La Pratica Analitica - Centro Italiano di Psicologia Analitica

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La Pratica Analitica - Centro Italiano di Psicologia Analitica
La Pratica Analitica
Rivista
del Centro
Italiano
di Psicologia
Analitica
Istituto
di Milano
V
la biblioteca di
VIVARIUM
La Pratica Analitica - rivista annuale - nuova serie n. 5/2007-2008
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Susanna Chiesa, Silvia Di Lorenzo, Nadia Fina,
Gianni Kaufman, Laura Vanzulli
RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA, a cura di S. Di Lorenzo, L. Vanzulli
I MODI DEL PENSARE, a cura di G. Cavallari, S. Chiesa, N. Fina, G. Kaufman
INFANZIA E ADOLESCENZA, a cura di R. Andreoli, M. Ceccarelli
RECENSIONI, a cura della redazione
Segreteria di redazione:
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Registrazione Tribunale di Milano n. 468 in data 18/07/03
ISBN 978-88-87131-94-9
© 2007 La biblioteca di Vivarium
Milano, via Caprera 4
Sommario
Editoriale
5
I MODI DEL PENSARE
Gianni Kaufman
Vergogna: l’emozione del limite
Bruno Meroni
Superior stabat lupus
Gabriella Mariotti
Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
Anna Sabatini Scalmati
L’insostenibile peso della vergogna
7
37
55
71
RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA
Susanna Chiesa
La vergogna nella relazione
Enrico Ferrari
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
109
Nadia Fina
La vergogna come malattia dell’idealità
129
93
INFANZIA E ADOLESCENZA
Francesco Bisagni
La corsa del Bambino Ombra
Gianni Nagliero
La vergogna nel transfert/controtransfert
Alessandra Guarino Amato
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
Autori
145
167
187
227
5
La Pratica Analitica
La proposta, per questo numero di Pratica Analitica, del tema “Colpa e vergogna nella società contemporanea” sollecitava una riflessione sul significato e sul peso relativo di ambedue i vissuti, nello specifico della società attuale, esperibili nel lavoro clinico e nella stessa vita quotidiana. Già a partire dai primi contributi il tema si è precisato come discorso sulle nuove sfide della società globale (o, come vuole
un neologismo di successo, della ‘società liquida’) alla soggettività e all’identità personali. Di ciò si occupano in modo specifico i lavori di Gianni Kaufman
(sugli sviluppi individuativi e anti-individuativi delle
forme contemporanee della vergogna) e di Bruno
Meroni (sul distacco crescente tra vergogna e coscienza morale, e sulla priorità dell’omologazione e
dell’appartenenza di gruppo). Il tema è inoltre ripreso da Nadia Fina, che tratta le implicazioni cliniche del prevalere del registro narcisistico e dei principi della competizione, del disprezzo e del cinismo;
da Enrico Ferrari, che ipotizza un distacco, tra colpa
e codice paterno e un suo riproporsi nella forma più
arcaica di colpa originaria di separazione; da Francesco Bisagni che prendendo spunto da un caso
estremo di sindrome ipercinetica nell’infanzia — e
dai connessi, drammatici vissuti di vergogna — guarda in maniera assai problematica alla situazione attuale della genitorialità.
Di taglio più generale, ma comunque non privi di
riferimenti all’attualità, sono i contributi di Gabriella Mariotti, sulla differenziazione tra senso di colpa
‘autentico’ e progressivo — di matrice edipica — e senso di colpa, più prossimo alla vergogna, legato a un’ideale narcisistico persecutorio; di Anna Sabatini
Scalmati sul nesso tra vergogna di tipo post-traumatico (da grave violenza o seduzione sessuale) e stati
dissociativi; di Susanna Chiesa su esperienze di vergogna — specie femminile — nella relazione analitica;
di Gianni Nagliero sulla dinamica controtransferale
della vergogna. Da ultimo Alessandra Guarino Ama-
Editoriale
6
La Pratica Analitica
La redazione
to riprende il filo della contemporaneità, sia pure da
un vertice molto specifico, trattando i vissuti di colpa e vergogna nella situazione sia personale che familiare, dei bambini e degli adolescenti affetti da infezione HIV.
La redazione
7
I modi del pensare
1. — Chiamiamo ‘vergogna’ l’emozione che
si accompagna a un’esperienza o alla consapevolezza più o meno inattesa ma sempre
dolorosa del nostro limite, della nostra impotenza o vulnerabilità. Un limite che potremo
incontrare come una cronica o occasionale inferiorità rispetto a uno standard posto dal collettivo o anche importante per noi soltanto
(pensiamo al fallimento in un’attività, professionale o sportiva in cui si sia molto investito): parliamo allora di vergogna da inadeguatezza. O,
ancora, come confine inavvertitamente o intenzionalmente profanato del sé (parliamo allora di vergogna da violazione); vergogna conseguente a un attacco alla nostra
privatezza, intimità o integrità psichica fisica e sessuale; oppure a ogni abdicazione, più o meno imposta, a una credenza, a una norma, a un comportamento o ad altro aspetto che riteniamo o scopriamo
essere qualificante dell’identità e del nostro senso del
sé.1 La rilevanza dell’aspetto comune (si è detto: la
vulnerabilità o l’esperienza del limite) trova riscontro
nella validità relativa della distinzione. Così ad esempio il subire violenza, morale o fisica, sarà spesso vissuto — causa in quanto tale di ulteriore vergogna — anche come prova di incapacità/inadeguatezza a difenderci; e la rinuncia ad un traguardo fortemente investito potrà esser spesso più dolorosamente vissuta anche come lesione o tradimento dell’identità. Ma è
sempre utile tenere in vita la distinzione ricollegandola, più che a diverse situazioni oggettive, alla differenza o a un mutamento possibile nel modo di viverle o di reagirvi; e è proprio da qui, come meglio vedremo, che
dovrà muovere la riflessione intorno a vergogna e individuazione.
Prima però di ogni altro distinguo interno alla vergogna, va articolata la sua diversità dalla colpa. Si tratta, in ambedue i casi, alla stessa stregua di imbarazzo
ed orgoglio, di emozioni sociali, che cioè riguardano
“la valutazione di noi stessi nei confronti degli altri o
Vergogna:
l’emozione
del limite
Gianni Kaufman
1. Riprendo la distinzione (in forma appena modificata) da A. Pandolfi,
La vergogna, Franco Angeli, Milano, p. 17. Sulla
vergogna come riferita al
‘senso di sé’ o all’’amor
di sé’ vedi M. W. Battacchi, O. Codispoti, La vergogna, Il Mulino, Bologna
1992, pp. 38-39.
8
I modi del pensare
2. Così L. Anolli, La vergogna, Il Mulino, Bologna
2003, pp. 33-34.
3. M. W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit., p. 38.
4. L. Wurmser (1981,
1994), “Saggio fenomenologico sulla vergogna”
in AA.VV., La vergogna,
Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 43-44.
5. Vedi A. Tagliapietra, La
forza del pudore, Rizzoli,
Milano 2006, p. 38.
Gianni Kaufman
da parte di altri”2 e che pertanto possono viversi solo
in un contesto — o su uno sfondo — interpersonale.
(Non è ad esempio così per la gioia, o per la collera
o la tristezza che si producono anche in risposta a
eventi materiali). Però la colpa ha sempre ad oggetto
determinate azioni o omissioni — e la valutazione delle loro conseguenze su altri — mentre la vergogna tende a
investire l’intero sé. Anche nel caso della vergogna morale, quale si prova per atti di viltà o tradimento o per
qualsiasi manifestazione di debolezza morale di chi vi
è coinvolto — atti che suscitano, probabilmente anche
senso di colpa — è sempre in gioco l’autovalutazione
globale della persona. “Non ci si vergogna per l’azione in sé ma per ciò che essa rivela o può far intendere agli altri di noi come persone, e non solo per il
momento dato, ma per sempre (non ‘hai avuto paura’, ma ‘sei un vigliacco’)”.3 Molto efficace, ancora,
questo esempio di Wurmser:
“Il bambino prova vergogna per la sua azione di aver bagnato il letto, che si contrappone all’aspettativa di sua madre, la
quale gli ha esplicitamente proibito simili perdite di controllo. Prova vergogna anche per tutta la confusione che consegue alla sua azione; ma ciò di cui soprattutto e più dolorosamente prova vergogna è l’implicazione che, adesso, lui è un
‘bambino cattivo’, un ‘bambino debole’, un ‘bambino sporco’, o qualunque altro valore altamente negativo la cultura familiare decida di imporgli”.4
Ancora. Se nella colpa è comunque in gioco una
responsabilità, la vergogna può esser causata da situazioni su cui non abbiamo, nostro malgrado, nessuna
influenza: un difetto fisico, una condizione familiare
o sociale, le ricadute di un evento fortuito o di un’azione di altri, come l’azione turpe o riprovevole di un
congiunto, o ancora (come nell’abuso o nella violenza subita — nella vergogna da violazione) anche di un’azione di cui siamo vittime.5 Può allora dirsi (ma è controverso se ciò si applichi anche alla vergogna morale)
che la vergogna rinvia a un’impotenza nel farsi valere,
la colpa all’aver prodotto, col proprio potere, un danno
9
Vergogna: l’emozione del limite
per altri.6 Oppure che nella colpa l’altro ha il ruolo
passivo di vittima, e il soggetto il ruolo di autore dell’azione o omissione; nella vergogna l’altro (che può
però essere anche un altro interiorizzato) ha il ruolo
attivo dell’umiliatore e il soggetto quello passivo di
umiliato.
Si osserva infine — e più sottilmente — che
“Nella vergogna vediamo all’opera la figura del testimone,
perché la vergogna è collegata all’esperienza del vedere e dell’essere visti. Nella colpa, invece, sono in gioco le immagini
interiorizzate della vittima o del pubblico inquisitore, e la sensorialità implicata è piuttosto quella dell’udito, della cosiddetta ‘voce della coscienza’”.7
Così anche Goldberg: “La vergogna è dell’ordine
dello sguardo mentre la colpevolezza è dell’ordine
della voce (la voce della coscienza). Per questo essa dà
luogo a un’etica”.8 L’opposizione probabilmente non
va presa alla lettera — ci si vergogna, sicuramente, anche per essere stati ascoltati; ma ha il merito di dare
enfasi al peculiare vissuto di esposizione che è nella vergogna,9 l’esposizione inattesa e più o meno improvvisa “di aspetti particolarmente sensibili, intimi e vulnerabili del Sé”.10 Di qui la peculiarità inconfondibile vuoi dei vissuti vuoi delle espressioni esteriori della vergogna. Chi si vergogna bramerebbe sparire,
sprofondare, nascondersi, e tuttavia si sente congelato, quasi paralizzato, come se il disprezzo (anche solo temuto), il “crollo radicale del rispetto del soggetto in quanto persona”11 avessero l’effetto di una brutale cosificazione. Più che nascondersi allora conta
non vedere, non incontrare lo sguardo dell’altro12 (tendiamo infatti a guardare in basso, a chinare il capo) quasi temendo, di quello sguardo, un magico effetto pietrificatore.
Si può comprendere, visto tutto questo, perché la
vergogna sia quasi sempre considerata più distruttiva,
e anche più sterile della colpa: colpendo l’essere13 prima che il fare della persona non lascia spazio né dà
I modi del pensare
6. L. Wurmser, op. cit., p.
42; J. Katz, “The elements
of shame” in M. R. Lansky, A. P. Morrison, a cura
di, The Widening Scope of
Shame, The Analytic
Press, Hillsdale and London 1997, pp. 243-245.
Sul caso specifico della
vergogna morale vedi G.
Anders (1956, 1980),
L’uomo è antiquato, vol. I,
Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 98.
7. A. Tagliapietra, op. cit.,
p. 38.
8. J. Goldberg (1985), La
colpa, Feltrinelli, Milano
1988, p. 81.
9. Ciò per la peculiare
asimmetria che caratterizza la visione. Così M.
W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit, p. 36.
10. Così H. M. Lind, On
Shame and the Search for
Identity, Science Editions,
New York 1961 citato da
L. Wurmser, op. cit., p. 61.
11. L. Wurmser (1981,
1994), “La struttura della
vergogna” in AA. VV., op.
cit., p. 105.
12. M. W. Battacchi, O.
Codispoti, op. cit., p. 29.
13. G. Anders, op. cit., vol
I, p. 98
10
I modi del pensare
14. Su questo anche M. C.
Nussbaum (2004), Nascondere l’identità, Carocci,
Roma 2005, p. 246.
15. Su questo aspetto vedi
L. Anolli, op. cit., p. 31; P.
Mollon (2002), Vergogna e
Gelosia, Astrolabio, Roma
2006, pp. 53-54; M. Lewis
(1992), Il Sé a nudo, Giunti, Firenze 1995, pp. 161164 e 183-208; A. P. Morrison, Shame the Underside
of Narcissism, The Analytic
Press, Hillsdale and London 1989, pp. 101 sgg. e
106 sgg.
16. La coscienza e l’accettazione del limite sono
condizione della relazione col Sé perché introducono alla consapevolezza
della propria unicità. Così Jung: “Il sentimento
dell’illimitato (…) si può
raggiungere solo se siamo definiti al massimo.
La più grande limitazione per l’uomo è il Sé”; ciò
è palese nell’esperienza:
‘Io sono solo questo!’ Solo
la coscienza dei nostri augusti confini nel ‘Sé’ costituisce il legame con
l’infinità dell’inconscio.
In questa consapevolezza
io mi sento insieme limitato ed eterno, mi sento
l’uno e l’altro. Se mi so
unico nella mia combinazione individuale,vale poi
a dire limitato, ho la possibilità di prendere coscienza anche dell’illimitato.” Cfr. C. G. Jung
(1963), Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano
1978, p. 383.
Gianni Kaufman
indicazioni per alcun esito riparativo (come invece la
colpa: la confessione o il risarcimento del danno, la
riconciliazione con il danneggiato) né un indirizzo
allo sviluppo morale.14 Per questo, probabilmente, è
così spesso congiunta alla rabbia — rivolta al sé, ma prima ancora agli umiliatori — e, se protratta, esita in depressione.15 E tuttavia se deve farsi questione, nella vergogna, non solamente di inferiorità o fallimento (e
anche qui la vergogna, in piccole dosi, può essere stimolo al miglioramento di sé) ma di coscienza e accettazione di limiti, sembra difficile non annettervi
anche un valore individuativo.16 Si può provare, su
questo punto, ad avanzare un’ipotesi. Si dà un percorso individuativo della vergogna quando essa si muova,
nel vissuto dell’Io, dall’area ‘soggettiva’ dell’inadeguatezza (legata a criteri in qualche modo arbitrari di
valutazione) a quella ‘oggettiva’ della violazione
(perché riferita a confini del sé): se ad esempio mi interrogo sulle ragioni di un mio fallimento e giungo a
pensare di aver fallito, potremmo dire, nel farmi violenza o nel tradire me stesso (o ancora nell’essermi lasciato indurre a tradire me stesso), nel perseguire e prima
nel pormi scopi o valori non compatibili con i miei
mezzi, o con i miei autentici interessi, i miei sentimenti o radicati principi etici. Si dà invece un percorso deindividuativo o alienante se mi assumo ed elaboro
come mia insufficienza, o peggio ancora come difetto o mancanza, una violazione subita: ciò accade
spesso, come è noto, alle vittime di abuso sessuale,
ma accade pure, più sottilmente, in età evolutiva, come rifiuto o rispecchiamento mancato di emozioni
infantili che siano assunti e così fatti propri dal bambino stesso, fino a produrre vere e proprie scissioni e
costruzioni di falso Sé. Illustreremo ora brevemente
l’uno e l’altro percorso rispetto a due aree certamente strategiche per l’individuazione: il corpo e, appunto, la vita emotiva.
11
Vergogna: l’emozione del limite
2. — Il corpo è oggetto per antonomasia di pudore
e vergogna. Lo è in quanto tale, perché espressione e
realtà stessa del nostro limite, di ciò che in noi è mortalità e finitezza, ma anche bruttezza, volgarità, pesantezza: che dunque vorremmo non accettare e certamente non teniamo a mostrare, ma che tuttavia ci
definisce e identifica. “Questo corpo qui presente” —
scrive Tagliapietra17 — “questo corpo malato, vecchio,
ferito, dolente, difettoso, sgradevole, brutto, pieno
d’imperfezioni, mi possiede, è me stesso, mentre
quella dimensione ulteriore che è stata chiamata, nel
corso del tempo, anima, interiorità, soggetto, coscienza, in realtà è sempre pronta a dileguarsi nel
pensiero più vasto del genericamente umano. Dietro
il pudore (…) sta il quasi nulla del corpo e della biologia, del difetto e del gesto, della differenza che è il
segreto di ciascuno al fondo di ognuno. Così, se il pudore si dilegua, si dilegua anche l’individuo”.
Troviamo dunque, in questa opposizione tra interiorità e corpo, come ha già visto per primo Sartre,
una valenza individuativa che pare quasi costitutiva
della stessa vergogna: il corpo, in quanto tramite del
mio esser visto da altri, mi restituisce una oggettità, un
ritrovarmi cosa tra le cose, la quale sovverte ma insieme
trascende la mia qualità di soggetto. La sovverte nel
senso proprio che la capovolge o la nega ossia me ne
espropria a favore dell’altro e pone me dove prima
era lui, nella posizione di oggetto.18 Ma la trascende
(e qui è il momento individuativo) perché non mi è
dato di liquidare questa oggettità come mera immagine prodotta da altri: essa è sì fuori, irrimediabilmente, dalla mia esperienza (non posso rendermi oggetto di me medesimo, solo per l’altro mi do come oggetto)
ma io sono anche e senza alcun dubbio questa oggettità, mi
ci riconosco e ne so responsabile. L’altro pertanto — qui
sta per Sartre l’aspetto ineluttabile della vergogna —
nell’atto stesso in cui mi trascende nel mio esser soggetto mi costituisce nel mio stesso essere e solo in questo
esser sottratto a me stesso, in questo esser trasceso,
I modi del pensare
17. A. Tagliapietra, op.
cit., p. 215.
18. J. P. Sartre (1943),
L’essere e il nulla, Net, Milano 2002, p. 273.
12
I modi del pensare
Gianni Kaufman
mi è dato di accedere alla coscienza di me.
19. Ibidem, p. 336.
20. E’ questa la prima ragion d’essere del pudore
nella discussione di Hegel. Vedi in proposito A.
Tagliapietra, op. cit., pp.
65 passim.
21. Ibidem, pp. 176-177.
22. Il pudore differisce
dalla vergogna perché coinvolge sempre la responsabilità personale (Ibidem,
p. 51) e non è un’emozione (M. W. Battacchi,
O. Codispoti, op. cit., p.
22).
“La vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma, in generale, di essere un oggetto cioè
di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della
caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o
quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono ‘caduto’
nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono. Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità, non sono che
specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo
simbolizza qui la nostra oggettità senza difesa. Vestirsi, significa dissimulare la propria oggettità, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè d’essere puro soggetto. Per questo il simbolo biblico della caduta, dopo il peccato originale, è
il fatto che Adamo ed Eva ‘capiscono di essere nudi’”.19
Il corpo però non simboleggia soltanto, come vuole Sartre, l’oggettità indifesa. È anche il confine simbolico dell’identità personale, sul doppio versante
del suo distinguersi dalla natura animale20 — che pure
è anche nostra — quindi da ciò che in essa può trascinarci al degrado, alla confusione e all’indifferenziazione; ma anche del suo difendersi e distanziarsi dal
mondo esterno e nel differenziarsi dal collettivo. Il
corpo allora, come misura della distanza e del rispetto reciproco, e come confine ultimo dell’intimità o
del segreto: dell’inviolabile ma insieme anche dell’irriducibile, il non omologabile, il nucleo opaco ed inaccessibile della persona.21 Su tutto ciò, e non soltanto
sulla nudità fisica, vigila il pudore: un timore diffuso,
che sembra a volte quasi immotivato, ed è in certo
modo anticipazione, segnale e insieme evitamento
della vergogna.22 E in cui è primaria la dimensione
relazionale: c’è meno pudore verso i familiari, ma anche in situazioni di quasi completa estraneità e anonimato come, ad esempio, quando ci capita di confidarci anche su vicende relativamente private con chi
conosciamo solo occasionalmente e già sappiamo
che non incontreremo mai più.
Se ora il prender le distanze dall’assolutezza della
13
Vergogna: l’emozione del limite
nostra libertà di soggetti per fare salvo (ma non è
questa la posizione di Sartre!) con l’oggettità e i limiti
del corpo anche il ‘segreto’ della differenza è già attitudine eminentemente individuativa,23 un primo esempio, purtroppo più attuale di declinazione alienante
della vergogna è la prassi diffusa della spudoratezza.
L’allentamento — di cui s’è appena detto — in situazioni di estraneità e anonimità del pudore ha la tendenza a divenire la regola quanto più diventano fluide e precarie le reti di rapporti e gli ancoraggi sociali dell’identità, e quanto più le identità divenute fragili cercano il conforto dell’esser guardati e dell’apparire. La resistenza all’oggettivazione — che è la vergogna — sembra rivolgersi nel suo opposto24 ed è quasi un obbligo l’esibizione, non solamente del nudo fisico ma dell’intimità, privata e familiare, di sentimenti e vissuti. Essa non mira solo a rispecchiarsi, a
riecheggiarsi nella visione — o nell’ascolto — dell’altro, ma a confermare, se e quando possibile, un’appartenenza di gruppo — dunque un ancoraggio anche provvisorio dell’identità — che è sempre meno
vincolata a valori o a offerte di ‘senso’, non più trasmesse né garantite da tradizioni e comunità sufficientemente durevoli, ma dalla sola condivisione di
comportamenti.25 In questa coazione all’esibizione o a
alla messa in comune è facile scorgere proprio la logica deindividuante che interiorizza una precarizzazione cronica dei confini del Sé; prodotta certo dalla
ribellione, da parte dei singoli, contro gerarchie ed
interdetti e nei confronti di ogni condizione, familiare o sociale che voglia imporsi come precostituita ed
ascritta (la sfera intima, è stato scritto in modo pertinente,26 non è più solo il luogo del segreto ma soprattutto dell’emancipazione e della libertà da un destino); ma che è in ogni caso amplificata e imposta da
una società di mercato globale che si sostiene sui due
pilastri di una competizione senza garanzie e senza limiti — in particolare, senza più limiti e protezioni politiche — e dell’obsolescenza e sostituzione incessanti
I modi del pensare
23. Sull’individuazione
come ritorno nel corpo
cfr. C. G. Jung, The Visions
Seminars, Spring, Zürich
1976, pp. 472-478.
24. Una dinamica ben descritta da F. J. Broucek,
Shame and the Self, The
Guilford Press, New York
and London 1991, pp.
131 e 138.
25. Così A. M. Pandolfi,
op. cit., p.44.
26. A. Ehrenberg (1998),
La fatica di essere se stessi,
Einaudi, Torino 1999, p.
152.
14
I modi del pensare
Gianni Kaufman
di oggetti di consumo ma anche di ruoli e saperi professionali, di istituzioni e persone. La transizione tra
le due fasi è ben riassunta da Bauman:
27. Z. Bauman, Intervista
sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 57-60.
Sullo stesso tema, della
continuità fra modernità
e postmodernità vedi anche E. Pulcini, L’individuo
senza passioni, Bollati Boringhieri, Torino 2001,
pp. 165 sgg.
28. Z. Bauman (2005), Vita Liquida, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 31. Vedi
anche, sempre sul tema
dell’evanescenza dell’identità, U. Galimberti,
Psiche e techne, Feltrinelli,
Milano 1999, pp. 613-614
e 658-661.
“Quando la modernità ha sostituito i ceti premoderni (che determinavano l’identità in base alla nascita, fornendo pertanto pochissime occasioni per porsi la domanda ‘chi sono io?’)
con le classi, le identità sono diventate compiti che gli individui dovevano realizzare (…) attraverso la propria biografia.
(…) Tuttavia (…) quella libertà di autoidentificazione nuova
e senza precedenti seguita alla decomposizione della società
dei ceti è giunta insieme a una fiducia nuova e senza precedenti negli altri, nonché dei meriti dell’associazione di diversi cui era stato dato il nome di ‘società’: nella sua saggezza,
nell’affidabilità delle sue istruzioni, nella durata nel tempo
delle sue istituzioni. (…) Gli osservatori più percettivi della
vita moderna si sono accorti abbastanza presto, già nel XIX
secolo, che la fiducia in questione non era così solidamente
fondata come la ‘versione ufficiale’ (…) voleva far credere.
(…) Il passaggio della responsabilità della scelta sulle spalle
dell’individuo, e lo smantellamento degli indicatori di direzione e la rimozione delle pietre miliari, e insieme la crescente indifferenza delle alte sfere riguardo alla natura delle
scelte fatte e alla loro fattibilità, erano due tendenze presenti
nella ‘sfida all’autoidentificazione’ fin dall’inizio”.27
In questa situazione la pressione a esporre con
spregiudicatezza e a mettere in gioco pubblicamente
l’identità non fa che rifletterne la qualità ambivalente: l’affermazione dell’identità risponde sempre a un
desiderio di sicurezza che tuttavia sembra più garantita, ora da rapporti o appartenenze stabili ora (per i
più sicuri e per i meglio provvisti) da rapporti mobili
e poco e impegnativi — per tener dietro ai ritmi del
cambiamento — e da identificazioni sempre fluide e
mutevoli. Ciò che è importante però è che “in nessuno dei due casi [che la si invochi in chiave difensiva o
piuttosto offensiva] l’identità viene invocata in quanto tale”.28 Prevale pertanto, anche in chi si appella alle appartenenze e alla tradizione, un’attitudine in
realtà strumentale verso l’identità (come una sorta di
‘cattiva coscienza’) che dà ragione dell’insicurezza e
della cronica necessità di conferme. Sullo sfondo è
15
Vergogna: l’emozione del limite
I modi del pensare
sempre la pretesa, che lega insieme strumentalità ed
apparenza — ed è la negazione quasi programmatica
della vergogna — di un’adattabilità e una trasformabilità senza limiti. Come osserva Kilborne:
“Quando c’è angoscia e vergogna per l’instabilità del mondo
delle apparenze, il sé deve dirigersi tra l’immaginare se stesso
e il riconoscere la necessità e la limitazione (…) Ma il sé può
perdere la sua direzione se manca della ‘forza di obbedire, di
arrendersi al necessario in se stesso, a quelli che si potrebbero chiamare i propri limiti’, o cede a ‘riflettere in modo fantastico se stesso nella possibilità’. (…) Questa sensazione che
quello che uno è può, come la carrozza di Cenerentola, diventare una zucca, dissolversi nel nulla, si fa beffe della vanità e dell’ambizione in modi che Pirandello descrive così bene. Legata al concetto di Michael Balint di difetto fondamentale, guida il desiderio di scomparire o di reinventare se
stesso in modo tale da non esser visto così difettoso”.29
3. — Un altro tema di vergogna, sempre ancorato
nella realtà del corpo ma anche ricchissimo di implicazioni emotive è il territorio della sessualità. La nostra incompletezza — ossia il nostro limite — e il nostro
sporgerci in direzione dell’altro sono iscritti nel corpo primariamente come differenza sessuale. Ma Il
sesso è anche la potenza che si sottrae da sempre al
controllo, al predominio dell’Io. Il sesso può allora
esser visto come luogo esemplare della vergogna da chi
intenda quest’ultima come caduta in una dimensione d’irresponsabilità, di non-libertà: “Il sesso, ciò che è
proprio della specie, è appunto l’elemento schiettamente preindividuale, ciò che è sottratto alla libertà,
l’es’ kat’exochen, che non appartiene all’individuo in
quanto individuo”.30 Ci vergogniamo, pertanto, di
mostrarci nudi, ma di più ancora (perfino a volte nell’intimità) di lasciarci andare al piacere e all’orgasmo. E questa vergogna alimenta da sempre le proiezioni più bieche, contro le donne — sempre troppo fisiche, troppo coscienti della propria sessualità (uno
schema che ha origine, probabilmente, nell’equazione infantile tra alterità-oggettità del corpo e oggettità, cioè illimitata disponibilità, della madre31) — o
29. B. Kilborne (2002),
Persone che scompaiono,
Borla, Roma 2005, p. 125.
Le frasi tra virgolette sono di Kierkegaard.
30. G. Anders, op. cit., vol.
I, p. 99.
31. Vedi sul punto P. Mollon, op. cit., pp. 49-59; A.
Green, Narcisismo di vita
Narcisismo di morte, Borla,
Roma 1985, pp. 229-233;
J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello
Cortina, Milano 1996,
cap. 1.
16
I modi del pensare
32. Su amore e libertà —
in questa accezione di ‘libertà negativa’ vedi anche
M.
Zambrano
(1955), L’uomo e il divino,
Edizioni Lavoro, Roma,
pp. 234 sgg.
33. M. C. Nussbaum
(2001), L’intelligenza delle
emozioni, Il Mulino, Bologna 2004, p. 717.
34. Ibidem, p. 829.
Gianni Kaufman
contro gli omosessuali. Se però il sesso è causa di vergogna in quanto rischio per la ‘libertà’,32 per il predominio dell’Io, lo è forse non tanto e non solamente in se stesso ma in previsione (o meglio ancora per
l’imprevedibilità!) dei successivi sviluppi: dei desideri che possono accendersi in sé e nell’altro, delle richieste, dei coinvolgimenti, dei legami che suscita. La
vergogna sessuale confina qui con la più diffusa ma
radicatissima resistenza all’accettazione del limite, inteso come finitezza, imprevedibilità e, oltre un certo
termine, irreversibilità dei percorsi vitali. Di ciò ha
scritto molto bene Martha Nussbaum:
“Perché non c’è niente di più umano che sottrarsi allo sguardo dell’amore.
Di cosa si vergognano queste persone? Temono, e si vergognano, di darsi ad altri e per gli altri, il che significa che temono di imitare l’esempio di Cristo. Ma al contempo, la paura e la vergogna prendono a oggetto il corpo e le passioni
erotiche. (…) La lumaca senza guscio (…) è una profonda
immagine della nudità del corpo, un simbolo del nostro essere indifesi, penetrabili, della nostra vulnerabilità agli influssi del mondo e della morte. L’oggetto della vergogna e della
paura non è la sessualità in sé, ma la sessualità vissuta come
un segno della nostra impotente inadeguatezza. L’amore
(…) esige che abitiamo questa inadeguatezza, aperti al mondo e agli altri”.33
E più avanti, commentando l’Ulisse:
“Il romanzo suggerisce che la radice dell’odio non è il bisogno erotico, come tanta tradizione dell’ascesa continua a sostenere. È piuttosto il rifiuto di accettare la condizione di bisogno e l’imprevedibilità dell’erotico come fatti della vita
umana. Dire sì alla sessualità significa dire sì a tutto ciò che
nella vita sfugge al controllo — alla passività e alla sorpresa, a
esser parte di un mondo in prevalenza dominato dal caso”.34
L’antidoto alla vergogna sessuale (o a ciò che essa
cela) può allora trovarsi non più soltanto nel pudore
fisico o nel self-restraint ma in una pratica razionalizzata ed astratta della sessualità stessa, un sesso sdrammatizzato e derubricato a consumo, tecnicamente e
17
Vergogna: l’emozione del limite
contrattualmente messo al sicuro da malintesi o conseguenze indesiderabili. Del resto una sessualità così
inoffensiva non è divenuta necessariamente più agevole ma è certamente — e ovviamente — assai incentivata in una società di mercato globale che da una parte si informa proprio all’imperativo di equiparare
qualsiasi pratica o relazione (anche le persone e i
rapporti fra esse) a oggetti di consumo; dall’altra premia (almeno a parole) sopra ogni cosa la flessibilità e
la disponibilità al cambiamento — che presuppone
però indipendenza e scarsità di legami; e impone comunque a una gran parte dei suoi cittadini una condizione di cronica precarietà e incertezza che li spinge a cercare, per quanto possibile, rapporti reversibili e disimpegnati.35 La condivisione, o anche solo la
pratica (in apparenza) non conflittuale di questo modello, con il pretesto o di sottrarre il piacere sessuale
a vecchi moralismi, o di una difesa senza cedimenti
del proprio interesse in una società sempre più spietata e competitiva è un altro esempio, assimilabile alla spudoratezza, di effetto deindividuativo della vergogna. Wurmser avanza il sospetto, a questo proposito,
che l’esibizione dell’intimità fisica o delle emozioni
serva in realtà a sviare l’attenzione da “ciò che risulta
davvero doloroso e umiliante come segno di debolezza e di fallimento”:
“Si parla tanto degli affetti allo stato più crudo e si mostrano
senza veli la violenza, il sesso e l’urlo primario (addirittura!)
Ma le persone mostrano pur sempre un imbarazzo impermalito se si tratta di parlare dell’amicizia o di impegnarvisi. È sorprendente quanti pochi pazienti, a prescindere dalla loro patologia, rivelino di avere amicizie solide e stabili; quante poche persone in generale si offrano e siano pronte a ricevere
forme non censurate, e al tempo stesso non finalizzate allo
sfruttamento, di amicizia. Inoltre sembra essere diventato più
difficile esprimere sentimenti di tenerezza, di rispetto, di soggezione, di idealizzazione o di riverenza: Il fatto di mostrarsi
irriverenti sembra quasi entrato a far parte dello ‘stile giusto’.
(…) La cultura della spudoratezza è anche la cultura dell’irriverenza, della demolizione e della svalutazione degli ideali”.36
I modi del pensare
35. Su questo R. Sennett
(1999), L’uomo flessibile,
Feltrinelli, Milano 2001,
pp. 22-29 e l’intero lavoro
di Z. Bauman (2003),
Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul contesto sociale contemporaneo dei rapporti amorosi
e di coppia vedi però anche U. Beck , E. BeckGernsheim (1990), Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino
1996.
36. L. Wurmser (1994),
“La spudoratezza” in AA
VV., La vergogna, cit., p.
130.
18
I modi del pensare
37. Z. Bauman, Amore liquido, cit., p. 11. Sull’amore come apertura alla
trascendenza vedi anche
R. De Monticelli, L’ordine
del cuore, Garzanti, Milano, p. 203.
38. Vedi ancora R. De
Monticelli, op. cit., pp.
164-165, 168, 175-176 e
H. G. Frankfurt (2004),
Le ragioni dell’amore, Donzelli, Roma pp. 50-74.
39. Vedi in proposito, M.
W. Battacchi, O. Codispoti, op. cit., pp. 52-53:
“Questa ‘vergogna ricorsiva’ è particolarmente
importante perché produce, più spesso che il
semplice vergognarsi, degli effetti psicologici negativi. Infatti, vergognandosi di vergognarsi, si
perpetua il ciclo della vergogna, si intensifica la penosità del vissuto emotivo
e si rafforza così la motivazione ad organizzare la
propria vita sulla difesa
dalla vergogna”.
Gianni Kaufman
Trattando sopra della vergogna da violazione abbiamo incluso non solamente la violenza fisica ma anche
l’abdicazione più o meno forzosa a norme, a credenze o ad altri aspetti qualificanti del sé. È lecito chiedersi se in ciò non rientri anche la forma or ora descritta di sessualità che non per caso si è detta astratta perché enucleata più o meno a forza, per conformismo
o per opportunità materiale, dalla rete complessa di implicazioni e diramazioni sentimentali e affettive da
cui si origina e/o a cui può dar luogo; salvo addossarsi, in seconda battuta, questa stessa astrazione come conquista di emancipazione o di competenza
adattiva. Con ciò però va sicuramente in larga parte
perduta, perché in qualche modo soffocata sul nascere, la dimensione propriamente erotica della sessualità, il suo momento di trascendenza: il suo cercare la
libertà o il mistero dell’Altro, che però implica, necessariamente, l’aprirsi al futuro, un offrirsi al destino che
— è stato detto con felice espressione — è “accettazione della libertà dell’essere”.37 Così come va inevitabilmente perduto ciò che è il rimando individuativo
del rapporto amoroso, ciò che posso vivere e apprendere di me stesso — dei miei valori e delle mie potenzialità — solo a partire dai sentimenti che gli altri mi suscitano (e che ovviamente mi concedo di vivere) e dai
legami che instauro, nei cui oggetti e nei cui percorsi
si svolge e si articola la mia identità.38
4. — La vergogna per la sessualità, come abbiamo
accennato è già vergogna non solo del corpo ma anche delle emozioni (essa stessa emozione, la vergogna
può avere dunque una qualità riflessiva, e anche ricorsiva: ci vergogniamo della nostra vergogna.39) Tutte le
emozioni — non solamente la passione sessuale — tendono infatti a sopraffare il controllo dell’Io, e, più in
generale, per il modo proprio del loro operare rivelano sempre la nostra vulnerabilità e incompletezza,
perché reagiscono a eventi importanti per il nostro
benessere ma che non siamo del tutto capaci di con-
19
Vergogna: l’emozione del limite
trollare.40 Di fatto, nella nostra cultura è più frequente che siano gli uomini a vergognarsi delle loro emozioni, probabilmente perché sono educati, fin da
bambini a coltivare la forza di volontà, a dare prova di
autocontrollo e autosufficienza; e le emozioni, paiono
allora ancor più vergognose quanto meno sono accettate, esaminate ed espresse e quanto più rimangono ferme, proprio per questo, a un livello infantile.41
La svalutazione, indotta ben presto nei giovani maschi, della sensibilità, della vulnerabilità e dell’apertura emotiva, è l’equivalente (nota Carol Gilligan42) ma
in età più precoce della censura parziale del corpo e
delle sensazioni corporee imposta nell’educazione
delle ragazze: causa l’una e l’altra del venir meno dell’iniziale intensità, ricchezza e piacere della relazione
col mondo, che tuttavia si potrà reincontrare — pensa
la Gilligan — così ritrovando in qualche modo se stessi, nell’esperienza dell’innamoramento.43
A parte le differenze di genere, secondo Nussbaum, una vergogna persistente per le emozioni
può derivare dal cronicizzarsi di una vergogna primaria legata a esperienze precoci di impotenza — più
propriamente alla frustrazione, certo inevitabile, di
pretese infantili all’onnipotenza — non temperate, perciò non corrette, dall’intervento tempestivo e affidabile dei caregivers: il mancato instaurarsi di un rapporto di fiducia darebbe conto del perpetuarsi dell’onnipotenza, o anche di fantasie di perfezione o di
totale autosufficienza, del riproporsi delle frustrazioni quindi della vergogna.44 Ne risentirebbe anche la
vita amorosa, per il protrarsi di questa stessa ‘vergogna primaria’ nella fase edipica. La condizione di dipendenza è a questo punto del tutto inequivoca perché chiaramente e irrimediabilmente asimmetrica:
l’oggetto amato non ha nessun bisogno di noi — è
cioè sottratto, una volta per tutte, all’onnipotenza —
anche perché gli è possibile scegliere altri rapporti.
Ma ciò è insopportabile “se la condizione di incompletezza e non autosufficienza viene sentita in quan-
I modi del pensare
40. Per una discussione
generale sulle emozioni
vedi M. C. Nussbaum,
L’intelligenza delle emozioni,
cit., cap. 1.
41. Su questo punto ancora M. C. Nussbaum
(2004), Nascondere l’umanità cit., p. 230 e P. Mollon, op. cit., p. 137 n. 1 che
propone una spiegazione
evoluzionistica: “Un’ipotesi diffusa è che gli uomini siano meno inclini
delle donne a manifestare emozioni negative perché per i maschi il successo riproduttivo implica
una competizione maggiore che per le femmine. Esprimere un malessere emotivo, secondo
questa concezione, fra gli
uomini sarebbe considerato un segno di debolezza e porterebbe a una
perdita di prestigio, e
quindi di attrattiva sessuale (riproduttiva) nei confronti delle donne.”
42. C. Gilligan (2002), La
nascita del piacere, Einaudi, Torino 2003.
43. Sull’esperienza amorosa come ‘resa’ vedi E.
Ghent, “Masochism, Submission,
Surrender:
Masochism as a Perversion of Surrender” in S.
A. Mitchell, L. Aron, a cura di, Relational Psychoanalysis, The Analytic
Press, Hillsdale and London 1999, pp. 228-229,
242.
44. M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni,
cit., pp. 241 sgg.
20
I modi del pensare
45. Ibidem, p. 264.
46. Su questo concetto vedi comunque le distinzioni estremamente importanti introdotte da E.
Gaddini, in Scritti, Raffaello Cortina, Milano
1989, p. 397. Del resto anche le illustrazioni proposte dalla Nussbaum rinviano a un quadro teorico più complesso, che
non include solo l’onnipotenza ma anche la richiesta materna di ‘perfezione’.
47. P. Mollon, op. cit., p.
31.
48. Il conseguimento di
una capacità di ‘autoconsapevolezza
oggettiva’
quale presupposto necessario della vergogna è sostenuto da M. Lewis nel
lavoro citato. Più convincente l’opposta opinione
di F. J. Broucek, op. cit., e
“Shame: Early Developmental Issues” in M. R.
Lansky, A. P. Morrison, a
cura di, op. cit., pp. 41-62
Gianni Kaufman
to tale come qualcosa di vergognoso, e l’unico fine
accettabile è il controllo assoluto”.45
Secondo questa lettura la vergogna per le emozioni sarebbe in radice vergogna da inadeguatezza: la risposta sensibile dei caregivers consentirebbe un’elaborazione della ‘vergogna primaria’ nel senso della rinuncia all’onnipotenza (dell’accettazione del limite)
ovvero in senso individuativo. Ora, il richiamo all’onnipotenza non è inappropriato,46 ma è, con ogni probabilità, insufficiente a chiarire il rapporto, molto
complesso, fra emozioni e vergogna, specie se si valutino a questo fine le condizioni della relazione primaria. A questo stadio, come prodotto di un’attitudine errata dei caregivers, sembra corretto considerare
l’ipotesi, prima che di una vergogna da inadeguatezza, di una vergogna precocissima da violazione: di una
vergogna, cioè, conseguente a un’attacco all’integrità
psichica dell’infante — che si consuma con il mancato o
difettoso rispecchiamento della sua vita emotiva.
Di fatto, anche in età adulta l’assenza di risposta
empatica ad una messa a nudo del sé — qual è in ogni
caso un’espressione emotiva — produce vergogna: il
sé esposto che non incontra la risposta solidale e perciò protettiva dell’empatia si sente minacciato.47 La
differenza è che qui la vergogna è già mediata da una
capacità riflessiva — pertanto investe anche una rappresentazione del sé — mentre nell’infante, ovvero nel
caso della vergogna precoce questa capacità è ancora
assente;48 ma non soltanto, proprio la vergogna e il vissuto di vulnerabilità che la provoca possono deviarne o comprometterne l’attivazione.
Si deve a Winnicott il più famoso enunciato sul rispecchiamento. Guardando il viso della madre “di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole
la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in
rapporto con ciò che essa scorge”. Ma se la madre è ansiosa, depressa o anche solo distratta — cioè non si rivolge o non è attenta al bambino — mostra solo se
stessa: “In tal caso la faccia della madre non è uno
21
Vergogna: l’emozione del limite
specchio. Così la percezione prende il posto di ciò
che avrebbe potuto essere l’inizio di uno scambio significativo con il mondo, un processo a due vie, in
cui l’arricchimento di sé si alterna con la scoperta di
un significato nel mondo delle cose viste”.49 Si dà
dunque il caso — contrariamente all’opinione di Sartre — di uno sguardo empatico, che non precipita necessariamente nell’oggettità, non pone a distanza ma
conferma e rinforza il senso di efficacia, la vitalità e
la fiducia del sé soggettivo.50 Per il bambino ancora
incapace di una consapevolezza di sé che non sia insieme anche dialogo con l’altro e col mondo51 l’assentarsi improvviso di questo sguardo, vedere, senza
più ritrovarsi, ‘il volto della madre’ equivale a interrompere la continuità dell’esperienza del sé. Come
spiega Wrigth:
“Il primo volto conferma e rafforza l’essere soggettivo del
bambino, lo amplifica attraverso un circuito riverberante di
riflessione e risposta. La seconda faccia mette il bambino a distanza, arresta la continuità del sentire soggettivo e offre al
suo posto uno spettacolo del Sé cattivo che mette in questione la continuità dell’amore. (…) È come se vi fosse una dislocazione, uno strappare la persona dal suo Sé soggettivo, da
cui diviene allora separato a causa di questa immagine e questa distanza che l’Altro interpone.52 (…) Potremmo dire che
il Sé che è guardato in questo modo ora ha un ‘esterno’; ma,
certamente, il trauma è sentire che questo ‘esterno’ non è
semplicemente un complemento all’‘interno’ e qualcosa che
può essere integrato con esso, ma un suo usurpatore, cosicché il Sé diviene completamente definito dall’esterno”.53
Lo sguardo non rispecchiante della madre, in altre parole, anticipa lo sguardo oggettivante, di cui
parla Sartre, a una fase in cui la dislocazione dell’esperienza del Sé che ne segue, e in cui è la radice della vergogna, non ha alcun senso o efficacia individuativa perché non è ancora integrabile nella coscienza.54 Questo è possibile, in via di principio, solo
all’interno di una relazione triadica. Ossia da quando, col differenziarsi del padre e identificandosi alla
posizione di questi, il bambino può giungere già da
I modi del pensare
49. D. W. Winnicott
(1971), Gioco e realtà, Armando, Roma 1974, pp.
191-192.
50. Per una discussione
in questi termini dell’opera di Sartre vedi K.
Wright (1991), Visione e
separazione, Borla, Roma
2000. Un’interessante lettura in chiave psicologica
dell’opera di Sartre è in
R. D. Storolow, G. E. Atwood, B. Brandchaft
(1994), La prospettiva intersoggettiva, Borla, Roma
1996, cap. 12.
51. Un’illustrazione molto efficace di questa fase
è in K. Wright, op. cit., pp.
113-114 e in F. J. Broucek,
Shame and the Self, cit., pp.
43-45.
52. K. Wright, op. cit., p.
55.
53. Ibidem, p. 65.
54. Ma ricordiamo, come
ha mostrato per primo
Sartre, che questa integrazione non è mai possibile in modo compiuto.
22
I modi del pensare
55. K. Wright, op. cit., pp.
148, 157-158, 295-296. La
differenziazione del repertorio simbolico, secondo Wright, va ricondotta al divieto edipico di
fare mentre è permesso
guardare.
56. Ibidem, pp. 277-278, e
R. Britton, Belief and Imagination, Brunner-Routledge, Hove and New
York 1998, pp. 41-42.
57. K. Wright, op. cit., pp.
328-329.
58. Ibidem, pp. 76-77. Per
un ripensamento in questi termini della vergogna
vedi anche D. M. Orange, G. E. Atwood, R. D.
Storolow (1997), Intersoggettività e lavoro clinico,
Raffaello Cortina, Milano
1999, pp. 87-89.
Gianni Kaufman
se stesso a ‘vedersi’ dentro il rapporto che ha con la
madre; a distanziarsi e a ridimensionare, anche grazie al possesso di un repertorio simbolico più differenziato,55 il ruolo assorbente e totalizzante di essa
così che il mutare del suo atteggiamento abbia un effetto meno traumatico e dirompente.56
Un ultimo aspetto da considerare è che lo sguardo ‘oggettivante’ del genitore sarà comunque, il più
delle volte, uno sguardo critico, disapprovante.57
Sempre nel rapporto tra l’infante e la madre ciò avrà
un effetto di vergogna traumatica se faccia mancare
un adeguato contenimento di situazioni ed espressioni emotive, sia di affetti gioiosi che, ancor di più di
stati di disagio e affetti dolorosi. Il bambino tenderà
infatti a far proprio quello sguardo critico — ciò che
egli vive come il rifiuto o la svalutazione di queste
emozioni — e perciò a scinderle e a censurarle come
espressioni di un deficit consolidando, nei casi più
gravi, un assetto stabile di falso sé. Ancora Wright:
“[Il bambino] unisce le forze con questa madre che guarda,
ripudia quel Sé che la madre non potrebbe contenere e che
ha causato la rottura, e di qui in avanti il bambino guarda a
questo Sé minaccioso come ha un Altro che ha l’aspetto che
immaginava avesse per la madre che guardava. (…) Potrei dire che ciò che è guardato in un primo momento dalla madre
e poi dal bambino stesso in questo modo che nega la vita, è
ciò che la madre stessa non riesce a contenere o a gestire
emotivamente. Questo fallimento del contenimento conduce
quindi a far sì che la parte disturbante del Sé senziente sia trasformata in un oggetto visivo che è un Altro per il Sé.
È chiaro che questi Sé spossessati non sono mai stati integrati nella struttura del ‘Sé che la madre ama’ e pertanto del ‘Sé
che posso essere senza rischio’. La vita del Sé, pertanto tende
a diventare una vita di apparenze, e il progetto del Sé diviene
quello di consegnare alla madre apparenze accettabili, legate
insieme a formare un involucro pseudo-coeso nella continuità del suo sguardo positivo. Questa pseudo-coesione del Sé
agli occhi della madre diventa allora il sostituto di una genuina integrazione dei Sé senzienti e agenti, che avrebbe potuto avere luogo se questa madre fosse riuscita a “contenere
la situazione in tempo”.58
23
Vergogna: l’emozione del limite
Le conseguenze di tutto questo per gli sviluppi della vita emotiva potranno essere assai rilevanti. Mollon59 descrive ad esempio una Sindrome di omicidio psichico così definita in base all’impegno dell’ambiente
infantile a “sbarazzarsi del bambino reale per sostituirlo con una versione alternativa preferita” ma in
cui “il bambino si identifica con l’ambiente che l’uccide psichicamente”. L’intrusività e la grave carenza
di empatia della madre causano uno stato di ‘vergogna generalizzata’ che spinge alla fuga da ogni legame di attaccamento e alla soppressione sistematica
delle emozioni — quali condizioni di insopportabile
vulnerabilità; al sabotaggio di ogni relazione sentimentale con partners adeguati (prima idealizzati come
immagine scissa di ‘madre buona’ ma poi vissuti come
soffocanti) e alla preferenza per i rapporti frustranti o
alla promiscuità compulsiva; che provoca ansia generalizzata e tensioni somatiche (sempre a ragione della difesa dalle emozioni), un’identità incerta e instabile e una tendenza alla dissociazione. Lo stesso Mollon accosta la sindrome alla tendenza, segnalata da
Kalsched,60 nelle vittime di abuso sessuale, all’identificazione con l’aggressore e al sistematico attacco delle
parti vulnerabili e dei bisogni emotivi del sé (e di qui,
come in un sistema immunitario impazzito, alla totalità del proprio mondo interiore) allo scopo di scindere il ricordo della violenza e di evitare, naturalmente, il riprodursi della situazione traumatica.
Comunque — lo si è già anticipato — il danno più
serio di una grave carenza di risposta empatica sarà la
produzione di un deficit di capacità riflessiva. Sviluppando le intuizioni di Winnicott, di Bion e della Psicologia del Sé, Fonagy e i suoi collaboratori61 hanno
mostrato in modo convincente che anche lo sviluppo
di rappresentazioni secondarie dei vissuti emotivi (mentalizzazione), la loro distinzione dagli eventi fisici e la capacità di autoregolazione che ne consegue derivano da
un’adeguata (e molto specifica) modulazione del rispecchiamento empatico dei caregivers, in primo luo-
I modi del pensare
59. P. Mollon, op. cit., p.
63 passim.
60. D. Kalsched (1996), Il
mondo interiore del trauma:
difese archetipiche dello spirito personale, Moretti e Vitali, Bergamo 2001.
61. P. Fonagy et al.
(2002), Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé, Raffaello Cortina, Milano 2005.
24
I modi del pensare
Gianni Kaufman
go, ancora una volta, dei vissuti di disagio e di sofferenza. Quando essa manchi, quando la risposta sia incongruente o distorta, ciò creerà in ogni caso un vuoto nel sé: il vissuto resterà privo di significato fino a far
sopravvivere, nei casi più gravi, un’ansia primitiva di
separazione o una necessità di fusione per il bisogno,
rimasto in sospeso, di ritrovare la propria intenzionalità nella mente dell’altro. Il vuoto potrà peraltro venire riempito (è il caso già visto) identificandosi con
l’aggressore, interiorizzando la stessa risposta maladattiva nella struttura del Sé come una sorta di corpo
estraneo (sé alieno): il bambino potrà allora viversi come malvagio e mostruoso, con una serie di conseguenze. Nei casi più gravi di abuso o maltrattamento,
(ma anche in situazioni meno drammatiche, di genitori emotivamente non accessibili o ostili) il bambino
tenderà a inibire la mentalizzazione, in altri termini cercherà di proteggersi ripudiando la consapevolezza di
sentimenti e pensieri dell’altro e di sé (un caso estremo quanto precoce — potremmo dire — della reazione tipica di vergogna che è il non incontrare lo sguardo dell’altro!). Ma ciò significa che non si svilupperà
o non si radicherà la nozione, almeno nelle relazioni
intime, di una realtà psichica indipendente e distinta
dai comportamenti e dai fatti esteriori: così perpetuando una maggiore vulnerabilità per la difficoltà di
riflettere, interpretare e eventualmente ridimensionare gli atteggiamenti dell’altro. (È questa, secondo Fonagy e i
suoi colleghi una caratteristica dei soggetti borderline,
manifestantesi in un eccesso di reattività e in un un’estrema rigidità di aspettative e reazioni). Ma non soltanto. La difficoltà cronica di ‘sentirsi’, ovverosia di
rappresentarsi l’esperienza psichica spingerà l’individuo alla messa in atto ossia ad indurre, in se stessi o
negli altri, l’esperienza all’esterno. E anche il bisogno di esteriorizzare il sé alieno per ritrovare una qualche coerenza — anche se a prezzo di un impoverimento — del sé, si esprimerà come esteriorizzazione
nel corpo, cioè come pratiche autodistruttive, o su og-
25
Vergogna: l’emozione del limite
I modi del pensare
getti esterni il cui venir meno sarà vissuto come una
perdita o una disorganizzazione del sé. Infine, sempre nelle gravi situazioni di abuso una carenza di
mentalizzazione potrà esser causa di reazioni violente, facendo mancare ogni differenza significativa tra
umiliazione e vera e propria distruzione del sé.
