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Giuliana Bruno
VIAGGIARE IMMOBILI DENTRO UN “ATLANTE DELLE EMOZIONI”
Il libro della studiosa napoletana, premiato e celebrato nel mondo anglosassone,
appartiene al filone dei ‘Cultural Studies’ e si propone di riformulare uno spazio di
riconoscimento critico e psicologico nell’intreccio fra arte, architettura e cinema.
Sulla scorta di Benjamin la visione passa ‘dall’ottico all’aptico’. E la sensibilità tattile
di questa nuova ‘voyageuse’ esalta nella mappatura la dimensione geo-conoscitiva
del femminile.
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di Antonio Fasolo
«È un’idea a cui ho lavorato per anni. Lo scoprire, il muoversi, il viaggiare danno origine a ciò che nel tempo sono
stati definiti paesaggi interiori, paesaggi dell’anima, o mappe intime, destinati ad essere custoditi nell’atlante della
nostra memoria. Di solito, quando si parla di memoria e di emozione si pensa al tempo. Per me conta lo spazio, il
rapporto sentimentale con la geografia. Più che nel tempo, è soprattutto attraverso lo spazio che la memoria si muove.
La mia geografia emozionale è proprio la mappa dei sentimenti, delle pulsioni, dei desideri. La storia vede il mondo
dal lato della morte, come un insieme di reperti funerari, la geografia dal lato della vita»1.
Giuliana Bruno
Dopo aver ricevuto vari premi e riconoscimenti internazionali, come il “Kraszna-Krausz Moving
Image Book Award in Culture and History” nel 2004 ed esser stato indicato come “Migliore libro
dell’anno” nella classifica 2003 di “The Guardian”, nel dicembre 2006, Atlante delle emozioni viene
presentato in Italia e pubblicato da Bruno Mondadori con la traduzione di Maria Nadotti.
Approfondendo il precedente Streetwalking on a ruined map. Cultural Theory and the City Film of
Elvira Notari2, Giuliana Bruno prosegue la sua mappatura delle immagini in movimento. Il risultato
è un Atlante di percorsi possibili, un lucido esempio di cosa consista il campo di indagine dei
Visual and Environmental Studies.
Nella nostra era del simulacro, del significante disgiunto dal suo significato, l’Atlante rivendica così
il ruolo dell’emozione e della strategia femminista per restituire una veridicità sentimentale e
carnale alle immagini. Il cinema non viene indagato come l’invenzione tecnologica che certa
storiografia ci ha sinora tramandato − un susseguirsi di brevetti e macchine che ampliano le capacità
dell’occhio umano − bensì come l’ultima risposta ad un desiderio erotico-emozionale di spazio, che
ha attraversato la cultura occidentale in particolare dal XVI sec. in poi. Il film di conseguenza
diventa un prodotto storico, mappa mobile e strumento di esplorazione, in quanto registratore e
produttore di differenze socio-sessuali e di viaggi trans-culturali.
Nel disegnare questa mappa di itinerari teoretici ed emozionali (Atlante), siamo impegnati in un
viaggio erratico che ripercorre la genealogia del cinema e la cartografia intima dell’autrice stessa.
Lo spazio diventa il campo in cui l’identità dell’individuo si costituisce come soggetto (femminile),
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Intervista, La donna che ha tracciato l´Atlante delle emozioni, di Goffredo Locatelli, La Repubblica edizione di
Napoli, 6 dic. 2006.
2
Trad.it., Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari, a cura di M. Nadotti, La Tartaruga,
Milano, 1995.
