mentre vengono segnalati soltanto i bambini in AIDS conclamato. 195 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV Di madre in figlio: la trasmissione dell’infezione Negli ultimi 10 anni, in Italia, molteplici strategie mediche di intervento (uso di farmaci in gravidanza e nel neonato, parto cesareo, allattamento artificiale) hanno permesso di abbattere il tasso di trasmissione dal 18% al 2% (Registro Italiano per l’Infezione da HIV in Pediatria, 2002).1 Il tempo per la diagnosi Alla nascita non è possibile sapere se il neonato ha acquisito l’infezione.2 Fino a qualche anno fa il tempo per conoscere l’avvenuta infezione o meno del proprio bambino era necessariamente di circa un anno3 (tempo medio di vita degli anticorpi). Questo significava che per tutto il primo anno di vita i genitori dovevano convivere con il dubbio, l’incertezza sull’infezione del figlio. Con tutto ciò che quest’incertezza comportava, maggiormente in un momento in cui l’equilibrio psichico della madre è particolarmente fragile e in cui la ricerca dell’identità familiare e genitoriale richiede quote elevate di energie psichiche. In questo periodo i farmaci antiretrovirali (contro l’HIV, dati comunque a tutti i nati da madre sieropositiva) e i controlli degli esami del sangue effettuati ogni mese rendono particolarmente difficile e complicata la gestione del segreto sulla malattia. Le famiglie si trovano infatti a nascondere il problema anche ai parenti più prossimi e debbono inventarsi bugie e scuse continue per giustificare i ripetuti controlli sanitari del piccolo appena nato. Negli ultimi anni, con l’avvento delle moderne tecniche diagnostiche,4 la diagnosi può essere fatta intorno al 4° mese di vita (Dianzani 2004). Nonostante ciò quei 4 mesi rappresentano una prova durissima sul piano psichico, sia per le madri che per l’intero assetto affettivo e relazionale della famiglia. Infanzia e adolescenza te le infezioni) la ricerca diretta dei virus è molto complessa e l’esame di laboratorio più rapido e fruibile è la ricerca degli anticorpi. È un’analisi “indiretta” perché si individua un’infezione attraverso la risposta immunitaria della persona. Trovare questi anticorpi in un neonato da madre HIV positiva è quindi perfettamente normale: sono quelli che ha trasmesso la mamma. Poi possono accadere due diverse eventualità: se il bambino non ha acquisito l’infezione (ovvero se la placenta ha funzionato come vera barriera contro il virus) le analisi del sangue mostreranno un progressivo scemare degli anticorpi (che erano tutti e solo quelli trasmessi dalla madre) e, nel giro di un anno gli esami si “negativizzeranno” (non si troveranno più nel sangue del bimbo anticorpi anti HIV perché quelli di provenienza materna moriranno come è normale, avendo un ciclo vitale di circa un anno). Se invece il bambino ha acquisito l’infezione (se il virus è riuscito ad attraversare la placenta) gli anticorpi materni verranno progressivamente sostituiti con quelli fabbricati dal sistema immunitario del figlio e gli esami rimarranno “positivi”. 3. La ricerca degli anticorpi anti HIV era l’unica indagine che permetteva la diagnosi e tali anticor- 196 Infanzia e adolescenza pi, anche se di origine materna, sono presenti nel sangue per circa 12 mesi. 4. L’utilizzo della biologia molecolare permette di individuare direttamente la presenza del virus nel sangue del neonato e stabilire con certezza la presenza o meno dell’infezione. Alessandra Guarino Amato Un’ombra di malattia e di morte aleggia sulla culla, fatto questo da cui non è possibile prescindere nella creazione del legame e che alimenta angosce e sensi di colpa difficilmente contenibili. Sappiamo quanto sia fondamentale ciò che accade sia durante la gravidanza che nei primi periodi di vita del bambino e quanto l’angoscia incontenibile rischi di allagare la psiche materna (Negri 1994; Guarino Amato 2004b). Questo allagamento non permetterebbe di contenere le esperienze spiacevoli del bambino rischiando di lasciarlo solo, completamente abbandonato in balìa di un Sé ancora troppo immaturo e fragile. Il rischio è allora una deficitaria integrazione tra ciò che avviene sul piano somatico e ciò che accade a livello affettivo. Si verificherebbe cioè, mutatis mutandis, un qualcosa di analogo a ciò che avviene in alcune situazioni in cui vi sono patologie alla nascita o importanti rischi neonatali (Negri, ibidem; Guarino Amato, ibidem). Prendersi cura del bambino sieropositivo Se la terapia farmacologia è un aspetto irrinunciabile, l’esperienza acquisita in questi ultimi 20 anni ha mostrato che è fondamentale affiancare ai farmaci anche un supporto psicoterapico. La possibilità di dare ascolto a un dolore che coinvolge tutta la persona e non solo l’organo malato, significa rendere dignità ai pazienti, dare loro anche uno spazio di riflessione sul significato di ciò che stanno vivendo per tentare insieme di integrare l’esperienza e trasformare la malattia in una possibilità di crescita. Ancora non esiste il vaccino per l’HIV-1, tuttavia i farmaci “antiretrovirali” sono oggi in grado di controllare l’andamento dell’infezione e permettono una sopravvivenza e una qualità di vita senz’altro migliori rispetto al passato (de Martino 2000b). Si tratta comunque di cure pesanti e di difficile gestione. Tutto ciò, insieme agli effetti collaterali e la 197 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV conseguente limitata compliance alla terapia è, in alcuni casi, un limite nel controllo della malattia. Tutti i bambini sieropositivi vivono a casa, vanno regolarmente a scuola e vengono ai controlli in ospedale una volta al mese per la visita e gli esami del sangue. Nonostante questa gestione poco “medicalizzata”, vi è un costante stato di allerta: una banale infezione può infatti rapidamente trasformarsi in una setticemia fulminante. I ricoveri nel reparto di malattie infettive sono un’eventualità tutt’altro che rara, anche se non costante. Presso la Clinica Pediatrica I — Malattie Infettive dell’Ospedale Pediatrico A. Meyer di Firenze (Prof. M. de Martino), esiste il “Centro Regionale di Riferimento per la Prevenzione e Assistenza a Bambini Affetti da HIV” (responsabile Prof.ssa L. Galli) e i pazienti sono visitati mensilmente al Day Hospital del Centro. Qui, oltre all’equipe pediatrica — infermieristica, sono presenti due psicoterapeute e un’assistente sociale. Dividere le competenze nell’ambito di un’equipe medico — psicologica facilita e chiarisce le diverse richieste da parte delle famiglie e dei pazienti, offrendo la possibilità di spazi medici e psicologici contigui ma non confusi. Quanto è grave? Quando negli anni ‘80-‘90 sono comparsi in Italia i primi casi di infezione pediatrica da HIV, non esistevano farmaci contro il virus e la mortalità era molto alta (Dianzani 2004). I nuovi farmaci hanno permesso di cambiare in misura significativa l’evoluzione naturale della malattia. Oggi l’infezione perinatale da HIV è una malattia cronica importante, non guaribile, ma senz’altro curabile che accompagna il bambino nel corso della sua crescita. Ha certamente bisogno di un puntuale e serrato monitoraggio medico, di terapie costanti e di una sorveglianza accuratissima riguardo alle infezioni e/o al rischio di svi- Infanzia e adolescenza 198 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato luppo di patologie oncologiche. La