Corriere InOltre 2011

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Corriere InOltre 2011
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“ …è una memoria di scarso valore
quella che lavora solo per il passato.”
(Da: Alice nel Paese delle Meraviglie)
Giugno 2012
5°
anno
Editoriale
Cari lettori,
da alcuni anni la pubblicazione del Corriere In-Oltre è un appuntamento fisso (e speriamo piacevole) di fine anno scolastico:
sottolinea la conclusione dei corsi, presenta il lavoro svolto e dà voce alle diverse componenti della scuola. Quest’anno abbiamo voluto accentuare la componente interna: il numero che avete in mano è fatto dunque ― più ancora di quelli passati ―
da chi questa scuola la vive in prima persona: allievi e docenti (e conferenzieri, il cui generoso apporto, dato a titolo di puro volontariato, è tutt’altro che secondario).
Chi ci segue da tempo noterà che sono soprattutto i nostri studenti ad avere più spazio che in passato: con le loro testimonianze, le loro riflessioni, ma anche attraverso le loro creazioni manuali, vogliono dirci chi sono, cosa sognano, come vivono
l’esperienza del carcere e con quali speranze guardano oltre. Meritano di essere ascoltati.
Michel Candolfi - Mauro Euro
Disegno di Orfeo
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Insegnare ed educare
In questi ultimi anni incontro molti docenti scoraggiati, demotivati e delusi. Troppo spesso non possono contare né
sulla collaborazione né sul sostegno delle istituzioni e dei genitori. Nella mia vita ho avuto il privilegio di insegnare
ad ogni livello, dalla scuola elementare all’Università. Ho avuto il piacere di dirigere una scuola grande e importante e di quel periodo ricordo l’applicazione allo studio di tantissimi allievi e l’impegno didattico di molti colleghi.
Come insegnante ho commesso sicuramente anche degli errori. Ma dagli errori si impara, molto più che dai
successi. Da queste diverse esperienze (positive e negative) sono
nate queste mie semplici riflessioni, che oso proporre con
l’unico scopo di incoraggiare e
aiutare qualche insegnante nel
suo compito tutt’altro che facile.
Occorre anzitutto ricordare che insegnare è impegnativo, a qualsiasi livello. Cambiano unicamente gli accenti tra
il formare e l’educare (tra la didattica e la
pedagogia). Così, se in una scuola dell’infanzia l’educazione prevale sulla formazione, all’Università questo rapporto si
inverte. L’impegno e la responsabilità richiesti a
chi insegna restano tuttavia immutati. Per questo motivo
nutro per una maestra di scuola dell’infanzia la stessa
stima che per un professore universitario. Insegnare oggi
non è come insegnare ieri. Non si dimentichi che oggi i
bambini/allievi/studenti (che qui di seguito chiamerò solo
allievi) hanno accesso a molte fonti d’informazione oltre la
scuola: basti citare la televisione e Internet. Le classi
sono sempre più eterogenee. Per questo motivo, il
docente deve essere disposto ad accogliere altre
culture e a confrontarsi con nuove metodologie didattiche. Insegnare in una classe multietnica non è
la stessa cosa che insegnare in una classe monoetnica. In tutti i casi valgono alcuni principi fondamentali che possono condurre al successo.
Il tempo è sempre tiranno e per questo motivo va sfruttato in modo ottimale da tutte le parti coinvolte nel processo
formativo. Occorre procedere soprattutto ad una chiara definizione degli obiettivi e dei contenuti, e in ogni fase dell’insegnamento gli allievi devono conoscere bene quali sono questi obiettivi. L’insegnante deve tener conto dell’età, della qualità di vita, dell’ambiente, della psicologia dei suoi allievi. Deve riflettere sui contenuti che intende
trasmettere loro: che cosa, quanto, quando, con quali sussidi didattici, ecc. Il docente deve conoscere e padroneggiare la sua materia. Deve saper valutare il grado di difficoltà delle singole unità didattiche, mirando sempre a conciliare i diversi obiettivi, i contenuti e la metodologia.
