Scarica il testo - Società Italiana di Pediatria

Transcript

Scarica il testo - Società Italiana di Pediatria
Prospettive in Pediatria
Aprile-Giugno 2016 • Vol. 46 • N. 182 • Pp. 169-188
Tavola Rotonda
Il futuro della ricerca clinica
(pediatrica) è affidato ai giovani:
problemi, prospettive, proposte
Napoli, 10-11 marzo 2016
Moderatore
Generoso Andria
Presidente Società Italiana Ricerca Pediatrica (SIRP), Direttore Prospettive
in Pediatria
Lo stato della ricerca di interesse pediatrico in Italia
Giusy Ranucci
Dottoranda di ricerca, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università Federico II, Napoli
La situazione “demografica” della pediatria di territorio,
ospedaliera e accademica e le possibili linee di tendenza
Silvano Bertelloni
UO Pediatria Universitaria, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
La selezione di giovani interessati alla ricerca clinica nella
Neuropsichiatria infantile
Giovanni Cioni
Ordinario di Neuropsichiatria infantile e Direttore della Scuola di Specializzazione di Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa
Il reclutamento dei ricercatori clinici negli istituti di ricovero e
cura a carattere scientifico
Angelo Ravelli
Ordinario di Pediatria, Responsabile UOSD Centro di Reumatologia,
IRCCS Istituto Giannina Gaslini, Genova
Alessandro Aiuti
Ordinario di Pediatria, Direttore dell’UO di Pediatria Immunoematologica,
Ospedale San Raffaele, Milano
Rapporti tra la ricerca specialistica in pediatria e la ricerca
specialistica nella medicina dell’adulto
Francesco Chiarelli
Gianni Bona
Direttore della Clinica Pediatrica, Università del Piemonte Orientale, Novara
Il reclutamento nell’Università di giovani ricercatori dell’area
pediatrica
Claudio Pignata
Associato di Pediatria, Responsabile UOC Immunologia pediatrica, Università Federico II, Napoli
L’esperienza dell’Abilitazione Scientifica Nazionale per i settori scientifico-disciplinari pediatrici
Paolo Paolucci
Ordinario di Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia, Membro Comitato Pediatrico dell’EMA
Andrea Biondi
Direttore della Clinica Pediatrica e Pro-Rettore per l’Internazionalizzazione,
Università degli Studi di Milano-Bicocca, Milano
I giovani e la ricerca clinica pediatrica: tra formazione e “frustrazione” un rapporto sempre più difficile
Maurizio Mennini
Gruppo di Lavoro Ricerca in Pediatria, Osservatorio Nazionale Specializzandi Pediatria
Davide Vecchio
Presidente Osservatorio Nazionale Specializzandi Pediatria, Università
degli Studi di Palermo
Finanziamento di progetti di ricerca per giovani ricercatori
Raffaele Badolato
Associato di Pediatria, Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali,
Università degli Studi di Brescia
Direttore della Clinica Pediatrica, Università G. D’Annunzio, Chieti
Testimonianze
Loredana Maria Marcovecchio
Cambiamenti recenti e proposte per l’avvio alla ricerca clinica degli studenti di Medicina
Cosimo Giannini
Ricercatore universitario di Pediatria, Clinica Pediatrica, Università G. D’Annunzio, Chieti
Dirigente medico, Dipartimento di Pediatria, Università G. D’Annunzio, Chieti
Ricercatore universitario di Pediatria, Università Federico II, Napoli
Dalla specializzazione alla ricerca: il percorso congiunto specializzazione-dottorato di ricerca e la proposta di percorso
formativo (sub)specialistico in pediatria
Giuseppe Saggese
Presidente del Collegio Professori Universitari di Pediatria e della Conferenza Direttori Scuole di Specializzazione in Pediatria, Università di Pisa
Antonietta Giannattasio
Luigi Titomanlio
Ordinario di Pediatria, Université Sorbonne Paris Cité, Direttore Urgenze
Pediatriche, Ospedale Robert Debré, Parigi, Francia
Considerazioni conclusive
Armido Rubino
Emerito di Pediatria, Università Federico II, Napoli
169
Tavola Rotonda
Introduzione
Generoso Andria
La Tavola Rotonda di oggi ritorna
sul tema della ricerca clinica, che
è già stato affrontato in una precedente occasione con un’altra Tavola Rotonda, moderata da Fabio
Sereni e pubblicata nel 2013 sul numero 169 di Prospettive in Pediatria, dal titolo “Ricerca traslazionale e
ricerca clinica in pediatria”.
Il focus della discussione di oggi non sarà concentrato
sugli scarsi investimenti pubblici e privati in ricerca o
sul fatto che i progetti vengono spesso finanziati senza
rispettare criteri di qualità o criteri meritocratici. Il tema
centrale sarà invece quello della difficoltà di reclutare
giovani medici meritevoli e motivati a una carriera nella
ricerca clinica, partendo dalla riflessione che senza i
giovani le prospettive per la qualità anche dell’assistenza non possono che essere preoccupanti.
I partecipanti a questa Tavola Rotonda sono gli autori
di un Libro bianco che la Società Italiana di Ricerca
Pediatrica (SIRP) sta per pubblicare con il titolo: “Il
futuro della ricerca clinica (pediatrica). Problemi, prospettive, proposte” (Giannini Editore). Non a caso la
parola “pediatrica” è inserita in una parentesi, perché
si vuole sottolineare che il problema, di cui si discute
nel Libro bianco della SIRP, è comune in realtà a tutta
la medicina clinica.
In campo internazionale è stata da tempo segnalata
la progressiva diminuzione dei cosiddetti Physician
Scientist, cioè medici che abbiano avuto nel corso
della loro formazione un’esperienza di ricerca, eventualmente anche di base, e siano quindi in grado di
coordinare gruppi di ricerca clinica, con il vantaggio,
rispetto a PhD o a laureati di area biologica o biotecnologica, di una preparazione ed esperienza anche
derivata dalla frequentazione con pazienti.
Questa Tavola Rotonda vuole concentrarsi sulla radice del problema. Se giovani interessati alla ricerca
clinica dopo la laurea in medicina non saranno attratti verso una carriera in istituzioni che sono dedicate all’attività scientifica, ineluttabilmente andremo
incontro all’estinzione della ricerca clinica nel nostro
Paese. Non a caso nel Libro bianco abbiamo parlato
di “morte programmata” o “apoptosi” della ricerca clinica. Ma questa visione apparentemente catastrofica
è sufficientemente giustificata dal contesto nel quale
attualmente ci troviamo?
È opportuno partire, quindi, da una panoramica sullo
stato della ricerca di interesse pediatrico in Italia, che è
affidata a Giusy Ranucci, giovane dottoranda di ricerca,
in questo momento impegnata nel lavoro dell’Osservatorio della Ricerca Pediatrica Italiana, un’iniziativa della
SIRP, che si propone appunto di monitorare nel tempo
quanto viene prodotto nel nostro paese in termini di
pubblicazioni scientifiche che trattano temi di interesse
per la medicina dell’età evolutiva.
170
Lo stato della ricerca di interesse
pediatrico in Italia
Giusy Ranucci
Prima di esporre alcuni risultati,
vorrei chiarire che cosa s’intende
per ricerca “pediatrica”. Da un lato ci
riferiamo alla ricerca che ha come
oggetto tematiche più o meno direttamente correlate con la pediatria e
la promozione della salute dell’età evolutiva (che definiremo “ricerca di interesse pediatrico”) e, dall’altro lato, la
ricerca promossa e coordinata da istituzioni e investigatori che appartengono al mondo pediatrico”.
Quale strumento abbiamo usato per misurare la produttività scientifica nell’ambito della ricerca pediatrica?
Alcuni anni fa, prima all’interno della SIP e più recentemente con la SIRP, abbiamo utilizzato l’Osservatorio
della Ricerca Pediatrica Italiana (ORPI), con lo scopo di
valutare innanzitutto il contributo di pediatri o anche non
pediatri che però svolgano un ruolo leader nella conduzione e nel coordinamento della ricerca pubblicata.
Abbiamo usato come metodologia l’esame di banche
dati bibliometriche, in particolare PubMed, estraendo i
lavori pubblicati da autori italiani che, come ho detto,
avessero svolto il ruolo di coordinamento della ricerca,
con l’esclusione, quindi, dei lavori in cui gruppi italiani
erano stati solo collaboratori.
La Tabella I offre i dati dei lavori di interesse pediatrico,
in confronto con i lavori di ricercatori con affiliazione pediatrica, raccolti fino al 2013, in quanto fino a quell’anno
i lavori scientifici presenti in PubMed riportavano soltanto l’affiliazione del primo autore, presumibilmente
afferente all’istituzione che aveva coordinato la ricerca.
Si nota la tendenza in aumento del numero dei lavori
pediatrici pubblicati, che vale anche per tutte le aree
scientifiche presenti in banca dati. Abbiamo poi cercato
di effettuare anche una valutazione comparativa con altri paesi europei, la maggior parte dei quali paragonabili
all’Italia dal punto di vista economico (ma non per investimenti in ricerca e sviluppo, per i quali il nostro Paese
è al penultimo posto, subito prima della Grecia). Nonostante questo limite, l’Italia precede Olanda, Regno
Unito, Spagna, Svezia, Francia e Germania per quanto
riguarda la numerosità dei lavori, dopo aver corretto i
dati per l’entità degli investimenti per ricerca e sviluppo, a parità di potere d’acquisto della moneta nell’anno
di riferimento. In questa valutazione sulla numerosità
dei lavori rispetto agli investimenti per la ricerca, l’Italia risulta in realtà al secondo posto, anche se prima
dell’Italia si classifica la Grecia, dove evidentemente il
numero di lavori censiti da PubMed risulta superiore a
quello delle altre nazioni esaminate, se normalizzato in
base alla scarsità dei fondi messi a disposizione per la
ricerca in quel paese. Certo il criterio soltanto quantitativo per valutare la ricerca effettuata in un certo paese
deve essere integrato con una valutazione anche della
qualità dei lavori pubblicati. Per questo abbiamo preso
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Tabella I. Numero di lavori “pediatrici”, normalizzato per la spesa in ricerca e sviluppo, pubblicati in alcuni paesi europei
tra il 01/05/2013 e il 30/04/2014.
N° totale lavori/spesa
Lavori di interesse
pediatrico/spesa
Lavori di ricercatori
pediatrici/spesa
GR
3388
GR
344
GR
216
NL
1652
NL
200
I
118
I
1576
I
174
NL
110
E
1377
UK
128
UK
53
UK
1160
S
96
E
48
S
842
E
89
S
40
F
604
F
52
F
33
D
521
D
37
D
23
Gr: Grecia; NL: Paesi Bassi; I: Italia; E: Spagna; UK: Regno Unito; S: Svezia; F: Francia; D: Germania.
a campione i lavori pubblicati nei vari paesi europei nel
corso del mese di giugno 2013, sia da ricercatori non
pediatri, ma su temi di interesse per la pediatria, sia da
ricercatori operanti in istituzioni pediatriche. Abbiamo
scelto come parametro di qualità l’impact factor (IF) di
ogni lavoro che, pur non rappresentando un parametro
assoluto di valutazione della qualità, è comunque da
ritenersi in buona correlazione con essa (Tab. II). Certamente si può osservare che nella produzione di autori
pediatri in alcune nazioni, come i Paesi Bassi e la Germania, è presente una quota maggiore di lavori pubblicati su riviste a più alto IF. Tuttavia, in questo panorama
europeo l’Italia non appare molto distante da altri paesi
che investono di più nel settore della ricerca.
Generoso Andria
Non è paradossale che l’Italia abbia una produttività
scientifica buona, in senso quantitativo, ma anche dal
punto di vista qualitativo, a fronte di scarsi investimenti e
di bassi numeri di addetti alla ricerca nel nostro Paese?
Giusy Ranucci
È vero. Questo apparente paradosso fa sospettare
che alla base deve esserci un “lavoro nero” di giovani
precari (studenti, specializzanti, borsisti, eccetera),
come avviene con l’”economia sommersa”. Da giovane precaria che crede nella ricerca clinica vorrei
contribuire a lanciare un grido d’allarme, perché si
interrompa l’esodo verso altri sbocchi professionali di
Tabella II. Percentuale per range di I.F. dei lavori su temi di interesse pediatrico prodotti dalla ricerca europea tra il
01/05/2013 e il 30/04/2014.
%
Ricercatori NON Pediatri
I
UK
D
F
E
NL
S
GR
IF = 0
30
32
20
10
19
19
23
38
IF = 0-1
6
5
11
17
6
1
2
9
IF = 1-3
34
35
25
27
30
35
45
29
IF = 3-5
17
15
24
28
29
34
20
19
IF = 5-10
7
10
12
14
12
7
6
5
IF > 10
6
3
8
4
4
4
4
-
Ricercatori pediatri
I
UK
D
F
E
NL
S
GR
20
34
18
20
24
15
14
25
IF = 0
IF = 0-1
6
4
2
28
-
2
8
29
IF = 1-3
52
35
40
26
48
30
46
39
IF = 3-5
14
16
26
19
22
29
26
7
IF = 5-10
6
9
9
5
4
19
3
-
IF > 10
2
2
3
2
1
5
3
-
Gr: Grecia; NL: Paesi Bassi; I: Italia; E: Spagna; UK: Regno Unito; S: Svezia; F: Francia; D: Germania
171
Tavola Rotonda
giovani motivati e meritevoli, indispensabili per mantenere anche la ricerca pediatrica agli attuali livelli
medio-alti.
