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Gli Anestesisti Rianimatori italiani
mobilitati a difesa delle proprie
competenze professionali
Le iniziative per bloccare la Scuola di Specializzazione in Medicina di Emergenza Urgenza
C
ome è ormai a tutti noto,
nel mese di maggio 2006,
con Decreto del Ministero
dell’Università, è stata istituita la Scuola di Specializzazione in
Medicina di Emergenza Urgenza. Tale
provvedimento, anche se in certa misura atteso, ha colto di sorpresa i rappresentanti delle Associazioni più rappresentative della nostra disciplina e
ha indotto i Presidenti di AAROI,
SIAARTI, SIARED e CPOAR a chiederne
la sospensione cautelare attraverso un
ricorso al TAR del Lazio.
C’è il rischio che la nostra disciplina
possa essere mutilata di qualche competenza che ormai è parte integrante
del nostro patrimonio, penalizzando le
aspettative professionali e di carriera di
molti anestesisti rianimatori italiani.
Il 28 settembre 2006 abbiamo dato incarico ai nostri legali di rinunziare alla
richiesta di sospensione d’urgenza
chiedendo invece di fissare l’udienza
di merito in tempi non troppo lunghi
e, comunque, prima dell’estate 2007,
con lo scopo di anticipare i tempi di effettiva esecuzione del decreto, ciò per
evitare che l’istituzione della nuova
Scuola da parte delle singole Università abbia concreto avvio nell’anno accademico 2007-2008.
Contro il nostro ricorso si sono costituiti
ad opponendum, oltre alla SIMEU (Società Italiana di Medicina Emergenza
Urgenza), anche la SIMI (Società Italia-
na di Medicina Interna) e la CUMI (Confederazione Unitaria Medici Italiani).
In sostanza, abbiamo molti avversari che
rendono il giudizio difficile ed incerto.
Molti e legittimi sono i motivi della nostra impugnazione:
1) la mancata audizione e consultazione delle Società ricorrenti ampiamente rappresentative degli
anestesisti rianimatori italiani.
2) La violazione delle norme comunitarie che non prevedono in alcuno dei 15 Paesi membri Scuole di
Specializzazione in Medicina di
Emergenza Urgenza. La Direttiva
che entrerà prossimamente in viContinua a pagina 3
COPERTURA ASSICURATIVA
SERVIZIO DI CONSULENZA TELEFONICA
LA POSIZIONE DELL’AAROI
SUL CASO WELBY
Documento approvato dal Consiglio Nazionale il 24 febbraio 2007
L
a vicenda di Piergiorgio
Welby ha sollevato l’attenzione della pubblica opinione su una serie di problematiche relativamente ai temi dell’accanimento terapeutico, del consenso informato, del testamento biologico e dell’eutanasia.
Gli Anestesisti Rianimatori sono una
categoria di medici professionisti che
da sempre si trova ad operare in situazioni cliniche di estrema gravità, su
quella stretta linea di confine che separa la vita dalla morte, concentrando
ogni energia nell’impegno di sostenere le funzioni vitali delle persone loro
affidate, consentendone il miglior recupero psicofisico possibile e comunque di alleviarne le sofferenze.
Questo risultato viene perseguito nelle
450 Rianimazioni e Terapie Intensive
Italiane, nelle 5.000 Sale Operatorie, nei
Reparti di degenza (si pensi all’“ospedale senza dolore”), negli Ambulatori di terapia del dolore e, sempre più spesso,
anche a domicilio, applicando precisi
protocolli terapeutici ed instaurando
con i pazienti (laddove possibile) e con i
loro familiari un profondo rapporto interpersonale, finalizzato alla cultura della vita ed al trattamento del dolore, non
solo nel suo contenuto fisico, ma in
quello di “dolore totale” che coinvolge
ogni aspetto della persona.
Il non abbandonare il paziente inguaribile alla propria sofferenza, garantendone la dignità con ogni strumento
utile a sottrarlo ad una inutile ed ingiusta sofferenza è atto doveroso.
Non è, invece, proponibile alcun atto
medico che volontariamente sopprima la vita.
L’esperienza ci insegna che molto
spesso l’idea di porre fine alla vita nasce da una inadeguata risposta alle
sofferenze.
Gli Anestesisti Rianimatori non accettano, quindi, di sposare quella linea
rinunciataria che sembra minare l’alleanza terapeutica tra medico e paContinua a pagina 3
Dal 1º marzo 2007 è stato attivato, per gli anestesisti rianimatori italiani iscritti all’AAROI che usufruiscono
della copertura assicurativa, il servizio di consulenza telefonica per ricevere risposte tempestive in caso di
incidente professionale. Il numero da selezionare è il seguente:
334 2480994
AL VIA SABATO 14 APRILE
(tutti i giorni dalle ore 08.00 alle ore 20.00)
CORSO ITINERANTE
AAROI-SIARED
ECM anno 2007
Per informazioni su adesione, revoca, rinnovo e chiarimenti sui contenuti della polizza assicurativa
AAROI-CARIGE tramite WILLIS resta sempre attivo anche il numero verde:
IL SERVIZIO
È GRATUITO
A PAGINA 5
IL PROGRAMMA, IL CALENDARIO E LE SEDI
Le Linee Guida sul controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale tramite procedure analgesiche
Negli ospedali italiani il parto sarà senza dolore
IL RUOLO CENTRALE DELL’ANESTESISTA RIANIMATORE
“T
utelare la scelta
della donna perché durante il travaglio e il parto
possa usufruire di un controllo efficace del dolore mediante le più appropriate procedure analgesiche attualmente disponibili, nel massimo
della sicurezza propria e del nascituro”. È questo l’obiettivo del documento, appena approvato dalla Commissione nazionale sui
Lea che promuove il “controllo
del dolore durante il travaglio e
il parto vaginale tramite procedure analgesiche” tra i livelli essenziali garantiti dal Ssn.
I Lea sul parto senza dolore seguono
di qualche mese l’approvazione in
Consiglio dei Ministri del Ddl che tutela i “diritti della partoriente, la
promozione del parto fisiologico e la
salvaguardia della salute del neonato”. Il documento definisce i criteri essenziali “strategici, gestionali e
organizzativi” per l’attivazione e
l’organizzazione di un servizio di
anestesia in ostetricia.
Dopo la descrizione delle procedure
analgesiche più efficaci per il controllo del dolore nel travaglio e nel
parto naturale (blocco perdurale,
blocco subaracnoideo, blocco combinato spino-peridurale) il documento mette in luce il ruolo delle diverse figure professionali coinvolte
(lo specialista in anestesia e rianimazione, l’ostetrico-ginecologo, l’ostretica) e la necessità di fornire alle
donne un’informazione adeguata e
completa sulle tecniche disponibili.
Ma anche l’opportunità di sviluppa-
re protocolli clinici, l’importanza di
promuovere programmi di formazione aziendale specifica.
L’obiettivo finale è quello di garantire (il parto analgesico entrerà di diritto nel Drg associato al parto) e
rendere accessibile la procedura al
maggior numero possibile di donne
e la sua concreta attuazione non potrà che avvenire gradualmente, “in
funzione delle scelte programmatorie delle Regioni e delle risorse disponibili“ e tenendo conto, in primo
luogo, della grave carenza di anestesisti-rianimatori all’interno del
Servizio sanitario nazionale.
Il documento suggerisce, quindi, di
individuare prioritariamente le
strutture di ricovero che effettuano
più di 1.200 parti l’anno, assicurando comunque, in ogni Regione, la
presenza di una o più strutture che
possano fornire risposte adeguate e
avviando, se necessario, fasi di sperimentazione.
IL TESTO DELLE LINEE GUIDA
1. Motivazione
e strategie generali
II Comitato nazionale di bioetica nel
documento del 30 marzo 2001, avente per titolo “La terapia del dolore:
orientamenti bioetici”, afferma che
“II dolore del parto ha caratteristiche
del tutto peculiari perché si verifica in
un organismo sano, ha una sua durata, dopo di che ritorna il benessere e
sopravviene la gratificazione della nascita... Per molte donne comunque il
dolore del parto è un grosso scoglio da
superare, un passaggio che assorbe
molte energie limitando le possibilità
di una partecipazione più concentrata
e serena all’evento, partecipazione
che costituisce l’optimum da realizzare per le vie più varie. L’analgesia (come peraltro ogni preparazione al parto), per realizzare al meglio questo fine, dovrebbe però far parte di un programma di assistenza alla gravidanza
che si propone una visione globale del
nascere e non porsi come un evento
isolato, “scarsamente informato”, che
viene proposto in sala parto. Con questa visione più ampia il ricorrere alla
sedazione del dolore del parto non si
porrebbe come alternativa al parto
naturale, ma come mezzo che la medicina offre per compiere una libera
scelta e per realizzare con la sedazione del dolore un maggior grado di
Continua alle pagine 6 e 7
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MEDICI ITALIANI AL SERVIZIO
DI SUA MAESTÀ
Negli ultimi 4 anni sono stati oltre 1.000 i camici bianchi
del Belpaese che si sono iscritti al General Medical Council
Sarà il fascino della Regina o, più probabilmente, le maggiori possibilità di crescita
professionale e gli stipendi alti, ma sempre più medici italiani emigrano per lavoro
nel Regno Unito. Negli ultimi 4 anni sono stati oltre 1.000 i camici bianchi Italiani
che si sono iscritti al Gmc (General Medical Council) l’Ordine dei medici britannico, condizione necessaria per esercitare la professione Oltremanica.
Per la precisione 1.048, a fronte però di una richiesta molto più alta: diversi infatti
non superano l’esame di ammissione, arenandosi soprattutto contro lo scoglio
della lingua. Pescare tra i camici bianchi italiani è infatti diventata una pratica
sempre più diffusa da parte del servizio sanitario inglese.
I più richiesti: psichiatri e neuropsichiatri infantili. Per la sua campagna acquisti, il
servizio sanitario britannico ha lanciato, dopo il 2000, una campagna internazionale di reclutamento in collaborazione con l’Ambasciata britannica a Roma. Ma
cosa spinge i nostri medici a oltrepassare la Manica?
Secondo l’Ambasciata i motivi sono diversi. In primo luogo le condizioni di lavoro.
Lo stipendio mensile può toccare anche i 7.000 euro netti. La percentuale dell’imposta sul reddito è più bassa (per questa fascia è del 39%) ma, soprattutto, sono garantite ottime possibilità di crescita professionale, avanzamento di carriera, studio e
ricerca. L‘Ambasciata è riuscita a collocare, con contratti anche a tempo indeterminato, 120 medici. Un numero però che non tiene conto di tutti quei camici bianchi
che agiscono per proprio conto o appoggiandosi ad agenzie di reclutamento.
SEDE NAZIONALE • Via XX Settembre, 98/E • 00187 Roma • Tel. 06.47825272 • Fax 06.47882016 • e-mail: [email protected]
PRESIDENTE NAZIONALE • Dott. VINCENZO CARPINO • Via E. Suarez, 12 • 80129 Napoli • Tel. 081.5585160 • Fax 081.5585161 • e-mail: [email protected]
Organo Ufficiale dell’A.A.R.O.I.
VICE PRESIDENTE NORD • Dott. GIANMARIO MONZA • Via C. Franchi, 120 • 21040 Cislago (Va) • Tel. e Fax 02.96409202 • e-mail: [email protected]
VICE PRESIDENTE CENTRO • Dott.MARCOCHIARELLO•ViaCav.diV.Veneto,34•62027S.SeverinoM.(Mc)•Tel.0733.633601•Fax0733.646140•e-mail:[email protected]
VICE PRESIDENTE SUD • Dott. MARIO RE • Via Michelangelo, 450 • 90135 Palermo • Tel. 091.6662927 • Fax 091.6662920 • e-mail: [email protected]
PRESIDENTE SIARED • Dott. GIUSEPPE MARRARO • Via Marco Polo, 55 • 20049 Concorezzo (Mi) • Tel. 039.6042128 • Fax 02.700404589 • e-mail: [email protected]
PRESIDENTE SIAARTI • Prof. LUCIANO GATTINONI • Piazza dei Daini, 3 • 20126 Milano • Tel. 02.55033231 • Fax 02.55033230 • e-mail: [email protected]
COORDINATORE UFFICIO ESTERI • Dott.ssa RAFFAELLA PAGNI • Via Zuccari, 6/A • 60129 Ancona • Tel. 071.33271 - 5962313 • Fax 071.5962310 • e-mail: [email protected]
Autorizzazione
Tribunale di Napoli
4808 del 18/10/1996
Direttore Responsabile
VINCENZO CARPINO
SEGRETARIO • Dott. UMBERTO VINCENTI • Corso Garibaldi, 47 • 84123 Salerno • Tel. 089.223093 • Fax 081.8234797 • e-mail: [email protected]
TESORIERE • Dott. MAURIZIO GRECO • Via A. Minichini, 8 (IV Trav ersa) • 80035 Nola (Na) • Tel. 081.5585160 - 081.5124497 • Fax 081.5585161 • e-mail: [email protected]
ABRUZZO • Dott. Stefano MINORA • Via Galilei, 13 • 64015 Nereto (Te) • Tel. 0861.855371 • Tel. e fax 0861.810476 • e-mail: [email protected]
Vice Direttori
MARCO CHIARELLO
GIANMARIO MONZA
MARIO RE
BASILICATA • Dott. Nicola SCACCUTO • Largo Mercato, 4 • 85057 Tramutola (Pz) • Tel. 0975.353750 • Fax 0975.612596 • e-mail: [email protected]
CALABRIA • Dott. Guido MINUTO • Via S. Lucia al Parco, 6 • 89124 Reggio Calabria • Tel. 0965.28039 - 0982.977356 • Fax 0982.977270 • e-mail: [email protected]
CAMPANIA • Dott. Elio RECCHIA • Via E. Suarez, 12 • 80129 Napoli • Tel. 081.5585160 • Fax 081.5585161 • e-mail: [email protected]
EMILIA ROMAGNA • Dott.ssa Teresa MATARAZZO • Via De’ Romiti, 16 • 44100 Ferrara • Tel. 0532.769596 • Fax 0532.711453 • e-mail: [email protected]
FRIULI-VENEZIAGIULIA•Dott.SergioCERCELLETTA•ViaS.Slataper,2/A•33100Udine•Tel.0432.530144-0432.552428•Fax0432.231977•e-mail:[email protected]
LAZIO • Dott. Quirino PIACEVOLI • Via Andrea Barbazza, 154 • 00168 Roma • Tel. e Fax 06.6149007 • e-mail: [email protected]
LIGURIA • Dott. Pasquale DE BELLIS • Via di S. Zita, 1/14D • 16129 Genova • Tel. 010.565263 -010.5552539 • Fax 010.5556860 • e-mail: [email protected]
LOMBARDIA • Dott. Gianmario MONZA • Via C. Franchi, 120 • 21040 Cislago (Va) • Tel. e Fax 02.96409202 • e-mail: [email protected]
MARCHE • Dott. Marco CHIARELLO • Via Cav. di V. Veneto, 34 • 62027 S. Severino M. (Mc) • Tel. 0733.633601 • Fax 0733.646140 • e-mail: [email protected]
MOLISE • Dott. Roberto GRAMEGNA • Via delle Orchidee, 23 • 86039 Termoli (Cb) • Tel. 0875.83660 - 0875.7159323 • Fax 0875.702484 • e-mail: [email protected]
PIEMONTE - VALLE D’AOSTA • Dott. Bruno BARBERIS • Corso Re Umberto, 138 • 10128 Torino • Tel. e Fax 011.3186439 • e-mail: [email protected]
PROVINCIA DI BOLZANO • Dott. Massimo BERTELLI • Via Hoertmoos, 33 • 39018 Terlano (Bz) • Tel. 0471.933267 - 0471.908675 • e-mail: [email protected]
PROVINCIA DI TRENTO • Dott. Giorgio CESARI • Via Man di Sant’Antonio, 17/2 • 38100 Trento • Tel. 0461.921472 - 0461.755289 • Fax 0461.921472 • e-mail: [email protected]
PUGLIA • Dott. Antonio AMENDOLA • Piazza A. Diaz, 11 • 70121 Bari • Tel. e Fax 080.5540557 • e-mail: [email protected]
SARDEGNA • Dott. Paolo CASTALDI • Via Einaudi, 40 • 09127 Cagliari • Tel. 070.664440 - 6094345 • Fax 070.42939 • e-mail: [email protected]
SICILIA • Dott. Mario RE • Via Michelangelo, 450 • 90135 Palermo • Tel. 091.6662927 • Fax 091.6662920 • e-mail: [email protected]
TOSCANA • Dott. Fabio CRICELLI • Via S. Donato, 24-4 • 50127 Firenze • Tel. 055.360415 - 055.3245661 • Fax 055.39069595 • e-mail: [email protected]
UMBRIA • Dott. Luigi RINALDI • Strada di Piedimonte, 8-D • 05100 Terni • Tel. 0744.205262 • Tel. e Fax 0744.306131 • e-mail: [email protected]
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a tutti gli iscritti all’AAROI
Chiuso in Redazione il 21 marzo 2007
Tiratura: 10.000 copie
Spedito il 27 marzo 2007
3
Continua dalla prima pagina
Gli Anestesisti Rianimatori italiani mobilitati a difesa ...
gore prevede che le Scuole di Specializzazione debbano essere presenti in almeno due
quinti degli Stati membri e, quindi, in almeno 10 su 27.
3) Il parere del Ministero dell’Università sull’istituzione della nuova Scuola, sostanzialmente privo di motivazione.
4) Il CUN (Consiglio Universitario Nazionale)
non ha espresso alcun parere favorevole all’adozione del provvedimento che istituisce
la Scuola di Specializzazione, così come risulta dai resoconti delle sedute del Consiglio.
5) Il parere del Consiglio Superiore di Sanità del
28/4/2005, che ancora non è dato di conoscere e che sarebbe in contraddizione con i
precedenti pareri dello stesso organo relativamente all’assetto stabilito dal D.M. dell’1/8/2005.
6) Il Ministero dell’Università con il D.M.
1/8/2005, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il
5/11/2005, ha provveduto al riassetto completo delle Scuole di Specializzazione di area
sanitaria adeguandosi alla normativa comunitaria ed a quella dei Paesi europei, nonché
in aderenza alla disciplina generale degli studi
universitari (D.M.270/2004).Aseguito di una
complessa istruttoria sono state individuate le
tre aree (medica, chirurgica e dei servizi) all’interno delle quali sono state identificate 52
tipologie di Scuole di Specializzazione tra le
quali non è stata prevista una Specializzazione
in Medicina di Emergenza Urgenza, in quanto
non conforme ai parametri europei e non prevista specificatamente dalla normativa del
Dlgs. 368 del 17/8/1999, allegato C.
7) La mancata previsione, sia nell’elenco dell’allegato C al Dlgs. 368/1999 che nel D.M.
1/8/2005, di una Scuola di Specializzazione
Continua dalla prima pagina
La posizione dell’AAROI sul caso Welby
ziente e tenta di far rientrare l’eutanasia attiva
tra i compiti della professione medica.
Ben diversa è la problematica relativa all’accanimento terapeutico, situazione con la quale gli
Anestesisti Rianimatori si confrontano spesso e
che si concretizza da una parte nella desistenza a
continuare cure evidentemente inutili a causa
dell’evoluzione terminale della malattia, dall’altra nel sostegno del proprio paziente fino agli ultimi istanti della sua esistenza terrena.