Per un attimo vale la pena esaminare la materia da molto lontano e porsi le domande seguenti: Che cosa è importante a breve, medio e lungo termine? Che cosa è interessante? Che cosa è adatto all’età di chi ascolta? Nel caso di
contenuti e concetti particolarmente difficili conviene riflettere a fondo sulle metodologie da adottare. Semplicità non
significa banalità e superficialità. Il docente deve saper trasmettere, spiegare, motivare, trascinare, incoraggiare, entusiasmare. In nessun caso deve offendere, e tantomeno umiliare. Non deve essere geloso del suo sapere (è sempre poco!), ma donarlo con generosità ai suoi discepoli. L’insegnante deve essere consapevole del fatto che nel corso
del tempo sarà superato da molti dei suoi allievi. Non è forse questo lo scopo dell’insegnamento? Chi insegna deve
mostrarsi umano, non paternalistico. Severo, ma giusto! Nel suo intimo deve voler bene ai suoi allievi. L’insegnante
deve saper leggere nei loro occhi: capiscono? Si interessano? Si annoiano? Sono stanchi? Sono preoccupati? Hanno
domande? E non è la quantità dei contenuti che determina la qualità dell’insegnamento. È meglio trasmettere di
meno ma in modo chiaro e corretto, piuttosto che riempire le loro teste di troppe nozioni superficiali. È indispensabile che gli allievi comprendano lo scopo e il senso delle verifiche scritte e orali, senza che ne siano terrorizzati. Occorre concedere qualche pausa e un attimo di respiro. L’esercitazione in classe e a casa deve far parte della
formazione. Saper ascoltare e dialogare, pur restando insegnante fino in fondo, nel pieno rispetto dei ruoli e delle
responsabilità: solo in questo modo il docente riesce a valutare il livello di comprensione di ogni singolo allievo.
E di questo “feedback” l’insegnante deve fare tesoro a livello individuale nello svolgimento della sua funzione. Occorre dare una “chance” a ciascuno, almeno una volta. Anche perché ogni insegnante ha avuto nella vita un momento di difficoltà, di comprensione, di incomprensione, di delusione, di tristezza. Si può esigere senza risultare
oppressivi e autoritari. Il docente deve far capire che anche lui non è perfetto, che può sbagliare, che può essere
stanco o distratto, che può non sapere e che sa mettersi in discussione. Educare all’autovalutazione e all’autocritica
è molto importante. Gli allievi possiedono un grande senso della giustizia e soffrono per la parzialità e le umiliazioni.
In queste mie riflessioni includo pure la scuola materna, anche se non posso vantare una esperienza didattica diretta.
Come padre e nonno non posso però che confermare quanto ha affermato lo scrittore e filosofo cinquecentesco Michel De Montaigne: “I giochi dei bambini non sono giochi e bisogna considerarli come le loro azioni più serie”.
Ogni insegnante dovrebbe di tanto in tanto riandare alle fasi della propria vita: i problemi dell’infanzia, una malattia, un insuccesso scolastico, il periodo della pubertà, il primo amore, l’ansia che lo coglieva prima di un esame.
Tutto ciò lo aiuterà a capire meglio chi gli sta di fronte. Crescere non è facile. Aiutiamo i giovani a crescere in modo
armonioso. Essi sanno essere generosi, responsabili, giusti e riconoscenti. Una società senza buoni docenti si ammala, muore. Insegnare sarà sempre importante e fondamentale. Gli insegnanti vanno incoraggiati, rispettati e
aiutati, se necessario anche corretti e spronati. La scuola svolge un ruolo di enorme importanza per la società. In
questo contesto è indispensabile una perfetta collaborazione tra genitori e docenti, sempre nel pieno rispetto delle
responsabilità e delle competenze specifiche.
“Last but not least”: in questi ultimi anni ho avuto la possibilità di tenere parecchie lezioni e conferenze in un grande
carcere. Nella loro essenza e nello spirito di fondo, le riflessioni sopra esposte valgono pure per i detenuti. L’offerta di formazione in favore dei detenuti è un atto di civiltà e di dignità umana. Favorisce e facilita sicuramente il
futuro reinserimento dei detenuti nella società civile e nel mondo del lavoro. Per questi motivi credo che una formazione mirata e qualificata in carcere contribuisca a ridurre in modo sensibile il rischio di recidiva. Ovviamente
in questo campo particolare c’è ancora molto da fare, da valutare e da scoprire: definizione degli scopi e degli obiettivi di formazione, definizione dei bisogni concreti di formazione individuale, preparazione specifica dei formatori,
strumenti didattici, uso dei mezzi di comunicazione di massa, coordinamento e scambio di esperienze tra formatori interni ed esterni, monitoraggio del successo effettivo a breve, medio e lungo termine, coinvolgimento e responsabilizzazione dei diretti interessati.
