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Gli Anestesisti Rianimatori italiani mobilitati a difesa delle proprie competenze professionali Le iniziative per bloccare la Scuola di Specializzazione in Medicina di Emergenza Urgenza C ome è ormai a tutti noto, nel mese di maggio 2006, con Decreto del Ministero dell’Università, è stata istituita la Scuola di Specializzazione in Medicina di Emergenza Urgenza. Tale provvedimento, anche se in certa misura atteso, ha colto di sorpresa i rappresentanti delle Associazioni più rappresentative della nostra disciplina e ha indotto i Presidenti di AAROI, SIAARTI, SIARED e CPOAR a chiederne la sospensione cautelare attraverso un ricorso al TAR del Lazio. C’è il rischio che la nostra disciplina possa essere mutilata di qualche competenza che ormai è parte integrante del nostro patrimonio, penalizzando le aspettative professionali e di carriera di molti anestesisti rianimatori italiani. Il 28 settembre 2006 abbiamo dato incarico ai nostri legali di rinunziare alla richiesta di sospensione d’urgenza chiedendo invece di fissare l’udienza di merito in tempi non troppo lunghi e, comunque, prima dell’estate 2007, con lo scopo di anticipare i tempi di effettiva esecuzione del decreto, ciò per evitare che l’istituzione della nuova Scuola da parte delle singole Università abbia concreto avvio nell’anno accademico 2007-2008. Contro il nostro ricorso si sono costituiti ad opponendum, oltre alla SIMEU (Società Italiana di Medicina Emergenza Urgenza), anche la SIMI (Società Italia- na di Medicina Interna) e la CUMI (Confederazione Unitaria Medici Italiani). In sostanza, abbiamo molti avversari che rendono il giudizio difficile ed incerto. Molti e legittimi sono i motivi della nostra impugnazione: 1) la mancata audizione e consultazione delle Società ricorrenti ampiamente rappresentative degli anestesisti rianimatori italiani. 2) La violazione delle norme comunitarie che non prevedono in alcuno dei 15 Paesi membri Scuole di Specializzazione in Medicina di Emergenza Urgenza. La Direttiva che entrerà prossimamente in viContinua a pagina 3 COPERTURA ASSICURATIVA SERVIZIO DI CONSULENZA TELEFONICA LA POSIZIONE DELL’AAROI SUL CASO WELBY Documento approvato dal Consiglio Nazionale il 24 febbraio 2007 L a vicenda di Piergiorgio Welby ha sollevato l’attenzione della pubblica opinione su una serie di problematiche relativamente ai temi dell’accanimento terapeutico, del consenso informato, del testamento biologico e dell’eutanasia. Gli Anestesisti Rianimatori sono una categoria di medici professionisti che da sempre si trova ad operare in situazioni cliniche di estrema gravità, su quella stretta linea di confine che separa la vita dalla morte, concentrando ogni energia nell’impegno di sostenere le funzioni vitali delle persone loro affidate, consentendone il miglior recupero psicofisico possibile e comunque di alleviarne le sofferenze. Questo risultato viene perseguito nelle 450 Rianimazioni e Terapie Intensive Italiane, nelle 5.000 Sale Operatorie, nei Reparti di degenza (si pensi all’“ospedale senza dolore”), negli Ambulatori di terapia del dolore e, sempre più spesso, anche a domicilio, applicando precisi protocolli terapeutici ed instaurando con i pazienti (laddove possibile) e con i loro familiari un profondo rapporto interpersonale, finalizzato alla cultura della vita ed al trattamento del dolore, non solo nel suo contenuto fisico, ma in quello di “dolore totale” che coinvolge ogni aspetto della persona. Il non abbandonare il paziente inguaribile alla propria sofferenza, garantendone la dignità con ogni strumento utile a sottrarlo ad una inutile ed ingiusta sofferenza è atto doveroso. Non è, invece, proponibile alcun atto medico che volontariamente sopprima la vita. L’esperienza ci insegna che molto spesso l’idea di porre fine alla vita nasce da una inadeguata risposta alle sofferenze. Gli Anestesisti Rianimatori non accettano, quindi, di sposare quella linea rinunciataria che sembra minare l’alleanza terapeutica tra medico e paContinua a pagina 3 Dal 1º marzo 2007 è stato attivato, per gli anestesisti rianimatori italiani iscritti all’AAROI che usufruiscono della copertura assicurativa, il servizio di consulenza telefonica per ricevere risposte tempestive in caso di incidente professionale. Il numero da selezionare è il seguente: 334 2480994 AL VIA SABATO 14 APRILE (tutti i giorni dalle ore 08.00 alle ore 20.00) CORSO ITINERANTE AAROI-SIARED ECM anno 2007 Per informazioni su adesione, revoca, rinnovo e chiarimenti sui contenuti della polizza assicurativa AAROI-CARIGE tramite WILLIS resta sempre attivo anche il numero verde: IL SERVIZIO È GRATUITO A PAGINA 5 IL PROGRAMMA, IL CALENDARIO E LE SEDI Le Linee Guida sul controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale tramite procedure analgesiche Negli ospedali italiani il parto sarà senza dolore IL RUOLO CENTRALE DELL’ANESTESISTA RIANIMATORE “T utelare la scelta della donna perché durante il travaglio e il parto possa usufruire di un controllo efficace del dolore mediante le più appropriate procedure analgesiche attualmente disponibili, nel massimo della sicurezza propria e del nascituro”. È questo l’obiettivo del documento, appena approvato dalla Commissione nazionale sui Lea che promuove il “controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale tramite procedure analgesiche” tra i livelli essenziali garantiti dal Ssn. I Lea sul parto senza dolore seguono di qualche mese l’approvazione in Consiglio dei Ministri del Ddl che tutela i “diritti della partoriente, la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della salute del neonato”. Il documento definisce i criteri essenziali “strategici, gestionali e organizzativi” per l’attivazione e l’organizzazione di un servizio di anestesia in ostetricia. Dopo la descrizione delle procedure analgesiche più efficaci per il controllo del dolore nel travaglio e nel parto naturale (blocco perdurale, blocco subaracnoideo, blocco combinato spino-peridurale) il documento mette in luce il ruolo delle diverse figure professionali coinvolte (lo specialista in anestesia e rianimazione, l’ostetrico-ginecologo, l’ostretica) e la necessità di fornire alle donne un’informazione adeguata e completa sulle tecniche disponibili. Ma anche l’opportunità di sviluppa- re protocolli clinici, l’importanza di promuovere programmi di formazione aziendale specifica. L’obiettivo finale è quello di garantire (il parto analgesico entrerà di diritto nel Drg associato al parto) e rendere accessibile la procedura al maggior numero possibile di donne e la sua concreta attuazione non potrà che avvenire gradualmente, “in funzione delle scelte programmatorie delle Regioni e delle risorse disponibili“ e tenendo conto, in primo luogo, della grave carenza di anestesisti-rianimatori all’interno del Servizio sanitario nazionale. Il documento suggerisce, quindi, di individuare prioritariamente le strutture di ricovero che effettuano più di 1.200 parti l’anno, assicurando comunque, in ogni Regione, la presenza di una o più strutture che possano fornire risposte adeguate e avviando, se necessario, fasi di sperimentazione. IL TESTO DELLE LINEE GUIDA 1. Motivazione e strategie generali II Comitato nazionale di bioetica nel documento del 30 marzo 2001, avente per titolo “La terapia del dolore: orientamenti bioetici”, afferma che “II dolore del parto ha caratteristiche del tutto peculiari perché si verifica in un organismo sano, ha una sua durata, dopo di che ritorna il benessere e sopravviene la gratificazione della nascita... Per molte donne comunque il dolore del parto è un grosso scoglio da superare, un passaggio che assorbe molte energie limitando le possibilità di una partecipazione più concentrata e serena all’evento, partecipazione che costituisce l’optimum da realizzare per le vie più varie. L’analgesia (come peraltro ogni preparazione al parto), per realizzare al meglio questo fine, dovrebbe però far parte di un programma di assistenza alla gravidanza che si propone una visione globale del nascere e non porsi come un evento isolato, “scarsamente informato”, che viene proposto in sala parto. Con questa visione più ampia il ricorrere alla sedazione del dolore del parto non si porrebbe come alternativa al parto naturale, ma come mezzo che la medicina offre per compiere una libera scelta e per realizzare con la sedazione del dolore un maggior grado di Continua alle pagine 6 e 7 2 MEDICI ITALIANI AL SERVIZIO DI SUA MAESTÀ Negli ultimi 4 anni sono stati oltre 1.000 i camici bianchi del Belpaese che si sono iscritti al General Medical Council Sarà il fascino della Regina o, più probabilmente, le maggiori possibilità di crescita professionale e gli stipendi alti, ma sempre più medici italiani emigrano per lavoro nel Regno Unito. Negli ultimi 4 anni sono stati oltre 1.000 i camici bianchi Italiani che si sono iscritti al Gmc (General Medical Council) l’Ordine dei medici britannico, condizione necessaria per esercitare la professione Oltremanica. Per la precisione 1.048, a fronte però di una richiesta molto più alta: diversi infatti non superano l’esame di ammissione, arenandosi soprattutto contro lo scoglio della lingua. Pescare tra i camici bianchi italiani è infatti diventata una pratica sempre più diffusa da parte del servizio sanitario inglese. I più richiesti: psichiatri e neuropsichiatri infantili. Per la sua campagna acquisti, il servizio sanitario britannico ha lanciato, dopo il 2000, una campagna internazionale di reclutamento in collaborazione con l’Ambasciata britannica a Roma. Ma cosa spinge i nostri medici a oltrepassare la Manica? Secondo l’Ambasciata i motivi sono diversi. In primo luogo le condizioni di lavoro. Lo stipendio mensile può toccare anche i 7.000 euro netti. La percentuale dell’imposta sul reddito è più bassa (per questa fascia è del 39%) ma, soprattutto, sono garantite ottime possibilità di crescita professionale, avanzamento di carriera, studio e ricerca. L‘Ambasciata è riuscita a collocare, con contratti anche a tempo indeterminato, 120 medici. Un numero però che non tiene conto di tutti quei camici bianchi che agiscono per proprio conto o appoggiandosi ad agenzie di reclutamento. SEDE NAZIONALE • Via XX Settembre, 98/E • 00187 Roma • Tel. 06.47825272 • Fax 06.47882016 • e-mail: [email protected] PRESIDENTE NAZIONALE • Dott. VINCENZO CARPINO • Via E. Suarez, 12 • 80129 Napoli • Tel. 081.5585160 • Fax 081.5585161 • e-mail: [email protected] Organo Ufficiale dell’A.A.R.O.I. VICE PRESIDENTE NORD • Dott. GIANMARIO MONZA • Via C. Franchi, 120 • 21040 Cislago (Va) • Tel. e Fax 02.96409202 • e-mail: [email protected] VICE PRESIDENTE CENTRO • Dott.MARCOCHIARELLO•ViaCav.diV.Veneto,34•62027S.SeverinoM.(Mc)•Tel.0733.633601•Fax0733.646140•e-mail:[email protected] VICE PRESIDENTE SUD • Dott. MARIO RE • Via Michelangelo, 450 • 90135 Palermo • Tel. 091.6662927 • Fax 091.6662920 • e-mail: [email protected] PRESIDENTE SIARED • Dott. GIUSEPPE MARRARO • Via Marco Polo, 55 • 20049 Concorezzo (Mi) • Tel. 039.6042128 • Fax 02.700404589 • e-mail: [email protected] PRESIDENTE SIAARTI • Prof. LUCIANO GATTINONI • Piazza dei Daini, 3 • 20126 Milano • Tel. 02.55033231 • Fax 02.55033230 • e-mail: [email protected] COORDINATORE UFFICIO ESTERI • Dott.ssa RAFFAELLA PAGNI • Via Zuccari, 6/A • 60129 Ancona • Tel. 071.33271 - 5962313 • Fax 071.5962310 • e-mail: [email protected] Autorizzazione Tribunale di Napoli 4808 del 18/10/1996 Direttore Responsabile VINCENZO CARPINO SEGRETARIO • Dott. UMBERTO VINCENTI • Corso Garibaldi, 47 • 84123 Salerno • Tel. 089.223093 • Fax 081.8234797 • e-mail: [email protected] TESORIERE • Dott. MAURIZIO GRECO • Via A. Minichini, 8 (IV Trav ersa) • 80035 Nola (Na) • Tel. 081.5585160 - 081.5124497 • Fax 081.5585161 • e-mail: [email protected] ABRUZZO • Dott. Stefano MINORA • Via Galilei, 13 • 64015 Nereto (Te) • Tel. 0861.855371 • Tel. e fax 0861.810476 • e-mail: [email protected] Vice Direttori MARCO CHIARELLO GIANMARIO MONZA MARIO RE BASILICATA • Dott. Nicola SCACCUTO • Largo Mercato, 4 • 85057 Tramutola (Pz) • Tel. 0975.353750 • Fax 0975.612596 • e-mail: [email protected] CALABRIA • Dott. Guido MINUTO • Via S. Lucia al Parco, 6 • 89124 Reggio Calabria • Tel. 0965.28039 - 0982.977356 • Fax 0982.977270 • e-mail: [email protected] CAMPANIA • Dott. Elio RECCHIA • Via E. Suarez, 12 • 80129 Napoli • Tel. 081.5585160 • Fax 081.5585161 • e-mail: [email protected] EMILIA ROMAGNA • Dott.ssa Teresa MATARAZZO • Via De’ Romiti, 16 • 44100 Ferrara • Tel. 0532.769596 • Fax 0532.711453 • e-mail: [email protected] FRIULI-VENEZIAGIULIA•Dott.SergioCERCELLETTA•ViaS.Slataper,2/A•33100Udine•Tel.0432.530144-0432.552428•Fax0432.231977•e-mail:[email protected] LAZIO • Dott. Quirino PIACEVOLI • Via Andrea Barbazza, 154 • 00168 Roma • Tel. e Fax 06.6149007 • e-mail: [email protected] LIGURIA • Dott. Pasquale DE BELLIS • Via di S. Zita, 1/14D • 16129 Genova • Tel. 010.565263 -010.5552539 • Fax 010.5556860 • e-mail: [email protected] LOMBARDIA • Dott. Gianmario MONZA • Via C. Franchi, 120 • 21040 Cislago (Va) • Tel. e Fax 02.96409202 • e-mail: [email protected] MARCHE • Dott. Marco CHIARELLO • Via Cav. di V. Veneto, 34 • 62027 S. Severino M. (Mc) • Tel. 0733.633601 • Fax 0733.646140 • e-mail: [email protected] MOLISE • Dott. Roberto GRAMEGNA • Via delle Orchidee, 23 • 86039 Termoli (Cb) • Tel. 0875.83660 - 0875.7159323 • Fax 0875.702484 • e-mail: [email protected] PIEMONTE - VALLE D’AOSTA • Dott. Bruno BARBERIS • Corso Re Umberto, 138 • 10128 Torino • Tel. e Fax 011.3186439 • e-mail: [email protected] PROVINCIA DI BOLZANO • Dott. Massimo BERTELLI • Via Hoertmoos, 33 • 39018 Terlano (Bz) • Tel. 0471.933267 - 0471.908675 • e-mail: [email protected] PROVINCIA DI TRENTO • Dott. Giorgio CESARI • Via Man di Sant’Antonio, 17/2 • 38100 Trento • Tel. 0461.921472 - 0461.755289 • Fax 0461.921472 • e-mail: [email protected] PUGLIA • Dott. Antonio AMENDOLA • Piazza A. Diaz, 11 • 70121 Bari • Tel. e Fax 080.5540557 • e-mail: [email protected] SARDEGNA • Dott. Paolo CASTALDI • Via Einaudi, 40 • 09127 Cagliari • Tel. 070.664440 - 6094345 • Fax 070.42939 • e-mail: [email protected] SICILIA • Dott. Mario RE • Via Michelangelo, 450 • 90135 Palermo • Tel. 091.6662927 • Fax 091.6662920 • e-mail: [email protected] TOSCANA • Dott. Fabio CRICELLI • Via S. Donato, 24-4 • 50127 Firenze • Tel. 055.360415 - 055.3245661 • Fax 055.39069595 • e-mail: [email protected] UMBRIA • Dott. Luigi RINALDI • Strada di Piedimonte, 8-D • 05100 Terni • Tel. 0744.205262 • Tel. e Fax 0744.306131 • e-mail: [email protected] L’A.A.R.O.I. su INTERNET: www.aaroi.it Comitato di Redazione GIAN MARIA BIANCHI FELICE OCCHIGROSSI POMPILIO DE CILLIS COSIMO SIBILLA Direzione, Redazione, Amministrazione VIA E. SUAREZ, 12 - 80129 NAPOLI Tel. 081.5585160 - Fax 081.5585161 e-mail: [email protected] Progetto grafico realizzazione e stampa MEDIA PRESS s.a.s. Via Manzoni , 54 - 82037 Telese Terme (Bn) www.mdpress.it e-mail: [email protected] Il giornale è inviato gratuitamente a tutti gli iscritti all’AAROI Chiuso in Redazione il 21 marzo 2007 Tiratura: 10.000 copie Spedito il 27 marzo 2007 3 Continua dalla prima pagina Gli Anestesisti Rianimatori italiani mobilitati a difesa ... gore prevede che le Scuole di Specializzazione debbano essere presenti in almeno due quinti degli Stati membri e, quindi, in almeno 10 su 27. 3) Il parere del Ministero dell’Università sull’istituzione della nuova Scuola, sostanzialmente privo di motivazione. 4) Il CUN (Consiglio Universitario Nazionale) non ha espresso alcun parere favorevole all’adozione del provvedimento che istituisce la Scuola di Specializzazione, così come risulta dai resoconti delle sedute del Consiglio. 5) Il parere del Consiglio Superiore di Sanità del 28/4/2005, che ancora non è dato di conoscere e che sarebbe in contraddizione con i precedenti pareri dello stesso organo relativamente all’assetto stabilito dal D.M. dell’1/8/2005. 6) Il Ministero dell’Università con il D.M. 1/8/2005, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 5/11/2005, ha provveduto al riassetto completo delle Scuole di Specializzazione di area sanitaria adeguandosi alla normativa comunitaria ed a quella dei Paesi europei, nonché in aderenza alla disciplina generale degli studi universitari (D.M.270/2004).Aseguito di una complessa istruttoria sono state individuate le tre aree (medica, chirurgica e dei servizi) all’interno delle quali sono state identificate 52 tipologie di Scuole di Specializzazione tra le quali non è stata prevista una Specializzazione in Medicina di Emergenza Urgenza, in quanto non conforme ai parametri europei e non prevista specificatamente dalla normativa del Dlgs. 368 del 17/8/1999, allegato C. 7) La mancata previsione, sia nell’elenco dell’allegato C al Dlgs. 368/1999 che nel D.M. 1/8/2005, di una Scuola di Specializzazione Continua dalla prima pagina La posizione dell’AAROI sul caso Welby ziente e tenta di far rientrare l’eutanasia attiva tra i compiti della professione medica. Ben diversa è la problematica relativa all’accanimento terapeutico, situazione con la quale gli Anestesisti Rianimatori si confrontano spesso e che si concretizza da una parte nella desistenza a continuare cure evidentemente inutili a causa dell’evoluzione terminale della malattia, dall’altra nel sostegno del proprio paziente fino agli ultimi istanti della sua esistenza terrena. La nostra legislazione, il nuovo Codice deontologico, i documenti della Chiesa e le linee guida delle Società Scientifiche degli Anestesisti Rianimatori, sono esaustive in merito ed appaiono ben chiare nel discriminare, non approvandolo, l’atto che provoca intenzionalmente la morte (eutanasia attiva), dalla desistenza terapeutica. Merita, invece, un approfondimento legislativo il tema del testamento biologico che, opportunamente modulato, deve essere inquadrato come un preventivo consenso/dissenso informato della persona, relativamente a possibili futuri trattamenti di mantenimento in vita in situazioni di patologie croniche irreversibili e che trova il suo sostegno in primis nel dettato costituzionale, che, all’aricolo 32 recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Anche in questo caso, tuttavia, la persona sofferente ha diritto di ricevere, e il medico ha il dovere di offrire, secondo scienza e coscienza, tutto il sostegno ed il supporto che l’ammalato è disposto ad accettare, con la finalità di attenuarne le sofferenze. Seppure in tale situazione estrema infatti, il rapporto è quello fiduciario dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente, nel rispetto della centralità del paziente e dell’autonomia professionale ed etica del medico, non confinabile al me- ro compito di esecutore materiale del volere del paziente, stante il fatto che non appare possibile sistematizzare, generalizzandola, l’evoluzione della malattia. Gli Anestesisti Rianimatori Italiani riconoscono la dignità dell’esistenza ed il valore unico ed irripetibile di ogni essere umano, punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Questo