La nostra legislazione, il nuovo Codice deontologico, i documenti della Chiesa e le linee guida delle
Società Scientifiche degli Anestesisti Rianimatori,
sono esaustive in merito ed appaiono ben chiare
nel discriminare, non approvandolo, l’atto che
provoca intenzionalmente la morte (eutanasia attiva), dalla desistenza terapeutica.
Merita, invece, un approfondimento legislativo il
tema del testamento biologico che, opportunamente modulato, deve essere inquadrato come
un preventivo consenso/dissenso informato della persona, relativamente a possibili futuri trattamenti di mantenimento in vita in situazioni di
patologie croniche irreversibili e che trova il suo
sostegno in primis nel dettato costituzionale,
che, all’aricolo 32 recita: “Nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non
può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Anche in questo caso, tuttavia, la persona sofferente
ha diritto di ricevere, e il medico ha il dovere di offrire, secondo scienza e coscienza, tutto il sostegno
ed il supporto che l’ammalato è disposto ad accettare, con la finalità di attenuarne le sofferenze.
Seppure in tale situazione estrema infatti, il rapporto è quello fiduciario dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente, nel rispetto della centralità del paziente e dell’autonomia professionale ed etica del medico, non confinabile al me-
ro compito di esecutore materiale del volere del
paziente, stante il fatto che non appare possibile
sistematizzare, generalizzandola, l’evoluzione
della malattia.
Gli Anestesisti Rianimatori Italiani riconoscono
la dignità dell’esistenza ed il valore unico ed irripetibile di ogni essere umano, punto di partenza
e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la
malattia e la disabilità non siano criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Questo riconoscimento richiede anche concreti investimenti sia sul piano economico che su quello culturale, per favorire un’idea di cittadinanza allargata che comprenda tutti.
Da sempre questi professionisti si impegnano affinché la medicina, i servizi sociosanitari e, più
in generale, la società, forniscano adeguate e più
esaustive risposte ai differenti problemi posti dal
dolore e dalla sofferenza, evitando di creare le
condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie a se stessi.
Occorre rinsaldare nel Paese la certezza che
ognuno riceverà cure adeguate e che, prima di
pensare alla sospensione dei trattamenti, verrà
garantita al malato, alla persona con disabilità e
alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e
adeguata forma di trattamento, cura e sostegno.
Solo così lo sviluppo della medicina viene reso
possibile: la concezione “positiva” dell’esistenza
umana, capace di accettare la sfida dell’assistenza e della cura, anche di fronte alla patologia più
severa e al declino fisico e psichico della vecchiaia, rappresenta per gli Anestesisti Rianimatori
Italiani il cardine della loro professionalità.
Non si può chiedere a questi medici specialisti
dell’area critica di fare il possibile per salvare vite
umane e nello stesso tempo di staccare la spina
spegnendole.
in Medicina di Emergenza Urgenza si spiega
agevolmente. Questa specializzazione non
corrisponde né ai reali interessi scientifici e
didattici universitari, né alle esigenze del
Servizio Sanitario Nazionale. Interessi ed esigenze che vengono invece soddisfatti dalla
Scuola di Specializzazione in Anestesia e Rianimazione, che presenta un ordinamento
coerente che prevede una serie di studi approfonditi di alto profilo oltre che esperienze
pratiche nei diversi settori dell’emergenza.
L’Emergenza Urgenza non è una disciplina, ma
soltanto una condizione clinica che può presentarsi in tutte le discipline medico chirurgiche,
per cui è assurdo prevedere una specializzazione
che affronti tutte le emergenze proprie delle specifiche discipline.
Un’attenta lettura delle finalità e degli obiettivi
formativi di questa specializzazione, attribuisce
a questo nuovo specialista un diploma di “tuttologo” che spazierebbe dalla cardiologia alla allergologia, dalla terapia intensiva alla ematologia,
dalla gastroenterologia alla oncologia, dalla psichiatria alla radiologia.
Per non parlare delle “attività professionalizzanti
obbligatorie”, previste dagli obiettivi formativi
che richiedono tra l’altro:
a) la gestione di almeno 50 traumatizzati
maggiori;
b) almeno 10 disostruzioni delle vie aeree;
c) 30 ventilazioni con pallone Ambu;
d) 20 intubazioni orotracheali in urgenza;
e) saper praticare tracheotomie e ventilazioni invasive e non invasive, con l’uso di
ventilatori meccanici pressometrici e volumetrici.
Tutte prestazioni che duplicherebbero in peggio
le competenze acquisite in molti anni di attività
dalla disciplina di Anestesia e Rianimazione con
elevati livelli di professionalità.
È del tutto evidente, allora, che non permetteremo che gli anestesisti rianimatori italiani siano
privati un poco alla volta delle competenze di
parti della propria disciplina, mettendo in campo tutte le risorse disponibili fino ad arrivare alla
mobilitazione generale della categoria, anche
con forti ed intransigenti iniziative sindacali.
Vincenzo Carpino
Questioni di vita o di morte
I principi fondamentali di un testamento biologico o direttiva anticipata di fine vita, prevedono
che ogni cittadino, nel pieno delle proprie facoltà, possa redigere un documento che abbia un
valore giuridico nel quale indicare i trattamenti sanitari che intende accettare nell’eventualità di
non essere più in grado di dare il proprio consenso.
L’obiettivo è quello di evitare l’accanimento terapeutico, ma anche di sollevare medici e familiari da decisioni prese in modo paternalistico in un momento di grave difficoltà.
Nella realtà concreta delle cose, la redazione di un testamento biologico è auspicata da e per coloro che, prefigurando ipotesi tragiche di fine vita, ritengono che in situazioni estreme possa essere un bene morire piuttosto che essere curati.
Da anni su questo argomento bioetico si è sviluppata una forte dialettica. I giuristi tendono, dal
loro punto di vista, a ridurre questo dibattito in termini formali e si interrogano sulla validità che è
possibile riconoscere a simili direttive anticipate, nel contesto di un ordinamento giuridico. La
vita infatti non può essere considerata alla stregua di un bene disponibile.
I medici, da parte loro, si interrogano sulla compatibilità dei testamenti di vita con i loro doveri
deontologici. I bioeticisti discutono se, nella sfera di insindacabile autodeterminazione del malato, (quella nella quale si fa comunemente rientrare l’atto suicida che alcuni arrivano a qualificare come un vero e proprio diritto dell’uomo), si possa far rientrare la pratica eutanasica, concepita come forma di suicidio assistito non solo auspicata, ma in qualche modo prescritta da un
testamento biologico.
L’argomento, indubbiamente spinoso, è l’esempio emblematico di come sia facile, in “questioni
di vita e di morte” inoltrarsi in un pendio scivoloso che, nel legalizzare situazioni estreme, problematiche e tutto sommato rare (l’eutanasia praticata su esplicita e consapevole richiesta, anche anticipata, del paziente), può finire per estendere la legalizzazione a casi solo apparentemente analoghi (l’eutanasia senza esplicita e consapevole richiesta).
La posizione degli anestesisti rianimatori dell’AAROI è chiara: un netto “no” all’eutanasia nel
senso di morte volontariamente procurata, un netto e forte “no” all’accanimento terapeutico.
Nella sofferenza più grave ognuno sa quello che e’ disposto a tollerare o ad accettare in termini
di cure per la propria salute e per la propria vita.
Per noi medici il rispetto delle decisioni del paziente è un fondamento deontologico.
Siamo pertanto pronti a rispettare una legge che riconosca al paziente questa sua potestà, peraltro mai messa in discussione e sancita dalla stessa Costituzione, ma chiediamo che anche le
norme penali e civili, che attualmente non sembrano riconoscere tale potestà, siano riviste.
L’esonero dalla responsabilità sul piano penale e civile non può comunque esimere il medico, di
fronte ad un tema così delicato, dal dovere di essere il portatore di un progetto e il promotore di
una armonica relazione medico-paziente.
LaRedazione
Il discutibile provvedimento dell’Ordine dei Medici di Cremona
L
a Commissione disciplinare dell’Ordine dei Medici di Cremona ha archiviato il “caso Riccio” ritenendo ineccepibile l’operato del medico.
Ciò che mi ha sbigottito è stata l’unanimità della
decisione, presa dopo lunghe ore di camera di consiglio, e mi è venuto da chiedermi come mai poteva
accadere che in una città italiana, civilissima e di
grande cultura, nessuno abbia avanzato dubbi su
che cosa si chiedeva alla commissione di decidere.
Poi sono andato con la mente ad altre “unanimità” e ne ho tratto il convincimento che pur cambiando tempi, latitudini e situazioni in genere,
su certe cose si raggiunge l’accordo d’insieme se
non altro per stanchezza, provocata da discussioni snervanti e spesso ripetitive.
Ma sono le postille del provvedimento assolutorio (“ci auguriamo che finisca la strumentalizzazione, specie da parte della sinistra radicale
chiaramente interessata ad utilizzare il caso
per far passare l’eutanasia ...” ed ancora “...
questa archiviazione non crea alcun precedente: nessuno si sente autorizzato d’ora in
poi a seguire l’esempio di Riccio, finché non
esiste una legge in materia”) ad aver suscitato
in me maggior sconcerto, perché non sono riuscito a trovare un filo logico di collegamento tra
loro ed il merito del provvedimento.
In realtà quelle precisazioni contraddicono ed in
buona misura smentiscono la decisione di archiviazione, pur denunciando l’intero travaglio dei
componenti la commissione, che hanno dimostrato di non avere quel coraggio e quell’amore
per la verità che era legittimo attendersi da loro.
Esse hanno avallato e rafforzato la mia convinzione che il verdetto è del tutto opinabile e risponde
solo ad una logica di compromesso, che se ha
tranquillizzato il dott. Riccio e coloro che ne hanno condiviso l’iniziativa, ha insinuato seriamente
il dubbio sull’attendibilità dei componenti la commissione cremonese. I quali, pur avendo riconosciuta innegabile rilevanza alla volontà di Welby di
farla finita, non si sono chiesti da dove, come e
perché sia comparso all’improvviso e da lontano
questo professionista, che non è mai stato medico
curante dell’infermo, non ha convissuto con lui i
giorni del suo dramma psicologico, spirituale ed
umano, ed è arrivato a staccare la spina animato
da un malinteso spirito umanitario, forse solo per
attrarre su di sé consenso ed approvazione da parte della platea mediatica, fortemente condizionata
dall’ideologia politica.
Molti altri, prima di lui, si erano dichiarati disposti ad
intervenire, ma nessuno lo ha fatto: tutti hanno preferito attendere che giungesse il “paladino” di turno,
che li cavasse da ogni impaccio e li mettesse a riparo
da implicazioni di ordine giuridico e morale.
Grazie alla capillare informazione dei mass-media
è risaputo che la sospensione dell’attività del respiratore automatico porta in 1-3 minuti alla morte
cerebrale. Il dott. Riccio ne era ben a conoscenza,
dato che professionalmente svolge l’attività di anestesista rianimatore e, quindi, ha specifica competenza al riguardo. Ed è anche noto che la sedazione
farmacologia indotta prima dell’interruzione ventilatoria artificiale è somministrata come provvedimento terapeutico nuovo e volontario, al fine di
non far percepire al paziente (nella specie, al povero Welby) la sospensione della ventilazione artificiale ed il successivo ingresso nel “tunnel del nulla” (per chi non crede). Con ciò si realizza la morte
serena. In altre parole: l’eutanasia!
La somministrazione del farmaco ipnotico è un
trattamento medico che entra a far parte, in questo
caso, di un tutt’unico con la sospensione dell’attività ventilatoria artificiale. L’induzione dell’ipnosi era
pertanto un atto illegale, perché tendeva con il resto
del programma alla morte della persona.
Parlare quindi di ineccepibilità dell’azione da un
punto di vista deontologico mi pare sia più che
opinabile, se non piuttosto ingiustificabile, perché
azione volontaria finalizzata alla soppressione della vita di una persona, ancorché consenziente.
Malgrado la dichiarata consensualità del paziente, il dott. Riccio sapeva benissimo che avrebbe
procurato la sua morte, contro i principi etici che
sono da millenni a presidio e fondamenta della
professione di medico ed in quella più recente di
anestesista-rianimatore. E vorrei ricordare che
la specializzazione in anestesia e rianimazione
non dà licenza di sopprimere velocemente la vita, sia pure giunta allo stato terminale, ma a lottare fino in fondo per salvarla.
Adolfo Ruggiero
Primario Emerito di Anestesia e Rianimazione
Ospedale Cardarelli di Napoli
4
I Centri Grandi Ustionati in Italia
S
econdo il Ministero della
Salute, i Centri Grandi
Ustionati (CGU) sono:
“strutture autonome di
cure intensive dedicate alla cura di
soggetti vittime di gravi traumi termici e/o lesioni dell’apparato cutaneo, generalmente inserite nell’ambito di DEA di 2º livello”.
In Italia attualmente sono presenti 20
Centri Grandi Ustionati, distribuiti su
tutto il territorio nazionale nella misura di:
n 9 nel nord;
n 3 nel centro;
n 4 nel sud;
n 4 nelle isole.
Otto sono i centri attrezzati anche per
il trattamento ventilatorio dei pazienti
ustionati in modo da non trasferire il
paziente in un Centro di rianimazione
ed evitare così il rischio di gravi infezioni. Nei centri in questione la gestione del paziente intubato avviene in
stretta collaborazione tra chirurgo
plastico e anestesista rianimatore.
Quest’ultimo specialista si occupa anche di praticare la narcosi nel caso in
cui si debba procedere alla medicazione del grande ustionato.
PIEMONTE
A Torino esistono 2 CGU. Quello presso il CTO per pazienti adulti dotato di
9 posti letto attrezzati per la terapia intensiva, gestiti da medici rianimatori e
chirurghi plastici. Quello per bambini
(0-16 anni) si trova presso l’Azienda
Ospedaliera Regina Margherita e ha
4 posti letto attrezzati per la terapia intensiva, gestiti in collaborazione con il
reparto di rianimazione pediatrica
dello stesso ospedale.
LOMBARDIA
A Milano l’unico CGU è ubicato presso
l’A.O. Niguarda Cà Granda, inserito
nel trauma center dell’ospedale. Dispone di 10 posti letto di terapia
sub-intensiva, attualmente è in corso
la riorganizzazione per poter accettare
pazienti portatori di protesi ventilatoria. Il centro è gestito da chirurghi plastici in collaborazione con anestesisti
rianimatori.
VENETO
Sono presenti 2 CGU: Padova e Verona. Quello di Padova è ubicato presso
l’Azienda Ospedaliera e dispone di 8
posti letto di terapia sub-intensiva; i
bambini vengono gestiti presso la divisione di chirurgia pediatrica dello
stesso ospedale. Quello di Verona è
operante presso l’Ospedale di Borgotrento e dispone di 7 letti di terapia
sub-intensiva.
LIGURIA
Sono presenti 2 CGU: quello dell’Ospedale di Genova Sanpierdarena con 8 posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva e quello dell’Ospedale pediatrico Gaslini che dispone
di alcuni posti letto nella divisione di
chirurgia pediatrica, in regime di terapia sub-intensiva.
EMILIA-ROMAGNA
Sono presenti 2 CGU: quello di Cesena
dislocato presso l’Ospedale Bufalini
che dispone di 8 posti letto di terapia
intensiva e sub-intensiva e quello di
Parma che è appena stato inaugurato.
La nuova struttura dispone di 8 posti
letto di terapia intensiva.
TOSCANA
Sono presenti 2 CGU: quello di Pisa è
situato presso l’Azienda Ospedaliera
e dispone di 7 posti letto di terapia in-
I medici di altri reparti
non sono obbligati a collaborare
alle attività di Pronto Soccorso
Il medico che lavora in un reparto di chirurgia generale ma anche in altri reparti non ha alcun obbligo di collaborare alle attività di Pronto Soccorso. È illegittima,
infatti, la delibera del Policlinico Umberto I di Roma
che ha stabilito l’obbligo del personale medico strutturato di supportare le attività del Dipartimento Emergenza Accettazione (DEA).
Lo ha deciso il TAR del Lazio, accogliendo il ricorso di
un gruppo di medici dei dipartimenti interni di chirurgia generale che, essendo stati inseriti nei turni di
guardia del Dea, lamentavano il fatto che, attraverso
una decisione aziendale ad effetto permanente e non
transitorio, “le attività di chirurgia d’urgenza, si avvalessero della collaborazione del personale dirigente
medico appartenente ad altre strutture chirurgiche
non più su base volontaria”.
Con sentenze n. 8387 e 8396/2003 la terza sezione ha
annullato la delibera del 27 giugno 2002 perché regola
con modalità permanente una fattispecie transitoria,
in contrasto alle specifiche prescrizioni organizzative
della Regione.
Il Tar ha sostanzialmente affermato che il DEA deve
avere un suo organico autonomo e pur riconoscendo
che, in via provvisoria il suo funzionamento può avvenire anche utilizzando altro personale, ha escluso che
si possa trasformare una forma di libera partecipazione, in uno specifico obbligo assistenziale del personale medico strutturato.
tensiva e quello di Firenze che è situato presso l’Ospedale Pediatrico Meyer e dispone di 4 posti letto di terapia
sub-intensiva.
LAZIO
L’unico CGU della regione è a Roma
presso l’Ospedale S. Eugenio e dispone di 22 posti letto suddivisi in 10 posti
letto di terapia intensiva e 12 di terapia
sub-intensiva. È presente anche una
sezione pediatrica con 8 posti letto.
CAMPANIA
A Napoli i CGU presenti in città sono
due. Quello per adulti situato presso
l’Azienda Ospedaliera Cardarelli
che dispone di 15 posti letto suddivisi
in 6 posti di terapia intensiva e 9 posti
di terapia sub-intensiva. Quello pediatrico è gestito dall’Azienda Ospedaliera Santobono e dispone di 4 posti
letto di terapia sub-intensiva inseriti
nell’U.O. di chirurgia pediatrica.
PUGLIA
Sono presenti 2 CGU: quello di Bari è
situato presso il Policlinico Consorziale e dispone di 8 posti letto suddivisi in 3 di terapia intensiva e 5 di terapia sub-intensiva. Quello di Brindisi è
situato presso l’Azienda Ospedaliera
di Summa e dispone di 10 posti letto di
terapia intensiva e sub-intensiva. È
presente anche una sezione pediatrica.
SICILIA
Sono presenti 2 CGU: quello di Palermo si trova presso l’Azienda Ospedale Civico e dispone di 30 posti letto di
cui 12 di terapia intensiva. Quello di
Catania è ubicato presso l’Azienda
Ospedaliera Cannizzaro e dispone di
16 posti letto suddivisi in 7 di terapia
intensiva e 9 di terapia sub-intensiva.
SARDEGNA
Sono presenti 2 CGU: quello di Cagliari è localizzato presso l’Ospedale SS.
Trinità e dispone di 12 posti letto di
terapia intensiva e sub-intensiva; i
bambini vengono trattati presso l’U.O.
di chirurgia pediatrica. Quello di Sassari si trova presso l’Ospedale SS.
Annunziata e dispone di 5 posti letto
di terapia sub-intensiva.
Il paziente grande ustionato è un malato
da terapia intensiva ad alto contenuto
tecnologico e con personale sia medico
che infermieristico addestrato e dedicato.
In questo ambito bisogna favorire la
collaborazione attiva tra chirurghi
plastici e anestesisti rianimatori e
contestualmente creare una formazione specialistica per il personale infermieristico, definendo i requisiti
tecnico strumentali e di personale necessari a far funzionare al meglio queste importantissime strutture.
5
CORSO ITINERANTE A.A.R.O.I.-S.I.A.R.E.D.