“La vergogna non mentalizzata non è un’esperienza ‘come
se’. Essa corrisponde alla distruzione del sé. Non sarebbe esagerato definire questa emozione come ‘vergogna ego-distruttiva’. Sono la coerenza della rappresentazione di sé e lo stesso senso di identità a essere sotto attacco. L’abilità di mentalizzare mitigherebbe questo processo, consentendo all’individuo di continuare a concepirsi come soggetto intenzionale e
dotato di significato, piuttosto che privo di riconoscimento
come implicato dalla figura d’attaccamento in quel momento. Più è robusta la capacità di mentalizzazione, più facilmente la persona può vedere cosa si nasconde dietro l’attacco, il
suo significato, e non scambiarlo per la vera distruzione dell’Io. L’intensità dell’umiliazione potrebbe essere la causa immediata dell’inibizione della mentalizzazione che consegue
all’abuso: e le cose vissute come interne (la soggettività) divengono esperienze cui opporre resistenza”.62
5. — Che rapporto sussiste — vogliamo chiederci in
conclusione — fra i due livelli che abbiamo descritto,
quello collettivo e quello individuale, di elaborazione
alienante della vergogna? Ricordiamo che la ricerca
spesso ‘spudorata’ di uno specchio pubblico dell’identità, come anche la pratica di una sessualità desituata ed astratta sono leggibili — in uno schema abbastanza simile, formalmente, all’assunzione di uno
sguardo rifiutante all’interno del Sé — come il prodotto di adattamenti e di collusioni, da parte dei singoli, con situazioni di destabilizzazione cronica dell’identità e di svilimento di sentimenti e rapporti equiparabili, entro certi limiti, a violazioni del sé. Ma il
nesso non è solamente formale. La propensione alla
collusione — vedremo subito — sarà rafforzata in presenza di assetti di falso sé e, per converso, ne favorirà
il riprodursi tramite modi impoveriti e coartati di accudimento e di ascolto.
62. Ibidem, pp. 327-328.
26
I modi del pensare
63. E. Gaburri, L. Ambrosiano, Ululare con i lupi,
Bollati Boringhieri, Torino 2003.
64. Ibidem, p. 56.
Gianni Kaufman
Gaburri e Ambrosiano, in un bel lavoro di impostazione bioniana63 hanno affrontato proprio questo
tema, invitando a situare la relazione adulto-bambino
nel suo contesto familiare e gruppale e a valutare la
qualità della relazione col gruppo. Non è pensabile
qualcosa come una rêverie della madre che non rinvii
a un retroterra di significati, di idee e credenze, trasmessi anzitutto dalla famiglia ma condivisi con il
gruppo più esteso, e che rispondono, in ultima analisi, all’esigenza di elaborare/aggirare i temi della morte (dunque del limite!) della perdita, della finitezza. Il
gruppo opera, in altre parole, come contenitore del lutto: cresce e si articola su un substrato di miti, riti, principi etici, anche (e soprattutto) di illusioni, che mirano a rendere tollerabile — fino a negarla — la caducità
e la condizione mortale e che precipitano e si consolidano in una mentalità ideologica, religiosa, scientifica. Ma il gruppo condiziona anche il modo — di nuovo in quanto contenitore del lutto — dell’adesione e/o
della distanza verso il gruppo medesimo, della preoccupazione e dell’ottusità conformista o della partecipazione critica e differenziata: in una parola della capacità e possibilità per il singolo di accettare e di reggere la separazione nei confronti del gruppo. Ciò sia in ragione
dell’ideologia che lo anima e dello spazio che questa
riserva al pensiero e alla critica individuali che del
momento e della congiuntura: “In ogni momento il
clima emotivo familiare e gruppale, permeato dei bisogni di continuità e sopravvivenza, può sollecitare i
membri verso una compenetrazione a massa in cui
non sono presenti come individui, oppure verso una
partecipazione differenziata. Entrambe le valenze sono, infatti, sempre disponibili e pronte ad attivarsi,
nella scena familiare come in quella sociale”.64
L’apertura, o invece la chiusura al diverso, all’alterità, ma soprattutto all’incertezza e alla critica che
il gruppo rende in questo modo possibili coincide
dunque, e si interrelaziona con la natura individuativa o imitativa-parassitaria (di identificazione massificante
27
Vergogna: l’emozione del limite
o fanatica) dell’appartenenza dei singoli: favorita,
quest’ultima, in ogni caso, dal residuare di aspetti rifiutati e non elaborati del Sé, ancora in debito di riconoscimento e rappresentazione cosciente, quindi
più esposti e più disponibili (falso Sé) a idealizzazioni
e fusioni. Reciprocamente l’orientamento del gruppo supporta o svaluta ciò che Bion chiama la capacità
negativa, la tolleranza del vuoto e del ‘non sapere’,
del non saturato e del non ancora pensato che rende
sopportabili, anzi valorizza, l’isolamento e il dissenso
(l’apertura del gruppo all’innovazione) ma anche
dispone all’accoglimento, alla ricerca e all’ascolto: ossia decide — qui è il punto essenziale — della qualità dei
rapporti familiari e di coppia e infine della qualità dell’accudimento in quanto ispira la funzione di rêverie.
Un’adesione preoccupata e acritica dei genitori ai
protocolli del gruppo oltre a compromettere la creatività e la capacità innovativa del loro rapporto li farà
più sordi più intolleranti e più ansiosi verso le espressioni di difficoltà o di diversità del bambino, fino a
trasmettere e a riprodurre al suo interno la stessa
propensione all’autocensura, la stessa ansia di adattamento e conformità.
Se riportato al nostro presente un decorso del genere potrebbe sembrare, nonostante tutto, inattuale
perché la pressione alla conformità che viviamo non
è sempre esplicita. Essa si fonda proprio, al contrario,
come già si è accennato, sull’impotenza e sulla rinuncia
delle autorità pubbliche a un reale controllo sulle
scelte private e sulle condizioni di vita, sul progressivo ridimensionamento delle competenze dello stato
sociale e sull’abbandono quasi completo dei singoli
al libero gioco della concorrenza globale. Ma a parte
il fatto che ciò si accompagna a un richiamo incessante — quanto mai rumoroso — ad aggiornare (ossia
a uniformare!) consumi e abitudini,65 indispensabili
a sostenere la crescita, la riconsegna quasi completa
al mercato delle condizioni materiali e giuridiche di
produzione e lavoro ha comportato, con la crescente
I modi del pensare
65. Consumi che includono — lo ricordiamo — anche le relazioni. E’ di poco tempo fa la notizia della pubblicità di uno studio legale statunitense,
specializzato in diritto di
famiglia: “Datevi una
chance, concedetevi un
divorzio!”
28
I modi del pensare
66. Z. Bauman, Intervista
sull’identità, cit., pp. 38
sgg.
67. A. Ehrenberg, op. cit.,
pp. 306.307. Il corsivo è
mio.
68. Z. Bauman, Intervista
sull’identità, cit., pp. 46 e
91.
Gianni Kaufman
frammentazione, precarietà e disomogeneità delle situazioni dei singoli, la dissoluzione dei vecchi legami
di solidarietà, l’irrilevanza di luoghi e soggetti di azione collettiva, e ciò che più conta, l’obsolescenza del vecchi criteri e delle vecchie nozioni, già declinate in chiave collettiva, di responsabilità e di giustizia.66 Le implicazioni,
anche psicologiche, di tutto questo sono riassunte in
maniera lampante da Ehrenberg:
“L’allarme per la sofferenza partecipa in realtà della ‘deconflittualizzazione’ del sociale, la quale si riflette, ad esempio,
nella crescita delle diseguaglianze interne ai singoli gruppi. Il
conflitto tra opposti gruppi sociali è stato infatti soppiantato,
oggi, dalla concorrenza individuale che colpisce in misura altrettanto spietata ma diversa (…). Assistiamo insomma a un
doppio fenomeno: quello, astratto, della crescente universalizzazione — o globalizzazione — e quello, concreto, della accresciuta personalizzazione. Di fatto, se è possibile combattere
collettivamente un padrone o una classe antagonista, come è
possibile combattere la ‘globalizzazione’? In questo caso è più
difficile invocare una giustizia collettiva, è più difficile far ricadere una responsabilità di cui non ci sentiamo titolari su un
avversario identificabile. Tra l’altro è sempre più arduo differenziare sofferenza da ingiustizia, compassione da disuguaglianza, conflitti legittimi, garanzia di una più equa ripartizione della ricchezza prodotta, da conflitti illegittimi, frutto di
corporativismi bene annidati all’interno dei rapporti di forza.
Il risentimento si ritorce allora contro noi stessi (la depressione è una
forma di autoaggressione), si proietta su un capro espiatorio (…) o si
risolve in una ricerca di identità di tipo comunitario”.67
La ritirata dei poteri pubblici, pertanto, non ha allentato, semmai ha accresciuto la pressione sul singolo
alla conformità: sia col lasciare libero corso alla privatizzazione e alla commercializzazione dei media sia,
soprattutto, col rimettere in toto ai singoli individui,
senza più riserve e senza più mediazioni, la responsabilità del loro percorso di vita, della riuscita o del
fallimento. Con l’aggravante — che però è decisiva —
che la sanzione per il fallimento è ora assai più temibile perché può tradursi più facilmente di un tempo,
in un mercato sempre più innovativo e competitivo,
nell’esclusione dal gioco.68 Anche in mancanza di as-
29
Vergogna: l’emozione del limite
senso esplicito — anzi, in presenza di una crescente
impotenza delle istituzioni della democrazia — la conformità ha la garanzia ben più solida della paura;69 e
proprio il carattere sempre più impersonale, imprevedibile e arbitrario dei meccanismi che possono segnare una vita, se toglie senso e contenuto alla colpa,
ha la valenza di un’esposizione individuale al destino e
minaccia lo stigma più fatalistico e irragionevole della vergogna.70
“I colpi del destino sono inferti da forze misteriose, di provenienza diversa, nascoste dietro nomi bizzarri e impenetrabili,
come: mercati finanziari, condizioni globali di scambio, competitività, offerta e domanda. Come possono essere utili gli
amici quando si perde il lavoro a causa dell’ennesimo ‘ridimensionamento’, quando ci si rende conto del carattere obsoleto di capacità acquisite con fatica, dell’improvviso deterioramento dei rapporti di vicinato, familiari o sociali?
(…) La dispersione del dissenso, l’impossibilità di concentrarlo e di ancorarlo a una causa comune, nonché di dirigerlo contro un colpevole comune, rende solo più acute le pene.
L’individualità, l’‘autenticità dell’io’, era un bel sogno e uno
sprone al perseguimento di obiettivi grandiosi in un’epoca in
cui lo sguardo invadente e onnipresente della comunità e la
pressione a conformarsi quasi soffocavano l’espressione individuale. È diventata spiacevole quando il sogno si è avverato
e l’individuo — nel suo trionfo o nella sua umiliazione — è stato lasciato solo sul campo di battaglia. Vittorie e sconfitte sono diventate ugualmente amare, odiose e ripugnanti quando
si è costretti a rallegrarsene o dolersene per conto proprio”.71
La vergogna, peraltro, ha anche un fondamento
assolutamente reale. Il rischio, per molti anche troppo concreto, di un’esclusione definitiva da ogni possibilità di lavoro tende a mutare la condizione — già
transitoria e quindi emendabile — del ‘disoccupato’
in quella, stabile, dell’inattivo o dell’economicamente
superfluo. Causa di vergogna perché non riparabile,
e perché consistente (come detto a suo tempo) non
in un ‘fare’ né in un ‘omettere’ ma in un modo di essere. E la vergogna ha un ulteriore rinforzo nella
contiguità — a volta autentica a volte presunta nella
percezione dei media e nelle politiche pubbliche —
I modi del pensare
69. Z. Bauman (2006),
Modus vivendi, Laterza,
Roma-Bari 2007, pp. 75
sgg.
70. E’ questo un esempio,
molto pertinente, del
punto di vista di Anders
che fa coincidere la vergogna col “non essere responsabile di qualche cosa”. Cfr. G. Anders, op.
cit., vol I, p. 97.
71. Z. Bauman (1999), La
solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano
2000, pp. 60-61.
30
I modi del pensare
72. Z. Bauman, Modus vivendi, cit., pp. 34 e 78-79;
Z. Bauman (2006), Homo
consumens, Erickson, Gardolo (TN), pp. 59-60; Z.
Bauman (2001), Voglia di
comunità, Laterza, RomaBari 2003, pp. 116-117.
73. Z. Bauman, Modus vivendi, cit., pp. 15 e 55-56;
Homo consumens, cit., pp.
59-60.
74. R. Sennett, op. cit., p.
139.
75. Ibidem e Z. Bauman,
Voglia di comunità, cit., pp.
95-103.
Gianni Kaufman
dei non occupati con la categoria dei ‘disadattati’ o
degli ‘antisociali’ o, peggio ancora, degli ‘sradicati’
(gli esclusi temono di confondersi coi ‘non inclusi’,
la massa crescente di immigrati e di profughi); nell’allarme diffuso dei cittadini economicamente integrati per la sicurezza; e infine nel materializzarsi dell’esclusione e dell’emarginazione sociale — specie nei
grandi agglomerati urbani — in qualche genere di segregazione territoriale.72
Come fattori di ‘regressione’ (anche psicologica)
nella qualità della convivenza queste tendenze vanno
viste e capite in rapporto con altre. 1) La necessità
per il potere statale di rilegittimarsi su un versante diverso da quello della garanzia dei diritti sociali — di
qui l’insistenza sulla prevenzione e la tutela penale
della sicurezza e dell’incolumità personale;73 2) la riscoperta, paradossale ma comprensibile, del valore
del luogo (il territorio e la comunità locale) come ancoraggio anzitutto simbolico dell’identità e della sicurezza perdute, ma anche come spazio residuo per
l’efficacia di scelte politiche;74 3) la tendenza a arroccarsi, specie da parte dei più sfortunati, in comunità
difensive, spesso a base etnica, religiosa o razziale, e
ciò sia, di nuovo, come recupero dell’identità minacciata, sia anche in risposta all’ostilità e alla discriminazione.75 Ciò che v’è di comune — e di psicologicamente importante — fra queste tendenze è il limitato
rilievo pratico e il carattere, propriamente ideologico,
di ‘sfogo’ o ‘espediente’: sia l’insistenza sulla sicurezza e sull’ordine che il ripiegarsi sulle questioni locali,
infatti (per non parlare del lealismo etnico o dell’ortodossia religiosa) continuano ad essere del tutto impotenti ad attaccare le cause autentiche dell’insicurezza e della sofferenza dei singoli ma canalizzano
l’ansia e la frustrazione tenendo in vita un’idea di
controllo e presa sui problemi. E insieme offrono,
demonizzando il diverso, l’estraneo, il non familiare,
in una parola col dare un volto e un’identità alla paura,
degli utilissimi capri espiatori. Specie gli stranieri, gli
31
Vergogna: l’emozione del limite
immigrati ed i profughi — osserva Bauman76 — si prestano egregiamente a incarnare il pericolo esterno, l’alieno, dai connotati poco comprensibili, ma in ogni
caso minaccioso e sfuggente.
A questo punto ci sembra chiaro che i presupposti e la qualità dell’identità e del consenso, nelle società in cui viviamo, danno uno spazio alquanto limitato — riservato, comunque, a un’area ristretta di privilegiati — ai requisiti di apertura e di stimolo all’ascolto e alla critica, e di attenzione per la differenza,
che si riassumevano come capacità negativa. Sia la ricerca di scorciatoie ideologiche e di capri espiatori
che l’insistenza, tutta difensiva, sulla relazione col ‘simile’ e la chiusura al diverso sembrano intese a recuperare un residuo margine di sicurezza (non è ben
chiaro fino a che punto illusoria) privilegiando la
semplificazione del processi mentali e l’evitamento, per
quanto possibile dell’alterità.77 La qualità di vere e
proprie difese nevrotiche, dirette cioè da dinamiche inconsce, di queste attitudini ne rende probabile il riversarsi anche nel rapporto genitore-bambino con le
conseguenze che abbiamo già anticipato. Meno tolleranza e anche meno curiosità per i disagi e le idiosincrasie del bambino (o dell’adolescente), maggiore
ansia verso il malessere, in breve una più intensa e
più frequente pressione (supportata, nel caso, da diversivi e da gratificazioni, o da interventi medicalizzanti) a non deludere le aspettative anche a rischio di
scindere aree importanti del sé.
Si tratterebbe, se tutto questo trovasse conferma,
di una dinamica circolare della vergogna. La difficoltà,
psicologica e pratica, di prender piena consapevolezza del proprio stato di vulnerabilità, e di farsene carico con iniziative politiche non di facciata, ne incoraggia il diniego o la proiezione all’esterno78 con un’ideazione, tutta difensiva, di qualità grossolana; se poi
questa si estenda anche all’attitudine genitoriale, essa riprodurrà le strutture psichiche — di falso Sé — più
favorevoli al riattivarsi di quelle difese: perché viziate
I modi del pensare
76. Modus vivendi, cit., p.
54.
77. Ibidem, pp. 99-101.
Bauman parla in proposito di ‘mixofobia’.
78. Sull’ubiquità della
proiezione della vergogna vedi M. C. Nussbaum, Nascondere l’umanità, cit., pp. 257-260.
32
I modi del pensare
79. R. Peltz, “The manic
society”, in L. Layton, N.
Caro
Hollander,
S.
Gutwill, a cura di, Psychoanalisis, Class and
Politcs, Routledge, London and New York 2006,
pp. 65-80.
80. A. Ehrenberg, op. cit.,
p. 256.
81. Ibidem, pp. 177-178.
Gianni Kaufman
da spazi vuoti — quasi sempre gli aspetti più vulnerabili e
fragili — non rispecchiati e non elaborati del Sé, materia prima delle future identificazioni e seduzioni ideologiche. Psichiatri e psicologi più interessati al contesto sociale e politico del malessere psichico propongono analisi di questo genere. Peltz, con riguardo
agli Stati Uniti, parla ad esempio di manic society — società maniacale, in cui genitori e figli, proprio reagendo alla totale carenza di garanzie e protezioni
pubbliche, condividono identiche negazioni e idealizzazioni, rappresentandosi “un mondo di potenzialità illimitate in cui venire a contatto coi propri limiti equivale a fallire”. I genitori agiscono la propria insicurezza con il promuovere lo sviluppo precoce dei
figli e un avvio prematuro delle funzioni dell’Io, i figli interiorizzano attese eccessive e proiezioni sadiche dei genitori, tendono a prendersi prematuramente cura di loro e a disprezzare i propri stati di bisogno.79 In tutt’altro ambito — quello francese — già
Ehrenberg aveva notato, negli anni ’90, “una esacerbazione degli imperativi di riuscita individuale e scolare [che] affligge bambini e adolescenti”.80 Ciò in un
contesto di instabilità e precarietà crescenti delle
condizioni di vita, di aggravamento delle disparità sociali, di patologie psichiche sempre più riferite alla
fatica e al trauma. Ma anche qui le difese vanno in direzione del potenziamento delle prestazioni (con un
uso di farmaci che tende a volte a sconfinare nel doping); e dell’equazione della salute psichica con il benessere e l’evitamento del deficit (omettendo il conflitto, il confronto col quale imporrebbe comunque
l’accettazione di limiti). Alla radice della crescente
frequenza delle patologie depressive Ehrenberg vede
non la colpa ma la vergogna: “Il depresso (…) nella sua
fondamentale megalomania, non può ammettere le
proprie insufficienze; non può ammettere di sentirsi
limitato dalla realtà e in particolare dai limiti impostigli dalla sua storia familiare e dalle sue origini familiari”.81 E “la nuova cultura psicologica (…) appa-
33
Vergogna: l’emozione del limite
ga il narcisismo dell’individuo, comportandosi tuttavia come una droga: alimentando un Io insaziabile,
praticamente senza limiti. Le tecniche di miglioramento di sé disinibiscono l’individuo senza però metterlo nelle condizioni di ristrutturarsi”.82
Sempre per la Francia infine, più recentemente,
Benasayag e Schmit, psicoterapeuti infantili,83 registrano il fallimento di un approccio educativo anche
troppo diffuso, ricalcato sui rischi e sulla spietatezza
della società di mercato, e che fa appello non al desiderio ma alla minaccia. Il futuro non è presentato come promessa ma come pericolo, e la cultura non viene offerta come valore — desiderabile — in sé; piuttosto il successo o l’insuccesso scolastico, e anche il valore di ciò che è appreso, sono da subito rapportati ai
criteri economicistici della società adulta e si procede,
su questa base, a una selezione precoce finalizzata a
orientare i bambini “il più presto possibile”. L’approccio è distorsivo psicologicamente, oltre che discutibile sul piano etico, perché non riconosce la molteplicità interna della persona; e il riconoscimento
non dovrebbe riguardare, secondo i due autori, solo
le persone che hanno problemi
“ma anche quelle che si considerano ‘normali’, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di ‘normale’, per poter assumere e
abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…) Infatti è
proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’
della norma, che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di dover ‘essere forti’, ‘all’altezza’. Ma ‘trionfare’ nelle nostre società della tristezza è grave almeno quanto fallire, perché comporta un prezzo da pagare, quello della
tristezza, della durezza e dell’angoscia di essere inclusi un
giorno nel novero delle persone che rivelano una ‘falla’. Il
trionfo presuppone che si recida ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità”.84
L’approccio, peraltro, è anche poco efficace perché soltanto il desiderio sa creare legami — legami sociali e anche di pensiero — mentre la minaccia alla sopravvivenza implica che “ci si salva da soli”. Questo ha
I modi del pensare
82. Ibidem, pp. 168-169.
83. M. Benasayag, G.
Schmit (2003), L’epoca
delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004.
84. Ibidem, pp. 84-85.
34
I modi del pensare
85. Ibidem, p. 49.
Gianni Kaufman
un riscontro del tutto tangibile quando il messaggio
sulla pericolosità del futuro è anche troppo creduto e
proprio per questo non si scommette sul sacrificio e
sul duro lavoro ma sul denaro veloce e facile (o sulla
fuga nelle dipendenze). Una società che si fonda sul
‘tutto è possibile’ del sapere tecnico e sulla negazione
del limite ha comunque un problema nel mettere un
argine all’onnipotenza e nell’imporre divieti, e quanto più evoca questo orizzonte, col battere il tasto dell’emergenza, tanto più rischia di farsi rispondere con
‘attacchi al legame’ — agiti violenti o fughe autistiche
nei giochi virtuali. Ma l’emergenza comprime anche
il tempo per far operare il pensiero: “riflessi sociali di
difesa prendono il posto occupato fino a ora dal pensiero e dall’elaborazione concettuale”.85 In questo senso può accelerare la ricerca dell’utile ma non stimolare
l’interesse allo studio e all’attività culturale. Occorre
invece, per rifondare sia le capacità di socializzazione
che le possibilità di pensiero, attuare una clinica del legame che non dovrà porsi l’obiettivo — di stampo ancora individualistico — dell’estensione fine a se stessa
dell’autonomia o del dominio dell’Io; e neanche procedere dall’idea astratta di un Sé che è sempre normalizzabile (cioè conformabile agli ideali sociali) perché
nulla di quanto lo fa soffrire pertiene al suo essere ma
è in qualche modo accidentale e esteriore. Piuttosto
occorrerà muovere da un non sapere che lasci modo e
tempo a ciascuno di assumere il proprio destino: di uscire cioè dall’alternativa irrealistica sottomissione/dominio che fa coincidere la libertà con l’indipendenza
assoluta, col puro arbitrio, per farsi carico del proprio
essere in situazione: cioè collocato in uno spazio non
eludibile di fragilità che è interdipendenza, la molteplicità e complessità dei legami che definisce ovvero
rende concretamente possibile la sua libertà.
35
Vergogna: l’emozione del limite
Abstract
The paper starts with the definition and the distinction between two kinds of shame:
inadequacy shame and violation shame, and states
their difference from guilt.
On the basis of linking shame to the experience of
“limits”, it suggests a criterion to differentiate between
individuating and alienating developments of shame.
Further such developments are analysed with regard to
three different realms: body, sexuality and emotions. The
third one is especially investigated with regard to dynamics and parental reactions in infancy and adolescence.
As for the consequences of early shame the analysis
refers to the development of a false – self and a deficit of
reflective function.
In addition the alienating developments of shame are
illustrated in connection with the bonds and the contradictions of the present global society: especially the new
phenomena of shamelessness, consumer sexuality and the
effects of the mentioned contradictions on parental attitudes.
I modi del pensare
37
I modi del pensare
Nella nota favola di Fedro, “Il lupo e l’agnello”, c’è
un lupo che decide di sbranare l’agnello che incontra mentre, come lui, si accinge ad abbeverarsi a un
ruscello. Il lupo non passa subito a vie di fatto, ma argomenta con la preda i motivi che lo legittimano a divorarla. Oltre all’assurdità delle sue spiegazioni, colpisce il fatto che senta di doverle dare. Il racconto offre uno spunto di lettura trasversale: nonostante la
sproporzione del rapporto di forza, fatto che renderebbe del tutto oziosa la giustificazione del suo agire,
il lupo si dilunga a rispondere all’appello al senso di
giustizia dell’agnello. I suoi argomenti, per quanto
assurdi, sembrano dettati dalla necessità di salvare la
forma.
La forma, in questo contesto, può essere intesa come vergogna del sopruso che il forte dovrebbe provare nei confronti del debole innocente e indifeso.
Fedro, che aveva ripreso le sue favole da quelle del
greco Esopo, evoca il genere di vergogna che nell’antica Grecia era espresso col termine aidos, insieme di significati come rispetto, pudore, soggezione e,
in particolare, senso del limite da non varcare; l’inglese awe ne rende bene il senso di ritegno misto a timore. È un senso teleologico del limite che preserva
gli umani dal rischio di regredire all’onnipotenza
dello stato ferino, come pure dall’esaltarsi nell’onnipotenza opposta, quella dell’inflazione che fa sentire
innalzati allo stato di divinità. Questa potenza inflazionata, antitetica ad aidos, era chiamata hybris. Il suo
significato rimanda a violenza, eccesso estremo, enormità. Indicava il non rispetto del limite estremo, l’aver superato il confine oltre il quale gli umani non
devono andare. Oltraggiare l’orfano privo di protezione, consegnare l’amico ai suoi nemici, approfittare dell’ospite tradendo la sacra regola dell’ospitalità
era avere in spregio l’aidos e cadere in preda alla
hybris. Evento, questo, che avrebbe scatenato la collera e la vendetta degli dei, quindi temibilissimo. Liberarsi dell’aidos e commettere hybris era passare dal
Superior
stabat
lupus
Bruno Meroni
38
I modi del pensare
1. I grecisti ancora discutono sui termini e sulle
accezioni di vergogna e
colpa presso i greci antichi. Oltre ad aidos il senso
di vergogna veniva indicato con aischyne, e a seconda delle epoche i due
termini tendevano a sovrapporsi o a distinguersi.
Attualmente sembra prevalere l’interpretazione
di aischyne come di provare vergogna per aver
commesso il fatto, quindi
una vergogna già di fatto
colpa.
2. Genesi III, Pentateuco e
Hastaroth, traduzione di
Luciano Caro, Marietti,
Torino 1965.
Bruno Meroni
sentire verecondo all’agire colpevole; i termini greci,
come si vede, distinguono le dinamiche relative alla
vergogna da quelle della colpa.1
Il lupo di Fedro, che tiene protervamente a distanza il sentimento di vergogna di cui tuttavia intravede il senso, è un soggetto già umano. Come ha detto Mark Twain, l’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è anche l’unico ad averne bisogno. Gli animali non conoscono la vergogna; una storia della vergogna potrebbe fare da contrappunto alla storia dell’evoluzione della coscienza, dai cavernicoli ai nostri
giorni. La coscienza, secondo la Genesi, nasce contemporaneamente alla comparsa del senso di vergogna della propria nudità. “…l’uomo e sua moglie erano
nudi ambedue, ma non si vergognavano”. Il rivestimento
di foglie che Adamo ed Eva si fecero subito dopo aver
mangiato il frutto proibito suggella la genesi coscienziale “(…) Gli occhi di ambedue si aprirono ed essi si accorsero che erano nudi; misero insieme delle foglie di fico e se
ne fecero cinture”. Come si vede, all’origine pudore e
vergogna sono tutt’uno.
Javeh accusa Adamo ed Eva di avere trasgredito il
suo ordine sull’evidenza di avere provato vergogna,
quindi paura. Quando chiama Adamo e gli chiede
dove sia, questi risponde : “Ho udito nel giardino il tuo
rumore, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto. Dio gli replicò: E chi ti ha fatto avvertito che sei nudo?
Hai forse mangiato dell’albero del quale ti avevo comandato di non mangiare?” L’importanza della vergogna della nudità del corpo viene riconosciuta e diremmo
avallata da Javeh, che concede di coprirla: “Il Signore
Dio fece per Adamo e per sua moglie delle tonache di pelle e
li vestì. Poi il Signore Dio disse: ‘Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi, in quanto conosce il bene ed il male (...)”.2
Dunque la conoscenza del bene e del male, secondo la nostra cosmogonia, si costella contemporaneamente al sentimento di vergogna e di colpa. Anche in questa prospettiva, la vergogna anticipa la colpa, la implica sottintendendola e questo, a mio avvi-
39
Superior stabat lupus
so, ci riporta al significato originario del termine greco, aidos.3 Mancherebbe, rispetto al greco antico, l’esplicitazione vera e propria di ciò che diventa colpa,
un termine equivalente di hybris. Sarebbe interessante un escorso filologico nell’antico aramaico per vedere se nel testo originario della Genesi se ne può
rintracciare una presenza. Quando il lupo antropomorfizzato accampa argomenti pretestuosi viola l’aidos, quando divora l’agnello viola la hybris. Il suo salvare la forma con argomenti assurdi rivela il disagio
che prelude alla vergogna di chi, per quanto egosintonico, avverte che il proprio agire lo pone fuori della norma, fuori dei valori condivisi. In questo la vergogna rivela l’affiorare nell’individuo di una verità
oggettiva che il suo soggettivismo non del tutto inconscio ignora o trova comodo non riconoscere. Amleto apostrofa la madre con: “O vergogna, dov’è il
tuo rossore?”. Le ultime parole con cui Kafka chiude
il romanzo dell’assurdo processo all’arrendevole signor K, morente sotto il coltello del boia, sono: “‘Come un cane!’ disse, era come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”.4
Secondo le intenzioni di Fedro il suo lupo, molto
umano, è metafora di persona prepotente, arrogante, che con sfrontatezza si consente di agire la violenza che governa il regno animale.
Ubi maior minor cessat, l’antico detto latino, che trova riscontro nelle lingue di tutti i tempi, mantiene
inalterata l’eterna attualità. Oggi tanto più offensiva
quanto più il differenziarsi della coscienza collettiva
dovrebbe affinare il senso etico degli individui, dovrebbe far avvertire come scandalose forme di prevaricazione che meno di un secolo fa sarebbero state tali in misura molto minore.
Lo scandalo, forma accentuata e socialmente estesa di vergogna, si produce quando due condizioni entrano in conflitto: da una parte l’irrinunciabilità al
senso della dignità dell’essere, principio garantito e
difeso dalla costituzione di ogni stato di diritto; dal-
I modi del pensare
3. Analogamente troviamo in latino: Ubi nullus
pudor, ibi nulla honestas.
4. W. Shakespeare, Amleto, atto III, scena IV. F.
Kafka, Il processo, Adelphi,
Milano 1988.
40
I modi del pensare
5. J. Roth, La marcia di Radetzky, Adelphi, Milano
1996.
Bruno Meroni
l’altra la palese violazione di questo principio, sia essa subita o agita.
Il senso di dignità dell’essere, assieme a tutti i contenuti valoriali elencati nel codice civile, come per
esempio il comune senso del pudore, è soggetto all’influenza dello spirito del tempo. Vergogna e colpa,
pur mantenendo viva la loro presenza, eternamente
riaffiorante in quanto istanze archetipiche, sono indissolubilmente contrassegnate dai valori dello spirito del tempo, quindi mutanti nella forma e nel contenuto. Se al tempo dell’Impero austroungarico un
capitano distrettuale sarebbe stato meno scosso dalla
notizia della morte dell’unico figlio che dal saperlo
autore di un atto disonorevole,5 oggi è difficile pensare che potrebbe accadere qualcosa di simile.
Ugualmente, ciò che nell’ambito della sessualità solo
cinquant’anni fa poteva venire considerato scandaloso, oggi trova una valutazione ben diversa.
Il tempo in cui viviamo pone in massima considerazione la notorietà, che a sua volta valorizza acriticamente la figura del vincente, o anche solo dell’emergente. Da qui l’affievolirsi del senso di colpa, anche
in seguito alla scoperta della trasgressione più eclatante; da qui il circoscriversi della vergogna in una dimensione relativa più alla Persona che alla coscienza
morale.
Se consideriamo il percorso compiuto nella storia
dell’evoluzione della coscienza, dovremmo dedurre
che più evolve la coscienza della collettività, più l’istanza etica del singolo individuo sarebbe portata ad
affinarsi. Fatto che dovrebbe vedere immediatamente chiamato in causa il sacrificio degli aspetti egosintonici dell’Io, ossia la mortificazione dell’Ombra di
pari passo con l’inibizione delle sue richieste. In realtà, oggigiorno si direbbe che l’Ombra si adoperi con
successo perché questo non avvenga. Ombra collettiva prima ancora che individuale. Per niente indebolita dal conflitto etico, l’Ombra collettiva dell’attuale
contesto sociale autorizza l’individuo a depotenziare
41
Superior stabat lupus
sempre più il pudore e il senso del limite. In questo
contesto sociale, ormai massificato in quasi ogni suo
aspetto, risulta più che mai veridica l’asserzione di
Jung secondo la quale il livello etico di un insieme di
persone si abbassa proporzionalmente alla quantità
di persone che lo compongono.
La richiesta di più prestazioni simultanee (una
sorta di ubiquità virtuale dovuta alla raggiungibilità
da cellulari e posta elettronica) unitamente all’accelerazione della nozione del tempo operativo, tutto
questo crea un aumento esponenziale di impiego di
energia. Ne risulta una situazione in cui l’individuo
fatica sempre più a reggere il passo; ridotto alla condizione dell’automa chapliniano di Tempi moderni,
considera naturale e positivo essere omologato e appiattito nella dimensione di uomo massa.
Diminuendo il senso della propria unicità l’essere
umano, troppo umano, si sente sempre meno in colpa per le proprie inadempienze, per contro sempre
più timoroso di restare fuori del gioco, di separarsi
dall’inclusione nel sociale, di perdere l’apprezzamento del gruppo di appartenenza. Chi, magari persona in vista, ha trasgredito e viene smascherato pubblicamente, quindi soggetto più di altri suscitatore di
scandalo, per prima cosa nega tutto, e clamorosamente continuerà a farlo contro ogni evidenza. Altro
che aidos! Il senso di colpa, si direbbe, non lo sfiora,
e nemmeno lo imbarazza un residuo di creanza, termine questo totalmente in disuso; ciò che veramente
teme è l’emarginazione dal gruppo dei vip (very important person). La sola vergogna che paventa è non
poter più esibire la posizione che la notorietà gli offre. Contrariamente al passato, la persona colpita dallo scandalo non si auto-esilia dalla collettività, ma fa
di tutto per restare alla ribalta. Oggi può dire, con
Oscar Wilde, si parli pure male di me purché si parli.
Come si è arrivati a tutto questo?
La figura di riferimento depositaria dei valori collettivi è, archetipicamente, il padre. Il depotenzia-
I modi del pensare
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I modi del pensare
6. A. Mitscherlich, Verso
una società senza padre,
p.185 e sgg., Feltrinelli,
Milano 1970.
Bruno Meroni
mento del principio archetipico a lui relativo va di pari passo con l’affievolirsi dei valori in cui la collettività
si identifica. Alexander Mitscherlich, rifacendosi al
pensiero di David Riesman, osserva che dal momento
che “nella vita attiva è venuta a mancare la trasmissione diretta degli insegnamenti da parte del padre e
quindi non esiste su questo piano una tradizione sicura, i coetanei tendono a orientarsi l’uno sull’altro.
Il peer group, cioè il gruppo di coetanei nel quartiere,
nella scuola, o nel luogo di lavoro fornisce la linea direttrice del comportamento. Questo vale sia per i
bambini che per gli adulti; e di conseguenza i genitori rimproverano ai figli non tanto l’infrazione alle regole (inner standards), quanto l’incapacità di stabilire
buoni rapporti con altri bambini e di essere ‘popolare’ fra di loro”. L’individuo gruppo-dipendente, è
“preparato perché possa adattarsi a una trasformazione assai rapida della società e sfruttarla per il conseguimento dei suoi fini individuali”. L’orientamento,
invece di essere fondato su norme ritenute immutabili e universali “viene impresso con il radar. In questo
modo i cambiamenti di direzione possono essere continui: infatti l’uomo ‘other directed’ viene continuamente colpito da nuovi richiami di oggetti immediati,
che egli afferra e poi abbandona altrettanto rapidamente. Anche questa docilità alle influenze esterne
viene naturalmente assimilata sin dall’infanzia, e fa
nascere quella figura di ‘progressista’ che crede nella
tecnica, che disprezza il padre, che non trova in sé alcuna esigenza di sviluppo e per il quale esistono praticamente solo due categorie di giudizio: un ‘essere-informa’, ‘essere popolare’ nella società oppure l’essere
dimenticati, sorpassati, senza valore”.6
È evidente come il consumismo, con relative derive negative, trovi nei presupposti qui descritti un fertilissimo terreno di cultura, anche irrorato dalla comunicazione commerciale di massa. Per contro, se in
un paesaggio sempre più appiattito si pensa alla mancanza del padre che trasmette nella vita attiva i suoi
43
Superior stabat lupus
insegnamenti, viene in mente un passaggio del Faust
di Goethe che Freud cita più volte nei suoi scritti: ciò
che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero.
Riesman ha scritto le sue osservazioni nel 1950,7
tuttavia la frammentazione della persona come individuo (il cui etimo, ricorda Jung, è individuum, ossia
non-diviso) viene da un’onda lunga, il cui sommovimento attraversa tutta la vita sociale del novecento.
Mi sembra utile soffermarsi su aspetti sociologici anche in queste pagine che, in verità, trattano più specificamente di pratica analitica. Ma, come sappiamo,
lo spirito del tempo permea ogni seduta del nostro lavoro, e coinvolge l’analista in un rapporto controtransferale di cui non può non tenere conto; in parole junghiane l’analista con la propria Anima, Persona interna, Persona esterna, non può in nessun
modo astrarsi dal tempo sociale in cui opera, fatto
che oggi gli chiede un impegno adattivo sempre
maggiore. L’intento è quello di sempre della psicologia analitica: far germogliare nell’analizzando lo specifico individuale affinché possa trovare un’integrazione nel suo ambiente il più possibile compatibile
con la sua datità di individuo.
Riguardo la mortificazione della possibile originalità di un soggetto, già nel 1931 Virginia Woolf denunciava che mentre in passato all’individualità dei
politici che governavano i destini dell’Inghilterra era
concesso di espandersi, “…oggi un singolo uomo
non può reggere alla pressione delle umane faccende. Esse si abbattono su di lui schiacciandolo; lo lasciano privo di carattere, anonimo, un puro strumento nelle loro mani. La conduzione degli affari è
passata dalle mani degli individui alle mani dei comitati. Persino i comitati possono solo dirigerli e sollecitarli e rovesciarli addosso ad altri comitati. Le squisitezze e le complicazioni della personalità sono ornamenti superflui che intralciano l’agire”.8
Andando ancora un passo indietro nel tempo,
I modi del pensare
7. D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna
1956.
8. V. Woolf, Scene di Londra, Mondadori, Milano
1982, p. 66.
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I modi del pensare
Bruno Meroni
concludo questa escursione sulle radici non recenti
dell’uomo a una dimensione, come lo ha definito
Marcuse: riporto un brano di un saggio di Freud del
1908. Presenta la sua profetica preoccupazione per le
conseguenze del crescente nervosismo moderno e, nello stesso tempo, lascia trasparire il Freud uomo del
suo tempo, quello borghese-ottocentesco della cosìdetta Austria felix. Ma è proprio il conservatorismo
della sua condizione che lo rende attento e particolarmente sensibile ai pedaggi che il progredire delle
condizioni sociali stava comportando. Freud considera come gli specialisti delle malattie nervose del momento “…si siano fatti banditori della connessione
esistente tra l’aumento del nervosismo e la vita civile
moderna. (…) Dove essi cerchino le cause di questa
dipendenza, sarà illustrato con alcuni brani tratti da
dichiarazioni di eminenti osservatori. Wilhelm Erb:
‘L’interrogativo inizialmente posto si può dunque
formulare così: le cause individuate sopra delle malattie nervose sono presenti nell’esistenza moderna
in proporzione così cresciuta da spiegarci il rilevante
aumento di tali malattie? A questo interrogativo si
può senz’altro rispondere di sì, come mostrerà un rapido sguardo alla nostra vita moderna e alla forma
che è venuta assumendo.
Ciò risulta subito evidente da tutta una serie di fatti generali: le straordinarie conquiste dell’epoca moderna, le scoperte, le invenzioni in tutti i campi, il
mantenimento del progresso di contro alla crescente
competizione, tutto ciò è stato ottenuto e può essere
mantenuto solo con un grande lavoro intellettuale. Il
grado di prestazioni richieste all’individuo nella lotta
per l’esistenza è notevolmente aumentato ed egli
può soddisfare tali richieste solo impiegando tutte le
proprie energie spirituali; allo stesso tempo i bisogni
del singolo e le sue esigenze di godimento della vita
sono aumentati in tutte le classi, un lusso inaudito si
è diffuso in strati della popolazione che prima n’erano rimasti esclusi; l’irreligiosità, l’insoddisfazione e
45
Superior stabat lupus
l’avidità sono aumentati in vaste sfere sociali. Attraverso la smisurata intensificazione del traffico e le reti delle comunicazioni telegrafiche e telefoniche che
abbracciano tutto il mondo, le condizioni del commercio sono totalmente cambiate: tutto viene fatto
nella fretta e nell’agitazione, la notte è impiegata per
viaggiare e il giorno per gli affari; perfino i viaggi ‘di
svago’ sono diventati occasioni di strapazzo per il sistema nervoso. Grandi crisi politiche, industriali e finanziarie diffondono l’agitazione in strati della popolazione molto più vasti di prima; la partecipazione
alla vita politica è diventata generale: le lotte politiche, religiose e sociali, l’attività di partito, le campagne elettorali, lo smisurato aumento delle associazioni infiammano gli animi e costringono le menti a
sempre nuovi sforzi, sottraendo tempo allo svago, al
sonno e al riposo. La vita nelle grandi città diventa
sempre più raffinata e inquieta. I nervi esausti cercano ristoro in stimoli più intensi, in piaceri piccanti,
per stancarsi così ancora di più. La letteratura moderna si occupa prevalentemente dei problemi più
scabrosi, che sommuovono tutte le passioni, incoraggiano la sensualità e la sete di godimento, il disprezzo di tutti i principi etici e di tutti gli ideali; essa presenta allo spirito del lettore figure patologiche, problemi di psicopatia sessuale, rivoluzionari e d’altro
genere. Le nostre orecchie sono stimolate e sovraeccitate da una musica invadente e chiassosa, somministrata in grandi dosi; i teatri tengono avvinti tutti i
sensi con i loro spettacoli provocanti; anche le arti figurative si rivolgono di preferenza al ripugnante, al
deforme e all’eccitante e non esitano a metterci sotto gli occhi con rivoltante verismo anche gli aspetti
più mostruosi offerti dalla realtà.
Questo quadro generale mostra dunque già tutta
una serie di pericoli insiti nell’evoluzione della nostra civiltà moderna: e per completarlo nei particolari si potrebbero aggiungere altri segni caratteristici!’”.9 Freud aggiunge poi altri interventi, di tenore
I modi del pensare
9. S. Freud, “La morale
sessuale ‘civile’ e il nervosismo moderno”, Opere,
vol. 5, Boringhieri, Torino 1972, p. 416.
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I modi del pensare
10. Z. Bauman, Intervista
sull’identità, Laterza, Roma-Bari, 2003.
11. Z. Bauman, Media,
spettatori e attori, p. 3, Vita
e Pensiero, www.vitaepensiero.it.
Bruno Meroni
analogo, di Binswanger e di Kraft-Ebing.
Sin qui alcune premesse alla genesi dell’attuale società liquida. È la nota definizione di Zygmunt Bauman; società divenuta tale per cause diverse, fra le
quali spicca il liquefarsi dei quadri di riferimento non
appena si costituiscono, quadri che normalmente sono i punti fissi che consentono e delimitano i comportamenti collettivi e individuali, quelli che custodiscono i valori condivisi che improntano l’orientamento e il senso di continuità della singola persona.10
Questa società liquida, fra le altre cose, a causa
dell’onnipresenza delle telecamere ci ha trasformati
tutti in spettatori globali, una immensa platea incessantemente sottoposta alla spettacolarizzazione della
realtà. In una conferenza tenuta a Milano nel 2004,
Bauman si chiedeva: “Gli esseri umani, fragili come
sono, saranno capaci di sopportare con pazienza, integrità e dignità l’enorme peso dell’informazione?
Potranno tollerare di conoscere tutta quanta la miseria umana, il male quotidianamente commesso e la
sofferenza delle vittime? O piuttosto cercheranno, in
modo meschino, vile, deprecabile, di sottrarsi a quel
peso con calunnie reciproche, insulti, inutili polemiche e aperte rivalità, scorgendo colpevoli e malfattori ovunque tranne che in casa propria?”.11
Come si vede, Bauman pone l’accento sull’Ombra
collettiva, il cui espandersi può produrre a livello individuale tratti di una psiche che si protegge rimanendo infantile; tanto l’elaborazione della vergogna
come l’assunzione della colpa vengono eluse dal gioco dell’Ombra: una volta disattivata la vergogna, il
peso della colpa si riduce al trovare un colpevole. Ho
trovato un brano, in un libro di Garcia Marquez, che
descrive con la finezza del grande scrittore come in
una personalità adulta possano permanere aspetti
d’Ombra che, sconcertantemente, hanno conservato
integra la compattezza difensiva dell’infanzia. “Fin da
bambina, quando si rompeva un piatto in cucina,
quando qualcuno cadeva, quando lei stessa si chiu-
47
Superior stabat lupus
deva un dito nella porta, si girava spaventata verso l’adulto più vicino in quel momento e si affrettava ad
accusarlo: ‘È stata colpa tua’. Anche se in realtà non
le importava chi fosse il colpevole né tantomeno di
convincersi della sua innocenza: le bastava per lasciarle stabilità.
Era un fantasma così manifesto che il dottor Urbino si era accorto per tempo fino a che punto minacciasse l’armonia di casa sua, e non appena lo intravedeva si affrettava a dire alla moglie: ‘Non ti
preoccupare, amore mio, è stata colpa mia’”.12
Scorgere colpevoli ovunque tranne che in casa propria, ossia essere in balia delle proprie identificazioni
proiettive, è un tratto peculiare del narcisismo, da cui
scaturisce l’esito paranoide ulteriormente accentuato
in chi vive con-fuso nella moltitudine dell’appartenenza. Se l’epoca omerica è stata definita “civiltà della vergogna”, essendo questa l’istanza più influente
sulla cultura di quel tempo,13 il momento attuale, è
opinione accettata, vede il narcisismo come il tratto
dominante, quello che maggiormente caratterizza la
vita sociale: la nostra età è l’età del narcisismo.14
In culture di tutti i tempi la fama, quando associata alla gloria, era un bene supremo: tramandava la
memoria del personaggio alle generazioni future.
Oggi il teleschermo elargisce una forma di fama —
non importa se connotata dalla gloria o dall’infamia
— che vive solo in tempo reale; se, come è stato detto,
la televisione ha ucciso la realtà, allora si è sostituita
alla realtà e può elargire fama comunque. Andy Warhol, nel 1968, profetizzava: nel futuro ciascuno sarà
famoso in tutto il mondo per quindici minuti.
L’autostima di un individuo poggia in larga misura sul riscontro positivo che avverte da parte del
gruppo di appartenenza. Sentirsi parte integrata di
un insieme di più persone fa sentire se stessi più forti: un gruppo coeso infonde vigore ed energia. L’aspetto adattivo, il gregarismo sono il grande rischio
della Persona, che Jung vede come ostacolo poten-
I modi del pensare
12. G. Garcia Màrquez,
L’amore ai tempi del colera,
Mondadori, Milano 1985,
p. 217.
13. E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, La Nuova Italia,
1978.
14. Ch. Lash, La cultura
del narcisismo, Bompiani,
Milano 1995.
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I modi del pensare
15. S. Freud, “Psicologia
delle masse e analisi dell’Io”, Opere, vol. 9, Boringhieri, Torino 1997, p.
304 e sgg.
16. Le ricerche nei campi
della psicologia cognitivaevolutiva hanno prodotto
ulteriori interpretazioni
circa la relazione fra potenziale genetico e influenza ambientale. Si è
così ulteriormente ampliato il dibattito sulla tesi che gli archetipi non
vadano considerati come
strutture genetiche innate ma possano essere
equiparati a schemi di
immagine formatisi nel
primo stadio del processo
mentale; in sostanza, più
che di contenuti mentali
innati si verrebbe a parlare di prodotti precoci dell’auto-organizzazione
evolutiva, ossia di prime
produzioni dello sviluppo mentale. Indipendentemente dalle posizioni
assumibili in questo dibattito, che sicuramente
coinvolge tutti noi, il termine di archetipo qui impiegato è da intendersi
come una manifestazione
costantemente rintracciabile nell’individuo e nella
collettività lungo tutto il
percorso della vicenda
umana.
17. M.-L. von Franz, Shadow and evil in fairytales,
Spring Publ., Zurich
1974.
Bruno Meroni
zialmente molto pericoloso riguardo il conoscere e
integrare la realtà dell’Anima. Pericolo che, in modo
meno specifico, non era sfuggito a Freud. Alle conseguenze della pulsione gregaria dedica uno studio particolare, rileva che “il mistero dell’influenza suggestiva aumenta ai nostri occhi se ammettiamo che essa
non viene esercitata unicamente dal capo, ma anche
da ogni singolo su ogni altro singolo, e dobbiamo
rimproverarci di unilateralità per aver dato rilievo
preminente al rapporto istituito con il capo sottovalutando indebitamente l’altro fattore, quello della
suggestione reciproca”.15
È possibile che la tendenza ad aggregarsi, a omologarsi nella Persona, attualmente così urgente, sia
una risposta allo smarrimento prodotto dalla trasformazione dei valori tradizionali. L’insicurezza spinge a
rinserrare le fila. In ogni caso dietro questa spinta c’è
un eterno flusso energetico che, in un’ottica junghiana, è riconducibile al grande vento emanato da
un archetipo: quello dell’appartenenza. Come tutti
gli archetipi racchiude una tremenda energia e gli
umani, in quanto animali sociali, non possono vivere
armonicamente in un proprio mondo autarchico;
per i nostri antenati del pleistocene perdere il contatto con il gruppo di appartenenza significava la
morte, proprio come accade a tutti gli animali sociali.16 Questo terrore originario, radicato nell’amigdala, ispira molte delle nostre iniziative, il cui scopo è
rassicurarci che il posto che occupiamo nel contesto
sociale non corre rischi di esclusione. Nel suo studio
su come il male è rappresentato nelle fiabe, la von
Franz rileva che quasi sempre esso si manifesta in circostanze di lontananza, di isolamento dalla comunità: la bambina che disobbedendo ai genitori si inoltra
nel bosco abitato dalla strega, o che deviando dal percorso più frequentato incontra il lupo, come pure
l’imprudente che si allontana troppo dall’oasi verso
il deserto e incontra il genio cattivo.17
Per avere un’idea della potenza dell’archetipo del-
49
Superior stabat lupus
l’appartenenza basti pensare che nell’antica Grecia,
per i cittadini della polis, la pena più severa in cui un
reo poteva incorrere, paventata più della stessa pena
capitale, era l’ostracismo. L’esilio significava la perdita della condizione di cittadino, ossia la morte civile.