Generoso Andria
Mi sembra giusto che questa Tavola Rotonda sulla ricerca clinica pediatrica affidata ai giovani sia stata aperta
da una giovane ricercatrice, che ha voluto concludere
il suo intervento con un avvertimento: i giovani pediatri
che vorrebbero impegnarsi nella ricerca clinica si stanno rendendo conto che è meglio orientarsi verso altri
sbocchi di carriera, prima che sia troppo tardi.
Se, però, ci riferiamo alla forza lavoro dei pediatri, dei
chirurghi pediatri e dei neuropsichiatri infantili, sul territorio, negli ospedali e nell’università, vediamo qual è
il trend complessivo e le proiezioni per il futuro. Silvano Bertelloni, in collaborazione con colleghi di varia
provenienza nell’area pediatrica, ha condotto per il
Libro bianco della SIRP un’indagine sulla situazione
demografica della pediatria di territorio, ospedaliera,
accademica. Lo pregherei di focalizzarsi nel suo intervento sui dati più significativi che mostrano la progressiva riduzione di pediatri operanti nelle varie aree, in
relazione a quanto questo impatterà sul reclutamento
di giovani per carriere scientifiche di ricerca clinica.
La situazione “demografica” della
pediatria di territorio, ospedaliera
e accademica e le possibili linee di
tendenza
Silvano Bertelloni
Per prima cosa vorrei sottolineare
che la situazione della pediatria
italiana è piuttosto variegata. In
totale, il numero totale dei pediatri
è abbastanza elevato, ma “frammentato”. Il “gruppo” più consistente è certamente rappresentato dalla pediatria di famiglia, che attualmente
dispone di oltre 7500 specialisti, dei quali oltre 6100
raggiungeranno però l’età massima pensionabile tra
il 2015 e 2030 e solo in parte potranno essere rimpiazzati dai nuovi specialisti, se i contratti delle scuole
di specializzazione resteranno ai livelli attuali. La pediatria di famiglia ha al momento scarso impatto dal
punto di vista della ricerca scientifica, anche a livello
internazionale. Con l’attivazione dell’indirizzo in pediatria delle cure primarie della nuova scuola di specializzazione potrebbe aumentare il numero di professionisti interessati alla ricerca clinica, come dimostra
l’iscrizione di numerosi pediatri di libera scelta negli
elenchi dei medici accreditati a partecipare a sperimentazioni cliniche.
La rete ospedaliera pediatrica è costituita da un numero relativamente elevato di unità operative: 422 nel
2013, contro un fabbisogno calcolato di circa 300 in
base agli standard del Progetto obiettivo materno-in172
fantile del 2000. Tuttavia, in molte strutture ospedaliere pediatriche si ha una scarsità di personale, per cui
vi è difficoltà a coprire adeguatamente le varie attività
assistenziali, soprattutto per quanto riguarda le specialità pediatriche. L’elevato livello di attività, spesso
inappropriato come nei Pronto Soccorsi pediatrici, aggravato dall’applicazione della normativa europea relativa all’orario di lavoro, non favorisce quindi in molti
ospedali lo sviluppo di ottimali percorsi di ricerca.
Venendo alla pediatria universitaria, che istituzionalmente dovrebbe promuovere la ricerca e favorire l’inserimento dei giovani Pediatrician Scientist, si deve
considerare che l’organico del settore scientifico disciplinare di pediatria generale e specialistica (MED
38) è quantitativamente piccolo rispetto al numero
totale dei pediatri [circa il 2%, cioè 313 strutturati al
31 dicembre 2015 (professori ordinari 54, professori
associati 109, ricercatori 150)] e in progressivo decremento, secondo le proiezioni del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR).
Dei circa 3000 neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, la componente universitaria (MED 39)
comprende, al 31 dicembre 2015, 77 strutturati (professori ordinari 17; professori associati 21; ricercatori
39). Anche in questo settore disciplinare, è probabile
un progressivo decremento, secondo le proiezioni del
MIUR, in particolare per quanto riguarda il ruolo di
ricercatore. Situazione analoga si ha per la chirurgia
pediatrica (MED 20).
In sintesi, il quadro complessivo attuale è quello di un
elevato numero di pediatri e professionisti di area pediatrica, spesso operanti in contesti troppo piccoli o
frammentati, che – oltre a non permettere il raggiungimento di standard qualitativamente adeguati e un’ottimale disponibilità di risorse specialistiche e tecnologiche avanzate per impostare adeguati percorsi di ricerca clinica – non hanno possibilità di formare e reclutare
giovani Pediatrician Scientist in carriere di ricerca. A
questo proposito, voglio ricordare che, sia in Italia sia
a livello mondiale, è in costante aumento il numero di
donne in pediatria. Le donne hanno “fisiologicamente”
una maggiore difficoltà nel conciliare la carriera di ricerca e la famiglia, per esigenze legate alle gravidanze e
alla maternità. Per restare all’università italiana, a fronte di una non grande differenza tra maschi e femmine
nell’ambito di tutti i ruoli universitari pediatrici (maschi
circa 55% e femmine circa 45%), a livello di professori
ordinari gli uomini sono 87% e le donne solo il 13%.
Considerando dunque che la stragrande maggioranza
dei medici che oggi scelgono la pediatria sono donne, bisogna affrontare la gestione delle diseguaglianze
legate al genere nei percorsi di carriera per medicoscienziato e, più in generale, anche gli squilibri economici esistenti tra i vari ambiti professionali.
Generoso Andria
Silvano Bertelloni ci ha presentato le linee di tendenza della “demografia” della pediatria italiana, da cui si
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
deduce che anche nei luoghi dove la ricerca clinica
dovrebbe svolgersi “per dovere istituzionale” si può
prevedere un calo degli addetti ai lavori, complicato
da una scarsa attrattività avvertita dai giovani medici
per i motivi che cercheremo di approfondire nel corso
di questa Tavola rotonda. Tra questi ci segnala anche
le difficoltà che le giovani pediatre incontrano per diseguaglianze di genere, che le indirizzano eventualmente verso altri sbocchi professionali.
Nell’area pediatrica un ruolo importante è svolto dalla
neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, che
è autorevolmente rappresentata in questa tavola rotonda da Giovanni Cioni, a cui chiedo che cosa avviene nel suo settore per formare e reclutare ricercatori
clinici.
La selezione di giovani interessati
alla ricerca clinica nella
neuropsichiatria infantile
Giovanni Cioni
Vorrei fare una piccola premessa
per sottolineare che il 21º secolo
è descritto come il secolo del cervello e che le neuroscienze rappresentano un settore scientifico
in continuo ed enorme sviluppo. Tutto questo è documentato da vari report internazionali, che documentano come il 16% della produzione scientifica mondiale è nel campo delle neuroscienze e che tali articoli
sono stati citati il 14% in più di tutte le aree tematiche.
Qual è la situazione della ricerca italiana, che pure è
considerata globalmente di buona qualità, nell’ambito
delle neuroscienze, come testimoniano i premi Nobel
Camillo Golgi e Rita Levi Montalcini e neuroscienziati
prestigiosi come Moruzzi e i suoi allievi?
Passo quindi all’argomento più specifico della neuropsichiatria infantile e alle possibilità di formazionelavoro per i giovani medici interessati alla ricerca sanitaria nel settore. Anche per il nostro settore valgono
ovviamente tutte le problematiche che saranno discusse in questa Tavola Rotonda circa la formazione
alla ricerca del corso di laurea in medicina e chirurgia,
alle limitate possibilità ai fini formativi per la ricerca
offerte dalle scuole di specializzazione, per cui pochi
specializzandi chiedono di far coincidere l’ultimo anno
della scuola con il primo anno del dottorato e al numero molto limitato di ricercatori a tempo determinato di
tipo A (solo 1) e di tipo B (solo 1), che fanno capire i
limiti del settore scientifico disciplinare MED 39, relativamente alla ricerca universitaria. Che cosa può fare
dunque oggi un giovane interessato alle neuroscienze
cliniche dell’età evolutiva per presentare un progetto
di ricerca a bandi di selezione su base competitiva?
In ambito pubblico, la fonte di finanziamento principale della ricerca sanitaria in Italia è rappresentata
dal Ministero della salute, attraverso i bandi di ricerca
finalizzata, ma esiste ovviamente anche il MIUR, con
i bandi PRIN e le Regioni. Ci sono poi fonti private
non profit come AIRC, Telethon, ma anche le industrie farmaceutiche come privato for profit, benché il
rapporto proporzionale tra finanziamento pubblico e
privato alla ricerca sanitaria sia fortemente sbilanciato
a favore del primo (due terzi verso un terzo). Nell’ambito del bandi pubblici del MIUR non c’è stato nessun
vincitore per le neuroscienze dell’età evolutiva, né nei
PRIN 2010-2012, né per il bando FIRB 2013 dedicato
ai giovani. Molto più interessanti i dati relativi ai progetti di ricerca finalizzata del Ministero della salute.
Dopo un rigoroso processo di selezione, sono risultati approvati 221 progetti su 13.000. Tra i progetti per
giovani ricercatori risultati vincitori, 19 su 47 nell’area
clinico-assistenziale erano riferiti a temi di neuroscienze, di cui due per neuroscienze dell’età evolutiva
(a fronte di quattro per le altre aree pediatriche). Su 46
progetti biomedici vincitori, 13 erano nell’ambito delle
neuroscienze, di cui due nel campo delle neuroscienze dell’età evolutiva (a fronte di tre per tutte le altre
aree pediatriche). I risultati sono quindi buoni per le
neuroscienze in generale, fortemente rappresentate
anche nell’ambito della rete degli IRCCS, ma molto
meno favorevoli per le neuroscienze dell’età evolutiva
e quindi per progetti che potevano coinvolgere ricercatori formati nell’ambito della neuropsichiatria infantile. Tuttavia è da rilevare che sembra ancora peggiore
la performance dei ricercatori appartenenti alle scienze pediatriche diverse dalle neuroscienze.
In conclusione, tutta la medicina dell’età evolutiva, pediatria e neuropsichiatria infantile, ha bisogno grande
di ricerca, per poter fare sempre meglio l’assistenza. È sempre più importante investire in Clinical Trial
Center per la sperimentazione di terapie innovative.
Per questo i giovani neuropsichiatri infantili o i giovani
pediatri devono sempre meglio essere formati a diventare protagonisti di questi nuovi ambiti di ricerca
clinica, senza trascurare il ruolo formativo di un’esperienza di ricerca anche in ambito preclinico, almeno
per gli aspetti metodologici. È necessario che risorse
vengano dedicate alla ricerca di tipo assistenziale,
soprattutto quella destinata ai giovani, ma con particolare attenzione alle caratteristiche dei progetti da
prevedere nei bandi, impedendo che l’indicazione del
giovane ricercatore sia usata come “bandiera” all’interno di progetti gestiti di fatto da ricercatori senior.
Desidero infine sottolineare che la ricerca clinica deve
andare anche oltre le strutture di eccellenza scientifica e assistenziale e coinvolgere le strutture territoriali
di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza,
con indispensabili collegamenti che saranno possibili
solo attraverso la formazione dei giovani medici alla
ricerca clinica nella scuola di specializzazione.
Generoso Andria
Abbiamo ascoltato da Giovanni Cioni una relazione da cui si evince che la ricerca nell’ambito delle
173
Tavola Rotonda
neuroscienze, in particolare negli IRCCS, di cui fa
parte anche la Stella Maris di Pisa, riesce forse a
garantire maggiori stimoli per il coinvolgimento dei
giovani, rispetto a quello che avviene nelle istituzioni universitarie che possono proporre progetti per i
bandi di ricerca finalizzati della Sanità, ma solo se
i proponenti sono universitari in convenzione con il
SSN.
Approfondiamo allora questo argomento con interventi di due professori universitari, Angelo Ravelli e
Alessandro Aiuti, che operano rispettivamente in un
IRCCS pubblico pediatrico come il Gaslini di Genova
e in un IRCCS privato generalista, come il San Raffaele di Milano.
A Ravelli comincerei a chiedere un chiarimento sull’Associazione degli Ospedali Pediatrici Italiani (AOPI).
Il reclutamento dei ricercatori
clinici negli istituti di ricovero e
cura a carattere scientifico
Angelo Ravelli
L’AOPI è una ONLUS creata nel
2005, a seguito di una libera e volontaria aggregazione, ed è composta dai direttori generali dei tre
IRCCS pediatrici (Istituto Giannina Gaslini di Genova, Bambino Gesù di Roma e Burlo Garofolo di Trieste), degli ospedali Meyer di Firenze, S. Anna di Torino, Salesi di Ancona, Santobono
di Napoli, Civico Di Cristina di Palermo, Vittore Buzzi
di Milano e dei dipartimenti di pediatria dell’Ospedale
di Padova e degli Spedali Civili di Brescia. Tuttavia la
ricerca clinica è, per dovere istituzionale, particolarmente attiva nei tre IRCCS pediatrici, uno dei quali,
l’Ospedale Bambino Gesù è privato, con maggiore
flessibilità e autonomia di gestione, anche delle carriere. La ricerca clinica è poi ugualmente molto qualificata in ospedali pediatrici a cui afferiscono strutture
pediatriche universitarie, così come nei dipartimenti
pediatrici appartenenti ad aziende ospedaliero-universitarie (Padova e Brescia).