riconoscimento richiede anche concreti investimenti sia sul piano economico che su quello culturale, per favorire un’idea di cittadinanza allargata che comprenda tutti. Da sempre questi professionisti si impegnano affinché la medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscano adeguate e più esaustive risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza, evitando di creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie a se stessi. Occorre rinsaldare nel Paese la certezza che ognuno riceverà cure adeguate e che, prima di pensare alla sospensione dei trattamenti, verrà garantita al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. Solo così lo sviluppo della medicina viene reso possibile: la concezione “positiva” dell’esistenza umana, capace di accettare la sfida dell’assistenza e della cura, anche di fronte alla patologia più severa e al declino fisico e psichico della vecchiaia, rappresenta per gli Anestesisti Rianimatori Italiani il cardine della loro professionalità. Non si può chiedere a questi medici specialisti dell’area critica di fare il possibile per salvare vite umane e nello stesso tempo di staccare la spina spegnendole. in Medicina di Emergenza Urgenza si spiega agevolmente. Questa specializzazione non corrisponde né ai reali interessi scientifici e didattici universitari, né alle esigenze del Servizio Sanitario Nazionale. Interessi ed esigenze che vengono invece soddisfatti dalla Scuola di Specializzazione in Anestesia e Rianimazione, che presenta un ordinamento coerente che prevede una serie di studi approfonditi di alto profilo oltre che esperienze pratiche nei diversi settori dell’emergenza. L’Emergenza Urgenza non è una disciplina, ma soltanto una condizione clinica che può presentarsi in tutte le discipline medico chirurgiche, per cui è assurdo prevedere una specializzazione che affronti tutte le emergenze proprie delle specifiche discipline. Un’attenta lettura delle finalità e degli obiettivi formativi di questa specializzazione, attribuisce a questo nuovo specialista un diploma di “tuttologo” che spazierebbe dalla cardiologia alla allergologia, dalla terapia intensiva alla ematologia, dalla gastroenterologia alla oncologia, dalla psichiatria alla radiologia. Per non parlare delle “attività professionalizzanti obbligatorie”, previste dagli obiettivi formativi che richiedono tra l’altro: a) la gestione di almeno 50 traumatizzati maggiori; b) almeno 10 disostruzioni delle vie aeree; c) 30 ventilazioni con pallone Ambu; d) 20 intubazioni orotracheali in urgenza; e) saper praticare tracheotomie e ventilazioni invasive e non invasive, con l’uso di ventilatori meccanici pressometrici e volumetrici. Tutte prestazioni che duplicherebbero in peggio le competenze acquisite in molti anni di attività dalla disciplina di Anestesia e Rianimazione con elevati livelli di professionalità. È del tutto evidente, allora, che non permetteremo che gli anestesisti rianimatori italiani siano privati un poco alla volta delle competenze di parti della propria disciplina, mettendo in campo tutte le risorse disponibili fino ad arrivare alla mobilitazione generale della categoria, anche con forti ed intransigenti iniziative sindacali. Vincenzo Carpino Questioni di vita o di morte I principi fondamentali di un testamento biologico o direttiva anticipata di fine vita, prevedono che ogni cittadino, nel pieno delle proprie facoltà, possa redigere un documento che abbia un valore giuridico nel quale indicare i trattamenti sanitari che intende accettare nell’eventualità di non essere più in grado di dare il proprio consenso. L’obiettivo è quello di evitare l’accanimento terapeutico, ma anche di sollevare medici e familiari da decisioni prese in modo paternalistico in un momento di grave difficoltà. Nella realtà concreta delle cose, la redazione di un testamento biologico è auspicata da e per coloro che, prefigurando ipotesi tragiche di fine vita, ritengono che in situazioni estreme possa essere un bene morire piuttosto che essere curati. Da anni su questo argomento bioetico si è sviluppata una forte dialettica. I giuristi tendono, dal loro punto di vista, a ridurre questo dibattito in termini formali e si interrogano sulla validità che è possibile riconoscere a simili direttive anticipate, nel contesto di un ordinamento giuridico. La vita infatti non può essere considerata alla stregua di un bene disponibile. I medici, da parte loro, si interrogano sulla compatibilità dei testamenti di vita con i loro doveri deontologici. I bioeticisti discutono se, nella sfera di insindacabile autodeterminazione del malato, (quella nella quale si fa comunemente rientrare l’atto suicida che alcuni arrivano a qualificare come un vero e proprio diritto dell’uomo), si possa far rientrare la pratica eutanasica, concepita come forma di suicidio assistito non solo auspicata, ma in qualche modo prescritta da un testamento biologico. L’argomento, indubbiamente spinoso, è l’esempio emblematico di come sia facile, in “questioni di vita e di morte” inoltrarsi in un pendio scivoloso che, nel legalizzare situazioni estreme, problematiche e tutto sommato rare (l’eutanasia praticata su esplicita e consapevole richiesta, anche anticipata, del paziente), può finire per estendere la legalizzazione a casi solo apparentemente analoghi (l’eutanasia senza esplicita e consapevole richiesta). La posizione degli anestesisti rianimatori dell’AAROI è chiara: un netto “no” all’eutanasia nel senso di morte volontariamente procurata, un netto e forte “no” all’accanimento terapeutico. Nella sofferenza più grave ognuno sa quello che e’ disposto a tollerare o ad accettare in termini di cure per la propria salute e per la propria vita. Per noi medici il rispetto delle decisioni del paziente è un fondamento deontologico. Siamo pertanto pronti a rispettare una legge che riconosca al paziente questa sua potestà, peraltro mai messa in discussione e sancita dalla stessa Costituzione, ma chiediamo che anche le norme penali e civili, che attualmente non sembrano riconoscere tale potestà, siano riviste. L’esonero dalla responsabilità sul piano penale e civile non può comunque esimere il medico, di fronte ad un tema così delicato, dal dovere di essere il portatore di un progetto e il promotore di una armonica relazione medico-paziente. LaRedazione Il discutibile provvedimento dell’Ordine dei Medici di Cremona L a Commissione disciplinare dell’Ordine dei Medici di Cremona ha archiviato il “caso Riccio” ritenendo ineccepibile l’operato del medico. Ciò che mi ha sbigottito è stata l’unanimità della decisione, presa dopo lunghe ore di camera di consiglio, e mi è venuto da chiedermi come mai poteva accadere che in una città italiana, civilissima e di grande cultura, nessuno abbia avanzato dubbi su che cosa si chiedeva alla commissione di decidere. Poi sono andato con la mente ad altre “unanimità” e ne ho tratto il convincimento che pur cambiando tempi, latitudini e situazioni in genere, su certe cose si raggiunge l’accordo d’insieme se non altro per stanchezza, provocata da discussioni snervanti e spesso ripetitive. Ma sono le postille del provvedimento assolutorio (“ci auguriamo che finisca la strumentalizzazione, specie da parte della sinistra radicale chiaramente interessata ad utilizzare il caso per far passare l’eutanasia ...” ed ancora “... questa archiviazione non crea alcun precedente: nessuno si sente autorizzato d’ora in poi a seguire l’esempio di Riccio, finché non esiste una legge in materia”) ad aver suscitato in me maggior sconcerto, perché non sono riuscito a trovare un filo logico di collegamento tra loro ed il merito del provvedimento. In realtà quelle precisazioni contraddicono ed in buona misura smentiscono la decisione di archiviazione, pur denunciando l’intero travaglio dei componenti la commissione, che hanno dimostrato di non avere quel coraggio e quell’amore per la verità che era legittimo attendersi da loro. Esse hanno avallato e rafforzato la mia convinzione che il verdetto è del tutto opinabile e risponde solo ad una logica di compromesso, che se ha tranquillizzato il dott. Riccio e coloro che ne hanno condiviso l’iniziativa, ha insinuato seriamente il dubbio sull’attendibilità dei componenti la commissione cremonese. I quali, pur avendo riconosciuta innegabile rilevanza alla volontà di Welby di farla finita, non si sono chiesti da dove, come e perché sia comparso all’improvviso e da lontano questo professionista, che non è mai stato medico curante dell’infermo, non ha convissuto con lui i giorni del suo dramma psicologico, spirituale ed umano, ed è arrivato a staccare la spina animato da un malinteso spirito umanitario, forse solo per attrarre su di sé consenso ed approvazione da parte della platea mediatica, fortemente condizionata dall’ideologia politica. Molti altri, prima di lui, si erano dichiarati disposti ad intervenire, ma nessuno lo ha fatto: tutti hanno preferito attendere che giungesse il “paladino” di turno, che li cavasse da ogni impaccio e li mettesse a riparo da implicazioni di ordine giuridico e morale. Grazie alla capillare informazione dei mass-media è risaputo che la sospensione dell’attività del respiratore automatico porta in 1-3 minuti alla morte cerebrale. Il dott. Riccio ne era ben a conoscenza, dato che professionalmente svolge l’attività di anestesista rianimatore e, quindi, ha specifica competenza al riguardo. Ed è anche noto che la sedazione farmacologia indotta prima dell’interruzione ventilatoria artificiale è somministrata come provvedimento terapeutico nuovo e volontario, al fine di non far percepire al paziente (nella specie, al povero Welby) la sospensione della ventilazione artificiale ed il successivo ingresso nel “tunnel del nulla” (per chi non crede). Con ciò si realizza la morte serena. In altre parole: l’eutanasia! La somministrazione del farmaco ipnotico è un trattamento medico che entra a far parte, in questo caso, di un tutt’unico con la sospensione dell’attività ventilatoria artificiale. L’induzione dell’ipnosi era pertanto un atto illegale, perché tendeva con il resto del programma alla morte della persona. Parlare quindi di ineccepibilità dell’azione da un punto di vista deontologico mi pare sia più che opinabile, se non piuttosto ingiustificabile, perché azione volontaria finalizzata alla soppressione della vita di una persona, ancorché consenziente. Malgrado la dichiarata consensualità del paziente, il dott. Riccio sapeva benissimo che avrebbe procurato la sua morte, contro i principi etici che sono da millenni a presidio e fondamenta della professione di medico ed in quella più recente di anestesista-rianimatore. E vorrei ricordare che la specializzazione in anestesia e rianimazione non dà licenza di sopprimere velocemente la vita, sia pure giunta allo stato terminale, ma a lottare fino in fondo per salvarla. Adolfo Ruggiero Primario Emerito di Anestesia e Rianimazione Ospedale Cardarelli di Napoli 4 I Centri Grandi Ustionati in Italia S econdo il Ministero della Salute, i Centri Grandi Ustionati (CGU) sono: “strutture autonome di cure intensive dedicate alla cura di soggetti vittime di gravi traumi termici e/o lesioni dell’apparato cutaneo, generalmente inserite nell’ambito di DEA di 2º livello”. In Italia attualmente sono presenti 20 Centri Grandi Ustionati, distribuiti su tutto il territorio nazionale nella misura di: n 9 nel nord; n 3 nel centro; n 4 nel sud; n 4 nelle isole. Otto sono i centri attrezzati anche per il trattamento ventilatorio dei pazienti ustionati in modo da non trasferire il paziente in un Centro di rianimazione ed evitare così il rischio di gravi infezioni. Nei centri in questione la gestione del paziente intubato avviene in stretta collaborazione tra chirurgo plastico e anestesista rianimatore. Quest’ultimo specialista si occupa anche di praticare la narcosi nel caso in cui si debba procedere alla medicazione del grande ustionato. PIEMONTE A Torino esistono 2 CGU. Quello presso il CTO per pazienti adulti dotato di 9 posti letto attrezzati per la terapia intensiva, gestiti da medici rianimatori e chirurghi plastici. Quello per bambini (0-16 anni) si trova presso l’Azienda Ospedaliera Regina Margherita e ha 4 posti letto attrezzati per la terapia intensiva, gestiti in collaborazione con il reparto di rianimazione pediatrica dello stesso ospedale. LOMBARDIA A Milano l’unico CGU è ubicato presso l’A.O. Niguarda Cà Granda, inserito nel trauma center dell’ospedale. Dispone di 10 posti letto di terapia sub-intensiva, attualmente è in corso la riorganizzazione per poter accettare pazienti portatori di protesi ventilatoria. Il centro è gestito da chirurghi plastici in collaborazione con anestesisti rianimatori. VENETO Sono presenti 2 CGU: Padova e Verona. Quello di Padova è ubicato presso l’Azienda Ospedaliera e dispone di 8 posti letto di terapia sub-intensiva; i bambini vengono gestiti presso la divisione di chirurgia pediatrica dello stesso ospedale. Quello di Verona è operante presso l’Ospedale di Borgotrento e dispone di 7 letti di terapia sub-intensiva. LIGURIA Sono presenti 2 CGU: quello dell’Ospedale di Genova Sanpierdarena con 8 posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva e quello dell’Ospedale pediatrico Gaslini che dispone di alcuni posti letto nella divisione di chirurgia pediatrica, in regime di terapia sub-intensiva. EMILIA-ROMAGNA Sono presenti 2 CGU: quello di Cesena dislocato presso l’Ospedale Bufalini che dispone di 8 posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva e quello di Parma che è appena stato inaugurato. La nuova struttura dispone di 8 posti letto di terapia intensiva. TOSCANA Sono presenti 2 CGU: quello di Pisa è situato presso l’Azienda Ospedaliera e dispone di 7 posti letto di terapia in- I medici di altri reparti non sono obbligati a collaborare alle attività di Pronto Soccorso Il medico che lavora in un reparto di chirurgia generale ma anche in altri reparti non ha alcun obbligo di collaborare alle attività di Pronto Soccorso. È illegittima, infatti, la delibera del Policlinico Umberto I di Roma che ha stabilito l’obbligo del personale medico strutturato di supportare le attività del Dipartimento Emergenza Accettazione (DEA). Lo ha deciso il TAR del Lazio, accogliendo il ricorso di un gruppo di medici dei dipartimenti interni di chirurgia generale che, essendo stati inseriti nei turni di guardia del Dea, lamentavano il fatto che, attraverso una decisione aziendale ad effetto permanente e non transitorio, “le attività di chirurgia d’urgenza, si avvalessero della collaborazione del personale dirigente medico appartenente ad altre strutture chirurgiche non più su base volontaria”. Con sentenze n. 8387 e 8396/2003 la terza sezione ha annullato la delibera del 27 giugno 2002 perché regola con modalità permanente una fattispecie transitoria, in contrasto alle specifiche prescrizioni organizzative della Regione. Il Tar ha sostanzialmente affermato che il DEA deve avere un suo organico autonomo e pur riconoscendo che, in via provvisoria il suo funzionamento può avvenire anche utilizzando altro personale, ha escluso che si possa trasformare una forma di libera partecipazione, in uno specifico obbligo assistenziale del personale medico strutturato. tensiva e quello di Firenze che è situato presso l’Ospedale Pediatrico Meyer e dispone di 4 posti letto di terapia sub-intensiva. LAZIO L’unico CGU della regione è a Roma presso l’Ospedale S. Eugenio e dispone di 22 posti letto suddivisi in 10 posti letto di terapia intensiva e 12 di terapia sub-intensiva. È presente anche una sezione pediatrica con 8 posti letto. CAMPANIA A Napoli i CGU presenti in città sono due. Quello per adulti situato presso l’Azienda Ospedaliera Cardarelli che dispone di 15 posti letto suddivisi in 6 posti di terapia intensiva e 9 posti di terapia sub-intensiva. Quello pediatrico è gestito dall’Azienda Ospedaliera Santobono e dispone di 4 posti letto di terapia sub-intensiva inseriti nell’U.O. di chirurgia pediatrica. PUGLIA Sono presenti 2 CGU: quello di Bari è situato presso il Policlinico Consorziale e dispone di 8 posti letto suddivisi in 3 di terapia intensiva e 5 di terapia sub-intensiva. Quello di Brindisi è situato presso l’Azienda Ospedaliera di Summa e dispone di 10 posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva. È presente anche una sezione pediatrica. SICILIA Sono presenti 2 CGU: quello di Palermo si trova presso l’Azienda Ospedale Civico e dispone di 30 posti letto di cui 12 di terapia intensiva. Quello di Catania è ubicato presso l’Azienda Ospedaliera Cannizzaro e dispone di 16 posti letto suddivisi in 7 di terapia intensiva e 9 di terapia sub-intensiva. SARDEGNA Sono presenti 2 CGU: quello di Cagliari è localizzato presso l’Ospedale SS. Trinità e dispone di 12 posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva; i bambini vengono trattati presso l’U.O. di chirurgia pediatrica. Quello di Sassari si trova presso l’Ospedale SS. Annunziata e dispone di 5 posti letto di terapia sub-intensiva. Il paziente grande ustionato è un malato da terapia intensiva ad alto contenuto tecnologico e con personale sia medico che infermieristico addestrato e dedicato. In questo ambito bisogna favorire la collaborazione attiva tra chirurghi plastici e anestesisti rianimatori e contestualmente creare una formazione specialistica per il personale infermieristico, definendo i requisiti tecnico strumentali e di personale necessari a far funzionare al meglio queste importantissime strutture. 5 CORSO ITINERANTE A.A.R.O.I.