Dalla conferenza “La radioattività”
Arturo Romer
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Diaporama
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Da alcuni anni conosco Malù Cortesi, e spesso ci
capita di macinare km e km in bicicletta assieme,
raccontandoci le reciproche avventure in luoghi
lontani. Da qui mi è arrivata la proposta e l’invito
a presentare la mia passione per le gare particolari in posti sperduti.
È stato un vero piacere poterlo fare, non al solito
contesto di pubblico sportivo, che spesso cerca
solo la prestazione sportiva e cronometrica, ma
ad una platea di persone molto diverse tra loro
per cultura, nazionalità, religione, usanze e costumi.
A dire il vero all’inizio un po’ di titubanza c’era:
non sapevo che cosa avrei potuto trovare nell’istituto carcerario, non sapevo come avrei dovuto comportarmi, come affrontare l’incontro; a
parte i controlli di routine all’entrata mi sono subito trovato a mio agio, l’ambiente era completamente diverso da quello che ci si può
aspettare, non ho notato tensioni particolari.
Un po’ di tensione è cominciata a salire quando
sono entrate in aula le persone, che però subito
mi hanno stretto la mano e salutato in maniera
molto gioviale. La barriera “psicologica” è stata
abbattuta, sono stato accettato e da subito mi
sono trovato a mio agio.
Durante la presentazione ho cercato di captare i
temi che più interessavano, notando negli ascoltatori la curiosità per i paesaggi che mostravo e
la particolare attenzione che prestavano a
quanto raccontavo.
Al termine è giunto il momento delle domande:
sono stato molto sorpreso di quanta curiosità
avesse suscitato questo mio diaporama, con domande puntuali ed interessanti su diversi
aspetti: preparazione fisica e mentale, materiale
e abbigliamento, rapporto con le popolazioni locali, religione e cultura.
È stato un pomeriggio emozionante, molto arricchente, che mi ha permesso di scoprire un
luogo che si conosce solo dall’esterno e che mi
ha lasciato un ricordo più che positivo.
Auguro a tutti un futuro pieno di soddisfazioni ed
emozioni.
Marco Gazzola
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«Ironman»
Quando Mauro Broggini mi ha chiesto di presentare la
mia esperienza all’Ironman delle Hawaii, la gara di endurance più dura al mondo, ho subito accettato: sono
una persona aperta ad ogni proposta. Mauro mi ha
spiegato in anticipo cosa avrei dovuto aspettarmi da
quel microcosmo, in particolare chi sarebbero stati i
miei interlocutori, ma anche le regole, le dinamiche, i
progetti per conciliare prigione come condanna e prigione come possibilità di ripartire.
Io sinceramente ero più preoccupato da quello che
avrei potuto raccontare ai detenuti.
Che lo sport rappresenta per me la libertà? Le emozioni nel nuotare in mare aperto? Trovarsi in mezzo ad
un’isola sperduta nel Pacifico a pedalare in perfetta solitudine? Correre fino allo sfinimento ed aspettarsi all’arrivo un caloroso pubblico ad applaudirti? Allenarsi
tutti i giorni su e giù tra le montagne meravigliose del
Ticino e nuotare nei suoi laghi? Oppure che sì, sono una
persona che ha fatto e fa tanti sacrifici, enormi, che ho
raggiunto grazie all’impegno tante soddisfazioni, ma
anche che in fondo sono una persona fortunata ad
avere avuto, oltre al talento, anche tutte le condizioni
ideali regalatemi dal mio microcosmo?
Troppe domande: ho quindi deciso di improvvisare e
lasciarmi sorprendere dal pomeriggio alla Stampa.
La prima sorpresa è stata sicuramente quella costituita dal personale del penitenziario. Infatti, non ci avevo nemmeno pensato, ma anche loro fanno parte del microcosmo della Stampa! Ed anche loro vivono comunque almeno 8 ore all’interno del
carcere. Sono rimasto veramente sorpreso dalla cordialità, dall’interesse nei miei
confronti e dalla passione per lo sport (attivo!), dal loro dinamismo. Insomma:
l’esatto opposto delle guardie dei film americani!
La seconda nota invece riguarda la struttura ed in particolare le celle. Era la prima
volta che visitavo una prigione, e devo ammettere che, pur sapendo che la situazione
in Svizzera è sicuramente ben superiore alla media, mi sono sentito rabbrividire!