Generoso Andria
Qual è, ad esempio, l’offerta formativa e il possibile
percorso di carriera di ricerca nel Gaslini?
Angelo Ravelli
Presso il Gaslini sono presenti tutte le specialità pediatriche, mediche e chirurgiche, accanto a cattedre
universitarie convenzionate e a numerosi laboratori
di ricerca. Gli ultimi due anni della scuola di specializzazione sono dedicati alla preparazione della tesi
di specializzazione presso una delle strutture universitarie. Attraverso questo meccanismo, viene offerta
allo specializzando l’opportunità di entrare in contatto con un ampio ventaglio di settori specialistici e di
174
maturare un interesse, clinico o scientifico, per una
delle diverse superspecialità pediatriche, grazie anche al coinvolgimento dello specializzando nei progetti di ricerca in atto presso la divisione. Durante il
corso di specializzazione viene consentita, agli specializzandi che ne fanno richiesta, l’effettuazione di
stage presso ospedali esteri particolarmente qualificati, allo scopo di approfondire la propria esperienza
in uno specifico ambito clinico o di condurre progetti
di ricerca collaborativa con il Gaslini. Nel complesso,
quindi, le attività formative garantiscono allo specializzando l’acquisizione degli elementi essenziali
della metodologia di ricerca clinica e della capacità
di sviluppare, presentare e discutere un proprio progetto scientifico.
Dopo il conseguimento della specializzazione, al
giovane pediatra interessato a proseguire l’attività di
ricerca viene proposta un’ampia gamma di opzioni,
sia in ambito universitario che ospedaliero. L’offerta
universitaria è basata sull’assegnazione di un dottorato di ricerca, di durata triennale, oppure di un
assegno di ricerca, di durata annuale, ma rinnovabile. Negli ultimi anni, la Direzione Scientifica del
Gaslini ha attivato numerosi contratti di eccellenza,
assegnati su base competitiva e meritocratica a giovani ricercatori dotati di pubblicazioni di prestigio e
progetti competitivi. Grazie a queste opportunità, è
stato possibile trattenere al Gaslini, almeno per alcuni anni, numerosi neo-specialisti, che hanno concorso in maniera determinante alla realizzazione di
importanti studi e progetti di ricerca. Attingendo ai
finanziamenti del 5 per mille o con lo stanziamento
di fondi ad hoc da parte della rete PRINTO (Pediatric Rheumatology International Trials Organization),
il cui centro direzionale ha sede presso il Gaslini,
sono stati reclutati alcuni ricercatori universitari a
tempo indeterminato o determinato. La difficoltà principale nel dare continuità all’impegno di un giovane
che manifesti una “vocazione” per la ricerca è quella
di offrirgli una situazione lavorativa ragionevolmente stabile, in particolare una posizione di ricercatore universitario. Questo sbocco di carriera rimane,
infatti, estremamente difficile a causa della cronica
carenza di punti organico per il reclutamento delle
università italiane. L’arruolamento potrebbe essere
facilitato dalla possibilità di reclutare nuovi ricercatori a tempo determinato a costo zero in termini di
punti organico, qualora si reperissero fondi esterni
sufficienti a coprire il costo del salario per il periodo
triennale, senza pesare sui dipartimenti universitari,
né in termini economici che di punti organico.
Generoso Andria
Adesso la parola ad Alessandro Aiuti, che ci presenta
il modello di un IRCCS privato e non esclusivamente
pediatrico, altrettanto noto per l’eccellenza nella ricerca medica.
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Alessandro Aiuti
L’IRCCS Ospedale San Raffaele
è un ospedale multispecialistico
ed è il primo IRCCS italiano per
impact factor prodotto e per finanziamento ricevuto dal Ministero
della salute. La ricerca scientifica del San Raffaele è
organizzata secondo un modello nel quale le attività
che si svolgono nei dipartimenti clinici sono embricate “a matrice” con le attività di ricerca scientifica che si
svolgono presso le divisioni e i centri di ricerca. Il San
Raffaele ospita 99 unità di ricerca di base e 84 gruppi
di ricerca clinica, conta 13 scuole di specializzazione
di area medica (tra cui la Scuola di Specializzazione
in Pediatria). Il corso di dottorato di ricerca internazionale in medicina molecolare ha l’obiettivo di formare
dottori di ricerca in grado di inserirsi proficuamente
nei comparti della ricerca di base, clinica e industriale. Ha durata triennale, fruisce di un co-finanziamento
da parte del MIUR e comprende 4 curricula: 1) fisiopatologia cellulare e molecolare; 2) immunologia
e oncologia di base e applicata; 3) medicina clinica
e sperimentale; 4) neuroscienze e neurologia sperimentale. Trasversale ai 4 curricula, è previsto un programma di terapia genica e cellulare.
Il percorso di carriera di un giovane interessato alla
ricerca si sviluppa inizialmente attraverso la specializzazione o il dottorato di ricerca, per poi transitare nel
ruolo di post-doc e in un secondo tempo in quello di
project leader. Il passo successivo è il passaggio a
group leader, che può sfociare nel ruolo dirigenziale
di capo Unità (head of unit). Le promozioni a group
leader e head of unit vengono valutate e decise da
un apposito comitato istituzionale (Committee for appointment and promotion) sulla base di criteri pubblici
e condivisi.
Generoso Andria
Questo tipo di sviluppo delle carriere, basato su un
modello internazionale, è consentito per lo status di
IRCCS privato, che consente maggiori autonomie organizzative rispetto agli IRCCS pubblici?
Alessandro Aiuti
Certamente sì. Il modello del San Raffaele è, quindi, quello di un IRCCS privato che ha potuto definire
offerte di carriera a giovani motivati per la ricerca clinica, produttivi e meritevoli, con maggiore flessibilità
rispetto al reclutamento del personale negli IRCCS
pubblici.
Un esempio interessante di percorso di carriera nella ricerca presso il San Raffaele, peraltro in tema col
contenuto di questo nostro Forum, è quello del Physician Scientist. I compiti di questa figura di ricercatore
sono quelli di promuovere e implementare la ricerca
traslazionale all’interno dell’istituzione di appartenenza, favorire l’integrazione tra ricerca e attività clinico-
assistenziale e accelerare i processi di trasferimento
dei risultati dalla ricerca di base alla ricerca clinica
e viceversa. Il reclutamento del Physician Scientist
avviene attraverso un bando aperto. I giovani ricercatori vengono reclutati presso il San Raffaele attraverso diverse modalità e privilegiando i vincitori dei
bandi MIUR per giovani ricercatori, i vincitori dei bandi ERC di ricerca di base, gli assegnatari dei bandi
di carriera Telethon da parte del Dulbecco Telethon
Institute, gli assegnatari dei bandi di carriera AIRC e
gli assegnatari di altri bandi individuali, ad esempio
quelli dell’Associazione Fibrosi Cistica, FISM, AriSLA
ecc. L’acquisizione di questi finanziamenti viene considerata di fondamentale importanza per la qualificazione del giovane ricercatore e può rappresentare il
primo passo verso la sua indipendenza lavorativa e
scientifica. Dal 2011 a oggi sono stati reclutati presso
il San Raffaele 31 giovani ricercatori, grazie ai fondi
della ricerca finalizzata e 9 ricercatori tramite i finanziamenti ERC.
Generoso Andria
Una delle caratteristiche della pediatria rispetto alla
medicina dell’adulto è di aver conservato un approccio generalista e “olistico” verso il paziente. Tuttavia
anche nella cosiddetta medicina dell’età evolutiva si
sono progressivamente sviluppate le specialità rivolte
a fasce d’età (neonatologia e adolescentologia), ma
anche specialità d’organo e apparato, analogamente
a quelle nate dalla medicina interna. Molte di queste
specialità pediatriche sono estremamente attive nella
ricerca clinica, anche se soffrono di un “complesso di
inferiorità” nei confronti delle corrispondenti specialità della medicina dell’età adulta. Chiedo di chiarire
questi rapporti tra specialisti omologhi, ma per fasce
di età diverse, a Franco Chiarelli, professore di Pediatria e nello stesso tempo ricercatore clinico di statura
internazionale nel campo della endocrinologia e diabetologia pediatrica.
Rapporti tra la ricerca specialistica
in pediatria e la ricerca
specialistica nella medicina
dell’adulto
Francesco Chiarelli
Un primo punto rilevante di discussione è rappresentato dal
differente impatto che hanno le
principali riviste scientifiche che si
occupano di uno specifico settore
della medicina dell’adulto, se confrontate con le riviste di ambito pediatrico, generali e
specialistiche.
Confrontando gli IF di alcune delle più diffuse riviste
questa differenza appare evidente. La rivista pediatrica con più alto IF ha un valore di circa 7, mentre il
175
Tavola Rotonda
valore medio delle riviste pediatriche è intorno a 3,5.
Per quanto riguarda le riviste di medicina generale invece l’IF maggiore è quello del New England Journal
of Medicine (55,873). Tale divario permane anche in
campo specialistico (ad esempio il Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism ha un IF 10 volte
superiore al Journal of Pediatric Endocrinology and
Metabolism. Ma un gruppo che si occupa di ricerca
pediatrica riesce a pubblicare su tali riviste non di settore? Generalmente, le pubblicazioni su riviste con
alto IF (soprattutto trial clinici e studi sperimentali)
presentano livelli di evidenza maggiori rispetto ai lavori pubblicati su riviste con IF più basso, come quelle
pediatriche generaliste e specialistiche. Tuttavia le riviste cliniche ad alto IF pubblicano soltanto una parte
dei lavori scientifici che vengono invece resi fruibili
dalle riviste di pediatria generale, che hanno un IF
più basso, ma che possono raggiungere un maggior
numero di pediatri.
Un settore molto attivo della ricerca scientifica è
quello della sperimentazione di nuovi farmaci, indirizzati a gruppi di popolazione generale, e pediatrica in particolare, con specifiche condizioni morbose. Per la maggior parte, i farmaci attualmente disponibili sul mercato sono stati studiati e sperimentati quasi esclusivamente su pazienti adulti e sono
spesso privi dell’autorizzazione per l’uso specifico
nei bambini (uso off-label). Gli RCTs su popolazioni
pediatriche vengono pubblicati soprattutto su riviste
di pediatria generale (come Pediatrics) piuttosto
che su general medical journals. Infine, il numero
elevato di lavori diversi dagli RCTs (ad esempio,
studi osservazionali ed epidemiologici) può fornire
una spiegazione alternativa o suppletiva all’aumento di questo gap tra la ricerca in età adulta e quella
in ambito pediatrico. L’Europa e gli Stati Uniti hanno
emanato leggi e regole che incoraggiano le industrie farmaceutiche a investire una parte delle loro
risorse nella ricerca sul paziente pediatrico, al fine
di ottenere dati sull’efficacia, la sicurezza e i profili
farmacocinetici e farmacodinamici dei nuovi agenti
farmacologici. Ciò nonostante, a oggi non si evince una riduzione netta del gap con la produzione
scientifica sull’adulto.
Generoso Andria
Una domanda finale a Francesco Chiarelli: quanto è
importante per le specialità pediatriche mantenere
alti livelli di qualità scientifica e quindi di qualità assistenziale per “contrastare” il rischio ricorrente che i
bambini con problemi specialistici vengano indirizzati
e curati dallo specialista dell’adulto?
Francesco Chiarelli
Certamente l’interazione tra ricerca clinica pediatrica
e ricerca clinica nella medicina dell’adulto può generare o aumentare il rischio di invasione della medicina dell’adulto anche nell’assistenza dei bambini con
176
patologie specialistiche: tale rischio può essere prontamente prevenuto attraverso una ricerca scientifica
sempre più ricca di contenuti e nuove evidenze, che
permetta anche di stilare linee guida validate, al fine di
limitare la generalizzazione degli interventi clinici sulla base delle evidenze disponibili sulla popolazione
adulta. Inoltre sviluppare tali linee guida significa monitorare efficacemente le stesse evidenze scientifiche
e individuare le aree di incertezza verso cui indirizzare la ricerca clinica, soprattutto nei settori specialistici
della pediatria. La risposta ideale sarebbe rappresentata da un’agenzia nazionale per la ricerca clinica e
l’appropriatezza, in modo da limitare l’ingerenza della
ricerca condotta sugli adulti, rispetto a quella condotta
in età pediatrica.