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la geografia dei luoghi, più di una storiografia − tassonomico elenco di fatti − si traduce in una
mappatura emozionale che ogni essere umano disegna nella propria vita. È così che la categoria del
tempo viene ridimensionata da quello dello spazio. Il cinema, che si origina dalla flanerie, dalla
fiera, dai giardini pittoreschi, dal vedutismo, è il luogo dove si condensa e si definisce
quell’esperienza spettatoriale di massa che Walter Benjamin aveva indicato come ricezione nella
distrazione. Forma di appercezione, tattile e cinestetica, che da sempre la specie umana esperisce
attraverso l’architettura, andando a zonzo. La pratica dello spazio consiste dunque in
un’appropriazione tattile piuttosto che ottica. L’intuizione folgorante del filosofo tedesco continua
ad animare i dibattiti sullo statuto dell’opera d’arte, in particolare considerando le forme museali
dell’installazione contemporanea. Questa forma di difficile definizione, che spazializza il tempo
facendo dell’esperienza spettatoriale una questione di dislocazione spaziale del suo enunciato, per
Giuliana Bruno riassume e ripropone la genealogia storica del cinema. L’installazione sarebbe il
punto di contatto e la traccia persistente dell’intimo rapporto che la settima arte intrattiene con lo
spazio (espositivo) architettonico e con la strategia delle emozioni, nonché il punto di partenza da
cui costruire quel ponte critico tra teoria dell’arte e teoria del cinema. Nella pratica museale il corpo
mobile dello spettatore abita lo spazio, il nesso tra cinema e architettura diventa evidente come
struttura narrativa che connette luogo e desiderio. Il passaggio dal regime dell’ottico a quello
dell’aptico, prefigurato da Benjamin, con l’Atlante delle emozioni compie un passo differenziale che
equivale all’investimento di una nuova figura, la voyageuse, in sostituzione del voyeur, dal flaneur
alla flaneuse. La voyageuse è latrice di una forma di sguardo che muta il sight-seeing in site-seeing.
Il consumo di immagini diventa consumo di spazi. “Vedere e viaggiare sono inseparabili” e
Giuliana Bruno lo dimostra grazie a un montaggio che gioca con l’etimo delle parole-chiave:
voyeur e voyageur, sight (vista) e site (luogo), motion (moto) e emotion (emozione). Il puro piacere
scopico del turista (sight) è sostituito dal desiderio dei luoghi (site), “la rigida geometria ottica” del
vecchio voyeur viene abbandonata in favore di una mappatura mobile emozionale, disegnata dai
“sensuosi” viaggi transculturali compiuti attraverso le immagini e, potremmo aggiungere, attraverso
le mappe. L’etimo greco Kinema, che lega il movimento all’emozione, spiega come il film sia uno
strumento che connette conoscenza e sentimento all’interno dello scorrere della vita.
Fedele ai canoni estetici dei Cultural Studies, l’Atlante si allinea alla tematica del gender, concetto
simbolo degli Women’s Studies americani, categoria in grado di com-prendere la mascolinità e la
femminilità. Assumendo questa prospettiva teorico-miltante (nel senso del femminismo) e
nell’ottica non più analitico-universalistica degli Studi Culturali, la metafisica diviene metastoria
nella figura derridiana de la différence: l’identità non è qualcosa di dato, si determina in relazione
ad altro, nel differire da sé. Le donne quindi, nella loro condizione di escluse, come ogni minoranza,
sono storicamente portatrici di un sguardo diverso, tattile, di un aptico approccio al mondo che va al
di là della logica maschile su cui si basa la metafisica classica: la dicotomia natura/cultura,
storia/tecnica; pensiero/scrittura; trascendentale/empirico; infinito/finito ecc. Nasce così un’estetica
storica dell’esperienza sommersa. In questo contesto la particolarità, la sottocultura acquistano un
rilievo mai avuto precedentemente nella filosofia e nelle scienze umane. Il concetto di aptico, che
letteralmente significa capace di venire a contatto con, garantisce una logica non più oppositiva ma
inclusiva, reversibile. Permette di organizzare il sapere, lo spazio, la conoscenza, superando la
teoria classica del cinema, rivolgendosi in modo antropologico alla cultura, in tutte le sue
manifestazioni, senza alcuna gerarchia. Questo nuovo orizzonte critico scardina il cliché secondo
cui il cinema sarebbe diretto erede della prospettiva rinascimentale. Sostituisce alla visione rigida e
totalizzante dello sguardo un succedersi di vedute, inserendo lo spettatore direttamente nello spazio
non più illusionisticamente profondo del giardino pittoresco. Uno spazio non penetrabile (visione
maschile), ma di superfici tattili, percorribile, così che il contemplatore esterno della prospettiva
ceda il passo alla viaggiatrice (im)mobile. Una conoscenza non più teoretica e maschile, ma
empirica ed emozionale che si traduce in una mappatura mobile di transiti, in un’esperienza
rizomatica della storia. “La Storia non avviene nel tempo ma ha luogo nei luoghi”.