Analogamente in Shakespeare, in Romeo e Giulietta,
troviamo: “Non c’è mondo fuori dalle mura di Verona / se
non purgatorio, sofferenza, anzi, l’inferno stesso. / Essere
bandito da qui significa esser bandito dal mondo / ed esser
bandito dal mondo significa morte”.18 Per la comunità la
proscrizione di un individuo significava cancellare la
stessa memoria che si aveva di lui. L’importanza dell’appartenenza è evidenziata con peculiarità britannica dal verbo inglese to remember, ricordare: letteralmente significa ricostituire un membro. Troviamo la
stessa radice nel sostantivo francese remembrement,
con significato di riunificazione, ricomposizione. La
radice è analoga anche nell’italiano rimembrare.
In analisi, la sofferenza da esclusione è tutt’altro
che marginale e può manifestarsi in modi molto diversi. L’occhio dell’analista deve sapere coglierli: vanno dall’ansia precoce provata dal bambino che avverte complicità intese ad escluderlo dai giochi dei compagni, situazione spesso avvertita nei banchi di scuola,
alle idee paranoidi di chi immagina complicità nel venire emarginato da parte di amici o colleghi di lavoro.
L’inibizione a far parte della vita sociale era il motivo che aveva portato in analisi un giovane poco più
che ventenne, figlio unico, impiegato amministrativo, che viveva in famiglia. Da sempre la sua vita solitaria era stata condizionata da una madre iperprotettiva e iperaccudente, che aveva concentrato su lui tutto il senso della sua vita. Il padre, periferico, era irrilevante anche per motivi di lavoro che lo tenevano
quasi sempre via da casa. La madre aveva messo ogni
suo pensiero sull’accudimento del figlio, coltivando
per la famiglia scarsissime frequentazioni esterne, circoscritte a pochi parenti. Il rapporto affettivo che
questa madre aveva con il figlio mi si era configurato
I modi del pensare
18. W. Shakespeare, Giulietta e Romeo, atto III, scena III.
50
I modi del pensare
Bruno Meroni
in un ossimoro, un boa constrictor di miele. Aveva
continuato a lavare la schiena al figlio, quando nella
vasca di casa faceva il bagno, ancora quando aveva
compiuto quindici anni. Fu allora che lui, in un sussulto di autonomia e di amor proprio, le disse che voleva lavarsi da solo. La scintilla della ribellione era
scaturita quando si era vergognato nel sentire la madre, durante una conversazione con una parente,
che parlava di questa abitudine come di una cosa
normale. Come nella Genesi, la vergogna aveva anticipato il senso che qualcosa di non presentabile, di
colpevole, veniva commesso.
Il disagio che l’aveva indotto a entrare in analisi
non era il pesante stato depressivo che pure avvertiva, accompagnato da svariate tematiche ipocondriache, bensì un problema immediato: l’incapacità di
assumere alimenti fuori casa. Nell’intervallo di colazione mangiava alla sua scrivania, nell’ufficio della
piccola azienda in cui lavorava, fatto che gli provocava un forte sentimento di disagio — una commistione
di vergogna non priva di colpa — per non fare come
gli altri colleghi, che nell’intervallo si recavano nelle
pizzerie e nei bar vicini. Si giustificava con loro inventandosi motivi dietetici e risolveva il suo ostacolo
alimentare portandosi da casa la colazione, preparata dalla mamma, che scaldava su un minuscolo fornellino elettrico. La consumava in solitudine alla sua
scrivania, nell’ufficio deserto. Quando un nuovo arrivo, una segretaria, per economizzare seguì la sua
consuetudine, una nota della direzione pose fine a
tutto questo: i clienti avrebbero potuto sentire nell’aria odore di cibo, fatto poco professionale per l’azienda. Fu allora che iniziò il suo dramma. Spiluccare un panino nella confusione dei bar del centrocittà
era per lui un’autentica sofferenza, e peggio ancora
consumare un piatto pronto: oltre alla difficoltà a inghiottire, avvertiva come insultante quella parvenza
di pasto. Su questo problema passammo circa due anni di sedute, due anni di autocompianto e svalutazio-
51
Superior stabat lupus
ne, con alternanze di mestizia e agitazione; il lavoro
inteso a far emergere la particolarità della sua dipendenza domestica, l’anomalia del suo legame con la
madre e il materno prima ancora che col padre, non
lo coinvolgevano più che tanto.
Una svolta a questo stagnante stato di cose avvenne, inaspettatamente, un giorno in cui, in piedi al
banco di un bar, scorse con occhi nuovi la sua immagine riflessa in uno specchio che occupava tutta una
parete. Si vide attorniato da una quantità di persone,
come lui intente a mangiare qualcosa. Inspiegabilmente, avvertì come un senso di sollievo del suo stato, finire il panino fu meno penoso. Poche notti dopo fece questo sogno: “Mi trovo nella piazza di una
città che non conosco, ai lati ci sono delle aiuole e
delle piante. Avverto il bisogno ad andare di corpo,
so che dovrò farlo e sono agitatissimo, non vedo nessun posto possibile per farlo. Per disperazione vado
dietro una pianta e con grande sorpresa scopro altre
persone che, accucciate, fanno i loro bisogni. Mi unisco a loro. Penso che per pulirmi potrò prendere delle foglie dall’aiuola”.
Che l’andare di corpo sia stata un’attività corale è
testimoniato dagli scavi archeologici, che in ogni parte del mondo presentano testimonianze di androni
con turche e seggi preposti all’uopo, disposti uno accanto all’altro. Ne parlammo col mio analizzando, gli
lessi anche un punto del Viaggio in Italia di Goethe,
dove l’autore descrive un episodio che gli accadde in
un albergo a Torbole, sul lago di Garda. “Quando
chiesi al servo come soddisfare una certa necessità,
egli accennò al cortile di sotto: ‘Qui abasso può servirsi!’. Io gli domandai: ‘Dove?’. ‘Da per tutto, dove vuol!’
rispose cortesemente. In ogni cosa si manifesta qui la
massima trascuratezza, ma anche molta vitalità e operosità”.19
Devo dire che all’epoca di questa analisi, la teoria
dei neuroni specchio era ancora di là da venire. Le neuroscienze ancora non ci avevano parlato delle basi
I modi del pensare
19. J. W. Goethe, Viaggio
in Italia, Mondadori 1993,
p. 27 (nel testo le parole
in corsivo sono in italiano).
52
I modi del pensare
Bruno Meroni
neurofisiologiche dell’intersoggetività, del fatto che,
come esseri sociali, condividiamo con altri non solo
azioni, emozioni e sensazioni, ma anche i meccanismi nervosi che le sottendono: sé e altro da sé sono
correlati in quanto entrambi rappresentano opposte
estensioni di uno stesso spazio noi-centrico. Se avessi
saputo qualcosa di questo sistema della molteplicità condivisa mi sarebbe risultato meno singolare il fatto che
per il mio analizzando la semplice vista nello specchio di se stesso attorniato da altre persone intente a
mangiare, avesse segnato una svolta così particolare
nel suo percorso evolutivo. In realtà, nonostante la
collaborazione dei neuroni specchio, molto lavoro analitico ci attendeva; del resto, come le stesse neuroscienze chiariscono, nella dimensione della reciprocità condivisa c’è differenza fra empatizzare, attività
ritenuta di natura pre-verbale e pre-razionale, e simpatizzare, campo dove l’Io dice la sua, con tutte le sue
attese e i suoi irrisolti nuclei complessuali. Tuttavia
dopo il sogno fu come se, inaspettatamente, un ciclo
virtuoso avesse preso forma.
Indipendentemente dalla teoria, è stupefacente la
finezza del processo onirico che collega l’impossibilità di mangiare in pubblico con un irrisolto senso di
vergogna, e lo stempera ponendo l’analizzando a
fronteggiare, condividendola, una situazione che nell’ambito della vergogna è forse quella più limite di
tutte le possibili. Penso che nel labirintico percorso
del nostro lavoro analitico, l’archetipo dell’appartenenza, attivatosi in un aspetto soccorrevole, abbia
giocato un importante ruolo riparativo.
53
Superior stabat lupus
I modi del pensare
Abstract
The theme of the paper concerns the contemporary way of
living guilt and shame, due to the collective pressure increasingly requiring accelerated performances: anxiety to
affirm oneself (fear of not keeping the pace) flattened individual values to collective values, refuses to acknowledge any sense of limits, priority to auto-affirmation (and
of becoming famous) over moral principles. The readiness
to accept control from external influences proposed by
parents since infancy, gives birth to a “progressive person”
that believes in technique, despise the father and for
whom there are only two categories of judgment “to be
fit”, “to be popular” or to be forgotten, to be behind the
times, without value. Freud had anticipated all this in his
1908 paper “ Civilized Sexual Morality and Moral Nervous
Illness“, today reconsidered by Zygmut Bauman with his
concept of the “liquid society”. The gregarious drive already theorized by Freud, can be expressed in Jungian
terms as the archetypal predisposition to belonging.
55
I modi del pensare
Il sentimento
di inadeguatezza
come colpa
contemporanea
Il cosiddetto “senso di colpa”, in psicoanalisi, ha una lunga storia, una storia che
parte dalle origini. Potremmo dire addirittura che è stato un inscindibile ingrediente sia nel primo pensiero di Sigmund
Freud, con il sintomo di conversione isterica posto a cavallo tra una sorta di travestitismo pulsionale e la punizione per la
colpevolezza della pulsione stessa, e il suo
pensiero successivo, quando, con l’istinto
di morte, il sentimento di colpa sembra assumere un
ruolo preponderante nelle dinamiche psichiche. Poi,
soprattutto a partire dal kleinismo, per anni è stato
assunto come inevitabile passaggio alla sanità, in
quanto costitutivo della posizione depressiva: l’uomo
colpevole freudiano diviene così il bambino colpevole kleiniano.
Soltanto negli ultimi decenni, con la più ampia riflessione sul narcisismo e sul ruolo di quest’ultimo
nella costruzione della personalità e del mondo interno del soggetto, si è aperta una prospettiva fondamentale a proposito del passaggio da colpa a inadeguatezza. Il narcisismo, da esecrato ripiegamento incurabile, “colpevole” di sottrarre investimento alla relazione d’oggetto, e liquidato tout court in tal senso,
viene ritrovato prima con Reich nel concetto di corazza caratteriale, poi, nella forma della psicologia
del deficit, indirettamente con Balint ed esplicitamente con Kohut, e ancora, per citarne soltanto alcuni, con Green, Grunberger, Lopez e Kernberg,
nonché con tutti coloro che hanno sviluppato la teoria del rispecchiamento, primo fra tutti Winnicott. Il
narcisismo sano viene dunque recuperato come “ingrediente” basilare della personalità, che ne garantisce la vitalità interna e la costanza di autostima anche
di fronte alle delusioni (Mitchell, Black 1995), ingrediente pertanto indispensabile all’individuo sia per
costruire un sé coeso sia per poter stare in adeguata
posizione nella relazione d’oggetto. A questo tra-
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I modi del pensare
Gabriella Mariotti
guardo si è giunti pur mantenendo vertici assai differenti dal punto di vista clinico-teorico. Focalizzandone soltanto alcuni, possiamo vedere infatti che il narcisismo viene descritto da Grunberger (1971) in accordo con il primo Freud e la sua ipotesi del narcisismo originario: rimanderebbe dunque a uno stato di
elazione, cioè alla fondamentale fase iniziale di beata
condizione fetale. Kohut (1977) ne sottolinea invece
il ruolo di garante della omeostasi psicofisica del neonato e soprattutto ne fa il depositario del sé primariovirtuale, mentre la Mahler (1968) correla il narcisismo alla relazione con un oggetto fuso e indistinto,
ab origine la madre. Davide Lopez, oltre ad aver recuperato il narcisismo originario di Freud, ne ha altresì arricchito il concetto, sottraendolo all’ambiguità cui lo hanno in certo modo condannato anche gli
psicoanalisti che ne riconoscono il significato come
fase iniziale fondamentale: Lopez infatti ne ribadisce
il valore per l’inconscio attuale e ne configura il recupero come fonte di ritorno rigenerante su sé nella
dimensione del vuoto anoggettuale (Lopez, Zorzi
2003), dimensione che, in alternanza con momenti
di fusione, regola la buona tenuta della relazione con
l’oggetto (Lopez, Zorzi 2005).
Questo ampliamento di riflessione ha dunque
permesso di distinguere il narcisismo sano dal narcisismo patologico, ha permesso di rendere evidente il
suo intreccio con la relazione d’oggetto e ha permesso quindi di riconoscere il transfert anche nei pazienti narcisistici, che infatti oggi sono considerati curabili con l’analisi, contrariamente a quanto riteneva
Freud.
Coerentemente, si è modificata anche la concezione dell’essere umano: dal “soggetto colpevole”
dell’epoca vittoriana e dal “bambino colpevole” della
Klein, si passa al “soggetto inadeguato” della modernità, o, come dice Kohut, dall’uomo colpevole si passa all’uomo tragico. Tale maggiore attenzione al sentimento di inadeguatezza, rispetto al sentimento di
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Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
colpa, appare più coerente con la effettiva condizione di impotenza e dipendenza dell’infante umano e,
in particolare, appare fondamentale alla comprensione degli effetti di alcune dinamiche socio-culturali attuali, molto improntate al bisogno di rispecchiamento gratificante.
A questo proposito, i principali studiosi della modernità (Bauman 2000, Sennett 1998, Beck 1990)
hanno sottolineato il portato della cosiddetta modernità liquida nei termini di sovrabbondanza identitaria, superficiale e caotica, e di ripiegamento del soggetto, in cerca di stabilità e rispecchiamene rassicurante, sulla pseudointimità famigliare o di coppia,
che viene intesa unicamente come riparazione (più o
meno eccitatoria) e sostegno. Non possiamo ignorare che tali dinamiche si esprimono anche nelle modificazioni della tipologia patologica dei pazienti che
giungono in analisi. E in effetti, alcuni psicoanalisti
hanno focalizzato nei nostri attuali pazienti “lo slittamento progressivo ma inarrestabile verso il primato
della problematica narcisistica”, con il corredo sintomatologico di instabilità identitaria, difficoltà di soggettivazione, autonomizzazione fragile o incompleta,
vulnerabilità relativamente alla stima di sé e all’apprezzamento da parte degli altri, deficit di simbolizzazione, prevalenza dell’agire sul pensare, dominio
del corpo e della realtà concreta (Cahn 2002, Jeammet 1985, Zucca 2005, Fina 2005).
Sembra una grande, immensa, regressione collettiva: dal conflitto edipico si è scivolati indietro, al registro del rispecchiamento? Dal desiderio sessuale e
dalla rivalità si è pian piano tornati al bisogno fusionale, allo sguardo contenitivo e sostenitivo di una
madre sufficientemente buona? In un certo senso,
sembra proprio così: “il valore dell’altro non passa
più per la sua desiderabilità o per il suo opposto, ma
per la funzione di garante narcisistico di cui si trova
investito” (Cahn 2002), a tal punto che perdere l’oggetto implica perdere sé. Pertanto, i pazienti, come
I modi del pensare
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I modi del pensare
Gabriella Mariotti
sostiene Ehrenberg (1998) presentano raramente i
segni della depressione franca, mentre è assai più frequente un’area sfumata, per quanto profondamente
angosciosa, di vuoto, abulia, perdita di scopo, vacuità
e noia. Nel lutto, non appare più il boomerang dell’oggetto che torna a colpire, col peso della colpa, chi
è sopravvissuto, quanto piuttosto appare il crollo dell’immagine di sé, la frantumazione dello specchio
che garantiva valore e coesione all’autorappresentazione: più che la perdita di un oggetto d’amore, appare la perdita di tanti oggetti-sé.
Analogamente, dalla tensione verso la conoscenza,
per quanto arrogante e pervicace, di Edipo, si scivola
verso il non-pensiero, verso la ricerca di un’immagine
di sé immediatamente “specchiata”, per quanto illusoria. E via via, insieme a questa tensione del pensiero di e su sé, va perduta la capacità di reggere la tensione relazionale e la tensione interna: le “protesi”
elettroniche, principe tra tutte il telefono cellulare,
“saturano” immediatamente qualsiasi manifestazione
di ansia, soffocano qualsiasi capacità di “essere soli”.
Mi è capitato più di una volta di vedere pazienti, soprattutto all’inizio di una analisi, assai in difficoltà di
fronte al mio deciso invito a spegnere il cellulare durante le sedute. I motivi di tale disagio sono sempre
gli stessi : angoscia di non essere in contatto col “fuori”, essere tagliati via dal “fuori”, in contrapposizione
con un “dentro” rappresentato dalla seduta così ignoto e poco afferrabile da incutere una forma di autentica angoscia, marcata dal difficile spaesamento di chi
si sente del tutto inadeguato al compito. Non si tratta,
in questi casi, di “colpa” nel sottrarsi al richiamo del
“fuori” (lavoro, figli, etc.), quanto piuttosto di incapacità a reggere il confronto con una dimensione percepita al contempo come necessaria e inquietantemente ignota: una incapacità, un senso di inadeguatezza appunto, che si ammanta di nobili sentimenti
(dedizione al lavoro, alla famiglia, etc).
Pare dunque ci sia poco posto per la colpa, in
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Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
questo quadro, e molto posto soltanto per il sentimento di inadeguatezza. E questo, nella visione più
classica, ci riporta alla considerazione di una grande
regressione collettiva, culturale e affettiva, dal conflitto edipico, dalla relazione triangolare, alla relazione diadica, visione cui si può essere tentati di rispondere vagheggiando, come talora appare nella
psicoanalisi di scuola francese, una sorta di ritorno
al padre, inteso come ineludibile terzo sessuato, portatore di ordine superegoico e, appunto, di “terzità”
(come se la “terzità” potesse essere garantita tout court dalla differenza sessuale, e non, come invece ritengo, dalla differenza insita in due persone, i genitori, sane e mature).
In realtà è effettivamente vero che si rischia una
regressione collettiva verso relazioni di rispecchiamento, tipiche della patologia narcisistica, ma è anche, questa sorta di regressione collettiva, una grande occasione per comprendere che il “prima di Edipo” è segnato dalla volontà omicida del padre, dalla
devastante ferita inferta ai bisogni narcisistici sani del
bambino. Se osserviamo tutto ciò, cogliamo appieno
non solo che Edipo è stato “ucciso” nella mente dei
genitori ( attualmente troppo spesso il bambino reale è sostituito dal “bambino della mente dei genitori”,
come proiezione desiderativa di riparazioni del loro
stesso narcisismo ferito, Mariotti 2006), che il suo
smisurato orgoglio nasce anche in reazione a quella
ferita, ma altresì cogliamo che l’omicidio parentale è
dietro, è nella mente di Laio che vuole cancellare il
figlio così come il figlio cancellerà il padre, sia fisicamente, uccidendolo, sia metaforicamente, occupandone il posto con Giocasta. Si tratta dunque, a mio
parere, di cogliere l’occasione, di integrare e intrecciare più compiutamente il continuum dialettico tra
Edipo e fasi preedipiche, andando oltre, a questo
proposito, il concetto stesso di “fase da superare una
volta per tutte”, il ritorno alla quale possa essere concepito solo come regressione maligna (Mariotti
I modi del pensare
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I modi del pensare
Gabriella Mariotti
2001). E si tratta altresì di riflettere come sia possibile affrontare terapeuticamente questa “colpa assente”, per quanto, tornando alla clinica, essa appaia
tutt’ altro che assente.
Infatti, non si possono contare le volte in cui, in
qualsiasi analisi, compare la parola colpa: “ho fatto
questo e quest’altro..mi sento in colpa”, “alla fine ho
acconsentito perché altrimenti mi sarei sentito troppo colpevole”. Ma si tratta veramente di “colpa”?
Marx diceva “gratta l’uomo e trovi il tedesco”, volendo significare che sotto il termine onnicomprensivo e del tutto astratto di “uomo”, si nascondeva in verità l’idealismo tedesco, ammantato di umanesimo
vago e generico. Potremmo parafrasarlo e affermare
“gratta il senso di colpa e ci trovi il narcisismo”! Questa considerazione è in realtà presente ai nostri occhi
e alle nostre orecchie in molte sedute, e si presenta a
noi come possibilità interpretativa con apertura prospettica e costruttiva, assai più di una interpretazione
che accolga tout court favorevolmente la manifestazione del senso di colpa e rischi così di inchiodare il
paziente ad una astratta colpevolezza della quale inevitabilmente si sarebbe macchiato, diciamo così, ab
origine. Ho certamente passato molte più ore, con i
miei pazienti, a disfare sensi di colpa inutili e di copertura, che non ad accoglierli come funzionali e
progressivi. Mi spiego meglio: il concetto, proposto
da Lopez (2005), di collusione narcisismo-masochismo e l’intreccio del gioco dei doppi ruoli, chiarisce
molto bene che, sotto le mentite spoglie della colpa e
dunque dell’uomo buono, del figlio amorevole, del
genitore sollecito fino al sacrificio, che si sente “colpevole” di ciò che ha fatto e detto, di ciò che non fatto e non ha detto, si cela la ferita narcisistica di chi
non ha agito in sintonia con un ideale narcisistico di
perenne bontà, oblatività, generosità, e dunque si
sente, fondamentalmente, inadeguato rispetto a
quell’ideale di perfezione e di onnipotente superiorità (chi ha molto da dare, chi ha sempre da dare, di-
61
Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
spone di molto più di chi riceve!). Relazioni di sottomissione, di “inspiegabile” masochismo, di generosità
eccessiva, di disponibilità oltre il limite, nascondono
infatti spesso la volontà di tenere per sé il ruolo di chi
è “superiore” all’altro nella propria correttezza e di
lasciare al partner il ruolo (al quale appoggiare la
proiezione delle proprie voracità narcisistiche) del
narciso avido e predatore piuttosto che del persecutore. In questa dinamica, appare evidente che il soggetto è incapace di tollerare se stesso, o meglio quegli aspetti di sé che, in quanto manifestazioni di un
orgoglio teso alla superiorità, sono considerati non
tanto come elementi colpevoli, quanto piuttosto come ferite al proprio narcisismo che vorrebbe un’immagine pura e avulsa da simili negatività. “Io no! Io
non sono così!”, è sempre l’altro quello ambizioso,
quello infantile, quello che “pretende”. La proiezione del proprio narcisismo avido e infantile sul partner, al quale poi sottomettersi “generosamente”, come vittima pura, soddisfa così un doppio scopo: è
possibile mantenere una immagine altamente valorizzata di sé, appunto in quanto vittima pura, e al contempo, grazie a una proiezione identificatoria, agire
“per interposta persona” il proprio narcisismo. Tra i
molti vantaggi secondari, non dobbiamo dimenticare
che in tal modo, acconsentendo ai capricci e alle
istanze predatorie del partner (di coppia, ma anche
figlio o genitore) lo specchio rappresentato dall’altro
rimanderà, almeno per un attimo, uno sguardo di apprezzamento e di soddisfazione, non di critica né di
rabbia. La colpa di “non aver fatto abbastanza”, di
“non avere capito abbastanza”, di non essere stati abbastanza generosi, abbastanza comprensivi, abbastanza tolleranti etc, è dunque una colpa che, per essere
“sciolta”, non può che implicare una disamina attenta e puntuale della fantasia narcisistica sottesa. Un altro esempio di ciò consiste in un tipo specifico di
“blocco agli studi”: esami e tesi che si protraggono all’infinito, con dichiarazioni di colpa ad ogni esame
I modi del pensare
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I modi del pensare
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fallito e ad ogni giornata non dedicata allo studio.
Sotto la colpa, un ideale narcisistico di trionfo e perfezione, di esami passati brillantemente e possibilmente senza “dover studiare”, di tesi rivoluzionarie
che cambiano il corso del mondo, che riscuotono
plausi e successi (spesso di superamento di una figura famigliare eccessivamente idealizzata e invidiata).
Mi pare evidente che l’interpretazione in tal senso
del sentimento di colpa nelle patologie narcisistiche
è interpretazione che apre una via di elaborazione
molto ampia, che rimette il soggetto in contatto con
le dinamiche distorte del suo rapporto con l’Io ideale e il Super-io. È su questo piano infatti, che si gioca
nuovamente la partita: un Io ideale grandioso megalomanico, a compensazione di una fragilità narcisistica, si allea a un Super-io feroce e svalutante, che pare pretendere sempre di più ed essere sempre pronto al disprezzo e alla vendetta (Lopez 1989). A questo
proposito, Grunberger fa notare che “il soggetto si
sente colpevole di tutto ciò che è incapace di fare”. Mentre Freud parla di una funzione protettiva del Superio che interdice ciò che non si è in grado di fare (lo
scandaloso fallimento edipico di Freud), Grunberger
capovolge il concetto: non è più il progetto a essere
colpevole (l’incesto), non è più dunque una interdizione che protegge dall’incapacità del bambino a
consumare l’incesto, bensì è il soggetto che diviene
colpevole in quanto incapace, e in quanto incapace
soggiace al disprezzo di un Super-io narcisistico sadico e svalutante. Pensiamo innanzitutto alla reale inferiorità dell’infante rispetto ai caregiver dai quali dipende completamente, inferiorità che si accompagna alla paura (il pianto disperato del bimbo spaventato perché non vede più la mamma vicino a sé): inferiorità e paura che vengono lenite dallo sguardo
amorevole dei genitori, dalla loro ammirazione, dalla loro presenza affettuosa. Ma se questa risposta,
questa holding sufficientemente buona, è invece disempatica, fredda, frustrante, ansiosa, depressa, iper-
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Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
idealizzante, narcisistica o quant’altro, il sentimento
di inferiorità — forse potremmo dire l’effettiva esperienza di inferiorità impotente — (che nello sviluppo
sano viene via via bilanciato dall’ambiente adeguato
fino a giungere all’Edipo e alla capacità di reggere
sentimenti di rivalità e competizione) diventa quella
“colpa per tutto ciò che si è incapaci di fare”: “ciò che
non sono capace di fare è il farmi amare, è l’avere le
risposte adeguate che cerco”. Di questa incapacità il
soggetto si sente colpevole, istituendo così una sorta
di automatismo incarcerante tra il dover conquistare
mete sempre più megalomaniche e il sentirsi sempre
più “colpevolmente” inadeguato a raggiungerle. Colpa e vergogna si sfumano così l’una nell’altra, tracimano reciprocamente, fino a far impallidire la distinzione tra Super-io e Io ideale.
L’affermazione di Grunberger dunque è del tutto
condivisibile ed evidenzia una sorta di avvitamento
sul piano intrapsichico: ci dice chiaramente quanto il
Super-io narcisistico persecutorio possa far sentire il
soggetto colpevole della propria, più o meno realistica, inadeguatezza e simultaneamente ci riporta al tema della difesa da quello stesso sentimento di inadeguatezza: meglio colpevoli, cioè, che impotenti o inadeguati. In effetti, è proprio in situazioni di lutto, alla morte di una persona cara, che scatta facilmente la
fantasia della colpa come difesa dal sentimento di impotenza. Anni fa, ho avuto in analisi una giovane
donna che sembrava cercare punizioni, sembrava
proprio l’articolazione del classico delinquente per
senso di colpa. La “colpa” nasceva dal fatto che, da
bambina, aveva aiutato la madre a svegliare il padre
autista perché partisse al più presto (e ovviamente, al
più presto tornasse): il padre morì quella stessa mattina in un incidente. Ella sapeva di essersi limitata a
“fare il suo dovere”, poiché il padre doveva in effetti
partire a quell’ora, ma la drammatica impotenza nella quale si trovò immersa sia nei confronti della morte sia nei confronti della grave depressione che so-
I modi del pensare
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I modi del pensare
Gabriella Mariotti
pravvenne nella madre, la spinse a una fantasia di
“colpa”: per riscattare quella bimba impotente e terrorizzata, era giunta a pensare che la morte possa essere evitata e che dunque la morte del padre era stata certamente determinata da qualcosa che lei aveva
fatto, e non da quella tragica fatalità che la faceva
sentire del tutto indifesa e impotente. Un’analoga
problematica può essere riscontrata in talune vittime
di abusi, che si attribuiscono la “colpa” di aver accettato (quando non nutrono addirittura la fantasia di
avere determinato) la seduzione: la colpa salva dal
sentirsi veramente vittime delle circostanze, del fato,
o più semplicemente, della vita. E’ come se questi pazienti pensassero “se sarò punito per quella colpa, allora potrò tornare degno e non sarò colpito da altre
disgrazie”, ricordando appunto molto dappresso i
“delinquenti per senso di colpa” di cui aveva parlato
Freud. Questo sollievo dal sentimento di impotenza
annichilente viene pagato col prezzo di una colpa altrettanto, se non maggiormente, annichilente. Dietro, come appare evidente, si annida la fantasia narcisistica di una possibilità di controllo sul mondo e
sulla vita, fantasia che a sua volta nasconde la terribile e devastante esperienza infantile della totale impotenza a controllare alcunché di fronte ad avvenimenti traumatici.
Ciò che sto affermando, e cioè la necessità di riconoscere, nelle patologie narcisistiche (ma non solo!), il senso di colpa come difesa dal sentimento di
inadeguatezza, implica il chiedersi se non vi sarebbe
dunque un senso di colpa autentico, se non vi sarebbero dunque colpe effettive delle quali dolersi autenticamente.
Dobbiamo, a questo proposito, tornare al Super
Io, a un Super Io che nella riflessione psicoanalitica
è divenuto l’espressione di una morale normalizzatrice storicamente determinata, e a un Io-ideale megalomanico, che invece di spingere verso l’emancipazione opprime e perseguita con mete irrealizzabili
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Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
e onnipotenti. Ecco, come si è detto, che colpa e vergogna si intersecano, che l’inferiorità, invece di essere una spinta emancipativa legata al desiderio identificatorio, diviene fonte di vergogna e spesso origina
quel circuito paralizzante tra pretese sempre più
pressanti e vergogna-colpa sempre più marcata. Un
buon esempio è rappresentato da alcune forme di
inibizione a parlare in pubblico: il desiderio esibitorio troppo marcato narcisisticamente si configura come fantasia di successi trionfanti, blocca la parola davanti al compito impossibile e il Super-io persecutorio accentua il sentimento di inadeguatezza con rimproveri estenuanti e svilenti. Fairbairn e Rosenfeld,
come sottolinea giustamente Sassanelli (1998),
adombrano un concetto similare, per quanto definito e collocato differentemente, quando parlano del
sabotatore interno e dell’ Io antilibidico che attacca
gli aspetti fragili, manchevoli, ma anche vitali e potenzialmente evolutivi.
Ed è qui che si apre la distinzione tra un Super-io
che equivale all’imperativo categorico derivato dalla
introiezione automatica dell’autorità parentale, alleato a un Io-ideale megalomanico, e che dunque va
dissolto come oggetto interno persecutorio e sadico,
e un Super-io, alleato all’Io-ideale sano, che invece
preserva e promuove gli ideali costruttivi della persona(Lopez 1989). La distinzione, lo spartiacque, è
proprio lo slancio vitale: se il Super-io è istanza conservatrice e immobilizzante, l’Io-ideale sostiene invece l’emancipazione e la cosiddetta via del largo. Più
che colpa, per quanto questa possa essere funzionale,
potremmo parlare dunque di un sentimento di inadeguatezza verso il proprio stesso ideale, sentimento
che, se al servizio di un movimento emancipativo e
costruttivo, non assume mai le forme dello svilimento e della paralisi né, tantomeno, della colpa. Anche
sotto i rapporti più palesemente sadomasochistici,
dove il soggetto appare schiacciato dalla colpa per la
propria incapacità di farsi amare, c’è un ideale sano,
I modi del pensare
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I modi del pensare
Gabriella Mariotti
quello appunto di un amore reciproco e solidale: si
tratta “soltanto” di recuperare questo ideale, “staccandolo” dalla relazione negativa attuale, volgendolo
a mete realmente soddisfacenti, e per farlo è necessario “ripulire” le incrostazioni narcisistiche che spingono a voler vincere onnipotentemente una partita
già persa in partenza (e presumibilmente già perduta ab origine).
La colpa “sana” è dunque molto rara, e, come ho
affermato più sopra, è distinguibile soprattutto dal
senso vitale e progettuale che include: ad esempio,
sentirsi “in colpa” perché si è saltata una seduta, se
non si riduce alla colpa nei confronti dell’analista-genitore (anche se questo è un passaggio spesso inevitabile e funzionale, in quanto l’analista rappresenta
l’ideale sano e potente), è un progressivo confronto
con il proprio sé più sano, attento cioè all’interesse
complessivo della persona, superiore rispetto alle difese e alle resistenze. In questo senso, la colpa “sana”
non abbatte, non umilia, non prosciuga le energie,
quanto piuttosto stimola ad assumere sempre più
consapevolmente la responsabilità della propria vita
e dei propri ideali, misti di realizzabilità e tensione ad
andare oltre.
Concludo riferendomi proprio al passaggio da
colpa a responsabilità, passaggio fondamentale perché include sia l’eliminazione di una sorta di autoassoluzione che spesso coincide con la dichiarazione di
colpevolezza (come se tale dichiarazione fosse già in
grado di annullare la colpa stessa), sia un movimento attivo-progressivo di effettiva modificazione e riparazione della eventuale “colpa”. Quest’ultima considerazione è di fondamentale importanza perché rimanda alla presa di consapevolezza del sé e del proprio mondo interno: se l’analista esaurisce l’interpretazione nel mostrare che la “colpa” coincide con
un oggetto interno persecutorio (interpretazione già
molto più prospettica rispetto alla tautologica lettura
di una “colpa” effettiva in via di riparazione grazie al-
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Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
la depressione), il paziente si ritrova a ingaggiare battaglia con qualcosa che gli appare come estraneo e
dunque difficile da “scacciare”. Me se l’interpretazione non si ferma a questo, e, pur includendolo, mostra come quell’oggetto persecutorio sia “ri-creato”
dal paziente con la sua collusione con gli elementi
originari effettivamente persecutori, magari proprio
al fine narcisistico di divenire egli stesso potente come quell’oggetto e/o di esserlo ancor di più vincendolo, allora il paziente può iniziare a sentirsi “responsabile” dell’attualità della propria sofferenza e
facilitato a poterla eliminare, accogliendo contemporaneamente il dolore antico inferto dalle figure significative e il desiderio di liberarsene, di emanciparsene (Mariotti 2006).
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69
Il sentimento di inadeguatezza come colpa contemporanea
Abstract
At present, the increase of pathologies in the narcissistic
area requires to pay close attention to the concept of
“guilt” and to its interpretation in these pathologies. Often, guilt is in reality a feeling of personal inadequacy
coming from a rigid and megalomanic Ego Ideal allied to a
persecutory Super Ego. A great number of clinical examples show how the feeling of guilt, that in Freud forbade
the Oedipal desires in order to protect the child from his
original inadequacy to self realization, to day is an expression of the constant reproach for what we are not able to
do. There is a passage from a protective Super-Ego function towards inadequacy to a persecutory function exactly
towards that incapacity. The interpretation of the narcissistic dynamic underlying many of the feelings of guilt in
evidence in the “new pathologies”, including apparent
masochistic behaviour, is essential to make the patient
conscious of his personal provision to his own suffering.
I modi del pensare
71
I modi del pensare
“Chi è malvagio?
Colui che vuol farmi vergognare”.
(Nietzsche, La gaia scienza)
L’insostenibile
peso
della vergogna
Accolto il suggerimento del serpente, Eva
prova vergogna e vede la sua nudità. La traAnna Sabatini Scalmati
dizione iconica ebraico-cristiana, che ripetutamente rappresenta questo evento, ricopre — a protezione dallo sguardo di Dio, solo allora percepito come esterno — con una ghirlanda di foglie i lombi di Eva e quelli del suo compagno.
Riconoscimento di non-onnipotenza, di non-completezza, di un narcisismo chiamato a misurarsi con oggetti e spazi esterni al sé. Vergogna quale esperienza
di visibilità, acuta consapevolezza della differenza sessuale, dell’innata fragilità e della duplice percezione
di essere soggetto che prova e sente, e oggetto della
propria e dell’altrui percezione. Deidealizzazione
dell’originaria unione con il tutto, appercezione di
sé, quale effimera particella di vita, esposta allo sguardo dell’altro. Stato d’animo che attraversa il sé e investe la relazione intersoggettiva. Comunicazione diretta tra interno ed esterno.
Vergogna e pudore: lemmi siamesi nella comune
radice latina di pudor: cinto di foglie a custodia di sentimenti e desideri che animano — massimo di realtà
e massimo di mistero — il mondo interno. Pudore, velo tutelare della fragilità e dell’intimità del corpo e
dei sentimenti, nell’accezione positiva di salvaguardia della propria soggettività. Pudore che misura le
sue ali nella dialettica avvicinamento-allontanamento, separazione-individuazione, confronto me-altro
da me, dipendenza-autonomia.
Vergogna e sessualità, aree legate da stretti nessi
associativi. La prima scuote e imporpora il sé non appena alla coscienza giungono visioni rappresentative
estranee alla norma dei valori condivisi, la seconda si
colora di vergogna non appena viene denudata. Ses-
72
I modi del pensare
1. Primigenio nel senso
che non è ancora ‘oggetto di conoscenza’.
Anna Sabatini Scalmati
sualità come pudore violato; oltraggio all’area nucleare ove il fisico contatta un profondo, primigenio1
sentire emotivo. Ingresso del terzo: il corpo, l’altro e
il guardare in senso attivo e passivo. Irruzione di
esterno nell’interno che appiattisce il turbamento
emotivo alla materialità del corpo. Incontro con uno
sguardo che penetra lo spazio individuale e privato,
ove hanno origine percezioni, fantasie inconsce e
sentire emotivo. Ove germina la mente e la selva delle sue rappresentazioni, l’unicamente, l’assolutamente me.
Allo spettro della vergogna, impossibile da isolare
da una più ampia costellazione emotiva, mi avvicino
operando una distinzione, fenomenologicamente
discutibile, ma a mio parere utile, tra quattro stati di
vergogna, allo scopo di comprendere l’ombra lunga
che la vergogna riversa sulla psiche e le ricadute psicopatologiche che ne conseguono.
Di questo complesso stato emotivo analizzo solo
alcune sfaccettature che differenzio ponendomi da
un vertice di osservazione che distingue la vergogna
che apre al confronto intrapsichico e a nuovi orizzonti relazionali, dalla vergogna indotta, il cui segno
e causa generante è di origine esterna: intersoggettiva e transoggettiva.
VERGOGNA E VIOLENZA DI STATO
Da anni seguo in psicoterapia psicoanalitica rifugiati politici, provenienti dall’Africa e dall’Asia, che
negli anni della loro adolescenza o nella prima età
adulta hanno conosciuto duri periodi di prigionia e
tortura. Donne e uomini che calpestano i nostri stessi marciapiedi, rispondono alle nostre stesse esigenze
primarie ma, più spesso di quanto pensiamo, i loro
passi sono attraversati da immagini di paura, sensazioni di vergogna che li risospingono in un altrove, in
un passato che si sovrappone al presente. Vivono
73
L’insostenibile peso della vergogna
l’ambiguità, la “coesistenza dell’orrore con lo spettacolo di un’apparente normalità sociale” (Viñar, p.
208). Fanno i conti con due compresenti realtà: quella esterna e condivisa e quella che, imbottigliata nel
loro tempo interiore, avanza inquietanti momenti di
derealizzazione. Con il polo oggettivo, di fronte a cui
provano vergogna, e quello soggettivo; poli che si
sommano e amplificano reciprocamente.
Dice una giovane donna: “Sono in strada, alla fermata dell’autobus. D’un tratto ho la visione di calci in
faccia. Barcollo. Ho paura. Diffido delle persone che
mi sono accanto”. Mi parla di immagini incollate nella sua mente, sporche di sangue e di paura, avvolte in
un intenso, acre senso di vergogna. Queste immagini
— come i pipistrelli che nel letargo invernale pendono a testa in giù dai pioli a cui sono aggrappati — sono saldamente ancorate nella sua mente. Ora una,
ora un’altra esce dal letargo, allarga le ali e ripropone ricordi-percezioni-sensazioni che emanano puzzo
di morte.
La sua persona è nuovamente un corpo “svergognato”, manipolato, deriso, deprivato di ogni traccia
di umanità. È nuovamente trasformata in oggetto, in
una ‘cosa’ di carne umana. Il pudore articola un’accezione negativa: non velo protettivo a difesa delle
proprie corde espressive, ma sipario strappato che rivela una relazione che è andata oltre il limite e ha deumanizzato l’umano.
Per sopravvivere alle violenze e alle offese, la giovane ha fatto appello alla ferrea, benefica “follia” grazie a cui la mente si ritira, frappone una distanza di
sicurezza tra sé e il corpo, lasciato, per così dire, a vivere il dolore della mera carne. La mente si allontana dall’apparato sensoriale. Fugge dalla situazione
traumatica a cui non può sfuggire, le cui informazioni non può elaborare simbolicamente, chiamando in
suo soccorso una potente difesa: la dissociazione peritraumatica. La mente, in funzione adattativa e difensiva, si protegge dagli affetti troppo violenti che
I modi del pensare
74
I modi del pensare
2. La dissociazione adattativa e difensiva va distinta dalla dissociazione patologica.
3. A Denise Holstein, come racconta nel suo libro, sono stati necessari
cinquanta anni.
4. Post Traumatic Stress
Disorder.
Anna Sabatini Scalmati
minacciano la sua sopravvivenza, ammettendo alla
coscienza solo aree circoscritte di esperienza. Si astiene dal contenere l’esperienza nella sua unitarietà e
totalità; se lo facesse ne sarebbe accecata.
Ma gli eventi trattenuti difensivamente in aree dissociate, una volta che la vita ha ripreso il suo corso
‘normale’, con sempre maggiore frequenza, sotto
forma di pensieri intrusivi, flashback, incubi, premono alla porta della coscienza e chiedono di entrare in
rapporto dialettico con altre aree della mente.2 Avanza il difficile processo di integrazione; l’oltraggio esce
dal letargo, ma allorché ciò avviene, la morsa della
vergogna stringe il petto, decelera i battiti cardiaci,
disarticola la parola e il corpo, diffidente a occupare
lo spazio relazionale, è percorso da tremiti. Le intrusioni traumatiche, quali sintomi dolorosi e destabilizzanti, quali immagini pietrificate, calamitano il presente nel passato; ripresentano i ‘fatti’ nella loro qualità grezza, psicologicamente non trasformata. Piegano l’individuo all’ascolto della ‘quasi morte’ del loro
sé e degli oggetti a esso connessi. Tornano a essere
l’oggetto deriso, degradato, vilipeso; tornano a riconoscersi nell’oggetto di ‘quella’ situazione, in quel
corpo, in quella espressione della propria “oggettività senza difesa” (Sartre).
A volte occorrono anni prima che l’integrazione
inizi a divenire possibile,3 prima che divenga possibile uscire dal silenzio. Elaborare questi eventi e fare loro acquisire la qualità di ‘ricordi oggettivi’ è difficile,
in parte impossibile.
L’acronimo PTSD4 inquadra lo stato emotivo successivo ai gravi traumi, ma come rappresentare il
senso di non ritorno, di perdita, i risvegli improvvisi,
l’inattesa convivenza con eventi che residuano una
vergogna fatta di violenza, ignoranza, malvagità, spudoratezza, sangue, feci, urina, muco, convivenza con
la morte?
Una signora congolese, moglie di un militare di alto grado del precedente regime, in prigione viene
75
L’insostenibile peso della vergogna
picchiata e abusata davanti al figlio di sedici anni e
questi davanti a lei. Da allora un sospetto terribile dà
ulteriore corpo alla sua vergogna. Il marito sapeva
quello che avviene nelle carceri? È invasa da una profonda vergogna per quello che ha visto, per la sua nudità di fronte al figlio e quella del figlio di fronte a lei
e da una domanda intima, segreta che la fa tremare:
“Se sapeva, come è possibile che io non abbia percepito l’orrore di tutto ciò nel suo sguardo? Mi sono fatta complice dei suoi misfatti, per non mettere in discussione il nostro benessere?”
I suoi occhi insozzati da visioni orribili, di notte
inscenano horror che la ricoprono di vergogna. La
vergogna poi le torna addosso come una condanna
a morte e sogna: “Mia sorella più piccola viene afferrata al collo dal fidanzato. Nessuno la difende, anzi viene presa e, per essere lapidata, seppellita viva fino al collo. Osservo terrorizzata la scena e mi sveglio
urlando”.
Questi incubi, così come la riattivazione delirante
delle impressioni traumatiche, ricalcano la sintassi
della conflittualità psichica, ma non hanno origine
in essa; sono una ripresentazione di episodi vissuti.
Una riproduzione allucinatoria della violazione dell’intimità relazionale, della perversione del vivere sociale e della sofferenza morale che hanno generato.
Sono complessi rappresentativi di cui è difficile sopportare la violenza e la crudeltà, e come più volte mi
sono sentita dire: “Hanno qualcosa di diabolico, di
terribile e disumano”. La plasticità di questi sogni, la
qualità allucinatoria delle immagini, è tale che nel
sonno i sognatori si alzano dal letto per chiudere a
chiave la porta della camera, nascondersi, o uscire.
Eppure, mi assicurano, non hanno mai avuto episodi di sonnambulismo. Ad epigrafe di La tregua, tra altri versi, leggiamo:
“Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo” (Primo Levi).
I modi del pensare
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I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
Un paziente dell’Africa centrale, gravemente depresso, mi dice: “Ho visto cose che non volevo, né dovevo vedere. Una paura incredibile, che viene da stratificazioni di memorie che non so più ordinare, mi
rende muto. In prigione dopo il primo interrogatorio
ho capito che quello che credevo fosse il male supremo, sarebbe stata piccola cosa in confronto a quanto
mi sarebbe capitato”. Ha un accorato scoppio di pianto. Ha vergogna per il suo sé denudato e vergogna per
gli altri, per essere testimone del male compiuto da altri, per avere veduto fatti che non dovrebbero accadere. “Ero al cimitero per la sepoltura di mia sorella,
la bara stava per essere inumata. Sullo sfondo vedo arrivare un camion. Noi recitiamo le preghiere. Il camion si ferma, la parte posteriore si solleva, e… centinaia di cadaveri cadono dentro una grande fossa.
Come posso allontanare queste immagini?”
La violenza che le/li ha resi impotenti e carichi di
vergogna, non può essere lasciata a lungo fuori della
coscienza. Guardarla, come ci mostra il sogno di questo giovane uomo, richiede una forza titanica:
“Sono a letto. Come mia abitudine dormo con la
faccia rivolta verso il muro. Ai miei piedi c’è una porta, sento che al di là celebrano un rito. La cerimonia
finisce. Capisco che vengono a prendermi. Ma la porta è chiusa, non si apre. Si solleva un vento impetuoso, violentissimo, che sradica gli alberi, rompe i vetri
e squarcia la porta. Frammenti di legno si conficcano
nei muri. Io sono paralizzato, non posso muovermi.
Mi sveglio, ho molta paura, giro leggermente la testa
e apro un occhio, uno solo e guardo la porta. È chiusa. Dopo un po’ mi riaddormento. Un nuovo sogno
mi ripropone la scena e la tempesta, ma questa volta
nel sogno ho la forza di girarmi. Apro tutti e due gli
occhi e guardo la porta. Devo fare una grande pressione sul mio corpo. La mia forza non può essere minore di quella sollevata dal vento. Mi sveglio per la seconda volta. La paura mi immobilizza. Continuo a fissare la porta per tutta la notte”.
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L’insostenibile peso della vergogna
Rappresentazioni di paura impregnate di ineffabili, magmatiche sensazioni di vergogna, crollo annichilente dell’immagine e dell’esperienza del Sé. Implosione che, come scrivono Ballerini e Rossi Monti è:
“sprofondamento all’interno di sé che non solo trascina una
crisi dei confini Io-ambiente con l’angoscioso vissuto della
trasparenza, ma provoca una siderazione della comunicazione connessa ad un appiattimento dei significati del mondo
esterno” (p. 122).
VERGOGNA E CONFLITTO INTRAPSICHICO
Da questa vergogna originata dalla storia, da eventi che rivelano la forza e l’orrore a cui giungono le
emozioni umane, volgo ora l’attenzione al cauto e rispettoso interrogarsi, all’inquietante colloquio con i
propri sentimenti, invisibili presenze interne, di cui si
ha improvvisa e sconvolgente rivelazione. Esperienza
di sé che dischiude un conflitto psichico la cui intensità — legata alla dinamica Io, Io-ideale e a considerazioni di ordine etico e sociale — chiede di essere
trattenuta sulla soglia del non detto, sul limitare della luce.
Racine, occhio osservante della coscienza di Fedra, non appena coglie nella sua eroina la incestuosa
passione per Ippolito, cosparge le sue gote di un violento rossore:
“Lo vidi: da rossore e da pallore
fui invasa alla sua vista; lo scompiglio
si impadronì dell’anima perduta;
i miei occhi non vedevano, non riuscivo a parlare;
sentii il mio corpo ardere e gelare
Venere riconobbi, e i suoi fuochi temibili,
tormenti inevitabili
per chi è preso di mira dalla dea,
ma che a furia di offerte mi illusi di stornare” (versi 273-279).
I tormenti che assediano il cuore di Fedra, l’ossessione che la emargina dalla comunità etica e le fa
I modi del pensare
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I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
contemplare la sua colpa, non possono essere rivelati: all’onta è preferibile la morte.
“Volevo, con la morte salvare la mia gloria,
nascondendo una fiamma così nera” (versi 309-310).
In una regione non distante da Londra, nel primo
quindicennio del diciannovesimo secolo, un’intensa
vergogna germina nella giovane e orgogliosa Emma,
la protagonista dell’omonimo romanzo della Austen,
una nuova e matura coscienza di sé. Colta, sicura di
sé, attenta ai sentimenti degli altri, ma non di meno
certa delle sue opinioni e del suo giudizio, la giovane
progetta il destino affettivo delle persone a lei care.
Ma il volgere degli eventi, assieme alla vacuità dei
suoi disegni, le svela un turbamento che getta luce su
un affetto fino allora misconosciuto e le fa temere
che l’uomo inconsapevolmente amato esca dal suo
cerchio di attrazione. Moto di gelosia che scuote la
sua presunzione, forza la porta della coscienza e la
misura con l’affetto dissociato.
“Emma distolse immediatamente gli occhi; e sedette riflettendo silenziosamente, immobile, per qualche momento. Pochi momenti le furono sufficienti per comprendere il proprio
cuore. Una mente come la sua, una volta sfiorata dal sospetto, faceva rapidi progressi. Sfiorò — ammise — riconobbe tutta
la verità. (…) Le attraversò la mente con la velocità di una
freccia, che il signor Knightley non doveva sposare nessun altra se non lei stessa!
Negli stessi pochi momenti si vide davanti non soltanto il
proprio cuore, ma la propria condotta. Vide tutto con una
chiarezza di cui non aveva mai goduto prima. (…) Quanto
era stata egoista, indelicata, irrazionale, priva di sensibilità la
sua condotta! Quale cecità, quale follia l’avevano spinta!”
(Emma, pp. 410, 411).
Emma, pervasa di vergogna e da un invasivo senso
di colpa, coglie tra le macerie del suo sistema rappresentativo la dissennatezza che l’ha tenuta lontano
da sentimenti che da tempo avevano radici in lei. Solo ora tra l’Io e l’Io ideale si declina una dialettica
che spazia su nuovi orizzonti e le permette l’abbrac-
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L’insostenibile peso della vergogna
cio con sentimenti che considerava a lei estranei. Emma si apre al conflitto, alla valenza del legame e al lavoro psichico che esso richiede. Nella cecità emotiva
in cui era rinchiusa, coglie i segni di un narcisismo
che, nemico della crescita, aveva anestetizzato i suoi
affetti e l’aveva resa ostile all’alterità di coloro che le
erano accanto.
L’introspezione, se sfugge alle ombre che la vogliono lontana dalla coscienza, conosce questi stati
d’animo. Il mondo esterno, le persone con cui si
scambiano gesti di vita, bussano alla porta e nel segreto della psiche organizzano rappresentazioni che svelano complessi e contraddittori sentimenti. L’esterno
e l’interno si interrogano reciprocamente, si avvolgono in una doppia spirale e la conoscenza di sé si estende alla polisemia e all’ambivalenza affettiva che depenna dai sentimenti — senza con ciò sminuirne il valore e l’intensità — ogni valenza di assoluto.
Discrasia tra sensi e pensiero, tra gli istinti inscritti nella carne e le regioni immacolate dello spirito.
Strepitoso contrasto tra la vita e la morte con cui
Conrad scolpisce la palpitante e cupa figura di Lord
Jim. Assolutismo etico che spinge il protagonista del
romanzo “a rendersi puntualmente alla chiamata del
suo mondo di ombre” (p. 502). Lo misura con lo
smarrimento, il salto nella scialuppa che lo porta in
salvo e abbandona alle onde del Pacifico ottocento
pellegrini. Jim simbolo di una vergogna che nessuna
consolatoria pietas può estinguere.