lunga sopravvivenza di una quota considerevole (60% a 10 anni) di bambini con infezione perinatale (de Martino 2000b) fa sì che un numero crescente di bambini abbia raggiunto l’età scolare, molti di essi si affaccino già all’adolescenza ed alcuni abbiano già raggiunto l’età adulta (18-20 anni). La storia della malattia però pesa fortemente sull’immaginario collettivo. I messaggi provenienti dai mass media negli anni ‘80 erano senza nessuna speranza e, per le “categorie” a rischio, esisteva una strada senza ritorno in cui a un sicuro contagio avrebbe fatto seguito in poco tempo una morte certa. Lo scenario dell’infezione è radicalmente cambiato e non si parla più di “categorie” a rischio, ma di “comportamenti” a rischio che possono riguardare chiunque, indipendentemente dalla professione, inclinazione sessuale, uso di sostanze stupefacenti o altro. In aggiunta, dato che il contagio non avviene nelle normali relazioni sociali, l’essere sieropositivi non dovrebbe interferire nelle relazioni scolastiche, lavorative o amicali. Nonostante tutto ciò, la diagnosi di infezione porta ancora con sé angosce di morte difficilmente arginabili e i genitori, spesso sopraffatti dal senso di colpa, non riescono a scollegare la parola HIV/AIDS dall’idea di morte. Poco importa il fatto che essi sappiano che la sieropositività non è obbligatoriamente una condanna a morte, l’angoscia dilaga comunque inarrestabile. Il senso di morte evocato dal fantasma dell’AIDS rappresenta allora anche qualcosa d’altro. È qualcosa di diverso rispetto alla concretezza di un rischio reale di morte, qualcosa di più ampio, che rappresenta l’archetipo dell’angoscia di morte: quell’immagine collettiva, primordiale e universale che inevitabilmente, come tale, riguarda tutta l’umanità (Jung 1928, 1953-54). 199 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV ASPETTI PSICOLOGICI: CRESCERE CON L’HIV Sistema familiare e contesto sociale Ogni bambino nasce e cresce all’interno di un sistema affettivo relazionale complesso. Oltre alle sue caratteristiche individuali è fondamentale considerare in quale contesto avviene la crescita, quali figure affettivamente significative lo circondano e sostengono in un percorso di vita che in questi casi si preannuncia particolarmente difficile. La struttura psichica dei genitori e le loro risorse interne sono infatti estremamente importanti per una adeguata funzione di rêverie materna, in un contesto in cui la sieropositività e la malattia, unite al segreto da mantenere, al senso di colpa e di vergogna non fanno che rendere tutto più complicato. Crescere con l’infezione da HIV non è quindi una faccenda semplice. Le difficoltà psicologiche e le dinamiche attivate dall’infezione sono così particolari da non essere sovrapponibili a nessun’altra malattia. Anche ciò che si osserva in oncologia pediatrica (o in altre malattie croniche e a elevato rischio), in cui si attivano pesanti angosce di morte e profonde paure, non è paragonabile alla complessità di quanto accade al momento di una diagnosi di HIV/AIDS. In quasi tutti i casi (fanno eccezione i bambini adottati e i trasfusi) si tratta di una malattia familiare che coinvolge con intensità diversa, più componenti della stessa famiglia. La madre è praticamente sempre infetta, spesso lo è anche il padre e i fratelli del bambino. La paura per l’avanzare della malattia coinvolge non solo il piccolo paziente (come in oncologia o in altre patologie gravi), ma tutto il nucleo familiare. Una quota indicibile di angoscia circola nelle case e non riguarda solo il bambino, il figlio. Tutta la famiglia è allagata dal dolore e anche i genitori, che dovrebbero fornire stabilità e contenere le paure e le emozioni dei bambi- Infanzia e adolescenza 200 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato ni continuamente sottoposti ad analisi e cure, non sono più in grado di svolgere una funzione genitoriale “sufficientemente buona”. Il carico di pena sembra essere troppo intenso e pervasivo per poter essere adeguatamente sostenuto. La difficoltà è talora connessa alla possibilità di tollerare le diagnosi multiple (mariti, mogli, figli…), talora alla discordanza dello stato di infezione della madre e del padre, o al senso di colpa del genitore che ha trasmesso il virus, alla separazione, fisica o psicologica della coppia, incapace di gestire le dinamiche che si vengono inevitabilmente a creare (Guarino Amato 1994-95, de Martino 2000a ; Bufacchi 2002). In molti casi, si tratta di famiglie multiproblematiche ancor prima della diagnosi, in cui l’infezione si inserisce in relazioni o personalità psicopatologiche, fatto che amplifica la difficoltà di contenere psichicamente non solo la propria malattia, ma anche quella del compagno e dei figli. Si tratta frequentemente di situazioni precarie, talvolta legate alla droga, in cui comunque è presente una grande instabilità e gli allontanamenti dell’uno o dell’altro genitore sono assai frequenti: carcerazioni, ingresso in comunità, separazioni temporanee o definitive fino ad arrivare ai casi in cui si assiste all’abbandono (volontario o imposto dal Tribunale) dei figli che quindi sperimentano la difficile situazione dell’istituto o l’inserimento in famiglie affidatarie o adottive (Guarino Amato 1994-95, 2004a). Una evenienza drammatica che si verifica di frequente è la morte della madre (e/o del padre) che inevitabilmente rappresenta per il figlio, una ferita dolorosissima. Un recente studio europeo ha mostrato che il 56% dei bambini sieropositivi ha perso un familiare (per lo più la madre) a causa della malattia e nel 23% dei casi vi era stata la perdita di più membri della famiglia (Prof.ssa Galli L. Comunicazione personale). La proporzione degli eventi di separazione dai genitori è talmente rilevante che la percentuale di bam- 201 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV bini che vive con entrambi i genitori si aggira intorno al 50% e che la probabilità di un bambino nato da madre sieropositiva di avere entrambi i genitori viventi e conviventi con lui si riduce rapidamente nel tempo: solo il 46% all’età di 5 anni (Principi 1994). Quando viene fatta diagnosi di HIV accade comunque che l’intero asse della famiglia si sposta sul “Problema AIDS” e tutto ciò che accade viene filtrato dalla questione dell’infezione: il Virus diventa allora il vero protagonista occulto dell’intera storia familiare, andando spesso a coprire dinamiche psicopatologiche che vengono in tal modo celate. L’HIV diviene qualcosa di concreto senza il quale idealisticamente e magicamente tutto funzionerebbe. La stessa organizzazione logistica viene “resettata” in base ai controlli in ospedale, analisi da effettuare, conteggio dei linfociti e carica virale, medicine da assumere a orari rigidissimi. La vita di relazione subisce pesanti modificazioni e tutto inizia a ruotare intorno al segreto da mantenere. A qualsiasi costo.5 La paura di essere giudicati e messi all’indice fa sì che le famiglie vivano la propria condizione in totale solitudine senza poter condividere le angosce, le paure e le ansie con nessuno. È questo un aspetto del tutto singolare di questa malattia, che rende il dolore, la paura e la preoccupazione non condivisibile e il suo peso diventa così ancora più grave. Neppure si può condividere l’angoscia di morte per sé o per il proprio bambino: se la malattia