Generoso Andria
A questo punto è da ricordare il ruolo delle società
scientifiche pediatriche per la promozione della ricerca clinica. Purtroppo Giovanni Corsello, presidente
della SIP e della FIARPED (Federazione delle società e Associazioni pediatriche italiane), non ha potuto
essere tra noi oggi, ma ci ha inviato le sue riflessioni (che appariranno nel Libro bianco della SIRP, in
preparazione). Alcune linee lungo le quali si possono
indirizzare interventi efficaci da parte delle società
scientifiche possono essere, secondo Corsello, riassunte in: interventi di stimolo e di supporto verso giovani medici e ricercatori interessati a svolgere stage di
ricerca in centri accreditati a livello nazionale e internazionale, attraverso borse o premi; corsi di formazione alla metodologia della ricerca scientifica; collaborazione e sinergia con le società scientifiche dell’area
pediatrica dei vari paesi; pubblicazione di linee guida
e di protocolli clinici in grado di favorire lo sviluppo di
studi e di ricerche finalizzate; coordinamento per la
costruzione di network tra enti e istituzioni interessati
a mettere insieme casistiche e approcci diagnostici di
laboratorio.
Ritorniamo ora ai giovani e alla loro formazione. Nel
titolo di questa Tavola Rotonda abbiamo voluto enfatizzare il messaggio che il futuro della ricerca clinica
dipende dai giovani. Ma perché un giovane sia attratto
e scopra un interesse o una vocazione per l’attività
scientifica applicata alla medicina, deve avere contatti
con questo mondo, incontrare ricercatori che lo motivino e poi convincersi che valga la pena di fare una
scelta che comporta rischi, rispetto a sbocchi professionali più tranquilli e remunerativi.
A Giannini che vive in una realtà come la Clinica
pediatrica di Chieti, dove si insegna allo studente di
medicina e si fa ricerca clinica, ho chiesto di illustrare che cosa è successo recentemente nel corso di
laurea in medicina con alcune nuove normative nazionali che hanno di fatto reso difficile un’esperienza
anche preliminare di ricerca per uno studente motivato.
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Cambiamenti recenti e proposte
per l’avvio alla ricerca clinica degli
studenti di medicina
Cosimo Giannini
Ciò che si sta verificando è il progressivo allontanamento dei laureati in medicina e chirurgia dall’addestramento alla ricerca scientifica, le cui cause si potrebbero
riassumere come segue:
• la difficoltà a confrontarsi in maniera continuativa
con la ricerca durante il corso di laurea magistrale
in medicina e chirurgia;
• la carenza di una proposta didattica che integri
l’addestramento alla professione medica con quello alla ricerca;
• la difficoltà a continuare il percorso formativo postlaurea con il corso di dottorato, che entra in competizione con lo svolgimento della scuola di specializzazione.
Generoso Andria
Quindi oggi nel corso di laurea in medicina è difficile “catturare”, come per il passato, uno studente che
abbia voglia di essere coinvolto in un progetto di ricerca. Ma più tardi si verifica questo coinvolgimento,
più difficile è reclutare un giovane verso un impegno
in campo scientifico. Chiedo a Giannini che cosa si fa
all’estero e si potrebbe fare in Italia per favorire presto, già durante il corso di laurea in medicina, questa esposizione all’attività di ricerca dello studente e
naturalmente incanalarlo verso una possibile carriera
accademica e scientifica.
Cosimo Giannini
Il programma MD-PhD (dall’inglese MD: Medical
Doctor e dal latino PhD: Philosophiæ Doctor) è un
percorso destinato a studenti in medicina fortemente
motivati. Negli Stati Uniti è stato avviato negli anni ’50.
Successivamente il Canada e anche alcuni paesi europei ed extra-europei hanno adottato nel corso degli
anni il programma MD-PhD ricalcando, con piccole
variazioni, il sistema americano e tra questi la Gran
Bretagna, la Germania, la Svizzera, oltre all’Australia
e Singapore. In Italia, il programma MD-PhD è stato
sperimentato in un importante ateneo italiano, nell’Università degli Studi di Torino, e successivamente è
stato parzialmente esteso anche ad altri atenei. Il percorso MD-PhD in Italia è oggi strutturato come percorso formativo aggiuntivo al corso di laurea in medicina
e chirurgia, a partire dal 2° anno, e porta al conseguimento simultaneo della laurea in medicina e chirurgia
e del certificato di alta qualificazione denominato “Diploma in Medicina Sperimentale”.
Il programma MD-PhD ha essenzialmente l’obiettivo
di preparare i futuri medici a operare nel punto d’in-
contro tra la medicina clinica e la ricerca sperimentale. Pertanto il programma MD-PhD nasce dalla volontà di investire sulla formazione di medici con particolari capacità e potenzialità di guidare la transizione
o la “traslazione” bench-to-bedside, che permetta in
modo rapido di trasferire i risultati dal laboratorio al
paziente, in quella che si definisce appunto “Medicina
Traslazionale”. L’obiettivo didattico è istruire un gruppo ristretto di studenti di medicina e chirurgia, affinché sviluppino interesse e competenza alla ricerca e
vengano motivati a continuare dopo la laurea il loro
percorso formativo, con l’acquisizione del dottorato di
ricerca. Questo programma preparerà giovani medici capaci di lavorare in scienze di base, traslazionali
e cliniche, per incrementare conoscenze mirate allo
sviluppo e all’applicazione di nuovi approcci di prevenzione, diagnosi e terapia.
Il doppio percorso permette di acquisire competenze
e crediti formativi per i corsi di dottorato di ricerca, che
resta in ogni caso una scelta offerta ai diplomati e non
un percorso obbligatorio.
Come già accade in diverse realtà europee, per
esempio in Germania, al fine di permettere una adeguata differenziazione degli studenti coinvolti in programmi MD-PhD, si dovrebbero stabilire due tipologie
di lauree: (a) una più medica, con acquisizione del
titolo di “Medico” e possibilità di ulteriori sbocchi verso
attività specialistica-professionale; e (b) una più specifica “medico-scientifica”, con acquisizione del titolo
di “Dottore in Medicina”, ma con maggiori sbocchi nel
campo accademico-clinico e della ricerca. Tale processo dovrebbe essere cosi rivolto al potenziamento
del valore della tesi di laurea degli studenti afferenti al
programma MD-PhD, i quali, al termine del processo
formativo acquisirebbero comunque il titolo di dottore in medicina. Al contrario, gli studenti direttamente
coinvolti nel corso di laurea in medicina e chirurgia
potrebbero proseguire il proprio corso di laurea senza elaborare una tesi di laurea al termine del corso e
acquisire il titolo di medico. Tali variazioni permetterebbero un’adeguata differenziazione dei due percorsi
formativi.
Generoso Andria
Rispetto al programma MD-PhD, che caratteristiche
ha il cosiddetto “Percorso di Eccellenza” durante il
corso di laurea?
Cosimo Giannini
Il percorso di eccellenza è un progetto nazionale italiano, che ha l’obiettivo di valorizzare la formazione di
studenti iscritti al corso di laurea in medicina e chirurgia, meritevoli e interessati allo svolgimento di attività
di ricerca clinica e/o di base. Per quanto riguarda, per
esempio, l’Università degli Studi di Chieti “G. D’Annunzio”, il percorso di eccellenza è stato introdotto per la
prima volta a partire dall’anno accademico 2013/2014.
Si tratta di un percorso integrativo del corso di laurea
177
Tavola Rotonda
in medicina e chirurgia e consiste in attività formative
extra-curriculari e aggiuntive a quelle del corso di studio. Il percorso di eccellenza si avvicina ai programmi
“MD-PhD” ma presenta, come valore aggiunto, una
caratterizzazione specifica in ricerca clinica di tipo traslazionale. Rappresenta comunque un altro modello
di percorso finalizzato a selezionare e “indirizzare”
giovani studenti motivati verso possibili carriere di ricerca clinica.
Generoso Andria
Prendiamo in ogni caso atto che un percorso tipo MDPhD non si può introdurre rapidamente nel nostro ordinamento didattico. Allora questa “contaminazione”
con la ricerca clinica è di fatto rimandata alla scuola
di specializzazione.
Giuseppe Saggese è il coordinatore della Conferenza
dei direttori delle scuole di specializzazione di pediatria e negli anni ha profuso il suo impegno, condiviso
dai docenti di pediatria, di definire il curriculum formativo dello specializzando, oggi omogeneo a quello
adottato in Europa. Può Saggese illustrare che cosa
è cambiato nella scuola di specializzazione, con particolare riferimento alle opportunità, per un certo numero di specializzandi motivati, di essere attivamente
partecipi e collaboratori di progetti di ricerca?
Dalla specializzazione alla
ricerca: il percorso congiunto
specializzazione-dottorato di
ricerca e la proposta di percorso
formativo (sub)specialistico in
pediatria
Giuseppe Saggese
Il 4 febbraio 2015 è stato emanato il Decreto interministeriale di
riordino delle scuole di specializzazione (DI n. 68). Il Decreto ha
pienamente recepito la proposta
di modifiche avanzate al MIUR e al CUN dalla Conferenza dei direttori delle scuole di specializzazione di pediatria in un documento presentato già nel
2012. Un primo importante risultato ottenuto è stato
quello che, a fronte della diminuzione generale della durata delle scuole di specializzazione attuata
dal MIUR, la durata della pediatria è stata mantenuta di 5 anni.
Il curriculum di base (triennio) è destinato all’acquisizione di un bagaglio di saperi comuni che tutti i pediatri devono possedere, indipendentemente dalla collocazione professionale futura. Anche nella prima fase
del triennio, lo specializzando frequentando durante
le sue rotazioni i reparti specialistici, può iniziare a
seguire progetti di studio e di ricerca clinica.
178
Durante il biennio (sub)specialistico, lo specializzando deve continuare la sua formazione in pediatria generale, neonatologia ed emergenza-urgenza.
Lo specializzando che opta per un indirizzo (sub)
specialistico ha sicuramente l’opportunità di svolgere un’attività di ricerca clinica, essere inserito
in progetti di ricerca e partecipare alla stesura di
pubblicazioni. Un’attività di ricerca clinica può essere svolta anche frequentando l’indirizzo delle cure
primarie e delle cure secondarie ma, ovviamente,
i settori (sub)specialistici rappresentano campi sicuramente appropriati per svolgere attività di ricerca. il Decreto sottolinea che la scuola può attivare
gli indirizzi che essa “è in grado di offrire”. Questo
implica che, nell’ambito delle singole scuole, si dovrà realizzare un processo di accreditamento, che
idealmente non dovrebbe trattarsi di un auto-accreditamento. La Conferenza dei direttori delle scuole
di specializzazione dovrà essere proattiva in questo senso, definendo dei criteri (strutture, casistica,
personale strutturato dedicato, attività scientifica
ecc.), in base ai quali una scuola possa attivare un
determinato ambito specialistico. Naturalmente, si
dovrà anche tenere conto del fabbisogno dei (sub)
specialistici, che dovrà essere basato su criteri demografici ed epidemiologici, analogamente a quanto viene fatto negli Stati Uniti.
Al fine di completare la formazione (sub)specialistica del pediatra, iniziata durante la scuola di specializzazione, la Conferenza dei direttori delle scuole di
specializzazione, in sinergia con il Collegio dei Professori Universitari di Pediatria (COPUPE) e la Società Italiana di Pediatria (SIP), ha presentato al MIUR
e al CUN una proposta di attivazione di un percorso
formativo (sub)specialistico in pediatria, da effettuarsi
dopo la scuola di specializzazione. Tale proposta è
stata accettata e il progetto è ora in fase di attuazione. Lo scopo è quello di definire dei percorsi formativi
(sub)specialistici, collegati in successione alla scuola
di specializzazione, che vadano a integrare il biennio
effettuato in una determinata (sub)specialità, in modo
da completare la formazione (sub)specialistica, ottenendosi un diploma/certificazione di pediatra (sub)
specialista in una delle branche della pediatria. Tali
percorsi avrebbero la finalità di formare pediatri (sub)
specialisti di alto livello, destinati a sbocchi professionali in ospedali pediatrici e centri di terzo livello. Anche per questo percorso (sub)specialistico successivo alla specializzazione dovrebbero naturalmente essere offerte opportunità di ricerca clinica qualificata.
Generoso Andria
Che cosa succede dopo la fine della specializzazione
se un giovane pediatra vuole continuare a conciliare
la sua formazione clinica con quella scientifica?
A Gianni Bona, direttore della Clinica pediatrica di Novara, chiederei di valutare quello che, sempre negli
ultimi anni, è avvenuto col dottorato di ricerca, cioè
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
con l’offerta formativa di eccellenza per un giovane
che voglia avviarsi verso una carriera di ricerca clinica. Anche in questo campo è cambiato qualcosa? In
meglio o in peggio?
Gianni Bona
La Legge n. 240 del 30 dicembre 2010, articolo 19, recita: “È
consentita la frequenza congiunta del corso di specializzazione
medica e del corso di dottorato
di ricerca. In caso di frequenza congiunta, la durata del corso di dottorato è ridotta a un minimo di
due anni”. Pur col vantaggio di una norma di legge
che ne sancisce l’ufficialità, il percorso congiunto
ha due limiti: il primo, costituito dalla difficoltà di avviare a una tipologia di PhD che non sempre, anzi
quasi mai, ha una connotazione pediatrica, alla
luce anche del recente riordino dei dottorati. Qualcosa è ora in cantiere per un percorso (sub)specialistico successivo al diploma di specializzazione?