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Giuliana Bruno decostruisce la dicotomia viaggio-casa, maschile-femminile, due topoi classici del
mito. Il cinema sarebbe dunque l’ultimo ritrovato, nonché il punto dove confluiscono esperienze di
tutta la modernità, in cui il viaggio viene simulato e dove si realizza il desiderio dell’abitare i luoghi
altri. La casa, regno dell’immobilità, da sempre associata al femminile, si trasforma in casa
viaggiante, la movie house. La sala cinematografica figlia della camera oscura, dei gabinetti delle
curiosità, dell’anfiteatro anatomico, è il luogo dove il piacere muliebre del muoversi nello spazio
diventa esperienza aptica, la stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Questo viaggio interiore parte dal
con-tatto con l’esterno attraverso l’occhio, passando poi per tutti i canali sensoriali del corpo e
trasformandosi infine in vero movimento, in emozione.
Attraverso il film si percorrono tre diversi livelli di spazio: il narrativo filmico, l’architettonico e
l’interiorità dello spettatore. Ci troviamo immersi nel luogo del “tra”, dove e-mozionarsi (muoversi
fuori) è com-muoversi (viaggiare insieme), dove il viaggio, tra esterno ed interno, privato e
pubblico, diventa strategia di montaggio che reinventa, potenzia, la sorpresa e l’emozione della
passeggiata architettonica. Come intuito ai suoi albori da Ejsenstejn, il cinema traduce in montaggio
di luoghi (di emozioni situate nei luoghi), l’esperienza aptica di un corpo mobile che, come
nell’architettura di Le Corbusier, descrive un transito attraverso spazi di luce. Lo schermo, la parete
del museo o quella bianca dell’architettura moderna, sono i luoghi dove si proiettano i desideri
geopsichici del viaggiatore immobile. La superficie, la texture, di questi due spazi liminali è una
soglia tattile ed emozionale, che trova un altro corrispettivo nell’abito. La moda infatti, altro regno
del femminile, costruisce architetture mobili per il corpo, in cui l’habitus, come la sua radice
habitare, prevede una pratica fisica dello spazio, la costruzione di un contenitore, un’abitazione che
si pone ancora tra la nostra pelle e il mondo esterno. Dunque uno schermo su cui proiettare la nostra
interiorità. Come per l’osservazione di un oggetto, secondo la fisica dei quanti l’attraversamento di
uno spazio influenza sia il soggetto che il luogo stesso, lasciando traccia del transito sulla superficie
(texture). La moda e la cartografia quindi, come il cinema e l’architettura, si traducono in
modellamento e pratica dello spazio (manuale, aptico, tattile), in architexture, nella tessitura
emozionale che lo spettatore indossa sulla sua pelle, esperienza carnale che nel toccare presuppone
anche l’essere toccati. Reciprocità, bidirezionalità.
Il desiderio di mappare i luoghi è il desiderio di scoprire e scoprirsi nell’atto del transito attraverso
di essi. Nelle passeggiate architettoniche di Pasolini o nel seguire i vagabondaggi delle eroine dei
film di Antonioni, siamo guidati da un desiderio erotico di spazio, mentre le storie sono partorite
direttamente dall’architettura della città. Qui il cinema incontra il vedutismo del XVIII sec. e la
macchina da presa diventa mezzo di trasporto che disegna una cartografia mobile. Nei film di
Wenders, dai voli d’uccello (d’angelo), fino agli interstizi più infimi di una città come Berlino, il
ricordo e il palpitare degli uomini rivivono in un rito di elaborazione del lutto, che affida allo spazio
la dislocazione della memoria. È a questo proposito che nell’Atlante vengono citati Quintiliano e
Giordano Bruno, due maestri dell’arte della memoria, dimostrando che ben prima dell’invenzione
del cinema, il ricordo venisse già organizzato architettonicamente in stanze immaginarie, in cassetti
mentali, dunque dislocato in uno spazio. La tecnica mnestica consiste nell’associare i vari concetti
oltre che ad un luogo anche ad un’emozione. La memoria è quindi un’arte aptica, che si realizza
come esperienza tattile e affettiva, il cui percorso viene costruito e strutturato come una passeggiata
d’interni. Il site-seeing dimostra come il museo e il cinema ne siano gli eredi diretti.