-S.I.A.R.E.D. ECM anno 2007 I MODULI MODULO 1 MODULO 2 MODULO 3 NUOVE POSSIBILITÀ DI ASSISTENZA DELLA GRAVIDA DURANTE IL PARTO: LA PARTO ANALGESIA QUALE POSSIBILE REALTÀ OPERATIVA QUOTIDIANA “SURVIVING SEPSIS CAMPAIGN”: DAL RICONOSCIMENTO CLINICO DELLA SEPSI AI SUOI POSSIBILI ATTUALI TRATTAMENTI UPDATE SULLE NUOVE POSSIBILITÀ DI IMPIEGO DELLA VENTILAZIONE ARTIFICIALE IN DIFFERENTI CONTESTI PATOLOGICI Adriana Paolicchi – Stefano Brauneis – Agostino Brizzi Daniela Del Santo – Piero Filice – Pino Pasqua. Massimo Girardis – Fabio Baratto – Marco Marietta Antonio Pesenti – Giorgio Tulli – Abele Donati. Carlo Capra – Antonella Manieri – Giuseppe A. Marraro Tiziana Principi – Cristian Romani. SEDI E REFERENTI REGIONALI BARI (tutti i moduli) KURSAAL SANTALUCIA (Sala Giuseppina) Largo Adua – Bari MILANO (modulo 3) Aula Magna VILLA MARELLI Viale Zara – Milano MILANO (moduli 1 e 2) Aula Magna A.O. NIGUARDA CÀ GRANDA P.za Maggiore, 3 – Milano CAMPANIA NAPOLI (tutti i moduli) HOTEL DELLE TERME DI AGNANO Via Agnano Astroni, 24 – Napoli SARDEGNA ORISTANO (tutti i moduli) HOTEL CARLO FELICE Statale 131, Km 102 – Tramazza (OR) FIRENZE (modulo 1) HOTEL UNAWAY – Subito all’uscita del casello di Firenze Nord della A1 FIRENZE (moduli 2 e 3) HOTEL ALEXANDER Viale Guidoni, 101 – Firenze. VICENZA (tutti i moduli) Centro Congressi VIEST HOTEL Strada Pelosa, 241 (Uscita autostrada Vicenza Est) ALESSANDRIA (moduli 1 e 2) Aula Magna LICEO SCIENTIFICO “G. GALILEI” Spalto Borgoglio, 49 – Alessandria GENOVA (modulo 3) Aula Magna OSPEDALE SAN MARTINO Largo Rosanna Benzi, 10 – Genova EMILIA ROMAGNA BOLOGNA (tutti i moduli) Auditorium REGIONE EMILIA ROMAGNA Via Aldo Moro, 18 – Bologna Dott.ssa Teresa MATARAZZO CALABRIA LAMETIA TERME (tutti i moduli) Sala Congressi GRAND HOTEL LAMETIA Piazza Lametia – Lametia Terme Dott. Guido MINUTO SICILIA PALERMO (tutti i moduli) Sala Congressi ALBERGO ATHENEUM Viale delle Scienze – Palermo LAZIO – UMBRIA TERNI (tutti i moduli) Sala Conferenze A.O. “S. MARIA TERNI” Via Tristano di Joannuccio, 1 – Terni Dott. Luigi RINALDI MARCHE – ABRUZZO – MOLISE S. BENEDETTO DEL TRONTO (tutti i moduli) Sala Convegni HOTEL CALABRESI Lungomare C. Colombo (Isola Pedonale Rotonda) San Benedetto del Tronto Dott. Mario NARCISI PUGLIA – BASILICATA LOMBARDIA TOSCANA VENETO – FRIULI VENEZIA GIULIA TRENTO – BOLZANO PIEMONTE – LIGURIA Dott. Marcello DI FONZO Dott. Carlo CAPRA Dott. Antonio TROIANO Dott. Giovanni Maria PISANU Dott. Paolo FONTANARI Dott. Flavio MICHIELAN Dott. Gian Maria BIANCHI Dott. Emanuele SCARPUZZA IL CALENDARIO 14 APRILE 19 MAGGIO 5 MAGGIO 9 GIUGNO BARI modulo 2 NAPOLI modulo 1 ALESSANDRIA modulo 1 PALERMO modulo 1 FIRENZE modulo 1 ORISTANO modulo 2 BOLOGNA modulo 2 TERNI modulo 2 MILANO modulo 3 VICENZA modulo 3 LAMETIA TERME modulo 3 S. BENEDETTO DEL T. modulo 3 23 GIUGNO 29 SETTEMBRE 8 SETTEMBRE 13 OTTOBRE BARI modulo 3 NAPOLI modulo 2 ALESSANDRIA modulo 2 PALERMO modulo 2 FIRENZE modulo 2 ORISTANO modulo 3 BOLOGNA modulo 3 TERNI modulo 3 MILANO modulo 1 VICENZA modulo 1 LAMETIA TERME modulo 1 S. BENEDETTO DEL T. modulo 1 27 OTTOBRE 24 NOVEMBRE 10 NOVEMBRE 15 DICEMBRE BARI modulo 1 NAPOLI modulo 3 GENOVA modulo 3 PALERMO modulo 3 FIRENZE modulo 3 ORISTANO modulo 1 BOLOGNA modulo 1 TERNI modulo 1 MILANO modulo 2 VICENZA modulo 2 LAMETIA TERME modulo 2 S. BENEDETTO DEL T. modulo 2 Il corso è patrocinato dalla FISM (Federazione delle Società Medico Scientifiche Italiane) 6 Continua dalla prima pagina Negli ospedali italiani il parto sarà senza dolore consapevolezza e di partecipazione all’evento. La realizzazione di tale progetto richiede una mobilitazione su vari piani. Quello che attualmente si fa è lasciato alla buona volontà delle strutture ..., non esiste infatti, per questo tipo di assistenza alcun incentivo di natura economica né per le aziende ospedaliere né per gli anestesisti rianimatori. Le Unità Operative come numero di personale coprono le attività essenziali, laddove sarebbe necessario, per realizzare una analgesia 24 ore su 24, un servizio di anestesia ostetrica a tempo pieno. Il diritto della partoriente di scegliere una anestesia efficace dovrebbe essere incluso tra quelli garantiti a titolo gratuito nei livelli essenziali di assistenza. Il documento del Comitato di bioetica sulla terapia del dolore si è maturato in un periodo in cui le problematiche connesse al controllo del dolore, nel rispetto della dignità del paziente, hanno trovato riscontro in varie iniziative anche di carattere normativo. Il decreto-legge 28 dicembre 1998, n. 450, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 1999, n. 39 ha introdotto nel Ssn una nuova struttura, l’“hospice” e ha delineato le linee organizzative della rete assistenziale per le cure palliative, individuando tra i suoi obiettivi specifici: “Assicurare ai pazienti una forma di assistenza finalizzata al controllo del dolore e degli altri sintomi, improntata al rispetto della dignità, dei valori umani, spirituali e sociali di ciascuno di essi e al sostegno psicologico e sociale del malato e dei suoi familiari”. Il 24 maggio 2001, per migliorare l’organizzazione di processi assistenziali in funzione del controllo del dolore, lo Stato e le Regioni hanno stipulato l’accordo “Linee guida per la realizzazione dell’Ospedale senza dolore”, definendo gli indirizzi che consentono la realizzazione, a livello regionale, di progetti indirizzati al miglioramento del processo assistenziale specificamente rivolto al controllo del dolore di qualsiasi origine. In sintonia con quanto sopra riportato, il presente documento nasce dalla volontà di tutelare la scelta della donna perché durante il travaglio e il parto possa usufruire di un controllo efficace del dolore mediante le più appropriate procedure analgesiche attualmente disponibili, nel massimo della sicurezza propria e del nascituro. In particolare, il documento si muove nell’ottica dei principi espressi a tale proposito nell’ambito del Piano sanitario nazionale 2006-2008 (Dpr 7 aprile del 2006) e tiene conto di quanto previsto nel disegno di legge recentemente presentato al Parlamento “Norme per la tutela dei diritti della partoriente, la promozione del parto fisiologico e la salvaguardia della salute del neonato” che fa riferimento tra l’altro al citato Psn. In questo quadro è necessario soprattutto defi- nire le modalità operative per praticare l’analgesia nel quadro di un articolato programma di assistenza alla gravidanza che si ritiene indispensabile. Per una migliore organizzazione, gestione e impiego delle risorse nell’ambito del progetto sulla gravidanza protetta è necessario individuare e condividere a livello nazionale e regionale, regole attraverso le quali le diverse professionalità operanti nel sistema si confrontino, sulla base delle rispettive competenze. Nell’ambito di questa visione complessiva sulla tutela della gravidanza, il Ssn si fa promotore della diffusione e dell’utilizzo delle tecniche di procedure analgesiche durante il travaglio e il parto per via vaginale nelle proprie strutture, definendo il percorso assistenziale, le linee di responsabilità e gli indicatori, per garantire quell’apertura culturale e sociale che è necessaria per affrontare una gestione moderna del travaglio e del parto, per rendere più umano il percorso stesso e, soprattutto, per aumentarne la sicurezza. La mortalità e morbosità materna correlate al travaglio e/o al parto sono fenomeni sempre più rari nei Paesi socialmente avanzati. Tuttavia, le indagini confidenziali e i comitati sulla mortalità materna istituiti in diversi Paesi europei rilevano un’incidenza del fenomeno maggiore di quanto le notifiche volontarie riportano, e stimano che circa la metà delle morti materne rilevate potrebbe essere evitata grazie a migliori standard assistenziali. Il tasso di mortalità materna rilevato in Italia dall’Istat per il quinquennio 1998-2002 è pari a 3 x 100.000 nati, tuttavia da indagini regionali è stato riscontrato un tasso di mortalità materna per il triennio 96/98 di 13 morti materne su 100.000 nati, che è molto superiore al dato nazionale Istat ed è in linea con quello rilevato nella gran parte dei Paesi socialmente avanzati. La partecipazione dell’anestesista rianimatore al percorso nascita deve essere vista, quindi, non solo come la possibilità di abolire il dolore, ma come garanzia in caso di emergenza, così come accade in tutte le altre specialità chirurgiche. La gravidanza e il parto sono infatti eventi fisiologici che possono talora complicarsi in modo non prevedibile e con conseguenze gravi per la donna, per il nascituro e per il neonato. L’effettuazione delle procedure anestesiologiche comporta la presenza dell’anestesista-rianimatore nei dipartimenti materno-infantili, il quale collabora/si integra con neonatologi e/o pediatri oltre che con gli ostetrico-ginecologi e le ostetriche in tutte le strutture di ricovero a tale scopo individuate. La presenza dell’anestesista è indispensabile in particolar modo nelle gravidanze e nei parti a rischio e pertanto si rendono necessarie la stesura e l’applicazione di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi che prevedano, un co- involgimento precoce dell’anestesista-rianimatore, la cui professionalità è comunque coinvolta nei parti cesarei; a questo proposito si ricorda che i parti cesarei nel 2003 erano in Italia pari al 36,9% del totale dei parti e che l’eccessivo e inappropriato ricorso a tale procedura sottrae risorse qualificate che potrebbero essere destinate allo sviluppo delle tecniche di controllo del dolore nel parto vaginale. Perché il programma assistenziale alla gravidanza possa avere successo è necessario promuovere una forte interdisciplinarietà e la creazione di meccanismi interni di “protezione” degli operatori coinvolti, che vanno garantiti da una scelta coerente degli organi istituzionali che tengano conto di obiettivi generali di promozione della salute, di umanizzazione dell’assistenza, di contenimento del dolore, come più volte concordato in vari documenti dallo Stato e dalle Regioni, e non esclusivamente di obiettivi di contenimento della spesa e incoraggino l’adozione di appropriate misure assistenziali e organizzative per evitare o minimizzare l’insorgenza di eventi avversi nell’assistenza al parto e al post-partum in modo da ridurre la mortalità e morbosità potenzialmente evitabile. Il presente documento definisce pertanto i criteri essenziali strategici, gestionali e organizzativi, per l’attivazione e l’organizzazione di un servizio di anestesia in ostetricia, nell’ambito delle più complessive misure dirette a rendere più sicura l’assistenza al travaglio/parto, predisponendo un programma assistenziale condiviso che individui i percorsi omogenei e gli standard di sicurezza necessari per la tutela delle partorienti e degli operatori. L’interesse per il controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale si è molto esteso negli ultimi venti anni in tutto il mondo: si stima che negli Stati Uniti vi faccia ricorso più della metà delle donne che partoriscono. Sono state sollevate alcune perplessità legate sia a ragioni di ordine culturale, sia a supposti eventi avversi legati alla dinamica del parto, al suo espletamento e/o all’outcome neonatale, tuttavia un documento ufficiale recente (6 giugno 2006) da parte di un qualificato organismo scientifico si esprime nei seguenti termini. L’American College degli ostetrici/ginecologi riafferma l’opinione già pubblicata congiuntamente con la Società americana di anestesiologia nella quale è stata espressa la seguente dichiarazione: “II travaglio comporta notevole dolore per molte donne. Non ci sono altri casi nei quali viene considerato accettabile che un individuo debba sopportare un dolore severo, senza trattamento, quando è possibile invece intervenire in modo sicuro sotto controllo medico. In assenza di una controindicazione medica la richiesta della madre è di per sé una indicazione sufficiente per alleviare il dolore durante il travaglio”. L’American College riconosce che “sono disponibili molte tecniche di analgesia nelle pazienti in travaglio. Nessuna di queste tecniche è associata con un accresciuto rischio di parto cesareo. La scelta della procedura, dei farmaci e dei dosaggi dipende da molti fattori, tra i quali la preferenza della donna, le condizioni mediche e le controindicazioni”. 2. Definizione tecnica delle procedure L’analgesia per il travaglio e il parto vaginale può essere ottenuta con tecniche farmacologiche; esistono, tuttavia, altre tecniche di assistenza al parto vaginale che comprendono la psicoprofilassi, il parto in acqua, l’agopuntura, l’ipnosi ecc. Attualmente la letteratura corrente concorda nel ritenere che la tecnica più efficace per l’analgesia nel travaglio e nel parto sia quella ottenuta con l’anestesia locoregionale e più propriamente con i blocchi centrali eseguiti a livello lombosacrale. Per blocco centrale si intendono una serie di tecniche locoregionali che permettono la somministrazione di anestetici locali e oppioidi in prossimità del midollo spinale (corna posteriori dove sono posizionati i neuroni che trasmettono il dolore). Le tecniche di uso comune sono attualmente: il blocco peridurale (o epidurale), il blocco subaracnoideo (detto anche spinale) e il blocco combinato spino-peridurale. n Blocco peridurale. La procedura si ottiene con l’introduzione di un cateterino nello spazio peridurale (spazio ripieno di grasso e vasi posto anteriormente alle meningi) attraverso un ago (ago di Tuohy) posizionato precedentemente in detto spazio. A seconda del momento del travaglio si introducono oppioidi, anestetici locali o miscela dei due che bloccano la trasmissione del dolore. La procedura deve essere eseguita da un anestesista-rianimatore. La somministrazione dei farmaci può essere eseguita a boli refratti (top-up) con pompe in infusione continua o con pompe preimpostate e regolate nella somministrazione dalla partoriente, tramite un pulsante alla comparsa del dolore (Patient Controlled Epi-dural Analgesia). n Blocco subaracnoideo. Il blocco si ottiene con l’introduzione di oppioidi e/o anestetici locali direttamente nel liquido cefalo-rachidiano (Lcr), attraversando con un ago di piccole dimensioni (ago da spinale; ne esistono diverse versioni) le due meningi che proteggono il midollo spinale, la dura madre e l’aracnoide. La somministrazione in questo caso è unica e non può essere ripetuta come per il blocco peridurale. In realtà esiste la possibilità di eseguire una cateterizzazione dello spazio subaracnoideo, ma attualmente la letteratura ha ancora delle riserve per questa tecnica nella sua attuazione in caso del travaglio di parto. n Blocco combinato spino-peridurale (o epiduro-spinale). La procedura è la combinazione delle due precedenti, cioè: repertamento dello spazio peridurale tramite ago di Tuohy, introduzione dell’ago spinale attraverso detto ago e somministrazione della dose subarac-noidea, estrazione dell’ago spinale e introduzione del catetere peridurale attraverso l’ago di Tuohy. Questa procedura permette i vantaggi delle due precedenti senza aumentarne i rischi. Come tutte le tecniche invasive queste procedure possono avere delle controindicazioni che ne impediscono l’attuazione e dar luogo a complicanze. 3. Attuale ricorso alla procedura Per quanto già da oltre quindici anni in alcuni ospedali italiani sia stata introdotta la tecnica dell’analgesia durante il travaglio e il parto vaginale, prima in via sperimentale, poi in modo routinario, non si dispone di dati sicuri sul suo effettivo utilizzo, dal momento che nei flussi informativi correnti spesso non viene registrato il ricorso a tecniche analgesiche in corso di travaglio di parto. L’analisi delle Schede di dimissione ospedaliera (Sdo) relative all’anno 2003 rileva che la procedura “Iniezione di anestetico nel canale vertebrale per analgesia” risulta praticata nel 12,4 per mille parti vaginali (4.141 su 332.759) e nel 3,6 per mille dei parti cesarei (705 su 198.261 ). Il dato è certamente sottostimato ma conferma comunque le difficoltà di accedere a questo tipo di analgesia. 4. Obiettivo Attraverso l’adozione dei necessari standard di sicurezza per l’unità materno-fetale e per il team sanitario dedicato, successivamente indicato, omogenei su tutto il territorio nazionale si intende garantire la possibilità di rispondere in maniera adeguata alla richiesta di controllo del dolore durante il travaglio e il parto, mediante un percorso organizzativo e clinico che valuti il ricorso alla procedura in termini di rischio/beneficio e che si realizza attraverso le seguenti azioni. 5. Il modello organizzativo n II responsabile della procedura clinica anestesiologica, per quanto riguarda le competenze specifiche e per tutta la durata della stessa, è lo specialista in anestesia e rianimazione dell’area materno-infantile. I responsabili della procedura clinica ostetrico-ginecologica per tutta la durata del travaglio e del parto sono, in relazione alle proprie competenze, l’ostretico-ginecologo e l’ostetrica. Questi possono avvalersi, ove lo reputino necessario, della collaborazione di personale infermieristico specificatamente istruito nel monitoraggio della partoriente, comunque definito nell’ambito di procedure e protocolli specifici, elaborati secondo Ebm, codificati, condivisi e validati. La richiesta di analgesia da parte della donna deve essere sempre validata dal parere favorevole del ginecologo ostetrico e dell’anestesista. n Alle gestanti, per una scelta libera, consapevole e responsabile, devono essere fomite informazioni adeguate e complete sulle metodiche di analgesia e sulle tecniche di supporto, farmaco- 7 logico e non, per il controllo del dolore. Tali informazioni devono comprendere le relative indicazioni, i possibili benefici per la madre e per il feto, le controindicazioni, nonché le eventuali complicanze. Deve essere altresì fatto presente che il ricorso a una analgesia farmacologica può modificare l’andamento temporale della curva di dilatazione/discesa della testa fetale, rispetto a quello di riferimento attuale (curva di Friedman/Zhang) senza comunque alterare la dinamica del parto. Dette informazioni, fornite dall’anestesista, devono essere parte integrante dei corsi di accompagnamento alla nascita, organizzati dai consultori familiari in collaborazione con le équipes ospedaliere, finalizzati a garantire la continuità assistenziale tra ospedale e territorio in aderenza a quanto previsto dal Progetto obiettivo materno-infantile. In ogni caso, le gestanti che intendono usufruire di una procedura anestesiologica durante il travaglio e il parto devono essere preventivamente sottoposte a visita specialistica preferibilmente durante l’ultimo mese di gravidanza, e/o prima, ove sussistano patologie comprovate legate o no alla gravidanza. Durante la visita deve essere compilata una cartella con i dati anamnestici e clinici della gestante e dopo adeguata informazione deve essere richiesto e sottoscritto il consenso all’effettuazione della procedura. Detta cartella verrà integrata successivamente con i dati relativi alla analgesia, durante la sua effettuazione. In assenza di visita preventiva, la cartella verrà compilata all’atto della richiesta dell’analgesia e verranno valutati il rischio/beneficio e la possibilità di esecuzione. Come complemento al colloquio informativo della gestante è opportuno consegnare un opuscolo che illustri le tecniche, le indicazioni, le controindicazioni e gli eventuali effetti collaterali delle procedure analgesiche. n Per l’esecuzione delle procedure devono essere elaborati protocolli clinici, organizzativi e assistenziali a cura degli ostetrici-ginecologi, degli anestesisti rianimatori e delle ostetriche e del personale infermieristico ove presente. I protocolli devono essere condivisi a livello multidisciplinare, approvati dagli organi istituzionali, adeguati alle caratteristiche della struttura, facilmente consultabili e periodicamente aggiornati, oltre che continuamente verificati per quanto riguarda la loro adozione e i risultati ottenuti, secondo i principi di governo clinico localmente adottati. n È indispensabile un programma di formazione specifica aziendale che coinvolga anestesisti, ginecologi neonatologi/pediatri e ostetriche, le cui finalità devono essere: ! acquisizione di capacità clinico-diagnostiche nell’ambito dell’Anestesia in ostetricia; ! prevenzione delle situazioni di rischio materno e neonatali tendenti a diminuire morbilità e mortalità; ! miglioramento dell’organizzazione dipartimentale in funzione della costruzione di percorsi diagnostico-terapeutici che favoriscano l’integrazione e la collaborazione multidisciplinare (governo clinico); ! lagestionedelrischioclinicoasalvaguardiaetu- tela della sicurezza dei pazienti e del personale. Detti programmi, da considerare propedeutici all’attivazione del progetto, devono essere condotti nell’ambito dei programmi Ecm privilegiando, oltre a sistemi tradizionali, la formazione sul campo in centri specifici di riferimento, moltiplicando esperienze multiprofessionali e interdisciplinari, con la previsione di personale esperto che, per fini didattici, presti per un periodo di tempo definito, la propria attività presso l’ospedale dove opera il personale da formare. Le strutture in cui sono già in attività servizi di anestesia ostetrica, possono fungere da riferimento per le altre strutture per il training pratico specifico purché dimostrino il riscontro dei criteri del modello organizzativo proposto e una pregressa esperienza pluriennale nell’ambito dell’applicazione delle tecniche e procedure precedentemente menzionate. Preferibilmente dovrebbero essere centri con oltre 2.500 parti/anno adeguati alla gestione di tutte le patologie della gravidanza in cui le tecniche di controllo del dolore del parto siano presenti e applicate in misura maggiore o uguale al 35 per cento. La formazione specifica di tutto il personale coinvolto: anestesisti rianimatori, ostetrici-ginecologi, ostetriche, neonatologi/pediatri, personale sanitario non medico, deve essere codificata, attuata e verificata, soprattutto per quanto attiene al riconoscimento degli effetti collaterali e delle complicanze. È assolutamente indispensabile evidenziare che l’anestesista, inserito nel percorso nascita e nel controllo del dolore da parto, deve avere una formazione specifica nel settore ostetrico e un alto livello di esperienza, per potere affrontare con equità e competenza le procedure del controllo del dolore da parto, secondo i principi della medicina basata sull’evidenza (Ebm) e della buona pratica clinica. n L’elenco delle strutture che assicurano il controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale secondo i criteri descritti deve essere disponibile a livello regionale e portato a conoscenza dei servizi per la maternità in particolare dei consultori; inoltre, nella Carta dei servizi dei singoli ospedali deve essere specificato anche il tipo di analgesia fornito durante il travaglio e il parto vaginale. n Deve essere attivato un registro regionale, aggiornato annualmente sulle procedure di controllo del dolore durante il travaglio e il parto epidurale e le complicanze. 