diventasse “pubblica” il rischio è non solo quello di non essere compresi (“Certo, se l’è cercata” è il commento di molti) ma quello, molto più grave, di essere allontanati ed emarginati. L’esperienza di questi anni ci fa ipotizzare che anche la modalità di infezione abbia un senso e che possa legarsi a differenti sistemi di gestione psicologica della malattia per i genitori e di conseguenza anche per i loro figli: il vissuto del contagio e della colpa (che inestricabilmente si lega ad essa) è completa- Infanzia e adolescenza 5. La necessità di mantenere il silenzio più assoluto sull’infezione è sentita dai genitori come irrinunciabile. Tale segreto inviolabile è intimamente connesso ai fantasmi che ancora esistono intorno al contagio. Sebbene sia ormai ampiamente riconosciuto che il virus HIV è estremamente “fragile” e che la sua trasmissione è ben più difficile rispetto ad altre situazioni (Epatite B o C), il tema del contagio è ancora intimamente connesso all’infezione da HIV. Il virus è diventato in questi anni la rappresentazione di un’epidemia data dalla dissolutezza, dalla promiscuità e dal mancato controllo degli aspetti più “bassi” della personalità. Chiamato a lungo “La peste del XX secolo” richiama e coagula in sé qualcosa che esiste, in vari modi e sotto varie forme, da sempre. Quello che oggi riguarda la vicenda dell’HIV (storia di contagio, sporcizia e promiscuità), in passato era di pertinenza della sifilide e prima ancora della peste. Tutt’oggi la maggior parte delle famiglie mantiene il segreto anche con i parenti più prossimi. Anche se ormai non più legata esclusivamente a particolari “categorie” a rischio, la parola HIV/AIDS apre una voragine in cui precipitano il senso di colpa, la vergogna e l’angoscia di morte. 202 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato mente diverso se è da attribuirsi all’uso di sostanze per via endovenosa piuttosto che alla puntura accidentale (personale sanitario) o a un antico partner insospettabile. La via di infezione è anche strettamente legata al tema della vergogna che emerge prepotentemente in relazione alla definizione della propria identità e della condizione di sieropositività. Il virus entra così nelle relazioni familiari seguendo percorsi ogni volta diversi. In alcuni casi la diagnosi esplode in gravidanza o successivamente, in molti altri i genitori decidono consapevolmente di avere la gravidanza essendo a conoscenza della propria infezione e della possibilità di trasmissione, talvolta la decisione di maternità si intreccia con la possibilità di interrompere l’uso di sostanze. Nelle donne sieropositive e nelle coppie sembra verificarsi un notevole investimento sulla possibilità di avere figli; la maternità appare assumere il significato di riempimento di un vuoto, della possibilità di recupero e prendersi cura di se stessi attraverso il bambino che in tal modo coagula in sé aspettative e valenze diverse e più ampie rispetto a situazioni “normali”. Il figlio e la sua negativizzazione rappresentano allora, talvolta senza mediazioni simboliche, la parte potenzialmente sana e vitale del genitore stesso. Ancora oggi si segnalano casi in cui il contagio della madre/padre risale all’uso di droga fatto, magari per un breve periodo di tempo, in età adolescenziale. La rimozione di queste esperienze è tale che molto spesso queste madri non richiedono il test e spesso si risale alla positività della madre attraverso il figlio. La donna si trova improvvisamente travolta non solo dalla diagnosi multipla, ma anche dal proprio passato, dalle fragilità e carenze di cui è intrisa la storia personale di chiunque. Tutto ciò che ha cercato di negare adeguandosi a uno stile di vita normale, la investe ora come un boomerang che, scagliato dal passato, colpisce il presente. L’Ombra si presenta con tutta la potenza e l’orrore che le sono proprie. Il figlio sieropo- 203 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV sitivo incarna questo passato: una parte di sé che si vuole rimuovere nascondendola e negandola a sé stesse e talvolta anche allo stesso partner. L’infezione per via sessuale è in progressivo aumento (Registro Italiano per l’Infezione da HIV in Pediatria, 2002). Non si tratta necessariamente di rapporti omosessuali o promiscui, ma anche di contagi avvenuti nell’ambito delle normali esperienze sentimentali ed erotiche del passato di entrambi i genitori. È allora possibile che la diagnosi (in qualsiasi momento avvenga) rappresenti un evento fortemente traumatogeno potenzialmente in grado di scardinare i normali equilibri familiari. Un evento particolare riguarda le adozioni: i vissuti dei genitori adottivi sono profondamente diversi (e difficilmente generalizzabili). Essi non sempre sanno dell’infezione prima dell’adozione e, sebbene alleggeriti dal senso di colpa del contagio (così diffuso nelle famiglie naturali) la loro funzione genitoriale è certamente irta di difficoltà di non facile gestione. Lo sviluppo del bambino sieropositivo Nel neonato la figura materna e il contatto con essa hanno un’importanza fondamentale; in questi bambini però i problemi che talora possono verificarsi alla nascita (prematurità, sindrome da astinenza, insufficienze respiratorie) e i conseguenti lunghi ricoveri, non permettono questo contatto con le inevitabili conseguenze di difficoltà o di mancata elaborazione emotiva che si vengono a creare (Guarino Amato 1994-95, 2004a). Non vengono allattati al seno e in moltissime situazioni i fantasmi inerenti il contagio appaiono così minacciosi e concreti che inibiscono fortemente le madri al contatto fisico con il neonato. Durante il difficile periodo di accertamento diagnostico (e in molti casi anche successivamente) è presente una elevatissima attenzione intorno alle fantasticate possibili vie di contagio. Le ma- Infanzia e adolescenza 204 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato dri spesso hanno timore di toccare, accarezzare i loro figli nella paura di trasmettere loro l’infezione con i consueti abbracci e baci che fanno parte di tutte le normali relazioni madre-figlio. È evidente che siamo di fronte a un rischio inesistente, ma è importante per poter riflettere su quanto i fantasmi riescono a modificare silenziosamente anche le prime relazioni affettive. I bambini che non vengono sufficientemente toccati introiettano questa interdizione e il contatto fisico rischia di essere una sorta di tabù. Nei bambini infetti poi, in cui esiste una sorta di consapevolezza inconscia della loro condizione (Guarino Amato 1994-95, 1997, 2004a; Calori 1997; Montecchi 2002), il contatto è fortemente inibito al punto che anche le rappresentazioni grafiche mostrano quanto ciò sia difficile per loro. La percezione di essere pericolosi, portatori di qualcosa che può contaminare altri, emerge con grande chiarezza anche dai loro disegni (Guarino Amato, ibidem). Sebbene essi non siano consapevoli della loro diagnosi, sappiamo che il contatto è il presupposto fondamentale per il contagio del virus. La privazione di contatto tra madre e bambino rappresenta un perdita immensa e questo ci fa riflettere su come, già poco dopo la nascita, si trovino ad affrontare in termini concreti realtà della perdita e di lutto. Il tema del lutto pervade tutta la loro vita, non soltanto come distacco reale e rischio di morte (loro o dei genitori), ma anche, come