VERGOGNA E VIOLENZA
All’incontro esterno/interno che apre alla dialettica e al dubbio, contrappongo ora l’esterno che
espone, non alla conoscenza e al pudore, ma alla vergogna e al suo corteo di rabbia, depressione, violenza e vendetta. Stati d’animo che possono mettere in
moto dolorose ‘introiezioni’, ‘identificazione con
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I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
l’aggressore’, ‘rivolgimenti contro il sé’ e ‘trasformazione dal ‘passivo in attivo’.
Mi riferisco alla umiliazione, alla sottrazione di riconoscimento umano-storico-culturale, all’autodisprezzo, che l’arroganza del privilegio, l’uso gratuito
del potere può indurre in una persona o in un’intera
comunità. Al magico, ma effimero gioco delle parti
con cui il socialmente vincente, nell’altro che rimanda valori discrepanti alla rappresentazione narcisistica
di sé — così come Dorian Gray sul proprio ritratto — riversa pesanti rappresentazioni di inferiorità.
Mi riferisco alla altezzosità e alla spudoratezza, stati d’animo opposti alla vergogna, che chiedono sottomissione, silenzio e obbedienza; si arrogano il diritto di escludere gli altri dall’universo dei diritti e di
ricoprirli con un sudario che li rende invisibili e li
cancella dalla storia.
“La perdita dell’amore che si registra nella vergogna può essere descritta come un crollo radicale del rispetto per il soggetto in quanto persona con una sua dignità: è una forma di
indifferenza totale nei confronti del suo Sé, con i suoi diritti
e il suo prestigio” (Wurmser, p. 105).
In queste situazioni, e questo vale sia nella sfera
della vita sociale sia nell’universo familiare, allorché
un individuo non rientra nella ‘normalità’ (fisica, psichica, sessuale), la direttiva imposta è implicita. Vivere — rendendosi il più possibile invisibili — in funzione delle necessità e delle richieste del più forte. Regole tacite, emanate dalla freddezza dello sguardo,
dalla sordità ai bisogni che fanno retrocedere il coraggio e dispensano lapilli di vergogna. Alto potenziale traumatico che incendia l’immaginazione e brucia spazi di riflessione e livelli di socializzazione.
Oltraggio che investe la comunità, moltiplica l’indifferenza sociale, ottunde la visione del vicino, affievolisce il cordoglio, segrega gli individui e disconnette l’agire dall’affettività. Oltraggio che negli anni settanta, anni che vedono gli Stati Uniti impegnati a di-
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L’insostenibile peso della vergogna
spensare morte all’ingrosso nel Vietnam, ha reso vincenti nell’intero occidente espressioni quali killing without hate, fucking without love.
Indolenzimento di massa, perdita di empatia e di
identificazione. Diffuso stato d’animo a cui si contrappone la sensibilità di alcuni che si fanno carico di
emozioni che altri non riescono ad avvertire. Recettori di una quantità incredibile di ‘sentimenti non
sentiti’, di affetti che non trovano una sensibilità, una
comunità che li accoglie, li soffre e li dipana. Piegati
dalla loro umiliazione e da quella dei loro vicini, provano vergogna per l’agire spudorato dell’altro, per
l’insolenza del suo fare e i delitti che il suo altezzoso
respiro dispensa. Per il suo comportamento asserragliato sull’anticonoscenza e l’antiamore, sull’odio
che uccide il pensiero e fa regredire l’agire a mera risposta istintiva, automatica, involontaria.
I soldati dell’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945
entrano nel campo di Auschwitz. Li accolgono pochi
macilenti sopravvissuti, cadaveri insepolti, fame, malattie. L’ingresso nei campi lega i loro sguardi a visioni che Primo Levi fissa in queste parole:
“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre
che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quelle che ci sommergeva dopo
le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare
ad un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero,
quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua
volontà buona sia stata nulla o scarsa, o non abbia valso a difesa” (La tregua, p. 158).
La piaga della vergogna, e qui occorre includere
la vergogna non provata dai testimoni del nostro
tempo, ci riporta al ruolo che svolgeva il coro nelle
tragedie greche, negli spazi sociali del teatro. Il coro,
mentore della rappresentazione, voce delle coordinate morali del tempo, sottolineava la violenza e la
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I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
gravità del delitto, commentava, com-prendeva gli
eventi, senza condividere le passioni che insanguinavano gli spalti. La sua voce, interposta alla violenza,
alla pietà e alla paura dei fatti rappresentati, distillava negli spettatori una riflessione che permetteva il
distacco dalle passioni e il raggiungimento di un superiore livello di saggezza.
Ora le quinte del mondo sono spalancate davanti
al nostro sguardo, vediamo tutto, ma lo sguardo non
va oltre l’immagine mediatica, non permettiamo che
il vedere avvicini il conoscere e il pensiero si apra a
una “angosciata immaginazione” (Arendt).
Anni di umiliazione senza amore, di vergogna filtrati da una presunta e imposta ‘inferiorità’, chiedono un tributo. Lentamente, ma inesorabilmente, l’oltraggio penetra nel cuore e lo corrompe, il suo veleno scorre nelle vene e le fa scoppiare. L’esplosione ricade con distruzione e morte nel mondo esterno, oppure implode nel mondo interno, ove apre botole di
morte che innescano circuiti violentemente autodistruttivi.
Nel romanzo La vergogna, Salman Rushdie, quale
epitaffio dei mali, scandali, cospirazioni, lotte intestine che insanguinano il paese (il Pakistan), introduce
l’esile, ipersensibile, nervosa figura di Sufiya Zinobia:
“miracolo andato a male”, “vergogna familiare incarnata”. La giovane, metafora di una profonda e secolare vergogna, di un dolore che “non può restare a
lungo racchiuso in una struttura di carne e di sangue” impersona un dolore che cresce, “si alimenta e
gonfia, finché i vasi sanguinei esplodono” (p. 253).
Sufiya Zinobia vive nascosta agli sguardi degli altri
finché attorno ai venti anni, “nei labirinti del proprio
inconscio [scopre] il sentiero nascosto che unisce la
sharam [vergogna] alla violenza” (p. 126). La piaga
della vergogna invade “quella tragica creatura, la cui
caratteristica principale era una sensibilità eccessiva
ai bacilli dell’umiliazione” (p. 127). Accade pertanto
che una forza irresistibile, carica della vergogna di se-
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L’insostenibile peso della vergogna
coli, trasfonde nel suo corpo la violenza repressa di
milioni di esseri umani. La sua persona — espressione delle loro vite disconosciute e dimenticate — assorbe la violenza, la vergogna che trasuda dalla loro
umiliazione. La giovane si trasforma in un pericoloso
mostro, in una pantera sanguinaria. Il suo pericolo
maggiore era dovuto al fatto che l’infelice creatura
non si muoveva
“in una landa di diavoli o basilischi, ma nel cuore stesso del
mondo rispettabile. E di conseguenza questo mondo fece un
grosso sforzo di volontà per ignorare la sua realtà, per non
portare le cose al punto in cui gli sarebbe toccato affrontare
il problema di questa incarnazione del disordine ed espellerla — perché la sua espulsione, avrebbe svelato ciò-che-nonbisognava-sapere-a-nessun-costo, e cioè l’intollerabile verità
che la barbarie poteva crescere in un contesto di cultura, che
la ferocia poteva nascondersi sotto la camicia ben stirata delle convenienze. (…) Capire Sufiya Zinobia sarebbe equivalso a mandare in frantumi, come un cristallo, l’idea che queste persone avevano di se stesse; di conseguenza non vollero
farlo, e non lo fecero per anni. Quanto più potente diventava la Bestia, tanto maggiore erano gli sforzi di negarne l’esistenza” (p. 178).
La giovane rivolge l’ira condensata in secoli di
umiliazioni contro il mondo esterno; in altri casi,
quali affilate stalattiti di ghiaccio, la vergogna scava
nel proprio interno caverne di morte.
Un mio giovane paziente, che negli anni centrali
della adolescenza ha conosciuto carcere e tortura,
dopo alcuni anni dai fatti si sveglia molto turbato da
questo sogno:
“Sono tornato nel mio paese. Mi viene a trovare
un amico. Mi dice che non ce l’ha con me per quello che è accaduto, ma perché non mi sono piegato ai
suoi ordini, non mi sono messo al suo servizio. Questo l’ha fatto impazzire. Ha preso forbici e coltello e
ha sgozzato i suoi genitori e la figlia più grande. Poi
mi si butta addosso, mi stringe in un abbraccio imbarazzante e mi chiede di ucciderlo con le stesse armi
con cui ha ucciso i suoi. Io grido: non ti voglio ucci-
I modi del pensare
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I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
dere, vattene, non ti voglio vedere! Io sto qui con la
mia sofferenza”.
La dialettica della violenza contro gli altri o se stessi trova in questo sogno una icastica e allarmante rappresentazione.
Un altro paziente che da anni è aggredito da una
profonda e preoccupante depressione, con un vissuto di vergogna che sembra voglia risucchiarlo entro
le sue spalle magrissime, dopo aver superato una forte resistenza, mi parla di un particolare che gli fa tutt’ora molto male. Dopo il primo interrogatorio, e
quindi le prime sevizie, gli comunicano che nel carcere ogni secondino ha il “suo animale”. Da ora in
poi sarà un cane (un particolare cane di montagna
del suo paese), verrà chiamato con quel nome e come quel cane si dovrà comportare. Poco dopo una
guardia apre la porta della cella, gli punta gli occhi
addosso e urla il nome del cane. Confuso, stordito, il
prigioniero alza lo sguardo verso il secondino, questi
gli si avvicina e gli orina addosso.
Come catturare con la parola l’intensità di questa
esperienza che nello spazio di pochi secondi brucia
l’essere umano e cancella la sua individualità? “L’estro” spinge Ovidio “a narrare di forme mutate in corpi
nuovi” (Metamorfosi, p. 5), ma le sue metamorfosi avvenivano a opera degli dei nel “Palatino del grande cielo” (ibidem, p. 13). Le metamorfosi di cui parliamo
sono il prodotto di azioni umane che, tra le pieghe
delle leggi e l’indifferenza del “buon senso comune”, trovano facili giustificazioni.
Da questo universo che avvalla l’oltraggio si dirama una vergogna che si affaccia nel sottosuolo del
pensiero notturno. Avvelena il sangue, rende la pelle
umida e appiccicosa e fonde in un unico sentire la
sofferenza maturata nel sociale e quella nella propria
interiorità. Conoscerla senza averla provata è impossibile perché:
“Esiste un mondo su scala tanto diversa da quello a voi noto
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L’insostenibile peso della vergogna
che le sue passioni non hanno alcuna rassomiglianza con le
vostre: sono passioni di grado tanto diverso da essere diventate addirittura una specie diversa” (Wallant, p. 170).
VERGOGNA E SEDUZIONE SESSUALE
La fragilità e l’impotenza rendono l’infanzia facile
oggetto di ‘attenzioni’ da parte di adulti che, per lo
più offesi da altri adulti, con incolmabili aree di vuoto interno, non sono in grado di discriminare legami,
ruoli e differenze generazionali. Sono incapaci di autoconsapevolezza riflessiva: incapaci di provare vergogna. Il loro mondo affettivo — fiorito lontano dall’humus della cura e della tenerezza genitoriale — confonde la premurosa e generosa affettività dell’amore con
l’attività genitale. Privati dell’esperienza di essere stati
amati, le loro emozioni sono indifferenziate, aspecifiche: espressione di mera empietà. Mera perché al di
là della colpa e dei rimorsi. Eppure questi adulti non
sono solo e sempre individui turpi. Sono anche il padre, la madre o l’adulto che provvede alla loro sopravvivenza. Li nutre, li copre nelle giornate fredde.
In alcune situazioni con un dono generoso, da tempo
desiderato, offre intense briciole di attenzione.
Quale confusione e tragica intersezione di coscienze! L’odio si fonde alla gratitudine. La repulsione alla tenerezza. L’Io dell’uno si con-fonde con
quello dell’altro. Oltrepassati i confini del corpo, sull’Io tracima una crisi che genera alterazione di identità, alienazione e perdita del Sé con conseguenti
paradossali reazioni affettive e cognitive. Accade così
che i piccoli, sopraffatti da una pervasiva sensazione
di impotenza, non sono più capaci di articolare un
suono. La lingua si appiccica al palato e diviene impossibile dare voce alla protesta.
“(…) la forza prepotente e l’autorità degli adulti li ammutolisce, spesso toglie loro la facoltà di pensare. Ma questa stessa
paura, quando raggiunge un certo livello, li costringe automatica-
I modi del pensare
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I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
mente a sottomettersi alla volontà dell’aggressore, a indovinare tutti
i suoi impulsi di desiderio, identificandosi completamente con l’aggressore” (Ferenczi, p. 421).
La vita psichica deraglia dal progetto costituzionale e, come per primo ha radiografato Ferenczi, va
incontro a un forzato processo di annientamento.
All’evento inatteso e inimmaginabile, all’improvvisa
discontinuità, allo shock fisico e rappresentativo, la
mente ripristina e rafforza la struttura dissociativa di
base della personalità a cui è affidato il compito di
separare l’insieme, scindere le diverse sfaccettature
dell’evento. La complessità viene frazionata; schegge
della circostanza traumatica vengono espulse e
proiettate in aree lontane, inaccessibili alla coscienza e, pertanto, sottratte alla consapevolezza. L’operare disgiuntivo della scissione — nella misura in cui
forzatamente separa l’evento — rende conciliabili i
termini oppositivi del conflitto; elementi che, per il
principio aristotelico della non contraddizione, sono inconciliabili. Così sono separati i pattern relazionali incompatibili, le combinazioni e le configurazioni di esperienze.
Sotto l’influenza dell’operare della scissione, in
luogo di procedere verso il difficile e doloroso processo di chiarificazione, verso una lettura della complessità e dell’ambivalenza, la mente retrocede e lascia calare sull’esperienza una scure che ne frantuma
l’unità. Tagliati i nessi associativi, separate le qualità
percettive da quelle emotive, l’esperienza residua un
terriccio senza odore, colore e forma. La dissonanza
cognitiva (l’adulto cattivo, altre volte meno cattivo e
a volte quasi buono), la ‘pazzia’ di cui essa è potenzialmente pregna, in luogo di essere sfidata, viene
evitata. Si disarticola il nesso causale tra l’acuto malessere che li rinchiude in uno stato di profondo isolamento e le persone che sono loro accanto. Scrive
Putnam al riguardo:
“Grazie alla compartimentalizzazione di esperienze e senti-
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I modi del pensare
menti travolgenti, un bambino può sapere di essere terribilmente maltrattato da un genitore e al tempo stesso idealizzare quel genitore. […] la dissociazione permette all’individuo
di evitare di confrontarsi con conflitti inconciliabili; permette anche di avere visioni diverse di sé e versioni e interpretazioni diverse della propria storia di vita” (p. 89).
La complessità dell’insieme, la possibilità di elaborarla, per poi giungere all’opportuno distanziamento e quindi alla reale salvaguardia del sé, si fa impossibile. L’immagine integrata che permette di vedere le diverse modalità comportamentali e caratteriali dell’altro — malvagio/inatteso, premuroso/prevedibile — si fa impossibile. Parimenti per il piccolo
diviene impossibile mantenere la continuità tra l’Io
di oggi — tra il bambino che oggi ha incontrato la turpitudine — e quello di ieri. La sua mente vortica entra
l’angustia cerchia dei fatti che gli si sono serrati addosso, lo taglia fuori dal volto del suo desiderio e dalla forma dei suoi sogni.
Se la violenza si fa continuativa, la dissociazione da
difensiva, adattativa all’evento traumatico, diviene
patologica con evidenti menomazioni del comportamento5 e guasti di memoria. La parcellizzazione del
sé e dell’esperienza diviene un modulo che si ripete
in ogni situazione per cui al bimbo è impedito il pieno coinvolgimento nel qui-e-ora. Sul presente si allunga l’ombra della traumatizzazione e il lupo torna
a invadere la scena. Differenziare tra angoscia segnale e angoscia traumatica diviene impossibile (Freud,
1926).
Privato della possibilità di esprimere l’odio quale
prima istintiva forma di negazione, di autoaffermazione attraverso la negazione dell’altro, l’Io affonda
l’autenticità del suo sentire in aree profonde e inaccessibili dell’inconscio. Qui l’odio, non soggetto all’erosione del vissuto quotidiano, dei legami associativi che possono stemperarlo, mantiene integra la sua
carica distruttiva. Corrode la personalità. Il male che
la disintegra, quale tossico erosivo, altera tutto ciò
5. Vuoti di memoria, episodi di fuga, depersonalizzazione, derealizzazione, stati di trance, fino a
doppia personalità.
88
I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
con cui viene in contatto e ciò mentre i ricordi traumatici, per la loro natura non elaborati, si trasformano “in potenti influenze inconsce che determinano il
comportamento dell’individuo in modi ampiamente
inconsapevoli” (Putnam, p. 90).
Dobbiamo ora aggiungere che accanto alla scissione e alla fuga dal pensiero, l’accelerazione emozionale indotta dall’evento attiva una “progressione
traumatica” per cui, anzitempo, il piccolo si fa ‘saggio’. Con acuta percezione coglie la ‘malattia’ dell’adulto, il suo essere ‘pazzo’; ne percepisce la bassezza.
Prova pena e comprensione per lui/lei e, evento carico di conseguenze, introietta il “senso di colpa dell’adulto” (Ferenczi, p. 422). All’intimidazione esplicita e
implicita il bimbo, incapace di autoaffermarsi, si protegge non respingendo o fuggendo l’aggressore, ma
modificando il proprio atteggiamento, misurando le
proprie risposte sul comportamento dell’adulto, prevedendo i suoi desideri. Sviluppa “una curiosa conoscenza, direi quasi una forma di chiaroveggenza per
ciò che riguarda i pensieri e le emozioni” (ibidem, p.
420) della persona che uccide la sua mente e mantiene in vita il suo corpo.
I rimorsi, la colpa, che l’adulto non patisce e processa, con tutto il loro carico di oscurità, confusione,
dolore fisico e impudicizia, ricadono sul piccolo che
“diviene ancora più profondamente consapevole e
vergognoso della colpa commessa” (ivi). Scrive al riguardo Eigen:
“Quello che si fa a qualcuno diventa quel qualcuno: questa è la
logica dell’annichilimento del sé nei mondi al di sotto dello
zero, dove l’innocenza viene degradata, invasa, avvelenata, se
non del tutto perduta” (pp. 135- 36).
Mi soffermo ora su una peculiarità della vergogna,
della doppia vergogna, della violenza sessuale: vergogna per la violazione del corpo e vergogna per il sé,
per il terribile oblio che l’altro ha fatto della persona,
dei desideri, della volontà dell’offeso.
89
L’insostenibile peso della vergogna
La vergogna, come abbiamo visto, è legata all’ordine del disvelamento, allo strappo del velo del pudore, allo svergognamento. Ma una peculiarità di
questo spettro emotivo è la sua difficoltà di elaborazione. La vergogna, tanto più quando essa è strettamente legata alla sessualità, non può essere simbolizzata, sublimata. Il corpo, oggetto in mano di altri e
soggetto di violento sentire, è un corpo che, per così
dire, sente due volte. Ma il suo è un sentire che non
si può tradurre in parole, è un sentire legato alla carne, alla sua materialità di corpo. E il corpo ha un ventaglio limitato, fisso di parole. Non incrocia altri orizzonti rappresentativi, la parola non si solleva dal concreto, il ventaglio lessicale rimane chiuso entro la
gabbia di nomi concreti.
Abbiamo a che fare con l’opposto della provocazione operata da Magritte allorché sotto un disegno
minuziosamente rappresentato, iperrealistico, di una
pipa scrisse: Ceci n’est ne pas une pipe. Magritte invitava a guardare oltre, a sollevare il pensiero oltre la
concretezza dell’oggetto, aprirlo all’imprevedibile
soggettività di cui è intriso, al suo essere continuamente costruito e ricostruito.
La vergogna sessuale, o viene magicamente annullata — operando contro il sé una violenza perpetrata “in modo non meno brutale e decisivo di quello con cui essa ha fatto la sua comparsa” (Ballerini,
Rossi Monti, p. 125) — o intride il corpo di umori che
lo legano a tripla mandata all’umiliazione subita.
Umiliazione e vergogna che attestano la deprivazione, l’irreparabilità della perdita e, come un peso insostenibile, accompagnano la vita fino al suo limite
estremo.
“Con gli occhi ormai spenti K. vide ancora come i signori,
guancia a guancia davanti al suo volto, spiavano l’attimo risolutivo. — Come un cane! — disse, e fu come se la vergogna gli
dovesse sopravvivere” (Kafka, p. 250).
I modi del pensare
90
I modi del pensare
Anna Sabatini Scalmati
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91
L’insostenibile peso della vergogna
Abstract
The article makes a distinction between a type of shame
conducive to intrapsychic confrontation and new relational possibilities and induced shame, usually brought about
by external causes: inter-subjective and trans-subjective.
In order to understand the long shadow cast by shame on
psyche and its ensuing psychopathological consequences,
the author introduces\describes four types of shame:
Shame and State violence; Shame and intrapyschic conflict; Shame and violence; Shame and sexual seduction.
I modi del pensare
93
Riflessioni di clinica junghiana
“Nei vuoti e negli inciampi dei rapporti umani,
nelle incomprensioni, negli errori di percezione e
di giudizio, nello sguardo vacuo e beffardo dove
avrebbe dovuto esserci empatia, nella espressione
di disgusto dove si aspettava un sorriso, nella solitudine e delusione del desiderio inarticolato, che
non si può comunicare perché non si trovano le
parole, nell’assenza tremenda e disperata dove il
legame umano viene meno, nella desolazione della violenza, vuota e tuttavia colma di rabbia, qui in
questi buchi e pezzi mancanti sta la vergogna”.
(Phil Mollon)
La colpa può essere confessata, espiata, può aspirare al perdono.
La vergogna fugge l’incontro, cerca rifugio nel segreto.
Nel bel libro Narcisismo di vita narcisismo di morte
Andrè Green1 utilizza l’esempio di Edipo e Aiace per
illustrare la differenza tra il tema della colpa e della
vergogna.
L’Autore sottolinea come Edipo, colpevole di parricidio e incesto, le più gravi trasgressioni alla legge
del Super Io, sopporti fino all’ultimo dei suoi giorni
la pena autoinflitta della cecità, lasciando che la figlia
Antigone lo accompagni nell’esilio.
Aiace invece è spinto alla vendetta dal furore di
non essere stato giudicato degno di ricevere le armi
di Achille. Reso folle da Atena, invece di colpire i
suoi nemici uccide degli innocui animali e quando se
ne rende conto non può che soccombere alla vergogna, suicidandosi. Nel furore della follia l’eroe si è
coperto di ridicolo, ha perso il suo onore: al crollo
dell’Ideale dell’Io nessun affetto può resistere e la
morte gli appare come la sola via di fuga.
Colpa e vergogna oscillano e si generano reciprocamente, ma l’esperienza della vergogna può rimanere indelebile, incapace di trasformazione e riparazione tanto che un meccanismo di difesa consiste-
La vergogna
nella
relazione
Susanna Chiesa
1. A. Green, Narcisismo di
vita narcisismo di morte,
Borla, Roma, 1992.
94
Riflessioni di clinica junghiana
2. J. L. Borges, Carme presunto e altre poesie, Mondatori, Milano, 1969.
Susanna Chiesa
rebbe proprio nella trasformazione della vergogna in
colpa.
La nascita della vergogna si annida nel fallimento
della relazione primaria, nella mancanza di risposta
empatica, in uno sguardo che, incapace di accogliere, rimanda al bambino un senso di estraneità e distanza incolmabile.
La vergogna ci scopre ancora bambini, privati della possibilità di provare empatia per noi stessi: “io sono la sentinella detestabile di quelle immobili postazioni”
scrive Borges.2
Una volta stabilitasi, l’esperienza della vergogna
non ha più bisogno dell’altro, rinascendo ogni volta
dall’interiorizzazione di uno sguardo beffardo.
Capace di autoalimentarsi, trascende i limiti generazionali e fluisce attraverso il tempo.
Non essere visti e sentirsi esposti, questo il paradosso della vergogna.
Quando l’oggetto di investimento dei genitori
non è il Sé autentico del bambino, questi può reagire ipersviluppando il Falso Sé per adeguarsi alle
aspettative dell’ambiente famigliare a scapito della
propria individualità.
Nel fallimento della regolazione empatica il bambino può percepire l’isolamento e l’esclusione, mentre viene usato dal narcisismo materno che dirotta il
naturale esibizionismo e la grandiosità infantile per i
propri scopi narcisistici.
In queste condizioni tende a svilupparsi una vulnerabilità narcisistica intensa e capace di generare
stati di rabbia acuta e cronica. Ogni volta che l’individuo sente di non essere all’altezza di un Ideale dell’Io dalle pretese eccessive, si generano vissuti di sofferenza che possono evolvere in atteggiamenti auto o
eterodistruttivi.
Scrive A. M. Pandolfi nel suo saggio sulla vergogna: “Questo deficit narcisistico, la cui presenza segnala un’importante deformazione della relazione
primaria segnata da un’insufficiente investimento og-
95
La vergogna nella relazione
gettuale ma anche narcisistico di attaccamento da
parte del caregiver, è a mio avviso un importante punto di repere clinico e spiega perché tante persone siano costantemente e forsennatamente dedite al miglioramento delle proprie prestazioni che però non
risultano mai per loro abbastanza soddisfacenti, anche in quanto si rivolgono ad un oggetto fantasmatico percepito come insoddisfacibile”.3
Mentre scrivo mi accorgo di un disagio crescente
nell’ avvicinarmi al tema del mio articolo: la vergogna
nella relazione, come se entrare nel merito di quei momenti così particolari vissuti in seduta quando affiora
il tema della vergogna — seppure con tutte le usuali
precauzioni che non consentano riconoscimento alcuno — mi generasse un senso di inquietudine.
Cerco di capire e mi domando se forse sia proprio
per questo che la vergogna è un tema così raro nella
letteratura psicoanalitica.
Penso alla mia analisi, quando dovendo affrontare
tematiche fonte di vergogna, rinviavo, mi nascondevo nell’abbondante materiale onirico e razionalizzando mi dicevo che forse era più importante, augurandomi in realtà di venire a capo del problema da
sola, senza doverne parlare con l’analista.
Sì, questa è forse la segreta speranza: fare da soli,
usare il lavoro analitico per aggirare l’ostacolo e non
dover dire di sé quelle parti nascoste. Rimane allora
la solitudine, il peso di parti sottratte e non sviluppate nella relazione, il dubbio di non sapere se davvero
esista per noi la possibilità di quell’amore incondizionato così necessario all’inizio della vita.
La vergogna è segretamente sottesa all’incontro
analitico e per molto tempo innominabile.
Il terapeuta può riconoscerla, rintracciarne i segni
dai vissuti e dalle fantasie controtransferali.
Sto aspettando Enrico per il primo colloquio. So
che è un uomo potente, molto occupato nei suoi
viaggi di affari. Mi sento tesa e preoccupata. Ho cercato uno spazio nella giornata che garantisse un in-
Riflessioni di clinica junghiana
3. A. M. Pandolfi, La vergogna - un affetto psichico
che sta scomparendo?, Franco Angeli, Milano, 2002,
p. 49.
96
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
tervallo sufficiente a non rischiare l’incontro con altri pazienti.
Ho posto più attenzione al mio aspetto ed ora riordino lo studio. Sono a disagio, con me stessa e nell’ambiente che mi è così famigliare…qualcosa che si
è manifestato subito a partire dalle modalità insolite
della prima telefonata. Mi rendo conto che ciò che
provo ha l’inconfondibile sapore della vergogna.
Capirò incontrando Enrico, quanto può essere
fonte di vergogna per lui essere qui a chiedere aiuto,
impotente a trovare ragioni di esistere nella sua potenza, costretto a nascondere la sua richiesta dietro
una parata di distanza arrogante, mentre descrive il
baratro di una solitudine tanto più grande perché incomprensibile a tutti.
Attraverso meccanismi di identificazione proiettiva la vergogna entra nel campo analitico, non può lasciare immune il terapeuta che spesso è il primo ad
avvertirne i segnali.
Due persone, all’inizio assolutamente estranee,
chiuse in una stanza, a dire e ascoltare segreti: come
potrebbe non aleggiare la vergogna?
(Quando andiamo dal medico, spogliandoci ed
esponendoci allo sguardo dell’altro, trasformiamo il
nostro corpo in un oggetto che deve essere manipolato, tastato, auscultato: consegnandoci nelle mani
dello specialista cerchiamo di mettere a tacere il disagio trasformandoci in oggetti di indagine per difenderci dalla violazione dell’intimità, per non sentire la vergogna.)
Ascoltando le storie di molti pazienti si percepisce
il dolore del mancato riconoscimento, l’estraneità di
una crescita dove è prevalso l’adattamento alle richieste ambientali a scapito di un autentico sviluppo
rispettoso delle istanze individuative.
Bambine e bambini non accolti per come erano
ma forzati ad un dover essere, svelati nei loro tentativi, ridicolizzati ed esposti o derubati di un gioco prematuramente trasformato in impegno, formazione,
97
La vergogna nella relazione
corso e attività, dove spesso la naturale creatività diventa stereotipo.
Storie di infanzie e adolescenze amputate.
In queste situazioni nasce ciò che molti pazienti
mi hanno insegnato a chiamare “la paura del bluff”,
cioè il timore di essere scoperti, visti oltre la rappresentazione e di essere inesorabilmente svergognati.
Mara nasce solo un anno dopo la sorella portando
nel mondo la delusione di essere una bambina e non
il maschio tanto atteso.
La madre è una donna molto giovane, che Mara
vive come totalmente assorbita dalla primogenita, indisponibile alla relazione. Nel fallimento della relazione primaria la bambina si rivolge al padre, cercando con lui un rapporto privilegiato, cullandosi
nell’illusione di poter rappresentare il figlio maschio.
Crescendo tende a compiacerlo restando con lui nell’officina meccanica dove lavora e mostrando di interessarsi a macchine e motori.
“Ricordo come fosse oggi il pomeriggio in cui, a
nove anni, cercai di porgergli uno strumento molto
pesante che non riuscivo a sollevare. Lui mi guardò
spazientito e prendendomi in giro mi disse che non
ce l’avrei mai fatta ad essere forte come un maschio.
In seguito raccontò molte volte l’episodio ridicolizzandomi di fronte ad altri. Ogni volta mi sentivo avvampare e correvo a nascondermi…”.
Mara mi racconta questo episodio molto tempo
dopo l’inizio della terapia, mentre lavoriamo sul senso di inadeguatezza che continua a perseguitarla nonostante una carriera brillante.
“Vivo sempre con l’incubo che tutti possano accorgersi che in realtà non sono quella che sembro e
possano cacciarmi via”.
Mara aveva impostato la sua vita su un modello
maschile: gli studi di ingegneria, il rifiuto della maternità, una vita contrassegnata dal lavoro, distorcendo la sua personalità e irrigidendola nella rappresentazione di un falso Sé.
Riflessioni di clinica junghiana
98
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
Con l’avvicinarsi della menopausa era iniziata una
fase depressiva sempre più profonda centrata sul rimpianto per un’interruzione di gravidanza nei primi
anni del matrimonio, quando l’impegno lavorativo
sembrava non concederle alcuno spazio.
Nel lavoro analitico emerse il senso di rivalsa e riscatto dall’antico bluff della sua infanzia, la rabbia
con cui Mara aveva cercato di dimostrare a tutti che
poteva essere ciò che non era, continuando a tentare
di compiacere la rappresentazione di un padre che
avrebbe dovuto colmare il vuoto lasciato dal fallimento della relazione con la madre.
Credo che si sottovaluti, nelle ricerche sul tema
della vergogna, in particolare nelle donne, il ruolo
avuto dal padre.
Se si sottolinea il peso del fallimento dell’empatia
nella relazione con la madre, non si presta sufficiente attenzione all’evoluzione del rapporto con il padre, cui la figlia si rivolge per tentare di compensare
il vuoto.
Se è vero che il tabù dell’incesto protegge il soggetto dalla ferita narcisistica del riconoscerne l’impossibilità, la vergogna può anche scaturire dal rifiuto di qualsiasi gioco edipico, ridicolizzando la figlia o
il figlio, facendoli sentire esposti e derisi.
È in questi contesti che può essere interiorizzato
lo sguardo sarcastico capace di minare il senso di sicurezza necessario alla crescita.
Viviana era sempre stata “una brava bambina”, reprimendo l’aggressività per paura di distruggere una
figura materna molto fragile. La sua infanzia era trascorsa nell’ombra della malattia materna, con un padre troppo occupato per considerare i bisogni della
figlia.
Nell’equilibrio famigliare conveniva che Viviana
restasse una bimba docile il più a lungo possibile.
Nonostante le evidenti trasformazioni corporee,
continuavano a trattarla e vestirla come una bambina, con calzettoni e abiti che mortificavano un corpo
99
La vergogna nella relazione
ormai decisamente femminile, rendendolo oggetto
di scherno da parte dei coetanei.
Nella fase adolescenziale, la vergogna sottende
inevitabilmente le trasformazioni fisiche e psichiche,
anche quando negata e trasformata nell’esibizione,
risente in particolar modo della mancanza di un adeguato rispecchiamento.
Lo sviluppo puberale non riconosciuto, può fissare nel corpo e nelle sue parti motivi di vergogna, come accadrà a Viviana che finirà per vivere ogni manifestazione corporea come fonte di un disagio insostenibile.
Come il corpo, il sentimento negato e non riconosciuto finisce per essere associato alla vergogna.
Antonio andava in crisi ogni volta che doveva scegliere un regalo, finiva sempre per acquistare oggetti
di marca, “banali ma sicuri”. “Non dicono niente di
me e della relazione ma mi fanno sentire sicuro, affidandomi a una marca non sono io a scegliere, ma il
mercato. Da bambino temevo il giudizio di mia madre: per lei tutto sembrava poco fine, derideva i doni
che le maestre ci facevano preparare per la festa della mamma. Mi sentivo ridicolo e stupido col mio pacchettino in mano…”
Il sentimento ridicolizzato può rimanere vincolato
a un livello infantile e rappresentare un vettore di
rabbia e vergogna: l’area lesionata, finchè non si entra in contatto con la ferita, non può crescere e svilupparsi, permane una cicatrice inestensibile e fragile come per un danno alla matrice.
Vi sono variazioni della tecnica analitica che la
sensibilità di ogni terapeuta è in grado di riconoscere come necessarie con questi pazienti.
Il rifiuto o l’interpretazione di un regalo, per
esempio, in alcune circostanze può diventare un atto
di crudeltà soprattutto quando rappresenta l’offerta
di un bambino alla madre, attualizzata nella relazione transferale.
Primi giorni di primavera, Alba entra in studio of-
Riflessioni di clinica junghiana
100
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
frendomi un mazzolino di fiori di campo. (Immediato il ricordo della mia infanzia, quando raccoglievo le
prime pratoline per portarle a mia madre.) Ringraziandola, commento la grazia con cui li ha disposti e
mi affretto a metterli in un piccolo vaso tra noi.
Azioni preludio della serie associativa che Alba
produce e che nella seduta trovano uno spazio di elaborazione: la raccolta dei fiori seminati in autunno,
lunghi mesi di attesa senza poter vedere nulla, temendo che il gelo uccidesse i germogli … e ora la
sorpresa della fioritura primaverile.
Come nei lunghi mesi di depressione, quando l’analisi, negli intervalli delle sedute, “sembrava sepolta sottoterra” e Alba osservava il gelo della sua vita
chiedendosi se “sarebbe mai spuntato” qualcosa di
buono…
Il primo Natale, poco tempo dopo l’inizio della terapia, Mara mi stupì regalandomi dei cioccolatini: la
scritta e il disegno della confezione, il modo con cui
me la porse contrastavano con il suo usuale atteggiamento di donna cinica e anaffettiva.
Me li porse al termine della seduta, con un gesto
timido e furtivo, scivolando subito fuori dalla porta,
quasi senza darmi il tempo di ringraziarla.
Rimasi con la scatola fra le mani, pensando che
sembrava il regalo di una bambina vergognosa, impaurita dalla possibilità di un rifiuto.
I vissuti controtransferali, le fantasie che scandiscono il tempo della relazione sono fondamentali
per orientarci nella comprensione del paziente, per
intuire quando è il momento di tacere mostrando però di aver ricevuto il senso di un messaggio senza doverlo tradurre in un’interpretazione tanto più pericolosa quanto precoce.
Così come un eccesso di neutralità può far sentire
il paziente solo e privato di un punto riferimento affettivo.
Mi accorgo per esempio che, se prediligo l’uso del
lettino che libera me e il paziente dal peso di un con-
101
La vergogna nella relazione
tinua visione frontale, spontaneamente lo accompagno con un’attenta modulazione della voce, colonna
sonora della seduta.
Nella mancanza di riconoscimento l’area affettiva
può essere coartata e associata a un’esperienza di vergogna che mina il successivo stabilirsi di relazioni affettive: l’espressione di un sentimento, evocando l’aspettativa di un rifiuto, attiva la vergogna.
In questa situazione la stessa relazione analitica
appare pericolosa per l’inevitabile coinvolgimento di
bisogni e affetti vissuti nella relazione transferale.
Alcuni pazienti temono di mostrare il loro bisogno, assumendo condotte che possono anche essere
opposte: da un appiattimento compiacente a ciò che
s’immagina sia il desiderio dell’analista, ripetendo il
modello della relazione con le figure genitoriali, al rifiuto ostile e rabbioso del rapporto, per negare l’emergere di una richiesta affettiva che li espone nuovamente al rischio di una ferita narcisistica intollerabile.
La rabbia scaturisce dal percepire il bisogno di relazione come pericoloso perché riaccende un desiderio di rapporto che si vorrebbe poter cancellare e
che testimonia lo scacco dell’annullamento dell’altro. Come ben descrive Phil Mollon nel suo saggio
Vergogna e gelosia ciò che si tenta di uccidere è il sé
emotivo nel suo bisogno di attaccamento.4
Ogni mancanza del terapeuta può scatenare attacchi aggressivi manifestati spesso con fredde razionalizzazioni tese a mascherare la rabbia.
Il paziente, come sottolinea ancora P. Mollon, può
temere che l’analista lo usi, come un tempo fece la
madre, per accrescere il proprio narcisismo, rifiutando e ostacolando la crescita individuale.
Gli elementi di crescita sono “impugnati” contro
un fantasmatico genitore che tutto vorrebbe controllare.
Si tratta allora di mostrare come possa esserci crescita senza rabbia, in una situazione che accolga le
Riflessioni di clinica junghiana
4. P. Mollon, Vergogna e gelosia, Astrolabio, Roma,
2006.
102
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
istanze di separazione, il diritto alle proprie scelte e
alla fedeltà verso sé stessi.
Penso che questo sia un tema fondamentale al termine della terapia, perché la conclusione non sia vissuta “contro” il lavoro analitico, come protesta adolescenziale, ma come reale momento di crescita e separazione.
È necessario molto tempo per poter ammettere
l’esperienza della vergogna perché ci si vergogna di
vergognarsi. Come se fosse materia esplosiva va trattata con estrema delicatezza e a lungo potrà essere al
massimo sottintesa con una modalità del tipo “io so
che tu sai che io so”, nell’indicibilità dei contenuti,
senza fretta di dover mostrare di capire troppo e subito ma dando il tempo al paziente di sperimentare
l’accoglimento e la fiducia.
Alla vergogna bisogna accostarsi con cautela, rispettando la distanza, come faremmo con un animale selvatico.
Chi non ha vissuto l’esperienza dell’accoglimento
e del riconoscimento di Sé teme che, mostrandosi in
modo più autentico, riceverà un nuovo rifiuto.
Particolare attenzione va data alla tipologia psicologica del paziente. Come gli studi sui tipi psicologici di Jung hanno sottolineato, l’orientamento naturale di ogni individuo, la sua tipologia, può non essere riconosciuto o addirittura avversato dall’ambiente
fin dall’infanzia, quando l’inclinazione fisiologica del
bambino non corrisponda alle aspettative e ai bisogni narcisistici della famiglia.
Emanuele, per poter essere accettato da una famiglia che faceva del pensiero razionale la sua bandiera,
aveva dovuto adattarsi finendo per svalutare il sentimento e l’atteggiamento introverso proprio della sua
equazione personale. Per adeguarsi, sin da ragazzo
aveva creato un falso Sé apparentemente estroverso e
ben adattato, mentre la funzione di sentimento non
aveva potuto svilupparsi, rimanendo confinata a una
dimensione infantilizzante che gli provocava forti vis-
103
La vergogna nella relazione
suti di vergogna. Furono gli attacchi di panico legati a
situazioni sociali, a portarlo in analisi e a costringerlo
a fare i conti con la sua realtà interna.
A differenza della colpa, la vergogna non ha bisogno di grandi temi, è in queste situazioni che più che
mai riaffiora dall’adulto il bambino.
Occorre saper ascoltare, spesso con una silenziosa
partecipazione, il racconto di esperienze infantili
che, sebbene criticate dalla parte adulta, sanno ancora attivare violente emozioni.
Sono episodi, frammenti di infanzia, che sono rimasti racchiusi e celati — mai dimenticati — nell’esperienza cocente della vergogna che fu del bambino.
Talvolta è proprio la relazione con i figli, il rivedere se stessi nel ruolo di genitori che fa affiorare questi ricordi e ne consente l’elaborazione.
La vergogna cresce sia alimentata dalla sovraesposizione di una parte vissuta come non autentica
ma a cui il bambino sente di non potersi sottrarre,
che dal non essere visti per come si è.
Essere esposti allo sguardo, inseguiti fin nei più segreti recessi: invasi.
Ci sono pazienti che immaginano di dover dire tutto all’analista, come in un confessionale pensano di
doversi confessare e di non poter nascondere niente.
In queste situazioni mi ricordo sempre di quando
da piccola leggevo una scritta su un muro vicino a casa che ammoniva minacciosa “DIO TI VEDE”.
(Erano i tempi dei fumetti di Nembo Kid — poi
chiamato Superman — alla cui ultravista non sfuggiva
nulla. Ma anche lo sguardo del super eroe trovava un
limite nel non poter oltrepassare una barriera di
piombo. La mia fantasia di Dio gli somigliava un po’
e per ripararmi dalla sua vista immaginavo che la scatola cranica proteggesse i pensieri come il piombo).
L’ammonizione faceva parte degli strumenti educativi usati in passato quando la vergogna veniva stimolata come contrappeso delle cattive azioni, sapendo di poter contare su un deterrente più efficace e
Riflessioni di clinica junghiana
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Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
pervasivo della colpa.
È proprio in questi pazienti che talvolta l’emergere della vergogna rappresenta un momento evolutivo
importante della terapia che segna la rottura dello
schema del falso Sé.
“Dire tutto” non è più l’adeguamento all’ideale
del paziente perfetto che corrisponde alle aspettative
del terapeuta, ma una scelta valutabile. Si apprende
il diritto ad avere spazi per sé che possono essere tenuti chiusi e separati. La vergogna segnala allora il limite che non deve essere oltrepassato e al di là del
quale si viola lo spazio privato.
Mai come oggi l’uso della tecnica ci espone allo
sguardo e al controllo della nostra vita: facciamo la
spesa e attraverso sistemi di codificazione è possibile
sapere da ciò che consumiamo chi siamo e come viviamo, solo per fare un esempio.
La vergogna si eclissa e si trasforma nel suo contrario dove ciò che conta è mostrarsi ed essere visti.
Appartiene ai ricordi di ognuno di noi l’aver
compiuto negli anni della scuola qualche bravata,
ma è di oggi la sua trasformazione in evento mediatico visibile da tutti e che conquista le prime pagine
dei quotidiani.
Mentre si assottiglia sempre più la dimensione
privata, prevale l’eccesso di adattamento a un pensiero collettivo che abdica al senso di responsabilità
individuale per essere come coloro di cui si parla,
non importa se bene o male, purchè se ne parli, appiattendosi in un percorso imitativo di immagini bidimensionali.
La profondità del sentimento viene rimpiazzata
dal sentimentalismo ipocrita di trasmissioni — palesemente false — in cui si enfatizzano i sentimenti e chi
più piange, ride o grida, vince.
Lo spazio privato e la capacità di stare con se stessi si riducono, minati dal frastuono collettivo.
Scrive A. M. Pandolfi “ …Ora si idealizza il banale
e l’insignificante. Infatti non guardiamo più a qual-
105
La vergogna nella relazione
cosa di meglio cui aspirare, ma ci appiattiamo nel
guardarci tra noi, pseudonarcisi globalizzati, in una
sovrapposizione tra realtà e spettacolo. Quest’ultimo
ha perduto la funzione di rappresentare, di drammatizzare, di emozionare, di far riflettere, di far pensare, nonché quella funzione catartica che è stata fondamentale nella nascita del teatro, a partire da quello greco”.5
In questo contesto non corrispondere al modello
collettivo può diventare oggetto di vergogna: la timidezza, l’introversione sono considerati con sospetto
di anormalità, si riducono gli spazi in cui il pensiero
e la creatività nascono.
Nel frastuono collettivo non c’è tempo e spazio
per ascoltare, bisogna funzionare a qualunque costo:
non a caso i nuovi antidepressivi sono stati reclamizzati anche come presidi contro la timidezza e la fobia
sociale.
Lo scarto ideale tra come si è e come si vorrebbe
o dovrebbe essere idealmente aumenta nella fase involutiva della vita, quando nell’invecchiamento vengono meno gli aspetti di efficienza e produttività.
Capita sempre più spesso di ricevere nei nostri studi domande di aiuto da parte di persone in là con gli
anni che soccombono a vissuti depressivi, nella difficoltà di affrontare il lutto narcisistico dell’età e di trovare nuove fonti di investimento in se stessi.
Se Freud sconsigliava di intraprendere percorsi
analitici oltre una certa età per la rigidità dell’Io e la
mancanza di tempo per il cambiamento, oggi, scorrendo la letteratura, sono sempre più frequenti i lavori di analisti che si confrontano con questi pazienti, riconoscendo l’utilità del lavoro analitico anche in
questa fase della vita, spesso dolorosamente scandita
dalla vergogna e dalla rabbia.
In un mondo che si muove a velocità vertiginosa, il
fisiologico rallentare del passo, la diminuzione della
vista o dell’udito, sono visti come handicap vergognosi. Nonostante il continuo aumento della popolazione
Riflessioni di clinica junghiana
5. A. M. Pandolfi, op. cit.,
p. 91.
106
Riflessioni di clinica junghiana
Susanna Chiesa
anziana, le nostre città sono sempre più difficili da vivere: semafori che mancano o sembrano fatti per atleti, mezzi di trasporto pubblico con accessi impervi,
arroganza e prepotenza dilaganti contribuiscono a generare ansia, insicurezza fino a vere e proprie fobie.
Pensiamo a quanta vergogna evochi nella persona
anziana il tema delle truffe sempre più frequenti di
cui sono vittime, una vergogna che in alcuni casi è
giunta al suicidio.
La vergogna è un sentimento da cui nessuno è immune, nascosto nelle pieghe della vita, rimane in attesa di trovare una possibilità di ascolto che con la
condivisione attenui la solitudine.
Sono molti i pazienti che descrivono l’esperienza
di liberazione avvertita nel momento in cui, superando la paura del rifiuto, si mettono in gioco e scoprono il piacere del poter essere finalmente accolti anche in quegli aspetti di sé censurati dalla vergogna.
Come terapeuti dobbiamo riconoscere le nostre
esperienze legate alla vergogna per poter aiutare i pazienti a contattare le proprie ferite e a sviluppare nei
confronti di se stessi l’empatia necessaria alla rinuncia a coincidere con l’Ideale dell’Io, sviluppando invece una tensione armonica tra Io e Ideale.
Bibliografia
Borges J. L., Carme presunto e altre poesie, Mondadori, Milano,
1969.
Chasseguet-Smirgel J., L’Ideale dell’Io, Cortina, Milano, 1991.
Green A., Narcisismo di vita narcisismo di morte, Borla, Roma, 1983.
Grunberger B., Il narcisismo, Einaudi, Torino, 1981.
Jung C. G., Tipi psicologici, Opere, Vol. 6, Boringhieri, Torino,
1979.
Kohut H., Narcisismo e analisi del Sé, Boringhieri, Torino, 1976.
Mollon P., Vergogna e gelosia, Astrolabio, Roma, 2006.
Pandolfi A. M., La vergogna, un affetto psichico che sta scomparendo?,
Franco Angeli, Milano, 2002.
107
La vergogna nella relazione
Riflessioni di clinica junghiana
Abstract
This paper discusses those aspects of shame which arise
from the failure of the emphatic relationship between a
baby and its caregiver.
Shame is anlysed in the different stages and the possibility of transformation through the analytical relationship.
The Auctor shows, through the presentation of clinical
examples, the emergence of shame in the transferencecountertransference dynamic, and ways of elaboration.
The paper considers how today this question of shame
can transform into exhibitionism in society.
109
Riflessioni di clinica junghiana
Colpa e vergogna sono stati d’animo che caratterizzano esperienze differenti ma che,
spesso, mostrano tra di loro connessioni di
senso. Ciò sembra essere supportato sia dalla riflessione teorica sia dall’esperienza clinica, nell’ambito delle psicosi come in quello delle nevrosi.
Accanto alla ricerca di tali connessioni di
senso, si intende in particolare sondare l’esperienza della colpa nella contemporaneità, a partire dall’ipotesi che essa abbia soprattutto a
che fare con i vissuti di solitudine e di tradimento
conseguenti all’esperienza di separazione dalle appartenenze originarie.
La conferma di tale ipotesi esige il superamento
della tradizionale chiave di lettura edipica, funzionale
alla rappresentazione della modernità ma insufficiente a cogliere i modi di essere della postmodernità.
Colta in questa prospettiva, la colpa non risulta allora assente nella post-modernità, come facili sociologismi vanno sostenendo, ma forse vi si esprime, accanto alla vergogna, nella sua radicalità originaria.
COLPA, VERGOGNA
L’esperienza della colpa sembra nuclearmente
avere a che fare con il carattere di autoreferenzialità
dell’esperire umano. Con il sentirsi cioè soggettivamente responsabili di qualcosa che si situa nell’ordine degli accadimenti. L’esperienza della colpa consisterebbe dunque nel riportare su di sé la proprietà di
senso di un’azione o di un fatto cui si attribuisce la valenza di male.
In questo senso, sul piano oggettivo, essa rappresenta la possibilità del confronto con il male, dell’esserne contaminati, del sentirsene appartenenti.
Sul piano soggettivo, invece, si situa agli antipodi
della proiezione, psicodinamicamente intesa come
Colpa,
vergogna,
vincoli
emotivi
Enrico Ferrari
110
Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
inconscia attribuzione all’esterno di ciò che si nega
appartenere alla soggettività. Forse, nel caso della
proiezione di qualità negative, allo scopo di non sperimentare quell’affettività dolorosa che la responsabilità del male comporta. Viceversa, l’affetto che accompagna l’esperienza della colpa è rappresentato
dall’angoscia, quella tormentante inquietudine che
lega inesorabilmente il futuro atteso al passato già
compiuto, in una pre-visione che si fa dolorosa perché chiusa nel già accaduto.
Diversa, fenomenicamente e psicogeneticamente,
è l’esperienza della vergogna. Emblematicamente
accompagnata da affetti somatici, cioè da un’affettività psicologicamente poco declinabile e dunque
esprimibile per lo più nell’immediatezza del corpo
(in primis il rossore del viso), la vergogna si manifesta nell’esposizione della propria “nudità” [8] allo
sguardo altrui. All’essere guardati là dove ci si vorrebbe nascondere. È l’esperienza della privazione
del nascondimento e del segreto che esso consente
di custodire. Forse per questo la vergogna è un sentimento molto diffuso nell’età adolescenziale, là dove la non ancora piena integrazione con l’Io di nuove istanze biologiche ed emotive esige spesso la protezione dallo sguardo.
Così la vergogna, per sanarsi, riconduce al nascondimento, alla non rivelazione. Se la colpa trova sollievo nella confessione, quindi nell’apertura al collettivo
che si fa garante del perdono o della punizione, la
vergogna ha invece bisogno di fuggire il collettivo. Là
dove alligna la colpa nasce l’esigenza della riparazione, che tende al ripristino e alla re-integrazione. Là
dove alligna la vergogna non c’è riparazione ma fuga.
Perché dominante è la paura, sentimento che a differenza dell’angoscia è specifico e non indistinto, e che
qui è motivato dal poter essere s-coperti.