ECM anno 2007
I MODULI
MODULO 1
MODULO 2
MODULO 3
NUOVE POSSIBILITÀ DI ASSISTENZA
DELLA GRAVIDA DURANTE IL PARTO:
LA PARTO ANALGESIA QUALE POSSIBILE
REALTÀ OPERATIVA QUOTIDIANA
“SURVIVING SEPSIS CAMPAIGN”:
DAL RICONOSCIMENTO CLINICO
DELLA SEPSI AI SUOI POSSIBILI
ATTUALI TRATTAMENTI
UPDATE SULLE NUOVE POSSIBILITÀ
DI IMPIEGO DELLA VENTILAZIONE
ARTIFICIALE IN DIFFERENTI
CONTESTI PATOLOGICI
Adriana Paolicchi – Stefano Brauneis – Agostino Brizzi
Daniela Del Santo – Piero Filice – Pino Pasqua.
Massimo Girardis – Fabio Baratto – Marco Marietta
Antonio Pesenti – Giorgio Tulli – Abele Donati.
Carlo Capra – Antonella Manieri – Giuseppe A. Marraro
Tiziana Principi – Cristian Romani.
SEDI E REFERENTI REGIONALI
BARI (tutti i moduli)
KURSAAL SANTALUCIA (Sala Giuseppina)
Largo Adua – Bari
MILANO (modulo 3)
Aula Magna VILLA MARELLI
Viale Zara – Milano
MILANO (moduli 1 e 2)
Aula Magna A.O. NIGUARDA CÀ GRANDA
P.za Maggiore, 3 – Milano
CAMPANIA
NAPOLI (tutti i moduli)
HOTEL DELLE TERME DI AGNANO
Via Agnano Astroni, 24 – Napoli
SARDEGNA
ORISTANO (tutti i moduli)
HOTEL CARLO FELICE
Statale 131, Km 102 – Tramazza (OR)
FIRENZE (modulo 1)
HOTEL UNAWAY – Subito all’uscita del casello
di Firenze Nord della A1
FIRENZE (moduli 2 e 3)
HOTEL ALEXANDER
Viale Guidoni, 101 – Firenze.
VICENZA (tutti i moduli)
Centro Congressi VIEST HOTEL
Strada Pelosa, 241 (Uscita autostrada Vicenza
Est)
ALESSANDRIA (moduli 1 e 2)
Aula Magna LICEO SCIENTIFICO “G. GALILEI”
Spalto Borgoglio, 49 – Alessandria
GENOVA (modulo 3)
Aula Magna OSPEDALE SAN MARTINO
Largo Rosanna Benzi, 10 – Genova
EMILIA ROMAGNA
BOLOGNA (tutti i moduli)
Auditorium REGIONE EMILIA ROMAGNA
Via Aldo Moro, 18 – Bologna
Dott.ssa Teresa MATARAZZO
CALABRIA
LAMETIA TERME (tutti i moduli)
Sala Congressi GRAND HOTEL LAMETIA
Piazza Lametia – Lametia Terme
Dott. Guido MINUTO
SICILIA
PALERMO (tutti i moduli)
Sala Congressi ALBERGO ATHENEUM
Viale delle Scienze – Palermo
LAZIO – UMBRIA
TERNI (tutti i moduli)
Sala Conferenze A.O. “S. MARIA TERNI”
Via Tristano di Joannuccio, 1 – Terni
Dott. Luigi RINALDI
MARCHE – ABRUZZO – MOLISE
S. BENEDETTO DEL TRONTO (tutti i moduli)
Sala Convegni HOTEL CALABRESI
Lungomare C. Colombo (Isola Pedonale Rotonda)
San Benedetto del Tronto
Dott. Mario NARCISI
PUGLIA – BASILICATA
LOMBARDIA
TOSCANA
VENETO – FRIULI VENEZIA GIULIA
TRENTO – BOLZANO
PIEMONTE – LIGURIA
Dott. Marcello DI FONZO
Dott. Carlo CAPRA
Dott. Antonio TROIANO
Dott. Giovanni Maria PISANU
Dott. Paolo FONTANARI
Dott. Flavio MICHIELAN
Dott. Gian Maria BIANCHI
Dott. Emanuele SCARPUZZA
IL CALENDARIO
14 APRILE
19 MAGGIO
5 MAGGIO
9 GIUGNO
BARI
modulo 2
NAPOLI
modulo 1
ALESSANDRIA
modulo 1
PALERMO
modulo 1
FIRENZE
modulo 1
ORISTANO
modulo 2
BOLOGNA
modulo 2
TERNI
modulo 2
MILANO
modulo 3
VICENZA
modulo 3
LAMETIA TERME
modulo 3
S. BENEDETTO DEL T.
modulo 3
23 GIUGNO
29 SETTEMBRE
8 SETTEMBRE
13 OTTOBRE
BARI
modulo 3
NAPOLI
modulo 2
ALESSANDRIA
modulo 2
PALERMO
modulo 2
FIRENZE
modulo 2
ORISTANO
modulo 3
BOLOGNA
modulo 3
TERNI
modulo 3
MILANO
modulo 1
VICENZA
modulo 1
LAMETIA TERME
modulo 1
S. BENEDETTO DEL T.
modulo 1
27 OTTOBRE
24 NOVEMBRE
10 NOVEMBRE
15 DICEMBRE
BARI
modulo 1
NAPOLI
modulo 3
GENOVA
modulo 3
PALERMO
modulo 3
FIRENZE
modulo 3
ORISTANO
modulo 1
BOLOGNA
modulo 1
TERNI
modulo 1
MILANO
modulo 2
VICENZA
modulo 2
LAMETIA TERME
modulo 2
S. BENEDETTO DEL T.
modulo 2
Il corso è patrocinato dalla
FISM (Federazione delle Società Medico Scientifiche Italiane)
6
Continua dalla prima pagina
Negli ospedali italiani il parto sarà senza dolore
consapevolezza e di partecipazione all’evento.
La realizzazione di tale progetto richiede una
mobilitazione su vari piani. Quello che attualmente si fa è lasciato alla buona volontà delle
strutture ..., non esiste infatti, per questo tipo di
assistenza alcun incentivo di natura economica
né per le aziende ospedaliere né per gli anestesisti rianimatori. Le Unità Operative come numero di personale coprono le attività essenziali,
laddove sarebbe necessario, per realizzare una
analgesia 24 ore su 24, un servizio di anestesia
ostetrica a tempo pieno. Il diritto della partoriente di scegliere una anestesia efficace dovrebbe essere incluso tra quelli garantiti a titolo
gratuito nei livelli essenziali di assistenza.
Il documento del Comitato di bioetica sulla terapia del dolore si è maturato in un periodo in cui
le problematiche connesse al controllo del dolore, nel rispetto della dignità del paziente, hanno
trovato riscontro in varie iniziative anche di carattere normativo. Il decreto-legge 28 dicembre
1998, n. 450, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 1999, n. 39 ha introdotto nel
Ssn una nuova struttura, l’“hospice” e ha delineato le linee organizzative della rete assistenziale per le cure palliative, individuando tra i suoi obiettivi specifici: “Assicurare ai pazienti una
forma di assistenza finalizzata al controllo del
dolore e degli altri sintomi, improntata al rispetto della dignità, dei valori umani, spirituali e
sociali di ciascuno di essi e al sostegno psicologico e sociale del malato e dei suoi familiari”.
Il 24 maggio 2001, per migliorare l’organizzazione di processi assistenziali in funzione del controllo del dolore, lo Stato e le Regioni hanno stipulato l’accordo “Linee guida per la realizzazione
dell’Ospedale senza dolore”, definendo gli indirizzi che consentono la realizzazione, a livello regionale, di progetti indirizzati al miglioramento
del processo assistenziale specificamente rivolto
al controllo del dolore di qualsiasi origine.
In sintonia con quanto sopra riportato, il presente documento nasce dalla volontà di tutelare
la scelta della donna perché durante il travaglio e
il parto possa usufruire di un controllo efficace
del dolore mediante le più appropriate procedure analgesiche attualmente disponibili, nel massimo della sicurezza propria e del nascituro.
In particolare, il documento si muove nell’ottica
dei principi espressi a tale proposito nell’ambito
del Piano sanitario nazionale 2006-2008 (Dpr 7
aprile del 2006) e tiene conto di quanto previsto
nel disegno di legge recentemente presentato al
Parlamento “Norme per la tutela dei diritti della
partoriente, la promozione del parto fisiologico e
la salvaguardia della salute del neonato” che fa
riferimento tra l’altro al citato Psn.
In questo quadro è necessario soprattutto defi-
nire le modalità operative per praticare l’analgesia nel quadro di un articolato programma di assistenza alla gravidanza che si ritiene indispensabile. Per una migliore organizzazione, gestione e impiego delle risorse nell’ambito del progetto sulla gravidanza protetta è necessario individuare e condividere a livello nazionale e regionale, regole attraverso le quali le diverse professionalità operanti nel sistema si confrontino,
sulla base delle rispettive competenze.
Nell’ambito di questa visione complessiva sulla
tutela della gravidanza, il Ssn si fa promotore della diffusione e dell’utilizzo delle tecniche di procedure analgesiche durante il travaglio e il parto
per via vaginale nelle proprie strutture, definendo
il percorso assistenziale, le linee di responsabilità
e gli indicatori, per garantire quell’apertura culturale e sociale che è necessaria per affrontare una
gestione moderna del travaglio e del parto, per
rendere più umano il percorso stesso e, soprattutto, per aumentarne la sicurezza.
La mortalità e morbosità materna correlate al travaglio e/o al parto sono fenomeni sempre più rari
nei Paesi socialmente avanzati. Tuttavia, le indagini confidenziali e i comitati sulla mortalità materna istituiti in diversi Paesi europei rilevano un’incidenza del fenomeno maggiore di quanto le
notifiche volontarie riportano, e stimano che circa la metà delle morti materne rilevate potrebbe
essere evitata grazie a migliori standard assistenziali. Il tasso di mortalità materna rilevato in Italia
dall’Istat per il quinquennio 1998-2002 è pari a 3
x 100.000 nati, tuttavia da indagini regionali è
stato riscontrato un tasso di mortalità materna
per il triennio 96/98 di 13 morti materne su
100.000 nati, che è molto superiore al dato nazionale Istat ed è in linea con quello rilevato nella gran parte dei Paesi socialmente avanzati.
La partecipazione dell’anestesista rianimatore al
percorso nascita deve essere vista, quindi, non
solo come la possibilità di abolire il dolore, ma
come garanzia in caso di emergenza, così come
accade in tutte le altre specialità chirurgiche. La
gravidanza e il parto sono infatti eventi fisiologici
che possono talora complicarsi in modo non
prevedibile e con conseguenze gravi per la donna, per il nascituro e per il neonato.
L’effettuazione delle procedure anestesiologiche
comporta la presenza dell’anestesista-rianimatore nei dipartimenti materno-infantili, il quale
collabora/si integra con neonatologi e/o pediatri
oltre che con gli ostetrico-ginecologi e le ostetriche in tutte le strutture di ricovero a tale scopo
individuate. La presenza dell’anestesista è indispensabile in particolar modo nelle gravidanze e
nei parti a rischio e pertanto si rendono necessarie la stesura e l’applicazione di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi che prevedano, un co-
involgimento precoce dell’anestesista-rianimatore, la cui professionalità è comunque coinvolta nei parti cesarei; a questo proposito si ricorda
che i parti cesarei nel 2003 erano in Italia pari al
36,9% del totale dei parti e che l’eccessivo e
inappropriato ricorso a tale procedura sottrae
risorse qualificate che potrebbero essere destinate allo sviluppo delle tecniche di controllo del
dolore nel parto vaginale.
Perché il programma assistenziale alla gravidanza possa avere successo è necessario promuovere una forte interdisciplinarietà e la creazione di
meccanismi interni di “protezione” degli operatori coinvolti, che vanno garantiti da una scelta
coerente degli organi istituzionali che tengano
conto di obiettivi generali di promozione della
salute, di umanizzazione dell’assistenza, di contenimento del dolore, come più volte concordato
in vari documenti dallo Stato e dalle Regioni, e
non esclusivamente di obiettivi di contenimento
della spesa e incoraggino l’adozione di appropriate misure assistenziali e organizzative per
evitare o minimizzare l’insorgenza di eventi avversi nell’assistenza al parto e al post-partum in
modo da ridurre la mortalità e morbosità potenzialmente evitabile. Il presente documento definisce pertanto i criteri essenziali strategici, gestionali e organizzativi, per l’attivazione e l’organizzazione di un servizio di anestesia in ostetricia, nell’ambito delle più complessive misure
dirette a rendere più sicura l’assistenza al travaglio/parto, predisponendo un programma assistenziale condiviso che individui i percorsi omogenei e gli standard di sicurezza necessari per la
tutela delle partorienti e degli operatori.
L’interesse per il controllo del dolore durante il
travaglio e il parto vaginale si è molto esteso negli ultimi venti anni in tutto il mondo: si stima
che negli Stati Uniti vi faccia ricorso più della
metà delle donne che partoriscono. Sono state
sollevate alcune perplessità legate sia a ragioni
di ordine culturale, sia a supposti eventi avversi
legati alla dinamica del parto, al suo espletamento e/o all’outcome neonatale, tuttavia un
documento ufficiale recente (6 giugno 2006) da
parte di un qualificato organismo scientifico si
esprime nei seguenti termini. L’American College degli ostetrici/ginecologi riafferma l’opinione
già pubblicata congiuntamente con la Società
americana di anestesiologia nella quale è stata
espressa la seguente dichiarazione: “II travaglio
comporta notevole dolore per molte donne. Non
ci sono altri casi nei quali viene considerato accettabile che un individuo debba sopportare un
dolore severo, senza trattamento, quando è possibile invece intervenire in modo sicuro sotto
controllo medico. In assenza di una controindicazione medica la richiesta della madre è di per
sé una indicazione sufficiente per alleviare il dolore durante il travaglio”. L’American College riconosce che “sono disponibili molte tecniche di
analgesia nelle pazienti in travaglio. Nessuna di
queste tecniche è associata con un accresciuto
rischio di parto cesareo. La scelta della procedura, dei farmaci e dei dosaggi dipende da molti
fattori, tra i quali la preferenza della donna, le
condizioni mediche e le controindicazioni”.
2. Definizione tecnica delle procedure
L’analgesia per il travaglio e il parto vaginale può
essere ottenuta con tecniche farmacologiche;
esistono, tuttavia, altre tecniche di assistenza al
parto vaginale che comprendono la psicoprofilassi, il parto in acqua, l’agopuntura, l’ipnosi
ecc. Attualmente la letteratura corrente concorda nel ritenere che la tecnica più efficace per l’analgesia nel travaglio e nel parto sia quella ottenuta con l’anestesia locoregionale e più propriamente con i blocchi centrali eseguiti a livello
lombosacrale. Per blocco centrale si intendono
una serie di tecniche locoregionali che permettono la somministrazione di anestetici locali e
oppioidi in prossimità del midollo spinale (corna posteriori dove sono posizionati i neuroni che
trasmettono il dolore).
Le tecniche di uso comune sono attualmente: il
blocco peridurale (o epidurale), il blocco subaracnoideo (detto anche spinale) e il blocco combinato spino-peridurale.
n Blocco peridurale. La procedura si ottiene
con l’introduzione di un cateterino nello spazio peridurale (spazio ripieno di grasso e vasi
posto anteriormente alle meningi) attraverso
un ago (ago di Tuohy) posizionato precedentemente in detto spazio. A seconda del momento
del travaglio si introducono oppioidi, anestetici locali o miscela dei due che bloccano la trasmissione del dolore. La procedura deve essere eseguita da un anestesista-rianimatore. La
somministrazione dei farmaci può essere eseguita a boli refratti (top-up) con pompe in infusione continua o con pompe preimpostate e regolate nella somministrazione dalla partoriente, tramite un pulsante alla comparsa del dolore
(Patient Controlled Epi-dural Analgesia).
n Blocco subaracnoideo. Il blocco si ottiene
con l’introduzione di oppioidi e/o anestetici locali direttamente nel liquido cefalo-rachidiano
(Lcr), attraversando con un ago di piccole dimensioni (ago da spinale; ne esistono diverse
versioni) le due meningi che proteggono il midollo spinale, la dura madre e l’aracnoide. La
somministrazione in questo caso è unica e
non può essere ripetuta come per il blocco peridurale. In realtà esiste la possibilità di eseguire una cateterizzazione dello spazio subaracnoideo, ma attualmente la letteratura ha
ancora delle riserve per questa tecnica nella
sua attuazione in caso del travaglio di parto.
n Blocco combinato spino-peridurale (o
epiduro-spinale). La procedura è la combinazione delle due precedenti, cioè: repertamento dello spazio peridurale tramite ago di
Tuohy, introduzione dell’ago spinale attraverso detto ago e somministrazione della dose subarac-noidea, estrazione dell’ago spinale e introduzione del catetere peridurale attraverso
l’ago di Tuohy. Questa procedura permette i
vantaggi delle due precedenti senza aumentarne i rischi. Come tutte le tecniche invasive
queste procedure possono avere delle controindicazioni che ne impediscono l’attuazione e
dar luogo a complicanze.
3. Attuale ricorso alla procedura
Per quanto già da oltre quindici anni in alcuni
ospedali italiani sia stata introdotta la tecnica
dell’analgesia durante il travaglio e il parto vaginale, prima in via sperimentale, poi in modo routinario, non si dispone di dati sicuri sul suo effettivo utilizzo, dal momento che nei flussi informativi correnti spesso non viene registrato il ricorso a tecniche analgesiche in corso di travaglio
di parto. L’analisi delle Schede di dimissione
ospedaliera (Sdo) relative all’anno 2003 rileva
che la procedura “Iniezione di anestetico nel canale vertebrale per analgesia” risulta praticata
nel 12,4 per mille parti vaginali (4.141 su
332.759) e nel 3,6 per mille dei parti cesarei
(705 su 198.261 ). Il dato è certamente sottostimato ma conferma comunque le difficoltà di accedere a questo tipo di analgesia.
4. Obiettivo
Attraverso l’adozione dei necessari standard di sicurezza per l’unità materno-fetale e per il team
sanitario dedicato, successivamente indicato,
omogenei su tutto il territorio nazionale si intende garantire la possibilità di rispondere in maniera adeguata alla richiesta di controllo del dolore
durante il travaglio e il parto, mediante un percorso organizzativo e clinico che valuti il ricorso alla
procedura in termini di rischio/beneficio e che si
realizza attraverso le seguenti azioni.
5. Il modello organizzativo
n II responsabile della procedura clinica anestesiologica, per quanto riguarda le competenze
specifiche e per tutta la durata della stessa, è lo
specialista in anestesia e rianimazione dell’area materno-infantile. I responsabili della procedura clinica ostetrico-ginecologica per tutta
la durata del travaglio e del parto sono, in relazione alle proprie competenze, l’ostretico-ginecologo e l’ostetrica. Questi possono avvalersi, ove lo reputino necessario, della collaborazione di personale infermieristico specificatamente istruito nel monitoraggio della partoriente, comunque definito nell’ambito di procedure e protocolli specifici, elaborati secondo
Ebm, codificati, condivisi e validati. La richiesta di analgesia da parte della donna deve essere sempre validata dal parere favorevole del ginecologo ostetrico e dell’anestesista.
n Alle gestanti, per una scelta libera, consapevole
e responsabile, devono essere fomite informazioni adeguate e complete sulle metodiche di
analgesia e sulle tecniche di supporto, farmaco-
7
logico e non, per il controllo del dolore. Tali informazioni devono comprendere le relative indicazioni, i possibili benefici per la madre e per
il feto, le controindicazioni, nonché le eventuali
complicanze. Deve essere altresì fatto presente
che il ricorso a una analgesia farmacologica può
modificare l’andamento temporale della curva
di dilatazione/discesa della testa fetale, rispetto
a quello di riferimento attuale (curva di Friedman/Zhang) senza comunque alterare la dinamica del parto.