realtà interna di perdita della salute. I continui controlli medici, talora invasivi e i frequenti ricoveri in ospedale, così come la constatazione della propria fragilità o della scarsa crescita sono delle continue separazioni interiori dall’immagine di un sé sano che normalmente accompagna il bambino che cresce. Quando il figlio si specchia negli occhi della madre, l’immagine che ne riceve e che arriva al suo inconscio è quella di una estrema vulnerabilità e precarietà. Il senso di morte 205 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV in questi casi non è soltanto nel reale rischio di morte, ma è presente, sotterraneo, in ogni momento di vita (Guarino Amato 2004a). Purtroppo molto spesso questi bambini devono affrontare anche delle perdite reali: la morte di uno o entrambi i genitori o la perdita di un fratello sono eventi traumatizzanti che amplificano in misura esponenziale la loro fatica di crescere. La morte oltre al dolore e alla disperazione apre anche interrogativi sulla causa e sulla malattia che l’ha preceduta. Tutto ciò si incontra con ciò che il bambino sta sperimentando dentro di sé (Guarino Amato 1997; Caluori 1997). Infatti la cronicità della malattia, i continui ricoveri in Ospedale, la precarietà dello stato di salute rispetto ai coetanei, portano a riflessioni, accostamenti e domande che frequentemente rimangono inevase. Un clima di segretezza e mistero li circonda, esiste qualcosa che non si può raccontare che riguarda intimamente tutta la famiglia ed è qualcosa di così grave da non poter essere neppure pronunziato (Honigsbaum 1995; Guarino Amato 2004a). I bambini adottati hanno situazioni familiari certamente più stabili, tuttavia il tema dell’abbandono e del “buco nero” sulla propria origine si intreccia pesantemente con l’infezione. In questi casi il fantasma del “non essere degno d’amore” sempre presente nei bambini abbandonati, viene a dilatarsi e distorcersi confondendosi con l’essere “contagiante” e portatore di morte. La sensazione di avere una colpa sconosciuta e originaria va con ogni probabilità a collimare con la propria malattia rendendo ancor più difficile la possibilità di elaborare la loro personale storia. L’esperienza di questi anni ha poi evidenziato che quasi sempre le domande dei bambini sulla propria salute trovano risposte bugiarde o rimangano inevase tanto che essi sviluppano una sorta di interdizione inconscia a conoscere la loro storia e le faccende sanitarie che li riguardano. Allo stesso tempo però le inevitabili associazioni tra la propria condizione e quel- Infanzia e adolescenza 206 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato la della madre (assumono gli stessi farmaci, necessitano di numerosi controlli in Ospedale) rinforzano la percezione inconscia di qualcosa che li riguarda e li rende diversi da tutto il resto del mondo. Tale silenzio difensivo in cui viene generalmente gestita la malattia favorisce lo stabilirsi di un rapporto simbiotico in cui e la crescita e la separazione risultano inattuabili (Bion 1962). Il legame simbiotico è tipico nell’infezione perinatale e trova nella collusività materna una specifica ragion d’essere: sembra necessario creare un legame rassicurante (e invischiante) che riflette il “noi contro tutti” e, nel sottolineare l’uguaglianza tra madre e figlio, rammenta che non si è soli con “la cosa”. La loro vita, scandita dalle problematiche sanitarie, è parallelamente caratterizzata dall’impossibilità di condividere esperienze tanto importanti che così pesantemente influiscono sulla vita di relazione: vietato divulgare i frequenti prelievi di sangue, o farsi vedere dagli amici o dai loro genitori prendere i farmaci, difficile (se non impossibile) partecipare a gite scolastiche, passare il pomeriggio da un compagno di scuola (alcuni farmaci vanno somministrati tre volte al giorno) o spiegare come mai un giorno al mese si è assenti da scuola (per il controllo di routine). Impossibile spiegare la magrezza o la bassa statura, così come raccontare del ricovero nel reparto di Malattie Infettive. Il Diritto Italiano prevede la possibilità di non divulgare la sieropositività del bambino se non a particolari figure professionali e sociali previste dalla legge e tutela nei confronti dei rischi di contagio accidentale con la raccomandazione di adottare comunque, nei confronti di tutti, misure di sicurezza adatte a un’adeguata prevenzione. È però vero che, maggiormente nella struttura scolastica, o in piccoli paesi, si possono creare delle situazioni basate su supposizioni riguardanti la struttura familiare, assenze frequenti del bambino, controlli ospedalieri ripetuti, 207 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV che emarginano e isolano i bambini “sospetti”. Certamente la malattia porta a considerazioni inerenti la morte e sappiamo quanto queste siano perturbanti, maggiormente se riflettiamo sul fatto che è stata proprio la madre a trasmettere l’infezione. Ogni bambino durante la sua crescita ha il bisogno di difendere a tutti i costi la figura materna come unica fonte di sicurezza, il mondo materno rappresenta una fonte inesauribile di affetto, ed è attraverso di essa che impara a rapportarsi al mondo esterno (Spitz 1965; Stern 1995). Il nuovo “confronto” con la madre che è “portatrice di vita” e insieme “portatrice di morte” è particolarmente complesso e richiede la mobilitazione di grandi risorse ed energie interne attivabili anche dal lavoro psicoterapico. L’adolescenza con l’HIV Questo periodo della vita, già particolarmente difficile, viene ad essere complicato dalla concomitante infezione (Giaquinto 1994; Rivardo 1994; Guarino Amato 1994-95, 2000, 2004a; Bartoli 2002; Baldassari 2002a, 2002b). I conflitti, la necessità di affermare la propria autonomia e le prime relazioni sentimentali e sessuali si intrecciano con le molte problematiche della comunicazione della diagnosi, con l’eventualità di essere stigmatizzati e allontanati, con la necessità delle terapie ponendo anche agli operatori, nuove e difficili problematiche. In questa fase della vita, in cui compare un forte bisogno di separazione dalle figure genitoriali, talvolta con caratteristiche di franca aggressività nei loro confronti, la scomparsa del genitore può attivare conflitti e sensi di colpa devastanti. La perdita apre, anche in questa situazione, il problema del lutto e sappiamo quanto la difficoltà di elaborare e metabolizzare internamente tale condizione sia connessa con stati depressivi (Canestrari 1984). A conferma di ciò sono stati descritti casi di gravi sindromi depressi- Infanzia e adolescenza 208 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato ve, frequenti nell’adulto con AIDS, ma che ancora non si erano mai incontrate, o mai riconosciute, nella popolazione pediatrica e adolescenziale (Giaquinto 1994; Baldassari 2002a). Per quanto riguarda la consapevolezza della diagnosi, va precisato che nell’adolescente tenuto all’oscuro dell’infezione, i sospetti, le incertezze, i dubbi inerenti la propria condizione si vanno a inserire in quella “crisi di identità” che normalmente esiste in questo periodo della vita, aumentandone le difficoltà. Certamente la possibile emarginazione in relazione a sospetti e supposizioni acquista un carattere particolarmente delicato nell’adolescente. Infatti a questa età, per il normale processo di acquisizione