Sotto il profilo della soggettività del vissuto, nella
esperienza della vergogna non è tanto tematizzato il
male e l’ineluttabile responsabilità verso di esso,
111
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
quanto l’orrore della nudità, della pochezza, del disvalore, della precarietà. Nel linguaggio junghiano:
l’orrore dell’ombra, che in questo caso ci sembra di
poter far coincidere con il rimosso sociale. Ombra
che, quando nell’individuo viene s-velata, suscita appunto orrore e inadeguatezza per il suo improvviso
divampare sotto la coltre sottile della persona (junghianamente intesa), suscettibile di essere guardata
da quel collettivo che non può consentirsi di ospitare l’intero che sta nel profondo. È ciò che faceva dire a Sartre: “la vergogna non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per gli altri” [13].
Ci sembra scaturiscano da questo stato di cose le
difese messe in atto da chi prova vergogna: l’evitamento oppure la negazione e, di conseguenza (fenomeno compensatorio tipico dei nostri tempi), la s-facciata ostensione del deprecabile.
Colpa e vergogna, nel loro manifestarsi, appartengono dunque a circoli di significato differenti. Sociali ma anche individuali. Sociali perché, se nel vivere
la colpa è implicata l’apertura alla dimensione collettiva, nel vivere la vergogna la dimensione collettiva è
evitata o, al più, subita. Individuali perché, se l’esperienza della colpa comporta una sorta di “ipersoggettivizzazione”, dove il co-involgimento del soggetto
raggiunge l’estremo antropologico della responsabilità del male (paradossalmente nascondendo, nelle
situazioni estreme, anche un’inconscia onni-potenza), l’esperienza della vergogna comporta invece una
“iperoggettivizzazione”, esigendo la fuga dal co-involgimento che nasconde un’inconscia (ma a volte anche conscia) im-potenza.
Inoltre, è luogo comune considerare la vergogna
esperienza paradigmatica della società contemporanea, in cui sarebbe invece stata archiviata la colpa. In
parte, a uno sguardo soprattutto sociologico, ciò sembra senz’altro corrispondere al vero, in concomitan-
Riflessioni di clinica junghiana
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Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
za con la crisi delle grandi appartenenze collettive e
con il parallelo affermarsi dello statuto narcisistico
nelle psicologie individuali.
Ma, a uno sguardo più propriamente psicologico
supportato dallo sguardo antropologico, sembra altresì che la vergogna accompagni spesso la colpa e
che le due lambiscano un nucleo originario comune,
da cui poi si divaricano sortendo orientamenti e comportamenti individuali diversi.
Riandando al racconto biblico della Caduta, prototipo del percorso religioso occidentale incentrato
sul Padre (forse, mai del tutto evoluto nel Figlio cristiano) ma contenente anche elementi indicativi di
un pre-paterno (il serpente!), la verità mitologica che
ne emerge è che colpa e vergogna coesistono là dove
c’è la rottura dell’appartenenza alla paradisiaca unità
delle origini. Il mito indica che ciò avviene nell’ascolto dell’animalità, dimensione ancor più primaria del
divino personale, la quale, anche se celata nella sua
potenza dalla vergogna, spinge all’uscita, alla storia, al
male della separazione. Spinta che, a sua volta, suscita l’esperienza soggettiva e oggettiva della colpa.
COLPA, SENSO DI COLPA, SENTIMENTO DI COLPA
Sono queste le espressioni più comunemente usate in riferimento all’esperienza della colpa, spesso intercambiabili ma contenenti sfumature semantiche
differenti. La pluralità di espressioni, assente nella
nominabilità della vergogna, è probabilmente il segno della maggiore complessità dell’esperienza della
colpa rispetto a quella della vergogna, ma anche della maggiore declinabilità psicologica della prima rispetto alla seconda, quindi della sua maggiore suscettibilità trasformativa.
Le differenze tra le espressioni riportate sono legate sia all’interpretazione del fenomeno della colpa,
sia ai diversi ambiti in cui essa viene rappresentata.
113
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
Colpa è il termine con cui, prevalentemente, viene
indicata l’oggettività dell’esperienza. Esprime una
connessione tra l’attore del male e l’esperienza del
male stesso nel senso di una responsabilità riconosciuta dalla coscienza, generalmente supportata da
un sapere codificato, come quello della legge, dell’etica, della tradizione.
Con il senso di colpa, invece, il linguaggio comune
esprime il vissuto dell’autoriferirsi la responsabilità di
un danno altrui, anche se razionalmente non è detto
che ci siano elementi per sostenerlo. Del senso di colpa, quale espressione principe della dimensione inconscia della vita affettiva, si è occupata principalmente la psicoanalisi [6] [12].
Situazioni tipiche sono rappresentate dall’esperienza di violazione di una norma garantita da un’autorità e dall’esperienza di responsabilità nella sofferenza vissuta dall’oggetto d’amore. Se nel primo caso
(tipico di una società a statuto edipico) è soprattutto
la paura della punizione o della perdita dell’amore a
sostenere il senso di colpa, nel secondo caso è invece
in gioco un’istanza inconscia scissa che induce al sentirsi in relazione, quasi fusionalmente, con un altro
soggetto. Il pensiero corre, ad esempio, alla situazione di una madre il cui figlio è malato ed ella si sente
in colpa perché non l’avrebbe tutelato. La madre vive la malattia del figlio come “propria”, perché il figlio, inconciamente, è sentito come parte di lei. Ella
sa, razionalmente, che non è così, che la malattia del
figlio trova risposta altrove, ma non riesce tuttavia a
“non sentirsi nella colpa”. Così pure, una declinazione ulteriore e più tipica della società post-moderna
di questa seconda categoria, per così dire affettivistica, del senso di colpa è costituita dalle esperienze di
separazione dai contesti affettivi di appartenenza. Su
queste ci soffermeremo più avanti, ma qui vogliamo
sottolineare che anche il senso di colpa caratterizzante tali esperienze presuppone un legame “fusionale”, la cui re-cisione sembra oggi culturalmente e
Riflessioni di clinica junghiana
114
Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
psicologicamente più difficile da affrontare. In queste situazioni il senso di colpa sembra anzi fungere da
freno all’investimento individuativo, facendosi garante, quasi sempre inconsciamente, delle sicurezze antiche a fronte delle novità arrischianti che la società
contemporanea promette in abbondanza ma costringe poi a vivere nella solitudine.
Più in generale, il senso di colpa ha a che fare con
il “vissuto soggettivo” che lega a qualcosa o qualcuno
nell’ordine della responsabilità personale. Può riguardare anche azioni oggettivamente colpevoli: è il
modo di “sentire” l’azione a nutrire il senso di colpa.
Modo che ha a che fare con il sentire la forza del male “dentro”, lasciata essere e non contrastata. Male
“dentro” che è avvertito come senso di colpa in virtù
dell’esistenza di un codice, ma, più radicalmente, in
virtù dell’esistenza del male che precede il codice e a
cui il codice ha cercato di dare un volto per arginarne l’inconoscibilità e l’incontrollabilità. Per cui, forse, il senso di colpa presuppone il sentimento di colpa.
Quest’ultima è espressione usata soprattutto dalla
psicopatologia a impronta fenomenologica nella descrizione delle esperienze depressive [3] [5] [14].
Per indicare quello stato d’animo (depressivo) che ci
pone di fronte all’esperienza del male come categoria ontologica, del nostro esser-gettati nel mondo [9]
sentendoci parte di una “condition humaine” che vive, patisce ed agisce il male [4]. Sentimento di colpa,
dunque, come comunanza nel male che ci sovrasta e
che permea ogni scelta e decisione individuale.
Quando non è guadagnato lo sguardo “tragico”,
che sopporta la tangenzialità di bene e male, ridando
speranza alla soggettività e al suo poter contribuire a
promuovere il bene e arginare il male, il sentimento
di colpa diventa allora sprofondamento nel nichilismo e sortisce l’esperienza depressiva come unilateralità, dunque patologia. Il sentimento di colpa, in
questo senso, può anche essere visto come la matrice
del più tollerabile senso di colpa.
115
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
SENSO DI COLPA E CONTEMPORANEITÀ;
PSICOANALISI E PSICOLOGIA ANALITICA
Incoraggiando il senso di responsabilità, la colpa,
soprattutto nella sua declinazione di senso di colpa
che nel presente lavoro costituisce il principale oggetto d’indagine, ha rappresentato nella modernità
l’architrave psicologico dei comportamenti sociali e,
per contrasto, il parametro di giudizio della dissocialità. Il senso di colpa di cui si sta parlando è, soprattutto, quello dell’infrazione alla norma codificata.
La psicoanalisi, che alla modernità ha fornito immagini e riti di rappresentazione, non a caso proprio
nel complesso di Edipo [6] ha trovato la propria chiave ermeneutica. La narrazione edipica, infatti, indica
il percorso della maturità nel mea culpa del desiderio
che minaccia il codice paterno. Mea culpa che consente l’inibizione delle fantasie siderali, capitalizzando le energie risparmiate in investimenti sociali possibili, rinforzanti il codice statuito e promuovendo
gratificazioni etiche. Parallelamente, sul versante
economico della modernità, lo spirito del capitalismo non poteva che trovare nell’etica colpevolizzante del cristianesimo protestante il volano della propria espansione [15].
Ma che cosa, rimanendo nella narrazione edipica
rivisitata e messa in scena da Freud, può valere la pena del mea culpa del desiderio? Come è possibile frenare le ondate desideranti che autoctonamente si
presentano nell’uomo? La psicoanalisi della splendida Vienna di fine ‘800 sapeva di queste minacce, di
questi oscuri e potenti fantasmi che la conservazione
dell’ordine e della gentilezza sociali esigevano di tenere a bada. E ne ha spiegato il meccanismo, coltivando la soluzione del compromesso tra divieto e desiderio. Nella lotta tra l’ordine delle soggettività e le
spinte oscure della specie, solo la paura della punizione e il conseguente obbligo a dimenticare (rimuovere) potevano ingenerare il mea culpa. Ma a
Riflessioni di clinica junghiana
116
Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
quel punto il mea culpa diventava sufficiente, e la psicoanalisi ha potuto contribuire a collocare la punizione su di un piano simbolico. L’esperienza della
colpa è divenuta “senso di colpa”. Comprensibile,
prima ancora che riprovevole.
Ma ogni spiegazione, alla lunga, riduce la paura,
privando il meccanismo dell’oscurità che lo protegge. Così, cammin facendo, la psicoanalisi, musa della
colpa moderna, ha contribuito a depotenziare il codice paterno, il principio d’autorità. Certo, non stiamo parlando delle sue teorizzazioni, ma delle sue ricadute sul tessuto antropologico culturale. Sì, perché
il soggetto desiderante, castrato, ha chiesto asilo nel
tempio delle madri e ha trovato conforto nel richiamo balsamico delle psicologie. Soprattutto, a questo
punto del percorso, post-freudiane [16].
La colpa, da esperienza necessaria, è diventata ferita da guarire. Mentre la psicoanalisi, via via, da spiegazione dei conflitti dagli esiti castranti e colpevolizzanti, è diventata garanzia delle consolazioni.
La post-modernità, vista da questa angolatura, si fa
allora promessa e pretesa dell’esilio del dolore. La
psicoanalisi, in qualche modo, ne ha contribuito all’avvento, ma non ha potuto farne da musa. Forse
perché troppo consapevole della limitatezza dell’umano.
Nuova musa è diventata la Tecnica [7], apparato
di strumentazione che si propone il-limitato non tanto allo scopo di appagare il desiderio, ma di allontanare il pensiero della sua limitatezza, vanificando il
vissuto della colpa. Una Madre munifica, onnipotente e onninutriente, che non si fa limitare dalle regole del Padre ma se ne avvale per promettere ancora
più potenza.
Tuttavia, è la clinica a mostrarlo, anche nell’epoca
post-moderna la colpa come esperienza soggettiva
non è sparita. Privata degli oggetti della modernità, si
è spostata a livelli più arcaici, antropologicamente
più fondativi dell’esperienza stessa. Ridimensionato
117
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
il confronto con il codice paterno, istanza conoscibile e controllabile dei vincoli interpersonali e sociali,
il confronto è più direttamente avvenuto con i vincoli stessi, con il loro carattere radicale di dipendenza e
di sicurezza. Qui il contributo di Jung diventa ermeneuticamente essenziale.
Perché, è vero, sempre più raramente in analisi capita di confrontarsi con personalità edipiche che vivano la colpa della trasgressione o del tradimento o
dell’inganno. Tutte esperienze che dicono la deroga
al codice. Non che queste esperienze, contenutisticamente parlando, non esistano. Non esiste o esiste
molto meno, sul piano formale, il vissuto della colpa
che le accompagni.
È però altrettanto vero che la colpa abita altre regioni, diremmo più primarie. Sono le regioni che
chiamiamo della differenziazione, intesa soprattutto come congedo dai legami, come necessità di oltrepassamento delle appartenenze emotive. È, per utilizzare lo sguardo descrittivo della fenomenica sociale, il
sentimento di colpa del figlio che per lavoro lascia soli i genitori; o della madre che, lavorando, fatica a
star dietro alla casa; o della giovane donna che non
ha ancora figli; o del giovane padre che non sa coniugare i propri bisogni emotivi con quelli del proprio bambino.
L’elenco potrebbe continuare. In gioco sembra esserci sempre la concretezza del legame che viene interrotto oppure l’impossibilità a mantenerlo “sensorialmente” in vita. Detto altrimenti, è in gioco la difficoltà all’esperienza simbolica del legame, che implica il disgiungersi (separarsi) prima di permettere
il ricongiungersi in veste nuova e, appunto, simbolica. Non dunque tanto la colpa del male rispetto a un
codice dato e giusto, ma la colpa della differenziazione che è all’origine dell’esperienza del male. Del male inteso come congedo dall’improblematico e dall’implicito. Dall’originariamente buono e avvolgente.
Dall’eterno unificante non ancora “alterato” (da al-
Riflessioni di clinica junghiana
118
Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
ter) dalle storie individuali e dall’estraneità dei legami non legittimati dal sangue.
Questa è la potenzialità interpretativa della psicologia analitica [11], quanto mai attuale poiché, a differenza della psicoanalisi, riesce a visitare le origini
della colpa. E così a dirci qualcosa della colpa oggi,
in un’epoca in cui, paradossalmente, accanto alla
polverizzazione delle tradizioni, l’assenza di sicuri
processi di riconoscimento sociale, o di rappresentazioni simboliche condivise, fanno sì che non sia più
sufficiente per le psicologie attestare la propria osservazione sui conflitti tra individuo e società, ma divenga altresì necessario confrontarsi con le angosce
più profonde che fanno confliggere la soggettività
con le istanze della specie. Che, in altro modo, Jung
chiamerebbe archetipi. Ci riferiamo, ad esempio, al
senso del vuoto, dell’abbandono, o al bisogno del
contatto, di un legame…
L’ESPERIENZA DELLA COLPA PRIMORDIALE NELLA CLINICA
La colpa come oggi si presenta in diverse condizioni cliniche, è dunque la colpa più arcaica, a volte
inconsolabile e spesso inelaborabile, perché ha a che
fare col sentirsi parte del male. Dove il male è vissuto
soprattutto come separazione da un bene primordiale. Qui colpa e vergogna sembrano affiancarsi, coesistere, manifestando comunque orientamenti di senso diversi con cui si cerca di coagulare la dispersione
dolorosa che nasce di fronte alla separazione dalle
appartenenze originarie.
Storie cliniche che, in qualche modo, rievocano il
mito biblico dell’Origine, in cui, lo ricordiamo, alla
colpa per aver infranto il divieto ad un’etica individuale (l’uomo conoscitore del bene e del male) che
costringe a uscire da un originario che è al di qua del
bene e del male, si affianca la vergogna della nudità,
di quel mostrare la pochezza e la limitatezza dell’es-
119
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
sere se stessi che, se sopportato, consente però l’inizio della storia.
Riportiamo qui tre esperienze di colpa, due clinicamente rientranti nel circolo delle nevrosi, una nel
circolo delle psicosi depressive. La scelta è stata fatta
escludendo casi dove la colpa e la vergogna siano state acutamente indotte da particolari traumatismi infantili, al fine di favorire il più possibile considerazioni trasversalmente utilizzabili, non strettamente
connesse a particolarità biografiche. In queste storie
di vita, la colpa si manifesta come tra-dimento del vincolo, iniziativa razionalmente legittimata e socialmente proclamata, ma emotivamente vissuta come
nemica della sicurezza individuale. Come se la vita individuale mutuasse dal rispetto e dalla conservazione
del vincolo di base (familiare o religioso) il proprio
senso archeo-logico e teleo-logico: vale a dire la sensatezza dell’origine e della meta. Il tempo soggettivo
individuale, che è il tempo dell’irregolarità e della
novità, nell’epoca dell’individualismo esasperato che
spesso non ha però cura dell’individuo, rivela nella
clinica l’ombra della colpa di volersi sostituire al tempo collettivo, che è il tempo della conservazione come garanzia della sicurezza.
1. Mario e la colpa di non “pro-seguire” il padre
Mario è il primogenito di una famiglia-azienda,
dove vincoli di sangue e vincoli professionali sono
tutt’uno.
Suo padre, capo fondatore dell’azienda, è un uomo all’apparenza forte, dotato di molto senso pratico,
scaltro negli affari e capace di ammodernamenti tecnologici che, nel tempo, hanno ingrandito e reso più
competitiva l’azienda. Di lui colpisce la manifesta
squalifica di ogni forma di debolezza che, sommariamente, viene identificata soprattutto nella femminilità e nell’emozionalità. Tuttavia ha “voluto” che tutti
quanti restassero uniti nella famiglia-azienda, scorag-
Riflessioni di clinica junghiana
120
Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
giando scelte individuali differenti e allontanamenti
da parte dei figli. Solo una figlia ce l’ha fatta, mettendo di mezzo tra sé e il padre migliaia di chilometri.
La madre, meno determinante nelle dinamiche
relazionali interne alla famiglia, ha anch’ella sempre
lavorato a fianco del marito, al servizio dell’azienda,
svolgendo mansioni amministrative.
Mario da ragazzo frequenta un istituto tecnico,
nonostante sia prevalentemente interessato a materie
umanistiche. In adolescenza si scopre omosessuale.
Terminate le superiori, vorrebbe iscriversi alla facoltà di Lettere, l’azienda non gli interessa. Ma non ha
sufficiente coraggio per fare ciò che il padre non vuole: ha paura dei suoi giudizi, di essere svalutato. Soprattutto non regge all’idea di tradirlo e di fare una
vita in cui il padre non ci sia. Non riesce a non continuare a fare i conti con lui ogni giorno, a vederlo
ogni giorno, a sentirlo ogni giorno. Così si mette a lavorare in azienda, sentendosi sempre inadeguato, patendo ogni giorno la vergogna di non farcela. In
azienda lavora anche il fratello minore, ma Mario si
sente investito del ruolo di successore. Nessuno gliel’ha verbalizzato, ma lui lo dà per scontato. Vincolandosi, interiormente, ancora di più.
Dopo un po’ di anni si rimette a studiare e frequenta la facoltà di Scienze Politiche. Si impegna
molto, studia la sera e i fine settimana. Dà tutti gli esami, ma non ce la fa a scrivere la tesi. Arrivato alla soglia di una minima differenziazione si blocca: la fantasia di un perscorso alternativo a quello famigliare
lo angoscia, gli fa provare un senso di colpa intollerabile. E l’unica differenziazione consentita è l’omosessualità, ma clandestina. Pagata con il prezzo della
vergogna.
La chiave di lettura freudiana dell’intollerabile innamoramento del padre, ci pare non raccogliere l’interezza di senso di una vicenda dove vergogna e colpa si intersecano nel provare orrore allo svelare se
stesso e nell’angosciarsi al pensiero di tradire il pa-
121
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
dre, di andare oltre la sicurezza delle origini. Il compromesso è la solitudine nevrotica, che consente una
rabbia che fa sentire anche la forza ma, al contempo,
evita il dolore dello squarcio di una solitudine più
evolutiva che tagli i legami di sangue.
Quella di Mario è una vicenda in cui il senso di
colpa e la vergogna rendono impraticabile la disobbedienza al padre, il non proseguire i suoi interessi e
le sue iniziative. È il senso di colpa, soprattutto, a
paralizzare la separatezza prima ancora che una concreta separazione. Colpa nel senso di poter deludere,
di far franare la grandezza e l’unicità del padre, dimensione interiore della appartenenza “forte” basata
sul sangue. La colpa di poter distruggere il castello,
anche se finto, della forza e della stabilità familiare,
dove unicamente abiterebbe la sicurezza.
2. Olga e la colpa di attendere a se stessa
Olga viene in analisi dopo un episodio acuto di attacco di panico.
La sua è la storia della figlia unica di una madre
ipocondriaca. Madre che ha passato la vita nella protesta per l’ingiustizia di non essere stata “guardata”
dalla famiglia d’origine e che ha utilizzato la propria
famiglia acquisita per essere costantemente guardata
(per beneficiare di un credito permanente), utilizzando il corpo (il Körper di cui parla Husserl) come
oggetto al servizio del dolore della mente, quindi privo di intenzionalità emotiva (contatto, calore, apertura…).
Olga ha un buon funzionamento sociale. Sta discretamente bene fino a quando i “grandi” compiti
della prima metà della vita (matrimonio, figli, lavoro) non finiscono. A quel punto, intorno ai quarant’anni, il corpo si s-prigiona in un violentissimo attacco di panico, imprevedibile e incontrollabile. Esperienza che non si ripresenterà più, ma segnerà la sua
vita successiva con una costante incertezza sulla pos-
Riflessioni di clinica junghiana
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Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
sibilità di non essere nuovamente travolta dal caos
del corpo.
In analisi viene affrontato il rapporto con la madre, il suo non aver potuto essere da lei accolta e contenuta, il suo aver dovuto tras-curare la vitalità delle
emozioni. La madre l’ha troppo intensamente cooptata al fine di essere da lei sempre guardata. Ora, non
rispondere a tutti i richiami del corpo malato della
madre sembra giusto, sacrosanto. Ma ricavare del
tempo (interiore) per se stessa, non impedirsi spazi
di vita per evitare di toglierne alla madre è tuttavia
difficile. Il senso di colpa fa fare e disfare, dire e contraddire. La madre bisognosa di sguardi è dentro di
lei a chiedere il sacrificio dell’evoluzione, della separazione. Ma alla lunga Olga, un po’, ci riesce. Già il
venire in seduta regolarmente, resistendo ai richiami
della madre che immancabilmente le si presentano
qualche ora prima, è un successo.
Ma quando la strada sembra aprirsi, ecco un nuovo, più potente, vincolo. Il figlio minore, che frequenta la scuola elementare, comincia a sviluppare
nei suoi confronti una strana dipendenza. Fuori casa,
a scuola o con gli amici, si mostra indipendente e solare; in casa è sempre avvinghiato fisicamente alla
madre, che quando c’è il figlio non può star sola
nemmeno in bagno o nel letto, perché lui la deve seguire, anche prendendo il posto del padre. E lei non
regge alla colpa dell’arrecargli dolore, del costringerlo al distacco. Concomitante, e conflittuale, è la
vergogna di sentire ostilità verso il figlio, di s-coprirsi
arrabbiata verso di lui, di riconoscersi tentata di staccarlo da lei. Tramite il figlio nuovamente, e più potentemente, viene agita la fusionalità del rapporto, il
vincolo che non si può spezzare pena un insopportabile senso di colpa che scompiglia ogni riflessione razionale.
La lettura edipica freudiana in questo caso, pur
sembrando a prima vista ben fruibile, risulta invece
insufficiente. Anche per l’assenza di una problemati-
123
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
ca vissuta nella triangolarità, che nello schema freudiano rende possibile prima il conflitto e poi il compromesso tra i poli del desiderio e del divieto. Più appropriata, invece, ci sembra la chiave di lettura psicologico-analitica che qui consente di vedere un’esperienza edipica bloccata per la non ulteriorizzazione di
un’esistenza individuale rispetto all’appartenenza materna. Con la colpa a frenare nuove scelte e la vergogna a frenare nuove elaborazioni psicologiche.
Un ulteriore cenno merita il quadro clinico degli
attacchi di panico, emblematico per la sua rappresentatività (qualitativa e quantitativa) della psicopatologia odierna. In esso sempre ricorrono l’iniziale
condizione di mancata dipendenza e il successivo vissuto della colpa (unitamente all’angoscia del vuoto)
quando la situazione originaria viene rivissuta all’interno di esperienze adulte di s-vincolo.
3. Carlo e la colpa di tradire la Madre …Chiesa
Carlo è un sacerdote di 65 anni. Da sempre persona rigorosa, infaticabile, poco incline ai compromessi. Responsabile e affidabile, lungo il percorso
del proprio ministero ha sempre ricoperto incarichi
importanti e molteplici: dall’insegnamento, alla direzione di associazioni, alla guida di parrocchie. In
quarant’anni di sacerdozio non ha mai fatto una vacanza.
Da bambino era rimasto orfano di padre a pochi
anni di vita. Figlio unico, è entrato in Seminario all’età di 11 anni. La sua è stata una vocazione senza
tentennamenti, caratterizzata dal rigore nello studio
e nella vita spirituale. Una vita, si direbbe, offerta alla “madre” Chiesa. La madre biologica, fino a quando è rimasta in vita, l’ha seguito nelle sue diverse sedi di impegno pastorale.
A 65 anni, la prima vera crisi della sua vita, di fronte a nuove responsabilità dove si esigono non l’affermazione di valori e l’abnegazione di se stesso, ma
Riflessioni di clinica junghiana
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Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
operazioni amministrativo-economiche tese a salvare
le casse della parrocchia. Operazioni che hanno il carattere del relativo e del particolare, non potendo discendere da principi universali indubitabili. Operazioni lecite sul piano giuridico, ma che fanno sentire
chi le compie ai confini dell’etica, di quel senso morale vincolante che sigilla l’appartenenza forte e indiscussa ai valori evangelici. Ma, al contempo, operazioni necessarie per evitare la bancarotta, che esigono l’adozione di un sapere e di un’azione individuali, non tutelati né da una tradizione né da responsabilità collettivamente condivisibili. Il senso di precarietà rispetto a questa regione compromissoria della
vita si dilata e dilaga: nel giro, sorprendentemente, di
poche settimane subentrano vissuti di indegnità morale, vergogna della propria miseria umana, senso di
colpa rispetto a tutte quelle volte che ha garantito il
perdono, indulgendo ai peccati, e non ha mostrato
intransigenza a garanzia di fedeltà. La ruminazione
ossessiva di tali pensieri non concede requie, impedendo il riposo notturno e consegnando ad una spossatezza estrema che esita nell’inerzia. In questo sprofondamento nella noche oscura (sono per altro suggestive alcune analogie anche biografiche con S.Giovanni della Croce), le idee di morte sembrano inarrestabili, non frenabili nemmeno da istanze religiose
che riferiscono solo a Dio il poter disporre della vita.
Qui l’inconscio impone un’altra religione, più antica
e indifferenziata di quella cristiana, dove se non altro
la potenza del numinoso è stata contenuta, umanizzata, entro rituali che evitano il dissolvimento dell’uomo. L’ “altra” religione è quella che non prevede
la centralità dell’individuo e quindi non consente né
l’espiazione della colpa con finalità redentive, né il
perdono. Nell’ “altra” religione l’individuo va sacrificato per il gruppo, perché il gruppo è più importante dell’individuo. Se l’individuo tradisce, il suo tradimento deve diventare un segreto che va dissolto con
l’individuo stesso. Più tardi, quando starà meglio, mi
125
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
dirà: “Sentivo che il mio segreto doveva essere cancellato insieme a me… Non avevo paura della morte… Mi sentivo come credo si sentano i kamikaze!”.
La morte, qui come in ogni esperienza psicotica
dove è impedita la relazione tra coscienza e inconscio, non può essere simbolica e neanche redentiva.
La morte è solo cancellazione dell’individualità traditrice del vincolo della collettività.
Certo, nel comunicare a me il segreto, Carlo aveva acconsentito almeno in parte al tradimento, ritualizzato in una pratica (quella psichiatrico-psicoterapeutica) disposta a riconoscere anche questo statuto
di colpa, senza negarlo ma senza nemmeno subirne
il carattere coattivo. Forse per questo Carlo si è avvicinato alla soglia del nulla, ma all’ultimo momento
non l’ha varcata.
CONCLUSIONI
“Società dell’incertezza”[1] e “modernità liquida”[2], sono le due riuscite espressioni con cui il sociologo britannico Zygmunt Bauman ha recentemente descritto l’epoca contemporanea. In essa la
precarietà e la provvisorietà dei legami sarebbero gli
ingredienti della nuova libertà. La rinunzia ad ogni
impegno duraturo e a ogni fedeltà, la garanzia per lo
scioglimento dei vincoli di dipendenza.
Questo lo sguardo sociologico. Non contraddetto
dallo sguardo analitico, ma da questi amplificato, per
poter cogliere anche l’ombra rimossa dell’angoscia
sottesa al modello sociale. L’esperienza della colpa
oggi, a differenza dell’epoca della modernità, si colloca proprio in quest’ombra rimossa. Per questo è la
clinica a contribuire irrinunciabilmente anche alla riflessione teorica.
E dunque, accanto alla pretesa solubilità dei modelli e dei comportamenti, quella che impietosamente si nota nelle ansie individuali come in quelle col-
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Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
lettive, è la riemersione di una sorta di sicurezza emozionale ricercata ed agita, del tutto inconscia ma visibile, che va affermandosi tra le pieghe dei conflitti affettivi, delle contraddizioni di carriera, delle cangianti opzioni politiche. E se il senso di colpa, oggi,
non funge più da conservatore delle regole che, anzi, continuamente e vertiginosamente cambiano,
funge però da conservatore dei vincoli emotivi che
garantiscono sicurezza.
Osservato nella clinica, che pur mostrando l’
“estremo” fa sempre anche da specchio alla società, il
senso di colpa è dunque categoria rivelatrice delle
tendenze ombra, del non detto, e spesso non pensato, che ugualmente agisce, anzi con maggior immediatezza. Ma forse, come nella società moderna la
colpa era al contempo elemento di paralisi ma anche
garanzia di stabilità, così anche in quella post-moderna sembra agire da freno là dove una nuova, più
individuale, sicurezza non sia ancora stata raggiunta.
Ancora una volta la psicopatologia, più che insensata anomalia, dissintona rispetto a una normalità
proclamata, va guardata ed ascoltata come linguaggio dell’ombra [10], che esprime dolore ma anche riequilibra una univoca e dominante pretesa di luminosità.
Bibliografia
[1] Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.
[2] Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2005.
[3] Borgna E., I conflitti del conoscere, Feltrinelli, Milano, 1988.
[4] Borgna E., Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992.
[5] Callieri B., Quando vince l’ombra, Città nuova, Roma, 1982.
[6] Freud S., L’Io e l’Es, Opere, Vol IX, Bollati Boringhieri, Torino,
1977.
[7] Galimberti U., Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999.
[8] Genesi, La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna, 1980.
[9] Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971.
[10] Hillman J., La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano, 1991.
127
Colpa, vergogna, vincoli emotivi
[11] Jung C. G., Simboli della trasformazione, Opere, Vol. V, Bollati
Boringhieri, Torino, 1970.
[12] Klein M., Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.
[13] Sartre J.P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1968.
[14] Schneider K., Psicopatologia clinica, Città nuova, Roma, 1983.
[15] Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1965.
[16] Zoja L., Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Riflessioni di clinica junghiana
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Riflessioni di clinica junghiana
Enrico Ferrari
Abstract
Analytical psychology perspective helps to understand the
connections of meaning between guilt and shame, that are
phenomenological different. In the post-modern age, this
has become more evident as the experience of guilt has not
disappeared but has moved to levels that are more archaic.
Exactly where are situated the interruptions of interpersonal and social bonds, in overcoming the loss of strong
bonds that guarantee dependency and security, as it is the
case in the separation from parents, from sons, from
groups. In all those situations, when and where the traditional Oedipal answer cannot be a sufficient explanation, is
operating the removed shadow of the tendency to precariousness and liquidity of bonds so emphasized today.
129
Riflessioni di clinica junghiana
La vergogna
come malattia
dell’idealità
Viviamo in un’epoca che sembra aver obliterato il sentimento della colpa per lasciare
il passo a quello della vergogna. Sentimento
quest’ultimo che si presenta come un’esperienza emotiva pervasiva in grado di modificare profondamente il sistema di valori che
orienta l’individuo nel suo rapporto con il
mondo.
La nostra società è prevalentemente governata da un registro narcisistico grazie al
quale i principi della competizione, del successo, del
disprezzo e del cinismo obnubilano la vita emotiva e
perpetuano forme di coartazione delle funzioni vitali del Sé contribuendo a renderne sempre più intensa la vulnerabilità.
Ne deriva una forma di indebolimento dell’intera
struttura di personalità che depriva il soggetto, impoverendolo, delle risorse che gli sarebbero necessarie per vivere l’esperienza e per muoversi adeguatamente tra i differenti livelli che la definiscono. La
mente tende a irrigidirsi polarizzandosi, spesso, in
aree psicologiche e affettive che si possono definire
“estreme” per l’ipersensibilità che le caratterizza, e
che stimolano l’individuo a trovare rifugi difensivi altrettanto estremi e dannosi per la vita psichica.
Penso, in modo particolare, a quei pazienti che
sembrano essere privi di un apparato di pensiero, privi di contatto con il loro proprio mondo affettivo e
che vivono la loro paura di bisogno di relazione attraverso forme di diniego così intense da rimanere
totalmente prigionieri di un passato che si ripete inesorabilmente. Questa forma di ritiro e di solitudine
che depriva il soggetto dell’esperienza, non consente
lo sviluppo di un apparato mediatore tra stimoli e impulsi, tra mondo interno e mondo esterno. La realtà,
lì fuori, diviene abnorme con le sue richieste, con i
suoi tempi, con le sue sollecitazioni. Abnorme e determinante in termini di giudizio.
Ne deriva una forma di autarchia della mente, fa-
Nadia Fina
130
Riflessioni di clinica junghiana
Nadia Fina
vorita anche dall’intima collusione di queste forme
di ritiro schizoide (espressioni di un narcisismo infantile onnipotente) con sistemi socioculturali e politici annichiliti e privi di capacità progettuale vitale.
Tale collusione, infine, sostiene il soggetto in una logica individualistica da “arrembaggio”, sollecitandolo
alla ricerca di un successo anch’esso individualista e
cinico bramato per allontanare il sentimento di vuoto pauroso di un Sé prossimo al collasso.
La vergogna è un sentimento che ben si presta a
delineare e sottolineare forme e stili di vita in cui il
valore di sé viene dato (e viene cercato), per l’apprezzamento e per il giudizio che gli altri possono assumere, rendendo il soggetto ipersensibile e fortemente dipendente da questo sistema valoriale. Diventa estremamente faticoso, per l’individuo, fermarsi e trovare le risorse per confrontarsi con il proprio
mondo interno, quando si trova invece tutto decentrato verso il bisogno di appagamento e gratificazione immediata.
L’analista ha molte difficoltà a lavorare con questi
pazienti che non possono essere compresi da una
mente e da un setting dalle modalità classiche. L’inadeguatezza come sentimento che sottende il vissuto
della vergogna li rende infatti ipersensibili alle parole del terapeuta, che viene ascoltato, per lungo tempo, in una abnorme condizione di “allerta” tesa a evitare ogni piccola forma di discrepanza, di frustrazione, di rottura sintonica. Ciò che normalmente una
relazione richiede — e ancor più la relazione terapeutica — è la conoscenza reciproca progressiva, fatta di
modulazioni in cui la vicinanza e la distanza definiscono la crescita del rapporto, la costruzione di codici linguistici e affettivi in cui la coppia analitica impara a muoversi e a capirsi. Tutto ciò richiede tempi
adeguati e strategie terapeutiche che con questa tipologia di pazienti si trasformano in tempi lunghi e
strategie molto complesse.
La vulnerabilità narcisistica sottesa al sentimento
131
La vergogna come malattia dell’idealità
della vergogna rende la personalità del paziente talmente “forte” nella sua ipersensibilità da sospingerlo
verso forme di arroccamento estreme, in quanto l’altro — il terapeuta in questo caso — assume ai suoi occhi una valenza totalizzante del valore e del giudizio
e, in un circolo vizioso scandito da acting del paziente, può suo malgrado rinforzarne l’arroccamento
narcisistico e la tendenza alla scissione del sentimento e dell’emozione.1
Autori come Jacques Goldberg2 e Sidney Levin3 rimarcano, nei loro lavori, che la vergogna è espressione di un conflitto tra Io e Ideale dell’Io ricordando,
entrambi, che spesso i pazienti evitano di parlare della vergogna, mantenendola piuttosto a lungo relegata in un’area di segretezza, per evitare che l’analisi
entri pienamente nel merito di questo sentimento
dietro il quale sta nascosto il sentimento d’inadeguatezza. Vero nucleo, questo e in questi casi, dell’identità del Sé.4 Non essere adeguato equivarrebbe infatti a non essere, a non esistere.
L’analisi della vergogna comporta quindi un primo, doloroso, passaggio necessario: la consapevolezza di una propria debolezza che modifica l’immagine
ideale.
D’altra parte la necessità di mantenere un’immagine ideale del tutto compensatoria ha lo scopo di tenere lontano dalla consapevolezza l’esperienza stessa
del limite.
Nelle situazioni di vulnerabilità il limite non è tollerabile poichè esso viene percepito come un difetto
di insufficienza e il sentimento che lo connota è quello dell’umiliazione.
Le storie che i nostri pazienti ci raccontano e di
cui si vergognano, quando ci parlano della loro vita e
della loro infanzia, descrivono situazioni in cui carenze e confusività dell’ambiente primario hanno generato blocchi evolutivi, rendendo difficile l’attivazione di funzioni vitali necessarie a costruire un adeguato apparato mediatore tra stimoli e impulsi. Tra
Riflessioni di clinica junghiana
1. N. Fina, “La vulnerabilità del Sé”, in Quaderni de
Gli argonauti, n. 10, CIS,
Dic. 2005.
2. J. Goldberg (1985), La
colpa - Un assioma della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1988.
3. S. Levin (1971), “The
Psychoanalisis of shame”,
in The International Journal of Psycho-Anlysis, vol.
52, 1971.
4. N. Fina, “La funzione
relazionale del segreto”,
in Analysis — Rivista internazionale di Psicoterapia clinica, n. 2, Borla, Roma,
1991; N. Fina, “Un tempo
tutto per noi”, relazione
presentata al convegno
Tempo e Memoria, novembre 2002, Palazzo delle
Stelline, Milano.
132
Riflessioni di clinica junghiana
Nadia Fina
bisogni espressi e risposte adeguate. Tra spinte vitali
e necessarie convalidazioni che rendano tali spinte
naturalmente progettuali. A causa del conseguente
congelamento del Sé vitale, il mondo emotivo riduce
il suo spazio di crescita agglomerandosi piuttosto tutto intorno alle difese da un dolore che davvero non
sarebbe da parte sua gestibile.
Sandro è un uomo di circa trent’anni, avvocato,
giunto in analisi per gravi problemi di abuso di alcol.
La sua vita lavorativa e affettiva era stata gravemente
compromessa da questo problema. L’abuso di alcol è
stato per lungo tempo argomento difficile da trattare. Rimaneva sullo sfondo delle sedute, come qualcosa che era ovviamente conosciuto da entrambi ma
su cui raramente potevamo soffermarci. Quando accadeva, Sandro saltava le sedute successive adducendo scuse spesso banali.
Era evidente a entrambi che le assenze erano indotte da un sentimento di vergogna al limite della
tollerabilità per lui. La vergogna, anzi, innestava un
circolo vizioso rispetto all’abuso di alcol. Per placare
quel sentimento così pervasivo e annichilente il ricorso all’alcol era per il paziente l’unica via d’uscita
possibile come in una sequenza ripetitiva che lo catturava stordendolo tanto quanto la sostanza che da
questo circolo vizioso veniva, nel suo effetto, dilatata.
La vita affettiva ed emotiva, il pensiero erano costantemente messi in scacco da questo circolo vizioso.
Significativamente, le sedute diventavano una ripetizione infinita di brevi racconti, sempre gli stessi e
sempre con la stessa modalità astiosa, circa le gravi
mancanze dei genitori nei suoi confronti e nei confronti dei suoi fratelli fin dalla loro tenera età. Indubbiamente una famiglia arida, priva di autentico
interesse e sincera preoccupazione per i figli. Una
coppia genitoriale totalmente assorbita da pesanti dinamiche ricattatorie, da puerili giochi di potere, imprigionata da sempre in un legame intriso di odio.
Lo stordimento di Sandro era cominciato, sempre
133
La vergogna come malattia dell’idealità
con l’alcol, nell’adolescenza, quando arrivava a
ostentare le sue ubriacature senza peraltro ricevere
segnali significativi di risposta.
Ubriacarsi era stata una necessità, quella cioè di
ottundere la violenza dell’impatto con quel tipo di
clima affettivo familiare. Una relazione familiare
traumatica e traumatizzante che si perpetuava e dalla
quale era difficile sottrarsi. Sandro si vergognava della sua impotenza nei confronti dei genitori e perpetuava l’abuso di alcol nella speranza di scuoterli, senza capire che si offriva in questo modo come vittima
sacrificale in una dinamica sado-masochistica che ripeteva, in realtà, la stessa logica di annientamento e
di umiliazione che circolava nella coppia dei genitori e ricadeva, da sempre, nella relazione con i figli.
A trent’anni il paziente rimaneva inchiodato nel
nucleo familiare, a voler testimoniare il fallimento
educativo dei genitori senza comprendere appieno
che in questo stesso modo egli dimenticava se stesso.
Non comprendeva cioè quanto profonda fosse la sua
collusione nel rendersi vittima di quella dinamica di
odio, disprezzo e umiliazione che era la cifra della relazione tra i suoi genitori. Anzi, questa forma perversa di relazione con loro alimentava una sua parte onnipotente perché lo faceva sentire artefice di uno
scacco che rendeva tutti vittime, tutti legati da uno
stesso destino a questo punto deciso da lui stesso.
Diventare avvocato, come il padre, gli era sembrata una soluzione per ottenere, da lui, una forma di riconoscimento. Laurearsi aveva significato, nei confronti della madre, un tentativo di riscatto verso quella donna che era stata, per lungo tempo prima del
matrimonio, “una semplice segretaria” del padre.
La logica perversa della doppia identificazione —
carnefice come il padre, vittima come la madre — logica che soffocava ogni possibilità di autentica vitalità, veniva da Sandro amplificata assumendo una modalità che lo teneva ancorato ad un passato inesorabilmente ripetitivo.
Riflessioni di clinica junghiana
134
Riflessioni di clinica junghiana
5. G. M. Bromberg (1998),
Clinica del trauma e della
dissociazione, Cortina, Milano, 2007.
Nadia Fina
Le sue relazioni affettive si sviluppavano seguendo
un copione del tutto simile a quello genitoriale soprattutto per l’odio da lui provato quando il legame
cominciava ad avere pregnanza. L’amore dell’altra
generava in lui disprezzo e desiderio di annientamento. Le fragilità e i bisogni che le sue partners manifestavano mano a mano che la relazione cresceva
diventavano, per lui, motivo di denigrazione. La vicinanza, il contatto fatto di tenerezza e di piacere gli
apparivano come trappole tese per annientarlo umiliandolo.
L’altro veniva sospinto a diventare il protagonista
di una interpretazione tragica il cui testo raccontava
dell’estrema vulnerabilità a cui la relazione affettiva
espone, illudendolo di liberarsi della sua propria inadeguatezza e dell’angoscia conseguente.
Una sorta di “traslocazione”, per usare una felice
immagine di Fonagy, in cui la fragilità, la paura, la
vergogna stessa erano deposte e sistemate in altro
luogo.
Il lavoro di analisi con questa tipologia di pazienti
è particolarmente complicato.
Le tensioni specifiche di questa particolare forma
di vulnerabilità del Sé impattano con una struttura
interna che non è in grado di regolare gli affetti e,
come acutamente osserva Bromberg, che non è “sufficientemente forte da resistere al contributo proveniente dalla soggettività dell’altro senza che questo
minacci di sopraffare il suo senso di Sé e scatenare
così un’ondata di vergogna e inadeguatezza”.5
Il lavoro va dunque inizialmente centrato soprattutto sul rinforzo e sulla valorizzazione della capacità
che il paziente ha di “mantenere” viva la sua disponibilità alla terapia nonostante i tentativi di sabotaggio
e di fuga generati proprio dalla difficoltà di tollerare
la vergogna e l’umiliazione, sentimenti questi di cui
il terapeuta diventa l’impegnativo testimone. Sentirsi
esposto allo sguardo del terapeuta tocca, violandola,
la parte più vulnerabile resa ancora più sensibile dal-
135
La vergogna come malattia dell’idealità
la paura della dipendenza che la relazione di analisi
genera.
Nel lavoro di analisi con Sandro ho voluto dare valore alla sua ambivalenza, riportandone il significato
al suo bisogno di negare l’emozione della vicinanza
tra noi, negazione causata dalla paura che l’intimità
potesse trasformarsi, per lui, in una esperienza di potere su di lui. Questa paura aveva una sua ragione storica che nel transfert si riattualizzava densamente.
Questo tipo di transfert che nasce dall’estrema condizione di bisognosità di questi pazienti è così intenso e precoce che può comportare, da parte del paziente, un abbandono della terapia.
L’assenza di un apparato mediatore che funzioni
come contenitore sollecita iperattivamente e sensorialmente il paziente spaventandolo. E d’altra parte
un contenitore adeguato a trasformare gli stimoli in
pensieri digeribili richiede tempo, fiducia e capacità
di tollerare il fatto che l’analista abbia i suoi pensieri
sul paziente, le sue ipotesi, le sue strategie.
La costruzione di un’alleanza terapeutica era dunque un lavoro molto laborioso perché trovare la distanza relazionale ottimale che permettesse a Sandro
di non vivere le risposte empatiche di vicinanza e tenerezza per le sue fragilità come trabocchetti da
osteggiare, né di vivere le interpretazioni della sua
corazza caratteriale nelle sue espressioni di masochismo come sprezzanti giudizi, ha comportato vissuti
cataclismatici, con ripetuti agiti di fuga dall’analisi.
Espressioni tutte, queste forme di acting, dei difetti a
carico dello schermo protettivo che filtra gli affetti
dolorosi e in assenza del quale insorge, come accennavo, una grave insufficienza della capacità di elaborazione psichica. Lavorare per la ricerca di un consolidamento dell’alleanza terapeutica a partire dalla
comprensione del modo in cui il paziente si pone in
“relazione con” vuol dire aiutarlo a dare innanzitutto
nome ai contenuti che esprimono le paure, a riconoscere, differenziandoli, quali sono gli affetti dolorosi
Riflessioni di clinica junghiana
136
Riflessioni di clinica junghiana
Nadia Fina
da cui si rifugge e dai quali si ha necessità di difendersi, e quali sono i bisogni che si temono, vergognandosi, perché ritenuti segnali di colpevoli deficit
che espongono al giudizio sprezzante dell’altro.
Il bisogno primario di queste situazioni è quello di
riuscire a vivere validamente e pienamente per la prima volta, all’interno di una relazione finalmente protetta, gli affetti traumatici per farli convergere in
un’area di intimità all’interno della quale la rêverie diventi un vero sostegno per la costruzione di un Sé
che sia capace di tollerare, di sé, pensieri e sentimenti dolorosi.
Penso, a tale proposito, che il rispecchiamento —
nel suo significato di validazione dell’esperienza
emotiva per la comprensione del fatto che affetti come buono e cattivo, bene e male, rabbia e amore,
odio e rancore hanno una loro ragione d’essere e un
loro scopo per l’animo umano, potendo in esso convivere — si realizzi nel suo valore strutturante nel momento in cui il paziente arriva a riconoscere e accettare la mutualità come momento per lui strutturante.
È questa una delle necessarie esperienze di sviluppo
per il Sé la cui meta è la “soggettivizzazione”.
Nel lavoro analitico con Sandro, un passaggio
molto significativo, in termini di cambiamento, è avvenuto quando il paziente, dopo una seduta particolarmente difficile, mi ha telefonato ubriaco chiedendomi aiuto. Nel corso della telefonata mi disse che
voleva farmi conoscere bene Sandro “posseduto dall’alcol”. Voleva che mi rendessi conto in quale stato
di “perdita di sé” veniva a trovarsi.
Nel corso del colloquio telefonico il paziente non
esitava a parlarmi del suo sentimento di vergogna, riferendosi a sé con parole di disprezzo miste ad una
angoscia profondissima. La sensazione nel mio ascolto oscillava tra la percezione di una vicinanza estrema
nell’attimo e quella di una distanza che lo rendeva
inafferrabile.
Sentivo le mie parole perdersi in un vuoto vorti-
137
La vergogna come malattia dell’idealità
coso inglobante e scomparire come segni privi di
eco. Più percepivo la mia impotenza più mi sentivo,
come le parole che pronunciavo, trasportata in quel
vortice di vuoto. Ebbi la netta sensazione che il paziente non voleva solo farmi “sentire” come stava
quando era ubriaco. Voleva piuttosto che lo accompagnassi in quel vortice di vuoto, ancorandolo a me
per poter tornare indietro una volta per tutte. Quel
momento era un momento in cui l’intero Sandro era
in gioco. Comprendevo infatti l’enorme sforzo che il
paziente stava facendo di parlarmi di sé in modo “lucido” nella sua condizione alterata invece dall’alcol.
Fin dall’incontro successivo a questo episodio Sandro poté cominciare a parlare con maggiore disponibilità della vergogna che aveva provato nei miei confronti per il suo alcolismo, per i suoi insuccessi lavorativi, per i suoi sentimenti di inadeguatezza, e della
ostilità covata contro di me che lo facevo sentire, in
alcuni momenti,“senza pelle”.
Il valore terapeutico specifico di quella telefonata
era stato vivere nell’esperienza con me un passaggio
cataclismatico in cui lo sconvolgimento regressivo
della disparità esperita tra valore (terapeuta) e nullità (paziente), da cui Sandro era sempre rifuggito. Si
rendeva così manifesta la paura della disintegrazione
che una tale disparità minacciava in quanto esperienza traumatica che si era ripetuta all’infinito attraverso i suoi agiti autolesivi, potendola finalmente affrontare in un nuovo contesto affettivo.
Una componente decisiva per lo sviluppo del Sé è,
infatti, la possibilità per il soggetto di trasformare l’esperienza subita passivamente in esperienza attiva.
Questa possibilità nei pazienti traumatizzati si realizza grazie a forme di identificazione con l’oggetto
traumatizzante nell’illusione che il passaggio identificatorio allontani l’umiliazione dell’essere in balia
dell’assoggettamento.
Con la sua telefonata Sandro ha interrotto questo
processo di rimando infinito aprendo la strada ad
Riflessioni di clinica junghiana
138
Riflessioni di clinica junghiana
6. C. Zucca Alessandrelli,
“Il marchio” in Gli Argonauti, n. 66 CIS, 1995.
7. G. M. Bromberg (1998),
op. cit.
Nadia Fina
una nuova, diversa esperienza di passaggio da una
condizione passiva a una attiva, sottraendosi alla rigidità di uno schema saturo di sofferenza.
Quella sensazione da me provata, nel corso della
telefonata, di enorme distanza era sicuramente determinata, come ho detto, dalla netta percezione di
una parte del paziente profondamente scissa. Ma ciò
che mi sembra importante è pensare a quella parte
come a una parte viva, logorata e dolente. Un Sé mai
cresciuto e in preda a grandi bisogni celato, come direbbe Winnicot, dentro un nucleo congelato in attesa di essere scoperto e aiutato.
Molto più tardi, dopo mesi di astinenza dall’alcol,
un nuovo, importante passaggio significativo ha avuto luogo nel momento in cui il paziente si è riferito
al suo passato esprimendosi con sentimenti di colpa
ripensando al danno di cui lui stesso si era reso vittima. Un momento di autentico contatto con il dolore
senza timore di soccombere.
Storie analoghe a quella di Sandro ci permettono
di comprendere quanto la vergogna sia un sentimento che si alimenta sostanzialmente di se stesso, a causa del fatto che il suo compagno di strada è lo scacco
subito dall’immagine di Sé. Scacco di intensa angoscia poiché l’immagine viene rimandata da colui che,
osservandoci, ci valuta e ci definisce.
Il terrore dunque è quello di esperirsi come “non
persone”, di essere cioè individui privi di significato e
di valore in quelle relazioni i cui affetti possono ritenersi, per i loro diversi destini, comunque vitali.6
Il sentimento della vergogna è sotto ogni prospettiva un affetto che segnala un “attacco traumatico alla propria identità personale, conducendo a processi
dissociativi necessari a preservare il senso di sé”.7
Il soggetto non ha soltanto il bisogno di allontanare la frustrazione che ne deriva, ma si trova anche
e soprattutto nell’incombenza di evitare un’esperienza di annichilimento. Non a caso, infatti, una via d’uscita dalla qualità annientante a carico del sentimen-
139
La vergogna come malattia dell’idealità
to della vergogna è la rabbia. Rabbia narcisistica dalla duplice funzione: segnale della profondità del danno a carico del Sé e motore perpetuo del processo di
polarizzazione e scissione contro il rischio di frammentazione del Sé.