Dette informazioni, fornite dall’anestesista,
devono essere parte integrante dei corsi di accompagnamento alla nascita, organizzati dai
consultori familiari in collaborazione con le
équipes ospedaliere, finalizzati a garantire la
continuità assistenziale tra ospedale e territorio in aderenza a quanto previsto dal Progetto
obiettivo materno-infantile. In ogni caso, le gestanti che intendono usufruire di una procedura anestesiologica durante il travaglio e il
parto devono essere preventivamente sottoposte a visita specialistica preferibilmente durante l’ultimo mese di gravidanza, e/o prima, ove
sussistano patologie comprovate legate o no
alla gravidanza. Durante la visita deve essere
compilata una cartella con i dati anamnestici e
clinici della gestante e dopo adeguata informazione deve essere richiesto e sottoscritto il consenso all’effettuazione della procedura. Detta
cartella verrà integrata successivamente con i
dati relativi alla analgesia, durante la sua
effettuazione. In assenza di visita preventiva, la
cartella verrà compilata all’atto della richiesta
dell’analgesia e verranno valutati il rischio/beneficio e la possibilità di esecuzione.
Come complemento al colloquio informativo
della gestante è opportuno consegnare un
opuscolo che illustri le tecniche, le indicazioni, le controindicazioni e gli eventuali effetti
collaterali delle procedure analgesiche.
n Per l’esecuzione delle procedure devono essere elaborati protocolli clinici, organizzativi e
assistenziali a cura degli ostetrici-ginecologi,
degli anestesisti rianimatori e delle ostetriche
e del personale infermieristico ove presente. I
protocolli devono essere condivisi a livello
multidisciplinare, approvati dagli organi istituzionali, adeguati alle caratteristiche della
struttura, facilmente consultabili e periodicamente aggiornati, oltre che continuamente verificati per quanto riguarda la loro adozione e i
risultati ottenuti, secondo i principi di governo
clinico localmente adottati.
n È indispensabile un programma di formazione specifica aziendale che coinvolga anestesisti, ginecologi neonatologi/pediatri e ostetriche, le cui finalità devono essere:
! acquisizione di capacità clinico-diagnostiche
nell’ambito dell’Anestesia in ostetricia;
! prevenzione delle situazioni di rischio materno e neonatali tendenti a diminuire morbilità
e mortalità;
! miglioramento dell’organizzazione dipartimentale in funzione della costruzione di percorsi diagnostico-terapeutici che favoriscano
l’integrazione e la collaborazione multidisciplinare (governo clinico);
! lagestionedelrischioclinicoasalvaguardiaetu-
tela della sicurezza dei pazienti e del personale.
Detti programmi, da considerare propedeutici
all’attivazione del progetto, devono essere condotti nell’ambito dei programmi Ecm privilegiando, oltre a sistemi tradizionali, la formazione sul campo in centri specifici di riferimento,
moltiplicando esperienze multiprofessionali e
interdisciplinari, con la previsione di personale
esperto che, per fini didattici, presti per un periodo di tempo definito, la propria attività presso
l’ospedale dove opera il personale da formare.
Le strutture in cui sono già in attività servizi di
anestesia ostetrica, possono fungere da riferimento per le altre strutture per il training pratico specifico purché dimostrino il riscontro dei
criteri del modello organizzativo proposto e una
pregressa esperienza pluriennale nell’ambito
dell’applicazione delle tecniche e procedure
precedentemente menzionate.
Preferibilmente dovrebbero essere centri con oltre 2.500 parti/anno adeguati alla gestione di
tutte le patologie della gravidanza in cui le tecniche di controllo del dolore del parto siano presenti e applicate in misura maggiore o uguale al
35 per cento.
La formazione specifica di tutto il personale coinvolto: anestesisti rianimatori, ostetrici-ginecologi, ostetriche, neonatologi/pediatri, personale
sanitario non medico, deve essere codificata, attuata e verificata, soprattutto per quanto attiene
al riconoscimento degli effetti collaterali e delle
complicanze. È assolutamente indispensabile
evidenziare che l’anestesista, inserito nel percorso nascita e nel controllo del dolore da parto,
deve avere una formazione specifica nel settore
ostetrico e un alto livello di esperienza, per potere affrontare con equità e competenza le procedure del controllo del dolore da parto, secondo i
principi della medicina basata sull’evidenza
(Ebm) e della buona pratica clinica.
n L’elenco delle strutture che assicurano il controllo del dolore durante il travaglio e il parto
vaginale secondo i criteri descritti deve essere
disponibile a livello regionale e portato a conoscenza dei servizi per la maternità in particolare dei consultori; inoltre, nella Carta dei servizi
dei singoli ospedali deve essere specificato anche il tipo di analgesia fornito durante il travaglio e il parto vaginale.
n Deve essere attivato un registro regionale, aggiornato annualmente sulle procedure di controllo del dolore durante il travaglio e il parto
epidurale e le complicanze.
6. Attuazione del programma
nelle Regioni
Le Regioni, tenendo conto delle realtà locali e
dell’organizzazione in essere, provvederanno a
individuare le strutture di ricovero in cui attuare
le misure necessarie per assicurare il controllo
del dolore durante il travaglio e il parto vaginale
alle gestanti che hanno effettuato tale scelta,
senza vanificare l’equità di accesso alle prestazioni garantite dal Ssn per ragioni dipendenti
dalla collocazione geografica e dalle modalità di
funzionamento delle strutture di ricovero.
Nella definizione dei piani operativi, le Regioni
perseguiranno l’obiettivo di assicurare una risposta alla richiesta del controllo del dolore durante il travaglio e il parto in tutte le strutture di
ricovero con oltre 1.200 parti /anno mentre, ove
tali strutture non fossero presenti, si opererà in
modo che vi siano una o più strutture che possano assicurare una risposta adeguata.
Il servizio potrà essere realizzato solo ove sia
presente per 24 ore al giorno una équipe multidisciplinare competente che comprenda un
anestesista-rianimatore, l’ostetrico-ginecologo,
il neonatologo-pediatra, e l’ostetrica, pur tenendo conto che tale modello organizzativo deve essere contestualizzato rispetto al numero di parti
e di procedure richieste. In ogni caso si deve
prevedere la guardia attiva o la pronta disponibilità nelle 24 ore di un anestesista-rianimatore esclusivamente dedicato
alla sala parto.
Per il raggiungimento di tale obiettivo possono
rendersi necessario fasi di sperimentazione, tenuto conto che il servizio, a regime, deve essere
garantito 24 h al giorno con un anestesista dedicato, secondo una soluzione organizzativa contestualizzata al numero di parti e di procedure
richieste.
Si può quindi avviare gradualmente la realizzazione operativa del progetto utilizzando fasi sperimentali transitorie, attraverso la introduzione
di una pronta disponibilità dedicata che diventa
presenza attiva in caso di conduzione di travaglio
in analgesia.
Il programma potrà essere così attuato gradatamente nel tempo:
n I fase:
! nelle strutture dove ancora non è effettuata di
routine la procedura: avvio formativo del personale coinvolto;
! definizione dei protocolli e dei percorsi, organigramma e funzionigramma;
n II fase:
! completamento della formazione di tutto il
personale coinvolto;
n III fase:
! effettuazione routinaria della procedura secondo i criteri di inclusione definiti dai protocolli e dai percorsi.
7. Criticità
Appare del tutto evidente che per realizzare il programma è necessario un incremento di attività da
parte della figura del medico della disciplina anestesia e rianimazione che si traduce in un aumento del fabbisogno in ore di tali professionisti.
È altrettanto noto che nel Paese sussiste una
complessiva grave carenza di anestesisti-rianimatori all’interno del Ssn e che è altrettanto
scarso il numero di specialisti nella disciplina
che aspirano a entrare nel mondo del lavoro.
Per superare tale criticità è richiesta una particolare attenzione da parte dei soggetti che concorrono alla individuazione dei fabbisogni di personale specialistico (ministro della Salute e Regioni) e del ministro dell’Università e della ricerca
in sede di definizione del numero dei posti delle
scuole di specializzazione, incrementando adeguatamente quelli per anestesia e rianimazione.
In non poche realtà non tutte le figure professionali interessate al programma sono in grado di
affrontarne la operatività su un piano di interdisciplinarietà, anche per la carenza di una formazione specifica relativa all’argomento e per la
non ancora consolidata abitudine a operare
secondo i metodi e lo spirito del lavoro in team.
Manca un riconoscimento economico della procedura. L’inserimento della codifica 0391 “Iniezione di anestetico nel canale vertebrale per
analgesia”, associato al Drg del parto, dovrebbe
poter modificare il riconoscimento economico
del Drg 373, 374, 375. Inoltre l’inserimento di
tale codice permetterà di avere un indicatore di
risultato quantitativo sull’applicazione della metodica. Per quanto attiene alla visita anestesiologica ambulatoriale prenatale può essere utilizzata la codifica 89.7 e 89.03.
8. Indicatori di risultato
II riferimento esplicito al controllo del dolore
durante il travaglio e il parto vaginale come procedura compresa nell’ambito delle prestazioni
garantite dai Livelli essenziali di assistenza suggerisce la necessità che l’erogazione di questa
procedura possa essere sistematicamente misurata su tutto il territorio nazionale.
L’indicatore di riferimento è rappresentato dal
numero di parti vaginali con procedura di controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale rapportato al numero complessivo di parti effettuati in ciascun ambito territoriale.
Ai fini della misurazione sistematica a livello nazionale, lo strumento di raccolta delle informazioni è rappresentato dalla Scheda di dimissione
ospedaliera (Sdo). Per questo è indispensabile
che venga esplicitata la necessità di codificare
sempre nella Sdo l’esecuzione della procedura
di controllo del dolore durante il travaglio e il
parto vaginale, anche nei casi in cui questo sia
ininfluente ai fini della determinazione del Drg e
della valorizzazione economica del ricovero.
Ai fini della individuazione di soglie di accettabilità al di sotto delle quali si deve considerare che
la procedura non può considerarsi erogata (nel
senso di garantire che in ciascun ambito territoriale, opportunamente dimensionato, la procedura venga effettivamente erogata ad almeno
una certa percentuale delle donne che devono
partorire), è opportuno che venga messa a punto una metodologia per il monitoraggio, nel corso del tempo, della variabilità esistente nella risposta alla domanda di questa procedura, con
riferimento sia alla metodologia di analisi della
variabilità messa a punto nell’ambito della Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza, sia
agli standard individuati a livello internazionale.
È poi necessario che, a livello di singola struttura,
il sistema degli indicatori e la conseguente raccolta di dati specifici venga opportunamente ampliato ai fini delle valutazioni di qualità, efficacia e sicurezza e che gli ospedali alimentino il flusso informativo sugli eventi sentinella, predisposto dal
ministero della Salute. Gli indicatori che possono
inizialmente essere monitorati, sono:
n % di donne che ricevono il controllo del dolore
durante il travaglio e il parto vaginale sul totale
delle donne viste in ambulatorio, che hanno
chiesto di essere sottoposte alla procedura;
n % di complicanze legate alle tecniche usate sul
totale delle procedure eseguite;
n % di donne preventivamente visitate presso gli
ambulatori di anestesiologia sul totale delle
donne sottoposte a procedura.
La mozione della FISM
a difesa delle società scientifiche
L
a Federazione delle Società Medico Scientifiche Italiane (FISM) affiliate, riunite in Assemblea Straordinaria,
intende sottoporre all’attenzione del Ministro della Salute e della società civile, lo stato di profondo disagio in
cui versano le società stesse dopo la dichiarazione, da parte della
Consulta, di incostituzionalità del decreto 31.05.2004 che stabiliva i criteri per il riconoscimento delle società scientifiche ai fini
della formazione.
FISM richiede al Ministro della Salute, Senatrice Livia Turco,
all’Onorevole Ignazio Roberto Marino, Presidente della XII
Commissione Permanente (Igiene e Sanità) del Senato e all’Onorevole Lucà, Presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera, un’audizione per esporre le difficoltà che le società
scientifiche si trovano ad affrontare nella presente situazione.
Intanto invia una proposta contenente i requisiti per l’accredita-
mento, ritenuti fondamentali dalle Società Medico Scientifiche.
n FISM propone alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri (FNOM-CeO) la costituzione di un tavolo
permanente di lavoro per affrontare i seguenti temi:
– Formazione medica;
– Riconoscimento delle esigenze individuali di formazione e qualità;
– Ruolo delle Società Medico-Scientifiche a tutela della
formazione medica;
– Riconoscimento alle Società Medico-Scientifiche del ruolo di Provider nazionali di formazione.
n FISM dichiara di aver dato inizio alla realizzazione di un nuovo
codice deontologico della Federazione all’interno del quale
troveranno spazio istanze relative all’autoregolamentazione
delle attività congressuali, per ciò che concerne la valutazione
della qualità scientifica degli eventi e la compilazione dei budget
necessari alla realizzazione degli stessi.
n FISM propone alla FNOM-CeO, all’AIFA, a Farmindustria e ad
Assobiomedica la costituzione di un tavolo di lavoro permanente per identificare soluzioni condivise al problema del finanziamento degli eventi formativi e congressuali ed al problema della gestione dei potenziali conflitti d’interessi.
n FISM, recepite le proposte di moralizzazione e di riduzione del
numero degli eventi congressuali in partenza da Farmindustria
e ad Assobiomedica chiede alle due associazioni di ritirare le
delibere unilaterali con le quali è stato sospeso il finanziamento delle attività di formazione congressuali al fine di favorire un
clima di lavoro il più possibile sereno al tavolo di concertazione
di cui al punto precedente.
Milano, 31 gennaio 2007
8
U
na delle problematiche più controverse
in anestesia pediatrica riguarda la decisione di eseguire l’anestesia e l’intervento chirurgico nel bambino che presenta un’infezione delle vie respiratorie superiori
(URI). In passato, si riteneva che i bambini con
URI dovessero rinviare l’intervento fino alla
scomparsa dei sintomi dell’infezione. Il razionale per tale comportamento era basato su dati
empirici che suggerivano un’associazione tra l’esecuzione dell’anestesia e la comparsa di complicanze respiratorie. Anche se recenti dati clinici
confermano che alcuni bambini con URI presentano un rischio maggiore di complicanze
perioperatorie, queste possono, per la maggior
parte, essere riconosciute in anticipo e trattate.
Nonostante che il bambino con un URI rappresenti ancora una sfida, gli anestesisti si trovano in una condizione migliore per valutare e
gestire questi bambini, per cui il rinvio generalizzato dell’intervento era una pratica che riguardava il passato.
Tradizionalmente, nei bambini che si presentavano per la chirurgia d’elezione con un’infezione
delle vie aeree superiori, l’intervento era rinviato
fino alla completa scomparsa dei sintomi. Il razionale per questo comportamento era basato su
dati empirici relativi all’associazione tra la somministrazione dell’anestesia ad un bambino con
URI e la comparsa di complicanze respiratorie.
Dati scientifici più recenti, in sostanza, hanno
confermato queste osservazioni, anche se, per alcune popolazioni di chirurgia pediatriche, il rischio non sembra essere aumentato. Questi studi
inoltre hanno evidenziato che, nonostante un aumento nell’incidenza delle complicazioni respiratorie perioperatorie nei bambini con URI, la
maggior parte di queste è stata risolta con la comparsa di una minima morbilità.
Nonostante l’importanza di questo problema clinico, non c’è ancora consenso sulla gestione
anestesiologica dei bambini con URI che necessitano di chirurgia d’elezione. Anche se parecchi studi hanno affrontato quest’argomento, è
stato difficile ricavarne delle linee guida basate
sull’evidenza clinica in quanto gli studi differivano in modo importante nel disegno, nella definizione di URI e nei risultati.
Il dibattito relativo alla decisione di annullare o
procedere alla chirurgia d’elezione nel paziente
con URI non è nuovo. In un commento del 1955,
Ellis, mentre riconosce il rischio di complicanze,
prospetta una ragione per procedere alla chirurgia anche in presenza di un URI: “Sebbene l’anestesia non è una buona cura per il comune raffreddore, è corretto aspettare che il raffreddore
sia passato?„
Anche se pochi studi hanno affrontato il problema delle complicanze associate alle infezioni respiratorie, la prima indicazione ad annullare la
chirurgia nei bambini affetti da URI è venuta dopo
una serie di casi descritti da McGill ed altri nel
1979. Questo studio ha rilevato che 11 bambini
avevano sviluppato complicanze perioperatorie
importanti, compresa l’atelettasia. Di questi 11,
tutti tranne 1 avevano avuto un’infezione respiratoria nel mese precedente l’intervento.
Nel 1987, Tait e Knight hanno studiato 2 serie di
bambini che necessitavano di chirurgia d’elezione. Nel primo sono stati rivalutati in modo retrospettivo 3585 casi dalle cartelle cliniche. I risultati
non hanno evidenziato un rischio aumentato di
complicazioni nei bambini con URI, ma hanno
mostrato un aumento di 3,5 volte della frequenza
delle complicanze respiratorie in bambini con un
episodio recente URI (~2 settimana) rispetto ai
bambini del gruppo di controllo. Per la possibile
presenza di errori di selezione dei pazienti in questo studio, è stato eseguito uno studio successivo.
Questo comprendeva 489 bambini sottoposti ad
anestesia con alotano in maschera per intervento di miringotomia e posizionamento di
drenaggio timpanico. Questi bambini sono stati
divisi in tre gruppi (controllo, URI recente e URI
in atto) sulla base della presenza o assenza di
sintomi definiti in precedenza.
I risultati non hanno messo in evidenza differenze fra questi gruppi relative al rischio di laringospasmo, di broncospasmo, o di apnea perioperatoria. Gli autori concludono che l’annullamento generalizzato della chirurgia nei
bambini sottoposti a procedure brevi con l’anestesia con alotano senza intubazione della tra-
chea potrebbe essere inutile.
In apparente contrasto tra questi due studi, De
Soto con altri ha evidenziato che i bambini con
sintomi d’URI hanno avuto un aumento rilevante
del rischio di desaturazione arteriosa postoperatoria. Altri ricercatori successivamente hanno
confermato questa osservazione, anche se occorre rilevare che tutti i bambini in questi studi hanno risposto velocemente alla somministrazione
di ossigeno. In uno studio relativo a questo problema, Kinouchi con altri ha evidenziato che i
bambini con URI desaturavano più velocemente dei bambini senza infezione dopo un episodio di apnea. Altre complicazioni specifiche sono
state associate con la presenza di un URI, compreso il broncospasmo e il laringospasmo. In uno
studio longitudinale di Cohen e Cameron che ha
interessato più di 20.000 bambini, quelli con i
sintomi d’URI presentavano una probabilità di
manifestare complicanze respiratorie 2-7 volte
maggiori e 11 volte maggiori se erano intubati.
Anche se importante, questo studio presenta i limiti di una documentazione incompleta del tempo di comparsa e dei sintomi dell’URI.