6. Attuazione del programma nelle Regioni Le Regioni, tenendo conto delle realtà locali e dell’organizzazione in essere, provvederanno a individuare le strutture di ricovero in cui attuare le misure necessarie per assicurare il controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale alle gestanti che hanno effettuato tale scelta, senza vanificare l’equità di accesso alle prestazioni garantite dal Ssn per ragioni dipendenti dalla collocazione geografica e dalle modalità di funzionamento delle strutture di ricovero. Nella definizione dei piani operativi, le Regioni perseguiranno l’obiettivo di assicurare una risposta alla richiesta del controllo del dolore durante il travaglio e il parto in tutte le strutture di ricovero con oltre 1.200 parti /anno mentre, ove tali strutture non fossero presenti, si opererà in modo che vi siano una o più strutture che possano assicurare una risposta adeguata. Il servizio potrà essere realizzato solo ove sia presente per 24 ore al giorno una équipe multidisciplinare competente che comprenda un anestesista-rianimatore, l’ostetrico-ginecologo, il neonatologo-pediatra, e l’ostetrica, pur tenendo conto che tale modello organizzativo deve essere contestualizzato rispetto al numero di parti e di procedure richieste. In ogni caso si deve prevedere la guardia attiva o la pronta disponibilità nelle 24 ore di un anestesista-rianimatore esclusivamente dedicato alla sala parto. Per il raggiungimento di tale obiettivo possono rendersi necessario fasi di sperimentazione, tenuto conto che il servizio, a regime, deve essere garantito 24 h al giorno con un anestesista dedicato, secondo una soluzione organizzativa contestualizzata al numero di parti e di procedure richieste. Si può quindi avviare gradualmente la realizzazione operativa del progetto utilizzando fasi sperimentali transitorie, attraverso la introduzione di una pronta disponibilità dedicata che diventa presenza attiva in caso di conduzione di travaglio in analgesia. Il programma potrà essere così attuato gradatamente nel tempo: n I fase: ! nelle strutture dove ancora non è effettuata di routine la procedura: avvio formativo del personale coinvolto; ! definizione dei protocolli e dei percorsi, organigramma e funzionigramma; n II fase: ! completamento della formazione di tutto il personale coinvolto; n III fase: ! effettuazione routinaria della procedura secondo i criteri di inclusione definiti dai protocolli e dai percorsi. 7. Criticità Appare del tutto evidente che per realizzare il programma è necessario un incremento di attività da parte della figura del medico della disciplina anestesia e rianimazione che si traduce in un aumento del fabbisogno in ore di tali professionisti. È altrettanto noto che nel Paese sussiste una complessiva grave carenza di anestesisti-rianimatori all’interno del Ssn e che è altrettanto scarso il numero di specialisti nella disciplina che aspirano a entrare nel mondo del lavoro. Per superare tale criticità è richiesta una particolare attenzione da parte dei soggetti che concorrono alla individuazione dei fabbisogni di personale specialistico (ministro della Salute e Regioni) e del ministro dell’Università e della ricerca in sede di definizione del numero dei posti delle scuole di specializzazione, incrementando adeguatamente quelli per anestesia e rianimazione. In non poche realtà non tutte le figure professionali interessate al programma sono in grado di affrontarne la operatività su un piano di interdisciplinarietà, anche per la carenza di una formazione specifica relativa all’argomento e per la non ancora consolidata abitudine a operare secondo i metodi e lo spirito del lavoro in team. Manca un riconoscimento economico della procedura. L’inserimento della codifica 0391 “Iniezione di anestetico nel canale vertebrale per analgesia”, associato al Drg del parto, dovrebbe poter modificare il riconoscimento economico del Drg 373, 374, 375. Inoltre l’inserimento di tale codice permetterà di avere un indicatore di risultato quantitativo sull’applicazione della metodica. Per quanto attiene alla visita anestesiologica ambulatoriale prenatale può essere utilizzata la codifica 89.7 e 89.03. 8. Indicatori di risultato II riferimento esplicito al controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale come procedura compresa nell’ambito delle prestazioni garantite dai Livelli essenziali di assistenza suggerisce la necessità che l’erogazione di questa procedura possa essere sistematicamente misurata su tutto il territorio nazionale. L’indicatore di riferimento è rappresentato dal numero di parti vaginali con procedura di controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale rapportato al numero complessivo di parti effettuati in ciascun ambito territoriale. Ai fini della misurazione sistematica a livello nazionale, lo strumento di raccolta delle informazioni è rappresentato dalla Scheda di dimissione ospedaliera (Sdo). Per questo è indispensabile che venga esplicitata la necessità di codificare sempre nella Sdo l’esecuzione della procedura di controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale, anche nei casi in cui questo sia ininfluente ai fini della determinazione del Drg e della valorizzazione economica del ricovero. Ai fini della individuazione di soglie di accettabilità al di sotto delle quali si deve considerare che la procedura non può considerarsi erogata (nel senso di garantire che in ciascun ambito territoriale, opportunamente dimensionato, la procedura venga effettivamente erogata ad almeno una certa percentuale delle donne che devono partorire), è opportuno che venga messa a punto una metodologia per il monitoraggio, nel corso del tempo, della variabilità esistente nella risposta alla domanda di questa procedura, con riferimento sia alla metodologia di analisi della variabilità messa a punto nell’ambito della Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza, sia agli standard individuati a livello internazionale. È poi necessario che, a livello di singola struttura, il sistema degli indicatori e la conseguente raccolta di dati specifici venga opportunamente ampliato ai fini delle valutazioni di qualità, efficacia e sicurezza e che gli ospedali alimentino il flusso informativo sugli eventi sentinella, predisposto dal ministero della Salute. Gli indicatori che possono inizialmente essere monitorati, sono: n % di donne che ricevono il controllo del dolore durante il travaglio e il parto vaginale sul totale delle donne viste in ambulatorio, che hanno chiesto di essere sottoposte alla procedura; n % di complicanze legate alle tecniche usate sul totale delle procedure eseguite; n % di donne preventivamente visitate presso gli ambulatori di anestesiologia sul totale delle donne sottoposte a procedura. La mozione della FISM a difesa delle società scientifiche L a Federazione delle Società Medico Scientifiche Italiane (FISM) affiliate, riunite in Assemblea Straordinaria, intende sottoporre all’attenzione del Ministro della Salute e della società civile, lo stato di profondo disagio in cui versano le società stesse dopo la dichiarazione, da parte della Consulta, di incostituzionalità del decreto 31.05.2004 che stabiliva i criteri per il riconoscimento delle società scientifiche ai fini della formazione. FISM richiede al Ministro della Salute, Senatrice Livia Turco, all’Onorevole Ignazio Roberto Marino, Presidente della XII Commissione Permanente (Igiene e Sanità) del Senato e all’Onorevole Lucà, Presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera, un’audizione per esporre le difficoltà che le società scientifiche si trovano ad affrontare nella presente situazione. Intanto invia una proposta contenente i requisiti per l’accredita- mento, ritenuti fondamentali dalle Società Medico Scientifiche. n FISM propone alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri (FNOM-CeO) la costituzione di un tavolo permanente di lavoro per affrontare i seguenti temi: – Formazione medica; – Riconoscimento delle esigenze individuali di formazione e qualità; – Ruolo delle Società Medico-Scientifiche a tutela della formazione medica; – Riconoscimento alle Società Medico-Scientifiche del ruolo di Provider nazionali di formazione. n FISM dichiara di aver dato inizio alla realizzazione di un nuovo codice deontologico della Federazione all’interno del quale troveranno spazio istanze relative all’autoregolamentazione delle attività congressuali, per ciò che concerne la valutazione della qualità scientifica degli eventi e la compilazione dei budget necessari alla realizzazione degli stessi. n FISM propone alla FNOM-CeO, all’AIFA, a Farmindustria e ad Assobiomedica la costituzione di un tavolo di lavoro permanente per identificare soluzioni condivise al problema del finanziamento degli eventi formativi e congressuali ed al problema della gestione dei potenziali conflitti d’interessi. n FISM, recepite le proposte di moralizzazione e di riduzione del numero degli eventi congressuali in partenza da Farmindustria e ad Assobiomedica chiede alle due associazioni di ritirare le delibere unilaterali con le quali è stato sospeso il finanziamento delle attività di formazione congressuali al fine di favorire un clima di lavoro il più possibile sereno al tavolo di concertazione di cui al punto precedente. Milano, 31 gennaio 2007 8 U na delle problematiche più controverse in anestesia pediatrica riguarda la decisione di eseguire l’anestesia e l’intervento chirurgico nel bambino che presenta un’infezione delle vie respiratorie superiori (URI). In passato, si riteneva che i bambini con URI dovessero rinviare l’intervento fino alla scomparsa dei sintomi dell’infezione. Il razionale per tale comportamento era basato su dati empirici che suggerivano un’associazione tra l’esecuzione dell’anestesia e la comparsa di complicanze respiratorie. Anche se recenti dati clinici confermano che alcuni bambini con URI presentano un rischio maggiore di complicanze perioperatorie, queste possono, per la maggior parte, essere riconosciute in anticipo e trattate. Nonostante che il bambino con un URI rappresenti ancora una sfida, gli anestesisti si trovano in una condizione migliore per valutare e gestire questi bambini, per cui il rinvio generalizzato dell’intervento era una pratica che riguardava il passato. Tradizionalmente, nei bambini che si presentavano per la chirurgia d’elezione con un’infezione delle vie aeree superiori, l’intervento era rinviato fino alla completa scomparsa dei sintomi. Il razionale per questo comportamento era basato su dati empirici relativi all’associazione tra la somministrazione dell’anestesia ad un bambino con URI e la comparsa di complicanze respiratorie. Dati scientifici più recenti, in sostanza, hanno confermato queste osservazioni, anche se, per alcune popolazioni di chirurgia pediatriche, il rischio non sembra essere aumentato. Questi studi inoltre hanno evidenziato che, nonostante un aumento nell’incidenza delle complicazioni respiratorie perioperatorie nei bambini con URI, la maggior parte di queste è stata risolta con la comparsa di una minima morbilità. Nonostante l’importanza di questo problema clinico, non c’è ancora consenso sulla gestione anestesiologica dei bambini con URI che necessitano di chirurgia d’elezione. Anche se parecchi studi hanno affrontato quest’argomento, è stato difficile ricavarne delle linee guida basate sull’evidenza clinica in quanto gli studi differivano in modo importante nel disegno, nella definizione di URI e nei risultati. Il dibattito relativo alla decisione di annullare o procedere alla chirurgia d’elezione nel paziente con URI non è nuovo. In un commento del 1955, Ellis, mentre riconosce il rischio di complicanze, prospetta una ragione per procedere alla chirurgia anche in presenza di un URI: “Sebbene l’anestesia non è una buona cura per il comune raffreddore, è corretto aspettare che il raffreddore sia passato?„ Anche se pochi studi hanno affrontato il problema delle complicanze associate alle infezioni respiratorie, la prima indicazione ad annullare la chirurgia nei bambini affetti da URI è venuta dopo una serie di casi descritti da McGill ed altri nel 1979. Questo studio ha rilevato che 11 bambini avevano sviluppato complicanze perioperatorie importanti, compresa l’atelettasia. Di questi 11, tutti tranne 1 avevano avuto un’infezione respiratoria nel mese precedente l’intervento. Nel 1987, Tait e Knight hanno studiato 2 serie di bambini che necessitavano di chirurgia d’elezione. Nel primo sono stati rivalutati in modo retrospettivo 3585 casi dalle cartelle cliniche. I risultati non hanno evidenziato un rischio aumentato di complicazioni nei bambini con URI, ma hanno mostrato un aumento di 3,5 volte della frequenza delle complicanze respiratorie in bambini con un episodio recente URI (~2 settimana) rispetto ai bambini del gruppo di controllo. Per la possibile presenza di errori di selezione dei pazienti in questo studio, è stato eseguito uno studio successivo. Questo comprendeva 489 bambini sottoposti ad anestesia con alotano in maschera per intervento di miringotomia e posizionamento di drenaggio timpanico. Questi bambini sono stati divisi in tre gruppi (controllo, URI recente e URI in atto) sulla base della presenza o assenza di sintomi definiti in precedenza. I risultati non hanno messo in evidenza differenze fra questi gruppi relative al rischio di laringospasmo, di broncospasmo, o di apnea perioperatoria. Gli autori concludono che l’annullamento generalizzato della chirurgia nei bambini sottoposti a procedure brevi con l’anestesia con alotano senza intubazione della tra- chea potrebbe essere inutile. In apparente contrasto tra questi due studi, De Soto con altri ha evidenziato che i bambini con sintomi d’URI hanno avuto un aumento rilevante del rischio di desaturazione arteriosa postoperatoria. Altri ricercatori successivamente hanno confermato questa osservazione, anche se occorre rilevare che tutti i bambini in questi studi hanno risposto velocemente alla somministrazione di ossigeno. In uno studio relativo a questo problema, Kinouchi con altri ha evidenziato che i bambini con URI desaturavano più velocemente dei bambini senza infezione dopo un episodio di apnea. Altre complicazioni specifiche sono state associate con la presenza di un URI, compreso il broncospasmo e il laringospasmo. In uno studio longitudinale di Cohen e Cameron che ha interessato più di 20.000 bambini, quelli con i sintomi d’URI presentavano una probabilità di manifestare complicanze respiratorie 2-7 volte maggiori e 11 volte maggiori se erano intubati. Anche se importante, questo studio presenta i limiti di una documentazione incompleta del tempo di comparsa e dei sintomi dell’URI. Nonostante l’importanza di tutti questi studi nella determinazione dell’outcome nei bambini con URI, non sono stati individuati i fattori di rischio che hanno determinato questi risultati. Tuttavia, Parnis ed altri, in uno studio di 2.051 pazienti di chirurgia pediatrica, ha identificato 8 indici clinici di complicanze anestesiologiche. Questi indici, comprendevano la modalità di controllo della ventilazione (tubo endotracheale, maschera laringea, maschera facciale) la dichiarazione dei genitori che il bambino aveva avuto “un raffreddore”, una storia di russare, fumo passivo, anestetico d’induzione (tiopentone-alotano-sevoflurano-propofol), presenza d’espettorato, presenza di congestione nasale, uso di un’anticolinesterasi (blocco muscolare antagonizzato-non antagonizzato). La presenza di un’infezione respiratoria inoltre è stata implicata come un fattore di rischio per le complicazioni della via aerea in uno studio di Bordet ed altri. Come negli studi di Parnis, Tait con altri ha valutato l’incidenza ed i fattori di rischio per le patologie respiratorie in 1078 bambini sottoposti a diversi tipi d’interventi chirurgici. I risultati hanno indicato che i bambini con URI attivo e recente (nelle ultime 4 settimane) hanno avuto molti più episodi di affezioni respiratorie generali, come ridotta ventilazione, desaturazione arteriosa dell’ossigeno (Spo2 ~90%) e tosse intensa rispetto ai bambini senza URI. I fattori di rischio indipendenti per complicanze respiratorie in bambini con URI in fase attiva comprendevano l’uso di un tubo