La vergogna viene dunque per questo motivo considerata, giustamente, come “un’emozione del Sé
(nella sua globalità) più di quanto non lo sia il senso
di colpa che risulta invece essere emozione morale”.8
L’angoscia determinata dal sentimento della vergogna è per questo motivo un’angoscia che necessita
di un capro espiatorio, di qualcuno che all’esterno
funga da catalizzatore della frustrazione e ne diventi
l’artefice in termini di responsabilità.
Nella nostra epoca le patologie sono notoriamente patologie del Sé, in cui il deficit narcisistico disorienta l’individuo per il senso di svuotamento che lo
domina. La ricerca pressante di riempire il vuoto sposta il soggetto nella sua ricerca di senso esistenziale.
Il sentimento di inadeguatezza per inferiorità assume
la sua qualità di tessuto connettivo che dà forma alla
sacca di vuoto; il bisogno estremo è di uscire da quel
sentimento, di riuscire a trovare significato e valore
almeno attraverso forme di gratificazione percettivamente godibili che illudano di non essere inferiori e
inadeguati. Il sentimento della vergogna rende difficile un confronto con se stessi perché l’individuo si
sentirebbe colpevole di inferiorità e quindi annullato
sul piano esistenziale.
La tensione ideale dell’Io, normalmente motore
di sviluppo e di ricerca di senso, si trasforma in un Io
ideale tiranno, agli occhi del quale limiti e mancanze
non divengono mai nuove possibili occasioni di crescita e trasformazione, bensì difetti imperdonabili e
dunque condannabili.
La letteratura psicoanalitica e quella di natura sociologica hanno a lungo associato la colpa e la vergogna. La parentela tra i due sentimenti nascerebbe
dalla considerazione che entrambi sono associati al-
Riflessioni di clinica junghiana
8. M. Lewis (1992), Il Sé a
nudo, Giunti, Firenze,
1995.
140
Riflessioni di clinica junghiana
9. P. Mollon (2002), Vergogna e Gelosia, Astrolabio,
Roma, 2006; R. SpezialeBagliacca, Ubi Maior,
Astrolabio, Roma, 2006;
R. Speziale-Bagliacca, Colpa - Considerazioni su rimorso vendetta responsabilità, Astrolabio, Roma
1997; J. Chasseguet-Smirguel (1975), L’ideale dell’Io, Cortina, Milano,
1991.
Nadia Fina
l’ordine del giudizio. Per entrambi questi affetti si è
parlato di “malattia di idealità” e “depressione di inferiorità”.
Tuttavia concordo — perché mi sembra rilevante ai
fini della costruzione e della conduzione di un progetto di analisi — con quegli autori che rimarcano, tra
le differenze, quella che tra il sentimento della vergogna e della colpa definisce quest’ultima come
espressione dell’ordine relazionale.
Il sentimento della colpa è infatti manifestazione
di una tensione interna di tipo conflittuale in quanto
sussiste grazie a una forma di dialogo interiore con la
norma introiettata con il suo significato valoriale. Tale valore diviene garante dello sviluppo proprio in
quanto polo conflittuale con cui l’individuo deve misurarsi per una piena legittimazione di sé.
In questa situazione è dunque presente almeno
una possibilità di confronto con il “limite”; limite determinato dal riconoscimento stesso dell’alterità come ineludibile presupposto per il passaggio evolutivo
dalla sensazione di essere esposti alla sua presenza arbitrale — reale o immaginata che sia — a una interiorizzazione “dialettica” di norme che generano il sentimento di piena responsabilità.9
Colpa come responsabilità, dunque, perchè reggere il senso di colpa prelude alla maturazione soggettiva e allo sviluppo; alla responsabilità come percorso emotivo. Responsabilità che ha alla sua base la
scoperta di saper rispondere a sé e ai propri bisogni,
in un nuovo respiro di vita.
In questo modo i genitori onnipotenti muoiono,
finiscono sullo sfondo con il loro bagaglio di esseri
umani, con la loro prerogativa cioè di essere stati anche soggetti di vita e non solo oggetti affettivi. Il risultato ultimo che viene da questo riconoscimento di
“essere umani” è quello di sentirsi indubbiamente
più liberi.
Non si tratta qui di dimenticare o di perdonare
mancanze e inadeguatezze dei genitori perché né l’u-
141
La vergogna come malattia dell’idealità
na cosa né l’altra sono in realtà mai davvero possibili
nella profondità dell’essere umano.
Si tratta invece di procedere, di andare oltre assumendo la propria vita come priorità.
Anche se dolorosa per la consapevolezza delle
mancanze che hanno contraddistinto lunghi periodi
della vita infantile e adolescianziale, questa collocazione sullo sfondo dei genitori contribuisce alla riuscita del passaggio dalla ricerca di un senso di sé (e
per sé) prevalentemente ancorata al loro riconoscimento, a quello di una nuova espressione di sé pienamente autolegittimata. Una nuova capacità emotiva di ritrovarsi uscendo dalla logica di una identificazione adesiva che ha contribuito a confondere l’oggetto con il Sé.
Si esce grazie a questo passaggio da una dimensione claustrofobica e claustrofilica che inibisce il
soggetto nella sua comprensione di quanto la sua
stessa vita gli appartenga decentrando, invece, la sua
attenzione nella malsana e soffocante convinzione di
appartenenza perpetua agli oggetti primari, deprivandosi della piacevole esperienza di sentirsi parte
del mondo grazie al pieno investimento soggettivo su
di esso.
Bibliografia
Bromberg G. M. (1998), Clinica del trauma e della dissociazione,
Cortina, Milano, 2007.
Chasseguet-Smirguel J., L’Ideale dell’Io, Cortina, Milano, 1991.
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Fina N., “Un tempo tutto per noi”, relazione presentata al convegno Tempo e Memoria, nov. 2002, Palazzo delle Stelline, Milano.
Fina N., “La vulnerabilità del Sé”, in Quaderni degli Argonauti, n.
10 CIS, Milano.
Goldberg J. (1985), La colpa - Un assioma della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano 1988.
Riflessioni di clinica junghiana
142
Riflessioni di clinica junghiana
Nadia Fina
Levin S., “The psychoanalisis of shame”, in The International Journal of Psycho-Analysis, vol 52, 1971.
Lewis M. (1992), Il Sé a nudo, Giunti, Firenze, 1995.
Mollon, P. (2002), Vergogna e gelosia, Astrolabio, Roma, 2006.
Speziale-Bagliacca R. (1997), Colpa - Considerazioni su rimorso, vendetta, responsabilità, Astrolabio, Roma, 1997.
Speziale-Bagliacca R., Ubi Major, Astrolabio, Roma, 2006.
Zucca Alessandrelli C., “Il marchio”, in Gli Argonauti, n. 66 Cis,
Milano, 1995.
143
La vergogna come malattia dell’idealità
Abstract
We live in an epoch that has obliterated the feeling of guilt
in order to leave the place to the feeling of shame. The latest profoundly modifies the individual’s value system that
regulates his relation to the world. Shame is a feeling that
can delineate and underline the subject difficulties in relating to his internal world.
Inadequacy, a pervasive state for these patients that
cannot be understood in a classical analytical setting, requires to the analyst a different mental attitude.
Using case material the paper purpose is to demonstrate the tight link existing between shame and the illness of Ego ideal, and how in the analytical process the
necessary modulations indicates the necessary “technical”
modifications in the setting.
Riflessioni di clinica junghiana
145
Infanzia e adolescenza
Faut-il partir? Rester? Si tu peux rester, reste;
Pars, s’il le faut. L’un court, et l’autre se tapit
pour tromper l’ennemi vigilant et funeste,
le Temps! Il est, hélas! des coureurs sans répit…
(Charles Baudelaire)
SANGUE PSICOANALITICO E IPERCINESIA INFANTILE
Il cestino di plastica bianca ha una piccola macchia rossa, quella del sangue che mi esce da
una leggera ma bruciante ferita della pelle della mano. Non ho potuto afferrare bene il cestino, nella sua
traiettoria verso i miei occhi. Mi è un po’ scivolato
dalla mano mentre tentavo di fermarne il movimento rotatorio che avrebbe voluto colpirmi in viso e così mi sono ferito. Uno dei bordi è un po’ tagliente e
soprattutto la rotazione è stata così veloce da obbligare la mia mano a un movimento di protezione tanto rapido da non lasciare tempo al pensiero. Dovevo
pararmi la faccia e la mano ha fatto automaticamente da schermo, prima di ogni mia decisione consapevole. La ferita è venuta quindi prima di ogni lucida
scelta, oltre ogni intenzione.
Il bruciore me ne fa accorgere e si impone alla concitazione di un momento che in gran parte non solamente impedisce ogni pensiero ma anche ostacola la
presenza consapevole del corpo a se stesso. Corpo rapito in un movimento inconsulto. Senza più Instinct to
Master, per dirla con Freud. Mano senza memoria di
relazioni fondanti. Corpo dell’altro, urlante di velocità scomposta e dissennata. Di fronte al mio corpo che
arranca sui fianchi d’un pensare sdrucciolo.
In questo movimento caotico e de-simbolizzante
la mano smarrisce il suo portato rappresentativo più
essenziale. Quello di raccontare il ritmo originario
della relazione tra madre e bambino, il suono cadenzato del primo e più fondamentale degli incontri,
l’intersezione danzante degli sguardi e le prime pa-
La corsa
del Bambino
Ombra
Francesco Bisagni
146
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
role odorose di latte. Oggetto presente al neonato
per rappresentare sé col seno assente, ricostruendo
su una innata traccia sonora di tattile e olfattiva attesa il proprio potenziale di vita. Per non dire dei picchi e delle valli delle dita e dei loro spazi, e del disegno d’andirivieni che essi raccontano infinite volte.
Giocata in solitudine, la mano è anche il primo racconto di cura e di significazione nella relazione che
un neonato regala a se stesso, a fondamento d’ogni
altro vicendevole e imperfetto darsi una mano.
A sanguinare qui non è dunque solo un sottile
strato del mio derma messo allo scoperto da un bordo di plastica tagliente.
Mi alzo perentoriamente dalla sedia e con decisione, senza a questo punto poter più lasciare ombra
di dubbio, tolgo dalla mano di X-CHILD il cestino e
lo butto da un lato, con la mano sana faccio un movimento abile e lesto, questa volta molto consapevole,
afferro X-CHILD per un polso e lo stringo. Analiticamente, tento con la mano un atto di parola che
consenta altre parole. Il mio fine — analitico e non terapeutico — è di de-comprimere lo spazio, resosi
asfittico, del discorso possibile e della sua bisessualità
psichica.
Voglio fargli sentire che sono il più forte, forse che
— se volessi — potrei davvero ucciderlo. Lo guardo fisso negli occhi, duro. Lui mi guarda, trionfante. Sorride beffardo. L’attimo di collera cieca che è riuscito
ad accendere in me è una sua temporanea vittoria
che certo non si lascia sfuggire e gode di avermi piegato. Ma sono deciso a lasciarlo godere per poco. E
comprenderà di sicuro la differenza tra la rabbia e la
determinazione, tra la violenza e la forza.
Io stringo. “…bastardo…mi fai male al polso...”, dice.
Già facendo parodia d’un lamento autentico.
Rispondo, guardandolo bene dritto negli occhi:
“Sì”.
Cambia espressione. Un velo di paura.
Gli dico che mi ha tagliato col cestino, e che que-
147
La corsa del Bambino Ombra
sto non deve assolutamente succedere, che lo voglia
o no. Ora deve stare fermo intanto che provvedo al
mio taglio.
Resta immobile a guardarmi, senza dire nulla.
È ovvio che sarà per poco.
L’UOVO E LA GALLINA.
COME SI CREA UN BAMBINO OMBRA
Quindici anni fa, al momento dell’episodio che
ho appena raccontato, tratto da una qualsiasi seduta
della sua breve e inconcludente analisi, X-CHILD ha
nove anni, i capelli biondi e ricci come quelli di un
putto alato, i lineamenti delicati da miniatura, gli occhi celesti luminosi e profondi. Potrebbe essere bellissimo e dolcissimo, un vero angelo.
È un demonio di eccitazione e di furia, un serpente velenoso di capacità ricattatoria e schiavista. Incessante turbolenza di un tiranno spietato. Non dategli il potere quando sarà grande, penso spesso. Se
vi fosse un società pronta a moltiplicarne i tratti personali, di certo la vicenda finirebbe come nella Germania del ’33.
È figlio unico, perché dopo di lui i genitori non
hanno più avuto voglia di sfidare la sorte e probabilmente non hanno più avuto energie per pensare di
poter mettere al mondo qualcosa di vivo e di sano.
Depressi e intrappolati dal tiranno, frastornati dalla
sua concitazione, silenziati e impossibilitati alla quiete, non hanno fatto che pentirsi della sua nascita, maledicendone ogni nuovo giorno e ogni riapertura degli occhi al mattino, sfidati e sconfitti da lui, dannati
dal suo fermarli sul fondale della loro incapacità di
inventare vita.
Nasce e da subito piange più del dovuto, fatica a
prendere il seno, niente sembra quietarlo. Pare destinato a non trovare soddisfazione. Non pare godere dei suoi genitori, certamente loro non godono
Infanzia e adolescenza
148
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
mai di lui.
La gioia non si installa tra loro.
Forse la mamma, che ha i suoi stessi occhi lucenti
ma appena più velati d’una fatica ormai pensata senza sollievo, ha dei lutti antichi di cui non sa neppure
riconoscere la natura e quando resta incinta di lui
magari cerca un riempimento impossibile a un vuoto
remoto. Ma forse nulla del genere.
Forse il papà non voleva figli, non lo ha mai cercato un figlio. È possibile che nemmeno sapesse che
vuol dire essere padre, neppure per approssimazione. Forse ha solo dato retta alla moglie che voleva
una gravidanza. Forse ha ceduto a una pressione sociale che lo voleva genitore, dietro promessa che non
avrebbe mai dovuto occuparsi di lui. Ma poi che vuol
mai dire occuparsi? Ed ora non vi è minuto in cui il figlio non gli intasi la vita come fosse una vecchia latrina ingorgata. Ingorgarsi invece che occuparsi.
Strano destino. O forse, a distanza di quasi un decennio, non fa che spostare al passato il suo desiderio
di ucciderlo, ora, subito e per sempre. Ma forse nulla del genere.
Da subito bambino sbagliato, ostinato e oppositivo
ma soprattutto mai fermo. In-fermo. Malato e non solido. Senza fermezza ricevuta. Senza colonna vertebrale. Cade continuamente da piccolo. Cade e si ferisce. Accident prone, come si usa dire. Contusioni e
fratture a segnare un corpo impensato. E a replicarne il non senso nella mente dell’altro.
Sei colpevole delle mie ferite. Ti ferirò per sempre
ferendomi. E non comprenderai mai. Nemmeno se
mi ferirò fino a morire, come tu vuoi.
Irrequieto ovunque. Notti insonni una dietro l’altra. I vicini che si lamentano. La pediatra che non sa
che pesci pigliare. La madre con le occhiaie che sembrano bare. E seppelliscono l’azzurro degli occhi. Il
padre furente. Di voglia di fare l’amore nemmeno a
parlarne. Prima vittoria del tiranno. Divide et impera.
Inadattabile a ogni contesto. Ingestibile a scuola.
149
La corsa del Bambino Ombra
Già segnalato ai Servizi per l’Infanzia fin dalla scuola
materna. Un fallimento completo. Continuo e inarrestabile.
La diagnosi: Sindrome Ipercinetica con deficit
dell’attenzione. Facile a dirsi.
Col garbato messaggio ai genitori, implacabile
dietro il velo di ipocrisia. Vostro figlio è insopportabile. Cosa avete fatto di lui… vergognatevi tutti!
Ma qualcuno per pietà o per compiacenza dice
che è intelligente. Cosa riesca in realtà a intelligere resta
negli anni un mistero insoluto. A parte sviluppare
una incredibile abilità alla fuga e un godimento incontenibile quando riesce — come accade quasi sempre — a fregare chiunque. Astuto come Satana, qualcuno dice di lui.
Corri oggi e corri domani e finisci per vivere alla
periferia di te stesso, nelle banlieue dell’esistere. Altro
che deficit dell’attenzione…
E come si può imparare a essere attenti a qualcosa se mai si è sperimentata attenzione genitoriale? E
come possono mai genitori che vengono iterativamente deprivati dai loro bambini d’attenzione e di
normalità d’amore, veder crescere in sé capacità d’attenzione amorevole e salda?
Non si sa mai se arriva prima la gallina o l’uovo.
In tutto ciò, X-CHILD a scuola ride e picchia e
non sta nel banco, provoca e si fa costantemente intollerabile.
San Sebastiano nei cuori degli insegnanti. Il loro
modello segreto.
Gli altri bambini lo evitano. Patiscono a fatica le
sue angherie e le sue provocazioni. A fatica non meditano e non agiscono di continuo vendette, stando
al suo gioco. Confermandogli ogni giorno che questo
è il mondo. Coi loro genitori, senza mezzi termini, si
dicono contenti quando lui sta assente.
Si facesse assente dalla vita stessa nessuno se ne lagnerebbe.
Nessuno ha mai sentito la sua mancanza. E l’espe-
Infanzia e adolescenza
150
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
rienza di mancare a qualcuno ha — come è ben noto
— un rilievo narcisistico sano non secondario. Consolida il senso del valore di sé.
Terapie su terapie. Psicoterapie si intende. Fin da
piccolissimo. Tutto inutile ovviamente. Tutti fanno
finta di crederci ancora.
Nessuno pensa all’unica cosa che andrebbe pensata. Sedarlo farmacologicamente. Non certamente
in un’impostazione psichiatrica di semplice controllo
del sintomo. Ho visto lussuosi ospedali psichiatrici
americani per l’infanzia, desolanti di silenzio e di
bambini addormentati, ho ben visto con tale orrore
da non rischiare d’esser scambiato per uno che vuol
compiere simili operazioni di mutilazione.
Al contrario, penso ora a un farmaco (ma non ancora lo pensavo all’epoca dei fatti narrati), all’ interno di un’inversione provocatoriamente psicoanalitica del discorso medico e dei suoi corollari psicoterapeutici e normalizzanti. La subversion subjective, per dirla con Lacan, può richiedere atti psicoanalitici preliminari e paradossali. Iniziative dirompenti. E oggigiorno per essere sovversivi bisogna davvero raschiare il fondo del barile. Soprattutto nell’analisi dei
bambini, così pressata dalle esigenze terapeutiche — e
non di curativa significazione — a opera dell’ambiente. Almeno si potrebbe, in mancanza di meglio, tentare di mantenere col paziente e il suo contesto una
sempre utile e vecchia posizione psicoanalitica: fare
qualcosa che risulti inaspettato, non previsto, sconvolgente ed anomalo. Che rompa l’usuale. Un dribbling simbolico.
Dunque un farmaco, a cui però nessuno ha pensato. Non un farmaco per togliere parola, ma per farla praticabile e potenzialmente soggettivante.
Pro tempore. Per rendere lui più tollerabile a se stesso e aprirgli domande. Per lasciare un po’ d’ossigeno
residuo a una soggettività forse già irrimediabilmente uccisa da un sintomo troppo gravante. Per rendergli possibile davvero una psicoanalisi. Per renderlo
151
La corsa del Bambino Ombra
più sostenibile al suo contesto e far si che il contesto,
genitori in primis, trovi meno torturante, e meno stupidamente eroico, avere a che fare con lui. E dunque
per restituirgli un briciolo di altrui semplice e umana
voglia di volerlo. Vita, in buona sostanza. E non di
aspettare solo che si addormenti a fine giornata. Con
la segreta speranza che non si risvegli mai più.
Ma anche chi scrive, e che oggi non esiterebbe a
prescrivere un farmaco ben virilmente assestato come presupposto d’ogni discorso di ipotetica creazione di senso, dunque per scopi analitici e rigorosamente non terapeutici, ai tempi ormai lontani della vicenda che vado descrivendo, cadeva vittima di un
equivoco. Anche perchè era malato di una onnipotente e giovanilista, e peraltro assai epidemica, arroganza epistemologica. La quale, in giusto contrasto
con la medicale attitudine psichiatrica, predicava una
psicoanalisi presunta dura e pura e pertanto gridava
al sacrilegio alla sola idea di somministrare degli psicofarmaci ai ragazzini, in ciò certamente corroborata
dalla qualità non brillantissima degli interventi biochimici di molti colleghi psichiatri infantili, sia da
questa che da quella parte dell’Atlantico…
Chi avrà la pazienza sufficiente, leggerà presto un
mio articolo dove metterò per iscritto le osservazioni
di questi ultimi anni di lavoro, in cui a volte e per periodi limitati prescrivo io stesso psicofarmaci ad alcuni miei pazienti in analisi, bambini e adolescenti. Discuterò in questo prossimo scritto modalità di prassi,
implicazioni di transfert, risvolti concernenti l’Ideale
dell’Io e quant’altro. Ma ora non è la sede. Valgano
dunque per ora solo le considerazioni generali sull’uso analitico, in antitesi a quello terapeutico, di cui
penso possano risultare chiari i presupposti epistemologici.
Certamente la psicoanalisi non è una psicoterapia,
per le sue finalità essenziali di soggettivazione, per il
rapporto non utilitaristico del suo sapere con l’amore di transfert, per il suo lavorare nella parola e nella
Infanzia e adolescenza
152
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
capacità di torsione del simbolico sugli assetti fondamentali del Sé.
Non potendo forse trovare l’ardire di dimetterci
in massa dagli Ordini professionali che ci incatenano
in modo così ecclesiale, o di chiudere le nostre Scuole di Psicoterapia che la Legge — mettendoci paura —
anni or sono ci ha obbligato ad aprire, almeno dovremmo sempre tener presente e anche domandarci
come mai è così facile scordarlo, che il miglioramento
e la modificazione del sintomo (che spesso d’altronde se vuole si modifica da sé e poi ritorna al punto d’inizio) sono effetti collaterali di quella che dovrebbe essere solamente cura della soggettività. Fuori da qualunque prospettiva scientista. O di adattamento sociale. D’altronde però nessuno più degli analisti dell’infanzia sa cos’è la pressione collettiva a ripristinare
o creare un funzionamento che appaia a sufficienza
adeguato, silenziato, normotico. Una pressione molto
maggiore di quella che si esercita ai bordi dell’analisi di un adulto e che di sicuro in noialtri attiva difese
(anzi, concretisticamente, meccanismi di difesa) non
voglio dire ubiquitari ma certamente ben solidamente diffusi in alcune rinomate parrocchie di analisti
dell’età evolutiva.
Un certo ordine di concatenazioni difensive occorre più di sovente.
Se la difesa contro la pressione normalizzante non è
in modo palese quella della codardia non pensante,
che di fatto lascia con sottile razzismo ai cattivi organicisti l’onere di medicalizzare gli scarti del mondo
privandoli — per definizione — di mente e di soggettività, resta sempre a disposizione l’onnipotenza psicoanalitica, che d’altronde sul terreno di quella stessa codardia trova fertile humus.
Ecco dunque enfiarsi l’arroccamento in una presunta purezza del metodo, fatto che ovviamente ha
per tradizione visto gli psicofarmaci dati ai bambini
come fossero la peste, malamente usando un giusto
senso di scandalo. Mescolandosi a questo stream difen-
153
La corsa del Bambino Ombra
sivo, si somma poi l’illusione, a un tempo grossolanamente psico-terapeutica e insieme del tutto onnipotente, che qualunque condizione sindromica del bambino
possa essere affrontabile con metodo analitico — purché altissimo purissimo durissimo — a prescindere dalla possibilità realistica di soggettivazione consentita
dall’intensità e dalla pervasività del sintomo.
Ciò crea l’analista infantile donchisciotte. Per solito
si tratta di impavidi professionisti d’ambo i sessi, spesso ma non solo d’imprinting anglosassone (absit iniuria verbis!), goffamente identificati con gli o le ancestors più sacerdotali che la storia del movimento psicoanalitico possa vantare. Il lettore non si rassicuri,
poiché le specie in questione non smettono di clonare, forti di solidissime e rinomate Istituzioni.
E dunque mi spezzo ma non mi piego. Anzi il ragazzino violento, succulento bocconcino, fa l’analista
ancor più gorettianamente eroico e verginale martire e
ne esalta il senso d’un fallico incedere per le vie dell’umana disgrazia e dell’assoluto narcisistico.
Sia perciò ben inteso. Nella remota vicenda di cui
sto narrando, assolutamente nessuno poteva dirsi bastevolmente sano. Ed è da qui che si ha da partire per
riflettere, per non perpetuare errori nefasti.
La famiglia di X-CHILD si vergogna di lui. Da
sempre.
Niente relazioni con le famiglie degli altri bambini della scuola. Si sa che loro lo vorrebbero morto o
almeno molto ma molto lontano.
Niente amici, né per sé né per il loro figlio. Niente gruppo. Dei gruppi essi sono l’espulso. Nessuno ha
voglia di frequentare casa loro. È un’esperienza estenuante.
Il padre scappa e si rifugia al lavoro. Dove nessuno sa chi sia suo figlio. Preferisce tacere.
La madre va alla chetichella dal parrucchiere o al
supermercato e si accorge che chi ormai la conosce
la evita e tira un sospiro di sollievo quando si accorge
che X-CHILD non è con lei. Perché X-CHILD al su-
Infanzia e adolescenza
154
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
permercato urla, corre, ride convulso, fa gli sberleffi
alle cassiere, tira giù la roba dagli scaffali, ricatta la
madre fino allo sfinimento.
Niente tram o autobus. Anche per venire da me ci
vuole l’auto. Grossa auto fallica. Molto visibile per nascondersi meglio. Ma anche perché deve essere attrezzata con ogni sorta di intrattenimenti elettronici
per tenere occupata la piccola serpe. Altrimenti a
ogni stop lui apre la portiera e bisogna inseguirlo nel
traffico. E a Milano non è attività che possa dirsi salubre.
Subito la dolce creatura scopre che vicino a me c’è
un negozio di articoli sportivi. Ricatta la mamma e
spesso riesce a farsi comprare costosissime magliette
di calciatori. Sono quelle ufficiali e costano un patrimonio. Madre svenata. Ma si vergogna della sue urla.
E compra.
Papà non lo accompagna quasi mai da me, si vergogna troppo degli sguardi dei passanti che dopo un
po’ lo riconoscerebbero mentre aspetta sotto al mio
studio.
I miei vicini e i negozianti limitrofi che mi conoscono da anni e ne hanno viste sentite e odorate di
ogni sorta, un po’ sgomenti mi chiedono… “ ma chi è
quello lì?” col tono di chi vuol sapere quando la cura
comincerà a funzionare. Il pizzicagnolo quasi perde
la sua usuale cortesia. Il barista di fronte suda più del
solito e nasconde le sue bambine e l’algida moglie
che fa la maestra d’asilo. L’ottico, che già a suo tempo se l’era presa coi marocchini, so che medita azioni inconfessabili. Pochi metri più in là, il formaggiaio
— minoranza silenziosa — pare l’unico indifferente, avvolto com’è dai suoi effluvi.
Io sorrido, copro la mia vergogna arrampicandomi maldestro su uno scivoloso eroismo. Terapeuta in
gelida trincea con scarpe di cartone. Analista morto.
Qui giace…
La mia via diventa — come un microcosmo — la rappresentazione in sedicesimo di tutta una società sen-
155
La corsa del Bambino Ombra
za mente materna. Dunque senza principio paterno nella madre. Non sappiamo più pensare. Non sappiamo
più dar senso all’esperienza. Nutrire e delimitare.
Travolti da fatti insensati e da movimento rapido. Solo desiderosi d’espulsione. Kaputt.
Simboli perduti. Archetipi in rotta. Bambini senza
futuro, travolti dal momentaneo. Ombra.
X-CHILD potrebbe essere un extra-comunitario,
certamente è già extra rispetto alla comunità della
pensabilità e della significazione dell’esperienza, esattamente come un magrebino spacciatore o un albanese stupratore, o come un cinese schiavo e schiavista di quelli che puzzano d’aglio fabbricando paccottiglia in fetidi e affollati scantinati, o come una puttana senegalese con il fondotinta bianco spalmato
sulla faccia per cacciar via gli spiriti maligni e con loro magari anche l’AIDS.
Noi invece gli extra li produciamo così, belli biondi occhi azzurri viso d’angelo ben nutriti e firmati. XTRA-NOI.
Il nostro grave e insoluto problema è però che
questi extra nostrani dal punto di vista delle relazioni
sociali sono considerati tali solo per eccesso di quantità, non certamente per difettosa qualità della sostanza.
Ed è qui che essi inducono e potenziano la malattia
psicoterapeutica della psicoanalisi.
Vengo al punto, per tentativi ed approssimazioni.
ANTI-SENSO E USUALITÀ
DELLA PERVERSIFICAZIONE NELLA CORSA
Sotto un profilo strettamente clinico nell’analisi
dell’età evolutiva si considera la perversificazione come
una complicanza di una certa gravità, tale da rendere la prognosi più incerta, perché allontana di molto
un già remoto dolore e una già devastata gioia.
Il termine a dire il vero non mi piace, per il troppo gravame moralistico che lo condiziona. Ma alme-
Infanzia e adolescenza
156
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
no ci comprendiamo. Con esso non si intende ovviamente un concerto comportamentale relativo alla
sessualità palese (peraltro tutt’altro che trascurabile
in età evolutiva), ma certamente piuttosto un complesso di qualità di relazioni d’oggetto espresse in sovrastrutture difensive variamente assestate come corazza caratteriale più o meno irrigidita e compatta.
Maniacalità, eccitamento, disprezzo e trionfo, diniego e proiezione intensa di sentimenti di vergogna
(attinenti al senso del Sé) e di colpa (attinenti alla
fantasia intorno all’oggetto) ne sono i principali connotati strutturali.
Tentando di articolare. Si tratta di difese essenzialmente maniacali quanto alla negazione della sollecitudine vitale, conservativa e di riparazione verso
l’oggetto. L’oggetto viene anzi magicamente ritenuto
passibile d’esser riportato in vita, in una integrità tuttavia non soggettivata e che dunque infinite volte ne legittima l’annientamento, infinite volte resuscitato a opera d’un Io onnipotente. Oggetto che dunque interminabilmente può essere ucciso e crudelmente
smembrato senza alcun sentore di responsabilità.
Vengono in grande aiuto al consolidarsi di questo
schema relazionale: lo spostamento e — suo corollario —
la promiscuità, intesa come intercambiabilità e sostituibilità
veloce dell’oggetto disperso nella molteplicità, prima che si
affacci il tempo della consapevolezza sulla sorte dell’oggetto medesimo.
Si incanala qui un senso esaltato — dal passo masturbatorio — quasi assoluto e incoercibile di padronanza della vita e della morte, propria e altrui. Luciferino. Ciò per definizione non prevede che dell’Altro — e di sé parimenti — ci si debba occupare e preoccupare, o amorevolmente prender per mano e curare, come occorrerebbe per qualcosa che avendo un
valore e una potency non illimitata sia sentito come
unico e fragile, prezioso. L’Altro è sovente, e soprattutto nei bambini questo è visibile, equiparato a una
parte del corpo, eccitabile all’infinito e indefinita-
157
La corsa del Bambino Ombra
mente eccitante. Stimolante un pur precario senso di
esserci che — in una dimensione di accecante sensorialità chiusa alla dimensione del simbolico — non colma
realmente il vuoto, ma ne annulla la oscura percezione
di morte. E più facilmente appare che il fantasma terrifico concerne la morte della Madre, più che — come
ad esempio nell’autismo — il liquido sfaldarsi del Sé.
Dove dunque la morte del Sé consegue alla morte dell’oggetto. Ciò fa di queste condizioni patologiche un
complesso sindromico sostanzialmente e tragicamente
anti-depressivo, denso di riverberazioni narcisistiche,
fino a divenire ipercineticamente anti-tragico, più che in
nuce anti-psicotico. Per quel che ovviamente queste
distinzioni possono valere in una situazione dove inevitabilmente si gioca una grandissima e complessa
congerie di fattori.
Con ogni evidenza il quantum di eccitamento racconta in modo direttamente proporzionale il quale del diniego — inevitabile — dell’amore narcisistico più vivo
e dell’amorevole dedizione all’ oggetto. E naturalmente con ciò ogni lutto è fuori dall’orizzonte, per
definizione.
La vergogna si attiva e si riverbera anche in sostituzione parziale di una colpa non raccolta dalla responsabilità e dunque nutrita per via tutta inconscia.
In analogia con gli esiti dell’abuso sessuale nell’infanzia. Perché in comune c’è il disprezzo dell’Altro e di Sé in quanto Altro — per — il — Sé.
La complessità tortuosa dei movimenti proiettivi è —
insieme alla maniacalità — l’altro tratto saliente delle
condizioni che sto cercando di descrivere. Di ambedue vanno ovviamente tenute in conto, come è nel
vertice d’osservazione di questo scritto, le risonanze
sociali e le fenomenologie culturali, inclusa quella
che concerne la psicoanalisi e la sua posizione in riferimento e in opposizione ai metodi, alla prassi e ai
fini delle psicoterapie.
Come ben descrive la situazione del mio paziente
e della sua famiglia l’efficacia espulsiva e negatoria,
Infanzia e adolescenza
158
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
quanto alla vergogna, è piuttosto limitata.
Fondamentalmente solo X-CHILD, almeno per
quel che ho potuto dedurre, era in grado di operare
un massiccio diniego del sentimento inconscio di vergogna, legato alla componente nucleare di danno
narcisistico, e così pure della colpa, connessa fondamentalmente all’azione sadica di attacco all’oggetto,
il quale era sì anche rappresentante del Sé denigrato,
ma grazie alla posizione maniacale non era mai percepito in vero pericolo.
La promiscuità oggettuale, di per sé molto legata
al meccanismo proiettivo, faceva il resto. Al prezzo
certamente elevato di non potersi mai fermare, cosa
che lo avrebbe messo in contatto con la pena sconfinata della sua colpa e col senso di indegnità e di disvalore, X-CHILD poteva escludersi da ogni percezione soggettiva di dolore mentale.
Non così i suoi familiari, marcatamente catturati
nelle spire di un pesantissimo Super-Io sociale, che
evidentemente oltre che farina del loro sacco era in
sopraggiunta appesantito da tutto ciò che era scisso,
denegato e proiettato dal loro bambino.
Il contesto sociale, scolastico e ambientale in genere, facilmente poteva utilizzare questo bambino e
la sua famiglia come rappresentanti per via proiettiva
di tutto il male più cupamente incombente. Come la
metafora degli extracomunitari mi ha prima aiutato
a descrivere. E come la mancanza di mente del contesto delle persone della mia via anche adeguatamente illustra.
Come però dicevo il problema di X-CHILD e della amenza sua e del contesto è solo una questione del
troppo.
Non fa ormai scandalo che condizioni economiche e scadimento delle protezioni sociali, se non ostacolano in modo assoluto la possibilità concreta di scegliere una genitorialità, quanto meno impediscono
sempre più pesantemente alle madri una dedizione
sufficientemente libera, completa e prolungata ai lo-
159
La corsa del Bambino Ombra
ro bambini. L’esempio della società americana è certamente inquietante da questo punto di vista, dove le
madri devono tornare al lavoro pochi giorni dopo il
parto, altrimenti perdono il posto. Se pensiamo poi
alla gran diffusione delle famiglie monogenitoriali,
composte da madri abbandonate da uomini in fuga,
o da donne che supportate dalla tecnologia mettono
al mondo bambini per partenogenesi, con un netto
bypass di ogni lavoro di lutto sul loro essere, volenti o
nolenti, sole... Se pensiamo al crescere progressivo di
sacche di povertà che costringono uomini e donne al
lavoro della sopravvivenza nell’occidente opulento…
se pensiamo a questo e ad altro ancora, non possiamo non verificare l’incedere di una sindrome collettiva da deprivazione di mente materna.
E non parliamo solo di donne che — per emancipazione o per miseria — abdicano giocoforza alla più
tradizionale delle funzioni d’accudimento, da sempre a ciò preposte. Non parliamo solo di uomini lontani e non cresciuti, per connaturata povertà d’animo e materiale indigenza.
Parliamo di mondo. Mondo non dedicato alla cura
dei propri piccoli. Mondo certo fatto da quegli uomini
e quelle donne, ma che quegli uomini e quelle donne
ormai trascende e plasma a un affrettato procedere
di miseria consumante.
Uomini e donne, coi loro cuccioli, s’ammalano
così di vergogna e di indegnità. Stuprandosi e comprandosi. Vendendosi e ridendosi addosso. Scambiando per libertà la coazione a dire di sì. Facendosi
cristianamente fedeli alla centralità della colpa per
non farsi responsabili delle loro colpe. O consapevoli di quelle altrui. Vittime per godimento e per immediata disponibilità di vendetta. Illusi di innocenza
per oblio e per diniego e non più innocenti per precristiana disposizione d’animo. Imperdonabili campioni di facile perdono.
Se guardiamo attentamente i nostri bambini comprendiamo una legge non scritta.
Infanzia e adolescenza
160
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
Irridere e non sorridere. Deridere e non gioire.
Correre per non patire.
Basta non esagerare, facendo sì che sia sufficiente
il non eccedere i limiti d’un adattamento al non pensare innocuo.
Il problema di X-CHILD è solo che esagera. Nessuno domanda il senso del suo essere così. Nessuno si
preoccupa che il suo essere soggetto s’è già forse perso per sempre, senza rimedio. A nessuno importa che
coi suoi genitori faccia gruppo di marginali ben vestiti
e danarosi, più soli che se fossero appestati.
Basterebbe solo che urlasse di meno, che corresse
di meno, che non tirasse giù le cose dagli scaffali.
Che non facesse tutto quel casino in strada e a scuola, che non toccasse il culo alle vecchiette e non facesse il verso al suo analista…
Godesse pure del suo forsennato consumo d’oggetti, ma con un po’ più di discrezione! Si eccitasse
pure a trionfare annichilendo la dignità di chiunque
per non sentire la propria miseria, eiaculasse pure
mietendo vittime per affermare l’illusione del proprio potere!... ma per dio! Con un po’ più di creanza! Un po’ più di misura! … diverrebbe un uomo di
successo, magari in politica… e poi… è così bello…!
Non è per questo in fondo che lo mandiamo in Terapia?
E non è forse che perversione e perversificazione
— come io stesso ho prima adombrato — diventano e
vengono considerati sempre meno termini politically
correct? Qual è allora il nostro orizzonte del legittimo
oltre le strettoie moralistiche? A che punto e su che
cosa occorrerebbe opporre politicamente qualche
scomodo no?
PSICOANALISI E DERIVA TERAPEUTICA.
CONCLUSIONI DI FEDE
Non voglio qui certamente approfondire una que-
161
La corsa del Bambino Ombra
stione teoreticamente rilevante che in anni recenti
sta in modo fecondo occupando la ricerca in ambito
junghiano, e che di alcuni fondamenti del pensiero
di Jung rappresenta uno sviluppo potenzialmente
molto creativo. Il modello dell’Emergente.
Trattasi di qualcosa che potrebbe avere importanti ricadute concettuali anche per ciò che riguarda il
lavoro coi bambini e gli adolescenti. Non fosse altro
perché va oltre al concetto stesso di “sviluppo” e rivisita radicalmente le questioni che hanno a che fare
con le concatenazioni causali. Comprese quelle che
si rifanno a una qualche sorta di entità causale sovraordinata. Per porre l’accento invece sul declinarsi
spontaneo dell’Emergente dal suo sostrato. Dove d’altronde spontaneo non significa che avvenga in automatico o senza interlocuzione e cura. Cura dall’oggetto e dell’oggetto.
Non entrerò nel dettaglio della Teoria della Complessità che dell’Emergente è sfondo teorico, dando
per scontato che i termini della questione siano almeno a grandi linee — che è poi quello che ci interessa — noti a chi legge.
Diamo per scontati i processi neurali — che personalmente da ex medico mi affascinano ma non mi
fanno più alcuna simpatia dopo un paio di volte consecutive che ne sento disquisire — sottostanti all’emergere della mente, mente che indichiamo come
proprietà sopraveniente non più riducibile alle sue determinanti fisiche. Diamo per ovvio che siamo fatti di
materia e che tendiamo ad avere disposizione a diventare qualcosa che non più si identifica o si riduce
alla materia.
Con ciò decido: di materia facciamo a meno nel discorso successivo, non essendomi più di alcuna utilità euristica.
L’Emergente — così parrebbe — opera su una linea
di confine tra l’ordine e il caos, e caos ha da intendersi non già come un random disordinato e senza costrutto bensì come una complessità non decifrabile.
Infanzia e adolescenza
162
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
E che tale speriamo resti per sempre.
Ci piace ritenere insomma che — se non certamente da semplificate e semplicistiche linearità causali — la
mente sorga e continuativamente ri-sorga non già da
un bugliolo di informi casualità ma da una complessità di cui ci sfuggono contorni e connotati.
Intenderei dunque che a questo caos sfuggente e
complesso s’attribuisca una potenzialità genetica. È esso
da intendersi anche come intonso e puro?
Perché il caos del mio paziente prima descritto, e
quello della sua famiglia e del suo contesto sociale
(incluso quello dei miei vicini di casa) certamente
non aveva nulla di puro e di intonso, essendo anzi il
risultato d’una specie di primigenia calata dei lanzichenecchi, e certamente non mostrava più d’avere alcun germe di potenzialità generativa, come dimostra
il fatto che da quella cura analitica non è effettivamente emerso un bel niente. Non certamente e non
solo improbabili soluzioni, ma nemmeno — secondo
quello che forse sarebbe il realistico ammonimento
di Jung — un accettabile outgrown.
Così è avvenuto a causa dell’impurità di quel caos?
O un altro e generativo caos s’è asfissiato cammin facendo, anzi cammin correndo, e l’abbiamo così perduto? Resistenza globale nei confronti di un introvabile
potenziale? Cecità di transfert? Atto di parola senza
bersaglio? O parola moscia?
Si dice che l’amplificazione si pone su quel bordo
a stimolare l’Emergente. Rilevante punto, io credo.
Se infatti l’amplificazione, intesa come cura nella
parola, non è una ipnopompica conferenza in miniatura, ma un fare ampio ciò che ormai tenderebbe a rinsecchire e contrarsi nell’anidra assenza di senso… Se
non abbiamo forme ereditate in dizionari pletorici di
noiose simboliche, ma tracce di disposizioni all’incontro che la parola muta in senso e forma utilizzabili… se
dunque amplificare nutre l’Emergente e gli dà spazio… se parimenti il libero associare non si identifica
col ridurre ma con l’aprire e se l’interpretare fonda
163
La corsa del Bambino Ombra
nuove identificazioni e non solo svela antefatti… e se
e se… allora questo malanno ipercinetico è anti-amplificante, anti-parola, e come tale anti-Emergente.
L’archetipo, traccia senza rappresentazione delle
disposizioni innate poste al nucleo della formazione
complessuale, perde l’incontro con la parola che lo
renderebbe Emergente, discorso, sul bordo estremo
del caos.
Malanno — di moltiplicazione in moltiplicazione e
di corsa in corsa — non più stigma di quella donna e di
quell’uomo e di quel loro bambino. Ma di un mondo oltre a loro e di ogni bambino X figlio di quel mondo.
Malanno adatto alle psicoterapie, figlie o sorelle
bastarde della psicoanalisi. Adatto agli agiti terapeutici
e ammutolenti la parola del sintomo. E alla loro coatta
velocità. E al loro sapere utilitaristico.
Per far godere e godersi il guarire come piacevolissimo sovrappiù dell’esperienza psicoanalitica occorre
— da parte nostra — nuovamente abbandonare il furor
sanandi da cui già Freud metteva in guardia e — nonostante ciò dovrebbe essere del tutto assimilato nella prassi analitica da più di cent’anni — cominciare a
riconsiderare con rinnovato e laico rigore la differenza lenta tra benessere e adeguato funzionare. Soprattutto nella cura psicoanalitica dei bambini e degli adolescenti. Che dovrebbe essere la meno psicoterapeutica di tutte le cure. Lasciando le psicoterapie
a chi ormai ha poco o malamente da vivere.
È affare di fede? E in che misura? Confesserò a chi
non mi conosce personalmente che il termine mi genera immediati e fastidiosi pomfi orticarioidi della
mente, per remote ragioni personalissime che certo
non interessano a nessuno. Ma tuttavia il termine
tende ad imporsi.
Fede in O, come diceva Bion? Nell’irraggiungibilità della cosa in sé? Nella sua potenzialità generativa
non riducibile?
Fede nella natura poietica dell’inconscio?
Fede nel bordo sottile tra caos e ordine dove l’E-
Infanzia e adolescenza
164
Infanzia e adolescenza
Francesco Bisagni
mergente, sincronicamente, si palesa?
O fede nei bambini? Nelle loro madri e nei loro
padri, quando fortuitamente sovvertono un destino di
velocità?
Purché mi si lasci la libertà laica di non infilare
subdolamente una qualsiasi mistica psicoanalitica,
che trovo bastarda quanto la deriva psicoterapeutica
e che di questa rappresenta il limitare difensivo e la
buia anticamera, son disposto a dirmi uomo di fede.
Fede che pone il sapere e il transfert in un rapporto di reciproca e non addomesticata verità e di
produzione di effetti inattesi. Fede che possano esserci bambini e bambine, donne e uomini sovvertiti
che — fattisi responsabili e gioiosi, non più comprati
e non più venduti, non più irridenti ed irrisi, innocenti e non più facilmente perdonati — non debbano
un giorno aver più nulla di cui vergognarsi.
165
La corsa del Bambino Ombra
Infanzia e adolescenza
Abstract
The paper offers some theoretical and clinical reflections
on children affected by ADHD as a stimulus to consider
what may be defined as a deficit in the symbolizing capacity in contemporary western societies.
ADHD are commonly based on deprivative-depressive
backgrounds, less frequently are connected to psychotic
structures. In psychiatric terms ADHD could be defined as
a mono-polar manic syndrome where biological and psychological elements are aetiologically intertwined.
Social and cultural components are also involved in a
very complex way, considering what I elsewhere defined a
“society without a maternal mind” where the function of
containment is dramatically threatened.
Among many aspects involved, which have a narcissistic quality, these children suffer a deep experience of
shame and a weak sense of dignity and legitimacy to live.
Shame is commonly denied through manic mechanisms
and in many ways split off and projected. In this way no
dawn of responsibility and guilt is made possible, symmetrically to what seems to be the social functioning. Socially
hyperkinesias is regarded as tolerable insofar as it does
not exceed certain limits of adaptation, and remains within the boundaries of “innocuous” non-thinking.
I define these children “shadow children”, as representative of a suffocated subjectivity.
A clinical example is described in the paper, taken from
the analytic treatment of a latency child.
167
Infanzia e adolescenza
La vergogna
nel transfert/
controtransfert
Intendo il lavoro analitico come lo svolgersi
di un processo che riguarda il paziente e l’analista, in una relazione di cui ci interessa
soprattutto il livello inconscio.
Jung ha parlato della necessità di infezione psichica in un processo che si svolga in
un “vas bene clausum”; Fordham ha lavorato molto sulla interazione analitica, Bion ha
esaltato l’importanza di essere nella relazione focalizzando l’attenzione sulla relazione
contenitore-contenuto, la reverie, l’assenza di memoria e desiderio, per poter analizzare la relazione inconscia che si verifica nel “campo”, concetto quest’ultimo introdotto da tempo dai Baranger.
E un po’ tutte le teorie psicodinamiche mettono in
risalto l’importanza della relazione: ma è diverso il
modo in cui essa viene definita e secondo quale vertice di osservazione viene analizzata. In questo lavoro
cercherò di mettere in evidenza l’influenza reciproca
inconscia tra paziente e terapeuta. Porterò un contributo clinico per stimolare la riflessione sulle difficoltà
controtransferali che si attivano e che impediscono al
terapeuta di essere in sintonia con il paziente, poterlo comprendere e, come dice Fordham, restituirgli
quello che abbiamo capito di lui. In particolare, attraverso un esempio clinico, proverò a evidenziare la difficoltà di empatizzare dell’analista su un sentimento
di vergogna della paziente. Utilizzando, per quanto è
possibile in uno scritto, la riflessione sui miei sentimenti controtransferali, cercherò di mettere in rilievo
i motivi più o meno inconsci di questa difficoltà.
Penso che possa risultare piuttosto facile provare
sentimenti concordanti con lo stato d’animo dei pazienti in occasione di eventi gravi come un lutto importante, mentre può non risultare facile empatizzare con la disperazione di un paziente per la perdita
di un oggetto cui era affezionato, ma che per è noi
banale, o per un’evenienza della vita, per noi poco significativa, con il relativo sentimento di vergogna che
Gianni Nagliero
168
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
si prova, come succede con la paziente nell’esempio
clinico che presenterò a breve.
Ho pensato cioè di concentrare l’attenzione sulla
difficoltà dell’analista a empatizzare con aspetti che non lo
coinvolgono più di tanto e che non suscitano, all’apparenza, un particolare interesse in lui stesso.
Scrivere sul controtransfert ha sempre presentato
una certa difficoltà per gli analisti e solo relativamente tardi, rispetto alla nascita della psicoanalisi, essi hanno cercato di osservare e poi riferire anche
questi fenomeni così importanti, anzi determinanti,
nello sviluppo della relazione analitica. Ma scrivere
sul controtransfert presenta indubbiamente alcuni
problemi legati al rendere pubbliche le difficoltà che
noi incontriamo nel lavoro che facciamo. Spesso si
dice che non possiamo parlare di noi stessi per non
danneggiare proprio i pazienti: essi perderebbero fiducia in noi come persone, avrebbero difficoltà a vivere un certo e giusto livello di idealizzazione del terapeuta che consenta loro di affidarsi con sicurezza
all’altro (di solito come prima fase dell’analisi). E
questo può essere vero. Ma spesso la difficoltà a scrivere sul controtransfert è legata alla vergogna che si
prova nel mostrare le proprie lacune e i propri errori. Il processo analitico non potrebbe andare avanti,
però, se non ci fossero difficoltà ed errori, perché è
attraverso essi che si procede, sia da parte del paziente che dell’analista, nella conoscenza di se stessi.
L’analista dovrebbe cercare di non farsi trascinare
dai modelli dominanti di perfezione, e dunque dovrebbe poter rinunciare alla gratificazione narcisistica onnipotente, insita nel sentirsi considerato perfetto dal paziente. Così l’idealizzazione potrebbe essere
rivolta ad altri aspetti, quali l’umiltà di accettare i
propri limiti e di riparare.
Tutti abbiamo difficoltà a guardare i nostri aspetti
controtransferali, abbiamo difficoltà a prendere coscienza delle nostre carenze o abbiamo resistenze a
vedere tratti particolari della nostra personalità che
169
La vergogna nel transfert/controtransfert
sono sollecitati a emergere proprio nella relazione
con un dato paziente. Ma analizzare queste difficoltà
è una parte essenziale del lavoro analitico, inteso come lavoro relazionale di cui ho parlato poco sopra.
Definiamo questo indispensabile lavoro come autonalisi, perché è un lavoro che facciamo con noi
stessi, che non prevede alcuna necessità di mostrare
ad altri le nostre difficoltà e i nostri errori, i punti ciechi che compaiono nel campo terapeutico. Ma anche
l’autoanalisi deve superare il sentimento di vergogna
davanti a se stessi, ad altre parti di noi stessi, verso cui
possiamo provare un vero e proprio senso di vergogna. Come si può parlare di invidia di se stessi, così
penso si possa parlare di vergogna di fronte a se stessi. È questo tipo di “vergogna intrapsichica” che può
essere stata importante nel causare una certa difficoltà a scrivere sul controtransfert, più che la vergogna nei confronti degli altri.
Cercando di dosare le rivelazioni dei problemi
controtransferali limitandole a quelle che possano
avere un’utilità per il lavoro dei colleghi, farò delle riflessioni su un caso clinico, fermandomi di tanto in
tanto a fare le mie considerazioni teoriche.
ESEMPIO CLINICO
Quasi tutti gli elementi dell’esempio, che risale ai
primi anni della mia attività come analista qualificato, sono stati cambiati per rendere non identificabile
la persona di cui parlo.
Caterina, la giovane donna, che all’epoca di Dante sarebbe stata a metà del cammino della vita, mi fu
inviata da un collega psichiatra per una analisi.
Dopo la fine del primo incontro, nella sala di attesa, dove C. è rimasta prima di iniziare, notai un libro degli animali, (che tenevo soprattutto per eventuali attese di bambini), lasciato aperto alla pagina in
cui era illustrata una coccinella, quella rossa a punti-
Infanzia e adolescenza
170
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
ni bianchi. Poco più avanti nella terapia pensai, non
senza qualche preoccupazione, che quell’insetto fosse un po’ l’autopresentazione della paziente: un interno fragile protetto da una piccola corazza dai colori vivaci e attraenti.