della propria identità, il “gruppo dei coetanei” acquista un’importanza decisiva (Canestrari, ibidem). È in tale momento che l’identità di sieropositivo può allontanare il ragazzo dalla normale vita del gruppo non permettendogli quindi questa esperienza di grande importanza, facendogli “toccare” la solitudine e l’isolamento e precludendogli anche la possibilità di una valida esperienza affettiva e sessuale. A questo si aggiungono poi le difficoltà che possono emergere nel rapporto con il genitore al momento della comunicazione della malattia: dopo anni di silenzi e bugie, quando viene detta la verità, insieme a questa compare la menzogna e il tradimento da parte dei genitori, che alimentano la sfiducia e l’insicurezza verso il mondo intero. Infine la consapevolezza della malattia in un soggetto che inizia la propria vita sessuale porta con sé la penosa sensazione di trasmettere morte attraverso un atto di amore; mai come in questa patologia Eros e Thanatos sono così profondamente legati. Ancora ci incontriamo con la morte e con il lutto, vi è una perdita della possibilità di viversi una sessualità “normale”. 209 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV La comunicazione della diagnosi tra resistenze e opportunità La comunicazione della diagnosi è forse l’argomento più discusso in questi ultimi anni intorno alla psicologia dei bambini infetti. A questo proposito nell’ambito del Registro Italiano per l’Infezione da HIV si è creata una rete di Psicoterapeuti che, lavorando da anni con questi bambini, ha confrontato le esperienze cliniche riguardo alla comunicazione della malattia. L’esperienza comune su tutto il territorio nazionale (in accordo con quanto osservato al Day Hospital di Firenze dal ’94 ad oggi) mostra quanto il mondo degli adulti (genitori — operatori sanitari) sia riluttante a parlare chiaramente della diagnosi (Baldassari 2002b; Croce 2002; Guarino Amato 2004a, 2004c) . La paura di una comunicazione chiara sta anche nella possibilità che il bambino possa poi raccontare della sua infezione nell’ambiente scolastico e che venga quindi emarginato. La maggior parte dei genitori (naturali ma anche adottivi) ha quindi una fortissima resistenza alla chiarezza sulla malattia, ritenendo erroneamente che sia la consapevolezza a evocare un dolore che altrimenti non esisterebbe. In realtà, identificando il silenzio a una forma di protezione, espongono i figli a un doppio livello comunicativo: a parole li rassicurano, con l’inconscio trasmettono invece altissimi livelli di angoscia. Tale doppia comunicazione crea nei ragazzi un timore senza nome, un dolore inelaborabile potenzialmente psicopatogeno. Ritengo che la difficoltà che hanno i genitori (che talvolta si identifica con la impossibilità) di sostenere la verità, possa essere letta come l’amplificazione di un senso di colpa non elaborato frammisto alla vergogna di essere marchiati da una malattia sottoposta a giudizi e condanne sul piano sociale. La necessità di occultare l’infezione è infatti profondamente legata a meccanismi di difesa rigidi: il bisogno di negare è Infanzia e adolescenza 210 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato sensibilmente correlato col senso di colpa di aver trasmesso il virus e con la vergogna che inevitabilmente questa patologia attiva. L’esperienza di questi anni ha evidenziato che quanto più i genitori erano riusciti a fare i conti con il loro senso di colpa e con le personali dinamiche che rinforzavano le angosce attivate dalla malattia, tanto migliore era l’accettazione del figlio riguardo la propria condizione e anche la risposta sociale (Baldassari 2002b). In molti casi, presso il DH di Firenze, un vero lavoro di psicoterapia (in particolare con le madri) ha reso possibile una comunicazione della diagnosi adeguata e una migliore gestione degli aspetti medici e psicologici della malattia. Non stupisce che proprio in questi casi si sia assistito ad una buona risposta sociale e anche alla possibilità di poter condividere il peso dell’infezione all’esterno dell’ambiente familiare. Di fatto numerosi studi (Guarino Amato 1994-95, 1997, 2000, 2004a; Caluori 1997, Montecchi 2002) mostrano che bambini ritenuti all’oscuro della loro condizione, hanno invece una consapevolezza inconscia della propria malattia. Il loro linguaggio non verbale mostra senza ombra di dubbio che in essi esiste in essi un doppio registro (in accordo con la doppia comunicazione dei genitori): da un lato credono a ciò che dicono i genitori (“Hai l’anemia” o “Si tratta di allergia…” ribadendo che “Non è niente di grave…”) dall’altro, a livello inconscio, sanno cosa sta accadendo al loro corpo, percepiscono la gravità della malattia e il rischio per la propria vita. Questo doppio registro “percettivo” è deleterio sia sul piano della fiducia e del sentirsi accolti dai genitori sia sul piano di una possibile elaborazione della propria condizione. Il tema della fiducia nella relazione genitori — figli è fondamentale per una crescita psichica armonica: sentire di “potersi fidare” dei propri genitori, fa parte del sentirsi accolti e nello stesso tempo fa nascere nel bambino un sufficiente senso di fiducia e sicurez- 211 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV za necessario ad affrontare la vita (Bettelheim 1987). In questi casi invece esistono silenziosi tabù: divieti e censure sulla possibilità di parlare di ciò che percepiscono, degli allarmi sentiti per la propria salute, della paura della loro stessa morte. In tal modo questi bambini non solo non svilupperanno una buona sicurezza in sé e nell’ascolto dei segnali del proprio corpo e delle proprie emozioni (che vengono regolarmente sconfermate dai silenzi e bugie dei genitori) ma, cosa ben più grave, si troveranno soli di fronte alle loro angosce. Il doppio registro (sapere inconscio — non sapere della coscienza) non permette neppure di elaborare il dolore e la paura della malattia e della morte: l’inconscio è consapevole della gravità della malattia e del rischio di morte, ma se questa percezione non raggiunge il livello di coscienza, determina sofferenza e rischio di patologia psichiatrica senz’altro maggiori rispetto alla verità. Sebbene in una maggioranza dei casi si sia arrivati alla comunicazione solo in adolescenza, (età in cui è stata percepita l’urgenza di comunicare: non conoscere la propria diagnosi espone al grande rischio di trasmissione sessuale inconsapevole) si ritiene che il disvelamento in questa fase della vita sia molto rischioso. Sarebbe invece auspicabile che la comunicazione della diagnosi non avvenisse in questa delicata fase della vita, ma che fosse qualcosa che accompagna l’intera crescita dei bambini e non si identifichi in un unico momento in cui il “disvelamento” rischia di essere fortemente traumatogeno. La consapevolezza dell’infezione apre certamente pesanti conflitti e rischi depressivi (Guarino Amato 1994-95; 2000; Baldassari 2002a): spesso si tratta di pazienti che hanno visto morire i propri genitori della stessa malattia e che inevitabilmente si dovranno confrontare con le modalità con cui il genitore ha contratto l’infezione. Insieme alla diagnosi si troveranno di fronte alla tossicodipendenza o a comportamenti sessuali “a rischio” dei propri padri e madri, ta- Infanzia e adolescenza 212 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato luni