Sicuramente, se questo si realizzasse presto, rappresenterebbe un’altra occasione per conciliare la
formazione in campo specialistico con una formazione al metodo scientifico, da applicare alla ricerca
clinica. Il secondo limite è invece più difficilmente
superabile ed è rappresentato dalla disparità di trattamento economico fra lo specializzando titolare di
contratto e il borsista dottorando. Si può certo ovviare con assegni di ricerca o altra modalità, ma
tutto ciò non favorisce certamente l’arruolamento.
Per favorire l’attitudine alla ricerca, la frequenza di
Master di II livello inerenti la ricerca clinica in ambito pediatrico non dovrebbe essere preclusa durante
il percorso di dottorato, ma anzi incentivata, al fine
di realizzare appieno il curriculum di alta formazione, a cui fa riferimento il DI n. 68 sul riordino delle
scuole di specializzazione.
Generoso Andria
Supponiamo ora di vivere in un sistema che ha delineato percorsi formativi, dal corso di laurea, alla specializzazione, da un eventuale titolo di pediatra (sub)
specialista al dottorato di ricerca. Sarebbe sufficiente,
considerato il contesto del nostro Paese, del sistema
universitario e di quello sanitario, ad attrarre un giovane medico, un giovane pediatra a intraprendere una
carriera di ricerca clinica?
Claudio Pignata è un immunologo clinico molto attivo in ricerca, che ha avuto negli anni continui contatti
coi giovani, come coordinatore del corso integrato
di pediatria e del dottorato di ricerca. A lui chiedo
che cosa oggi, sempre a seguito della famosa legge
di riforma 240/2010, offre l’Università a un giovane
specialista che voglia perseguire una carriera accademica.
Il reclutamento nell’Università
di giovani ricercatori dell’area
pediatrica
Claudio Pignata
Il problema del reclutamento ha
molteplici risvolti: è evidentemente un problema di formazione del
“giovane ricercatore”, di cronogramma del precariato in area biomedica, di legislazione ai sensi della legge di riforma
universitaria 240/2010, con specifico riferimento ai requisiti per il reclutamento e la progressione in carriera universitaria dei giovani, di definizione di “profili di
competenza” dei giovani ricercatori, che siano funzionali alle esigenze scientifiche delle diverse e numerose aree di ricerca di interesse pediatrico, e di incontro
tra domanda e offerta.
Alcuni anni orsono la SIRP ha promosso un’indagine conoscitiva tra i coordinatori di corsi di dottorato di
area pediatrica con la finalità di acquisire informazioni
sulla tipologia di studente che frequentava i corsi, sulla numerosità dei dottorandi di area pediatrica, sulla
caratterizzazione in indirizzi scientifico-culturali dei
corsi, sulla congruenza tra gli indirizzi e la robustezza
scientifica delle aree culturali nel nostro Paese, in un
periodo di analisi di 5 anni. Il risultato di tale indagine ha messo in luce significative criticità del sistema, solo in minima parte corrette dalla legge 240 di
riordino del sistema universitario o, in alcuni casi, addirittura peggiorate. Tra le criticità più rilevanti va annoverata la congruenza solo parziale tra gli indirizzi
dei dottorati e i punti di forza della ricerca pediatrica
in Italia, essendo l’indirizzo spesso indice più della
vocazione professionalizzante dei proponenti in quel
dato sotto-settore, che dell’orientamento scientifico.
Altra criticità importante è la non efficacia dell’istituto
del dottorato nel promuovere il turn over dei docenti, a fronte di un considerevole numero di dottorandi
iscritti ai corsi (328 in 5 anni, di cui il 58% di laureati
in medicina). L’aspetto del turnover risulta addirittura
aggravato dalla legge 240, in quanto essa prolunga
ulteriormente la fase del reclutamento del giovane
ricercatore di area medica, senza che l’acquisizione
del titolo di dottore di ricerca abbia un valore definito
nei processi di selezione. Accanto a queste criticità
principali, nell’indagine SIRP venivano, inoltre, rilevate la mancanza di un network nazionale degli istituti di
ricerca, che promuovesse l’offerta formativa orientata
sulle reali esigenze scientifiche, in base ai punti di forza nella ricerca, e la scarsa o nulla pubblicizzazione
dei profili formativi dei dottori, che ne valorizzasse la
competenza e caratterizzazione scientifica nella fase
di ingresso nel mercato del lavoro. Su tale punto è
auspicio della SIRP che si attui un’indagine conoscitiva dei giovani che aspirano alla carriera accademica, su base volontaria e autocertificativa, che abbia
la finalità di identificare su scala nazionale i candidati
179
Tavola Rotonda
con maggiore competitività scientifica. Sarebbe auspicabile la creazione di una piattaforma digitale nel
sito SIRP, che secondo il modello ESPR, permetta un
censimento dei giovani aspiranti ricercatori e che ne
valorizzi i profili formativi di competenza.
La legge 240/2010, col percorso di ricercatore a tempo determinato di tipo A di 3+2 anni e di ricercatore,
sempre a tempo determinato di tipo B di 3 anni, pone
come condizione il superamento dell’abilitazione
scientifica nazionale alla fine, intorno ai 38-40 anni,
che potrebbe far decidere un pediatra, e ancor più
una pediatra, sia pur motivata, a dirigersi verso differenti e più immediati sbocchi professionali.
Generoso Andria
Quali proposte Claudio Pignata suggerirebbe, quindi,
per rendere l’Università più attrattiva?
Claudio Pignata
Sinteticamente, è indispensabile:
• fornire a coloro che hanno forti motivazioni a intraprendere una carriera scientifica meccanismi per
svolgere le attività di ricerca durante la fase di formazione pediatrica di base;
• garantire allo studente/specializzando di acquisire
le competenze necessarie per operare nell’ambito della ricerca, con la possibilità di fruire di corsi
dedicati all’acquisizione di skill propedeutici alla
formazione del giovane ricercatore;
• favorire la transizione verso una carriera di medico-ricercatore, garantendo un riconoscimento dei
meriti e delle potenzialità, che tenga conto della
difficoltà di acquisire i parametri bibliometrici richiesti attualmente dall’abilitazione scientifica nazionale in giovane età.
Generoso Andria
Abbiamo visto che uno dei problemi che potrebbero
scoraggiare un giovane dal continuare la sua attività
clinica e scientifica nell’Università è costituito dalla difficoltà di superare l’Abilitazione Scientifica Nazionale
(ASN) in tempo, prima o anche durante i tre anni previsti per il ruolo a tempo determinato di tipo B. Questa
difficoltà rischia di vanificare uno dei punti innovativi
della riforma universitaria, cioè della cosiddetta tenure
track, col passaggio dal ruolo di ricercatore di tipo B a
quello (a tempo indeterminato) di professore associato, atteso che si sia superata l’abilitazione. Questa è
un’evenienza non comune a un’età inferiore ai 40 anni.
Andrea Biondi e Paolo Paolucci sono stati commissari delle prime e uniche due tornate dell’ASN per la
macroarea di pediatria generale, specialistica e neuropsichiatria infantile. Quale è stata la loro esperienza e quali indicazioni e proposte potrebbero essere
avanzate per il futuro, considerando che a livello ministeriale si sta modificando qualcosa nelle norme
finora vigenti?
180
Paolo Paolucci potrebbe illustrarci alcuni dati più significativi delle due tornate di ASN, anche in rapporto
col tema di questa Tavola Rotonda?
L’esperienza dell’Abilitazione
Scientifica Nazionale per i settori
scientifico-disciplinari pediatrici
Paolo Paolucci
Negli ultimi anni è stato implementato, per le università e le sue varie
strutture, un sistema di valutazione dei risultati della ricerca scientifica da parte dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della
Ricerca (ANVUR), in termini soprattutto qualitativi, a
cui si lega l’erogazione proporzionale di fondi ministeriali. Tutto questo dovrebbe creare un meccanismo
virtuoso di premialità per le strutture produttive e di
sanzioni, non solo economiche, per quelle meno attive, che si dovrebbe tradurre a cascata in una motivazione all’impegno di ricerca anche per il personale
universitario. Purtroppo le valutazioni si riferiscono
ai dati di alcuni anni addietro e gli effetti economici
hanno, se li avranno, una latenza che incoraggia il
lassismo, soprattutto per chi, nelle aree cliniche, ha
interessi anche professionali esterni all’Università.
Sempre la Legge 240/2010 ha previsto per gli aspiranti alla carriera accademica una nuova modalità di
reclutamento del personale docente, basata sul raggiungimento del requisito dell’ASN. Tale valutazione
viene svolta da commissioni nazionali e attesta la
qualificazione scientifica dei candidati anche, ma non
solo, in base al superamento di alcune soglie di parametri numerici definiti statisticamente per ogni settore scientifico disciplinare, parametri relativi a numero
totale di pubblicazioni presenti in banche dati bibliometriche, numero complessivo di citazioni e H-index,
corretti per età accademica, in modo da non penalizzare teoricamente i candidati più giovani.
I dati più interessanti delle prime due tornate dell’ASN
nel 2012 e 2013 sono, molto sinteticamente, i seguenti:
• nell’ambito degli idonei di I fascia (69/147 concorrenti), circa il doppio degli idonei era già nei ruoli
universitari, mentre gli altri ricoprivano incarichi
prevalentemente come ospedalieri o all’interno di
IRCCS;
• nell’ambito degli idonei di II fascia (154/325 concorrenti), invece, circa il 60% aveva incarichi ospedalieri o all’interno di IRCCS.
I dati indicano che, almeno da un punto di vista scientifico (obiettivo dell’ASN) il profilo “accademico”, rispettivamente il 32% come professori ordinari (PO) e il
57,8% come professori associati (PA), è oggi presente
in diverse strutture di diagnosi e cura pediatriche al di
fuori dell’Università.
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Per quanto riguarda il genere dei candidati, emerge
per gli idonei di I fascia la netta prevalenza di genere maschile (62/69, cioè 90%) mentre tra gli idonei
di II fascia, persiste in minore misura la prevalenza
di genere maschile (97/154, cioè 63%). A livello universitario emerge uno spazio minore per il genere
femminile rispetto al maschile per quanto riguarda
la I fascia, fatto per altro noto. La situazione appare
sensibilmente migliore per quanto riguarda la II fascia, specie in ambito universitario, dato che potrebbe
essere letto come la tendenza nel tempo a maggiori
opportunità per le ricercatrici, verosimilmente più giovani. Al contrario, nell’ambito non universitario, o per
scelta o per disponibilità, il genere femminile sembra
ambire meno a sviluppare l’attività scientifica e di ricerca.
Un altro dato di particolare interesse (anche se già
noto per la popolazione dei docenti universitari italiani) riguarda l’età degli idonei. Il 91% degli idonei a
I fascia ha un’età ≥ 47 anni, mentre solo il 9% ha un’età < 47 anni. I dati relativi all’età per la II fascia sono
più incoraggianti di quelli per la I fascia. Infatti, circa il
60% degli idonei per la II fascia ha un’età ≥ 47 anni,
mentre circa il 40% ha un’età < 47 anni.
Quindi a livello di idonei a professore associato, cioè
di persone più giovani, risulta la presenza di una qualificata attività di ricerca in candidati all’abilitazione che
lavorano in IRCCS o in ospedali e non hanno un ruolo
universitario. Mi sembra invece poco incoraggiante il
dato, sempre tra gli idonei per professore associato,
di una presenza di pediatre, che per motivi personali
e familiari sarebbero potenzialmente più portate a rinunciare a una carriera scientifica rispetto ai maschi.
Invito ora Andrea Biondi a chiudere con alcune considerazioni generali sull’esperienza e i risultati dell’ASN
per l’area pediatrica.
per accedere a un posto di ricercatore di tipo B
con tenure track per il ruolo di professore associato.
È fortemente auspicabile che le regole dell’ASN vengano attentamente riviste e tengano conto di quanto realisticamente un giovane riesce a raggiungere,
anche con uno stage all’estero di qualche anno, in
termini di numero di pubblicazioni e di citazioni dei
suoi lavori.
Verosimilmente, è ragionevole orientarsi piuttosto sui
dieci anni di attività per raggiungere i titoli utili per l’idoneità, ma probabilmente, piuttosto che ai numeri e
ai vari parametri bibliometrici, che tentano di “spaccare il capello in quattro”, a volte in modo del tutto ragionieristico, dovremmo guardare a quello che accade
nel resto del mondo. Ad esempio, in un percorso virtuoso, il ruolo di Assistant Professor viene riconosciuto come primo step della carriera accademica, non
necessariamente con titoli bibliometrici confrontabili
con quelli richiesti dall’ASN per l’idoneità a professore
associato. Ovviamente, questa prospettiva è attuabile
in contesti in cui la ricerca e l’università sono considerate un investimento del e per il Paese, e risulta
più facile di fatto selezionare i migliori, anche come
conseguenza della mobilità dei docenti, che in Italia è
assolutamente marginale.