Nonostante l’importanza di tutti questi studi nella
determinazione dell’outcome nei bambini con
URI, non sono stati individuati i fattori di rischio
che hanno determinato questi risultati. Tuttavia,
Parnis ed altri, in uno studio di 2.051 pazienti di
chirurgia pediatrica, ha identificato 8 indici clinici di complicanze anestesiologiche. Questi indici,
comprendevano la modalità di controllo della
ventilazione (tubo endotracheale, maschera laringea, maschera facciale) la dichiarazione dei
genitori che il bambino aveva avuto “un raffreddore”, una storia di russare, fumo passivo, anestetico d’induzione (tiopentone-alotano-sevoflurano-propofol), presenza d’espettorato, presenza
di congestione nasale, uso di un’anticolinesterasi
(blocco muscolare antagonizzato-non antagonizzato). La presenza di un’infezione respiratoria
inoltre è stata implicata come un fattore di rischio
per le complicazioni della via aerea in uno studio
di Bordet ed altri.
Come negli studi di Parnis, Tait con altri ha valutato l’incidenza ed i fattori di rischio per le patologie respiratorie in 1078 bambini sottoposti a diversi tipi d’interventi chirurgici. I risultati hanno
indicato che i bambini con URI attivo e recente
(nelle ultime 4 settimane) hanno avuto molti più
episodi di affezioni respiratorie generali, come ridotta ventilazione, desaturazione arteriosa dell’ossigeno (Spo2 ~90%) e tosse intensa rispetto
ai bambini senza URI. I fattori di rischio indipendenti per complicanze respiratorie in bambini con URI in fase attiva comprendevano l’uso di un tubo endotracheale (ETT) in un bambino di circa di 5 anni, la prematurità (circa 37
settimana), l’anamnesi positiva per facile irritabilità delle vie aeree, il fumo paterno, la chirurgia delle vie respiratorie, la presenza di secrezioni abbondanti e la presenza di congestione nasale.
Tutti gli studi eseguiti in precedenza descrivono i
bambini che, nonostante la presenza di un URI,
erano in buona salute. Per questi bambini, posporre la chirurgia ha scarso effetto sulla loro
condizione clinica o sul risultato. Tuttavia, ci sono molti bambini nei quali i benefici di una
chirurgia rapida possono superare i rischi potenziali connessi con l’URI. I bambini che necessitano di un intervento urgente o di chirurgia palliativa per malattia cardiaca congenita, per esempio, possono compromettere gli apparati cardio-polmonari che possono in aggiunta essere ulteriormente aggravati dall’URI. Tuttavia sono disponibili molto pochi dati sull’outcome dei bambini che si presentano per la chirurgia cardiaca in
presenza di un episodio di URI. In uno studio recente da Malviya con altri, la presenza di un URI è
risultata predittiva di infezioni batteriche postoperatorie e di diverse complicanze nei bambini
sottoposti a chirurgia cardiaca correttiva.
Tuttavia, la presenza di un URI non sembra interessare la durata totale della degenza dei pazienti in ospedale o lo sviluppo di complicanze
di lunga durata.
Nonostante il rischio aumentato di complicanze
respiratorie nei bambini con URI, sembra che la
morbosità residua sia molto scarsa. Effettivamente, in anestesia pediatrica e dell’adulto non ci sono casi di richiesta di risarcimento relativi a gravi
complicanze associate all’URI. Anche se sono de-
Anestesia nel bam
delle vie respira
scritti casi di atelettasie in bambini con URI, due
ampi studi con bambini affetti da URI hanno rivelato una morbosità minima. In uno di questi, 3
bambini su 1078 hanno avuto complicanze che
ne hanno richiesto il ritorno in ospedale per il ricovero. Due bambini con URI in atto sono stati
ammessi per polmonite dopo l’intervento ed un
bambino con anamnesi positiva per URI recente è
stato ricoverato per stridore laringeo. Tutti i bambini hanno recuperato senza complicanze.
Nonostante l’evidente rara morbosità, ci sono segnalazioni di morti in bambini con URI dopo l’intervento. In un case report una ragazza di 15 anni, con una storia di URI comparsa 2 settimane
prima dell’intervento ha manifestato laringospasmo dopo l’estubazione tracheale e successivamente un arresto cardiaco. Anche se nella causa
di morte è stata implicata l’URI, probabilmente
hanno contribuito parecchi altri fattori, compresa
l’estubazione tracheale prematura e l’insufficiente controllo. In un altro case report, un bambino
di 3 anni è morto dopo l’anestesia per cauterizzazione nasale. Il bambino aveva avuto una storia di
URI 2 settimane prima dell’intervento. L’autopsia
ha evidenziato la presenza di una miocardite virale. Fra i bambini ad alto rischio con URI sottoposti
a chirurgia cardiaca, Malviya con altri non ha rilevato un aumento della mortalità.
IPERREATTIVITÀ DELLA VIA AEREA
Tipicamente, i bambini vanno incontro a sei-otto
episodi d’URI l’anno e questo può essere ancor
più frequente fra bambini in giovane età che frequentano la scuola materna. Di queste infezioni,
circa 95% sono ad eziologia virale e determinate
da una grande varietà di virus. Circa il 30%–40%
delle URI sono causate da rinovirus; tuttavia, altri
virus, compreso il coronavirus, il virus respiratorio sinciziale e il virus parainfluenzale contribuiscono in modo significativo all’eziologia della malattia. La diagnosi differenziale di un URI è inoltre
difficile in quanto molte malattie sono caratterizzate da sintomi simili all’URI. Oltre al raffreddore
comune (nasofaringite), i pazienti possono presentare infezioni non diagnosticate compreso la
laringo-tracheo-bronchite, l’influenza, la bronchiolite, l’herpes simplex, la polmonite, l’epiglottide e la faringite da streptococco. Inoltre, i pazienti possono presentare sintomi di un URI ad
eziologia non infettiva, come rinite allergica o vasomotoria. Anche se la maggior parte delle URI virali sono autolimitate, possono determinare un’iperreattività della via aerea che persiste per parecchie settimane dopo l’infezione. Parecchi studi hanno dimostrato diminuzioni significative
della conduttanza della via aerea in volontari con
URI se esposti all’aria fredda, all’istamina, o all’aerosol con acido citrico. Si è visto che questi effetti
persistono fino a 6 settimane dopo l’URI e così
possono avere implicazioni importanti per i bambini che necessitano di anestesia nella fase acuta
o di convalescenza, soprattutto se è necessaria
l’intubazione tracheale.
L’invasione virale della mucosa respiratoria può
rendere le vie aeree sensibili alle secrezioni o ai
gas anestetici potenzialmente irritanti. Inoltre vi è
una crescente evidenza che i mediatori chimici
ed i riflessi nervosi svolgono un ruolo importante
nell’eziologia della broncocostrizione. Per esempio, il rilascio dei mediatori dell’infiammazione,
come la bradichinina, le prostaglandine, l’istamina e l’interleukina sui tessuti interessati dall’infezione virale, è stato correlato alla broncocostrizione. Alcuni studi hanno evidenziato che l’iperreattività bronchiale da infezioni virali può essere
mediata da vie nervose.
Si è visto ad esempio che l‘atropina è in grado di
bloccare l’iperreattività vagale e questo indica
una componente vagale nella risposta. Normalmente, lo stimolo dei ricettori muscarinici (M2)
sulle terminazioni nervose vagali inibisce il rilascio di acetilcolina; tuttavia, nell’individuo infettato, si pensa che questi recettori possano essere
inibiti dalle neuraminidasi virali, con conseguente aumento nel rilascio dell’acetilcolina e broncocostrizione. Sono stati ipotizzati altri meccanismi
di induzione virale dell’iperreattività della via aerea. Per esempio, alcuni studi suggeriscono che
le infezioni virali aumentano la risposta del muscolo liscio della via aerea alle tachikinine.
Le tachikinine sono un gruppo dei neuropeptidi
che risiedono nelle fibre afferenti vagali C delle vie
aeree e sono importanti nella contrazione del
muscolo liscio. In circostanze normali, le tachikinine sono inattivate dall’endopeptidasi; tuttavia,
si pensa che durante le infezioni virali, l’attività di
quest’enzima sia inibita per questo la risposta costrittrice del muscolo liscio alle tachikinine è aumentata.
Anche se per definizione l’URI implica un’infezione limitata alle vie aeree superiori, parecchi
studi hanno indicato che URI può anche determinare alterazioni della funzione polmonare.
In uno studio di Collier con altri, i bambini con
URI hanno evidenziato modificazioni spirometriche, compresa una riduzione della capacità
vitale forzata del volume espiratorio massimo
in 1 secondo, e del picco di flusso espiratorio.
Cate con altri ha visto che in volontari infettati con
rinovirus vi era una rilevante riduzione della capacità di diffusione. Ancora, Dueck con altri, ha
trovato che nelle pecore le modificazioni polmonari connesse con l’anestesia (per esempio, riduzione della capacità funzionale residua ed aumento degli shunt intrapolmonari), aumentano
durante l’infezione parainfluenzale.
VALUTAZIONE PREOPERATORIA
Un algoritmo suggerito per la valutazione e il trattamento del bambino con un URI è riportato nella
figura 1. Se il bambino richiede un intervento
d’emergenza, la presenza di un URI dovrebbe
se possibile essere evidenziata, perché questa
conoscenza allerta l’anestesista sulle possibili
complicanze e può consentire di modificare il
trattamento anestesiologico per ridurre al minimo il rischio. I bambini che si presentano per
interventi d’elezione con i sintomi di un URI richiedono un’attenta valutazione preoperatoria, con anamnesi e visita dettagliata. I polmoni dovrebbero essere auscultati per escludere
eventuali interessamenti delle basse vie aeree e
dovrebbe essere eseguita una radiografia del torace se la valutazione clinica lascia dei dubbi.
Dovrebbe essere rilevata l’eventuale presenza
di febbre, dispnea, tosse produttiva, produzione d’espettorato, congestione nasale, sonnolenza e difficoltà respiratoria. In due ampi studi
prospettici, la congestione nasale, la produzione
dell’espettorato e un’anamnesi positiva per malattia infiammatoria della vie aeree sono stati
identificati come fattori predittivi delle complicanze respiratorie. Informazioni importanti relative alla modalità di comparsa dei sintomi
possono essere apprese dai genitori, in quanto
di solito seguono con attenzione lo stato di salute del loro bambino e possono essere d’aiuto
nella distinzione di una condizione infettiva o
non infettiva. In uno studio di Schreiner con altri, si è visto che la conferma da parte di un ge-
9
bino con infezione
atorie superiori.
Figura 1
nitore di un URI ha una capacità predittiva per
laringospasmo migliore rispetto ai soli rilievi
clinici. Nei bambini con cardiopatie congenite, la
diagnosi di un URI può essere ulteriormente difficile in quanto i sintomi dell’URI possono essere
confusi con quelli di insufficienza cardiaca congestizia.
Generalmente, i bambini che si presentano con
sintomi di un URI non complicata, senza febbre, senza secrezioni e al contrario apparentemente in buona salute, o quelli ad eziologia
non infettiva, dovrebbero poter essere sottoposti all’intervento. Rolf e Cote´ suggeriscono che
“il bambino con un URI lieve può essere
anestetizzato con sicurezza, poiché eventuali problemi generalmente si trattano
facilmente e senza conseguenze di lunga
durata. “I bambini con sintomi più gravi,
secrezioni muco-purulente, tosse produttiva, febbre -38°C, sonnolenza, o segni di
interessamento polmonare devono rinviare gli interventi d’elezione di almeno
4 settimane. Analogamente, se si sospetta
un’infezione batterica, i pazienti dovrebbero essere sottoposti a terapia antibiotica ed il loro intervento dovrebbe essere
rinviato di 4 settimane”.
Anche se è relativamente facile decidere di rinviare
o eseguire l’intervento nei bambini in buona salute
con pochi sintomi o chiaramente ammalati, la decisione diventa più difficile per i bambini che, per
esempio, si presentano con alcuni sintomi quali
congestione nasale e una tosse non produttiva modesta per un intervento che richiede l’uso dell’intubazione tracheale.
L’analisi dei tamponi rino-faringei o dell’aspirato per l’isolamento virale non è pratica e può
essere scarsamente sensibile in relazione alle
modalità di campionamento e alla fase dell’infezione. La conta dei globuli come indice d’infezione ha un’utilità limitata, in quanto i pazienti con URI non sempre presentano un aumento dei globuli bianchi. La radiografia del
torace è inoltre di scarsa utilità per i bambini
con URI tranne che in circostanze particolari
(per esempio, chirurgia cardiaca). Inoltre, nei
bambini con infezioni delle basse vie aeree le
modificazioni nella radiografia del torace
compaiono di norma con ritardo rispetto alla
comparsa dei sintomi clinici.
Nel valutare l’idoneità alla chirurgia dei bambini con un URI, è importante valutare il rapporto rischio/beneficio. Ciò dovrebbe interessare
i sintomi presenti e l’età del bambino, l’urgenza
chirurgica, la presenza di comorbilità (per esempio, asma o cardiopatie) ed il tipo di chirurgia. Un
altro elemento da considerare è la frequenza di
episodi di URI. Nel caso del bambino che manifesta da sei a otto episodi di URI l’anno, può essere difficile individuare con precisione un periodo in cui il bambino è senza sintomi per un
intervento d’elezione. La decisione di annullare o eseguire l’intervento nei bambini con URI
dovrebbe essere presa caso per caso sulla base
della presenza di precisi fattori di rischio e considerando i consigli dell’anestesista e la sua
esperienza con i bambini con URI sottoposti ad
anestesia. La consapevolezza dei fattori di rischio
e di possibili complicazioni in questi bambini è di
importanza fondamentale per un trattamento ottimale e per rispondere in modo adeguato qualora compaiono.
ANNULLAMENTO DELL’INTERVENTO
NEL BAMBINO CON URI
Come accennato in precedenza, il rinvio dell’intervento per un URI una volta era molto frequente. Anche se l’annullamento generalizzato dell’intervento per un URI evita la possibilità di
complicanze, tuttavia comporta preoccupazione e un peso economico per i genitori. Inoltre,
l’annullamento generalizzato non può sempre
essere praticato nella sanità moderna per l’elevato numero di pazienti e la tendenza per una
chirurgia rapida. Effettivamente, una indagine
nazionale suggerisce che gli anestesisti oggi
sembrano meno inclini ad annullare la chirurgia a causa di un URI. In questa indagine,
40,4% dei anestesisti con ~10 anni di pratica
hanno indicato di annullare “raramente„
(1-25% dei casi) l’intervento per un URI, rispetto al 27,2% degli anestesisti con più di 10 anni
di esperienza.
La decisione di quanto tempo rinviare l’intervento richiede un equilibrio fra la necessità di procedere all’intervento, il tempo richiesto per la risoluzione dei sintomi e la riduzione del rischio.
Purtroppo, non c’è consenso sul tempo ottimale
d’attesa prima della riprogrammazione dell’intervento. In un’indagine tra gli anestesisti, la
maggior parte attende 3-4 settimane prima di
procedere all’intervento.
Il razionale per questo tempo d’attesa è fondato
sull’osservazione che l’iperreattività della via aerea persiste per parecchie settimane dopo un
URI. Effettivamente, alcuni studi suggeriscono
che i pazienti che recuperano da un URI hanno
un rischio simile o aumentato di complicazioni
rispetto a coloro che presentano un quadro
acuto. Skolnick ed altri hanno dimostrato che il
rischio di complicazioni respiratorie era più grande nei 3 giorni dopo un URI e rimaneva aumentato fino a 6 settimane dopo. Tait con altri ha trovato che il rischio resta aumentato per 4 settimane
dopo un URI. Anche se questi dati indicano che è
prudente il rinvio dell’anestesia e dell’intervento
per 4 settimane, Berry suggerisce che un rinvio
di 1-2 settimane può essere adeguato per tutti i
bambini con una nasofaringite semplice.
TRATTAMENTO ANESTESIOLOGICO
Il trattamento del bambino con un URI ha lo scopo di minimizzare le secrezioni ed evitare la stimolazione delle vie aeree potenzialmente sensibili. Poiché l’espettorato e le secrezioni abbondanti sono stati identificati come fattori di rischio,
è importante aspirare le vie aeree (in anestesia
profonda) per rimuovere le eccessive secrezioni.
Ciò non solo riduce l’irritazione delle vie aeree
ma può essere anche importante nel prevenire
che un tappo di muco ostruisca un bronco o il tubo endotracheale.
Poiché le infezioni virali modificano la quantità e la qualità delle secrezioni, è importante accertarsi che il paziente sia idratato adeguatamente. L’idratazione endovenosa dovrebbe essere messa in atto in tutti i pazienti sempre che l’intervento non sia molto corto. L’umidificazione
può anche essere importante in bambini con
URI, specialmente per gli interventi lunghi.
Anche se non ci sono dati con studi controllati a
sostegno dell’efficacia di questa pratica in bambini con URI, l’umidificazione può contribuire a
minimizzare l’essiccamento e l’addensamento
delle secrezioni determinate dagli anestetici e
dai gas di trasporto e mantenere integro il meccanismo ciliare. In uno studio, il 35,2% degli
anestesisti ha affermato di usare l’umidificazione
spesso per i bambini con URI. L’uso degli anticolinergici come glicopirrolato o atropina può essere utile nella riduzione delle secrezioni e nell’attenuazione dell’iperreattività mediata dal vago.
Un terzo degli anestesisti ha affermato di far uso
frequentemente di anticolinergici, tuttavia la dimostrazione dei benefici degli anticolinergici sull’outcome perioperatorio nei bambini con URI,
richiede nuovi studi. E’ stato ipotizzato che la premedicazione con broncodilatatori può ridurre le
complicanze respiratorie mediate dal sistema neurovegetativo. Tuttavia, in uno studio, Elwood con
altri rileva che la premedicazione con albuterolo
o ipratropio non ha avuto alcun effetto sulle complicanze respiratorie correlate all’URI. Recentemente, tuttavia, Silvanus con altri ha evidenziato
che nei pazienti adulti con iperreattività bronchiale, il trattamento pre-operatorio con i corticosteroidi associati al salbutamolo minimizza
la broncostrizione evocata dall’intubazione in
modo più efficace dell’inalazione del salbutamolo da solo.
L’uso di un’intubazione endotracheale dovrebbe, se possibile, essere evitata, perché il suo uso,
specialmente nei bambini più piccoli, aumenta
significativamente il rischio di complicazioni
della via aerea. Anche se l’uso della maschera
facciale comporta una minore incidenza di complicanze, in alcuni casi non è adeguata. Per esempio, un tubo endotracheale è probabilmente il
presidio di scelta per il controllo delle vie aeree
nella chirurgia dell’orofaringe e del collo, della
chirurgia maggiore toracica e addominale e della
chirurgia che dura più di 2 ore. Tuttavia si è visto
che la maschera laringea (LMA), rappresenta
un’alternativa sicura per alcuni interventi in
cui può essere utilizzata l’intubazione tracheale. Uno studio ha evidenziato che la LMA è associata ad un minor numero di episodi di complicanze respiratorie, compreso il broncospasmo e
la desaturazione arteriosa dell’ossigeno. In un altro studio, Tartari evidenzia che l’uso della LMA è
associato ad un’incidenza significativamente ridotta di complicanze post-operatorie. Comunque, tutti i pazienti dovrebbero essere controllati
in continuo con la pusoossimetria, specialmente
durante il posizionamento e la rimozione di un
tubo endotracheale e nell’immediato periodo postoperatorio.
La scelta degli anestetici per induzione e il mantenimento è importante nei bambini con URI. Nel
passato, l’alotano è stato considerato l’anestetico
volatile di scelta in questi bambini; tuttavia, oggi in
molti ospedali l’alotano è stato sostituito in gran
parte dal sevoflurano, specialmente per induzione.