prenderanno coscienza della loro situazione di figli adottivi e quindi di essere stati abbandonati dai genitori naturali. Questo percorso, senz’altro doloroso, è una necessità irrinunciabile: la possibilità di parlare delle proprie emozioni senza essere censurati, l’eventualità di riuscire a farle emergere dal magma indistinto dell’inconscio rappresenta la strada della crescita. Prendere coscienza di sé, accettare la propria condizione (qualsiasi essa sia) e superare il dolore e il lutto della perdita dell’immagine idealizzata di sé, è l’unica opportunità che i bambini hanno di poter crescere e giorno dopo giorno diventare uomini. Il caso di Agata (con il contributo della Dottoressa Rosanna Martin ) Agata ha 41 anni ed è madre di una ragazza di 16 anni seguita al Day Hospital di Firenze da quando è stata diagnosticata l’infezione. È stata una diagnosi tardiva: la donna, a conoscenza della propria malattia già prima della gestazione, ha rimosso il problema HIV con tutte le sue energie. In tal modo non ha permesso che le venisse eseguito il test in gravidanza e non sono state attuate le procedure per la diminuzione del rischio allora esistenti. L’infezione della bambina è stata misconosciuta fino all’età di 5 anni quando è entrata in ospedale per una grave broncopolmonite. L’infezione stava cedendo il passo alla malattia e l’AIDS era molto vicino. La signora chiede oggi una consultazione per il suo stato di ansia indomabile riguardo la salute della ragazza: i quotidiani problemi sanitari intercorrenti, anche lievi, risuonano in lei come un pericolo imminente per la vita della figlia. È qualcosa che le ricorda giorno dopo giorno che, forse, avrebbe potuto curarsi in gravidanza, avrebbe potuto farsi seguire dai medici per diminuire il rischio di trasmissione. Avrebbe potuto. Non ha fatto e si sente terribilmente 213 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV colpevole. Ogni colpo di tosse della figlia diventa così una spada che la trafigge evocando la sua colpa che sembra ora trasformarsi in un’ansia indomabile. Il senso di colpa dilaniante è fin da subito l’argomento predominante nelle sedute, ma il passaggio alla storia personale di Agata è immediato e chiarificatore. Quella di Agata è la storia di una difficile separazione e individuazione dalla madre che, con il suo mancato riconoscimento, non l’ha legittimata alla vita adulta. Fin da piccola non si è mai sentita amata, per sentirsi accettata doveva supinamente accontentare il desiderio materno, essere come la madre chiedeva. Nonostante i tentativi per accordare queste due istanze (la bambina desiderata dalla madre e il suo vero Sé) Agata si percepiva sempre molto deludente per la madre. Questa controllava ogni aspetto della figlia interferendo con la sua natura ribelle, un po’ “maschiaccia” ed emancipata. Bambina dalle grandi doti artistiche, poco comprese nel piccolo e arretrato paesino in cui la famiglia vive. La madre cerca di insegnarle il cucito e il ricamo, le compera vestiti in cui la figlia non si riconosce, le indica i soggetti che deve disegnare, cerca di insegnarle modi di comportamento adatti a una femminuccia di provincia. In Agata cresce la convinzione di non essere mai abbastanza adeguata per la madre e non sembra ricevere l’amore gratuito e incondizionato che dovrebbe spettare a ogni bambino. Cresce la rabbia che, implacabile e incontenibile, permette l’emergere di una sana volontà di ribellione che la protegge dallo sviluppare un falso Sé. Nonostante ciò i sentimenti di inadeguatezza e i sensi di colpa sono inevitabili e dilaganti. Viene obbligata a frequentare una scuola professionale, ignorando la sua parte artistica e creativa che emerge sempre più prepotente. Il ricordo di sé bambina che, per salvare le lucertole dalla foga distruttrice dei compagni di gioco, le rinchiude nel suo cassetto della biancheria intima, sembra riguardare in senso simbolico la necessità di nascondere e rinchiu- Infanzia e adolescenza 214 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato dere una parte di sé avvertita come viscida e indegna, ma e allo stesso tempo fragile e bisognosa di protezione e salvezza. Tenta di adeguarsi alle richieste materne fidanzandosi con un ragazzo molto più grande scelto per lei dalla madre, ma la cosa non regge. Agata si trasferisce lontano, nel nord, lontano dalle costrizioni e dal controllo familiare: frequenta l’Accademia d’Arte nella stessa città in cui vive un cugino più grande, che può fungere da “lunga mano” genitoriale, frequenta anche l’università. Il suo progetto individuale sembra sbocciare, ma la via dell’autonomia ha in sé molti rischi. Inizia così la “vera” nascita di Agata che contempla, come ogni nascita, anche un rischio di morte. Dice: “Non mi sembrava vero poter essere senza controllo, vestirmi come volevo, sentirmi libera di gestire la mia vita, tutto mi appariva così bello e nuovo, ero felice!”. L’uomo che incontra e di cui si innamora la coinvolgerà e la stravolgerà in una storia tormentata di odio-amore, vittima-carnefice, Eros e Thanatos… Da lui subirà di tutto, da lui verrà contagiata. È allora che la lucertola muore soffocata nel cassetto: scopre di aver contratto l’HIV. Si fa strada l’idea che la madre avesse ragione e che le sue velleità e desideri di ribellione l’abbiano portata a ricevere una punizione. Il suo comportamento emancipato ha ucciso la sua parte ribelle e vitale. La colpa e la vergogna imperano e maltrattano il suo fragile Sé. È come se una grossa “A” rossa (Hawthorne 1850) l’avesse marchiata. Ogni cosa cambia, tutto il suo Sé ancora in crescita si blocca, la ricerca dell’autonomia e indipendenza ha portato una macchia indelebile. Anche il modo di vestire vira bruscamente: non si deve essere guardate anche se belle, meglio scivolare via nell’ombra, rendersi invisibili. Donna e madre dall’identità incerta e insicura, più ragazza che adulta, nutre per se stessa una grande sfiducia: difficile se non impossibile essere una madre adeguata. Nel rapporto con la figlia, Agata in- 215 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV fatti sembra annaspare sentendosi inadatta a svolgere quella funzione di protezione e rinforzo che essa stessa ha ricevuto in maniera così distorta. Tra loro vi è una singolare alchimia in cui malattia colpa e vergogna funzionano da elementi catalizzatori che pietrificano madre e figlia in una relazione simbiotica, tipica dell’HIV perinatale. Con la psicoterapia riesce a contattare le sue antiche ferite e l’ansia si scioglie in pianto, le colpe diventano lacrime e il dolore trova uno spazio per essere accolto e trasformato. Col tempo sembra sorgere all’orizzonte la possibilità di una nuova relazione con la figlia e con se stessa, una sua identità embrionale inizia a farsi spazio e chiede di essere vista: per la prima volta trova il coraggio di esporre i suoi lavori artistici. Insieme a essi emerge una donna creativa e vitale, ancora timida e insicura, ma con il desiderio di incontrare e attraversare le proprie responsabilità. La malattia è la sua ferita e la cicatrice l’accompagnerà per tutta la vita. Se è vero che “Noi siamo le nostre storie, i racconti di quello che ci è successo” (Mitchell 2003, p. 107) la storia del contagio ha fatto parte del suo percorso di individuazione e ancora le chiede qualcosa...: “C’è un insetto molto grosso, sembra un calabrone… mi