All’arte del ricordare, Giuliana Bruno affianca il concetto di topofilia: l’amore per lo spazio, per i
luoghi e l’innegabile senso di lutto che la loro ricognizione tattile-emotiva trasuda. In questo senso
il Cielo sopra Berlino tocca due piani di memoria: dalle vedute, attraversando l’interior (interno e
interiorità) dei luoghi e dei suoi abitanti, si costituisce come atto di mappatura del corpo della città
stessa, ma anche come il risalire all’innato spirito topofiliaco inscritto nella genealogia del cinema.
Lo spettatore cinematografico viaggia nello spazio che la modernità e i film hanno costruito, la
città. La memoria, come la storia, diventa una questione geografica.
Disegnare mappe quindi si traduce direttamente in scrittura sentimentale, in una cartografia tenera
che è per Giuliana Bruno alla base dell’arte e che trova forma materiale nell’ispiratrice stessa di
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questo suo Atlante: La Carte de Tendre. Realizzata nel 1654 da Madeleine de Scudéry per corredare
il romanzo Clélie, è il primo esempio di Cartografia emozionale, scrittura tenera dei luoghi,
psicogeografia personale e tuttavia sociale. Le mappe così come il cinema, la lanterna magica, il
“mondo nuovo” sono mezzi di trasporto, di viaggio tra esterno e interiorità. Come per Calvino, “la
mappa presuppone l’idea del racconto, è concepita come un itinerario. È già un’odissea”.
Il Situazionismo costituisce un esempio contemporaneo di come lo schema e l’eco de La Carte de
Tendre attraversi la storia dell’arte. Debord pone al centro della sua poetica l’influenza dei luoghi e
dell’architettura sulle emozioni, proponendo una psicogeografia della città da modellare a seconda
delle situazioni (emozionali).
Ne L’Atlante di Gerhard Richter invece si realizza fisicamente un “sogno filmico”. Il visitatore è insite e in-side allo spazio narrativo, nonché alla mappa intima dell’autore. Grazie a questa
installazione di fotografie e di disegni, il pittore trasforma le immagini nell’architettura della sua
biostoria, il design invece la rende intersoggettiva, percorribile, abitabile. “Le immagini diventano
un architettura, l’architettura un film”. Attraverso questo montaggio architettonico quindi il siteseeing si concretizza nel film che ogni spettatore vede sulla parete.
La geografia emozionale più della storia serve a ricostruire il Teatro della Memoria.
Guy Debord, Guide Psychogeographique de Paris, 1957.
Il cinema per la sua particolarità di mappare la vita, di conservarla e riprodurla tecnicamente, è un
immenso archivio di memoria aptica, di mappe tenere dell’umanità. Una straordinaria invenzione
culturale che permette di costruire un immenso teatro della memoria, fatto di tutte le mappe intime
degli uomini e donne che l’hanno attraversato, di tutti quei luoghi verso cui viaggiamo, spinti dal
desiderio di spazio per incontrare noi e l’altro. In questo luogo di transiti che è lo schermo
cinematografico, il viaggio diventa transculturale, il sentire intimo si fa spazio, il corpo si fa città e
le città lontane sono il corpo dei nostri amanti. È il caso di un film come Hiroshima mon amour di
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Resnais. Ma il cinema costruisce anche una geografia emozionale dell’arte, la cannibalizza, la
assimila, la digerisce in un rito di elaborazione del lutto di cui Peter Greenaway è il sacerdote, come
lo è la poetica di Pasolini quando suggeriva di sostituire al cine-occhio l’occhio-bocca.