endotracheale (ETT) in un bambino di circa di 5 anni, la prematurità (circa 37 settimana), l’anamnesi positiva per facile irritabilità delle vie aeree, il fumo paterno, la chirurgia delle vie respiratorie, la presenza di secrezioni abbondanti e la presenza di congestione nasale. Tutti gli studi eseguiti in precedenza descrivono i bambini che, nonostante la presenza di un URI, erano in buona salute. Per questi bambini, posporre la chirurgia ha scarso effetto sulla loro condizione clinica o sul risultato. Tuttavia, ci sono molti bambini nei quali i benefici di una chirurgia rapida possono superare i rischi potenziali connessi con l’URI. I bambini che necessitano di un intervento urgente o di chirurgia palliativa per malattia cardiaca congenita, per esempio, possono compromettere gli apparati cardio-polmonari che possono in aggiunta essere ulteriormente aggravati dall’URI. Tuttavia sono disponibili molto pochi dati sull’outcome dei bambini che si presentano per la chirurgia cardiaca in presenza di un episodio di URI. In uno studio recente da Malviya con altri, la presenza di un URI è risultata predittiva di infezioni batteriche postoperatorie e di diverse complicanze nei bambini sottoposti a chirurgia cardiaca correttiva. Tuttavia, la presenza di un URI non sembra interessare la durata totale della degenza dei pazienti in ospedale o lo sviluppo di complicanze di lunga durata. Nonostante il rischio aumentato di complicanze respiratorie nei bambini con URI, sembra che la morbosità residua sia molto scarsa. Effettivamente, in anestesia pediatrica e dell’adulto non ci sono casi di richiesta di risarcimento relativi a gravi complicanze associate all’URI. Anche se sono de- Anestesia nel bam delle vie respira scritti casi di atelettasie in bambini con URI, due ampi studi con bambini affetti da URI hanno rivelato una morbosità minima. In uno di questi, 3 bambini su 1078 hanno avuto complicanze che ne hanno richiesto il ritorno in ospedale per il ricovero. Due bambini con URI in atto sono stati ammessi per polmonite dopo l’intervento ed un bambino con anamnesi positiva per URI recente è stato ricoverato per stridore laringeo. Tutti i bambini hanno recuperato senza complicanze. Nonostante l’evidente rara morbosità, ci sono segnalazioni di morti in bambini con URI dopo l’intervento. In un case report una ragazza di 15 anni, con una storia di URI comparsa 2 settimane prima dell’intervento ha manifestato laringospasmo dopo l’estubazione tracheale e successivamente un arresto cardiaco. Anche se nella causa di morte è stata implicata l’URI, probabilmente hanno contribuito parecchi altri fattori, compresa l’estubazione tracheale prematura e l’insufficiente controllo. In un altro case report, un bambino di 3 anni è morto dopo l’anestesia per cauterizzazione nasale. Il bambino aveva avuto una storia di URI 2 settimane prima dell’intervento. L’autopsia ha evidenziato la presenza di una miocardite virale. Fra i bambini ad alto rischio con URI sottoposti a chirurgia cardiaca, Malviya con altri non ha rilevato un aumento della mortalità. IPERREATTIVITÀ DELLA VIA AEREA Tipicamente, i bambini vanno incontro a sei-otto episodi d’URI l’anno e questo può essere ancor più frequente fra bambini in giovane età che frequentano la scuola materna. Di queste infezioni, circa 95% sono ad eziologia virale e determinate da una grande varietà di virus. Circa il 30%–40% delle URI sono causate da rinovirus; tuttavia, altri virus, compreso il coronavirus, il virus respiratorio sinciziale e il virus parainfluenzale contribuiscono in modo significativo all’eziologia della malattia. La diagnosi differenziale di un URI è inoltre difficile in quanto molte malattie sono caratterizzate da sintomi simili all’URI. Oltre al raffreddore comune (nasofaringite), i pazienti possono presentare infezioni non diagnosticate compreso la laringo-tracheo-bronchite, l’influenza, la bronchiolite, l’herpes simplex, la polmonite, l’epiglottide e la faringite da streptococco. Inoltre, i pazienti possono presentare sintomi di un URI ad eziologia non infettiva, come rinite allergica o vasomotoria. Anche se la maggior parte delle URI virali sono autolimitate, possono determinare un’iperreattività della via aerea che persiste per parecchie settimane dopo l’infezione. Parecchi studi hanno dimostrato diminuzioni significative della conduttanza della via aerea in volontari con URI se esposti all’aria fredda, all’istamina, o all’aerosol con acido citrico. Si è visto che questi effetti persistono fino a 6 settimane dopo l’URI e così possono avere implicazioni importanti per i bambini che necessitano di anestesia nella fase acuta o di convalescenza, soprattutto se è necessaria l’intubazione tracheale. L’invasione virale della mucosa respiratoria può rendere le vie aeree sensibili alle secrezioni o ai gas anestetici potenzialmente irritanti. Inoltre vi è una crescente evidenza che i mediatori chimici ed i riflessi nervosi svolgono un ruolo importante nell’eziologia della broncocostrizione. Per esempio, il rilascio dei mediatori dell’infiammazione, come la bradichinina, le prostaglandine, l’istamina e l’interleukina sui tessuti interessati dall’infezione virale, è stato correlato alla broncocostrizione. Alcuni studi hanno evidenziato che l’iperreattività bronchiale da infezioni virali può essere mediata da vie nervose. Si è visto ad esempio che l‘atropina è in grado di bloccare l’iperreattività vagale e questo indica una componente vagale nella risposta. Normalmente, lo stimolo dei ricettori muscarinici (M2) sulle terminazioni nervose vagali inibisce il rilascio di acetilcolina; tuttavia, nell’individuo infettato, si pensa che questi recettori possano essere inibiti dalle neuraminidasi virali, con conseguente aumento nel rilascio dell’acetilcolina e broncocostrizione. Sono stati ipotizzati altri meccanismi di induzione virale dell’iperreattività della via aerea. Per esempio, alcuni studi suggeriscono che le infezioni virali aumentano la risposta del muscolo liscio della via aerea alle tachikinine. Le tachikinine sono un gruppo dei neuropeptidi che risiedono nelle fibre afferenti vagali C delle vie aeree e sono importanti nella contrazione del muscolo liscio. In circostanze normali, le tachikinine sono inattivate dall’endopeptidasi; tuttavia, si pensa che durante le infezioni virali, l’attività di quest’enzima sia inibita per questo la risposta costrittrice del muscolo liscio alle tachikinine è aumentata. Anche se per definizione l’URI implica un’infezione limitata alle vie aeree superiori, parecchi studi hanno indicato che URI può anche determinare alterazioni della funzione polmonare. In uno studio di Collier con altri, i bambini con URI hanno evidenziato modificazioni spirometriche, compresa una riduzione della capacità vitale forzata del volume espiratorio massimo in 1 secondo, e del picco di flusso espiratorio. Cate con altri ha visto che in volontari infettati con rinovirus vi era una rilevante riduzione della capacità di diffusione. Ancora, Dueck con altri, ha trovato che nelle pecore le modificazioni polmonari connesse con l’anestesia (per esempio, riduzione della capacità funzionale residua ed aumento degli shunt intrapolmonari), aumentano durante l’infezione parainfluenzale. VALUTAZIONE PREOPERATORIA Un algoritmo suggerito per la valutazione e il trattamento del bambino con un URI è riportato nella figura 1. Se il bambino richiede un intervento d’emergenza, la presenza di un URI dovrebbe se possibile essere evidenziata, perché questa conoscenza allerta l’anestesista sulle possibili complicanze e può consentire di modificare il trattamento anestesiologico per ridurre al minimo il rischio. I bambini che si presentano per interventi d’elezione con i sintomi di un URI richiedono un’attenta valutazione preoperatoria, con anamnesi e visita dettagliata. I polmoni dovrebbero essere auscultati per escludere eventuali interessamenti delle basse vie aeree e dovrebbe essere eseguita una radiografia del torace se la valutazione clinica lascia dei dubbi. Dovrebbe essere rilevata l’eventuale presenza di febbre, dispnea, tosse produttiva, produzione d’espettorato, congestione nasale, sonnolenza e difficoltà respiratoria. In due ampi studi prospettici, la congestione nasale, la produzione dell’espettorato e un’anamnesi positiva per malattia infiammatoria della vie aeree sono stati identificati come fattori predittivi delle complicanze respiratorie. Informazioni importanti relative alla modalità di comparsa dei sintomi possono essere apprese dai genitori, in quanto di solito seguono con attenzione lo stato di salute del loro bambino e possono essere d’aiuto nella distinzione di una condizione infettiva o non infettiva. In uno studio di Schreiner con altri, si è visto che la conferma da parte di un ge- 9 bino con infezione atorie superiori. Figura 1 nitore di un URI ha una capacità predittiva per laringospasmo migliore rispetto ai soli rilievi clinici. Nei bambini con cardiopatie congenite, la diagnosi di un URI può essere ulteriormente difficile in quanto i sintomi dell’URI possono essere confusi con quelli di insufficienza cardiaca congestizia. Generalmente, i bambini che si presentano con sintomi di un URI non complicata, senza febbre, senza secrezioni e al contrario apparentemente in buona salute, o quelli ad eziologia non infettiva, dovrebbero poter essere sottoposti all’intervento. Rolf e Cote´ suggeriscono che “il bambino con un URI lieve può essere anestetizzato con sicurezza, poiché eventuali problemi generalmente si trattano facilmente e senza conseguenze di lunga durata. “I bambini con sintomi più gravi, secrezioni muco-purulente, tosse produttiva, febbre -38°C, sonnolenza, o segni di interessamento polmonare devono rinviare gli interventi d’elezione di almeno 4 settimane. Analogamente, se si sospetta un’infezione batterica, i pazienti dovrebbero essere sottoposti a terapia antibiotica ed il loro intervento dovrebbe essere rinviato di 4 settimane”. Anche se è relativamente facile decidere di rinviare o eseguire l’intervento nei bambini in buona salute con pochi sintomi o chiaramente ammalati, la decisione diventa più difficile per i bambini che, per esempio, si presentano con alcuni sintomi quali congestione nasale e una tosse non produttiva modesta per un intervento che richiede l’uso dell’intubazione tracheale. L’analisi dei tamponi rino-faringei o dell’aspirato per l’isolamento virale non è pratica e può essere scarsamente sensibile in relazione alle modalità di campionamento e alla fase dell’infezione. La conta dei globuli come indice d’infezione ha un’utilità limitata, in quanto i pazienti con URI non sempre presentano un aumento dei globuli bianchi. La radiografia del torace è inoltre di scarsa utilità per i bambini con URI tranne che in circostanze particolari (per esempio, chirurgia cardiaca). Inoltre, nei bambini con infezioni delle basse vie aeree le modificazioni nella radiografia del torace compaiono di norma con ritardo rispetto alla comparsa dei sintomi clinici. Nel valutare l’idoneità alla chirurgia dei bambini con un URI, è importante valutare il rapporto rischio/beneficio. Ciò dovrebbe interessare i sintomi presenti e l’età del bambino, l’urgenza chirurgica, la presenza di comorbilità (per esempio, asma o cardiopatie) ed il tipo di chirurgia. Un altro elemento da considerare è la frequenza di episodi di URI. Nel caso del bambino che manifesta da sei a otto episodi di URI l’anno, può essere difficile individuare con precisione un periodo in cui il bambino è senza sintomi per un intervento d’elezione. La decisione di annullare o eseguire l’intervento nei bambini con URI dovrebbe essere presa caso per caso sulla base della presenza di precisi fattori di rischio e considerando i consigli dell’anestesista e la sua esperienza con i bambini con URI sottoposti ad anestesia. La consapevolezza dei fattori di rischio e di possibili complicazioni in questi bambini è di importanza fondamentale per un trattamento ottimale e per rispondere in modo adeguato qualora compaiono. ANNULLAMENTO DELL’INTERVENTO NEL BAMBINO CON URI Come accennato in precedenza, il rinvio dell’intervento per un URI una volta era molto frequente. Anche se l’annullamento generalizzato dell’intervento per un URI evita la possibilità di complicanze, tuttavia comporta preoccupazione e un peso economico per i genitori. Inoltre, l’annullamento generalizzato non può sempre essere praticato nella sanità moderna per l’elevato numero di pazienti e la tendenza per una chirurgia rapida. Effettivamente, una indagine nazionale suggerisce che gli anestesisti oggi sembrano meno inclini ad annullare la chirurgia a causa di un URI. In questa indagine, 40,4% dei anestesisti con ~10 anni di pratica hanno indicato di annullare “raramente„ (1-25% dei casi) l’intervento per un URI, rispetto al 27,2% degli anestesisti con più di 10 anni di esperienza. La decisione di quanto tempo rinviare l’intervento richiede un equilibrio fra la necessità di procedere all’intervento, il tempo richiesto per la risoluzione dei sintomi e la riduzione del rischio. Purtroppo, non c’è consenso sul tempo ottimale d’attesa prima della riprogrammazione dell’intervento. In un’indagine tra gli anestesisti, la maggior parte attende 3-4 settimane prima di procedere all’intervento. Il razionale per questo tempo d’attesa è fondato sull’osservazione che l’iperreattività della via aerea persiste per parecchie settimane dopo un URI. Effettivamente, alcuni studi suggeriscono che i pazienti che recuperano da un URI hanno un rischio simile o aumentato di complicazioni rispetto a coloro che presentano un quadro acuto. Skolnick ed altri hanno dimostrato che il rischio di complicazioni respiratorie era più grande nei 3 giorni dopo un URI e rimaneva aumentato fino a 6 settimane dopo. Tait con altri ha trovato che il rischio resta aumentato per 4 settimane dopo un URI. Anche se questi dati indicano che è prudente il rinvio dell’anestesia e dell’intervento per 4 settimane, Berry suggerisce che un rinvio di 1-2 settimane può essere adeguato per tutti i bambini con una nasofaringite semplice. TRATTAMENTO ANESTESIOLOGICO Il trattamento del bambino con un URI ha lo scopo di minimizzare le secrezioni ed evitare la stimolazione delle vie aeree potenzialmente sensibili. Poiché l’espettorato e le secrezioni abbondanti sono stati identificati come fattori di rischio, è importante aspirare le vie aeree (in anestesia profonda) per rimuovere le eccessive secrezioni. Ciò non solo riduce l’irritazione delle vie aeree ma può essere anche importante nel prevenire che un tappo di muco ostruisca un bronco o il tubo endotracheale. Poiché le infezioni virali modificano la quantità e la qualità delle secrezioni, è importante accertarsi che il paziente sia idratato adeguatamente. L’idratazione endovenosa dovrebbe essere messa in atto in tutti i pazienti sempre che l’intervento non sia molto corto. L’umidificazione può anche essere importante in bambini con URI, specialmente per gli interventi lunghi. Anche se non ci sono dati con studi controllati a sostegno dell’efficacia di questa pratica in bambini con URI, l’umidificazione può contribuire a minimizzare l’essiccamento e l’addensamento delle secrezioni determinate dagli anestetici e dai gas di trasporto e mantenere integro il meccanismo ciliare. In uno studio, il 35,2% degli anestesisti ha affermato di usare l’umidificazione spesso per i bambini con URI. L’uso degli anticolinergici come glicopirrolato o atropina può essere utile nella riduzione delle secrezioni e nell’attenuazione dell’iperreattività mediata dal vago. Un terzo degli anestesisti ha affermato di far uso frequentemente di anticolinergici, tuttavia la dimostrazione dei benefici degli anticolinergici sull’outcome perioperatorio nei bambini con URI, richiede nuovi studi. E’ stato ipotizzato che la premedicazione con broncodilatatori può ridurre le complicanze respiratorie mediate dal sistema neurovegetativo. Tuttavia, in uno studio, Elwood con altri rileva che la premedicazione con albuterolo o ipratropio non ha avuto alcun effetto sulle complicanze respiratorie correlate all’URI. Recentemente, tuttavia, Silvanus con altri ha evidenziato che nei pazienti adulti con iperreattività bronchiale, il trattamento pre-operatorio con i corticosteroidi associati al salbutamolo minimizza la broncostrizione evocata dall’intubazione in modo più efficace dell’inalazione del salbutamolo da solo. L’uso di un’intubazione endotracheale dovrebbe, se possibile, essere evitata, perché il suo uso, specialmente nei bambini più piccoli, aumenta significativamente il rischio di complicazioni della via aerea. Anche se l’uso della maschera facciale comporta una minore incidenza di complicanze, in alcuni casi non è adeguata. Per esempio, un tubo endotracheale è probabilmente il presidio di scelta per il controllo delle vie aeree nella chirurgia dell’orofaringe e del collo, della chirurgia maggiore toracica e addominale e della chirurgia che dura più di 2 ore. Tuttavia si è visto che la maschera laringea (LMA), rappresenta un’alternativa sicura per alcuni interventi in cui può essere utilizzata l’intubazione tracheale. Uno studio ha evidenziato che la LMA è associata ad un minor numero di episodi di complicanze respiratorie, compreso il broncospasmo e la desaturazione arteriosa dell’ossigeno. In un altro studio, Tartari evidenzia che l’uso della LMA è associato ad un’incidenza significativamente ridotta di complicanze post-operatorie. Comunque, tutti i pazienti dovrebbero essere controllati in continuo con la pusoossimetria, specialmente durante il posizionamento e la rimozione di un tubo endotracheale e nell’immediato periodo postoperatorio. La scelta degli anestetici per induzione e il mantenimento è importante nei bambini con URI. Nel passato, l’alotano è stato considerato l’anestetico volatile di scelta in questi bambini; tuttavia, oggi in molti ospedali l’alotano è stato sostituito in gran parte dal sevoflurano, specialmente per induzione. Rieger con altri indica che l’incidenza delle complicazioni nei bambini con URI lieve è simile fra sevoflurano e alotano, ma il sevoflurano ha evidenziato una cinetica di recupero più rapida. Altri studi, tuttavia, suggeriscono che il sevoflurano determina un numero minore di complicanaze rispetto all’alotano, soprattutto se il sevoflurano è usato sia per l’induzione che per il mantenimento. Indipendentemente dal farmaco d’induzione usato, è d’importanza fondamentale che la profondità dell’anestesia sia sufficiente per deprimere i riflessi delle vie aeree, specialmente quando è introdotto il tubo endotracheale. La profondità ottimale dell’anestesia cui l’estubazione tracheale dovrebbe avvenire è meno chiara. Anche se alcuni clinici preferiscono estubare sotto anestesia profonda per evitare i riflessi di broncocostrizione riflessa delle vie aeree, altri preferiscono estubare quando il paziente è sveglio, credendo che un paziente con i riflessi intatti sia più in grado di eliminare le secrezioni e rispondere alla stimolazione tattile della rimozione del tubo endotracheale. Nei bambini senza URI, i dati sull’estubazione da sveglio rispetto ad un’estubazione in anestesia profonda non sono univoci. In uno studio, Patel con altri non ha trovato differenza nelle complicanze al risveglio con l’estubazione dopo un completo risveglio rispetto all’estubazione in anestesia profonda, mentre Pounder con altri ha evidenziato che l’estubazione da svegli ha comportato un rischio di desaturazione arteriosa aumentato. Kitching con altri ha rilevato che la rimozione da sveglio della LMA determina una maggiore incidenza di tosse. Pappas con altri ha visto che le complicanze delle vie aeree non erano diverse dopo rimozione dell’LMA da svegli con l’anestesia con sevoflurano, ma erano maggiori usando l’isoflurano. Anche se non ci sono studi randomizzati relativi a questo problema nei bambini con URI, uno studio osservazionale ha mostrato che non vi era alcuna differenza nell’incidenza di complicanze fra i bambini con URI estubati sotto l’anestesia profonda rispetto a quelli svegli. ORIENTAMENTI FUTURI Tradizionalmente, la risposta alle complicanze dell’URI è stata di tipo reattivo; cioè, identificato un problema, si esegue un’azione correttiva. Tuttavia poiché abbiamo una migliore comprensione dei rischi connessi con l’anestesia nel bambino con un URI e dei meccanismi di induzione virale dell‘iperreattività della via aerea, può essere possibile una prevenzione per minimizzazione i rischi. Anche se gli anticolinergici attualmente disponibili possono avere un valido aiuto per i bambini con URI, essi non sono selettivi riguardo al loro effetto sui ricettori muscarinici (M2 e M3) responsabili della reattività della via aerea. Jacoby e Hirshman hanno dimostrato la possibilità di preparare farmaci anticolinergici che bloccano selettivamente i recettori M3 della muscolatura liscia della via aerea che causano broncocostrizione senza bloccare i recettori vagali M2 responsabili dell’inibizione dell’acetilcolina. Altri sviluppi promettenti comprendono l’uso delle endopeptidasi neutre umane ricombinanti per sostituire quelle naturali perse durante l’infezione virale. 