La domanda di terapia, emersa nella paziente per
una situazione di sofferenza ormai datata, era ambivalente, tra il desiderio di stare genericamente meglio e lenire gli stati di angoscia di cui soffriva, e la
paura che analizzarsi significasse rompere il rigido involucro protettivo e mostrare il fragile suo mondo interno. E questo ovviamente non era poi tanto lontano dal vero. Ma le prime relazioni con la madre, intrise di sfiducia e mancanza di contenimento (o, per
chi preferisce questo linguaggio, l’attaccamento disturbato e ambivalente che aveva avuto), l’avevano lasciata in uno stato di costante allarme di fronte alla
possibilità di essere aiutata dall’altro. Dopo qualche
mese di analisi affermò di aver sempre pensato che
sua madre non era stata una buona madre. Ed era così che spesso mi sentivo nel transfert/controtransfert. Ma la richiesta di analisi, pensata da tempo e
dopo una esperienza interrotta precocemente, era
pressante e questo le rese possibile iniziare a venire.
Il lavoro analitico era pieno di aspettative basate,
per così dire, sulla fantasia riparativa che si potesse ricreare un ambiente primario di accoglienza e contenimento, annullando magicamente ogni ferita narcisistica. Anche le comunicazioni inconsce e i sogni
parlavano di fantasie di una nuova nascita. Ma spesso
affioravano prepotenti fantasie fusionali e desideri
infantili di presa in carico totale. Fantasie che, nella
mia rilettura del caso, mi avevano spaventato non poco, soprattutto per l’intensità estrema di tali vissuti,
del tipo tutto o nulla, e dunque con scarsa possibilità
di elaborazione. Nel controtransfert l’analista passava
dall’impersonare il ruolo di un genitore totalmente
buono e accogliente, come se la paziente fosse nei
suoi primi mesi di vita, al rifiuto di questo ruolo, pas-
171
La vergogna nel transfert/controtransfert
sando a una vera e propria attrazione erotica. Nel
gioco delle identificazioni e controidentificazioni
cioè si era sempre agli estremi, e analista e paziente
potevano facilmente passare dal sentirsi in una relazione arcaica fusionale a una relazione adulta erotizzata. Nel primo anno di terapia le comunicazioni della paziente consistevano, il più delle volte, in richieste di ottenere gratificazioni, attraverso la pressione
sull’analista ad agire, a fare variazioni di setting a volte insignificanti e banali, altre volte più significative:
dallo spostamento di pochi minuti dell’ora della seduta, alle richieste di un parere esplicito su un quesito di dubbia importanza o alle fantasie di essere consolata e abbracciata.
Per il tema che stiamo trattando in questo lavoro,
è interessante notare che, fin dai primi mesi di terapia (durata complessivamente tre anni), iniziarono a
emergere delle paure di essere capita troppo in profondità: da una parte C. sognava molto, raccontava i
suoi sogni ma dall’altra aveva paura di scriverli e associare perché, riferì più volte, pensava che dallo
scritto e dalle associazioni io potessi capire chissà
quali aspetti nascosti di sé, di cui si vergognava.
Dopo aver raccontato un sogno o un evento si fermava e mi chiedeva cosa ne pensassi, temendo il mio
giudizio negativo.
Anche la sua postura sul lettino rivelava entrambi
gli aspetti: la sua fragilità e il bisogno di contenimento, quando si metteva spesso su un fianco in posizione quasi fetale, nei momenti di maggiore regressione; o il suo bisogno di essere apprezzata come donna
e di sedurre l’uomo, segnalati dal tipo di abbigliamento o dalla postura seducente.
Ho sempre pensato a una grande ferita narcisistica precoce, di cui C. si vergognava con se stessa oltre
che con l’altro, che aveva portato la paziente a cercare di proteggere un suo fragile mondo interno, limitando sempre più le sue relazioni significative. La
scelta di venire in analisi costituiva un fatto nuovo
Infanzia e adolescenza
172
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
che mostrava anche l’attivazione del desiderio di una
relazione importante e il coraggio di mostrare all’altro le proprie mancanze per arrivare a mostrarle a se
stessa, ossia a prenderne coscienza.
Dopo pochi mesi di analisi iniziò a dirmi di avere
delle cose importanti da dire ma che, allo stesso tempo, non riusciva a dirmele perché se ne vergognava
moltissimo.
Si era in un periodo in cui i temi delle sedute riguardavano alternativamente la relazione da adulta
con l’analista o le prime difficili relazioni della sua
prima infanzia. Anche nei sogni la figura dell’analista
compariva in vari modi e i toni del controtransfert,
come ho detto, dal paterno-materno all’erotico.
Dopo più di un anno di terapia ipotizzerò che il
transfert/controtransfert erotico fosse, in qualche
modo, un compenso, una sorta di riparazione al vissuto di grande fragilità e insicurezza. Ma mi sembra
anche che fosse un modo inconscio, messo in atto
dalla parti distruttive della paziente e dell’analista
(sia come aspetti personali che come proiezioni e
identificazioni proiettive) per rendere inefficace il
cammino dell’analisi. Ipotizzerò anche che proprio
lo sforzo e il lavoro di contenimento e autocontenimento, quel lento, ripetitivo e a volte noioso lavoro di
ruminazione o digestione, abbia poi incoraggiato la
paziente, a “tirare fuori” anche per se stessa i ricordi
traumatici della sua infanzia. Cosa che fino a quel
momento era stata piuttosto difficile per lei (e che resterà in qualche modo sempre problematica).
Ma, dicevo, le “resistenze” al progresso nell’analisi erano sempre attive e quando poi la paziente iniziò
a ipotizzare di interrompere l’analisi chiedendo al terapeuta l’indicazione di un’analista donna con cui
poter riuscire a confidarsi, l’analista pensò a eventi,
più o meno traumatici, connessi con la sessualità.
D’altra parte poco prima e in varie circostanze C.
aveva parlato della sua grande difficoltà a parlare di
suo padre. “Non ho capito perché ho tanta paura di
173
La vergogna nel transfert/controtransfert
parlarne… ma forse lo saprò dopo”. E la seduta seguente esordisce con: “Sono venuta con l’intenzione
di parlare di mio padre… sì… avrei dovuto dirle qualcosa anche l’altra volta… solo che non mi viene naturale… credo di essermi imposta di dirle questo l’altra
volta… c’erano delle cose che volevo dirle e non ci sono riuscita… e su questo rapporto con mio padre ho
pensato un pochino in questi giorni”. Ma poco dopo
aggiunge: “Non credo di avere dei ricordi”.
Come è mia prassi considero le comunicazioni
della paziente come derivati che hanno certamente a
che vedere con il rapporto con me. Cerco dunque di
arrivare a capire il senso di tali comunicazioni, e in
particolare il tipo di rapporto da lei descritto come
un derivato del rapporto che si svolge tra noi in seduta. Ipotizzo dunque che lei stia parlando anche
delle difficoltà di parlare e vivere il rapporto con me,
o il rapporto della sua parte bambina e regredita con
un padre da cui è attratta e con cui non riesce a sentirsi sicura e ad avere fiducia. Ipotizzo anche, e ne farò qualche cenno più avanti, che i miei problemi
controtransferali nell’accettare questo tipo di relazione primaria, possano aver inciso significativamente sulle difficoltà di C. a comunicare il suo “segreto”.
Nonostante tutte queste difficoltà, Caterina continuava a venire e iniziava a portare nuovo materiale,
in particolare iniziava a parlare sempre di più del suo
desiderio di relazione con me o a esternare vissuti di
transfert negativo nei miei riguardi, e, anche se in
modi piuttosto riservati e inibiti, delle sue esperienze
sessuali. Aumentarono anche, come abbiamo visto
nelle sue frasi, gli accenni al “segreto” che la paziente avrebbe voluto rivelare, anche per liberarsi dal suo
peso angosciante, ma di cui continuava a vergognarsi enormemente.
A parte altre considerazioni sul controtransfert, i
suoi accenni al segreto fatti in coincidenza con gli
accenni alle difficoltà di parlare della relazione con
suo padre, mi portavano a ipotizzare una relazione
Infanzia e adolescenza
174
Infanzia e adolescenza
1. Ritengo che ci sia stata
anche una “ipersensibilizzazione”, a volte interessata a creare spazi di potere, a scapito proprio dei
pazienti. Vedi il mio lavoro: “Ascolto del bambino
abusato: tra necessità legali e bisogni terapeutici”, Psicoanalisi e Metodo,
Ed. ETS, Pisa, 2004.
2. J. Herzog (1984), “Fathers and young children: fathering daughters and fathering sons”.
In: J. D. Call, E. Galenson, R. Tyson (a cura di),
Foundations of Infant Psychatry. Basic Books, N.Y.,
vol. 2, pp. 335-343. Le citazioni sono da S. Akhtar,
“Le prime relazioni e la
loro interiorizzazione”, in
Ethel S. Person, Arnold
M.Cooper, Glen O. Gabbare (a cura di) Psicoanalisi, R. Cortina, Milano,
2006.
Gianni Nagliero
incestuosa.
Si era anche nel periodo in cui si parlava molto di
abusi sessuali e non escludo che anche questa sorta
di pressione sociale a rilevare gli abusi subiti dai pazienti possa avermi “sensibilizzato” a tenere presenti
questi aspetti.1
Fatto sta che quando la paziente diceva: “ci sono
cose che non riesco a dirle…” oppure: “ho paura di
quello che lei possa pensare… “forse è il caso che io
non venga più… perché penso che certe cose non riuscirò mai a dirgliele… forse fra un po’ di tempo ci
riuscirò… magari con un’analista donna”, io pensavo
proprio a un incesto o a una violenza sessuale.
Vorrei interrompere l’esposizione del caso e mettere in evidenza due aspetti che emergono in questa
prima parte di materiale clinico.
Nella riflessione sul mio percorso analitico con
C., ho molto riflettuto sulla particolare natura della
nostra relazione transferale/controtransferale e, come è mia prassi, ho cercato di non attribuire solo al
paziente o solo all’analista le difficoltà, le mancanze
o anche i buoni risultati di un lavoro analitico. Ed è
in questo senso che espongo le mie considerazioni
seguenti.
La prima considerazione riguarda l’intensa pressione cui venivo sottoposto nel controtransfert, pressione di cui mi renderò più conto a posteriori, quando rivedrò le sedute. Mi sembra che tale pressione
sollecitava un mio comportamento, frequente nei
rapporti tra padre e figlio, descritto da Herzog,2 che
ha studiato la differenza tra la sintonizzazione della
madre con il bambino rispetto a quella del padre.
Le considerazioni che sto per fare non sono forse
del tutto appropriate alla teoria e prassi analitica: devo dire che non ci ho riflettuto molto, ma sono stato
molto interessato a esse perché mi hanno consentito
di osservare, da un vertice particolare, quello che accadeva nella relazione con Caterina. Ovviamente in
questa sede farò solo alcuni accenni che però posso-
175
La vergogna nel transfert/controtransfert
no permetterci di ipotizzare alcune conclusioni sul
perché della vergogna e sul senso che essa assume
nella particolare relazione transferale/controtransferale con me.
Dunque Herzog distingue l’interazione madrebambino come favorente la continuità del gioco del
bambino (“sintonizzazione omeostatica”), mentre
quella padre-bambino (quando non è presente la
madre), come rottura rispetto al gioco (“sintonizzazione dirompente”). La prima alimenta il senso di sé
del bambino, la sua sicurezza di trovare una conferma nella madre, la seconda proietta il bambino fuori
dal rapporto primario per aprirsi a nuove esperienze,
ma interrompe il tema del gioco del bambino.
Mi ricorda il discorso di Fordham3 che ipotizza,
fin dai primi momenti di vita, una dinamica deintegrativa, che permette al bambino l’incontro con il
mondo fuori di sé e dunque anche nuove esperienze,
e una dinamica reintegrativa, (l’allattamento ne è il
tipico esempio) in cui il bambino si rassicura e si contiene nel rapporto con la madre.
Sappiamo che entrambi questi aspetti sono necessari per un sano sviluppo del bambino, ma dobbiamo considerare come tempi e modi del loro accadere, possano definire, in senso positivo o negativo, l’uno o l’altro.
Nel caso della mia paziente ho realizzato che quando lei portava comunicazioni o richieste di contenimento primario, e si aspettava una risposta di sintonizzazione omeostatica che servisse a confermarle la
presenza di un ambiente materno contenente, l’analista operava, attraverso domande, commenti o interpretazioni, una sorta di “sintonizzazione dirompente”.
Questo fatto portava la paziente a cambiare argomento, a non poter sperimentare un senso di sicurezza infantile che le permettesse di rivelare i suoi segreti senza paura di essere svalutata, ferita. Anzi, nel momento
in cui l’analista proponeva un cambiamento di campo, lei probabilmente sentiva non confermati proprio
Infanzia e adolescenza
3. M. Fordham, “Integration-Deintegration in infancy”, in M. Fordham et
al (Edited by), Exploration
into the self, Vol. 7, The library of analytical psychology, Academic Press, London, 1985.
176
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
i suoi bisogni primari e non poteva rivelare il suo segreto a una persona percepita come inaffidabile.
Ma, come quasi sempre fanno i pazienti, la responsabilità di queste difficoltà nella relazione, veniva attribuita esclusivamente a se stessa, alimentando
ulteriormente il proprio senso di insicurezza e di colpa e la vergogna di fronte all’altro.
Per sintetizzare quanto detto mi sembra che non
riuscissi a comportarmi come analista quanto piuttosto come un padre che sollecita, inconsciamente, la
figlia, a “cambiare gioco”, a cambiare argomento per
non restare in quello, angosciante, che propone lei.
Vedremo più avanti, dopo aver svelato il segreto,
quali aspetti della relazione controtransferale potessero essere la causa di questa difficoltà della paziente
ad affidarsi all’altro.
Quando Fordham descrive l’analista come “non
umano” penso intenda esattamente questo: riuscire a
restare nella dimensione analitica e non farsi trascinare nelle relazioni e nelle modalità di comportamento umane. Nella vita normalmente cerchiamo di
evitare l’angoscia, nell’analisi cerchiamo di tollerarla
e coglierne il senso. Torneremo su questo.
Il secondo aspetto che vorrei enfatizzare, prima di
riprendere la illustrazione del caso, riguarda la reazione inconscia dell’analista al vissuto della paziente
sul segreto, ossia la possibilità o meno di essere sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda del paziente.
Qui vorrei tornare a segnalare che la “non umanità” dell’analista è forse quello che permette di poter
comprendere l’imbarazzo, il dolore mentale della paziente e, dunque, come proprio questa caratteristica
di reagire non umanamente può permettere all’analista di comprendere a fondo la vergogna della paziente. Non si tratta di una contraddizione in termini
o di un facile gioco di parole; sono convinto che l’affermazione di Fordham, non accattivante al primo
impatto, rappresenti invece una chiave importante di
lettura del modello di relazione analitica; e in parti-
177
La vergogna nel transfert/controtransfert
colare offra un parametro importante di valutazione
delle nostre reazioni nel campo terapeutico. Credo
che Fordham voglia mettere in evidenza la contraddizione tra la modalità umana di fare l’analista (dove
per umano intendo la reazione spontanea di un essere umano di fronte a un certo evento) e la modalità analitica, l’astinenza e l’importanza data all’elaborazione mentale, piuttosto che all’agire.
All’inizio parlavo della facilità con cui si può “empatizzare” con un paziente che ha perduto una persona cara, e della difficoltà che si può avere invece a
empatizzare con vissuti più personali, come l’imbarazzo per alcune proprie caratteristiche fisiche che
per noi non costituiscono un problema.
Penso ad esempio alla difficoltà di condividere il
dolore mentale di una ragazza che si vergognava del
proprio aspetto fisico e passava ore a nascondere, con
un trucco pesantissimo, la propria faccia e le proprie
forme definendosi terribilmente brutta e insignificante, quando, “umanamente” mi sembrava invece
una ragazza bella e originale. Allora diventa indispensabile, per empatizzare con un vissuto del genere, che
il terapeuta cessi di usare i suoi parametri umani di riferimento e indossi i panni dell’analista, di colui che
è cioè chiamato a patire, qualitativamente, le stesse
angosce della paziente per cogliere il senso inconscio
del sentirsi brutta e cercare di andare in fondo a questo sentimento di vergogna e di sofferenza.
D’altro canto la relazione analitica e la pratica
analitica hanno ben poco di umano: si tratta di una
relazione estremamente intima tra due persone che
non devono conoscersi, che decidono di vedersi un
certo numero di ore a settimana, in una certa stanza,
e farsi governare da una serie di regole, chiamate setting, che spesso sono almeno piuttosto strane. È una
situazione artificiosa, creata ad hoc, con lo scopo di
fare analisi.
In una situazione come questa, che penso sia chiara per tutti, non si possono poi avere dei comporta-
Infanzia e adolescenza
178
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
menti che rientrano invece nella normalità della vita.
Nella vita di tutti i giorni non incontreremo quasi
mai qualcuno che ci fa notare di essere arrivati a un
appuntamento con due minuti di anticipo o di ritardo, anzi, ci dirà di non preoccuparci, che non è un
problema, proprio per evitare il nostro imbarazzo. Saranno in pochi a metterci in condizione di parlare, fin
dal primo incontro, di eventi personali dolorosi o scabrosi, ecc. Un analista, invece, dovrà rinunciare a queste consuete modalità di comportamento e cercare di
entrare, per quanto possibile, nel mondo poco conosciuto dei sentimenti, delle emozioni, delle reazioni
corporee a essi intimamente legate. Tutto ciò, per poter essere intimamente presente al senso di disperazione per la bruttezza (inesistente agli occhi del mondo) di una sua paziente, per ammalarsi, come dice
Jung, della stessa malattia di cui soffre la paziente, per
cercare di contenere, elaborare, digerire proprio questo tipo di dolore mentale e dargli un senso per arrivare a una restituzione detossificata.
Questo tipo di funzione analitica può restare viva
solo all’interno di un setting stabile di riferimento. In
mancanza di tale stabilità saremmo facilmente portati a comportarci “umanamente”, a dire cose che il senso comune, le convenzioni, i nostri rapporti sociali ci
spingono a dire ma che il paziente si sente dire dovunque, e che non gli portano altro giovamento che
una consolazione momentanea. Quante volte alla ragazza che si percepiva brutta i parenti, gli amici, gli insegnanti avranno tentato di dire quanto invece era
bella? Ma senza risultato alcuno, come quando si
sprona una ragazza anoressica a mangiare… Lo scopo
del nostro lavoro analitico dunque non è quello di lenire i sentimenti negativi, né tantomeno nasconderli
o non prenderli in considerazione. Il setting stabile favorisce proprio l’emergere dei sentimenti negativi
perché offre un ambiente contenitivo e sicuro. Ma il
setting sicuro, come diceva Michele Pignatelli di Cerchiara scrivendo sulla strutturazione del setting, non
179
La vergogna nel transfert/controtransfert
piace a un buon numero di analisti proprio perché favorisce l’emergere di angosce importanti.
“Un altro fattore sta nella paura che molti terapeuti provano per le parti più regressive e psicotiche
della personalità sia propria che del paziente — parti
che emergono soltanto in presenza di una strutturazione del campo sicura e solida, per cui essi inconsciamente tendono ad alterare il campo per evitare
tali pericolosi approfondimenti”.4
I pazienti però frequentemente riportano la sensazione di contenimento percepita in un setting stabile mentre, al contrario, riferiscono di non sentirsi
sicuri in un setting labile. Un brevissimo flash per
chiarire cosa intendo, attraverso le parole di una tardo adolescente.
La ragazza, venti anni, al suo primo incontro con
me per concordare l’inizio di una psicoterapia analitica, riferì di avere seguito una psicoterapia settimanale presso una ASL, per oltre un anno. Racconta,
con un senso di disperazione penosa pur se contenuta, che la precedente terapeuta (una analista qualificata in un’associazione riconosciuta) le dava diverse
buche e che, spesso, invece che alle 8.30 la vedeva almeno un quarto d’ora dopo, e lei doveva correre per
non far tardi a scuola…e non sapeva mai bene a che
ora iniziavano. La percezione di questa ragazza era
chiaramente di un contenitore bucato o non stabile,
un contenitore che non permetteva di affidarsi e fidarsi. Un contenitore che non le permetteva nemmeno di piangere: “mi scusi se piango”, mi disse in quella stessa occasione, “ma non ne posso fare a meno” e,
a fine incontro, mi ringraziò per aver potuto piangere senza che io le dicessi di non farlo, di calmarsi, di
stare tranquilla, come faceva la collega… Ma, in oltre
un anno di tale terapia, la paziente non aveva mai
confidato alla collega, che aveva subito un abuso sessuale intrafamiliare continuo fin dalla tenera età. Perché probabilmente, non aveva mai percepito di essere in una situazione adeguatamente contenente.
Infanzia e adolescenza
4. M. Pignatelli di Cerchiara, “L’inizio dell’analisi e la strutturazione del
setting”, Dispense dei corsi
AIPA, non pubblicate,
Roma, 1984.
180
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
Un po’ come la mia paziente Caterina con cui evidentemente non sono riuscito (non siamo riusciti),
per un certo tempo, a costruire un ambiente che permettesse la comunicazione del segreto.
Dunque man mano che andavamo avanti, sempre
più spesso Caterina faceva allusioni a questa cosa
bruttissima, di cui si vergognava enormemente, che
mai pensava di poter dire ma che, allo stesso tempo,
sapeva di dover dire, a me o un’altra ipotetica analista donna.
Nonostante cercassi di non far correre la mia fantasia in modo troppo indirizzato, spesso, come ho
detto, mi veniva in mente che anche lei avesse subito
un abuso sessuale.
La rivelazione del segreto avvenne dopo circa due
anni dall’inizio della terapia.
Con molta sofferenza, lunghe pause, e veramente
un grande senso di vergogna e disistima, Caterina mi
disse di essere stata bocciata a scuola.
Qui vorrei parlare delle possibilità/capacità di
empatizzare con eventi che colpiscono in modo diverso l’analista e il paziente.
Ho citato altre volte in alcuni seminari questo
flash clinico, come esempio per convalidare l’ ipotesi che è la realtà psichica del paziente, non il nostro
parere, che conta di più in un lavoro analitico. Per la
paziente la bocciatura è “il” trauma, quello che lei ritiene le abbia rovinato la vita.
Noi potremmo dire che forse non è proprio così,
che la bocciatura ha rappresentato un qualcosa che
può aver fatto traboccare il vaso, che alla base dell’angoscia che ha portato la paziente in analisi non
può esservi “solo” una bocciatura a scuola....Noi possiamo fare le nostre fantasie e associazioni, ma dobbiamo cercare di capire il senso che hanno per noi,
per distinguerlo dal senso che hanno per il paziente.
Guardando dentro noi stessi potremo sperare di trovare l’origine delle nostre angosce o dei fattori di evitamento delle angosce che da sempre abbiamo avuto
181
La vergogna nel transfert/controtransfert
e che forse abbiamo cercato di negare. La distinzione
tra gli aspetti che sono nostri e quelli che sono del paziente è uno dei compiti più difficili dell’analista,
proprio perché il lavoro analitico richiede la disponibilità all’infezione psichica, ad ammalarsi della stessa
malattia del paziente. Poi dobbiamo però poter distinguere e riconoscere quanto dell’uno e dell’altro
ci sia in una data problematica. Dobbiamo essere capaci di attivare una nostra funzione che osserva la relazione analitica anche dal di fuori. Per questo è necessario un lavoro di “controllo” o di supervisione
con un collega o anche di autosupervisione. Ma dobbiamo partire dal fatto che noi lavoriamo per aiutare
il paziente, e, sebbene il lavoro su noi stessi faccia
parte del lavoro analitico, dobbiamo sempre pensare
che la realtà psichica di cui tenere primariamente
conto, è la sua e non la nostra.
Se dunque la mia paziente riferiva di essere angosciata per qualcosa che aveva vergogna a dire, e questo qualcosa era la bocciatura, per me questa deve essere la realtà da cui partire per aiutarla. Se svalutiamo
questa realtà della paziente, non facciamo altro che
svalutare lei, non facciamo altro che una ulteriore
forma di violenza psicologica sulla paziente stessa.
Bion dice che “…nella stanza d’analisi per ‘imbarazzo’ si intende dolore mentale”.5 Penso che quando parliamo di vergogna, esprimiamo proprio un imbarazzo per le parti interne di noi che riteniamo più
fragili.
Anche il termine vergogna, un po’ come “imbarazzo” e un po’ come “ansia”, sono, sempre secondo
Bion nello stesso passaggio, svalutati, ritenuti banali,
non presi in considerazione. Bion ci segnala che tali
termini, nell’uso che ne fanno i pazienti, assurgono a
un ruolo molto importante e definiscono un dolore
mentale.
E dolore mentale era quello che torturava la paziente, perché — ipotizzo — la bocciatura si inseriva in
una problematica di crescita e di sviluppo. La boccia-
Infanzia e adolescenza
5. W. Bion, Seminari Tavistock, Borla, Milano 2007,
p. 108.
182
Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
tura, per il periodo in cui si era verificata, alle soglie
dell’adolescenza, esprimeva un giudizio pesante da
parte dell’adulto-insegnante, e cioè che C. non fosse
pronta a diventare donna. Possiamo anche pensare
che l’insegnante sia stato per così dire, la longa manus della parte scissa della paziente che aveva paura
di accedere all’età adulta. D’altra parte tutti i suoi
racconti sulle difficoltà di contenimento o sull’attaccamento disturbato del primo anno di vita, davano
anche un senso a queste paure, in quanto C. non si
sentiva sufficientemente sostenuta per l’acquisizione
di un ruolo adulto. In particolare riferì che suo padre non aveva mai partecipato all’educazione dei figli e demandava questo ruolo unicamente alla moglie. In un’altra occasione C. riferì di non essere stata mai abbracciata dal padre, facendo ipotizzare problemi edipici mai risolti e illuminando con una luce
più chiara le difficoltà del transfert e controtransfert
di cui ho parlato. Quasi cioè che, bocciata al passaggio all’adolescenza, essa non avesse altra strada che
fare un salto direttamente all’età adulta che prevede
la conquista della sessualità.
Vorrei ora soffermarmi sul il vissuto controtransferale rispetto all’importanza del segreto, al peso dato, nel controtransfert, alla vergogna della paziente
per il fatto rivelato.
Dopo la rivelazione del segreto la mia prima sensazione fu di delusione e di rabbia: come si fa, pensai,
a stare tutto questo tempo su un segreto così “banale”? Mi sarei aspettato un evento più significativo e
grave, perché tutto questo problema per una bocciatura? E cosa c’è da vergognarsi tanto per un evento
del genere? E, conseguentemente, cosa c’è dietro
una mia reazione del genere? Perché svaluto l’accaduto e il grande imbarazzo provato nel raccontarlo?
Noi che facciamo questo lavoro “sappiamo” che
quello che noi avvertiamo, che percepiamo, che pensiamo entra inconsapevolmente nel mondo relazionale della stanza di terapia. Si tratta di fenomeni si-
183
La vergogna nel transfert/controtransfert
mili, dalle prime osservazioni di Freud sui fenomeni
transferali e l’associazione libera, all’identificazione
proiettiva kleiniana, all’empatia e al contenimento di
Bion, e all’infezione psichica junghiana. Non abbiamo “prove scientifiche” per dimostrare questo passaggio, non numeri e diagrammi, non prove di efficacia da toccare con mano, che vanno tanto di moda
oggi. Ma “sappiamo” che il nostro metodo di lavoro
si base su forme di conoscenza diverse da quelle
obiettivabili e rilevabili con strumenti e test vari. E
finché non sarà trovata una qualche forma più chiara che ci porti le prove appunto di questa contaminazione, di questo passaggio di informazioni da una
unità psicosomatica all’altra (cosa auspicabile ma
non necessaria per il nostro lavoro attuale), noi dobbiamo continuare a esercitare la nostra funzione di
analisti continuando a credere nel nostro lavoro e a
cercare le prove della sua efficacia attraverso gli strumenti che utilizziamo come analisti e non come
“scienziati” di scienze che usano parametri diversi dai
nostri. Anche se qualcuno storce il naso perché tutto
ciò implica un livello di fiducia o fede nel lavoro che
facciamo e a cui ritengo che non dobbiamo rinunciare. Il nostro sapere si basa sull’esperienza dell’incontro in cui paziente e terapeuta si influenzano reciprocamente (pur se con ruoli diversi), sulle conferme o disconferme inconsce che appaiono nel materiale portato dal paziente, e sulla riflessione, a posteriori, su quello che è “accaduto” in seduta.
È in questa linea che presento questo lavoro e che
espongo la mia riflessione su questo caso.
Le mie prime riflessioni si fermano dunque su
questi fenomeni: cosa è accaduto nella relazione con
la mia paziente nel corso della prima metà della terapia?
Abbiamo visto come si fosse creata una sorta di
scissione tra un vissuto transferale/controtransferale
di cure materne primarie e un vissuto di erotizzazione. Ho ipotizzato che questa sorta di scissione si fos-
Infanzia e adolescenza
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Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
se verificata anche per il mancato sostegno genitoriale alle fasi di sviluppo della paziente. Noi qui ci siamo
soffermati soltanto sui ricordi della paziente che riferisce una infanzia di mancato rapporto sia con la madre che con il padre e sui problemi insorti in fase primo-adolescenziale; fase in cui l’iniziale sviluppo verso l’età adulta è stato svalutato e scoraggiato sia attraverso alcuni atteggiamenti del padre che non credeva a quello che gli diceva Caterina (come in occasione di una prima esperienza di conoscenza sessuale
tra ragazzini quando C. venne colpevolizzata e aggredita dal padre, che credette alla versione dei fatti di
conoscenti e non quella della figlia), sia dall’episodio
della bocciatura.
Nel trasfert/controtransfert si sono alternativamente verificati momenti o periodi in cui l’analista
veniva percepito (e si sentiva “spinto” a essere) un genitore solo buono e accogliente, tipico delle primissime fasi della vita infantile, o un amante appassionato dell’età adulta. Il “territorio di mezzo” non era
quasi mai esplorato, e per C. non era facile arrivare a
quell’incontro tra gli opposti che avrebbe potuto
consentirle di mettere insieme i vantaggi e svantaggi
dell’essere adulta e bambina. Specularmente per il
terapeuta non era facile integrare questi due momenti e il lavoro analitico procedeva con difficoltà. E
qui vorrei affrontare la domanda sul perché l’analista
abbia svalutato dentro di sé l’importanza del segreto
rivelato, ossia abbia svalutato l’importanza del dolore
mentale connesso alla vergogna per aver subito una
bocciatura a scuola.
In altri termini, si può dire che l’analista non è stato in grado di empatizzare con il dolore mentale della paziente per questo evento.
Per l’analista, inizialmente, non è stato facile empatizzare con la paziente perché riteneva che essere
bocciati a un esame, pur non essendo piacevole, non
può essere considerato qualcosa di cui vergognarsi
per tutta la vita, soprattutto dopo aver conseguito ti-
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La vergogna nel transfert/controtransfert
toli di studio ed essere arrivati a una carriera lavorativa di soddisfazione come nel caso di Caterina. Ma non
era facile per me empatizzare su un fatto che, proprio
per averlo subito, lo ritenevo, in modo più o meno difensivo, un evento non così importante nel condizionare gli studi, il lavoro e la vita intera di una persona.
Allora oggi penso che quello che si è inconsapevolmente attivato in me, nella relazione con lei, sia
stata una sorta di svalutazione dell’evento bocciatura,
per non riattivare un dolore mentale e un’angoscia
vissuti all’epoca della adolescenza e non adeguatamente elaborati. La fantasia dell’analista che l’angoscia della paziente per una bocciatura è “banale”,
equivale a definire irrilevante per lei, e perciò anche
per se stesso, questo episodio.
Questo tipo di stato d’animo o di vissuto nella relazione terapeutica non permette alla paziente di sperimentare un ambiente contenente, stabile e sicuro,
che le possa permettere di affidare il suo dolore mentale per la bocciatura a qualcuno in grado di riviverlo,
contenerlo, digerirlo e restituirglielo detossificato.
Forse questo ha a che vedere anche con quello
che afferma Jung quando dice che un analista non
può portare il paziente più avanti del punto che ha
raggiunto lui stesso.
D’altro canto il lavoro sul transfert/controtransfert consente anche all’analista un lavoro su se stesso, utile per sé e per il paziente. La rivelazione del segreto che finalmente la paziente riesce a fare in un
ambiente che pian piano è diventato più contenitivo
conferma l’utilità e l’efficacia del lavoro sul controtransfert, che ha reso possibile la formazione di un
contenitore più accogliente. E nel momento in cui la
paziente può superare la vergogna della rivelazione
anche l’analista si rende conto di essersi concesso di
pensare e dare un nome alla propria vergogna.
Infanzia e adolescenza
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Infanzia e adolescenza
Gianni Nagliero
Abstract
The analytic position is seen as a transference-countertransference work and the necessity for the analyst to
analyse his own personal life events, so to become empatic towards the patients life events and
Is then emphasized the importance of keeping in mind
and analyse the link between the patient’s present experiences and the precocious infantile experiences, as reported in the clinical case.
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Infanzia e adolescenza
PREMESSA
Colpa
e vergogna
nel vivere
con l’HIV
Il tema della colpa è particolarmente
complesso e molti scritti illustri lo hanno affrontato da vari vertici. Se si pensa poi a come la colpa si possa intersecare alla vergogna, ci rendiamo conto che il discorso si arricchisce e si complica in misura esponenziale.
Alessandra Guarino Amato
In questo scritto intendo quindi affrontare la questione della colpa e della vergogna elettivamente in relazione al tema dell’infezione da HIV
(Human Immunodeficency Virus) e in particolare
per ciò che concerne il bambino infetto o malato. È
comunque importante specificare che l’AIDS pediatrico nella quasi totalità dei casi è una malattia familiare che, come tale, coinvolge in misura diversa più
componenti di uno stesso nucleo, aumentando la
complessità della sua gestione non solo da un vertice
organico, ma anche e soprattutto, sul piano del contenimento del dolore psichico e dell’angoscia che
inevitabilmente attiva. Questa malattia ha avuto, negli ultimi 20 anni, una vasta eco anche in Italia e molti sono stati i casi segnalati anche nel nostro paese.
Certamente la frequenza e la prevalenza dell’infezione da HIV in Italia non è paragonabile a quella che
si registra nei paesi in via di sviluppo (dove l’infezione, la malattia e la mortalità hanno dimensioni davvero sorprendenti), ma il suo “peso” in termini psicologici è elevatissimo. Se è intuitivo che l’AIDS (Acquired ImmunoDeficency Sindrome) ha una componente di dolore psichico inimmaginabile, questo è
ancora più intenso nel caso sia il bambino a essere
contagiato. La gestione dell’infezione pediatrica da
HIV ha subito in questi anni un andamento particolare. Infatti, dopo aver affrontato l’emergenza AIDS
pediatrico da un vertice esclusivamente organicista e
aver garantito (almeno nei paesi industrializzati) una
sopravvivenza e una qualità di vita sufficientemente
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Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
buone, ci si è trovati ad affrontare la malattia anche
nelle sue componenti psicologiche che necessariamente si vanno a intrecciare con l’eventualità di psicopatologia familiare preesistente al contagio.
Nei paragrafi che seguono cercherò pertanto di
fornire un quadro della malattia in ambito pediatrico, almeno per quella che è stata la mia esperienza
nell’ambito dell’Ospedale A. Meyer di Firenze. Dal
1991 (anno in cui ho iniziato a occuparmi di HIV pediatrico) a oggi la questione dell’HIV pediatrico è
molto cambiata — e migliorata — in relazione al mutamento di numerose variabili. Tali cambiamenti non
hanno però riguardato i temi della colpa e della vergogna che ancora, pesantemente, interferiscono con
una malattia di difficilissima gestione e di grande impatto emotivo.
Un’esperienza “pionieristica”
Quando nel 1994, da giovane analista in formazione, mi fu chiesto di occuparmi della psicoterapia
dei bambini con HIV/AIDS che afferivano all’ospedale in cui portavo a termine la mia specializzazione
in Pediatria (Ospedale Pediatrico A. Meyer - Firenze), ebbi necessità di riflettere a lungo.
Fu importante interrogarmi sul mio vissuto rispetto a una patologia che in quel tempo era considerata
la “peste del secolo”. L’AIDS evocava infatti molti fantasmi difficili da gestire e non esisteva in Italia nessuna esperienza precedente in ambito psicoterapico a
cui far riferimento. Le problematiche dei bambini
sieropositivi erano completamente nuove, i loro vissuti sconosciuti e l’aspettativa di vita un grande punto interrogativo. Non avevo statistiche a cui appigliarmi, né libri o articoli che riportassero cosa mi
potevo aspettare.
Tutti noi medici (e anch’io come psicoterapeutapediatra) eravamo intimoriti e contagiati dall’idea di
una loro morte imminente. In quegli anni effettiva-
189
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
mente la mortalità era davvero alta (Dianzani 2004)
e ciò rendeva oltremodo difficile qualsiasi intervento
terapeutico: non era semplice prendersi cura di questi piccoli pazienti.
Quell’anno una bambina aveva avuto “difficoltà”
nell’essere ammessa alla scuola elementare nel sospetto che potesse essere infetta: il padre e la madre
erano stati tossicodipendenti ed erano morti da poco
a qualche mese di distanza l’uno dall’altra. Il primo
giorno di scuola tutti i genitori non avevano mandato i loro bambini (per paura e protesta) e lei si era
trovata completamente sola in classe, in una atmosfera greve e surreale.
In quello stesso periodo si erano create in Toscana situazioni di analogo sospetto riguardo ad altri casi, tanto che certi istituti avevano addirittura richiesto
ad alcune famiglie di portare il test dell’HIV per poter iscrivere il bambino a scuola (cosa assai grave e illegale!).
Fu proprio in quella occasione che i medici iniziarono a interrogarsi su quali fossero le problematiche
psicologiche di questi bambini, quali i loro vissuti in
una situazione di così grande precarietà fisica e con
un rischio così elevato di emarginazione. Evidentemente questi eventi carichi di dolore e discriminazione, unitamente all’aumento della sopravvivenza
dei bambini infetti, avevano creato lo spazio interno
necessario per iniziare a “prendersi cura” di loro.
A distanza di tanti anni credo che sia stato un momento cruciale per ospitare una domanda che riguardava la persona nella sua interezza. Fino a quel
momento, infatti, l’Ospedale si era fatto carico della
cura del corpo dei bambini malati, senza preoccuparsi della loro sofferenza psicologica che quindi rimaneva inascoltata, non vista e impossibile da accogliere. Il vertice organicista “puro”, che riguardava il
bambino ricoverato in Ospedale era, se possibile, amplificato per i bambini con infezione da HIV. L’idea
prevalente era che fosse una lotta senza quartiere,
Infanzia e adolescenza
190
Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
energie disperse: che senso aveva occuparsi della psicologia di bambini che non avrebbero vissuto più di
qualche anno?
Da allora molte cose sono cambiate. All’interno
dell’Ospedale A. Meyer di Firenze esiste oggi un “Servizio di Psicoterapia per il Bambino HIV Positivo e
per la sua Famiglia”. Il Servizio dispone di una stanza adatta alla psicoterapia infantile e attrezzata per la
Sand Play Therapy (Kalff 1966) e, in tutti i nuovi casi, viene proposto un colloquio con la psicoterapeuta. Da circa un anno due psicoterapeute (con formazione analitica) lavorano con questi pazienti ed è stato possibile così differenziare le terapie infantili dal
sostegno genitoriale.
Inoltre, con l’uso dei nuovi farmaci, molti dei bambini di allora sono cresciuti e, diventati grandi, sono
ora seguiti dai centri di infettivologia degli adulti.
Le dimensioni dell’infezione
Sebbene l’eco dei mass media sia notevolmente
scemata, portandoci a pensare che l’emergenza AIDS
sia terminata, le cose sono in realtà assai diverse. Il
panorama dell’infezione cambia molto in relazione
all’area geografica interessata: infatti l’Africa sub-Sahariana è al primo posto per incidenza e prevalenza,
seguita dall’Asia, America latina, nord America ed
Europa occidentale. E, come emerge dalle stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la
mortalità infantile per infezione da HIV/AIDS riflette la prevalenza della patologia ed è significativamente più elevata nelle aree in via di sviluppo (550
mila morti all’anno) rispetto all’Europa occidentale
e all’America del nord (circa 100 morti all’anno).
Alla fine del 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stimava che nel mondo almeno 42
milioni di persone, di cui 28,6 milioni adulti e 3,2 milioni di bambini, aveva contratto l’infezione da HIV
(World Health Organization, 2005). Da tutto questo
191
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
si comprende che nei paesi meno industrializzati
l’AIDS è una patologia ancora in rapido aumento ed
estremamente grave, mentre nei paesi industrializzati l’emergenza sanitaria ha trovato qualche possibilità di prevenzione e cura che contrasta l’evoluzione
naturale della malattia.
La difficoltà (o impossibilità) di applicare gli stessi protocolli farmacologici e preventivi in paesi economicamente più disagiati impone una riflessione
sulla ricaduta che ciò ha sulla sopravvivenza degli individui, sulle complesse questioni morali intorno alle
dinamiche economiche e di potere che dominano
questo millennio.
ASPETTI MEDICI DELL’INFEZIONE DEL BAMBINO
La questione medica potrebbe apparire lontana
dalle possibili dinamiche psicologiche attivate nella
malattia da HIV. Tuttavia il registro organico si interseca così profondamente all’area psichica che i due
aspetti si influenzano reciprocamente in misura così
significativa da essere inscindibili.
Gli aspetti biologici della malattia hanno una valenza talmente penetrante sul piano simbolico e rappresentazionale che un’excursus riguardo a ciò appare fondamentale per poter riflettere sul profondo legame che esiste tra ciò che accade nel corpo e ciò che
accade nell’area psichica.
Trattandosi poi di bambini che contraggono l’infezione dalla propria madre in varie fasi del loro sviluppo embrionale-fetale-neonatale, è evidente quanto il contagio si vada a inserire in una fase arcaica della relazione madre-bambino e possiamo intuire
quanto ciò vada a pesare nell’ambito dello sviluppo
psichico del bambino, del legame con la madre e in
definitiva della vita stessa.
Infanzia e adolescenza
192
Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
Differenza tra infezione e malattia
In questo lavoro compariranno spesso questi due
termini ed è necessaria una precisazione: essere infetti o sieropositivi significa essere entrati in contatto
con il virus HIV, non necessariamente si è sviluppata
la malattia denominata AIDS. Tutti i pazienti con
AIDS sono infatti sieropositivi e infetti, ma non viceversa. Esistono poi vari stadi di malattia di crescente
gravità in relazione ai sintomi e alle malattie AIDS
correlate presenti.
La questione dei termini (che nel linguaggio comune vengono spesso usati erroneamente come sinonimi) è di primaria importanza perché simbolicamente riflettono realtà e gravità completamente differenti. Si può essere sieropositivi essendo “sani”,
maggiormente se la carica virale (quantità di virus
nel sangue) è bassa (talvolta così bassa da essere indeterminabile) e se i linfociti (cellule deputate a difendere il nostro organismo producendo anticorpi)
sono sufficientemente numerosi.
La malattia determina proprio questo aumento
del virus nel sangue parallelamente alla distruzione
di quella particolare popolazione di linfociti che difende dalle infezioni. Si crea cioè una immunodepressione marcata per cui gli individui malati diventano molto fragili e rischiano di contrarre infezioni
anche gravissime ogni qual volta incontrano agenti
patogeni anche non particolarmente aggressivi. Le
loro barriere difensive sono così vulnerabili che anche un’infezione banale (per esempio una Candida
cutanea) può diventare mortale. Questo ci apre a
una riflessione sul tema del contagio: dato che il virus dell’HIV è “fragilissimo” e in ambiente esterno
non sopravvive che pochi secondi, la persona sieropositiva non è affatto un pericolo per chi gli sta intorno (se non si scambiano siringhe o non hanno
rapporti sessuali), ma è vero il contrario. Sono i soggetti sani, immunocompetenti, che rapprendano un
193
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
potenziale pericolo per l’immunodepresso!
Modalità di infezione in età pediatrica
Sono solo pochi i casi descritti di infezione pediatrica in seguito a trasfusione o all’uso di emoderivati.
La quasi totalità dei casi viene invece contagiata dalla madre infetta (trasmissione verticale) per cui si
parla di infezione perinatale. Questa considerazione
ci introduce però anche a una riflessione su quello
che si profila essere sul piano biologico e psichico, il
legame madre-figlio: la relazione si impasta fin dai
primi momenti di gestazione di un’aura di simbiosi
inscindibile in cui aleggiano malattia e morte che legano per sempre madre e figlio in un vincolo difficile (se non impossibile) da sciogliere. Il pericolo di
contagio è la stessa madre senza la quale però non
c’è vita (conditio sine qua non di ogni gestazione).
Le vie di trasmissione dell’infezione ripercorrono
le “zone” in cui e per cui il legame madre-figlio viene
sancito: il virus può attraversare la placenta assieme ai
nutrienti di cui l’embrione-feto ha necessità per vivere. In questo caso simbolicamente vi è una zoppìa di
quella funzione materna di filtro che lascia passare
ciò che nutre e trattiene ciò che è pericoloso o mortifero. La placenta non riesce a trattenere il virus HIV
che può attraversarla e diffondersi nel sangue del
bambino in formazione. Ma il contagio si può verificare anche durante il parto. È questo il momento in
cui madre e figlio lavorano insieme e, con fatica e dolore, attuano il loro primo distacco: il taglio di cordone ombelicale che ratifica l’avvenuta separazione e la
nascita di una nuova vita, di una nuova identità. Nelle fatiche del travaglio e nella commistione di sangue
e affetto, in quella prossimità di vita e morte che ogni
parto ha in sé e che crea la nascita della relazione, si
nasconde il rischio della trasmissione della malattia.
La terza via possibile di contagio è il latte materno.
Sappiamo il valore che ha l’allattamento al seno sia
Infanzia e adolescenza
194
Infanzia e adolescenza
1. Certamente la consapevolezza della propria
infezione in gravidanza è
fondamentale per poter
attuare le misure per prevenire il contagio. Nonostante le iniziative di incoraggiamento all’uso
del test di screening per
l’infezione da HIV in tutte le donne in gravidanza
indipendentemente da
eventuali comportamenti
a rischio, questo non
sempre viene eseguito.
In molti casi le donne ancora oggi addirittura si
oppongono tenacemente
al test, confermando che
l’HIV porta ancora con
sé la dimensione del perturbante.
2. Ogni bambino che nasce ha un corredo anticorpale identico a quello
della propria madre: gli
anticorpi infatti riescono
a passare attraverso il “filtro” placenta e difenderanno il bambino dalle infezioni dei primi mesi di
vita finché egli non “fabbricherà” i suoi anticorpi
dopo l’incontro con vari
virus e agenti patogeni.
La placenta della madre
sieropositiva fa passare
quindi, oltre agli altri, anche gli anticorpi contro
l’HIV, che però non sono
affatto protettivi verso il
virus. Accade cioè un piccolo paradosso: quando
un organismo entra in
contatto con il virus dell’HIV crea gli anticorpi anti HIV, che però non riescono a proteggere dallo
stesso virus (non riescono
a uccidere il virus).
In generale (vale per tut-
Alessandra Guarino Amato
nello sviluppo del neonato che nella nascita del legame affettivo. Sappiamo anche che un allattamento artificiale “sufficientemente buono” può essere adeguato per lo sviluppo fisico e psichico del neonato.
In tutti questi casi però il senso di colpa materno
inerente la propria infezione-malattia va a inserirsi
nelle maglie della relazione che viene inquinata e contaminata dagli aspetti Ombra della madre mortifera.
Se queste sono le principali modalità di contagio
in età pediatrica, in adolescenza compaiono altri rischi di infezione: esiste infatti oggi la possibilità (e
l’elevato rischio) di acquisire l’infezione per via sessuale (rapporti non protetti) o tramite scambio di siringhe (uso droga per via endovenosa). La trasmissione sessuale ci pone di fronte alla urgente questione (su cui stiamo lavorando da molti anni) della comunicazione della diagnosi ai bambini infetti. È certo ormai che ogni bambino deve essere informato
della propria situazione sanitaria, con parole adatte
alla sua età e alla sua capacità cognitiva e con attenzione riguardo la sua situazione emotiva (Guarino
Amato 2000, 2004a; Baldassari 2002a). È parimenti
necessario che tutti i bambini sieropositivi possano
contare su un sostegno psicologico che permetta loro di elaborare la propria malattia e il lutto che ne
deriva, premessa fondamentale affinché, da giovani
adolescenti infetti, non contagino in maniera inconsapevole o meno i coetanei con cui si troveranno in
intimità erotica.
Per quanto riguarda il nostro paese, i dati del Registro Italiano per l’infezione da HIV-1 in età pediatrica riportano oggi, oltre 1433 bambini con infezione perinatale da HIV-1 (Prof. de Martino M., comunicazione personale). Questi dati sono sicuramente
sottostimati dato che non esiste in Italia l’obbligo di
segnalazione all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dei
bambini sieropositivi, mentre vengono segnalati soltanto i bambini in AIDS conclamato.
195
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
Di madre in figlio: la trasmissione dell’infezione
Negli ultimi 10 anni, in Italia, molteplici strategie
mediche di intervento (uso di farmaci in gravidanza
e nel neonato, parto cesareo, allattamento artificiale)
hanno permesso di abbattere il tasso di trasmissione
dal 18% al 2% (Registro Italiano per l’Infezione da
HIV in Pediatria, 2002).1
Il tempo per la diagnosi
Alla nascita non è possibile sapere se il neonato ha
acquisito l’infezione.2
Fino a qualche anno fa il tempo per conoscere
l’avvenuta infezione o meno del proprio bambino
era necessariamente di circa un anno3 (tempo medio
di vita degli anticorpi). Questo significava che per
tutto il primo anno di vita i genitori dovevano convivere con il dubbio, l’incertezza sull’infezione del figlio. Con tutto ciò che quest’incertezza comportava,
maggiormente in un momento in cui l’equilibrio psichico della madre è particolarmente fragile e in cui
la ricerca dell’identità familiare e genitoriale richiede quote elevate di energie psichiche. In questo periodo i farmaci antiretrovirali (contro l’HIV, dati comunque a tutti i nati da madre sieropositiva) e i controlli degli esami del sangue effettuati ogni mese rendono particolarmente difficile e complicata la gestione del segreto sulla malattia. Le famiglie si trovano
infatti a nascondere il problema anche ai parenti più
prossimi e debbono inventarsi bugie e scuse continue
per giustificare i ripetuti controlli sanitari del piccolo
appena nato.
Negli ultimi anni, con l’avvento delle moderne
tecniche diagnostiche,4 la diagnosi può essere fatta
intorno al 4° mese di vita (Dianzani 2004). Nonostante ciò quei 4 mesi rappresentano una prova durissima sul piano psichico, sia per le madri che per
l’intero assetto affettivo e relazionale della famiglia.
Infanzia e adolescenza
te le infezioni) la ricerca
diretta dei virus è molto
complessa e l’esame di laboratorio più rapido e
fruibile è la ricerca degli
anticorpi. È un’analisi
“indiretta” perché si individua un’infezione attraverso la risposta immunitaria della persona. Trovare questi anticorpi in
un neonato da madre
HIV positiva è quindi perfettamente normale: sono quelli che ha trasmesso la mamma. Poi possono accadere due diverse
eventualità: se il bambino
non ha acquisito l’infezione (ovvero se la placenta ha funzionato come vera barriera contro il
virus) le analisi del sangue mostreranno un progressivo scemare degli anticorpi (che erano tutti e
solo quelli trasmessi dalla
madre) e, nel giro di un
anno gli esami si “negativizzeranno” (non si troveranno più nel sangue del
bimbo anticorpi anti HIV
perché quelli di provenienza materna moriranno come è normale,
avendo un ciclo vitale di
circa un anno). Se invece
il bambino ha acquisito
l’infezione (se il virus è riuscito ad attraversare la
placenta) gli anticorpi
materni verranno progressivamente sostituiti
con quelli fabbricati dal
sistema immunitario del
figlio e gli esami rimarranno “positivi”.
3. La ricerca degli anticorpi anti HIV era l’unica
indagine che permetteva
la diagnosi e tali anticor-
196
Infanzia e adolescenza
pi, anche se di origine
materna, sono presenti
nel sangue per circa 12
mesi.
4. L’utilizzo della biologia
molecolare permette di
individuare direttamente
la presenza del virus nel
sangue del neonato e stabilire con certezza la presenza o meno dell’infezione.
Alessandra Guarino Amato
Un’ombra di malattia e di morte aleggia sulla culla,
fatto questo da cui non è possibile prescindere nella
creazione del legame e che alimenta angosce e sensi
di colpa difficilmente contenibili.
Sappiamo quanto sia fondamentale ciò che accade sia durante la gravidanza che nei primi periodi di
vita del bambino e quanto l’angoscia incontenibile rischi di allagare la psiche materna (Negri 1994; Guarino Amato 2004b). Questo allagamento non permetterebbe di contenere le esperienze spiacevoli del
bambino rischiando di lasciarlo solo, completamente
abbandonato in balìa di un Sé ancora troppo immaturo e fragile. Il rischio è allora una deficitaria integrazione tra ciò che avviene sul piano somatico e ciò
che accade a livello affettivo. Si verificherebbe cioè,
mutatis mutandis, un qualcosa di analogo a ciò che avviene in alcune situazioni in cui vi sono patologie alla nascita o importanti rischi neonatali (Negri, ibidem;
Guarino Amato, ibidem).