Attraversando i film del cineasta inglese l’arte rivive, le cineres diventano cinemi. Il “complesso
della mummia”, l’imbalsamazione della vita, per Giuliana Bruno vengono superati grazie al
rapporto di reciproca emozione che attraverso lo schermo lo spettatore rivive ogni volta che un film
viene proiettato. In questo senso il museo, l’installazione, il cinema sono modellati secondo lo
stesso design che prevede un passeggio architettonico, una pratica peripatetica dell’emozione che ha
più di un’assonanza con il cimitero. L'arte della memoria e la geografia si penetrano e ricreano a
vicenda. La pratica affettiva dei luoghi, il site-seeing, che ha caratterizzato le donne nella storia,
deve diventare perciò la nuova lente di ingrandimento con cui analizzare l’arte.
Dopo aver viaggiato con Giuliana Bruno nel suo Atlante tra arte, luoghi, cine-città, moda, design e
installazioni, veniamo trasportati direttamente nell’intimità dell’autrice, nel suo personale viaggio di
ritorno a casa, a Napoli. Questo percorso viene costruito in parallelo con il Viaggio in Italia di
Ingrid Bergman nel film di Rossellini. Lo spaesamento, la soggettività delle protagoniste si disegna
lungo i luoghi e i corpi di questa cine-città ante litteram. Sin dai tempi del Gran Tour, Napoli, con il
suo interminabile corredo di vedute pittoriche e cinematografiche, è il luogo dove il viaggio
immobile ha trovato conclusione e origine, sia nella Storia, che nella storia di Giuliana Bruno. È il
luogo simbolo dove lo spazio è continuamente rimappato, dove la cartografia mobile del cinema è
veramente figlia della città e dei soggetti che in essa trovano la loro psicogeografia, la loro carta
tenera. Giuliana Bruno quindi ripropone la sua mappa del bios che fa da eco a quella agognata da
Benjamin.
Come lettori, anche noi abbiamo compiuto il nostro viaggio immobile. Abbiamo provato lo
spaesamento delle eroine di questo atlante. Siamo entrati nella geografia emozionale dell’autrice,
ripercorrendo i luoghi della sua infanzia. Abbiamo adottato un sguardo tattile, aptico. Ci siamo
immedesimati nella viaggiatrice e abbiamo forse disegnato una nostra cartografia emozionale. Una
mappatura di spazi aperti. Siamo stati dei nomadi culturali, ignorando i confini tra estetica,
geografia, semiotica, etnologia. Abbiamo in parte dimenticato le rigidità epistemologiche e, pur non
celebrando come entusiasmante la novità dei Visual Studies, siamo sicuri che in essi si stiano
liberamente, forse anche ingenuamente, aprendo possibilità e spunti critici ancora solo accennati. In
ogni caso l’Atlante di Giuliana Bruno non è una risposta a quanti accusano i Cultural Studies di
limitarsi all'esportazione di temi estetici nel campo dell’antropologia, della sociologia e della storia.
Forse non è nemmeno una svolta estetica, ma limitandosi piuttosto al piacere del viaggio
transculturale, siamo sollecitati da vedute a volte illuminanti. La figura stessa dell’autore,
scientificamente non proponibile, assume in questa pratica geografico-emozionale di critica un
protagonismo che avvicina il critico all’artista. Entrambi sono impegnati a disegnare la loro mappa
intima e proiettarla sulla superficie-schermo, sullo spazio di reciproco scambio tra soggetto e
ambiente, scrittore e lettore, artista e spettatore. Un libro, azzardiamo, diretto più agli artisti che alla
critica.
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Bibliografia di riferimento.
Barthes, R., Sistema della Moda, Einaudi, Torino,1967;
Baudrillard, J., Simulacres et Simulation, Galilée, Paris, 1981 ;
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Benjamin, W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966;
Braidotti, R., In metamorfosi. Verso una teoria materialistica del divenire, Feltrinelli, Milano,2003.
Deleuze, G., Guattari, F., Che cos’ è la filosofia?, Einaudi, Torino, 1996;
Derrida, J., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971;
Haraway, D. J., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano,
1995;
Pomata, G., “Se questo è un fatto”, relazione al convegno Innesti. Storia delle donne, storia di
genere, storia sociale, Pontignano (Si), 7-9 febbraio 2003.