viene vicino e io cerco di colpirlo, ci riesco… ma lui ritorna, mi punge la gamba che lentamente imputridisce. Mi guardo inorridita” . La malattia sembra in questo sogno anche una metafora della vita e del timore che tutti abbiamo di fronte all’eventualità della nostra stessa morte. Del resto per poterci individuare abbiamo necessità di contattare le nostre parti sporche, meschine, putride... L’Ombra ha molti modi di presentarsi. Credo che l’HIV abbia “solo” amplificato un senso di colpa preesistente: colpa per voler crescere diversa dalle aspettative materne, colpa per volersi individuare e non essere solo l’oggetto parziale della madre, colpa che ora la immobilizza in un vissuto a metà. Tramite la malattia ha dato un contenitore al suo Infanzia e adolescenza 216 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato vissuto colpevole e, pur cucendosi addosso il vestito dalla grande lettera scarlatta che concretizza la colpa e la vergogna, ha avuto il coraggio di incontrare se stessa e guardare al suo dolore che non sempre si chiama AIDS. Il peso della colpa e della vergogna nei genitori e figli con HIV/AIDS Se nei nostri studi affrontiamo quotidianamente il tema della colpa e della vergogna giocato sul piano fantasmatico e intrapsichico, nel caso dei pazienti con HIV/AIDS il fantasma prende corpo e vigore. Per loro non si tratta però “solo” di un fantasma, non è meramente un gioco di luci e ombre alla stregua della distorsione rifrattiva propria dei miraggi. Qui lo spettro della colpa è qualcosa di concreto che attiene ai temi che fondano ogni esistenza umana e che allo stesso tempo ne rappresentano i limiti: la vita e la morte. Il senso di colpa, che accompagna ogni trasgressione, riguarda l’azione, anche involontaria; fa quindi riferimento a ciò che “si è fatto” e al sistema normativo introiettato: il Super Io che, severo e implacabile giudica e punisce le nostre azioni (vere o presunte) o i nostri desideri infrattivi (Battacchi 2002). Il senso della vergogna ha invece a che fare con la percezione di “come si è”, coinvolge cioè qualcosa che è costitutivo della persona e che trova origine nell’ideale del Sé, riguardando specificamente la necessità di corrispondere all’immagine idealizzata per poter essere amati e considerati degni di amore (Battacchi 2002; Pandolfi 2002). Mentre la colpa ha una sua funzione psichica, funzionando anche da spartiacque nello sviluppo del bambino (Freud 1929, 1932) e, offrendo una possibilità riparativa, gli permette di accedere alla fase depressiva (Klein 1932, 1948), la vergogna appare più difficilmente riparabile perché attiene più global- 217 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV mente al Sé, al suo essere costitutivo, all’essere meritevole di amore per “il solo fatto di esistere”. Questa precisazione appare fondamentale per poter comprendere quanto colpa e vergogna siano tra sé legate e intrecciate in un reticolo di proposizioni complesse e nello stesso tempo quanto siano protagoniste in pazienti portatori del virus HIV. I casi in cui le donne hanno deciso intenzionalmente di avere rapporti non protetti col partner malato, infezioni cercate con determinazione, talvolta proprio durante la gravidanza, infezioni che suggellano un legame amoroso perverso, in cui vi è la necessità di essere uniti nella vita e nella morte percorrendo la strada della malattia, di quella malattia. Legami mortiferi non solo psichicamente, ma su un piano concreto, spaventosamente reale. Questi casi così estremi nel loro presentarsi, ma anche i contagi apparentemente casuali (come quello di Agata), mi hanno fatto riflettere su quanto il senso di colpa e di vergogna pervada trasversalmente la questione dell’HIV/AIDS degli adulti e come parallelamente coinvolga i figli di queste madri e padri, neonati che, già nella fantasia dei genitori, portano sulle spalle il peso della loro colpa, della loro vergogna. Pensando alla colpa come a una condizione ontologica dell’esistenza (Galimberti 1999) costitutiva dell’essere umano, penso a quanto questa condizione si renda concreta per i sieropositivi e a quanto i bambini che nascono con questa “macchia” incarnino realmente non solo la colpa dei genitori, ma anche la loro stessa colpa semplicemente per essere nati, per essere venuti al mondo. Dall’osservazione di molti piccoli pazienti in questi anni di lavoro, emerge infatti un loro vissuto comune: “Sono colpevole di essere malato” quasi a fantasticare che, se non si sono negativizzati, se non hanno funzionato come parte sana del genitore, come parte che solleva dalla colpa, è colpa loro. Insieme all’angoscia la colpa ontogenetica si riat- Infanzia e adolescenza 218 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato tiva e si amplifica laddove si abbandona una sicurezza originaria, come avviene in occasione di ogni separazione, anche se fisiologica (come nel caso di Agata). Questa precisazione però ci induce a pensare a quanto nei genitori HIV il momento del proprio contagio abbia collimato con una fase della vita in cui veniva agita una necessaria separazione dalla famiglia di origine. Questa spesso si è concretizzata con agiti di rottura, con uso di sostanze o con relazioni sentimentali con partner dissoluti e sregolati, o comunque attraverso la ricerca, per prove ed errori, della propria autonomia e indipendenza. Se separarsi ha portato a ciò, la colpa diventa esponenziale: non solo si ha colpa di aver tentato la separazione e l’individuazione, ma lungo la strada si è anche stati contagiati dalla peste del nostro secolo. La trasmissione ai figli esprime simbolicamente l’impossibilità di poter attuare un risarcimento, qualcosa che si perpetua in maniera transgenerazionale di padre/madre in figlio senza possibilità di cambiamento e riparazione. Le colpe dei padri ricadono davvero sui figli…. Ecco che si comprende che nel caso dell’HIV/AIDS si tratta di una colpa esistenziale in cui lo stesso vivere è sentito come fonte di colpa insostenibile. Questa accezione (colpa esistenziale) connette la colpa alla depressione, ma apre anche la possibilità ad un eventuale e ulteriore passaggio su cui i genitori HIV positivi si trovano frequentemente a riflettere nel corso delle loro psicoterapie. Infatti sebbene non si chiuda mai il conto con la colpa, accade che si delinei all’orizzonte l’eventualità di accedere alla responsabilità piuttosto che rimanere ancorati alla colpa che sembra contenere in sé anche una modalità difensiva (Filippi 2003). Tentare di assumersi la responsabilità del contagio e della malattia, uscendo dalla propria colpevolezza e dal ruolo di vittima rappresenta la possibilità di aprirsi a una nuova storia in cui l’HIV può essere sentito come la cicatrice che ci rende riconoscibili a noi stessi e agli altri (Mitchell 2003). La nostra iden- 219 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV tità è determinata precipuamente dalle nostre vecchie ferite, danni che la vita ci ha inferto che ci rendono quelli che siamo. Ed è questa nostra identità ferita che necessita di confrontarsi anche con la ricerca di senso: dare significato al passato per comprendere il presente è il contenuto di ogni lavoro di analisi. Anche i genitori malati hanno necessità di rintracciare il senso della loro condizione. Elaborare la colpa dà modo di poter sopportare la responsabilità e ciò apre la possibilità di