10 Consenso informato Secondo la Cassazione il paziente deve conoscere anche il grado di efficienza della struttura N on basta informare il paziente dei rischi “tecnici” dell’intervento che si appresta a subire. Occorre anche che il malato conosca adeguatamente lo stato di efficienza e le dotazioni della struttura in cui è ricoverato. A fare il punto sull’ampio ventaglio dei doveri di informazione del medico è la terza sezione civile della Corte di cassazione (sentenza n. 14638/2004), respingendo la richiesta di risarcimento di un paziente. L’uomo aveva riportato un deficit fonetico, in seguito all’intubazione effettuata dagli anestesisti per un’operazione di protesi all’anca. A suo avviso, i medici erano responsabili del danno, per mancanza di consenso informato sui rischi legati all’anestesia. Poiché la questione verteva sulla violazione delle regole di informazione e non sulla diretta responsabilità professionale del camice bianco, i supremi giudici hanno potuto soffermarsi sul tema delicato del consenso informato. Precisandone i limiti e l’estensione, già oggetto in passato di numerose pronunce, in una sorta di vero e proprio decalogo. Nella prima parte della sentenza, la Corte ricorda doveri noti (si veda la sentenza n. 364 del 15 gennaio 1997): il dottore ha l’obbligo di informare il paziente dei problemi tecnici legati all’operazione, dalla natura dell’intervento ai possibili rischi, dalla portata dei risultati alle probabilità di successo. Ma il sanitario, precisa la Corte, non è tenuto ad informare il malato degli esiti anomali dell’intervento, degli “incidenti” al limite del fortuito. Devono infatti essere contemperate l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che l’assistito rifiuti di sottoporsi all’intervento. Se l’operazione è particolarmente complessa, l’obbligo di informazione si estende ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa orientarsi verso l’una o l’altra delle opzioni possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi. Se l’intervento si compone di più fasi, dotate di autonomia gestionale, il malato va inoltre informato dei rischi specifici legati ai diversi momenti. Non solo. I supremi giudici ribadiscono quanto già affermato nel 2000 (si veda la sentenza n. 6318 del 16 maggio 2000): il paziente, oltre ai pericoli connessi all’intervento, deve conoscere adeguatamente lo stato della struttura in cui è ricoverato. Il medico, in altre parole, deve informarlo delle dotazioni e delle attrezzature dell’ospedale in cui opera e del suo livello di efficienza. La ratio è chiara: la consapevolezza di eventuali carenze mette il malato in condizione di rivolgersi ad una struttura sanitaria più attrezzata. H2O di sorgente Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio ... Nel salmo 42 intitolato “Lamento del levita esiliato” la traduzione non può rendere la bellezza del testo: in ebraico c’è una parola – nefesh – che vuol dire contemporaneamente “anima” e “gola”. Aver sete con la gola oppure con l’anima è una cosa che agli umani capita diverse volte. E si anela all’acqua pura, all’acqua di sorgente. Che è sì chimicamente acca-due-o, ma non è l’acqua distillata. È fresca, è buona, va giù leggera e dissetante. L’acqua. Quando arriva nelle nostre case è stata filtrata, potabilizzata, incanalata e trasportata ai rubinetti da tanti acquedotti. Oggi, però – chissà perché – la stragrande maggioranza degli italiani non beve l’acqua del rubinetto. Beve l’acqua “minerale”. Le “danno a bere” e “si beve” le acque minerali. Come si fa a non berle? Si chiamano vera, panna, levissima, oppure hanno nomi di santi, Sant’anna, Sanpellegrino, Sanbernardo, Sanbenedetto (proprio il Santo patrono d’Europa). La pubblicità le ha fatte diventare più salutificanti dei medicinali: è detto tutto. Queste cosiddette “acque della salute” sono tutte “imbottigliate”. E noi? Noi medici, intendo dire. A vent’anni eravamo freschi e puri come l’acqua di sorgente. La scelta di fare il medico. Scelta. In latino electio. Elezione. Eravamo dunque degli “eletti”. Eravamo stati chiamati. Vocati. Vocazione? Sì, vocazione. Chiamati a un compito importante. Oggi la chiamano “mission”. Sì, missione. Vocazione? Missione? Ma che, scherziamo? Il “Medico” è un operatore sanitario, un professionista iscritto ad un Ordine, dipendente di un Servizio Sanitario che è Nazionale. È uno specialista filtrato, poi “potabilizzato” con un concorso, incanalato in una struttura operativa (SOS semplice o SOC complessa? – c’è da farsi venire un complesso) e trasportato ai rubinetti della Sanità pubblica che “eroga” (proprio come la Società dell’Acqua e Gas) assistenza sanitaria e farmaceutica. Ma ... siamo dissetanti? Forse, se veniamo imbottigliati come l’acqua minerale, andrà meglio? E allora ci vestiamo con una bella etichetta (un camice o una divisa verde o azzurra), diventiamo minerali (senza cuore e senza cervello) naturali o, meglio, gassati (meglio sempre essere un pò gasati). E chi è che ci imbottiglia? Provate a leggere sull’etichetta di ogni buona acqua minerale. Chi ha fatto l’analisi chimico-fisica delle sostanze disciolte e ha rilasciato il diploma? L’Università. È l’Università che dice quanto sale abbiamo (in zucca?), quanto – in gradi francesi – sia la nostra “durezza”, quanto sia il nostro “residuo” (di vocazione?) e quanta la nostra “purezza” (se ne è rimasta dopo oltre sei anni). Se dopo il controllo all’origine (della nostra vita professionale) è rimasta una sola particella di sale di sodio (quella che dice “C’è nessuno?”), allora siamo i migliori. E poi c’è il vero e proprio “imbottigliamento”. Una volta si riusciva ad arrivare molto presto al posto di lavoro. Oggi c’è l’imbottigliamento del numero chiuso, della specialità, del blocco delle assunzioni. Per fortuna sono saltati fuori i “canali” della grande distribuzione (di incarichi e di contratti a termine, di convenzioni, di cooperative) e tutte le Aziende Pubbliche “fanno acqua” da ogni parte. E le ”chiare fresche e dolci acque” (Petrarca, memorie del liceo) della nostra scelta-vocazione effervescente naturale? Purtroppo, la nostra “ansia di aiutare l’umanità sofferente” non sgorga più come un tempo. Siamo acqua stagnante. Acqua bollita e ribollita. Oppure acqua bi-distillata, per la lavatrice o il ferro da stiro. Senza calcare. Nel senso di senza calcare (verbo) le orme dei nostri padri fondatori. Ippocrate, Galeno e tutti gli altri. Opus divinum est sedare dolorem. Noi Anestesisti, da tanto tempo, ci occupiamo di terapia del dolore (molti tipi di dolore), di cure intensive, di cure palliative. È una disciplina che affronta molto da vicino il discorso della sofferenza e della morte. Primum non nocere. Futilità e invasività di tante procedure ... Dovremmo essere acqua frizzante, con tante bollicine, che placa la sete di chi ha la gola secca e non ha più voce. Potremmo ridare voce a chi non ne ha e non può – quindi – esprimere la sua volontà (perché è anestetizzato, o in coma, o sotto sedazione, o con la tracheotomia, o con la depressione e il “dolore totale” del neoplastico in fase avanzata). Non è questione di “attaccare” o “staccare” la spina. Di fare o di non fare la morfina. E allora? I Have a dream. Martin Luther King sognerebbe un mondo con dei Medici preparati professionalmente ed eticamente a fare il loro lavoro. E anche a “sentire” insieme con l’essere che stanno curando (cum patire, en pathos). E se pensiamo ad un nostro simile in difficoltà estrema, che si sta affidando a noi, forse che un gran giurì, o una commissione di esperti, o uno specialista (come per l’IVG) sono in grado di dire che cosa sia lecito fare? Noi Medici dovremmo sentire il dovere di essere dei protagonisti, attenti e generosi di gesti e di parole chiare, fresche e dolci ... Dei creatori di messaggi forti, non dei corrieri anonimi e indifferenti. “Venne data la possibilità di scegliere fra diventare re o corrieri del re. Come bambini, vollero tutti essere corrieri. Per questo ci sono soltanto corrieri, scorrazzano per il mondo e, poiché di re non ce ne sono, gridano i messaggi ormai privi di senso l’uno all’altro”. (Franz Kafka – “Aforismi di Zürau”). Gian Maria Bianchi 11 Le cure palliative in Italia L a medicina palliativa è nata per rispondere ai bisogni delle persone affette da tumori in fase avanzata, in particolare per il controllo del dolore. La sopravvivenza dei pazienti oncologici si è nettamente prolungata negli ultimi anni grazie alla maggiore precocità della diagnosi ed ai nuovi mezzi terapeutici. Tuttavia, quando la malattia progredisce e diviene inguaribile gli obiettivi dell’assistenza diventano quelli di migliorare la qualità della vita e di accompagnare il paziente ad una morte dignitosa. La qualità della vita è un concetto soggettivo, ragione per cui in questa fase della malattia il vero protagonista deve essere il malato e la sua volontà deve essere rispettata prima di quella di chiunque altro, familiari compresi. L’attività terapeutica palliativa è volta alla cura dei sintomi (dolore, nausea, vomito, stipsi) e contemporaneamente il malato deve ricevere ogni attenzione che possa rendergli più sopportabile la propria condizione: conservazione, per quanto possibile, dell’autonomia fisica, del proprio ruolo familiare e sociale, delle proprie abitudini alimentari, fino al rispetto del silenzio o dell’isolamento, se richiesti dal malato stesso. Le cure palliative hanno avuto una definizione ufficiale nel 1987 in Inghilterra quando ne è iniziata la specializzazione universitaria: “Medicina palliativa è lo studio e la gestione dei pazienti con malattia avanzata, in progressione e a prognosi limitata. L’assistenza è focalizzata essenzialmente al miglioramento della qualità di vita”. Nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha così definito le cure palliative “L’assistenza globale attiva ai pazienti affetti da malattia non guaribile. L’obiettivo fondamentale è il controllo del dolore, dei sintomi e dei problemi psicologici, spirituali e sociali”. Ci sono malati inguaribili, ma non esistono malati incurabili. I malati terminali hanno diritto a cure e attenzioni come e più di altri pazienti, nel tentativo di rendere meno doloroso possibile il loro ultimo tratto di vita. Le cure palliative costituiscono così un campo in cui la medicina moderna può manifestare la sua vocazione profonda nel prendersi cura e nel farsi carico in senso globale (fisico, psicologico ed esistenziale) dei sofferenti”. I trattamenti palliativi possono essere erogati con varie modalità: a domicilio, in ospedale oppure in strutture residenziali specificatamente ideate e organizzate per favorire l’attenzione al morente denominate “hospice”. Si può ricercare l’origine degli hospitia che, lungo le vie delle crociate e dei pellegrinaggi ai santuari della cristianità fornivano accoglienza per poveri, per malati e per morenti. Ma la nascita delle cure palliative è generalmente fatta risalire alla metà del secolo scorso e alla figura di Cecily Sanders che nel 1967 fondò il St. Christopher’s Hospice a Londra e promosse il movimento hospice cioè una modalità di approccio al paziente che ha come obiettivo un’assistenza globale che coniuga l’estrema attenzione al lato umano con le più moderne conoscenze mediche e tecnologiche e viene fornita da più figure professionali organizzate in equipe mulidisciplinare. Oltre all’assistenza residenziale, il movimento hospice ha diffuso le cure domiciliari e si è esteso rapidamente: i servizi o le unità di cure palliative sono ora presenti in tutto il mondo e la medicina palliativa si sta sviluppando e approfondendo anche nel campo della ricerca di base. Pur nella diversità delle singole realizzazioni tutte le strutture che si richiamano al movimento hospice hanno caratteristiche comuni di attenzione alla dignità della fase terminale della vita. La letteratura internazionale, sulla base delle esperienze dei centri che ormai da più di 30 anni seguono la filosofia hospice, ha dimostrato che l’intervento di un’equipe multidisciplinare di cure palliative (medici, infermieri, psicologo, fisioterapista, assistente spirituale, volontari) garantisce il miglior tipo di assistenza ai pazienti e alle famiglie, consentendo inoltre di ridurre il numero delle giornate di ricovero in ospedale e di contenere i costi assistenziali. Anche se le cure palliative hanno avuto un particolare sviluppo in campo oncologico, il concetto di palliazione deve essere applicato anche alle altre patologie inguaribili. La storia delle cure palliative nel nostro Paese inizia alla fine degli anni ’70 quando il Servizio di Terapia del dolore dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, con la Fondazione Floriani, ha dato vita alla prima unità di cure domiciliari. Nel decennio successivo il modello si è esteso in Lombardia e in altre regioni. I modelli residenziali sono almeno due. Alcune strutture, soprattutto in Inghilterra, hanno scelto l’autonomia dagli ospedali, eleggendo a propria sede edifici di abitazione privata, spesso immersi nel verde delle periferie, al fine di ricreare e conservare gli aspetti quotidiani e familiari della vita del malato. Altri hospice, invece, seguendo il modello canadese, sono nati all’interno di ospedali in modo da poter conciliare l’aspetto umano e psicologico con una maggiore disponibilità di risorse tecnologiche avanzate. Un altro tipo di servizio è quello delle Unità Operative di Cure Palliative (UOCP) legate ai centri di terapia del dolore che negli ospedali offrono servizi di consulenza e di supporto ai reparti di degenza. Negli ultimi due anni le leggi promulgate dal Ministero della Salute e le delibere delle varie regioni hanno avviato l’attuazione di un programma nazionale per la realizzazione di una rete di assistenza ai pazienti terminali. Nuove unità di cure palliative e servizi di assistenza domiciliare si stanno organizzando un po’ ovunque in Italia e, secondo un censimento effettuato dalla Commissione ministeriale per le cure palliative, sono attive sul nostro territorio più di 200 strutture hospice. Il Dlgs 450 convertito in legge n.39 del febbraio 1999 ed il decreto 28 settembre 1999 (apparso sulla Gazzetta Ufficiale n. 55 del 7 marzo 2000) concordemente prevedono una “aggregazione funzionale ed integrata di servizi distrettuali, ospedalieri e di istituzioni di solidarietà sociale e di volontariato operanti sul territorio perché venga garantito l’accompagnamneto del malato oncologico nel suo percorso sanitario ed umano con particolare attenzione alla fase terminale della malattia”. Gli obiettivi specifici delle cure palliative e le modalità di erogazione sono così definiti dalla legge n.39 e dal successivo decreto: n “assicurare ai pazienti una forma di assistenza finalizzata al controllo del dolore e degli altri sintomi, improntata al rispetto della dignità, dei valori umani, spirituali e sociali di ciascuno di essi ed al sostegno psicologico e sociale del malato e dei suoi familiari; n agevolare la permanenza dei pazienti presso il proprio domicilio garantendo ad essi e alle loro famiglie la più alta qualità di vita possibile; n ottenere una riduzione significativa e programmata dei ricoveri impropri in ospedale” (...). “La rete di assistenza ai pazienti terminali si articola nelle seguenti linee organizzative differenziate e nelle relative strutture dedicate alle cure palliative: n assistenza ambulatoriale; n assistenza domiciliare integrata; n assistenza domiciliare specialistica; n ricovero ospedaliero in regime ordinario o di day hospital; n assistenza residenziale nei centri residenziali di cure palliative”. Il decreto del 28 settembre 1999 (artt.1 e 2) prevede un programma nazionale per la realizzazione in ogni regione e provincia autonoma di strutture per le cure palliative-hospice che devono essere parte integrante della rete di assistenza ai malati terminali e devono avere un’ubicazione territoriale tale da consentire un’agevole accessibilità da parte dei pazienti e delle famiglie. I requisiti minimi strutturali tecnologici e organizzativi sono stati definiti dal decreto del 21 marzo 2000 con il relativo allegato. Viene demandata alle regioni la definizione dei programmi di integrazione, dei protocolli operativi, la formazione del personale e la verifica della qualità e dei risultati. Il contenuto della legge, che risponde ad un’esigenza sempre più pressante in campo sanitario, riflette da un lato le idee della Commissione mi- nisteriale per le cure palliative e dall’altro ha dovuto tenere conto delle diversissime realtà locali, delle esigenze e del ruolo dei medici di famiglia, dell’organizzazione dei servizi territoriali per cui, necessariamente molti aspetti sono risultati poco definiti e demandati alle regioni. Invece, i requisiti minimi strutturali dei centri di cure palliative-hospices sono indicati in modo molto