In conclusione l’ASN ha indubbiamente reso più trasparente un percorso di valutazione dell’idoneità
scientifica dei candidati alla carriera universitaria, facendo emergere competenze e profili che non sarebbero mai stati giudicati idonei a questa carriera con
le precedenti modalità concorsuali. Ciò si è tradotto
in un virtuoso (anche se limitato) numero di “chiamate” di professori in diverse sedi accademiche. Resta,
al contrario, il fatto che per la maggiore parte degli
idonei “non universitari” l’ottenuta idoneità costituisce
solo un titolo di merito e probabilmente non di opportunità.
Andrea Biondi
Generoso Andria
Il dato dell’età che emerge, da
quanto esposto da Paolo Paolucci, suggerisce almeno due aspetti
da considerare:
• coloro che hanno una più forte vocazione alla ricerca devono sottostare a una
lunga “anticamera”, condizionata dalla mancanza
di progettazione (chi fa cosa e perché), dalla pochezza delle risorse economiche e da sconcertanti dinamiche concorsuali universitarie dei decenni
scorsi;
• nel percorso della cosiddetta riforma Gelmini resta
da verificare se i 5 anni previsti come ricercatore a tempo determinato di tipo A (magari dopo un
dottorato o a conclusione della scuola di specializzazione) rendano possibile il raggiungimento dei
titoli che nella ASN erano richiesti per idoneità alla
II fascia e che rappresenta di fatto un pre-requisito
Ho ripetuto più volte che il focus di questa Tavola
Rotonda è rappresentato dai giovani, a cui a nostro
parere, è affidato il destino della ricerca clinica, per
evitare che si realizzi l’“apoptosi”. È quindi giusto a
questo punto dare la parola ai protagonisti, cioè ai pediatri in formazione, dai quali speriamo escano fuori
sempre nuove vocazioni verso una carriera scientifica
e accademica. La SIRP ha stabilito una fruttuosa interazione con l’Osservatorio Nazionale Specializzandi di Pediatria (ONSP), che ha risposto con grande
disponibilità a proposte di collaborazione. Tra queste
cito innanzitutto due questionari distribuiti mediante
diversi canali informatici (sito web, newsletter, profili
dedicati sui social network) dell’ONSP e della SIRP
tra gli specializzandi e pediatri, soprattutto di estrazione universitaria e ospedaliera.
Maurizio Mennini, coordinatore del gruppo di lavoro
“Ricerca in Pediatria” dell’ONSP, ci riassume i dati più
Generoso Andria
181
Tavola Rotonda
significativi anzitutto dell’indagine sull’interesse per la
ricerca degli specializzandi.
I giovani e la ricerca clinica
pediatrica: tra formazione
e “frustrazione” un rapporto
sempre più difficile
Maurizio Mennini
I risultati delle due indagini dal titolo: “Indagine sul reclutamento di
giovani laureati in una carriera di
ricerca clinica nell’area pediatrica” e “L’apoptosi annunciata della
ricerca clinica (pediatrica)”, sono integralmente riportati (per i quesiti schematizzabili in grafico) nel Libro
bianco della SIRP in corso di stampa e accessibili in
extenso alla sezione “questionari” del sito www.onsp.
it.
In totale sono stati ricevuti 312 questionari interamente compilati in ogni sezione, di cui 125 appartenenti
alla prima indagine, 187 alla seconda. In entrambe,
la risposta degli specialisti in formazione in pediatria
è stata sempre la più ampia, con una partecipazione
in percentuale pari, rispettivamente, a circa il 70 e il
50% degli intervistati. La quasi totalità degli intervistati (93,6%) ritiene che un periodo formativo nel settore
della ricerca clinica o di base possa essere utile per
un giovane medico, anche non intenzionato a intraprendere una carriera in un ateneo o in un’istituzione
scientifica. Il 71,2% ha già avuto qualche esperienza
di ricerca durante il percorso pre- o post-laurea e tali
esperienze si sono svolte prevalentemente nel corso della specializzazione (61,4%) rispetto al periodo
pre-laurea (43,2%). Solo il 64,5% dichiara, però, di
essere riuscito nella pubblicazione di lavori in extenso. Il 61,6% è interessato a proseguire questo genere
di attività, ma mentre il 21,6% afferma che non potrà
proseguire, pur volendo, il 15,2% ha già deciso di abbandonare. Tra chi ritiene di non poter proseguire le
motivazioni più indicate sono: nel 63,8% la scarsità in
Italia di fondi pubblici e privati e nel 55,3% l’incertezza
circa prospettive di lavoro stabile entro tempi accettabili e la mancanza di supporto nella struttura in cui
si opera. Dato incontrovertibilmente positivo è invece
quello che emerge dalle motivazioni che maggiormente spingono a perseguire questa passione: l’89%
infatti dichiara in maniera convinta che la ricerca insegna una metodologia applicabile anche alla pratica
clinica.
Allo scopo di esplorare la reale percezione di un più
ampio campione di operatori circa la difficoltà di reclutamento di giovani medici in una carriera di ricerca clinica e del conseguente rischio di una sua progressiva
“estinzione”, è stata distribuita una seconda indagine,
per la quale sono state registrate e analizzate 187 risposte complete (qualifiche: 47,8% specializzando in
182
pediatria, 29% già specialista in pediatria, 14% già
specialista o specializzando in altre specialità, 8,6%
dottorando e 0,5% dottore di ricerca in scienze pediatriche; Il 67,7% degli intervistati lavora attualmente
presso una struttura universitaria, il 14% presso un
IRCCS, il restante 18% ha un contratto presso un’azienda ospedaliera o opera nel territorio in attività
diverse da quelle precedentemente elencate; solo il
19,9% dichiara di possedere un impiego a tempo indeterminato).
Cito solo qualche dato più significativo di questa seconda indagine. Il 59,2% è scettico sull’efficacia della riorganizzazione della carriera universitaria con le
due possibili figure di ricercatore in tipo A e tipo B
e il 64% ritiene, inoltre, che l’abilitazione scientifica
nazionale per professore associato richieda il superamento di mediane difficilmente raggiungibili entro
i quarant’anni; mediane ritenute altresì non superabili anticipatamente anche con la permanenza in
laboratori o centri qualificati di rilevanza nazionale
e/o internazionale. Questo stato dei fatti suggerisce
al 68,8% degli intervistati che sia facile prevedere
che i soli giovani (anche se meritevoli e motivati) che
possano permettersi di “rischiare” un investimento di
almeno 10 anni di attività, siano quelli appartenenti a “famiglie” o “cordate” in grado di garantire una
partecipazione “simbolica” a pubblicazioni del gruppo e un “appoggio” al momento del bando dei posti
di ricercatore a tempo determinato. Nel periodo prelaurea la proposta che appare maggiormente condivisa (74,2% totalmente e 22,6% parzialmente) è l’esposizione precoce a un’attività di ricerca clinica allo
scopo di far nascere, ovviamente in una minoranza
di studenti o specializzandi, una “vocazione” prima
dell’insorgenza di altre necessità che spingano a
scegliere differenti sbocchi professionali. Anche una
riorganizzazione e valorizzazione del periodo di tesi
di laurea appare una possibile alternativa (favorevole il 69,4% del campione) al pari della costituzione di
un percorso combinato del tipo MD/PhD a partire dal
III-IV anno del corso di laurea in medicina (64,5%).
Il 79,6% concorda sulla necessità di prevedere attività di ricerca nel core curriculum della scuola di
specializzazione, specialmente nell’ultimo biennio
negli indirizzi dedicati alle cure secondarie e alle
specialità pediatriche, riconosciuti come potenzialmente più inclini a una formazione e coinvolgimento
nella ricerca clinica. È opportuno sottolineare che il
94,6% riconosce l’importanza dell’attività dell’Osservatorio della Ricerca Pediatrica Italiana, promosso
dalla SIRP, per il monitoraggio periodico dell’attività
scientifica di interesse pediatrico, se svolta da gruppi italiani “leader” nelle ricerche. Il 96,2% sostiene,
inoltre, che sia necessario promuovere e pubblicizzare attività di ricerca dei più giovani, anche attraverso l’istituzione di un albo dei giovani ricercatori
e la costituzione di network tra dottorandi, dottori di
ricerca e pediatri ricercatori ancora “precari”.
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Generoso Andria
Se questi sono molto sinteticamente le opinioni degli
intervistati, in grande maggioranza giovani pediatri
in formazione, chiedo a Davide Vecchio, presidente
dell’ONSP un suo commento sul rapporto dei giovani e la ricerca clinica, che definisce tra formazione e
“frustrazione”.
Davide Vecchio
Comincio con qualche domanda:
possiamo permetterci di investire
in ricerca clinica? Come illustrato
nella relazione sulla demografia
dei pediatri italiani, da 14.000 pediatri nel 2015 si prevedono, a causa di pensionamenti non compensati, al ritmo attuale, da nuovi ingressi,
circa 9.000 pediatri. Saranno sufficienti a mantenere in vita il modello attuale dell’assistenza pediatrica
come oggi lo conosciamo? Oggi la “stabilizzazione”
nel mondo del lavoro per un giovane medico non avviene prima dei 35-40 anni. Per chi poi sceglie una
carriera accademica, secondo il rapporto ANVUR
2013 si riesce ad accedere a un ruolo di professore
associato, ovvero a una posizione a tempo indeterminato mediamente non prima di 45 anni. Vale la pena
di rischiare? L’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiana (ADI) ha calcolato che su circa 14.500
assegnisti di ricerca (di tutte le aree disciplinari) nel
2014 solo l’8% saranno reclutati come ricercatori a
tempo determinato di tipo B e destinati a una posizione a tempo indeterminato nell’Università mentre il
92% saranno “espulsi” entro il 2020. Ma se si vuole
rischiare, dove conviene farlo? L’ADI, secondo dati
del MIUR, evidenzia non solo sperequazioni a livello
territoriale, ma anche una forte concentrazione delle
capacità di reclutamento in pochi poli a livello nazionale. L’offerta di dottorati di ricerca del XXX ciclo si
presenta, ad esempio, fortemente concentrata in un
gruppo ristretto di università e territori:
• 10 università (e 8 città) ne garantiscono il 44%;
• 7 regioni (una sola delle quali nel Sud Italia) coprono il 74,5% delle posizioni bandite.
Inoltre esiste anche una forte concentrazione delle
capacità di reclutamento in pochi poli a livello nazionale. Nel 2014, infatti:
• il 49,1% dei bandi per assegni di ricerca è stato
emanato nelle regioni settentrionali, il 36,5% al
Centro e il 14,4% nel Mezzogiorno e nelle Isole;
• le prime 10 università per reclutamento di nuovi
RTD di tipo A detengono da sole il 54% dell’intero
contingente nazionale di posizioni del 2014;
• le prime 8 università per reclutamento di nuovi
RTD di tipo B detengono da sole il 51% dell’intero
contingente nazionale di posizioni del 2014.
In conclusione, la “apoptosi”, cioè la “morte programmata” della ricerca clinica, appare ormai avviata e
potrà essere fermata solo attraverso una sensibilizza-
zione e mobilitazione di quanti, nell’Università, negli
istituti di ricerca, nella classe politica e, non da ultimo,
nell’opinione pubblica, hanno a cuore il destino della
scienza e della cultura nel nostro Paese. Per questo,
come ONSP, abbiamo dato il nostro contributo incondizionato all’iniziativa di sensibilizzazione avviata dalla SIRP, confidando in un momento di sintesi che non
può essere più procrastinato.
Generoso Andria
Ringrazio ancora Davide Vecchio e i suoi eccellenti
colleghi dell’ONSP per il grande lavoro svolto e do volentieri la parola a Raffaele Badolato, che ci espone
altre iniziative SIRP, finalizzate alla ricerca clinica e ai
giovani pediatri interessati
Finanziamento di progetti
di ricerca per giovani ricercatori
Raffaele Badolato
È spiacevole constatare che la
ricerca scientifica italiana è afflitta da una condizione di cronico
sottofinanziamento e che questa
situazione si sia aggravata negli
anni recenti. Nell’ambito della ricerca, la frammentazione delle competenze e lo scarso coordinamento
tra università, enti di ricerca, Regioni e Ministero della
salute, hanno contribuito a questa condizione di sottofinanziamento. Tuttavia, i dati dell’Osservatorio Nazionale della Ricerca Pediatrica, gestito dalla SIRP e illustrati da Giusy Ranucci, suggeriscono che negli anni
passati molti ricercatori italiani abbiano prodotto un
rilevante numero di lavori scientifici in ambito pediatrico. Questo suggerirebbe che se fossero disponibili
adeguati investimenti di tipo economico ci si potrebbe
attendere un significativo sviluppo della ricerca pediatrica in Italia.
Per queste ragioni, sono convinto che un intervento
che favorisca le carriere dei giovani ricercatori e docenti universitari sia indispensabile per evitare l’ulteriore depauperamento dell’Università italiana. Per fortuna, o forse per l’azione di convincimento svolta dai
mezzi di informazione, sembrerebbe che si sia fatta
strada la giusta convinzione dei legislatori e dei vari
governi degli ultimi anni che occorra riservare una
quota non marginale dei finanziamenti alle nuove leve
della ricerca e dell’Università.
Rivedendo i bandi dei progetti di ricerca indirizzati ai
giovani, sembrerebbe che generalmente l’età limite
per l’accesso a questi finanziamenti sia fissata in 40
anni, quando in altri paesi il limite è invece certamente più basso (Tab. III).