Rieger con altri indica che l’incidenza delle complicazioni nei bambini con URI lieve è simile fra sevoflurano e alotano, ma il sevoflurano ha evidenziato una cinetica di recupero più rapida. Altri studi, tuttavia, suggeriscono che il sevoflurano determina un numero minore di complicanaze rispetto
all’alotano, soprattutto se il sevoflurano è usato sia
per l’induzione che per il mantenimento.
Indipendentemente dal farmaco d’induzione
usato, è d’importanza fondamentale che la profondità dell’anestesia sia sufficiente per deprimere i riflessi delle vie aeree, specialmente quando è
introdotto il tubo endotracheale. La profondità
ottimale dell’anestesia cui l’estubazione tracheale dovrebbe avvenire è meno chiara. Anche
se alcuni clinici preferiscono estubare sotto
anestesia profonda per evitare i riflessi di broncocostrizione riflessa delle vie aeree, altri preferiscono estubare quando il paziente è sveglio,
credendo che un paziente con i riflessi intatti sia
più in grado di eliminare le secrezioni e rispondere alla stimolazione tattile della rimozione del tubo endotracheale. Nei bambini senza URI, i dati
sull’estubazione da sveglio rispetto ad un’estubazione in anestesia profonda non sono univoci. In
uno studio, Patel con altri non ha trovato differenza nelle complicanze al risveglio con l’estubazione dopo un completo risveglio rispetto all’estubazione in anestesia profonda, mentre Pounder con
altri ha evidenziato che l’estubazione da svegli ha
comportato un rischio di desaturazione arteriosa
aumentato. Kitching con altri ha rilevato che la rimozione da sveglio della LMA determina una
maggiore incidenza di tosse. Pappas con altri ha
visto che le complicanze delle vie aeree non erano
diverse dopo rimozione dell’LMA da svegli con l’anestesia con sevoflurano, ma erano maggiori
usando l’isoflurano. Anche se non ci sono studi
randomizzati relativi a questo problema nei
bambini con URI, uno studio osservazionale ha
mostrato che non vi era alcuna differenza nell’incidenza di complicanze fra i bambini con
URI estubati sotto l’anestesia profonda rispetto
a quelli svegli.
ORIENTAMENTI FUTURI
Tradizionalmente, la risposta alle complicanze
dell’URI è stata di tipo reattivo; cioè, identificato
un problema, si esegue un’azione correttiva. Tuttavia poiché abbiamo una migliore comprensione dei rischi connessi con l’anestesia nel bambino con un URI e dei meccanismi di induzione virale dell‘iperreattività della via aerea, può essere
possibile una prevenzione per minimizzazione i
rischi. Anche se gli anticolinergici attualmente disponibili possono avere un valido aiuto per i bambini con URI, essi non sono selettivi riguardo al
loro effetto sui ricettori muscarinici (M2 e M3) responsabili della reattività della via aerea. Jacoby e
Hirshman hanno dimostrato la possibilità di preparare farmaci anticolinergici che bloccano selettivamente i recettori M3 della muscolatura liscia
della via aerea che causano broncocostrizione
senza bloccare i recettori vagali M2 responsabili
dell’inibizione dell’acetilcolina. Altri sviluppi promettenti comprendono l’uso delle endopeptidasi
neutre umane ricombinanti per sostituire quelle
naturali perse durante l’infezione virale.
10
Consenso informato
Secondo la Cassazione il paziente deve conoscere anche il grado di efficienza della struttura
N
on basta informare il paziente dei rischi “tecnici”
dell’intervento che si appresta a subire. Occorre anche che il malato conosca adeguatamente lo stato di
efficienza e le dotazioni della struttura in cui è ricoverato. A fare il punto sull’ampio ventaglio dei doveri di informazione del medico è la terza sezione civile della Corte di cassazione
(sentenza n. 14638/2004), respingendo la richiesta di risarcimento di un paziente.
L’uomo aveva riportato un deficit fonetico, in seguito all’intubazione effettuata dagli anestesisti per un’operazione di protesi all’anca. A suo avviso, i medici erano responsabili del danno, per
mancanza di consenso informato sui rischi legati all’anestesia.
Poiché la questione verteva sulla violazione delle regole di informazione e non sulla diretta responsabilità professionale del camice bianco, i supremi giudici hanno potuto soffermarsi sul tema
delicato del consenso informato. Precisandone i limiti e l’estensione, già oggetto in passato di numerose pronunce, in una sorta
di vero e proprio decalogo.
Nella prima parte della sentenza, la Corte ricorda doveri noti (si
veda la sentenza n. 364 del 15 gennaio 1997): il dottore ha l’obbligo di informare il paziente dei problemi tecnici legati all’operazione, dalla natura dell’intervento ai possibili rischi, dalla portata dei
risultati alle probabilità di successo.
Ma il sanitario, precisa la Corte, non è tenuto ad informare il malato degli esiti anomali dell’intervento, degli “incidenti” al limite
del fortuito. Devono infatti essere contemperate l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che l’assistito rifiuti di sottoporsi all’intervento.
Se l’operazione è particolarmente complessa, l’obbligo di informazione si estende ai rischi specifici rispetto a determinate scelte
alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa orientarsi verso l’una o l’altra delle opzioni
possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e
dei corrispondenti vantaggi. Se l’intervento si compone di più fasi,
dotate di autonomia gestionale, il malato va inoltre informato dei
rischi specifici legati ai diversi momenti.
Non solo. I supremi giudici ribadiscono quanto già affermato nel
2000 (si veda la sentenza n. 6318 del 16 maggio 2000): il paziente, oltre ai pericoli connessi all’intervento, deve conoscere adeguatamente lo stato della struttura in cui è ricoverato. Il medico,
in altre parole, deve informarlo delle dotazioni e delle attrezzature
dell’ospedale in cui opera e del suo livello di efficienza. La ratio è
chiara: la consapevolezza di eventuali carenze mette il malato in
condizione di rivolgersi ad una struttura sanitaria più attrezzata.
H2O di sorgente
Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio ...
Nel salmo 42 intitolato “Lamento del levita esiliato” la traduzione non può rendere la bellezza del
testo: in ebraico c’è una parola – nefesh – che vuol dire contemporaneamente “anima” e “gola”.
Aver sete con la gola oppure con l’anima è una
cosa che agli umani capita diverse volte.
E si anela all’acqua pura, all’acqua di sorgente.
Che è sì chimicamente acca-due-o, ma non è
l’acqua distillata. È fresca, è buona, va giù leggera e dissetante.
L’acqua. Quando arriva nelle nostre case è stata
filtrata, potabilizzata, incanalata e trasportata ai
rubinetti da tanti acquedotti.
Oggi, però – chissà perché – la stragrande maggioranza degli italiani non beve l’acqua del rubinetto. Beve l’acqua “minerale”. Le “danno a bere” e “si beve” le acque minerali. Come si fa a
non berle?
Si chiamano vera, panna, levissima, oppure
hanno nomi di santi, Sant’anna, Sanpellegrino,
Sanbernardo, Sanbenedetto (proprio il Santo
patrono d’Europa).
La pubblicità le ha fatte diventare più salutificanti dei medicinali: è detto tutto.
Queste cosiddette “acque della salute” sono tutte “imbottigliate”.
E noi? Noi medici, intendo dire.
A vent’anni eravamo freschi e puri come l’acqua
di sorgente.
La scelta di fare il medico. Scelta. In latino electio. Elezione. Eravamo dunque degli “eletti”.
Eravamo stati chiamati. Vocati. Vocazione? Sì,
vocazione.
Chiamati a un compito importante. Oggi la chiamano “mission”. Sì, missione.
Vocazione? Missione? Ma che, scherziamo?
Il “Medico” è un operatore sanitario, un professionista iscritto ad un Ordine, dipendente di un
Servizio Sanitario che è Nazionale. È uno specialista filtrato, poi “potabilizzato” con un concorso, incanalato in una struttura operativa (SOS
semplice o SOC complessa? – c’è da farsi venire
un complesso) e trasportato ai rubinetti della
Sanità pubblica che “eroga” (proprio come la
Società dell’Acqua e Gas) assistenza sanitaria e
farmaceutica.
Ma ... siamo dissetanti?
Forse, se veniamo imbottigliati come l’acqua
minerale, andrà meglio?
E allora ci vestiamo con una bella etichetta (un
camice o una divisa verde o azzurra), diventiamo minerali (senza cuore e senza cervello) naturali o, meglio, gassati (meglio sempre essere
un pò gasati).
E chi è che ci imbottiglia?
Provate a leggere sull’etichetta di ogni buona acqua minerale.
Chi ha fatto l’analisi chimico-fisica delle sostanze
disciolte e ha rilasciato il diploma? L’Università.
È l’Università che dice quanto sale abbiamo (in
zucca?), quanto – in gradi francesi – sia la nostra “durezza”, quanto sia il nostro “residuo”
(di vocazione?) e quanta la nostra “purezza” (se
ne è rimasta dopo oltre sei anni).
Se dopo il controllo all’origine (della nostra vita
professionale) è rimasta una sola particella di
sale di sodio (quella che dice “C’è nessuno?”),
allora siamo i migliori.
E poi c’è il vero e proprio “imbottigliamento”.
Una volta si riusciva ad arrivare molto presto al
posto di lavoro.
Oggi c’è l’imbottigliamento del numero chiuso,
della specialità, del blocco delle assunzioni. Per
fortuna sono saltati fuori i “canali” della grande
distribuzione (di incarichi e di contratti a termine, di convenzioni, di cooperative) e tutte le
Aziende Pubbliche “fanno acqua” da ogni parte.
E le ”chiare fresche e dolci acque” (Petrarca,
memorie del liceo) della nostra scelta-vocazione
effervescente naturale?
Purtroppo, la nostra “ansia di aiutare l’umanità
sofferente” non sgorga più come un tempo. Siamo acqua stagnante. Acqua bollita e ribollita.
Oppure acqua bi-distillata, per la lavatrice o il
ferro da stiro. Senza calcare. Nel senso di senza
calcare (verbo) le orme dei nostri padri fondatori. Ippocrate, Galeno e tutti gli altri.
Opus divinum est sedare dolorem.
Noi Anestesisti, da tanto tempo, ci occupiamo di
terapia del dolore (molti tipi di dolore), di cure
intensive, di cure palliative.
È una disciplina che affronta molto da vicino il
discorso della sofferenza e della morte.
Primum non nocere. Futilità e invasività di tante
procedure ...
Dovremmo essere acqua frizzante, con tante
bollicine, che placa la sete di chi ha la gola secca
e non ha più voce. Potremmo ridare voce a chi
non ne ha e non può – quindi – esprimere la
sua volontà (perché è anestetizzato, o in coma, o
sotto sedazione, o con la tracheotomia, o con la
depressione e il “dolore totale” del neoplastico
in fase avanzata).
Non è questione di “attaccare” o “staccare” la
spina. Di fare o di non fare la morfina.
E allora?
I Have a dream. Martin Luther King sognerebbe
un mondo con dei Medici preparati professionalmente ed eticamente a fare il loro lavoro. E
anche a “sentire” insieme con l’essere che stanno curando (cum patire, en pathos).
E se pensiamo ad un nostro simile in difficoltà
estrema, che si sta affidando a noi, forse che un
gran giurì, o una commissione di esperti, o uno
specialista (come per l’IVG) sono in grado di dire
che cosa sia lecito fare?
Noi Medici dovremmo sentire il dovere di essere
dei protagonisti, attenti e generosi di gesti e di parole chiare, fresche e dolci ... Dei creatori di messaggi forti, non dei corrieri anonimi e indifferenti.
“Venne data la possibilità di scegliere fra diventare re o corrieri del re. Come bambini,
vollero tutti essere corrieri. Per questo ci sono
soltanto corrieri, scorrazzano per il mondo e,
poiché di re non ce ne sono, gridano i messaggi ormai privi di senso l’uno all’altro”. (Franz
Kafka – “Aforismi di Zürau”).
Gian Maria Bianchi
11
Le cure palliative in Italia
L
a medicina palliativa è nata per rispondere ai bisogni delle persone affette da tumori in fase avanzata, in
particolare per il controllo del dolore.
La sopravvivenza dei pazienti oncologici si è nettamente prolungata negli ultimi anni grazie alla
maggiore precocità della diagnosi ed ai nuovi
mezzi terapeutici. Tuttavia, quando la malattia
progredisce e diviene inguaribile gli obiettivi dell’assistenza diventano quelli di migliorare la qualità della vita e di accompagnare il paziente ad una
morte dignitosa. La qualità della vita è un concetto soggettivo, ragione per cui in questa fase della
malattia il vero protagonista deve essere il malato
e la sua volontà deve essere rispettata prima di
quella di chiunque altro, familiari compresi.
L’attività terapeutica palliativa è volta alla cura
dei sintomi (dolore, nausea, vomito, stipsi) e
contemporaneamente il malato deve ricevere
ogni attenzione che possa rendergli più sopportabile la propria condizione: conservazione, per
quanto possibile, dell’autonomia fisica, del proprio ruolo familiare e sociale, delle proprie abitudini alimentari, fino al rispetto del silenzio o
dell’isolamento, se richiesti dal malato stesso.
Le cure palliative hanno avuto una definizione ufficiale nel 1987 in Inghilterra quando ne è iniziata
la specializzazione universitaria: “Medicina palliativa è lo studio e la gestione dei pazienti con
malattia avanzata, in progressione e a prognosi limitata. L’assistenza è focalizzata essenzialmente
al miglioramento della qualità di vita”.
Nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità
ha così definito le cure palliative “L’assistenza
globale attiva ai pazienti affetti da malattia non
guaribile. L’obiettivo fondamentale è il controllo
del dolore, dei sintomi e dei problemi psicologici, spirituali e sociali”.
Ci sono malati inguaribili, ma non esistono malati
incurabili. I malati terminali hanno diritto a cure e
attenzioni come e più di altri pazienti, nel tentativo
di rendere meno doloroso possibile il loro ultimo
tratto di vita. Le cure palliative costituiscono così un
campo in cui la medicina moderna può manifestare la sua vocazione profonda nel prendersi cura e
nel farsi carico in senso globale (fisico, psicologico
ed esistenziale) dei sofferenti”.
I trattamenti palliativi possono essere erogati
con varie modalità: a domicilio, in ospedale oppure in strutture residenziali specificatamente
ideate e organizzate per favorire l’attenzione al
morente denominate “hospice”.
Si può ricercare l’origine degli hospitia che, lungo le vie delle crociate e dei pellegrinaggi ai santuari della cristianità fornivano accoglienza per
poveri, per malati e per morenti. Ma la nascita
delle cure palliative è generalmente fatta risalire
alla metà del secolo scorso e alla figura di Cecily
Sanders che nel 1967 fondò il St. Christopher’s
Hospice a Londra e promosse il movimento hospice cioè una modalità di approccio al paziente
che ha come obiettivo un’assistenza globale che
coniuga l’estrema attenzione al lato umano con
le più moderne conoscenze mediche e tecnologiche e viene fornita da più figure professionali
organizzate in equipe mulidisciplinare. Oltre all’assistenza residenziale, il movimento hospice
ha diffuso le cure domiciliari e si è esteso rapidamente: i servizi o le unità di cure palliative sono
ora presenti in tutto il mondo e la medicina palliativa si sta sviluppando e approfondendo anche
nel campo della ricerca di base. Pur nella diversità delle singole realizzazioni tutte le strutture
che si richiamano al movimento hospice hanno
caratteristiche comuni di attenzione alla dignità
della fase terminale della vita.
La letteratura internazionale, sulla base delle
esperienze dei centri che ormai da più di 30 anni
seguono la filosofia hospice, ha dimostrato che
l’intervento di un’equipe multidisciplinare di
cure palliative (medici, infermieri, psicologo, fisioterapista, assistente spirituale, volontari) garantisce il miglior tipo di assistenza ai pazienti e
alle famiglie, consentendo inoltre di ridurre il
numero delle giornate di ricovero in ospedale e
di contenere i costi assistenziali.
Anche se le cure palliative hanno avuto un particolare sviluppo in campo oncologico, il concetto
di palliazione deve essere applicato anche alle
altre patologie inguaribili.
La storia delle cure palliative nel nostro Paese
inizia alla fine degli anni ’70 quando il Servizio
di Terapia del dolore dell’Istituto Nazionale dei
Tumori di Milano, con la Fondazione Floriani,
ha dato vita alla prima unità di cure domiciliari.
Nel decennio successivo il modello si è esteso in
Lombardia e in altre regioni.
I modelli residenziali sono almeno due. Alcune
strutture, soprattutto in Inghilterra, hanno scelto l’autonomia dagli ospedali, eleggendo a propria sede edifici di abitazione privata, spesso immersi nel verde delle periferie, al fine di ricreare
e conservare gli aspetti quotidiani e familiari della vita del malato. Altri hospice, invece, seguendo il modello canadese, sono nati all’interno di
ospedali in modo da poter conciliare l’aspetto
umano e psicologico con una maggiore disponibilità di risorse tecnologiche avanzate. Un altro
tipo di servizio è quello delle Unità Operative di
Cure Palliative (UOCP) legate ai centri di terapia
del dolore che negli ospedali offrono servizi di
consulenza e di supporto ai reparti di degenza.
Negli ultimi due anni le leggi promulgate dal Ministero della Salute e le delibere delle varie regioni
hanno avviato l’attuazione di un programma nazionale per la realizzazione di una rete di assistenza ai pazienti terminali. Nuove unità di cure palliative e servizi di assistenza domiciliare si stanno organizzando un po’ ovunque in Italia e, secondo un
censimento effettuato dalla Commissione ministeriale per le cure palliative, sono attive sul nostro
territorio più di 200 strutture hospice.
Il Dlgs 450 convertito in legge n.39 del febbraio
1999 ed il decreto 28 settembre 1999 (apparso
sulla Gazzetta Ufficiale n. 55 del 7 marzo 2000)
concordemente prevedono una “aggregazione
funzionale ed integrata di servizi distrettuali,
ospedalieri e di istituzioni di solidarietà sociale e
di volontariato operanti sul territorio perché
venga garantito l’accompagnamneto del malato
oncologico nel suo percorso sanitario ed umano
con particolare attenzione alla fase terminale
della malattia”.
Gli obiettivi specifici delle cure palliative e le modalità di erogazione sono così definiti dalla legge
n.39 e dal successivo decreto:
n “assicurare ai pazienti una forma di assistenza
finalizzata al controllo del dolore e degli altri
sintomi, improntata al rispetto della dignità,
dei valori umani, spirituali e sociali di ciascuno di essi ed al sostegno psicologico e sociale
del malato e dei suoi familiari;
n agevolare la permanenza dei pazienti presso il
proprio domicilio garantendo ad essi e alle loro famiglie la più alta qualità di vita possibile;
n ottenere una riduzione significativa e programmata dei ricoveri impropri in ospedale” (...).
“La rete di assistenza ai pazienti terminali si articola nelle seguenti linee organizzative differenziate e nelle relative strutture dedicate alle cure
palliative:
n assistenza ambulatoriale;
n assistenza domiciliare integrata;
n assistenza domiciliare specialistica;
n ricovero ospedaliero in regime ordinario o di
day hospital;
n assistenza residenziale nei centri residenziali
di cure palliative”.
Il decreto del 28 settembre 1999 (artt.1 e 2) prevede un programma nazionale per la realizzazione in ogni regione e provincia autonoma di
strutture per le cure palliative-hospice che devono essere parte integrante della rete di assistenza ai malati terminali e devono avere un’ubicazione territoriale tale da consentire un’agevole
accessibilità da parte dei pazienti e delle famiglie. I requisiti minimi strutturali tecnologici e
organizzativi sono stati definiti dal decreto del 21
marzo 2000 con il relativo allegato. Viene demandata alle regioni la definizione dei programmi di integrazione, dei protocolli operativi, la
formazione del personale e la verifica della qualità e dei risultati.