dettagliato e seguono la normativa prevista per le strutture di ricovero. Poco margine quindi vi è alla sperimentazione di strutture residenziali più simili a quelle anglosassoni. Si dice “noi moriamo come viviamo” e l’approccio al problema dell’assistenza ai malati terminali riflette il nostro approccio alla morte. Erogare cure ai malati in fase terminale più che per qualsiasi branca della medicina deve tenere presente alcuni nodi fondamentali: 1) affrontare il problema della morte è difficile per ognuno di noi: tuttavia “la palliazione del morente prevede una riflessione degli operatori sul morire e la morte individuale che dovrà condurre a una nuova presa di coscienza nei confronti delle esigenze dei malati”; 2) il mondo medico vede la morte come una sconfitta, un insuccesso e il senso di impotenza può condizionare le scelte degli operatori; 3) il mondo sanitario ha spesso difficoltà ad affrontare in modo olistico i problemi dei pazienti, non è preparato ed è tentato di demandare la soluzione allo psicologo, all’operatore sociale, ai volontari; 4) c’è una grande difficoltà ad accettare il lavoro di équipe che spesso richiede la rinuncia di ogni operatore alle prerogative del proprio ruolo; 5) manca l’abitudine di comunicare la verità al paziente; 6) si è diffusa una generica sfiducia verso la medicina ed in particolare verso i protocolli di chemioterapia. Questi nodi in modo diretto o indiretto hanno condizionato alcune posizioni della Commissione ministeriale che ha elaborato il testo di legge e probabilmente condizioneranno le scelte operative nelle varie realtà regionali. La sede migliore dove erogare l’assistenza ai malati terminali è il loro domicilio. In una recente indagine su più di 700 partecipanti a corsi di formazione destinati ad una popolazione ampia ed eterogenea sulle cure palliative e su “Vivere il morire”, più del 65% ha detto che desiderava morire a casa e vicino a chi si ama, e solo l’1% ha preferito l’ospedale. Il problema di chi deve effettuare le cure palliative è aperto non essendoci corsi ufficiali di formazione e non essendo definito dalla legge il curriculum formativo degli operatori sanitari. La collaborazione tra le unità operative di cure pal- liative, i servizi di assistenza domiciliare integrata e la rete oncologica è probabilmente da sperimentare nelle varie realtà locali. Molto come già detto, è lasciato all’iniziativa autonoma delle regioni che devono elaborare dei modelli di intervento che, necessariamente, devono coinvolgere le associazioni di volontariato. Infatti, sino ad ora, sono state soprattutto queste ultime che hanno svolto in modo continuativo e organizzato l’assistenza palliativa. Occorre anche tenere presente che la cultura e le relazioni interfamiliari in Italia e nei Paesi mediterranei sono differenti da quelle dei Paesi anglosassoni. Questo rende difficile, se non impossibile, di adottare tali e quali modelli organizzativi per esempio inglesi o canadesi. Molto più spesso che in Inghilterra, da noi, soprattutto nelle campagne, esistono per esempio famiglie che vivono in gruppo e che si assicurano un sostegno reciproco rendendo più facile l’organizzazione delle cure domiciliari. D’altra parte è difficile prospettare il ricovero in strutture che non fanno ancora parte del “conosciuto”, dell’”immaginario” e delle consuetudini della popolazione. Per tutti questi motivi possiamo dire che la situazione in Italia è in una fase di evoluzione e di sperimentazione. Sicuramente ci sarà una grande diffusione della cultura della medicina palliativa e delle iniziative. Se è vero che per una buona attuazione della filosofia hospice devono essere integrati aspetti tecnologici innovativi (terapia del dolore e delle complicanze), aspetti oncologici (continuità dell’assistenza, la rete) e aspetti relazionali (attenzione prevalentemente alla persona e ai problemi sociali, psicologici e spirituali) esiste il rischio che, nella fase di organizzazione, prevalgano interessi corporativi e passi in secondo piano quello che deve essere invece l’obiettivo primario: dare dignità al morire. Dare dignità al morire significa vivificare ogni nuovo giorno e considerarlo non uno in più nell’attesa dell’evento morte ma un tempo da arricchire di significati, un tempo per amare, per ricevere e scoprire l’amore in un clima che deve improntare tutte le attività in modo che si possa dire quello che è stato detto in occasione dei 30 anni di attività del St. Christopher’s Hospice: “per molte persone visitare un hospice significa la strana scoperta di vita e di gioia dentro la morte e la sofferenza. Ed è forse in questo paradosso il segreto delle cure palliative. Il paradosso è il risultato di un lavoro fondato su un abile nursing e controllo dei sintomi, sul superamento dell’individualismo professionale nel lavoro di équipe, sulla condivisione e sul sostegno psicologico. Le fondamenta dell’hospice sono l’accoglienza e la considerazione, il cemento, la speranza, la sincerità e l’onestà”. 12 Recupero difficile per gli specialisti ricorrenti S i affievoliscono le speranze di poter ricevere il pagamento della borsa di studio degli anni del corso di specializzazione per i medici che hanno, negli anni passati, fatto ricorso per ottenerne il riconoscimento. Con la sentenza n. 427 del 6 febbraio 2007, il Consiglio di Stato si è, infatti, pronunciato negativamente sul ricorso in appello di alcuni medici che avevano frequentato i corsi di specializzazione fra il 1982 e il 1991. La questione lungamente dibattuta, fra alterne pronunce del Ministero dell’Istruzione, dell’università e ricerca e del TAR, è stata risolta negativamente dai giudici del secondo grado amministrativo fornendo alcune chiare risposte ai problemi connessi alla tardiva attuazione da parte dello Stato italiano della direttiva 82/76/Cee. In primo luogo, la Corte ha affermato che dal momento che la formazione professionale del medico è da qualificare come servizio pubblico, in quanto consiste in un’attività di istruzione svolta dalla pubblica amministrazione per fornire ai partecipanti una utilità di carattere strumentale, nel caso di specie, si tratta di giurisdizione esclusiva. Inoltre, la Corte ha precisato che “non può ritenersi che le direttive comunitarie (75/263/CEE e 82/76/CEE) contengano disposizioni incondizionate e sufficientemente precise immediatamente applicabili nell’ordinamento interno ed ostative all’applicazione delle norme interne con esse confliggenti, in quanto dotate di carattere vincolante soltanto nella parte riguardante le finalità perseguite e, nella restante parte, solo alle condizioni stabilite, lasciando liberi gli Stati nella scelta delle modalità di realizzazione delle finalità in caso di mancato rispetto delle condizioni stesse”. Dal momento che, secondo i giudici contabili, le direttive in argomento non hanno la caratteristica di essere immediatamente applicabili nell’ordinamento interno, i singoli non possono reclamare la corresponsione degli emolumenti senza che sia provata la sussistenza di tutte le caratteristiche e limitazioni organizzative introdotte dalle direttive con riferimento alle specializzazioni mediche europee. L’argomento con cui in sostanza la Corte ha respinto l’appello si basa essenzialmente sulla disparità di trattamento che il suo accoglimento avrebbe ingenerato fra gli specializzandi ante 1991 ed i fre- quentanti i corsi a quella data successivi. Ed infatti, “la tardiva attuazione delle direttive comunitarie in materia ha comportato la mancata imposizione ai medici, che abbiano frequentato i corsi di specializzazione prima dell’anno accademico 1991/92, di tutte le limitazioni e le incompatibilità introdotte con il decreto legislativo 257/1991, di attuazione delle anzidette direttive”. Ciò ha determinato l’ingenerarsi di situazioni non compatibili fra loro, con riferimento al fatto che agli specializzandi successivamente al 1991 è stato imposto l’obbligo di frequenza e di partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio, comprese le guardie, con ciò implicandosi che tutta l’attività professionale per l’intera durata del corso fosse dedicata esclusivamente alla formazione specialistica. La stessa cosa non era prevista per gli specializzandi prima del 1991, né è stata dedotta prova del contrario dai ricorrenti, per cui, astrattamente, essi avrebbero potuto prestare la propria opera professionale anche al di fuori della scuola di formazione professionale. Pertanto, la Corte afferma che “il riconoscimento di emolumenti in favore dei medici frequen- tanti i corsi di specializzazione (...) assume carattere incondizionato e sufficientemente preciso con riguardo alla retribuibilità in astratto dei corsi che si sono svolti” ma nel rispetto delle condizioni previste dalle medesime direttive di cui si reclama l’attuazione tardiva. Inoltre una diversa decisione, secondo la Corte, determinerebbe una disparità di trattamento anche nei confronti degli specializzandi destinatari delle sentenze del TAR Lazio, i quali hanno invece ottenuto il riconoscimento di quanto richiesto, con il congelamento però degli interessi e della rivalutazione monetaria, che nel ricorso in appello esaminato dalla sentenza 427/2007 era stato richiesto di applicare alla cifra da liquidare a titolo di retribuzione. Ultimo punto affrontato dalla sentenza, e di particolare importanza, è quello dei tempi di prescrizione delle retribuzioni, che sono indicate in cinque anni “trattandosi di somme da corrispondersi ad anno, ai sensi dell’art. 2948 c.c.”. Il quinquennio dovrà essere computato a partire dalla data di verificata maturazione del diritto e, pertanto, essa coinciderà con la conclusione di ciascun anno accademico. Alessandra Testuzza L’Europa chiama i cervelli l’Italia, invece, li respinge Sul fronte della ricerca ci sono due notizie di segno diverso che vale la pena analizzare. Durante una conferenza stampa organizzata da Farmindustria, è stato presentato anche in Italia il progetto affidato ad un nuovo organismo europeo: il Consiglio Europeo delle Ricerche (Erc). La Commissione Europea ha affidato all’Erc, per il periodo 2007-2013, un budget molto elevato che ammonta a 7,5 miliardi di euro, all’incirca 14 mila miliardi delle vecchie lire. Soldi che dovranno servire a rilanciare un settore strategico come quello della ricerca, sperando che l’Europa possa tornare competitiva nei confronti degli Stati Uniti, Giappone e delle nuove realtà come Cina e India. La novità però non è solo questa. La cosa rivoluzionaria, specie se guardata da un Paese come l’Italia, è come verranno distribuiti questi fondi e chi deciderà come distribuirli. Per questa ragione è stato nominato un Consiglio scientifico composto da 22 membri, scelti però non dai singoli Paesi o per nomina politica, ma attraverso una rigorosa selezione fatta in base ad una rosa di nomi proposta dalla comunità scientifica internazionale. Tra questi 22 membri spiccano due italiani: il direttore dell’istituto scientifico San Raffaele di Milano, il genetista Claudio Bordignon, e Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. Il board avrà l’onere di scegliere, nella più assoluta libertà, i progetti di ricerca da finanziare nei prossimi 7 anni, divisi in due sezioni, per giovani ricercatori e per studiosi avanzati. Ovviamente ci sono criteri selettivi trasparenti che prediligono l’innovazione della ricerca e il merito, in termini di curriculum, del capo progetto. Mentre non esiste un’area tematica specifica, essendo i fondi destinati a qualsiasi materia comprese le scienze sociali e umanistiche. Il primo bando dedicato ai giovani ricercatori (entro 8-10 anni) scade in febbraio. I termini tecnici possono essere reperiti sul sito http://erc.europa.eu. Per questo primo step, il budget è di 300 milioni di euro che serviranno a finanziare giovani ricercatori europei o provenienti dal resto del mondo che vogliono però trasferirsi in Europa. Sono previsti finanziamenti singoli fino a 2 o 3 milioni di euro per progetti fino a cinque anni che saranno gestiti direttamente dal giovane ricercatore per sé o per il proprio team. Cosa che, si spera, dovrebbe fare arrivare da tutto il mondo i migliori talenti sul mercato; si stima circa 1500 nuovi gruppi di ricerca all’avanguardia nei campi strategici dell’innovazione. Per la prima volta dunque, i fondi europei non verranno distribuiti proquota in base ai singoli conferimenti dei paesi membri, ma in base al merito del singolo progetto. “criterio che ha trovato in Italia, notoriamente un paese poco competitivo, numerose resistenze” sottolinea il professor Bordignon e che rischia di non fare tornare qui da noi un quantum pari a quello che abbiamo versato. Ma è un rischio da correre, “perché è necessario svecchiare il mondo della ricerca” sottolinea il presidente di Farmindustria, Sergio Dompè, che ha voluto sponsorizzare come parte interessata la divulgazione del progetto dell’Erc. Siamo interessati come comparto leader nel campo dell’innovazione e della ricerca, leader in termini di budget investiti e risorse umane, a far sì che il sistema Italia migliori al livello generale. Perché se il sistema Paese migliora in termini generali ne trarranno benefici tutte le aziende, comprese quelle del nostro settore che vive e prospera soprattutto grazie all’innovazione. Il Presidente di Farmindustria Dompè approva l’iniziativa dell’UE. Note meno positive sul fronte Italia. Se non rischiassimo di apparire troppo ossequiosi del professor Settis, rimanderemmo semplicemente ad un suo articolo (“Ricerca, se il merito fosse un obbligo”) in cui si analizza il disastro del nostro Paese. Settis che è tecnico di sinistra, ma che ha collaborato in precedenza anche con il governo Berlusconi, mette in luce le pecche del governo Prodi che in campagna elettorale aveva promesso maggiori risorse per gli investimenti in ricerca e che invece in Finanziaria ha tagliato i fondi pubblici per le università e non ha previsto nessuna agevolazione per le donazioni private. In più, dice Settis, “il merito e il talento hanno poca cittadinanza in un sistema universitario inquinato dal localismo delle carriere, moltiplicazione dei corsi di laurea, autoreferenzialità dei ceti accademici”. Pochi giorni fa, per paradosso, sono stati respinti al mittente anche quei pochi ricercatori di qualità che avrebbero voluto rientrare in Italia e avevano risposto a un bando che prometteva l’integrazione nel nostro sistema universitario, bando in seguito non finanziato. Cose incredibili che possono succedere solo da noi. 13 Imparare ad invecchiare bene Come vivere al meglio i vent’anni di media che ci attendono dopo i 65 L a salute, come sottolineato dall’OMS, non dipende solo dalla condizione dell’organismo ma anche dallo stato psico-affettivo e dai rapporti sociali dell’individuo. Non si considerano più, dunque, gli anziani come soggetti “diversi”, magari da accudire e curare, bensì persone con una vita sempre più lunga da riempire di significato. All’inizio del secolo scorso l’aspettativa di vita era 40 anni, mentre oggi è 77 anni circa per gli uomini e 83 per le donne; un grande traguardo conquistato non solo grazie ai progressi della medicina ma anche, e soprattutto, grazie ai grandi miglioramenti sanitari: l’aumento di calorie nella dieta, la sanitarizzazione delle acque e degli ambienti, le vaccinazioni. I progressi scientifici fanno intravedere nuove prospettive attraverso lo studio continuo delle cellule staminali e della biologia molecolare in generale, ma per il momento i risultati sono ancora in fase di sperimentazione in laboratorio. Studi recenti indicano che la condizione dell’anziano dipende solo per il 30% dal corredo cromosomico, per il 70% dipende da ambiente e stile di vita. In realtà, non esiste un gene specifico della longevità, esistono geni che ottimizzano il sistema e cioè, operando nel metabolismo intermedio, i geni protettivi della riparazione e della difesa dell’organismo funzionano per preservare dal rischio di ammalarsi. Certo, in alcuni soggetti essi funzionano meglio che in altri, così come esistono pure geni che aumentano il rischio di ammalarsi, ma il dato importante resta: il 70% della mortalità evitabile dipende dall’ambiente e dagli stili di vita. Si dovrebbe spostare dunque il punto di riferimento della nostra società, che oggi è il soggetto di età media, verso i soggetti più anziani. Sappiamo che invecchiare significa perdita di struttura e funzioni dell’organismo, ma non tutti gli anziani sono uguali, da un lato troviamo l’anziano attivo, prestigioso e in buona salute, dall’altro il fragile o il malinconico che si lascia andare. La società deve tener conto di coloro che hanno ancora voglia di fare, ecco perché anche l’età pensionabile non può essere rigorosamente definita dallo stato anagrafico ma dev’essere una scelta personale e legata al singolo individuo. Successful aging, invecchiare bene: sta in queste due parole la sfida della moderna geriatria che punta a migliorare la qualità della vita, più che a rincorrere il mito della longevità estrema, e che suggerisce regole e stili di vita per diventare un anziano di successo. Questi suggerimenti si possono raggruppare sotto tre aspetti da osservare con cura: alimentazione, ambiente e socialità, attività fisica. La dieta ideale di un anziano dovrebbe prevedere 25% di proteine (privilegiando pesce e carni bianche), 25% di grassi (con una forte quota di oli vegetali) e 50% di carboidrati. Indispensabile si rivela la riduzione dell’apporto calorico: oltre i 60 anni bastano 1.700-2.200 calorie e per idra- tarsi 2-3 litri di acqua al giorno (compresa quella contenuta nella frutta e nella verdura). La razza, il sesso, l’educazione, lo stato sociale, la personalità, sono tutti fattori personali coinvolti nell’invecchiamento dell’individuo. Lo sono altrettanto i fattori ambientali come la casa, il lavoro, le attività sociali, la famiglia. Ad esempio, un anziano che perde una persona cara ha un rischio molto maggiore di ammalarsi rispetto ad un coetaneo. Infine, la forma fisica; questa è naturalmente soggetta ad un declino medio dell’8-9% per decade di vita, ma i soggetti che praticano attività sportiva a livello amatoriale riducono tale declino ad un 5% e quelli allenati fino al 3%. L’esercizio moderato e continuativo riduce comunque il rischio di ammalarsi. Per l’anziano c’è dunque bisogno di una medicina della complessità, il cui centro dev’essere la salute globale del soggetto non avulsa dal suo vissuto personale. Questa visione implicherebbe una rivoluzione dell’organizzazione sanitaria, servirebbero unità valutative geriatriche sparse sul territorio capaci di offrire un’assistenza integrata dal punto di vista socio-sanitario. O meglio, l’assistenza sull’uscio di casa, la doorstep medicine, di cui ha parlato Claude Lenfant dei National Institutes of Health degli USA. Secondo il medico, la sfida della moderna geriatria non sta tanto nella rimozione della malattia quanto nel raggiungimento dell’autosufficienza del soggetto. In effetti, la