Nell’ambito di questi finanziamenti è difficile evincere
quanti di questi siano di ambito pediatrico e se siano
potenzialmente in grado di favorire lo sviluppo di carriere scientifiche in questo settore, ma valutando solo
183
Tavola Rotonda
Tabella III.
Finanziamento
Progetti
finanziati
Età
€ 53.520,612
55
< 40 anni
My First AIRC Grant (MFAG)
--
51
< 40 anni
Dulbecco Telethon Institute Career Award
--
2-5
Ricercatori senza posizione
permanente, ma scoraggiati > 40
anni
Fino a € 1.5 milioni
-
Da 2 a 7 dal completamento del
PhD
€ 28 milioni
93
< 40 anni
Sir - Scientific Independence of young
Researchers
ERC Starting Grant
Giovani Ricercatori 2013
i titoli dei progetti, sembrerebbe che, fatta eccezione
per quelli finanziati da Telethon, che sono spesso
indirizzati su malattie di interesse pediatrico, gli altri
programmi siano poco attenti alla medicina dell’età
evolutiva. Il ridotto finanziamento ai progetti di interesse pediatrico lo si può dedurre anche dall’analisi
del Fondi PRIN (Programma di Ricerca di Interesse
Nazionale), che evidenzia come il numero dei progetti
finanziati ai pediatri si sia andato riducendo nel tempo
(da 14 nel 2006 a uno solo nei bandi 2010-11 e 2013).
Un commento particolare meritano i grant dello European Research Council (ERC), anche per un importante riflesso sul reclutamento nell’Università di giovani meritevoli. Infatti la legislazione italiana prevede
che i vincitori di finanziamenti ERC (starting grant)
possano accedere direttamente al ruolo di professore
associato attraverso l’intervento del MIUR. Si tratta di
una misura con forte impatto sulla crescita dell’università. che potrebbe contribuire in misura significativa al
rinnovamento dell’Università se le risorse degli atenei, finalizzate al reclutamento facessero riferimento
in modo più preciso alle capacità dei ricercatori di ottenere fondi di ricerca.
Visto che tra gli obiettivi statutari della SIRP vi è la
promozione della “ricerca scientifica finalizzata alla
protezione della salute in età evolutiva”, la nostra società vorrebbe lavorare al fine di favorire sia l’aumento
delle risorse finalizzate alla ricerca pediatrica, sia a
indirizzare i giovani pediatri a occuparsi di ricerca. La
SIRP si candida, quindi, a diventare allo stesso tempo
un punto di incontro tra le esigenze dei pazienti e gli
interessi dei giovani ricercatori a sviluppare le proprie
carriere in ambito pediatrico.
Testimonianze
Generoso Andria
Per smentire, se ce ne fosse bisogno, l’impressione
che le pediatre ricercatrici siano “costrette” a scegliere
carriere professionali meglio conciliabili con l’organizzazione familiare, sono lieto di invitare due pediatre
184
ricercatrici a condividere con noi le loro esperienze e
le loro scelte di vita, compresi i “rischi” che hanno accettato di correre per seguire la loro forte motivazione
a un impegno non solo clinico, ma anche scientifico.
Loredana Marcovecchio è ricercatore a tempo determinato di tipo B presso la Clinica pediatrica dell’Università degli Studi G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.
Sentiamo anzitutto quali sono state le tappe fondamentali del suo percorso formativo e di carriera.
Loredana Marcovecchio
Sintetizzo cronologicamente le
mie scelte, che sono state in successione le seguenti:
• iniziare con un dottorato di ricerca subito dopo la laurea in
medicina, posticipando l’ingresso nella scuola di
specializzazione in pediatria. Questa scelta è stata considerata “coraggiosa” (o “da incosciente”),
perché poco remunerata e potenzialmente in grado di ritardare l’accesso al mondo del lavoro;
• trascorrere un periodo formativo all’estero nel corso
del dottorato, in un centro di eccellenza per la ricerca
nell’ambito della endocrinologia e diabetologia pediatrica, presso l’Università di Cambridge (UK), dove
poi sono tornata come post doc. Questa esperienza
ha favorito la mia forte motivazione verso la ricerca
ed è stata molto importante per la mia formazione;
• entrare in specializzazione dopo il dottorato, con
l’opportunità di trasferire le competenze acquisite
durante la formazione alla ricerca in ambito clinico
come, ad esempio, rigore e metodologia scientifici, capacità di utilizzare al meglio il proprio tempo,
capacità di coordinare il lavoro di gruppo/équipe;
• intraprendere con convinzione la strada verso
una carriera accademica, nonostante le incertezze generate dai cambiamenti durante il percorso
formativo, con particolare riferimento all’entrata in
vigore della legge 240/2010, che ha eliminato la
posizione di ricercatore a tempo indeterminato, e
nonostante la carenza di fondi.
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Generoso Andria
La forte motivazione dimostrata nel seguire un percorso insolito, ma esemplare, come ha influenzato il
giudizio sulla realtà italiana della ricerca accademica
in campo clinico?
Loredana Marcovecchio
Penso che la carriera universitaria, che dovrebbe “generare” individui liberi e creativi, in Italia produca al
contrario dipendenza, incertezza e servilismo. Ciò incide sfavorevolmente sulle scelte dei giovani laureati,
che spesso rinunciano al sogno di una carriera accademica, propendendo realisticamente per professioni più remunerative. In particolare, per un giovane
pediatra la prospettiva di una posizione ospedaliera è
senz’altro più appealing in termini di remunerazione,
ma anche di conciliazione con vita familiare e sociale. L’altro risvolto negativo del sistema universitario
italiano è quello di sperimentare una costante “fuga
di competenze”. I ricercatori vanno dove la ricerca ha
maggiori finanziamenti, dove dà maggiore gratificazione, dove la remunerazione è più alta. Nell’ambiente accademico vi è poi una disparità di genere, con la
presenza di una sola donna ogni tre ricercatori. Procedendo progressivamente nel percorso di formazione e nella carriera di ricerca la componente femminile
tende a ridursi.
Considerato che i giovani e il loro entusiasmo sono
essenziali per l’avanzamento della ricerca, è importante promuovere e potenziare la ricerca nel nostro
Paese, attraverso investimenti in formazione scientifica di giovani medici e aumentando le opportunità
per coloro che desiderano impegnarsi nella ricerca
medica. Inoltre, è fondamentale l’implementazione
della “meritocrazia”. Manca ancora nel nostro Paese,
in ambito universitario, un sistema che permetta di selezionare in base al merito e una politica in grado di
dare vere opportunità a chi lo merita.
Generoso Andria
In poche parole l’entusiasmo di Loredana Marcovecchio per la ricerca clinica non le impedisce di rilevare
le pecche del sistema universitario, ma auspica che il
merito, a cominciare dal reclutamento di giovani motivati come lei, venga premiato. Perciò, in fondo, continua a impegnarsi con entusiasmo.
Do adesso la parola a un’altra giovane ricercatrice
pediatra, Antonietta Giannattasio, che ugualmente ha
deciso di “rischiare”. Sentiamo la sua esperienza e le
sue decisioni.
Antonietta Giannattasio
La mia “storia”, che definirei piuttosto “tortuosa”, è caratterizzata
da un interesse per la ricerca fin
dal periodo pre-laurea, quando ho
incominciato a entrare nel mondo
degli abstract, lavori scientifici, riviste internazionali,
impact factor, studio retrospettivi, prospettici e database per la raccolta dati!
Attualmente sono ricercatore a tempo determinato di
tipo A presso l’Università Federico II, dove ho conseguito la laurea in medicina e chirurgia nel 2001 e
la specializzazione in pediatria nel 2006. Nel corso
dell’ultimo anno di specializzazione ho frequentato
per 10 mesi i laboratori dell’Institute of Liver Studies
del King’s College Hospital di Londra, facendo quindi anche un’esperienza di ricerca di base. Al termine
della specializzazione la prima scelta (difficile): restare a Londra per il PhD (come concordato prima del rientro in Italia, per discutere la tesi di specializzazione)
o tornare in Italia; ho optato per un dottorato di ricerca
(senza borsa!) a Napoli presso l’Università Federico II,
conseguito nel 2009. Nel 2011, dopo 4 anni di un contratto assistenziale di tipo libero-professionale presso
il Centro di riferimento pediatrico per l’HIV della Federico II (mal retribuito, poco tutelato, con necessità
di “integrare” con altre attività e conseguente meno
tempo da dedicare alla ricerca) ho deciso di lasciare
l’Università per un contratto ospedaliero a tempo determinato (avviso pubblico), trasferirmi in un’altra regione (Basilicata), abbandonare (forse) la ricerca. Nel
2014, dopo un breve periodo a Campobasso presso
l’Università del Molise, ho vinto il concorso per RTD
tipo A all’Università Federico II, rinunciando intanto
anche a un trasferimento per mobilità dalla Basilicata
all’ASL di Caserta (a pochi chilometri da casa!).
Della mia storia personale (una delle tante) sono due
i punti critici che voglio sottolineare:
• la decisione di rientrare in Italia per il dottorato
piuttosto che fare il PhD all’estero, preludio poi
per restare probabilmente fuori Italia: ancora non
so se questa scelta sia stata quella “giusta”… in
fondo Londra non è poi così lontana da Napoli! In
realtà la mia decisione è scaturita anche dal bisogno che io ho sempre avvertito di unire alla ricerca
l’assistenza. Trascorrere alcuni anni dedicandomi
esclusivamente alla ricerca di base probabilmente
non era la soluzione adatta a me;
• la decisione di ritornare all’Università dopo un’esperienza (che comunque mi ha formato e dato
delle gratificazioni professionali) in Ospedale
(che resta sempre il mio “paracadute” in caso di
mancato rinnovo del contratto universitario), scelta ancora poco comprensibile da parte di familiari
(che sono al di fuori dell’ambito medico) e amici/
colleghi (lo stipendio ospedaliero è decisamente
più alto di quello di RTD, finito il turno si torna
a casa, quindi più tempo da dedicare alla famiglia…). Scelta che per il momento non rinnego…
(per il momento!).
Generoso Andria
Anche ad Antonietta Giannattasio chiedo un giudizio
sull’Università italiana, che possa convincerla a per185
Tavola Rotonda
severare e realizzare la sua vocazione per la ricerca
clinica.
Antonietta Giannattasio
La capacità formativa dell’Università italiana è dimostrata dall’alta qualità della produzione scientifica
nel nostro Paese e dal reclutamento di un elevato
numero di studenti e ricercatori italiani all’estero. Il
ricercatore universitario in Italia è, però, diventato un
“precario. I ricercatori di tipo B, quelli relativamente
più “stabili”, hanno avuto poco successo negli atenei
anche per i seguenti motivi: essi prevedono l’inserimento nella programmazione di una più onerosa
futura posizione di professore associato; i ricercatori a tempo indeterminato in servizio e in esaurimento vedono giustamente il percorso privilegiato
degli RTD-B come una concorrenza sleale; infine il
meccanismo della tenure track, popolare nel mondo
anglosassone, qui da noi non è stato compreso appieno. Inoltre il RTD ha a disposizione un numero di
anni decisamente più basso per conseguire un livello di produttività buono per rientrare negli indicatori
previsti dalle abilitazioni nazionali. Non c’è da meravigliarsi se le scarse risorse economiche disponibili
per i contratti di RTD e per le attività di ricerca in
generale, le condizioni economiche migliori in altri
paesi rispetto all’Italia, le prospettive di una più rapida e gratificante progressione di carriera, spingano
ogni anno i ricercatori italiani ad abbandonare il nostro Paese e recarsi all’estero.
In conclusione, le nostre università sono (malgrado
tutto) una miniera d’oro di talenti frustrati da un sistema imballato, incapace di valorizzarli. Per ora continuo a sperare.
Generoso Andria
Abbiamo sentito le testimonianze di due ricercatrici,
motivate e coraggiose, ma non per questo meno critiche nei confronti del sistema universitario in cui desiderano rimanere.
Adesso invece do la parola a un pediatra che ha seguito la sua vocazione per la ricerca clinica, ma all’estero. Luigi Titomanlio, nonostante la giovane età
(43 anni), è stato lo scorso anno nominato professore ordinario di pediatria nella prestigiosa Università Paris 7 - Sorbonne Paris Cité di Parigi, e primario universitario del reparto di urgenze pediatriche
dell’ospedale Robert Debré, reparto tra i più grandi
e rinomati in Europa, con 87.000 visite nel 2015, che
rappresenta un fiore all’occhiello del sistema sanitario francese.
A Luigi Titomanlio, che ha conseguito la laurea in medicina, la specializzazione in pediatria e il dottorato
di ricerca presso l’Università Federico II, chiedo soprattutto un confronto tra il sistema francese e quello
italiano nella selezione delle persone che raggiungono l’apice della carriera accademica e di quella ospedaliera.
186
Luigi Titomanlio
In realtà ho terminato il dottorato in
Francia sotto la guida del Prof. Philippe Evrard (neuropediatra), ho
ottenuto una borsa post-dottorato
nel laboratorio INSERM diretto dal
Prof. Pierre Gressens e per la parte clinica ho ricevuto
un contratto di Chef de Clinique (resident fellow), al
fine di sviluppare la neuropediatria acuta nel reparto
di urgenze pediatriche.