Il contenuto della legge, che risponde ad un’esigenza sempre più pressante in campo sanitario,
riflette da un lato le idee della Commissione mi-
nisteriale per le cure palliative e dall’altro ha dovuto tenere conto delle diversissime realtà locali,
delle esigenze e del ruolo dei medici di famiglia,
dell’organizzazione dei servizi territoriali per
cui, necessariamente molti aspetti sono risultati
poco definiti e demandati alle regioni. Invece, i
requisiti minimi strutturali dei centri di cure
palliative-hospices sono indicati in modo molto
dettagliato e seguono la normativa prevista per le
strutture di ricovero. Poco margine quindi vi è
alla sperimentazione di strutture residenziali
più simili a quelle anglosassoni.
Si dice “noi moriamo come viviamo” e l’approccio al problema dell’assistenza ai malati terminali riflette il nostro approccio alla morte.
Erogare cure ai malati in fase terminale più che
per qualsiasi branca della medicina deve tenere
presente alcuni nodi fondamentali:
1) affrontare il problema della morte è difficile
per ognuno di noi: tuttavia “la palliazione del
morente prevede una riflessione degli operatori sul morire e la morte individuale che dovrà condurre a una nuova presa di coscienza
nei confronti delle esigenze dei malati”;
2) il mondo medico vede la morte come una
sconfitta, un insuccesso e il senso di impotenza può condizionare le scelte degli operatori;
3) il mondo sanitario ha spesso difficoltà ad affrontare in modo olistico i problemi dei pazienti, non è preparato ed è tentato di demandare la soluzione allo psicologo, all’operatore sociale, ai volontari;
4) c’è una grande difficoltà ad accettare il lavoro di
équipe che spesso richiede la rinuncia di ogni
operatore alle prerogative del proprio ruolo;
5) manca l’abitudine di comunicare la verità al
paziente;
6) si è diffusa una generica sfiducia verso la medicina ed in particolare verso i protocolli di
chemioterapia.
Questi nodi in modo diretto o indiretto hanno
condizionato alcune posizioni della Commissione ministeriale che ha elaborato il testo di legge
e probabilmente condizioneranno le scelte operative nelle varie realtà regionali.
La sede migliore dove erogare l’assistenza ai malati terminali è il loro domicilio. In una recente
indagine su più di 700 partecipanti a corsi di formazione destinati ad una popolazione ampia ed
eterogenea sulle cure palliative e su “Vivere il
morire”, più del 65% ha detto che desiderava
morire a casa e vicino a chi si ama, e solo l’1% ha
preferito l’ospedale.
Il problema di chi deve effettuare le cure palliative è aperto non essendoci corsi ufficiali di formazione e non essendo definito dalla legge il
curriculum formativo degli operatori sanitari. La
collaborazione tra le unità operative di cure pal-
liative, i servizi di assistenza domiciliare integrata e la rete oncologica è probabilmente da sperimentare nelle varie realtà locali. Molto come già
detto, è lasciato all’iniziativa autonoma delle regioni che devono elaborare dei modelli di intervento che, necessariamente, devono coinvolgere
le associazioni di volontariato. Infatti, sino ad
ora, sono state soprattutto queste ultime che
hanno svolto in modo continuativo e organizzato
l’assistenza palliativa.
Occorre anche tenere presente che la cultura e
le relazioni interfamiliari in Italia e nei Paesi
mediterranei sono differenti da quelle dei Paesi
anglosassoni. Questo rende difficile, se non impossibile, di adottare tali e quali modelli organizzativi per esempio inglesi o canadesi. Molto più
spesso che in Inghilterra, da noi, soprattutto nelle campagne, esistono per esempio famiglie che
vivono in gruppo e che si assicurano un sostegno
reciproco rendendo più facile l’organizzazione
delle cure domiciliari. D’altra parte è difficile
prospettare il ricovero in strutture che non fanno ancora parte del “conosciuto”, dell’”immaginario” e delle consuetudini della popolazione.
Per tutti questi motivi possiamo dire che la situazione in Italia è in una fase di evoluzione e di
sperimentazione. Sicuramente ci sarà una grande diffusione della cultura della medicina palliativa e delle iniziative. Se è vero che per una buona attuazione della filosofia hospice devono essere integrati aspetti tecnologici innovativi (terapia del dolore e delle complicanze), aspetti oncologici (continuità dell’assistenza, la rete) e
aspetti relazionali (attenzione prevalentemente
alla persona e ai problemi sociali, psicologici e
spirituali) esiste il rischio che, nella fase di organizzazione, prevalgano interessi corporativi e
passi in secondo piano quello che deve essere
invece l’obiettivo primario: dare dignità al morire. Dare dignità al morire significa vivificare ogni
nuovo giorno e considerarlo non uno in più nell’attesa dell’evento morte ma un tempo da arricchire di significati, un tempo per amare, per ricevere e scoprire l’amore in un clima che deve
improntare tutte le attività in modo che si possa
dire quello che è stato detto in occasione dei 30
anni di attività del St. Christopher’s Hospice:
“per molte persone visitare un hospice significa
la strana scoperta di vita e di gioia dentro la morte e la sofferenza. Ed è forse in questo paradosso
il segreto delle cure palliative. Il paradosso è il risultato di un lavoro fondato su un abile nursing
e controllo dei sintomi, sul superamento dell’individualismo professionale nel lavoro di équipe,
sulla condivisione e sul sostegno psicologico. Le
fondamenta dell’hospice sono l’accoglienza e la
considerazione, il cemento, la speranza, la sincerità e l’onestà”.
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Recupero difficile per gli specialisti ricorrenti
S
i affievoliscono le speranze di poter
ricevere il pagamento della borsa di
studio degli anni del corso di specializzazione per i medici che hanno,
negli anni passati, fatto ricorso per ottenerne il
riconoscimento.
Con la sentenza n. 427 del 6 febbraio 2007, il
Consiglio di Stato si è, infatti, pronunciato negativamente sul ricorso in appello di alcuni medici
che avevano frequentato i corsi di specializzazione fra il 1982 e il 1991.
La questione lungamente dibattuta, fra alterne
pronunce del Ministero dell’Istruzione, dell’università e ricerca e del TAR, è stata risolta negativamente dai giudici del secondo grado amministrativo fornendo alcune chiare risposte ai problemi connessi alla tardiva attuazione da parte
dello Stato italiano della direttiva 82/76/Cee.
In primo luogo, la Corte ha affermato che dal
momento che la formazione professionale del
medico è da qualificare come servizio pubblico,
in quanto consiste in un’attività di istruzione
svolta dalla pubblica amministrazione per fornire ai partecipanti una utilità di carattere strumentale, nel caso di specie, si tratta di giurisdizione esclusiva.
Inoltre, la Corte ha precisato che “non può ritenersi che le direttive comunitarie (75/263/CEE e
82/76/CEE) contengano disposizioni incondizionate e sufficientemente precise immediatamente applicabili nell’ordinamento interno ed
ostative all’applicazione delle norme interne
con esse confliggenti, in quanto dotate di carattere vincolante soltanto nella parte riguardante
le finalità perseguite e, nella restante parte, solo
alle condizioni stabilite, lasciando liberi gli Stati
nella scelta delle modalità di realizzazione delle
finalità in caso di mancato rispetto delle condizioni stesse”.
Dal momento che, secondo i giudici contabili, le
direttive in argomento non hanno la caratteristica di essere immediatamente applicabili nell’ordinamento interno, i singoli non possono reclamare la corresponsione degli emolumenti senza
che sia provata la sussistenza di tutte le caratteristiche e limitazioni organizzative introdotte dalle
direttive con riferimento alle specializzazioni
mediche europee.
L’argomento con cui in sostanza la Corte ha respinto l’appello si basa essenzialmente sulla disparità di trattamento che il suo accoglimento avrebbe
ingenerato fra gli specializzandi ante 1991 ed i fre-
quentanti i corsi a quella data successivi.
Ed infatti, “la tardiva attuazione delle direttive
comunitarie in materia ha comportato la mancata imposizione ai medici, che abbiano frequentato i corsi di specializzazione prima dell’anno accademico 1991/92, di tutte le limitazioni e le incompatibilità introdotte con il decreto
legislativo 257/1991, di attuazione delle anzidette direttive”.
Ciò ha determinato l’ingenerarsi di situazioni
non compatibili fra loro, con riferimento al fatto
che agli specializzandi successivamente al 1991
è stato imposto l’obbligo di frequenza e di partecipazione alla totalità delle attività mediche del
servizio, comprese le guardie, con ciò implicandosi che tutta l’attività professionale per l’intera
durata del corso fosse dedicata esclusivamente
alla formazione specialistica.
La stessa cosa non era prevista per gli specializzandi prima del 1991, né è stata dedotta prova
del contrario dai ricorrenti, per cui, astrattamente, essi avrebbero potuto prestare la propria
opera professionale anche al di fuori della
scuola di formazione professionale.
Pertanto, la Corte afferma che “il riconoscimento di emolumenti in favore dei medici frequen-
tanti i corsi di specializzazione (...) assume carattere incondizionato e sufficientemente preciso con riguardo alla retribuibilità in astratto dei
corsi che si sono svolti” ma nel rispetto delle
condizioni previste dalle medesime direttive di
cui si reclama l’attuazione tardiva.
Inoltre una diversa decisione, secondo la Corte,
determinerebbe una disparità di trattamento
anche nei confronti degli specializzandi destinatari delle sentenze del TAR Lazio, i quali hanno
invece ottenuto il riconoscimento di quanto richiesto, con il congelamento però degli interessi
e della rivalutazione monetaria, che nel ricorso
in appello esaminato dalla sentenza 427/2007
era stato richiesto di applicare alla cifra da
liquidare a titolo di retribuzione.
Ultimo punto affrontato dalla sentenza, e di particolare importanza, è quello dei tempi di prescrizione delle retribuzioni, che sono indicate in
cinque anni “trattandosi di somme da corrispondersi ad anno, ai sensi dell’art. 2948 c.c.”. Il
quinquennio dovrà essere computato a partire
dalla data di verificata maturazione del diritto e,
pertanto, essa coinciderà con la conclusione di
ciascun anno accademico.
Alessandra Testuzza
L’Europa chiama i cervelli l’Italia, invece, li respinge
Sul fronte della ricerca ci sono due notizie di segno diverso che vale la
pena analizzare. Durante una conferenza stampa organizzata da Farmindustria, è stato presentato anche in Italia il progetto affidato ad un nuovo
organismo europeo: il Consiglio Europeo delle Ricerche (Erc). La Commissione Europea ha affidato all’Erc, per il periodo 2007-2013, un budget molto elevato che ammonta a 7,5 miliardi di euro, all’incirca 14 mila
miliardi delle vecchie lire. Soldi che dovranno servire a rilanciare un settore strategico come quello della ricerca, sperando che l’Europa possa
tornare competitiva nei confronti degli Stati Uniti, Giappone e delle nuove realtà come Cina e India.
La novità però non è solo questa. La cosa rivoluzionaria, specie se guardata da un Paese come l’Italia, è come verranno distribuiti questi fondi e
chi deciderà come distribuirli. Per questa ragione è stato nominato un
Consiglio scientifico composto da 22 membri, scelti però non dai singoli
Paesi o per nomina politica, ma attraverso una rigorosa selezione fatta in
base ad una rosa di nomi proposta dalla comunità scientifica internazionale. Tra questi 22 membri spiccano due italiani: il direttore dell’istituto
scientifico San Raffaele di Milano, il genetista Claudio Bordignon, e Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. Il board
avrà l’onere di scegliere, nella più assoluta libertà, i progetti di ricerca da
finanziare nei prossimi 7 anni, divisi in due sezioni, per giovani ricercatori e per studiosi avanzati. Ovviamente ci sono criteri selettivi trasparenti
che prediligono l’innovazione della ricerca e il merito, in termini di curriculum, del capo progetto. Mentre non esiste un’area tematica specifica,
essendo i fondi destinati a qualsiasi materia comprese le scienze sociali
e umanistiche.
Il primo bando dedicato ai giovani ricercatori (entro 8-10 anni) scade in
febbraio. I termini tecnici possono essere reperiti sul sito http://erc.europa.eu. Per questo primo step, il budget è di 300 milioni di euro che serviranno a finanziare giovani ricercatori europei o provenienti dal resto
del mondo che vogliono però trasferirsi in Europa. Sono previsti finanziamenti singoli fino a 2 o 3 milioni di euro per progetti fino a cinque anni
che saranno gestiti direttamente dal giovane ricercatore per sé o per il
proprio team. Cosa che, si spera, dovrebbe fare arrivare da tutto il mondo i migliori talenti sul mercato; si stima circa 1500 nuovi gruppi di ricerca all’avanguardia nei campi strategici dell’innovazione.
Per la prima volta dunque, i fondi europei non verranno distribuiti proquota in base ai singoli conferimenti dei paesi membri, ma in base al merito del singolo progetto. “criterio che ha trovato in Italia, notoriamente
un paese poco competitivo, numerose resistenze” sottolinea il professor Bordignon e che rischia di non fare tornare qui da noi un quantum
pari a quello che abbiamo versato. Ma è un rischio da correre, “perché è
necessario svecchiare il mondo della ricerca” sottolinea il presidente di
Farmindustria, Sergio Dompè, che ha voluto sponsorizzare come parte
interessata la divulgazione del progetto dell’Erc. Siamo interessati come
comparto leader nel campo dell’innovazione e della ricerca, leader in
termini di budget investiti e risorse umane, a far sì che il sistema Italia migliori al livello generale. Perché se il sistema Paese migliora in termini generali ne trarranno benefici tutte le aziende, comprese quelle del nostro
settore che vive e prospera soprattutto grazie all’innovazione. Il Presidente di Farmindustria Dompè approva l’iniziativa dell’UE.
Note meno positive sul fronte Italia. Se non rischiassimo di apparire troppo ossequiosi del professor Settis, rimanderemmo semplicemente ad un
suo articolo (“Ricerca, se il merito fosse un obbligo”) in cui si analizza il disastro del nostro Paese. Settis che è tecnico di sinistra, ma che ha collaborato in precedenza anche con il governo Berlusconi, mette in luce le pecche del governo Prodi che in campagna elettorale aveva promesso maggiori risorse per gli investimenti in ricerca e che invece in Finanziaria ha tagliato i fondi pubblici per le università e non ha previsto nessuna agevolazione per le donazioni private. In più, dice Settis, “il merito e il talento hanno poca cittadinanza in un sistema universitario inquinato dal localismo
delle carriere, moltiplicazione dei corsi di laurea, autoreferenzialità dei ceti
accademici”. Pochi giorni fa, per paradosso, sono stati respinti al mittente
anche quei pochi ricercatori di qualità che avrebbero voluto rientrare in
Italia e avevano risposto a un bando che prometteva l’integrazione nel nostro sistema universitario, bando in seguito non finanziato. Cose incredibili che possono succedere solo da noi.
13
Imparare ad invecchiare bene
Come vivere al meglio i vent’anni di media che ci attendono dopo i 65
L
a salute, come sottolineato dall’OMS,
non dipende solo dalla condizione
dell’organismo ma anche dallo stato
psico-affettivo e dai rapporti sociali
dell’individuo. Non si considerano più, dunque,
gli anziani come soggetti “diversi”, magari da accudire e curare, bensì persone con una vita sempre più lunga da riempire di significato.
All’inizio del secolo scorso l’aspettativa di vita
era 40 anni, mentre oggi è 77 anni circa per gli
uomini e 83 per le donne; un grande traguardo
conquistato non solo grazie ai progressi della
medicina ma anche, e soprattutto, grazie ai
grandi miglioramenti sanitari: l’aumento di calorie nella dieta, la sanitarizzazione delle acque
e degli ambienti, le vaccinazioni.
I progressi scientifici fanno intravedere nuove
prospettive attraverso lo studio continuo delle
cellule staminali e della biologia molecolare in
generale, ma per il momento i risultati sono ancora in fase di sperimentazione in laboratorio.
Studi recenti indicano che la condizione dell’anziano dipende solo per il 30% dal corredo cromosomico, per il 70% dipende da ambiente e
stile di vita. In realtà, non esiste un gene specifico della longevità, esistono geni che ottimizzano
il sistema e cioè, operando nel metabolismo intermedio, i geni protettivi della riparazione e della difesa dell’organismo funzionano per preservare dal rischio di ammalarsi. Certo, in alcuni
soggetti essi funzionano meglio che in altri, così
come esistono pure geni che aumentano il rischio di ammalarsi, ma il dato importante resta:
il 70% della mortalità evitabile dipende dall’ambiente e dagli stili di vita. Si dovrebbe spostare
dunque il punto di riferimento della nostra società, che oggi è il soggetto di età media, verso i
soggetti più anziani.
Sappiamo che invecchiare significa perdita di
struttura e funzioni dell’organismo, ma non tutti
gli anziani sono uguali, da un lato troviamo l’anziano attivo, prestigioso e in buona salute, dall’altro il fragile o il malinconico che si lascia andare.
La società deve tener conto di coloro che hanno
ancora voglia di fare, ecco perché anche l’età
pensionabile non può essere rigorosamente definita dallo stato anagrafico ma dev’essere una
scelta personale e legata al singolo individuo.
Successful aging, invecchiare bene: sta in queste due parole la sfida della moderna geriatria
che punta a migliorare la qualità della vita, più
che a rincorrere il mito della longevità estrema,
e che suggerisce regole e stili di vita per diventare
un anziano di successo. Questi suggerimenti si
possono raggruppare sotto tre aspetti da osservare con cura: alimentazione, ambiente e socialità, attività fisica.
La dieta ideale di un anziano dovrebbe prevedere 25% di proteine (privilegiando pesce e carni
bianche), 25% di grassi (con una forte quota di
oli vegetali) e 50% di carboidrati. Indispensabile
si rivela la riduzione dell’apporto calorico: oltre i
60 anni bastano 1.700-2.200 calorie e per idra-
tarsi 2-3 litri di acqua al giorno (compresa
quella contenuta nella frutta e nella verdura).
La razza, il sesso, l’educazione, lo stato sociale,
la personalità, sono tutti fattori personali coinvolti nell’invecchiamento dell’individuo. Lo sono altrettanto i fattori ambientali come la casa, il
lavoro, le attività sociali, la famiglia. Ad esempio,
un anziano che perde una persona cara ha un rischio molto maggiore di ammalarsi rispetto ad
un coetaneo.
Infine, la forma fisica; questa è naturalmente
soggetta ad un declino medio dell’8-9% per decade di vita, ma i soggetti che praticano attività
sportiva a livello amatoriale riducono tale declino ad un 5% e quelli allenati fino al 3%. L’esercizio moderato e continuativo riduce comunque il
rischio di ammalarsi.
Per l’anziano c’è dunque bisogno di una medicina della complessità, il cui centro dev’essere la
salute globale del soggetto non avulsa dal suo
vissuto personale. Questa visione implicherebbe
una rivoluzione dell’organizzazione sanitaria,
servirebbero unità valutative geriatriche sparse
sul territorio capaci di offrire un’assistenza integrata dal punto di vista socio-sanitario. O meglio,
l’assistenza sull’uscio di casa, la doorstep medicine, di cui ha parlato Claude Lenfant dei National Institutes of Health degli USA.
Secondo il medico, la sfida della moderna geriatria non sta tanto nella rimozione della malattia
quanto nel raggiungimento dell’autosufficienza
del soggetto. In effetti, la salute dell’anziano significa anche autonomia, pur in presenza di
malattie croniche.