Prendersi cura del bambino sieropositivo
Se la terapia farmacologia è un aspetto irrinunciabile, l’esperienza acquisita in questi ultimi 20 anni ha
mostrato che è fondamentale affiancare ai farmaci
anche un supporto psicoterapico. La possibilità di dare ascolto a un dolore che coinvolge tutta la persona
e non solo l’organo malato, significa rendere dignità
ai pazienti, dare loro anche uno spazio di riflessione
sul significato di ciò che stanno vivendo per tentare
insieme di integrare l’esperienza e trasformare la malattia in una possibilità di crescita.
Ancora non esiste il vaccino per l’HIV-1, tuttavia i
farmaci “antiretrovirali” sono oggi in grado di controllare l’andamento dell’infezione e permettono
una sopravvivenza e una qualità di vita senz’altro migliori rispetto al passato (de Martino 2000b).
Si tratta comunque di cure pesanti e di difficile gestione. Tutto ciò, insieme agli effetti collaterali e la
197
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
conseguente limitata compliance alla terapia è, in alcuni casi, un limite nel controllo della malattia.
Tutti i bambini sieropositivi vivono a casa, vanno
regolarmente a scuola e vengono ai controlli in ospedale una volta al mese per la visita e gli esami del sangue. Nonostante questa gestione poco “medicalizzata”, vi è un costante stato di allerta: una banale infezione può infatti rapidamente trasformarsi in una setticemia fulminante. I ricoveri nel reparto di malattie
infettive sono un’eventualità tutt’altro che rara, anche se non costante.
Presso la Clinica Pediatrica I — Malattie Infettive
dell’Ospedale Pediatrico A. Meyer di Firenze (Prof.
M. de Martino), esiste il “Centro Regionale di Riferimento per la Prevenzione e Assistenza a Bambini Affetti da HIV” (responsabile Prof.ssa L. Galli) e i pazienti sono visitati mensilmente al Day Hospital del
Centro. Qui, oltre all’equipe pediatrica — infermieristica, sono presenti due psicoterapeute e un’assistente sociale. Dividere le competenze nell’ambito di
un’equipe medico — psicologica facilita e chiarisce le
diverse richieste da parte delle famiglie e dei pazienti, offrendo la possibilità di spazi medici e psicologici
contigui ma non confusi.
Quanto è grave?
Quando negli anni ‘80-‘90 sono comparsi in Italia
i primi casi di infezione pediatrica da HIV, non esistevano farmaci contro il virus e la mortalità era molto alta (Dianzani 2004). I nuovi farmaci hanno permesso di cambiare in misura significativa l’evoluzione naturale della malattia. Oggi l’infezione perinatale da HIV è una malattia cronica importante, non
guaribile, ma senz’altro curabile che accompagna il
bambino nel corso della sua crescita. Ha certamente
bisogno di un puntuale e serrato monitoraggio medico, di terapie costanti e di una sorveglianza accuratissima riguardo alle infezioni e/o al rischio di svi-
Infanzia e adolescenza
198
Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
luppo di patologie oncologiche.
La lunga sopravvivenza di una quota considerevole (60% a 10 anni) di bambini con infezione perinatale (de Martino 2000b) fa sì che un numero crescente di bambini abbia raggiunto l’età scolare, molti di essi si affaccino già all’adolescenza ed alcuni abbiano già raggiunto l’età adulta (18-20 anni).
La storia della malattia però pesa fortemente sull’immaginario collettivo. I messaggi provenienti dai
mass media negli anni ‘80 erano senza nessuna speranza e, per le “categorie” a rischio, esisteva una strada senza ritorno in cui a un sicuro contagio avrebbe
fatto seguito in poco tempo una morte certa. Lo scenario dell’infezione è radicalmente cambiato e non si
parla più di “categorie” a rischio, ma di “comportamenti” a rischio che possono riguardare chiunque,
indipendentemente dalla professione, inclinazione
sessuale, uso di sostanze stupefacenti o altro. In aggiunta, dato che il contagio non avviene nelle normali relazioni sociali, l’essere sieropositivi non dovrebbe interferire nelle relazioni scolastiche, lavorative o amicali.
Nonostante tutto ciò, la diagnosi di infezione porta ancora con sé angosce di morte difficilmente arginabili e i genitori, spesso sopraffatti dal senso di colpa, non riescono a scollegare la parola HIV/AIDS
dall’idea di morte. Poco importa il fatto che essi sappiano che la sieropositività non è obbligatoriamente
una condanna a morte, l’angoscia dilaga comunque
inarrestabile.
Il senso di morte evocato dal fantasma dell’AIDS
rappresenta allora anche qualcosa d’altro. È qualcosa di diverso rispetto alla concretezza di un rischio
reale di morte, qualcosa di più ampio, che rappresenta l’archetipo dell’angoscia di morte: quell’immagine collettiva, primordiale e universale che inevitabilmente, come tale, riguarda tutta l’umanità (Jung
1928, 1953-54).
199
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
ASPETTI PSICOLOGICI: CRESCERE CON L’HIV
Sistema familiare e contesto sociale
Ogni bambino nasce e cresce all’interno di un sistema affettivo relazionale complesso. Oltre alle sue
caratteristiche individuali è fondamentale considerare in quale contesto avviene la crescita, quali figure
affettivamente significative lo circondano e sostengono in un percorso di vita che in questi casi si preannuncia particolarmente difficile. La struttura psichica dei genitori e le loro risorse interne sono infatti
estremamente importanti per una adeguata funzione
di rêverie materna, in un contesto in cui la sieropositività e la malattia, unite al segreto da mantenere, al
senso di colpa e di vergogna non fanno che rendere
tutto più complicato.
Crescere con l’infezione da HIV non è quindi una
faccenda semplice.
Le difficoltà psicologiche e le dinamiche attivate
dall’infezione sono così particolari da non essere sovrapponibili a nessun’altra malattia. Anche ciò che si
osserva in oncologia pediatrica (o in altre malattie
croniche e a elevato rischio), in cui si attivano pesanti angosce di morte e profonde paure, non è paragonabile alla complessità di quanto accade al momento
di una diagnosi di HIV/AIDS. In quasi tutti i casi
(fanno eccezione i bambini adottati e i trasfusi) si
tratta di una malattia familiare che coinvolge con intensità diversa, più componenti della stessa famiglia.
La madre è praticamente sempre infetta, spesso lo è
anche il padre e i fratelli del bambino. La paura per
l’avanzare della malattia coinvolge non solo il piccolo paziente (come in oncologia o in altre patologie
gravi), ma tutto il nucleo familiare. Una quota indicibile di angoscia circola nelle case e non riguarda solo il bambino, il figlio. Tutta la famiglia è allagata dal
dolore e anche i genitori, che dovrebbero fornire stabilità e contenere le paure e le emozioni dei bambi-
Infanzia e adolescenza
200
Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
ni continuamente sottoposti ad analisi e cure, non sono più in grado di svolgere una funzione genitoriale
“sufficientemente buona”. Il carico di pena sembra
essere troppo intenso e pervasivo per poter essere
adeguatamente sostenuto. La difficoltà è talora connessa alla possibilità di tollerare le diagnosi multiple
(mariti, mogli, figli…), talora alla discordanza dello
stato di infezione della madre e del padre, o al senso
di colpa del genitore che ha trasmesso il virus, alla separazione, fisica o psicologica della coppia, incapace
di gestire le dinamiche che si vengono inevitabilmente a creare (Guarino Amato 1994-95, de Martino
2000a ; Bufacchi 2002).
In molti casi, si tratta di famiglie multiproblematiche ancor prima della diagnosi, in cui l’infezione si
inserisce in relazioni o personalità psicopatologiche,
fatto che amplifica la difficoltà di contenere psichicamente non solo la propria malattia, ma anche quella del compagno e dei figli. Si tratta frequentemente
di situazioni precarie, talvolta legate alla droga, in cui
comunque è presente una grande instabilità e gli allontanamenti dell’uno o dell’altro genitore sono assai frequenti: carcerazioni, ingresso in comunità, separazioni temporanee o definitive fino ad arrivare ai
casi in cui si assiste all’abbandono (volontario o imposto dal Tribunale) dei figli che quindi sperimentano la difficile situazione dell’istituto o l’inserimento
in famiglie affidatarie o adottive (Guarino Amato
1994-95, 2004a). Una evenienza drammatica che si
verifica di frequente è la morte della madre (e/o del
padre) che inevitabilmente rappresenta per il figlio,
una ferita dolorosissima. Un recente studio europeo
ha mostrato che il 56% dei bambini sieropositivi ha
perso un familiare (per lo più la madre) a causa della malattia e nel 23% dei casi vi era stata la perdita di
più membri della famiglia (Prof.ssa Galli L. Comunicazione personale).
La proporzione degli eventi di separazione dai genitori è talmente rilevante che la percentuale di bam-
201
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
bini che vive con entrambi i genitori si aggira intorno
al 50% e che la probabilità di un bambino nato da madre sieropositiva di avere entrambi i genitori viventi e
conviventi con lui si riduce rapidamente nel tempo:
solo il 46% all’età di 5 anni (Principi 1994).
Quando viene fatta diagnosi di HIV accade comunque che l’intero asse della famiglia si sposta sul
“Problema AIDS” e tutto ciò che accade viene filtrato
dalla questione dell’infezione: il Virus diventa allora
il vero protagonista occulto dell’intera storia familiare, andando spesso a coprire dinamiche psicopatologiche che vengono in tal modo celate. L’HIV diviene
qualcosa di concreto senza il quale idealisticamente e
magicamente tutto funzionerebbe. La stessa organizzazione logistica viene “resettata” in base ai controlli
in ospedale, analisi da effettuare, conteggio dei linfociti e carica virale, medicine da assumere a orari rigidissimi. La vita di relazione subisce pesanti modificazioni e tutto inizia a ruotare intorno al segreto da
mantenere. A qualsiasi costo.5
La paura di essere giudicati e messi all’indice fa sì
che le famiglie vivano la propria condizione in totale
solitudine senza poter condividere le angosce, le paure e le ansie con nessuno. È questo un aspetto del tutto singolare di questa malattia, che rende il dolore, la
paura e la preoccupazione non condivisibile e il suo
peso diventa così ancora più grave. Neppure si può
condividere l’angoscia di morte per sé o per il proprio bambino: se la malattia diventasse “pubblica” il
rischio è non solo quello di non essere compresi
(“Certo, se l’è cercata” è il commento di molti) ma
quello, molto più grave, di essere allontanati ed
emarginati.
L’esperienza di questi anni ci fa ipotizzare che anche la modalità di infezione abbia un senso e che possa legarsi a differenti sistemi di gestione psicologica
della malattia per i genitori e di conseguenza anche
per i loro figli: il vissuto del contagio e della colpa
(che inestricabilmente si lega ad essa) è completa-
Infanzia e adolescenza
5. La necessità di mantenere il silenzio più assoluto sull’infezione è sentita
dai genitori come irrinunciabile. Tale segreto
inviolabile è intimamente
connesso ai fantasmi che
ancora esistono intorno
al contagio. Sebbene sia
ormai ampiamente riconosciuto che il virus HIV
è estremamente “fragile”
e che la sua trasmissione è
ben più difficile rispetto
ad altre situazioni (Epatite B o C), il tema del contagio è ancora intimamente connesso all’infezione da HIV. Il virus è diventato in questi anni la
rappresentazione di un’epidemia data dalla dissolutezza, dalla promiscuità
e dal mancato controllo
degli aspetti più “bassi”
della personalità. Chiamato a lungo “La peste
del XX secolo” richiama e
coagula in sé qualcosa
che esiste, in vari modi e
sotto varie forme, da sempre. Quello che oggi riguarda la vicenda dell’HIV (storia di contagio,
sporcizia e promiscuità),
in passato era di pertinenza della sifilide e prima
ancora della peste. Tutt’oggi la maggior parte
delle famiglie mantiene il
segreto anche con i parenti più prossimi. Anche
se ormai non più legata
esclusivamente a particolari “categorie” a rischio,
la parola HIV/AIDS apre
una voragine in cui precipitano il senso di colpa, la
vergogna e l’angoscia di
morte.
202
Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
mente diverso se è da attribuirsi all’uso di sostanze
per via endovenosa piuttosto che alla puntura accidentale (personale sanitario) o a un antico partner
insospettabile. La via di infezione è anche strettamente legata al tema della vergogna che emerge prepotentemente in relazione alla definizione della propria identità e della condizione di sieropositività.
Il virus entra così nelle relazioni familiari seguendo percorsi ogni volta diversi. In alcuni casi la diagnosi esplode in gravidanza o successivamente, in
molti altri i genitori decidono consapevolmente di
avere la gravidanza essendo a conoscenza della propria infezione e della possibilità di trasmissione, talvolta la decisione di maternità si intreccia con la possibilità di interrompere l’uso di sostanze. Nelle donne sieropositive e nelle coppie sembra verificarsi un
notevole investimento sulla possibilità di avere figli;
la maternità appare assumere il significato di riempimento di un vuoto, della possibilità di recupero e
prendersi cura di se stessi attraverso il bambino che
in tal modo coagula in sé aspettative e valenze diverse e più ampie rispetto a situazioni “normali”. Il figlio
e la sua negativizzazione rappresentano allora, talvolta senza mediazioni simboliche, la parte potenzialmente sana e vitale del genitore stesso.
Ancora oggi si segnalano casi in cui il contagio della madre/padre risale all’uso di droga fatto, magari
per un breve periodo di tempo, in età adolescenziale.
La rimozione di queste esperienze è tale che molto
spesso queste madri non richiedono il test e spesso si
risale alla positività della madre attraverso il figlio. La
donna si trova improvvisamente travolta non solo dalla diagnosi multipla, ma anche dal proprio passato,
dalle fragilità e carenze di cui è intrisa la storia personale di chiunque. Tutto ciò che ha cercato di negare
adeguandosi a uno stile di vita normale, la investe ora
come un boomerang che, scagliato dal passato, colpisce il presente. L’Ombra si presenta con tutta la potenza e l’orrore che le sono proprie. Il figlio sieropo-
203
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
sitivo incarna questo passato: una parte di sé che si
vuole rimuovere nascondendola e negandola a sé stesse e talvolta anche allo stesso partner.
L’infezione per via sessuale è in progressivo aumento (Registro Italiano per l’Infezione da HIV in
Pediatria, 2002). Non si tratta necessariamente di
rapporti omosessuali o promiscui, ma anche di contagi avvenuti nell’ambito delle normali esperienze
sentimentali ed erotiche del passato di entrambi i genitori. È allora possibile che la diagnosi (in qualsiasi
momento avvenga) rappresenti un evento fortemente traumatogeno potenzialmente in grado di scardinare i normali equilibri familiari.
Un evento particolare riguarda le adozioni: i vissuti dei genitori adottivi sono profondamente diversi (e
difficilmente generalizzabili). Essi non sempre sanno
dell’infezione prima dell’adozione e, sebbene alleggeriti dal senso di colpa del contagio (così diffuso nelle famiglie naturali) la loro funzione genitoriale è certamente irta di difficoltà di non facile gestione.
Lo sviluppo del bambino sieropositivo
Nel neonato la figura materna e il contatto con
essa hanno un’importanza fondamentale; in questi
bambini però i problemi che talora possono verificarsi alla nascita (prematurità, sindrome da astinenza, insufficienze respiratorie) e i conseguenti lunghi
ricoveri, non permettono questo contatto con le inevitabili conseguenze di difficoltà o di mancata elaborazione emotiva che si vengono a creare (Guarino
Amato 1994-95, 2004a). Non vengono allattati al seno e in moltissime situazioni i fantasmi inerenti il
contagio appaiono così minacciosi e concreti che
inibiscono fortemente le madri al contatto fisico con
il neonato. Durante il difficile periodo di accertamento diagnostico (e in molti casi anche successivamente) è presente una elevatissima attenzione intorno alle fantasticate possibili vie di contagio. Le ma-
Infanzia e adolescenza
204
Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
dri spesso hanno timore di toccare, accarezzare i loro figli nella paura di trasmettere loro l’infezione
con i consueti abbracci e baci che fanno parte di tutte le normali relazioni madre-figlio. È evidente che
siamo di fronte a un rischio inesistente, ma è importante per poter riflettere su quanto i fantasmi riescono a modificare silenziosamente anche le prime
relazioni affettive. I bambini che non vengono sufficientemente toccati introiettano questa interdizione
e il contatto fisico rischia di essere una sorta di tabù.
Nei bambini infetti poi, in cui esiste una sorta di consapevolezza inconscia della loro condizione (Guarino Amato 1994-95, 1997, 2004a; Calori 1997; Montecchi 2002), il contatto è fortemente inibito al punto che anche le rappresentazioni grafiche mostrano
quanto ciò sia difficile per loro. La percezione di essere pericolosi, portatori di qualcosa che può contaminare altri, emerge con grande chiarezza anche dai
loro disegni (Guarino Amato, ibidem). Sebbene essi
non siano consapevoli della loro diagnosi, sappiamo
che il contatto è il presupposto fondamentale per il
contagio del virus.
La privazione di contatto tra madre e bambino
rappresenta un perdita immensa e questo ci fa riflettere su come, già poco dopo la nascita, si trovino
ad affrontare in termini concreti realtà della perdita
e di lutto.
Il tema del lutto pervade tutta la loro vita, non soltanto come distacco reale e rischio di morte (loro o
dei genitori), ma anche, come realtà interna di perdita della salute. I continui controlli medici, talora invasivi e i frequenti ricoveri in ospedale, così come la
constatazione della propria fragilità o della scarsa
crescita sono delle continue separazioni interiori dall’immagine di un sé sano che normalmente accompagna il bambino che cresce. Quando il figlio si specchia negli occhi della madre, l’immagine che ne riceve e che arriva al suo inconscio è quella di una
estrema vulnerabilità e precarietà. Il senso di morte
205
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
in questi casi non è soltanto nel reale rischio di morte, ma è presente, sotterraneo, in ogni momento di
vita (Guarino Amato 2004a).
Purtroppo molto spesso questi bambini devono affrontare anche delle perdite reali: la morte di uno o
entrambi i genitori o la perdita di un fratello sono
eventi traumatizzanti che amplificano in misura esponenziale la loro fatica di crescere. La morte oltre al
dolore e alla disperazione apre anche interrogativi
sulla causa e sulla malattia che l’ha preceduta. Tutto
ciò si incontra con ciò che il bambino sta sperimentando dentro di sé (Guarino Amato 1997; Caluori
1997). Infatti la cronicità della malattia, i continui ricoveri in Ospedale, la precarietà dello stato di salute
rispetto ai coetanei, portano a riflessioni, accostamenti e domande che frequentemente rimangono
inevase. Un clima di segretezza e mistero li circonda,
esiste qualcosa che non si può raccontare che riguarda intimamente tutta la famiglia ed è qualcosa di così grave da non poter essere neppure pronunziato
(Honigsbaum 1995; Guarino Amato 2004a).
I bambini adottati hanno situazioni familiari certamente più stabili, tuttavia il tema dell’abbandono e
del “buco nero” sulla propria origine si intreccia pesantemente con l’infezione. In questi casi il fantasma
del “non essere degno d’amore” sempre presente nei
bambini abbandonati, viene a dilatarsi e distorcersi
confondendosi con l’essere “contagiante” e portatore di morte. La sensazione di avere una colpa sconosciuta e originaria va con ogni probabilità a collimare con la propria malattia rendendo ancor più difficile la possibilità di elaborare la loro personale storia.
L’esperienza di questi anni ha poi evidenziato che
quasi sempre le domande dei bambini sulla propria
salute trovano risposte bugiarde o rimangano inevase
tanto che essi sviluppano una sorta di interdizione inconscia a conoscere la loro storia e le faccende sanitarie che li riguardano. Allo stesso tempo però le inevitabili associazioni tra la propria condizione e quel-
Infanzia e adolescenza
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Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
la della madre (assumono gli stessi farmaci, necessitano di numerosi controlli in Ospedale) rinforzano
la percezione inconscia di qualcosa che li riguarda e
li rende diversi da tutto il resto del mondo. Tale silenzio difensivo in cui viene generalmente gestita la
malattia favorisce lo stabilirsi di un rapporto simbiotico in cui e la crescita e la separazione risultano inattuabili (Bion 1962). Il legame simbiotico è tipico nell’infezione perinatale e trova nella collusività materna una specifica ragion d’essere: sembra necessario
creare un legame rassicurante (e invischiante) che riflette il “noi contro tutti” e, nel sottolineare l’uguaglianza tra madre e figlio, rammenta che non si è soli con “la cosa”.
La loro vita, scandita dalle problematiche sanitarie, è parallelamente caratterizzata dall’impossibilità
di condividere esperienze tanto importanti che così
pesantemente influiscono sulla vita di relazione: vietato divulgare i frequenti prelievi di sangue, o farsi vedere dagli amici o dai loro genitori prendere i farmaci, difficile (se non impossibile) partecipare a gite
scolastiche, passare il pomeriggio da un compagno di
scuola (alcuni farmaci vanno somministrati tre volte
al giorno) o spiegare come mai un giorno al mese si
è assenti da scuola (per il controllo di routine). Impossibile spiegare la magrezza o la bassa statura, così
come raccontare del ricovero nel reparto di Malattie
Infettive.
Il Diritto Italiano prevede la possibilità di non divulgare la sieropositività del bambino se non a particolari figure professionali e sociali previste dalla legge e tutela nei confronti dei rischi di contagio accidentale con la raccomandazione di adottare comunque, nei confronti di tutti, misure di sicurezza adatte
a un’adeguata prevenzione. È però vero che, maggiormente nella struttura scolastica, o in piccoli paesi, si possono creare delle situazioni basate su supposizioni riguardanti la struttura familiare, assenze frequenti del bambino, controlli ospedalieri ripetuti,
207
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
che emarginano e isolano i bambini “sospetti”.
Certamente la malattia porta a considerazioni inerenti la morte e sappiamo quanto queste siano perturbanti, maggiormente se riflettiamo sul fatto che è
stata proprio la madre a trasmettere l’infezione. Ogni
bambino durante la sua crescita ha il bisogno di difendere a tutti i costi la figura materna come unica
fonte di sicurezza, il mondo materno rappresenta
una fonte inesauribile di affetto, ed è attraverso di essa che impara a rapportarsi al mondo esterno (Spitz
1965; Stern 1995). Il nuovo “confronto” con la madre
che è “portatrice di vita” e insieme “portatrice di
morte” è particolarmente complesso e richiede la
mobilitazione di grandi risorse ed energie interne attivabili anche dal lavoro psicoterapico.
L’adolescenza con l’HIV
Questo periodo della vita, già particolarmente difficile, viene ad essere complicato dalla concomitante
infezione (Giaquinto 1994; Rivardo 1994; Guarino
Amato 1994-95, 2000, 2004a; Bartoli 2002; Baldassari
2002a, 2002b). I conflitti, la necessità di affermare la
propria autonomia e le prime relazioni sentimentali
e sessuali si intrecciano con le molte problematiche
della comunicazione della diagnosi, con l’eventualità
di essere stigmatizzati e allontanati, con la necessità
delle terapie ponendo anche agli operatori, nuove e
difficili problematiche.
In questa fase della vita, in cui compare un forte
bisogno di separazione dalle figure genitoriali, talvolta con caratteristiche di franca aggressività nei loro
confronti, la scomparsa del genitore può attivare
conflitti e sensi di colpa devastanti. La perdita apre,
anche in questa situazione, il problema del lutto e
sappiamo quanto la difficoltà di elaborare e metabolizzare internamente tale condizione sia connessa
con stati depressivi (Canestrari 1984). A conferma di
ciò sono stati descritti casi di gravi sindromi depressi-
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Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
ve, frequenti nell’adulto con AIDS, ma che ancora
non si erano mai incontrate, o mai riconosciute, nella popolazione pediatrica e adolescenziale (Giaquinto 1994; Baldassari 2002a).
Per quanto riguarda la consapevolezza della diagnosi, va precisato che nell’adolescente tenuto all’oscuro dell’infezione, i sospetti, le incertezze, i dubbi
inerenti la propria condizione si vanno a inserire in
quella “crisi di identità” che normalmente esiste in
questo periodo della vita, aumentandone le difficoltà.
Certamente la possibile emarginazione in relazione a sospetti e supposizioni acquista un carattere particolarmente delicato nell’adolescente. Infatti a questa età, per il normale processo di acquisizione della
propria identità, il “gruppo dei coetanei” acquista
un’importanza decisiva (Canestrari, ibidem). È in tale
momento che l’identità di sieropositivo può allontanare il ragazzo dalla normale vita del gruppo non
permettendogli quindi questa esperienza di grande
importanza, facendogli “toccare” la solitudine e l’isolamento e precludendogli anche la possibilità di una
valida esperienza affettiva e sessuale.
A questo si aggiungono poi le difficoltà che possono emergere nel rapporto con il genitore al momento della comunicazione della malattia: dopo anni di silenzi e bugie, quando viene detta la verità, insieme a questa compare la menzogna e il tradimento
da parte dei genitori, che alimentano la sfiducia e
l’insicurezza verso il mondo intero.
Infine la consapevolezza della malattia in un soggetto che inizia la propria vita sessuale porta con sé
la penosa sensazione di trasmettere morte attraverso
un atto di amore; mai come in questa patologia Eros
e Thanatos sono così profondamente legati. Ancora
ci incontriamo con la morte e con il lutto, vi è una
perdita della possibilità di viversi una sessualità “normale”.
209
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
La comunicazione della diagnosi
tra resistenze e opportunità
La comunicazione della diagnosi è forse l’argomento più discusso in questi ultimi anni intorno alla
psicologia dei bambini infetti. A questo proposito
nell’ambito del Registro Italiano per l’Infezione da
HIV si è creata una rete di Psicoterapeuti che, lavorando da anni con questi bambini, ha confrontato le
esperienze cliniche riguardo alla comunicazione della malattia. L’esperienza comune su tutto il territorio
nazionale (in accordo con quanto osservato al Day
Hospital di Firenze dal ’94 ad oggi) mostra quanto il
mondo degli adulti (genitori — operatori sanitari) sia
riluttante a parlare chiaramente della diagnosi (Baldassari 2002b; Croce 2002; Guarino Amato 2004a,
2004c) . La paura di una comunicazione chiara sta
anche nella possibilità che il bambino possa poi raccontare della sua infezione nell’ambiente scolastico e
che venga quindi emarginato. La maggior parte dei
genitori (naturali ma anche adottivi) ha quindi una
fortissima resistenza alla chiarezza sulla malattia, ritenendo erroneamente che sia la consapevolezza a evocare un dolore che altrimenti non esisterebbe. In
realtà, identificando il silenzio a una forma di protezione, espongono i figli a un doppio livello comunicativo: a parole li rassicurano, con l’inconscio trasmettono invece altissimi livelli di angoscia. Tale doppia comunicazione crea nei ragazzi un timore senza
nome, un dolore inelaborabile potenzialmente psicopatogeno.
Ritengo che la difficoltà che hanno i genitori (che
talvolta si identifica con la impossibilità) di sostenere
la verità, possa essere letta come l’amplificazione di
un senso di colpa non elaborato frammisto alla vergogna di essere marchiati da una malattia sottoposta
a giudizi e condanne sul piano sociale. La necessità di
occultare l’infezione è infatti profondamente legata
a meccanismi di difesa rigidi: il bisogno di negare è
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Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
sensibilmente correlato col senso di colpa di aver trasmesso il virus e con la vergogna che inevitabilmente
questa patologia attiva. L’esperienza di questi anni ha
evidenziato che quanto più i genitori erano riusciti a
fare i conti con il loro senso di colpa e con le personali dinamiche che rinforzavano le angosce attivate
dalla malattia, tanto migliore era l’accettazione del figlio riguardo la propria condizione e anche la risposta sociale (Baldassari 2002b). In molti casi, presso il
DH di Firenze, un vero lavoro di psicoterapia (in particolare con le madri) ha reso possibile una comunicazione della diagnosi adeguata e una migliore gestione degli aspetti medici e psicologici della malattia. Non stupisce che proprio in questi casi si sia assistito ad una buona risposta sociale e anche alla possibilità di poter condividere il peso dell’infezione all’esterno dell’ambiente familiare.
Di fatto numerosi studi (Guarino Amato 1994-95,
1997, 2000, 2004a; Caluori 1997, Montecchi 2002)
mostrano che bambini ritenuti all’oscuro della loro
condizione, hanno invece una consapevolezza inconscia della propria malattia. Il loro linguaggio non
verbale mostra senza ombra di dubbio che in essi esiste in essi un doppio registro (in accordo con la doppia comunicazione dei genitori): da un lato credono
a ciò che dicono i genitori (“Hai l’anemia” o “Si tratta di allergia…” ribadendo che “Non è niente di grave…”) dall’altro, a livello inconscio, sanno cosa sta
accadendo al loro corpo, percepiscono la gravità della malattia e il rischio per la propria vita. Questo
doppio registro “percettivo” è deleterio sia sul piano
della fiducia e del sentirsi accolti dai genitori sia sul
piano di una possibile elaborazione della propria
condizione.
Il tema della fiducia nella relazione genitori — figli
è fondamentale per una crescita psichica armonica:
sentire di “potersi fidare” dei propri genitori, fa parte del sentirsi accolti e nello stesso tempo fa nascere
nel bambino un sufficiente senso di fiducia e sicurez-
211
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
za necessario ad affrontare la vita (Bettelheim 1987).
In questi casi invece esistono silenziosi tabù: divieti e
censure sulla possibilità di parlare di ciò che percepiscono, degli allarmi sentiti per la propria salute, della paura della loro stessa morte. In tal modo questi
bambini non solo non svilupperanno una buona sicurezza in sé e nell’ascolto dei segnali del proprio
corpo e delle proprie emozioni (che vengono regolarmente sconfermate dai silenzi e bugie dei genitori) ma, cosa ben più grave, si troveranno soli di fronte alle loro angosce. Il doppio registro (sapere inconscio — non sapere della coscienza) non permette
neppure di elaborare il dolore e la paura della malattia e della morte: l’inconscio è consapevole della
gravità della malattia e del rischio di morte, ma se
questa percezione non raggiunge il livello di coscienza, determina sofferenza e rischio di patologia psichiatrica senz’altro maggiori rispetto alla verità.
Sebbene in una maggioranza dei casi si sia arrivati alla comunicazione solo in adolescenza, (età in cui
è stata percepita l’urgenza di comunicare: non conoscere la propria diagnosi espone al grande rischio di
trasmissione sessuale inconsapevole) si ritiene che il
disvelamento in questa fase della vita sia molto rischioso. Sarebbe invece auspicabile che la comunicazione della diagnosi non avvenisse in questa delicata
fase della vita, ma che fosse qualcosa che accompagna l’intera crescita dei bambini e non si identifichi
in un unico momento in cui il “disvelamento” rischia
di essere fortemente traumatogeno.
La consapevolezza dell’infezione apre certamente
pesanti conflitti e rischi depressivi (Guarino Amato
1994-95; 2000; Baldassari 2002a): spesso si tratta di
pazienti che hanno visto morire i propri genitori della stessa malattia e che inevitabilmente si dovranno
confrontare con le modalità con cui il genitore ha
contratto l’infezione. Insieme alla diagnosi si troveranno di fronte alla tossicodipendenza o a comportamenti sessuali “a rischio” dei propri padri e madri, ta-
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Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
luni prenderanno coscienza della loro situazione di
figli adottivi e quindi di essere stati abbandonati dai
genitori naturali.
Questo percorso, senz’altro doloroso, è una necessità irrinunciabile: la possibilità di parlare delle
proprie emozioni senza essere censurati, l’eventualità di riuscire a farle emergere dal magma indistinto
dell’inconscio rappresenta la strada della crescita.
Prendere coscienza di sé, accettare la propria condizione (qualsiasi essa sia) e superare il dolore e il lutto della perdita dell’immagine idealizzata di sé, è l’unica opportunità che i bambini hanno di poter crescere e giorno dopo giorno diventare uomini.
Il caso di Agata
(con il contributo della Dottoressa Rosanna Martin )
Agata ha 41 anni ed è madre di una ragazza di 16
anni seguita al Day Hospital di Firenze da quando è
stata diagnosticata l’infezione. È stata una diagnosi
tardiva: la donna, a conoscenza della propria malattia già prima della gestazione, ha rimosso il problema
HIV con tutte le sue energie. In tal modo non ha permesso che le venisse eseguito il test in gravidanza e
non sono state attuate le procedure per la diminuzione del rischio allora esistenti. L’infezione della
bambina è stata misconosciuta fino all’età di 5 anni
quando è entrata in ospedale per una grave broncopolmonite. L’infezione stava cedendo il passo alla
malattia e l’AIDS era molto vicino.
La signora chiede oggi una consultazione per il
suo stato di ansia indomabile riguardo la salute della
ragazza: i quotidiani problemi sanitari intercorrenti,
anche lievi, risuonano in lei come un pericolo imminente per la vita della figlia. È qualcosa che le ricorda giorno dopo giorno che, forse, avrebbe potuto curarsi in gravidanza, avrebbe potuto farsi seguire dai
medici per diminuire il rischio di trasmissione.
Avrebbe potuto. Non ha fatto e si sente terribilmente
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Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
colpevole. Ogni colpo di tosse della figlia diventa così una spada che la trafigge evocando la sua colpa che
sembra ora trasformarsi in un’ansia indomabile. Il
senso di colpa dilaniante è fin da subito l’argomento
predominante nelle sedute, ma il passaggio alla storia personale di Agata è immediato e chiarificatore.
Quella di Agata è la storia di una difficile separazione e individuazione dalla madre che, con il suo mancato riconoscimento, non l’ha legittimata alla vita
adulta. Fin da piccola non si è mai sentita amata, per
sentirsi accettata doveva supinamente accontentare il
desiderio materno, essere come la madre chiedeva.
Nonostante i tentativi per accordare queste due istanze (la bambina desiderata dalla madre e il suo vero
Sé) Agata si percepiva sempre molto deludente per la
madre. Questa controllava ogni aspetto della figlia interferendo con la sua natura ribelle, un po’ “maschiaccia” ed emancipata. Bambina dalle grandi doti
artistiche, poco comprese nel piccolo e arretrato paesino in cui la famiglia vive. La madre cerca di insegnarle il cucito e il ricamo, le compera vestiti in cui
la figlia non si riconosce, le indica i soggetti che deve
disegnare, cerca di insegnarle modi di comportamento adatti a una femminuccia di provincia. In Agata cresce la convinzione di non essere mai abbastanza adeguata per la madre e non sembra ricevere l’amore gratuito e incondizionato che dovrebbe spettare a ogni bambino. Cresce la rabbia che, implacabile
e incontenibile, permette l’emergere di una sana volontà di ribellione che la protegge dallo sviluppare
un falso Sé. Nonostante ciò i sentimenti di inadeguatezza e i sensi di colpa sono inevitabili e dilaganti.
Viene obbligata a frequentare una scuola professionale, ignorando la sua parte artistica e creativa che
emerge sempre più prepotente. Il ricordo di sé bambina che, per salvare le lucertole dalla foga distruttrice dei compagni di gioco, le rinchiude nel suo cassetto della biancheria intima, sembra riguardare in
senso simbolico la necessità di nascondere e rinchiu-
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Alessandra Guarino Amato
dere una parte di sé avvertita come viscida e indegna,
ma e allo stesso tempo fragile e bisognosa di protezione e salvezza. Tenta di adeguarsi alle richieste materne fidanzandosi con un ragazzo molto più grande
scelto per lei dalla madre, ma la cosa non regge. Agata si trasferisce lontano, nel nord, lontano dalle costrizioni e dal controllo familiare: frequenta l’Accademia d’Arte nella stessa città in cui vive un cugino
più grande, che può fungere da “lunga mano” genitoriale, frequenta anche l’università.
Il suo progetto individuale sembra sbocciare, ma
la via dell’autonomia ha in sé molti rischi. Inizia così
la “vera” nascita di Agata che contempla, come ogni
nascita, anche un rischio di morte. Dice: “Non mi
sembrava vero poter essere senza controllo, vestirmi
come volevo, sentirmi libera di gestire la mia vita, tutto mi appariva così bello e nuovo, ero felice!”. L’uomo che incontra e di cui si innamora la coinvolgerà
e la stravolgerà in una storia tormentata di odio-amore, vittima-carnefice, Eros e Thanatos… Da lui subirà
di tutto, da lui verrà contagiata. È allora che la lucertola muore soffocata nel cassetto: scopre di aver contratto l’HIV.
Si fa strada l’idea che la madre avesse ragione e
che le sue velleità e desideri di ribellione l’abbiano
portata a ricevere una punizione. Il suo comportamento emancipato ha ucciso la sua parte ribelle e vitale. La colpa e la vergogna imperano e maltrattano
il suo fragile Sé. È come se una grossa “A” rossa (Hawthorne 1850) l’avesse marchiata. Ogni cosa cambia,
tutto il suo Sé ancora in crescita si blocca, la ricerca
dell’autonomia e indipendenza ha portato una macchia indelebile. Anche il modo di vestire vira bruscamente: non si deve essere guardate anche se belle,
meglio scivolare via nell’ombra, rendersi invisibili.
Donna e madre dall’identità incerta e insicura,
più ragazza che adulta, nutre per se stessa una grande sfiducia: difficile se non impossibile essere una
madre adeguata. Nel rapporto con la figlia, Agata in-
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Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
fatti sembra annaspare sentendosi inadatta a svolgere
quella funzione di protezione e rinforzo che essa stessa ha ricevuto in maniera così distorta. Tra loro vi è
una singolare alchimia in cui malattia colpa e vergogna funzionano da elementi catalizzatori che pietrificano madre e figlia in una relazione simbiotica, tipica dell’HIV perinatale.
Con la psicoterapia riesce a contattare le sue antiche ferite e l’ansia si scioglie in pianto, le colpe diventano lacrime e il dolore trova uno spazio per essere accolto e trasformato. Col tempo sembra sorgere all’orizzonte la possibilità di una nuova relazione
con la figlia e con se stessa, una sua identità embrionale inizia a farsi spazio e chiede di essere vista: per
la prima volta trova il coraggio di esporre i suoi lavori artistici. Insieme a essi emerge una donna creativa
e vitale, ancora timida e insicura, ma con il desiderio
di incontrare e attraversare le proprie responsabilità.
La malattia è la sua ferita e la cicatrice l’accompagnerà per tutta la vita. Se è vero che “Noi siamo le nostre storie, i racconti di quello che ci è successo” (Mitchell 2003, p. 107) la storia del contagio ha fatto parte del suo percorso di individuazione e ancora le
chiede qualcosa...: “C’è un insetto molto grosso, sembra
un calabrone… mi viene vicino e io cerco di colpirlo, ci riesco… ma lui ritorna, mi punge la gamba che lentamente
imputridisce. Mi guardo inorridita” .
La malattia sembra in questo sogno anche una
metafora della vita e del timore che tutti abbiamo di
fronte all’eventualità della nostra stessa morte. Del
resto per poterci individuare abbiamo necessità di
contattare le nostre parti sporche, meschine, putride... L’Ombra ha molti modi di presentarsi.
Credo che l’HIV abbia “solo” amplificato un senso
di colpa preesistente: colpa per voler crescere diversa
dalle aspettative materne, colpa per volersi individuare e non essere solo l’oggetto parziale della madre, colpa che ora la immobilizza in un vissuto a metà. Tramite la malattia ha dato un contenitore al suo
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Alessandra Guarino Amato
vissuto colpevole e, pur cucendosi addosso il vestito
dalla grande lettera scarlatta che concretizza la colpa
e la vergogna, ha avuto il coraggio di incontrare se
stessa e guardare al suo dolore che non sempre si
chiama AIDS.
Il peso della colpa e della vergogna
nei genitori e figli con HIV/AIDS
Se nei nostri studi affrontiamo quotidianamente
il tema della colpa e della vergogna giocato sul piano fantasmatico e intrapsichico, nel caso dei pazienti con HIV/AIDS il fantasma prende corpo e vigore.
Per loro non si tratta però “solo” di un fantasma,
non è meramente un gioco di luci e ombre alla stregua della distorsione rifrattiva propria dei miraggi.
Qui lo spettro della colpa è qualcosa di concreto che
attiene ai temi che fondano ogni esistenza umana e
che allo stesso tempo ne rappresentano i limiti: la vita e la morte.
Il senso di colpa, che accompagna ogni trasgressione, riguarda l’azione, anche involontaria; fa quindi
riferimento a ciò che “si è fatto” e al sistema normativo introiettato: il Super Io che, severo e implacabile
giudica e punisce le nostre azioni (vere o presunte) o
i nostri desideri infrattivi (Battacchi 2002).
Il senso della vergogna ha invece a che fare con la
percezione di “come si è”, coinvolge cioè qualcosa
che è costitutivo della persona e che trova origine
nell’ideale del Sé, riguardando specificamente la necessità di corrispondere all’immagine idealizzata per
poter essere amati e considerati degni di amore (Battacchi 2002; Pandolfi 2002).
Mentre la colpa ha una sua funzione psichica, funzionando anche da spartiacque nello sviluppo del
bambino (Freud 1929, 1932) e, offrendo una possibilità riparativa, gli permette di accedere alla fase depressiva (Klein 1932, 1948), la vergogna appare più
difficilmente riparabile perché attiene più global-
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Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
mente al Sé, al suo essere costitutivo, all’essere meritevole di amore per “il solo fatto di esistere”.
Questa precisazione appare fondamentale per poter comprendere quanto colpa e vergogna siano tra
sé legate e intrecciate in un reticolo di proposizioni
complesse e nello stesso tempo quanto siano protagoniste in pazienti portatori del virus HIV. I casi in
cui le donne hanno deciso intenzionalmente di avere rapporti non protetti col partner malato, infezioni
cercate con determinazione, talvolta proprio durante
la gravidanza, infezioni che suggellano un legame
amoroso perverso, in cui vi è la necessità di essere
uniti nella vita e nella morte percorrendo la strada
della malattia, di quella malattia. Legami mortiferi
non solo psichicamente, ma su un piano concreto,
spaventosamente reale. Questi casi così estremi nel
loro presentarsi, ma anche i contagi apparentemente
casuali (come quello di Agata), mi hanno fatto riflettere su quanto il senso di colpa e di vergogna pervada trasversalmente la questione dell’HIV/AIDS degli
adulti e come parallelamente coinvolga i figli di queste madri e padri, neonati che, già nella fantasia dei
genitori, portano sulle spalle il peso della loro colpa,
della loro vergogna.
Pensando alla colpa come a una condizione ontologica dell’esistenza (Galimberti 1999) costitutiva
dell’essere umano, penso a quanto questa condizione si renda concreta per i sieropositivi e a quanto i
bambini che nascono con questa “macchia” incarnino realmente non solo la colpa dei genitori, ma anche la loro stessa colpa semplicemente per essere nati, per essere venuti al mondo. Dall’osservazione di
molti piccoli pazienti in questi anni di lavoro, emerge infatti un loro vissuto comune: “Sono colpevole di
essere malato” quasi a fantasticare che, se non si sono
negativizzati, se non hanno funzionato come parte
sana del genitore, come parte che solleva dalla colpa,
è colpa loro.
Insieme all’angoscia la colpa ontogenetica si riat-
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tiva e si amplifica laddove si abbandona una sicurezza originaria, come avviene in occasione di ogni separazione, anche se fisiologica (come nel caso di
Agata). Questa precisazione però ci induce a pensare
a quanto nei genitori HIV il momento del proprio
contagio abbia collimato con una fase della vita in cui
veniva agita una necessaria separazione dalla famiglia
di origine. Questa spesso si è concretizzata con agiti
di rottura, con uso di sostanze o con relazioni sentimentali con partner dissoluti e sregolati, o comunque attraverso la ricerca, per prove ed errori, della
propria autonomia e indipendenza. Se separarsi ha
portato a ciò, la colpa diventa esponenziale: non solo
si ha colpa di aver tentato la separazione e l’individuazione, ma lungo la strada si è anche stati contagiati dalla peste del nostro secolo. La trasmissione ai
figli esprime simbolicamente l’impossibilità di poter
attuare un risarcimento, qualcosa che si perpetua in
maniera transgenerazionale di padre/madre in figlio
senza possibilità di cambiamento e riparazione. Le
colpe dei padri ricadono davvero sui figli…. Ecco che
si comprende che nel caso dell’HIV/AIDS si tratta di
una colpa esistenziale in cui lo stesso vivere è sentito
come fonte di colpa insostenibile. Questa accezione
(colpa esistenziale) connette la colpa alla depressione, ma apre anche la possibilità ad un eventuale e ulteriore passaggio su cui i genitori HIV positivi si trovano frequentemente a riflettere nel corso delle loro
psicoterapie. Infatti sebbene non si chiuda mai il conto con la colpa, accade che si delinei all’orizzonte l’eventualità di accedere alla responsabilità piuttosto
che rimanere ancorati alla colpa che sembra contenere in sé anche una modalità difensiva (Filippi
2003). Tentare di assumersi la responsabilità del contagio e della malattia, uscendo dalla propria colpevolezza e dal ruolo di vittima rappresenta la possibilità
di aprirsi a una nuova storia in cui l’HIV può essere
sentito come la cicatrice che ci rende riconoscibili a
noi stessi e agli altri (Mitchell 2003). La nostra iden-
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Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
tità è determinata precipuamente dalle nostre vecchie ferite, danni che la vita ci ha inferto che ci rendono quelli che siamo. Ed è questa nostra identità ferita che necessita di confrontarsi anche con la ricerca di senso: dare significato al passato per comprendere il presente è il contenuto di ogni lavoro di analisi. Anche i genitori malati hanno necessità di rintracciare il senso della loro condizione. Elaborare la
colpa dà modo di poter sopportare la responsabilità
e ciò apre la possibilità di accedere a un nuovo modo
(creativo) di gestire i temi complessi della propria vita, della propria infezione e di quella dei figli.
Anche la vergogna segue la strada della trasformazione della colpa in responsabilità: nelle donne
sieropositive che hanno seguito una psicoterapia analitica, la vergogna si stempera insieme alla colpa come se si nutrissero l’una dell’altra. Tuttavia la vergogna ci conduce nell’intersoggettività dell’“essere visti
per ciò che si è” ed essere malati rappresenta per ciascuno di noi una pesante ferita narcisistica. La letteratura ci conferma anche che non ci si vergogna solo
di sé, esiste un “noi” familiare che viene ad essere
contagiato dalla vergogna e le barriere tra il “sé” e il
“noi” non contano più di tanto… La vergogna cioè
supera i limiti dell’individuo andando a contaminare
anche il gruppo di appartenenza e ciò è particolarmente vero nel caso di malattie psichiche o anche di
alcune malattie organiche tra cui l’AIDS. E l’AIDS è
una vergogna familiare di cui è difficile parlare con
terzi. Anche laddove la malattia non faccia esplicitamente parte della storia familiare, esiste un sotterraneo segreto di cui non si parla, che deve essere protetto, custodito. L’adesione alla regola implicita del
silenzio crea la porta di entrata alla vergogna, indipendentemente dall’entità del segreto (Fossum et al.
1986). La questione del segreto familiare da mantenere a qualsiasi prezzo diventa per il bambino un potente attivatore del senso di vergogna, come se aderire al silenzio rappresentasse implicitamente essere
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contaminati da qualcosa che è così grave e umiliante
da non poter essere neppure pronunziato. Il messaggio che arriva in modo non verbale e subliminale
non può essere adeguatamente organizzato dal bambino, pertanto rimane nella psiche infantile come
un’entità indigeribile a formare un possibile nucleo
di psicopatologia. Nascondere la “cosa senza nome”
come accade quotidianamente nella vita di relazione
e scolastica del bambino HIV positivo, favorisce proprio la percezione di una parte di sé (quella parte)
come indegna e immonda. Il disprezzo di sé va allora
a distorcere i nuclei profondi di identità endopsichica e relazionale.
Certamente il senso di vergogna nel bambino si
intreccia pesantemente con il suo sviluppo e, riguardando il “come si è”, va a minare profondamente la
fiducia in se stessi e l’autostima, rischiando di ledere
permanentemente la possibilità di sentirsi amati per
“ciò che si è”, di quell’amore gratuito e senza condizione alcuna tipico della relazione materna (Pandolfi 2002). Se lo sguardo materno estatico e approvante ci introduce e ci legittima all’esistenza, nei bambini infetti lo sguardo materno si appesantisce della
propria colpa e vergogna veicolando nel figlio il senso del pericolo intrinseco all’”esser visti” e “all’essere
toccati”. Se infatti la vergogna prevede la necessità di
non essere visti, perché ciò è sentito come un pericolo per la propria integrità, nell’AIDS si arricchisce
dell’impossibilità ad essere toccati perché contaminanti. Essere individuati come soggetti sieropositivi è
concretamente per essi un pericolo di emarginazione
e solitudine oltre che una stigma sociale dal peso indicibile.
Inoltre in questi bambini si verificano continui accostamenti inconsci tra la vergogna e la colpa per cui
l’equazione che si fa strada interiormente è che certamente ci si deve nascondere perché si è commesso
un qualche genere di misfatto. Parallelamente a
quanto si è osservato nei bambini abusati compare la
221
Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
fantasia che “ciò che mi accade me lo sono meritato
perché sono stato cattivo” e anche la malattia, con le
terapie, le continue analisi talvolta invasive o dolorose diventano parte e conferma di qualcosa che attiene a sé di cui non si è degni.
Il bambino infetto, oltre a portare la sua colpa per
non essersi negativizzato e funzionare come un rimando continuo alla madre e al padre riguardo alla
loro colpa, sembra poter calamitare su di sé anche
una sorta di “colpa originaria” che si inserisce primitivamente nello sviluppo della personalità alla stregua di ciò che accade ai bambini non desiderati, non
voluti e rifiutati intimamente anche se non abortiti e
venuti al mondo. Ciò non sorprende perché effettivamente un frammento di essi è rifiutato fin dall’inizio: la loro parte malata non viene né riconosciuta né
accolta dai genitori che vorrebbero tenere con sé solo il bambino sano.
Un’ultima considerazione sul senso di colpa devastante che dilaga e travolge come uno tsunami nel caso della morte di un componente della famiglia con
HIV: i sopravvissuti, ciascuno per la propria posizione all’interno della famiglia, si sentono in colpa per
il solo fatto di “continuare a vivere”. Il senso di colpa
del sopravvissuto, intriso di vergogna ricorda ciò che
alcuni autori (Levi 1988; Bettelheim 1952) hanno descritto riguardo ai sopravvissuti all’olocausto: non si
può più continuare a vivere senza sentirsi colpevoli
per essere ancora al mondo, respirare, sorridere,
amare, piangere...
“La mia colpa è il fatto di essere ancora vivo”
(K. Jaspers, 1946, p. 73).
Infanzia e adolescenza
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Infanzia e adolescenza
Alessandra Guarino Amato
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Colpa e vergogna nel vivere con l’HIV
Abstract
The paper reports the author psychotherapeutic experience in the work with HIV children and adolescents at the
Meyer Hospital in Florence. Shame and guilt feelings
spread through the family and especially to the mother
(responsible of the virus transmission); in the young patients, even when the diagnosis is unknown to them, due
to the difficult relationship with the mother; to the complexity of the pharmacological treatment, to the frequent
clinical controls and their effects on the normal socialization – under the imperative to secrecy imposed by the social stigmata still related to the type of illness. For adolescents the situation is not better, to them the diagnosis has
to be revealed because of the risks of sexual transmission,
for the marginalization involved, and for the lack of trust
towards the parents. The paper discusses in favour of a
precocious communication of the diagnosis and of the parents assumption of a constructive responsibility.
Infanzia e adolescenza
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La Pratica Analitica
Francesco Bisagni, analista con funzioni di training e
docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia CIPA.
Susanna Chiesa, analista con funzioni di training e
docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia CIPA.
Enrico Ferrari, psicoterapeuta, CIPA.
Nadia Fina, analista con funzioni di training e docente della Scuola di Psicoterapia CIPA.
Alessandra Guarino Amato, pediatra e psicoterapeuta con formazione analitica, è consulente presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria A. Meyer di Firenze
dove si occupa da molti anni della psicoterapia dei
bambini HIV positivi. Collabora con l’Università con
attività di insegnamento di Psicologia del bambino e
dell’adolescente nell’ambito della Scuola di Specializzazione in Pediatria.
Gianni Kaufman, analista con funzioni di training e
docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia CIPA.
Gabriella Mariotti, psicoanalista membro SPI, condirettore di Gli Argonauti.
Bruno Meroni, analista CIPA con funzioni di training.
Gianni Nagliero, analista con funzioni di training e
docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia AIPA.
Anna Sabatini Scalmati, membro didatta dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (AIPPI),
membro associato della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP).
Autori
Finito di stampare nel dicembre 2007
da Àncora Arti Grafiche, Milano - Italia
per conto di La biblioteca di Vivarium
via Caprera 4, Milano