salute dell’anziano significa anche autonomia, pur in presenza di malattie croniche. Perciò, maggiore attenzione alla volontà dell’anziano, rapporti più umani tra medico e paziente, terapie del dolore accessibili a tutti coloro che ne vogliano fare uso, invito a non lasciarsi andare e a non sentirsi abbandonati. LA CITAZIONE «La vita sarebbe infinitamente più felice se nascessimo a 80 anni e gradualmente ci avvicinassimo ai 18». Marc Twain Chi è il garante della sicurezza del paziente? È ormai opinione comune tra gli esperti che troppo poco è stato fatto per migliorare la sicurezza dei pazienti negli ospedali, anche a sette anni di distanza dalla pubblicazione del report “To err is human” da parte dell’istitute of Medicine di Washington. Nel report veniva ampiamente chiarito che “la sicurezza del paziente deve essere considerata come un obiettivo organizzativo esplicito della Direzione dell’Ospedale, la quale deve dimostrare una chiara leadership in questo campo”. Molti esperti affermano che le denunce ed i processi per negligenza rappresentano una barriera per lo sviluppo negli ospedali di programmi efficienti di sicurezza del paziente. Altri affermano che esiste un oggettivo “diritto alla sicurezza” dei pazienti ricoverati, che configura come dovere dell’ospedale l’implementazione di adeguate misure per garantirne la sicurezza. Gli ospedali che non adottano politiche ed azioni specifiche in tal senso potrebbero essere considerati colpevoli di negligenza e, come tali, passibili di azioni legali dirette. I professionisti che lavorano nelle corsie e negli ambulatori ospedalieri, e che garantiscono la fornitura delle cure, non sono sempre in grado di controllare tutti i possibili rischi di danno al paziente presenti in ospedale, specialmente quelli che derivano dal management inadeguato. Le decisioni prese ai livelli direzionali dell’ospedale generano difetti che si manifestano nei processi di cura e che non sono sempre governabili dai professionisti. Negli USA si sta diffondendo il concetto di una responsabilità soggettiva nel caso in cui i danni che avvengono nell’azienda sono causati da negligenze organizzative, per le quali gli ospedali possono essere chiamati direttamente in causa. Viene considerata negligenza organizzativa non solo l’errore o il danno derivanti dalle cure, ma anche il non avere adottato in tempo tecnologie di comprovata utilità e di costo ragionevole, esponendo i pazienti a rischi evitabili. Le cause più frequenti di denuncia negli USA sono costituite dalla inadeguatezza del personale infermieristico e dai servizi scadenti. Una condanna esemplare è stata quella inflitta al Charleston Community Memorial Ospital, quando un paziente si era visto amputare una gamba a causa del gesso troppo stretto. La causa del danno fu attribuita alla scarsità del personale. Un ospedale USA è stato condannato per negligenza in quanto non aveva tenuto in stand-by una sala operatoria per pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco che potevano necessitare di un intervento di emergenza. Purtroppo, a causa dell’indisponibilità di una sala operatoria, un paziente era deceduto. La Suprema Corte della Pennsylvania ha stabilito che “il comportamento negligente a livello aziendale rappresenta una carenza organizzativa per la quale l’ospedale può essere chiamato in causa nel caso non sia riuscito a garantire ai pazienti standard di cura adeguati”. Anche altre Corti hanno proposto il concetto secondo il quale è dovere aziendale la garanzia della sicurezza del paziente negli ospedali. Questa garanzia deve comprendere alcune attività-chiave quali: n il mantenimento di servizi e apparecchiature sicuri e adeguati; n la selezione e l’incentivazione di personale medico competente; n il controllo diretto delle pratiche di cura in ospedale; l’adozione e il monitoraggio di regole e politiche che garantiscono la qualità delle cure. Queste posizioni sono certamente avanzate e in linea con teorie attuali relative alla genesi del ri- n schio clinico: va sottolineato, infatti, che finalmente un sistema giudiziario ha “sposato” entusiasticamente il concetto che errori e danni sono causati da cattive condizioni di lavoro e da management inadeguato. 14 Le saline da salvare ALLE SALINE DI TRAPANI E PACECO DA CENTINAIA DI ANNI IL LAVORO DEGLI UOMINI CONVIVE CON UNA NATURA E UN ECOSISTEMA RICCHISSIMI N oi siamo il sale della Terra. Ce lo dice il Vangelo, fornendoci, con l’ispirata metafora, anche un dato che ha un riscontro scientifico: raramente gli esseri umani si comportano come se fossero il sale della Terra, ma certo ne contengono una buona parte, circa 250 grammi a testa. Oggi, dopo anni di pubblicità negativa, tendiamo a guardare al sale come a un nemico della salute; ma in realtà il cloruro di sodio (NaCl) è indispensabile alla vita cellulare di ogni organismo vivente. Gli animali lo sanno per istinto. Se i carnivori traggono il loro fabbisogno di sale dalla carne delle prede, gli erbivori lo vanno a cercare dove si trova in natura nelle pozze salate, negli affioramenti di salgemma. C’è addirittura chi sostiene che le tortuose strade secondarie degli Stati Uniti ricalchino le migrazioni delle mandrie di bisonti in cerca di sale da mangiare ... Per noi uomini il sale è però molto più di un mattone indispensabile della chimica corporea. Per circa sette millenni – dall’inizio delle civiltà agricole all’invenzione della congelazione, nel 1925 – è stato inestimabile perché conservava i cibi. Grazie a lui, carne e pesce si mantenevano durante i mesi invernali e potevano essere trasportati lontano. Questa sua virtù lo ha caricato di valenze simboliche profondissime, testimoniate da un’infinità di tracce nella storia e nella lingua: l’uomo saggio ha “sale in zucca”; il “salario” deriva dalla paga in sale dei soldati dell’antica Roma; e la prima delle grandi strade consolari, la Via Salaria, serviva a portare all’Urbe il sale prodotto sulla costa, in saline spesso fondate dagli Etruschi o dai Fenici. Erano cartaginesi – cioè fenicie – le saline di Trapani, le più grandi della Sicilia occidentale, che divennero romane alla fine del III secolo a.C., dopo la prima guerra punica. Nell’antichità il sale trapanese era famoso: con esso si salava il pregiato tonno pescato a Favignana e si conservavano i gustosi capperi di Pantelleria. Nel Medioevo era commerciato fino in Norvegia, dove serviva per salare i merluzzi di Bergen. L’attività di estrazione fu favorita dalla presenza, lungo la costa, di lagune e aree paludose: i primi salinai non dovettero far altro che regimare il giro delle acque di marea in modo che alimentassero una serie di vasche poco profonde, e poi aspettare che il sole cocente dell’estate mediterranea compisse la sua opera: a fine agosto, evaporata l’acqua, si rastrellava con pale il fior di sale dalle vasche asciutte. Oggi alle Saline di Trapani c’è anche la tecnologia: nelle “caselle salanti” più estese si adoperano le pale meccaniche. Ma tutt’intorno decine di piccoli salinai continuano a raccogliere il sale a mano, mantenendo viva una tradizione millenaria. E contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, una ricchissima vita animale popola questa scacchiera liquida: tanto che dal 1995 le Saline di Trapani e Paceco sono una Riserva naturale regionale gestita dal WWF. I due mulini a vento che torreggiano sopra la distesa di laghetti multicolori risalgono al XVII secolo, quando s’iniziò a usare l’energia eolica per pompare l’acqua di mare nelle caselle: oggi sono uno il centro visite dell’Oasi, l’altro un Museo del sale, che racconta la storia delle saline trapanesi in età moderna. Gennaio e febbraio sono i mesi migliori per visitare le saline perché nelle loro acque basse sverna una quantità di uccelli: circa 200 specie, tra cui quelle che si riconoscono a occhio e sanno affascinare anche il turista meno birdwatching-oriented: dai grandi aironi bianchi ai maestosi fenicotteri rosa che incedono lenti nell’acqua salmastra, impegnati a filtrare col becco (dotato di appositi “pettini”) quei microscopici gamberetti che danno al contempo il colore rosato alle piume dei trampolieri e fantasmagoriche sfumature rosse, dal cinabro al mattone, alle varie tessere di questo geometrico mosaico d’acqua. I fenicotteri se ne vanno solo in primavera, per nidificare altrove, forse infastiditi dall’attività della salina che ricomincia ogni anno in coincidenza con la stagione riproduttiva. Per questo, benché le specie censite siano numerose, quelle nidificanti sono 15-20, tra cui l’avocetta, il piccolo limicolo simbolo dell’Oasi, dall’inconfondibile becco ricurvo. Loro, i fenicotteri e le decine di anatre, dal comune germano alla volpoca, che svernano nelle Saline, prosperano sull’apparente contraddizione che già meravigliava Darwin in Patagonia (“È incredibile come nell’acqua salata possano esistere delle creature”). In realtà l’ambiente della salma non è così ostile come sembra: per tutto l’autunno le vasche ricevono l’acqua del mare, e la bassa concentrazione marina salina permette la vita di numerose alghe, microorganismi e pesciolini. Solo d’estate, quando nelle vasche più interne l’acqua comincia a evaporare, gli uccelli si spostano da quelle pozze ormai sterili verso altre meno salate. Così ogni anno, stagione dopo stagione, si ripete quella pacifica coesistenza di uomini e animali che fa delle saline di Trapani una sorta di incarnazione esemplare dello scopo ultimo del WWF: un mondo in cui l’umanità possa vivere in armonia con la natura. 15 FIAT PANDA 100HP È cattiva ma non fa paura A ccelerazioni brillanti, elevata tenuta di strada e frenate efficaci mantengono quanto promesso dal look aggressivo della Panda 100HP. Sportivi anche i consumi. Migliorabile lo sterzo. Prezzo: 13.400 euro. A tre anni dal debutto, la famiglia della Panda si è ampliata in maniera consistente e, se vogliamo, inaspettata. Almeno stando ai canoni seguiti dall’illustre progenitrice, una perfetta city car che al massimo si era concessa il vezzo delle quattro ruote motrici. Ora, invece, la Panda offre la possibilità di combinarne di tutti i colori e, ovviamente, non si parla tanto delle possibilità legate alle tinte vivaci e trendy della carrozzeria o dell’arredamento, quanto delle opportunità di scelta fra svariati allestimenti, numerose motorizzazioni (benzina, diesel e ora anche quella a metano dell’ecologica NaturalPower) e trazione anteriore o integrale. E se a questo quadro s’aggiunge anche l’evoluzione corsaiola PanDakar il discorso si amplia a parametri sino a poco tempo fa davvero impensabili. Meno “impensabile” ma comunque stuzzicante risulta la 100HP protagonista di questa prova, la versione più potente della Panda, il secondo modello più venduto in Italia nel 2006. Benché il suo motore 1.4 litri sia il più grosso ed esuberante mai montato sulla piccola di casa Fiat, rimane però sempre adeguato a non fare scontrare le ambizioni dei figli con le perplessità dei padri. Infatti, “cavalleria” e cubatura rientrano nello stesso ambito in cui oggi si collocano anche molti turbodiesel. E lo stesso si può dire per il prezzo. COM’È FATTA Le ambizioni da piccola sportiva della Panda 100HP sono ben trasmesse dall’aspetto della carrozzeria, che si distacca con decisione da quello delle altre versioni. Infatti, si presenta con una corporatura più muscolosa cui si accompagna un portamento meno dinoccolato. Meriti dei quasi 2 cm in meno di statura dovuti all’assetto sportivo, dei cerchi in lega (a sette razze) da 15 pollici che “calzano” pneumatici ribassati 195/45 e, ovviamente, dello specifico abbigliamento riservato al consueto corpo vettura. Esteticamente questa pepata Panda si riconosce soprattutto per gli scudi paraurti che integrano ampie grigliature, sebbene non tutte... autentiche. Anteriormente, quelle centrali sono raggruppate in una mascherina di colore nero che, includendo anche la zona portatarga, produce una grande calandra, simile a quella di alcune GTI “made in Germany”. Inferiormente è affiancata da quelle (finte) che accolgono i fendinebbia. L’insieme imprime alla 100HP un’espressione intrigante e vivace. La sua forma atletica è messa in risalto sia dalle appendici aerodinamiche inferiori in polipropilene nero – gli accenni di spoiler sotto gli scudi paraurti, le minigonne laterali e i profili sui bordi dei passaruota – sia dal piccolo spoiler all’estremità del padiglione e dal motivo, incastonato nello scudo paraurti posteriore, che richiama l’estrattore aerodinamico. Il body-kit è completato dalla vetratura posteriore oscurata, che tenta di mimetizzare le porte posteriori, e nel complesso non degenera nell’eccessivo. Tuttavia, chi volesse caratterizzare la 100 HP in maniera ancora più marcata può ricorrere al pacchetto opzionale Pandemonio (pinze freno rosse, gusci dei retrovisori cromati, cerchi in lega color cromo): un nome, una garanzia. Come su tutta la gamma del model year 2007, anche l’interno della 100HP presenta un allestimento in cui si nota lo sforzo profuso per valorizzare la qualità percepibile. Infine, benché l’equipaggiamento sia piuttosto ricco per la categoria e il prezzo di questa Panda, non avrebbe nemmeno guastato un piccolo sforzo per offrire di serie gli airbag laterali. SI GUIDA DALL’ALTO La personalizzazione dell’interno della Panda 100HP è affidata a pochi elementi e non intacca più di tanto l’aspetto dell’arredamento. Infatti, gli interventi principali riguardano la strumentazione, dalla grafica specifica, e l’applicazione dei profili effetto titanio attorno ai quadranti del cruscotto, alle bocchette e ai comandi della climatizzazione che, nel caso dell’esemplare provato, è dell’efficiente tipo automatico. Un po’ più carat- terizzante risulta la selleria anteriore, ben profilata lateralmente per assicurare un buon sostegno al corpo degli occupanti. Peccato, però, che proponga sempre un piano di seduta sopraelevato. A dispetto della presenza della regolazione in altezza ne deriva che l’impostazione di guida è a gambe piegate. Quindi, è in contrasto con quanto ci si aspetterebbe di trovare su una vettura di simile indole e da quanto promette il tasto Sport sulla plancia, destinato a determinare un migliore dialogo fra avantreno e guidatore, con la riduzione dell’assistenza dello sterzo, e a imprimere maggiore prontezza di riflessi all’acceleratore. Tuttavia, la corretta disposizione dei comandi principali e la regolazione in altezza del piantone dello sterzo facilitano la ricerca della posizione più comoda. MOTORE PIÙ POTENTE E FRENI DELLA 4X4 Il motore che equipaggia la più vivace delle Panda deriva dal 1.4 Starjet. Al collettore d’aspirazione dei condotti associa la distribuzione a fasatura variabile. Dall’unità originaria si distingue per il disegno dei condotti d’aspirazione definito in maniera tale da premiare il “sound”, il leggero incremento della compressione, la rimappatura della centralina, la crescita della potenza di 5 cv, da 95 a 100 cavalli, e l’andamento della curva di coppia, con un valore massimo di 13,4 kgm a 4250 giri invece di 12,7 kgm a 4500 giri. Anche il cambio a sei marce, dalla specifica spaziatura, deriva da quello di alcune Fiat di stazza media. Prestazioni e temperamento di questa Panda hanno imposto sia una maggiorazione dell’impianto frenante (come quello della 4x4) a quattro dischi sia una ridefinizione dell’assetto – irrigidito, ribassato e integrato da cerchi da 15” – e del servosterzo elettrico. Quest’ultimo, s’avvale di un sistema DualDrive rovesciato. In pratica, la logica “city” con cui si ottiene la riduzione dello sforzo al volante è sostituita da quella “sport”, un’esclusività della 100HP che decreta una diminuzione della servoassistenza. S’imposta sempre con un tasto sulla plancia e influisce anche sulla reattività dell’acceleratore che, a parità di pressione sul pedale, incrementa l’angolo d’apertura della farfalla dell’alimentazione. COME VA Alla guida della 100HP il vivace rendimento del motore si riscontra in fretta. Infatti, questa unità vanta un’erogazione piena sin dai regimi più bassi, che si fa apprezzare nell’uso cittadino. Ma a partire da 3000 giri sfodera anche una vivacità che assicura divertimento e buoni margini di disimpegno. La brillantezza del 1.4, sempre accompagnata da una tonalità appagante ma talvolta elevata, è ben supportata dal peso ridotto (attorno ai mille chili) e dal cambio a sei marce. Caratterizzato dalla manovrabilità morbida, ma anche da innesti leggermente contrastati, propone una spaziatura corta dei rapporti bassi e intermedi che, pur determinando in quinta marcia una punta massima rilevata molto inferiore a quella dichiarata, favorisce la rapidità delle accelerazioni. E, difatti, nei nostri test strumentali la 100HP si è rivelata più scattante di quanto promesso dal costruttore e, non utilizzando la sesta, abbastanza reattiva nelle riprese. Il rapporto superiore non è lungo ma, di fatto, è di ... riposo, presente per limitare la rumorosità e il consumo alle velocità costanti. Tuttavia, dai nostri rilevamenti risulta che fatica a centrare gli obiettivi, Infatti, già a 130 all’ora si registrano nell’abitacolo quasi 75 dB e le percorrenze s’attestano a poco più di 11 chilometri con un litro. Risultano un po’ basse per una vettura che, pur essendo sportiveggiante ma di certo non estrema, si colloca sempre tra le utilitarie e che, avendo un serbatoio da 35 litri, finisce con il disporre di un… range operativo limitato. Non è nemmeno esaltante la media che scaturisce dall’uso extraurbano autostradale e cittadino – 12,9 chilometri con un litro – dovuta anche all’aerodinamica non ottima- le e alla gommatura extra-large. Sui fondi irregolari la rigidità dell’assetto e i fianchi bassi delle gomme si riflettono sulla guidabilità, perché propiziano il pattinamento delle ruote motrici con le marce basse, e ancor più sul comfort. In compenso il set-up generale supporta adeguatamente il lavoro dell’impianto frenante, il cui mordente non è mai inficiato da fenomeni che possono penalizzare gli spazi d’arresto (molto validi) e il dinamismo della 100HP. Che, infatti, grazie anche all’assenza di qualsiasi accenno di rollio, s’appoggia con decisione, tiene la strada bene e mantiene un buon self-control nelle improvvise situazioni d’emergenza. E, quindi, istintivo controllare il sottosterzo che affiora nelle fasi d’iscrizione in curva e apportare eventuali correzioni di ... rotta. Che, se non si ricorre alla logica Sport sono tutt’altro che episodiche. Infatti, la servoassistenza standard dello sterzo limita l’efficacia del dialogo fra avantreno e volante, inficiando la precisione di guida. E, a proposito di sterzo, va ancora aggiunto che non ci sarebbe dispiaciuto un raggio di svolta più contenuto per facilitare le manovre in spazi ristretti e una maggiore omogeneità d’azione, per armonizzare anche il ritorno sottosforzo. Il comportamento, comunque, è sempre onesto, tanto che la 100HP può mettere in campo tutta l’agilità suggerita dal rapporto fra mole e potenza della vettura.