Perciò, maggiore attenzione alla volontà dell’anziano, rapporti più umani tra medico e paziente,
terapie del dolore accessibili a tutti coloro che ne
vogliano fare uso, invito a non lasciarsi andare e
a non sentirsi abbandonati.
LA CITAZIONE
«La vita sarebbe infinitamente più felice se nascessimo a 80
anni e gradualmente ci avvicinassimo ai 18».
Marc Twain
Chi è il garante della sicurezza del paziente?
È
ormai opinione comune tra gli
esperti che troppo poco è stato fatto
per migliorare la sicurezza dei pazienti negli ospedali, anche a sette
anni di distanza dalla pubblicazione del report
“To err is human” da parte dell’istitute of Medicine di Washington. Nel report veniva ampiamente
chiarito che “la sicurezza del paziente deve essere
considerata come un obiettivo organizzativo
esplicito della Direzione dell’Ospedale, la quale
deve dimostrare una chiara leadership in questo
campo”. Molti esperti affermano che le denunce
ed i processi per negligenza rappresentano una
barriera per lo sviluppo negli ospedali di programmi efficienti di sicurezza del paziente. Altri
affermano che esiste un oggettivo “diritto alla sicurezza” dei pazienti ricoverati, che configura come dovere dell’ospedale l’implementazione di
adeguate misure per garantirne la sicurezza.
Gli ospedali che non adottano politiche ed azioni
specifiche in tal senso potrebbero essere considerati colpevoli di negligenza e, come tali, passibili di azioni legali dirette.
I professionisti che lavorano nelle corsie e negli
ambulatori ospedalieri, e che garantiscono la
fornitura delle cure, non sono sempre in grado
di controllare tutti i possibili rischi di danno al
paziente presenti in ospedale, specialmente
quelli che derivano dal management inadeguato. Le decisioni prese ai livelli direzionali dell’ospedale generano difetti che si manifestano nei
processi di cura e che non sono sempre governabili dai professionisti.
Negli USA si sta diffondendo il concetto di una responsabilità soggettiva nel caso in cui i danni
che avvengono nell’azienda sono causati da negligenze organizzative, per le quali gli ospedali
possono essere chiamati direttamente in causa.
Viene considerata negligenza organizzativa non
solo l’errore o il danno derivanti dalle cure, ma
anche il non avere adottato in tempo tecnologie
di comprovata utilità e di costo ragionevole,
esponendo i pazienti a rischi evitabili.
Le cause più frequenti di denuncia negli USA sono costituite dalla inadeguatezza del personale
infermieristico e dai servizi scadenti.
Una condanna esemplare è stata quella inflitta al
Charleston Community Memorial Ospital, quando un paziente si era visto amputare una gamba a
causa del gesso troppo stretto. La causa del danno
fu attribuita alla scarsità del personale.
Un ospedale USA è stato condannato per negligenza in quanto non aveva tenuto in stand-by
una sala operatoria per pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco che potevano necessitare di
un intervento di emergenza. Purtroppo, a causa
dell’indisponibilità di una sala operatoria, un
paziente era deceduto.
La Suprema Corte della Pennsylvania ha stabilito che “il comportamento negligente a livello
aziendale rappresenta una carenza organizzativa per la quale l’ospedale può essere chiamato
in causa nel caso non sia riuscito a garantire ai
pazienti standard di cura adeguati”. Anche altre
Corti hanno proposto il concetto secondo il quale è dovere aziendale la garanzia della sicurezza
del paziente negli ospedali.
Questa garanzia deve comprendere alcune attività-chiave quali:
n il mantenimento di servizi e apparecchiature
sicuri e adeguati;
n la selezione e l’incentivazione di personale
medico competente;
n il controllo diretto delle pratiche di cura in
ospedale;
l’adozione e il monitoraggio di regole e politiche che garantiscono la qualità delle cure.
Queste posizioni sono certamente avanzate e in
linea con teorie attuali relative alla genesi del ri-
n
schio clinico: va sottolineato, infatti, che finalmente un sistema giudiziario ha “sposato” entusiasticamente il concetto che errori e danni sono
causati da cattive condizioni di lavoro e da management inadeguato.
14
Le saline da salvare
ALLE SALINE DI TRAPANI E PACECO DA CENTINAIA DI ANNI IL LAVORO DEGLI UOMINI CONVIVE CON UNA NATURA E UN ECOSISTEMA RICCHISSIMI
N
oi siamo il sale della Terra. Ce lo dice il Vangelo, fornendoci, con l’ispirata metafora, anche un dato che
ha un riscontro scientifico: raramente gli esseri umani si comportano come se fossero il sale della Terra,
ma certo ne contengono una buona parte, circa 250 grammi a testa. Oggi, dopo anni di pubblicità negativa, tendiamo a guardare al
sale come a un nemico della salute; ma in realtà il cloruro di sodio (NaCl) è indispensabile alla vita cellulare di ogni organismo
vivente. Gli animali lo sanno per istinto. Se i carnivori traggono il
loro fabbisogno di sale dalla carne delle prede, gli erbivori lo vanno a cercare dove si trova in natura nelle pozze salate, negli affioramenti di salgemma.
C’è addirittura chi sostiene che le tortuose strade secondarie degli
Stati Uniti ricalchino le migrazioni delle mandrie di bisonti in cerca di sale da mangiare ...
Per noi uomini il sale è però molto più di un mattone indispensabile della chimica corporea. Per circa sette millenni – dall’inizio
delle civiltà agricole all’invenzione della congelazione, nel 1925 –
è stato inestimabile perché conservava i cibi. Grazie a lui, carne e
pesce si mantenevano durante i mesi invernali e potevano essere
trasportati lontano.
Questa sua virtù lo ha caricato di valenze simboliche profondissime, testimoniate da un’infinità di tracce nella storia e nella lingua:
l’uomo saggio ha “sale in zucca”; il “salario” deriva dalla paga in sale dei soldati dell’antica Roma; e la prima delle grandi strade consolari, la Via Salaria, serviva a portare all’Urbe il sale prodotto sulla costa, in saline spesso fondate dagli Etruschi o dai Fenici.
Erano cartaginesi – cioè fenicie – le saline di Trapani, le più grandi della Sicilia occidentale, che divennero romane alla fine del III
secolo a.C., dopo la prima guerra punica. Nell’antichità il sale trapanese era famoso: con esso si salava il pregiato tonno pescato a
Favignana e si conservavano i gustosi capperi di Pantelleria. Nel
Medioevo era commerciato fino in Norvegia, dove serviva per salare i merluzzi di Bergen.
L’attività di estrazione fu favorita dalla presenza, lungo la costa, di
lagune e aree paludose: i primi salinai non dovettero far altro che
regimare il giro delle acque di marea in modo che alimentassero
una serie di vasche poco profonde, e poi aspettare che il sole cocente dell’estate mediterranea compisse la sua opera: a fine agosto, evaporata l’acqua, si rastrellava con pale il fior di sale dalle vasche asciutte.
Oggi alle Saline di Trapani c’è anche la tecnologia: nelle “caselle
salanti” più estese si adoperano le pale meccaniche. Ma tutt’intorno decine di piccoli salinai continuano a raccogliere il sale a
mano, mantenendo viva una tradizione millenaria. E contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, una ricchissima vita animale
popola questa scacchiera liquida: tanto che dal 1995 le Saline di
Trapani e Paceco sono una Riserva naturale regionale gestita dal
WWF. I due mulini a vento che torreggiano sopra la distesa di laghetti multicolori risalgono al XVII secolo, quando s’iniziò a usare
l’energia eolica per pompare l’acqua di mare nelle caselle: oggi
sono uno il centro visite dell’Oasi, l’altro un Museo del sale, che
racconta la storia delle saline trapanesi in età moderna.
Gennaio e febbraio sono i mesi migliori per visitare le saline perché nelle loro acque basse sverna una quantità di uccelli: circa
200 specie, tra cui quelle che si riconoscono a occhio e sanno affascinare anche il turista meno birdwatching-oriented: dai grandi
aironi bianchi ai maestosi fenicotteri rosa che incedono lenti nell’acqua salmastra, impegnati a filtrare col becco (dotato di appositi “pettini”) quei microscopici gamberetti che danno al contempo il colore rosato alle piume dei trampolieri e fantasmagoriche
sfumature rosse, dal cinabro al mattone, alle varie tessere di questo geometrico mosaico d’acqua.
I fenicotteri se ne vanno solo in primavera, per nidificare altrove,
forse infastiditi dall’attività della salina che ricomincia ogni anno
in coincidenza con la stagione riproduttiva. Per questo, benché le
specie censite siano numerose, quelle nidificanti sono 15-20, tra
cui l’avocetta, il piccolo limicolo simbolo dell’Oasi, dall’inconfondibile becco ricurvo. Loro, i fenicotteri e le decine di anatre, dal
comune germano alla volpoca, che svernano nelle Saline, prosperano sull’apparente contraddizione che già meravigliava Darwin
in Patagonia (“È incredibile come nell’acqua salata possano esistere delle creature”). In realtà l’ambiente della salma non è così
ostile come sembra: per tutto l’autunno le vasche ricevono l’acqua del mare, e la bassa concentrazione marina salina permette
la vita di numerose alghe, microorganismi e pesciolini.
Solo d’estate, quando nelle vasche più interne l’acqua comincia a
evaporare, gli uccelli si spostano da quelle pozze ormai sterili verso altre meno salate. Così ogni anno, stagione dopo stagione, si ripete quella pacifica coesistenza di uomini e animali che fa delle
saline di Trapani una sorta di incarnazione esemplare dello scopo
ultimo del WWF: un mondo in cui l’umanità possa vivere in armonia con la natura.
15
FIAT PANDA 100HP
È cattiva ma non fa paura
A
ccelerazioni brillanti, elevata tenuta
di strada e frenate efficaci mantengono quanto promesso dal look aggressivo della Panda 100HP. Sportivi anche i consumi. Migliorabile lo sterzo. Prezzo:
13.400 euro.
A tre anni dal debutto, la famiglia della Panda si è
ampliata in maniera consistente e, se vogliamo,
inaspettata. Almeno stando ai canoni seguiti dall’illustre progenitrice, una perfetta city car che al
massimo si era concessa il vezzo delle quattro
ruote motrici. Ora, invece, la Panda offre la possibilità di combinarne di tutti i colori e, ovviamente, non si parla tanto delle possibilità legate
alle tinte vivaci e trendy della carrozzeria o dell’arredamento, quanto delle opportunità di scelta fra svariati allestimenti, numerose motorizzazioni (benzina, diesel e ora anche quella a metano dell’ecologica NaturalPower) e trazione anteriore o integrale. E se a questo quadro s’aggiunge
anche l’evoluzione corsaiola PanDakar il discorso
si amplia a parametri sino a poco tempo fa davvero impensabili. Meno “impensabile” ma comunque stuzzicante risulta la 100HP protagonista di
questa prova, la versione più potente della Panda,
il secondo modello più venduto in Italia nel 2006.
Benché il suo motore 1.4 litri sia il più grosso ed
esuberante mai montato sulla piccola di casa Fiat,
rimane però sempre adeguato a non fare scontrare le ambizioni dei figli con le perplessità dei padri. Infatti, “cavalleria” e cubatura rientrano nello
stesso ambito in cui oggi si collocano anche molti
turbodiesel. E lo stesso si può dire per il prezzo.
COM’È FATTA
Le ambizioni da piccola sportiva della Panda
100HP sono ben trasmesse dall’aspetto della
carrozzeria, che si distacca con decisione da
quello delle altre versioni. Infatti, si presenta con
una corporatura più muscolosa cui si accompagna un portamento meno dinoccolato. Meriti dei
quasi 2 cm in meno di statura dovuti all’assetto
sportivo, dei cerchi in lega (a sette razze) da 15
pollici che “calzano” pneumatici ribassati
195/45 e, ovviamente, dello specifico abbigliamento riservato al consueto corpo vettura. Esteticamente questa pepata Panda si riconosce soprattutto per gli scudi paraurti che integrano ampie grigliature, sebbene non tutte... autentiche.
Anteriormente, quelle centrali sono raggruppate
in una mascherina di colore nero che, includendo anche la zona portatarga, produce una grande
calandra, simile a quella di alcune GTI “made in
Germany”. Inferiormente è affiancata da quelle
(finte) che accolgono i fendinebbia. L’insieme
imprime alla 100HP un’espressione intrigante e
vivace.
La sua forma atletica è messa in risalto sia dalle
appendici aerodinamiche inferiori in polipropilene nero – gli accenni di spoiler sotto gli scudi
paraurti, le minigonne laterali e i profili sui bordi
dei passaruota – sia dal piccolo spoiler all’estremità del padiglione e dal motivo, incastonato
nello scudo paraurti posteriore, che richiama
l’estrattore aerodinamico. Il body-kit è completato dalla vetratura posteriore oscurata, che tenta
di mimetizzare le porte posteriori, e nel complesso non degenera nell’eccessivo. Tuttavia, chi
volesse caratterizzare la 100 HP in maniera ancora più marcata può ricorrere al pacchetto opzionale Pandemonio (pinze freno rosse, gusci
dei retrovisori cromati, cerchi in lega color cromo): un nome, una garanzia. Come su tutta la
gamma del model year 2007, anche l’interno
della 100HP presenta un allestimento in cui si
nota lo sforzo profuso per valorizzare la qualità
percepibile.
Infine, benché l’equipaggiamento sia piuttosto
ricco per la categoria e il prezzo di questa Panda,
non avrebbe nemmeno guastato un piccolo sforzo per offrire di serie gli airbag laterali.
SI GUIDA DALL’ALTO
La personalizzazione dell’interno della Panda
100HP è affidata a pochi elementi e non intacca
più di tanto l’aspetto dell’arredamento. Infatti,
gli interventi principali riguardano la strumentazione, dalla grafica specifica, e l’applicazione dei
profili effetto titanio attorno ai quadranti del cruscotto, alle bocchette e ai comandi della climatizzazione che, nel caso dell’esemplare provato, è
dell’efficiente tipo automatico. Un po’ più carat-
terizzante risulta la selleria anteriore, ben profilata lateralmente per assicurare un buon sostegno al corpo degli occupanti. Peccato, però, che
proponga sempre un piano di seduta sopraelevato. A dispetto della presenza della regolazione in
altezza ne deriva che l’impostazione di guida è a
gambe piegate. Quindi, è in contrasto con quanto ci si aspetterebbe di trovare su una vettura di
simile indole e da quanto promette il tasto Sport
sulla plancia, destinato a determinare un migliore dialogo fra avantreno e guidatore, con la riduzione dell’assistenza dello sterzo, e a imprimere
maggiore prontezza di riflessi all’acceleratore.
Tuttavia, la corretta disposizione dei comandi
principali e la regolazione in altezza del piantone
dello sterzo facilitano la ricerca della posizione
più comoda.
MOTORE PIÙ POTENTE E FRENI DELLA 4X4
Il motore che equipaggia la più vivace delle Panda deriva dal 1.4 Starjet. Al collettore d’aspirazione dei condotti associa la distribuzione a fasatura variabile.
Dall’unità originaria si distingue per il disegno
dei condotti d’aspirazione definito in maniera tale da premiare il “sound”, il leggero incremento
della compressione, la rimappatura della centralina, la crescita della potenza di 5 cv, da 95 a 100
cavalli, e l’andamento della curva di coppia, con
un valore massimo di 13,4 kgm a 4250 giri invece di 12,7 kgm a 4500 giri. Anche il cambio a sei
marce, dalla specifica spaziatura, deriva da quello di alcune Fiat di stazza media. Prestazioni e
temperamento di questa Panda hanno imposto
sia una maggiorazione dell’impianto frenante
(come quello della 4x4) a quattro dischi sia una
ridefinizione dell’assetto – irrigidito, ribassato e
integrato da cerchi da 15” – e del servosterzo
elettrico. Quest’ultimo, s’avvale di un sistema
DualDrive rovesciato. In pratica, la logica “city”
con cui si ottiene la riduzione dello sforzo al volante è sostituita da quella “sport”, un’esclusività della 100HP che decreta una diminuzione della servoassistenza. S’imposta sempre con un tasto sulla plancia e influisce anche sulla reattività
dell’acceleratore che, a parità di pressione sul
pedale, incrementa l’angolo d’apertura della farfalla dell’alimentazione.
COME VA
Alla guida della 100HP il vivace rendimento del
motore si riscontra in fretta. Infatti, questa unità
vanta un’erogazione piena sin dai regimi più
bassi, che si fa apprezzare nell’uso cittadino. Ma
a partire da 3000 giri sfodera anche una vivacità
che assicura divertimento e buoni margini di disimpegno. La brillantezza del 1.4, sempre accompagnata da una tonalità appagante ma talvolta elevata, è ben supportata dal peso ridotto
(attorno ai mille chili) e dal cambio a sei marce.
Caratterizzato dalla manovrabilità morbida, ma
anche da innesti leggermente contrastati, propone una spaziatura corta dei rapporti bassi e intermedi che, pur determinando in quinta marcia
una punta massima rilevata molto inferiore a
quella dichiarata, favorisce la rapidità delle accelerazioni. E, difatti, nei nostri test strumentali la
100HP si è rivelata più scattante di quanto promesso dal costruttore e, non utilizzando la sesta,
abbastanza reattiva nelle riprese. Il rapporto superiore non è lungo ma, di fatto, è di ... riposo,
presente per limitare la rumorosità e il consumo
alle velocità costanti. Tuttavia, dai nostri rilevamenti risulta che fatica a centrare gli obiettivi,
Infatti, già a 130 all’ora si registrano nell’abitacolo quasi 75 dB e le percorrenze s’attestano a poco più di 11 chilometri con un litro. Risultano un
po’ basse per una vettura che, pur essendo sportiveggiante ma di certo non estrema, si colloca
sempre tra le utilitarie e che, avendo un serbatoio da 35 litri, finisce con il disporre di un… range operativo limitato. Non è nemmeno esaltante
la media che scaturisce dall’uso extraurbano autostradale e cittadino – 12,9 chilometri con un litro – dovuta anche all’aerodinamica non ottima-
le e alla gommatura extra-large.
Sui fondi irregolari la rigidità dell’assetto e i fianchi
bassi delle gomme si riflettono sulla guidabilità,
perché propiziano il pattinamento delle ruote motrici con le marce basse, e ancor più sul comfort.
In compenso il set-up generale supporta adeguatamente il lavoro dell’impianto frenante, il cui
mordente non è mai inficiato da fenomeni che
possono penalizzare gli spazi d’arresto (molto
validi) e il dinamismo della 100HP. Che, infatti,
grazie anche all’assenza di qualsiasi accenno di
rollio, s’appoggia con decisione, tiene la strada
bene e mantiene un buon self-control nelle improvvise situazioni d’emergenza. E, quindi, istintivo controllare il sottosterzo che affiora nelle fasi
d’iscrizione in curva e apportare eventuali correzioni di ... rotta. Che, se non si ricorre alla logica
Sport sono tutt’altro che episodiche. Infatti, la
servoassistenza standard dello sterzo limita l’efficacia del dialogo fra avantreno e volante, inficiando la precisione di guida. E, a proposito di
sterzo, va ancora aggiunto che non ci sarebbe dispiaciuto un raggio di svolta più contenuto per
facilitare le manovre in spazi ristretti e una maggiore omogeneità d’azione, per armonizzare anche il ritorno sottosforzo.
Il comportamento, comunque, è sempre onesto,
tanto che la 100HP può mettere in campo tutta
l’agilità suggerita dal rapporto fra mole e potenza
della vettura.