accedere a un nuovo modo (creativo) di gestire i temi complessi della propria vita, della propria infezione e di quella dei figli. Anche la vergogna segue la strada della trasformazione della colpa in responsabilità: nelle donne sieropositive che hanno seguito una psicoterapia analitica, la vergogna si stempera insieme alla colpa come se si nutrissero l’una dell’altra. Tuttavia la vergogna ci conduce nell’intersoggettività dell’“essere visti per ciò che si è” ed essere malati rappresenta per ciascuno di noi una pesante ferita narcisistica. La letteratura ci conferma anche che non ci si vergogna solo di sé, esiste un “noi” familiare che viene ad essere contagiato dalla vergogna e le barriere tra il “sé” e il “noi” non contano più di tanto… La vergogna cioè supera i limiti dell’individuo andando a contaminare anche il gruppo di appartenenza e ciò è particolarmente vero nel caso di malattie psichiche o anche di alcune malattie organiche tra cui l’AIDS. E l’AIDS è una vergogna familiare di cui è difficile parlare con terzi. Anche laddove la malattia non faccia esplicitamente parte della storia familiare, esiste un sotterraneo segreto di cui non si parla, che deve essere protetto, custodito. L’adesione alla regola implicita del silenzio crea la porta di entrata alla vergogna, indipendentemente dall’entità del segreto (Fossum et al. 1986). La questione del segreto familiare da mantenere a qualsiasi prezzo diventa per il bambino un potente attivatore del senso di vergogna, come se aderire al silenzio rappresentasse implicitamente essere Infanzia e adolescenza 220 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato contaminati da qualcosa che è così grave e umiliante da non poter essere neppure pronunziato. Il messaggio che arriva in modo non verbale e subliminale non può essere adeguatamente organizzato dal bambino, pertanto rimane nella psiche infantile come un’entità indigeribile a formare un possibile nucleo di psicopatologia. Nascondere la “cosa senza nome” come accade quotidianamente nella vita di relazione e scolastica del bambino HIV positivo, favorisce proprio la percezione di una parte di sé (quella parte) come indegna e immonda. Il disprezzo di sé va allora a distorcere i nuclei profondi di identità endopsichica e relazionale. Certamente il senso di vergogna nel bambino si intreccia pesantemente con il suo sviluppo e, riguardando il “come si è”, va a minare profondamente la fiducia in se stessi e l’autostima, rischiando di ledere permanentemente la possibilità di sentirsi amati per “ciò che si è”, di quell’amore gratuito e senza condizione alcuna tipico della relazione materna (Pandolfi 2002). Se lo sguardo materno estatico e approvante ci introduce e ci legittima all’esistenza, nei bambini infetti lo sguardo materno si appesantisce della propria colpa e vergogna veicolando nel figlio il senso del pericolo intrinseco all’”esser visti” e “all’essere toccati”. Se infatti la vergogna prevede la necessità di non essere visti, perché ciò è sentito come un pericolo per la propria integrità, nell’AIDS si arricchisce dell’impossibilità ad essere toccati perché contaminanti. Essere individuati come soggetti sieropositivi è concretamente per essi un pericolo di emarginazione e solitudine oltre che una stigma sociale dal peso indicibile. Inoltre in questi bambini si verificano continui accostamenti inconsci tra la vergogna e la colpa per cui l’equazione che si fa strada interiormente è che certamente ci si deve nascondere perché si è commesso un qualche genere di misfatto. Parallelamente a quanto si è osservato nei bambini abusati compare la 221 Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV fantasia che “ciò che mi accade me lo sono meritato perché sono stato cattivo” e anche la malattia, con le terapie, le continue analisi talvolta invasive o dolorose diventano parte e conferma di qualcosa che attiene a sé di cui non si è degni. Il bambino infetto, oltre a portare la sua colpa per non essersi negativizzato e funzionare come un rimando continuo alla madre e al padre riguardo alla loro colpa, sembra poter calamitare su di sé anche una sorta di “colpa originaria” che si inserisce primitivamente nello sviluppo della personalità alla stregua di ciò che accade ai bambini non desiderati, non voluti e rifiutati intimamente anche se non abortiti e venuti al mondo. Ciò non sorprende perché effettivamente un frammento di essi è rifiutato fin dall’inizio: la loro parte malata non viene né riconosciuta né accolta dai genitori che vorrebbero tenere con sé solo il bambino sano. Un’ultima considerazione sul senso di colpa devastante che dilaga e travolge come uno tsunami nel caso della morte di un componente della famiglia con HIV: i sopravvissuti, ciascuno per la propria posizione all’interno della famiglia, si sentono in colpa per il solo fatto di “continuare a vivere”. Il senso di colpa del sopravvissuto, intriso di vergogna ricorda ciò che alcuni autori (Levi 1988; Bettelheim 1952) hanno descritto riguardo ai sopravvissuti all’olocausto: non si può più continuare a vivere senza sentirsi colpevoli per essere ancora al mondo, respirare, sorridere, amare, piangere... “La mia colpa è il fatto di essere ancora vivo” (K. Jaspers, 1946, p. 73). Infanzia e adolescenza 222 Infanzia e adolescenza Alessandra Guarino Amato Riferimenti bibliografici Baldassari S. (2002a), “Come posso accettare che potrei morire se non sono mai nato?”, in Autori Vari, a cura di Francesco Montecchi, Nati per morire, destinati a vivere, Franco Angeli, Milano 2002. Baldassari S. (2002b), “I futuri percorsi: dalla comunicazione della diagnosi alla aderenza alle terapie farmacologiche”, in op. cit. Bartoli G. 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The paper discusses in favour of a precocious communication of the diagnosis and of the parents assumption of a constructive responsibility. Infanzia e adolescenza 227 La Pratica Analitica Francesco Bisagni, analista con funzioni di training e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia CIPA. Susanna Chiesa, analista con funzioni di training e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia CIPA. Enrico Ferrari, psicoterapeuta, CIPA. Nadia Fina, analista con funzioni di training e docente della Scuola di Psicoterapia CIPA. Alessandra Guarino Amato, pediatra e psicoterapeuta con formazione analitica, è consulente presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria A. Meyer di Firenze dove si occupa da molti anni della psicoterapia dei bambini HIV positivi. Collabora con l’Università con attività di insegnamento di Psicologia del bambino e dell’adolescente nell’ambito della Scuola di Specializzazione in Pediatria. Gianni Kaufman, analista con funzioni di training e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia CIPA. Gabriella Mariotti, psicoanalista membro SPI, condirettore di Gli Argonauti. Bruno Meroni, analista CIPA con funzioni di training. Gianni Nagliero, analista con funzioni di training e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia AIPA. Anna Sabatini Scalmati, membro didatta dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (AIPPI), membro associato della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP). Autori Finito di stampare nel dicembre 2007 da Àncora Arti Grafiche, Milano - Italia per conto di La biblioteca di Vivarium via Caprera 4, Milano