Per la carriera accademica ho superato con successo
tutte le prove che portano a un posto di ordinario. In
Francia il numero di ordinari per tutte le discipline è
quasi fisso anno per anno, poiché dipende dal Ministero, che attribuisce i posti di ordinario alle diverse
facoltà, in base alle performance degli studenti agli
esami nazionali, alle pubblicazioni e ai grant internazionali ottenuti. È poi il Consiglio di ogni facoltà a distribuire i posti di ordinario tra le varie discipline della
facoltà.
Nel sistema francese i candidati alla posizione accademica:
1) sono valutati da una commissione ospedaliera,
che può mettere un veto, e che classifica alla fine
tutti i candidati al posto di ordinario secondo l’interesse che rivestono per l’ospedale;
2) sono valutati da una commissione universitaria,
che può mettere un veto, e che classifica tutti i
candidati al posto di ordinario secondo l’interesse
universitario che rivestono per la facoltà;
3) devono avere ottenuto un’abilitazione nazionale a
dirigere delle ricerche (HDR), che richiede di aver
svolto: un post-dottorato in un laboratorio di ricerca
nazionale (con valutazione da parte di una commissione nazionale indipendente);
4) devono avere dei requisiti minimi, essenzialmente:
essere stati Chef de Clinique per almeno 2 anni;
avere un diploma nazionale per l’insegnamento;
avere svolto una mobilità di 1 anno in una struttura
indipendente dalla struttura di origine, di preferenza all’estero; avere pubblicato bene nella sottodisciplina, cioè avere un numero di punti minimo
allo score francese SIGAPS. Il calcolo dei punti
si basa sulla posizione dell’autore, sul numero di
autori, sul tipo di pubblicazione e sul quartile di
appartenenza della rivista nella sotto disciplina.
L’H-index e gli altri indici sono valutati nell’ambito
dell’ottenimento dell’HDR (punto 3);
5) dopo avere superato i punti precedenti, devono
essere validati dal Consiglio nazionale dell’Università, sottosezione pediatrica, composto da professori ordinari, in due sessioni progressive ad anni
diversi (pre-CNU e CNU);
6) infine, devono essere approvati dal Ministero della
salute e dal Ministero dell’università, che raccolgono tutti i documenti delle differenti commissioni, e
che hanno ovviamente diritto di veto, se giudicano
il candidato non idoneo.
Il futuro della ricerca clinica (pediatrica) è affidato ai giovani: problemi, prospettive, proposte
Non dettaglierò la carriera per il primariato universitario, dirò solo che richiede anch’essa il passaggio di
un numero significativo di commissioni, con lo scopo
di non trovarsi un primario “buono solo a pubblicare”
e incapace di gestire un’équipe (o il contrario). L’interesse della collettività resta in primo piano.
Per concludere, in Francia ottenere un posto di professore ordinario e di primario universitario a una giovane età è possibile, anche per uno straniero senza
“meriti non meritocratici” (forse non è italiano, ma si
capisce). Quel che ho trovato utile nel sistema francese è il pre-orientamento: si identificano dei potenziali
candidati a un posto universitario e si sostengono,
affinché possano mostrare quel che valgono in realtà. Visto il numero di commissioni indipendenti, con
diritto di veto e a difficoltà crescente, si selezionano
all’inizio solo i candidati che hanno davvero un profilo universitario. Scegliere dei candidati su base non
meritocratica espone il reparto, l’ospedale e la facoltà
alla perdita di un posto di ordinario, che rappresenta
un declassamento severo per la funzionalità di ciascuna di queste strutture.
L’interesse comune prevale sull’interesse personale,
poiché in caso contrario ci rimettono tutti, e nessuno
è disposto a perdere. Una piccola nota linguistica. In
francese l’equivalente della parola “meritocrazia” non
esiste, perché non si concepisce una valutazione e
una scelta da fare nell’interesse comune che non selezioni il migliore possibile.
Generoso Andria
Siamo al momento delle conclusioni. Armido Rubino è stato presidente della SIP e per ben due volte dell’EPA-UNEPSA, cioè dell’Unione delle Società
Scientifiche Europee. Naturalmente devo anche ricordare che ha promosso la fondazione della SIRP, dalla
cui iniziativa nasce anche questa Tavola Rotonda. Armido Rubino ha seguito i lavori con grande attenzione
e vorrei affidare a lui alcune considerazioni conclusive
sui contenuti di questo incontro.
Considerazioni conclusive
Armido Rubino
Parto da un primo dato. L’Italia
soffre di molti record negativi, nel
quadro europeo, riguardo al sostegno, finanziario e normativo,
alle attività di ricerca scientifica e
alla formazione dei giovani alla ricerca. Accade tuttavia che la ricerca scientifica svolta dalle istituzioni
pediatriche e, più in generale, la “ricerca scientifica di
interesse pediatrico”, siano di buon livello e del tutto
competitive se confrontate con gli altri paesi europei,
inclusi quelli molto più fortunati dal punto di vista del
sostegno alla ricerca scientifica. Purtroppo sono ben
noti i dati negativi generali sul sistema universitario e
della ricerca scientifica nel nostro Paese (istituzioni
pediatriche incluse), relativamente sia alla cosiddetta
“fuga dei cervelli” verso altri paesi, sia alla persistente
insufficienza delle risorse e delle opportunità offerte ai
giovani (in particolare i giovani medici) per una carriera accademica, sia alla persistente e generale scarsità di meritocrazia nei processi selettivi.
La discussione che si è svolta qui ha posto al centro
dell’attenzione il problema del reclutamento dei giovani medici per una carriera accademica nel nostro Paese, con particolare riferimento ai rapporti fra formazione alla ricerca scientifica, formazione alle attività
assistenziali, prospettive di lavoro. Il tutto guardando
in particolare al pediatra, con i suoi connotati specifici, ma anche come esemplificativo di un problema
più generale.
Dunque cosa fare? Cosa tentare di promuovere?
Sembrano emergere due strade anche dagli eccellenti contributi ascoltati qui.
La prima strada riguarda il “programma MD/PhD”, su
cui si dovrebbe procedere anche in Italia. Si tratterà,
nella fase propositiva, di mantenere saldamente la
barra su una “formazione generale alla ricerca scientifica di interesse biomedico”, con un curriculum appropriato sia rispetto alle finalità di un’attività medicoassistenziale, sia a quella di ricerca scientifica di tipo
biomedico.
Ma per quanto riguarda la formazione alla ricerca
scientifica di specifico interesse pediatrico, credo vadano anche perseguite le possibilità offerte dalle nuove norme riguardanti la specializzazione in pediatria,
emanate circa un anno fa con apposito decreto ministeriale, secondo il modello comunemente indicato
come “europeo” del triennio di pediatria generale, seguito dal biennio per le cure primarie o per le cure secondarie o una delle numerose specialità pediatriche.
Si tratta di una opportunità che, se correttamente utilizzata, può produrre ottimi risultati per la formazione
del pediatra ricercatore. Urge però un’azione decisa
della comunità pediatrica, perché possano concretizzarsi le tre condizioni, peraltro enunciate da Giuseppe
Saggese:
• definizione della numerosità dei posti a livello nazionale, sulla base dei reali fabbisogni di salute
pediatrica;
• individuazione dei criteri, sulla base dei quali le
singole sedi universitarie possano essere riconosciute per le attività formative relative alle specifiche specialità pediatriche, tra cui un’attività di
ricerca scientifica documentata nella letteratura
internazionale;
• il rilascio, in allegato al titolo di specializzazione, di
un “supplemento al diploma”, nel quale sia precisata l’avvenuta acquisizione del titolo di specialista in
una determinata specialità pediatrica o viceversa
nell’indirizzo di pediatria generale.
Questo consentirebbe agli specializzandi degli anni
quarto e quinto un’attività formativa che sarebbe al
tempo stesso di tipo clinico e di tipo scientifico. Po187
Tavola Rotonda
trebbe allora bastare solo un ulteriore anno di formazione alla ricerca per concorrere alle selezioni
relative all’inquadramento nelle strutture di ricerca di
interesse pediatrico, universitarie o ospedaliere. Tale
ulteriore anno potrebbe essere costituito da una partecipazione abbreviata a un corso di dottorato (come
è già consentito dalla normativa vigente) ovvero dalla
partecipazione a corsi annuali di ricerca post-specialistica, se andasse a buon fine l’iniziativa proposta ai
ministeri interessati su un percorso post-specializzazione.
Vorrei, infine, sottolineare che la “fuga dei cervelli” dimostra anche che l’attuale sistema formativo italiano
non sta poi tanto male, se innumerevoli esempi di giovani italiani, formatisi in Italia vanno a mietere successi e conseguire eccellenti situazioni lavorative in altri
paesi. Tuttavia, fermo restando un ulteriore impegno
per migliorare i processi formativi, occorrerebbe intervenire anche su altro. E quest’altro chiama in causa la
politica nel Paese e l’accademia (quella universitaria
in generale, quella medica e quella pediatrica in particolare).
La politica di ogni colore che ha finora guidato il Paese è responsabile di una pluridecennale e persistente
insufficienza di risorse destinate all’Università e al sistema della ricerca scientifica, sotto ogni aspetto e in
particolare riguardo alla numerosità delle posizioni di
docente e ricercatore. Basti un dato: abbiamo l’Università più anziana del mondo: dei 13.239 professori
ordinari (pochi in assoluto rispetto ad altri paesi), nessuno ha meno di 35 anni e solo il 15% ha meno di 40
anni (A. Galdo, Ultimi, Torino, Einaudi, 2016).
Ma occorre anche riconoscere che il male più grande
e la colpa più grave nei confronti dei giovani di questo Paese vanno cercati nel campo delle valutazioni
comparative fra più candidati da parte di quanti sono
chiamati a giudicare.
Fatte ovviamente salve le tante eccezioni, troppo
spesso si dimentica che la funzione del docente universitario, in quanto maestro dei più giovani, è tutta
nel formare il giovane medesimo al più alto livello
qualitativo possibile e porlo nelle migliori condizioni
culturali e pratiche per concorrere con successo nelle
valutazioni comparative per l’accesso alle posizioni di
docente o di ricercatore. Formazione in questo senso
non significa e non deve giustificare alcuna illegittima protezione nei momenti valutativi: quando il docente è chiamato a svolgere funzioni giudicanti nelle
valutazioni comparative per l’accesso di giovani alle
posizioni di docente o ricercatore, il suo compito non
può che essere uno: giudicare chi sia il (oppure i) più
meritevole(i) fra i candidati, con la massima obiettività
e onestà intellettuale. Si tratta quindi di ricondurre le
cose alla sostanza corretta: i concorsi vanno banditi
sulla base delle esigenze delle strutture, con modalità atte a promuovere la partecipazione di candidati
nella misura più estesa possibile in ambiti nazionali e
internazionali. Le successive valutazioni vanno svolte
col solo obiettivo di scegliere il (o i) più meritevole(i)
tra i candidati.
Di questo dovrebbe trattarsi quando si invoca più meritocrazia nei concorsi: scindere la formazione degli
allievi dalla politica delle scelte, che va fatta nell’interesse delle istituzioni. Solo così l’accesso alle posizioni disponibili da parte del grande numero di giovani
italiani sparsi nella comunità scientifica in Italia e nel
mondo diverrà davvero meritocratico.
Maggiore impegno da parte dello Stato per creare
opportunità di lavoro e maggiore credibilità dei meccanismi valutativi: sono questi gli strumenti per trattenere – o per far rientrare – i giovani nel sistema universitario e della ricerca scientifica nel nostro Paese.
Generoso Andria
Abbiamo affermato, nel titolo di questa Tavola Rotonda, che il futuro della ricerca clinica, non solo pediatrica, è affidato ai giovani. Armido Rubino auspica
che i giovani possano riacquistare fiducia nel nostro
“sistema Paese” a condizione che lo Stato crei per
loro nuove opportunità di lavoro e che coloro che li
valutano, nell’Università, ma non solo, seguano criteri
rigorosamente “meritocratici”.
Personalmente preferirei un paese in cui non si debba
fare appello al rispetto della meritocrazia per i valutatori (nè appello all’onestà per gli amministratori della
cosa pubblica). Preferirei un paese con delle regole
che premino i meritevoli e gli onesti e sanzionino severamente le persone e le istituzioni che fanno scelte sbagliate o “familistiche” (nel mondo della ricerca,
come in politica). Ma per approfondire questi temi occorrerebbe un’altra Tavola Rotonda.
Concludiamo, intanto, la nostra discussione, ringraziando tutti i partecipanti e dicendo che non c’è più
tempo da perdere, se si vuole evitare la “morte programmata” della ricerca clinica!
A giugno 2016 è stato pubblicato
il Libro bianco: “Il futuro della ricerca clinica (pediatrica). Problemi, prospettive, proposte”
Giannini Editore, Napoli a cura della Società Italiana di Ricerca Pediatrica - SIRP Onlus
Per informazioni: [email protected]; www.sirped.com
188