Insomma, per un amante della natura e dell’aria aperta, mi è sembrato davvero impossibile solo immaginare di vivere rinchiuso! Sicuramente sarebbe molto educativo
mostrare le celle ai giovani: passerebbe in fretta la voglia di fare stupidate! Ma qui,
ancora prima di incontrare il mio pubblico, ho capito e apprezzato la grande passione di Mauro e in parte la sua scelta nell’invitarmi: dare, nel limite del possibile,
tutti gli strumenti per ripartire meglio, perché la vita è troppo bella per viverla così
e l’opportunità di ripartire deve essere sfruttata!
L’incontro con i detenuti invece è stato alla fine molto semplice: ho trovato un pubblico assolutamente normale e soprattutto molto eterogeneo. Chi curioso ed interessato, con domande molto intelligenti, con qualche battuta, chi semplicemente
voleva passare un’oretta diversa, chi anche era un po’ più disattento. Solo dopo l’incontro ho cercato di ricordarmi gli occhi che avevo incrociato, e immaginarmi le storie celate in ogni persona!
Sono partito dal penitenziario felice – non tanto per aver salvato la pellaccia
(scherzo) – ma perché ho conosciuto una nuova realtà e soprattutto, visto che ero
molto nervoso a poche settimane dalla mia nuova sfida, perché io stesso ogni tanto
mi sento imprigionato nella routine dell’allenamento e dell’ambizione, nella ricerca
del riconoscimento, dimenticando la grande fortuna che ho: quella di avere la salute
e una condizione di vita che mi permette di vivere in libertà la mia passione.
Per la cronaca, poche settimane dopo la mia visita alla Stampa, l’ 8 ottobre 2011, mi
sono classificato 30° assoluto all’ Ironman delle Hawaii (4 km a nuoto, 180 km in bici
e 42.2 km a corsa), vincendo la mia categoria col nuovo record mondiale master del
percorso, scendendo sotto la barriera delle 9 ore!
Dopo una partenza a nuoto molto conservativa (in questa edizione sono riuscito a
godermi i 4 km nel mare in mezzo ad altri 2000 scatenati e dopo 3 km ho visto una
cinquantina di delfini sotto di noi che erano venuti a spiarci: che emozione!). Sono poi
partito per i 180 km in bicicletta a tutta, spingendo ad ogni colpo di pedale come se
fosse l’ultimo della mia vita, utilizzando la bicicletta-siluro che ho fatto provare ai
detenuti (velocissima): durante una fase “mistica” dopo 100 km, con le endorfine a
mille (le endorfine sono delle sostanze prodotte dal corpo e simili alla morfina: si
producono anche durante sforzi esagerati e aiutano a non sentire il dolore, ma se
sono sopra ad un certo livello provocano anche allucinazioni) ho pensato anche a
tutti voi ! Sceso dalla bicicletta in tempo record (quasi 40 km/h di media), sono partito per la maratona e sono andato subito in crisi: nella mia testa è passata una
scritta come quei display rossi che scorrono orizzontalmente, su cui leggevo testualmente: “Come xxzxx faccio io ora a correre 42 km?”. Poi ho spento il cervello,
ho cercato solo di tirare avanti da un posto di rifornimento all’altro, sognando la
Coca-Cola ghiacciata che vi trovavo ogni miglio. Al km 30 sono stato raggiunto e superato nel punto più caldo del tracciato da un americano della stessa categoria (mi
avrebbe fregato il primo posto e il record!), ma subito dopo l’ho trovato lì, davanti a
me, in crisi: e quando vedi uno più in crisi di te, rinasci! È stato come mettermi la
presa da 360V: ho corso gli ultimi 10 km come un pazzo e non mi ha più ripreso fino
all’arrivo, dopo 8h e 54’: grande Zambo!
Andrea Zamboni
I miracoli
e la solidarietà
È con il titolo “25 anni di miracoli tra
l’Avana e Managua” che presento, in
un’autunnale giornata di novembre, la
nostra Associazione per l’aiuto medico
al Centro America (AMCA) ad un
gruppo di persone del carcere La
Stampa di Lugano. La scuola In-Oltre
organizza eventi e conferenze; Mauro
Broggini ci chiede di presentare la nostra associazione e i suoi progetti
socio-sanitari, in Nicaragua e a Cuba.
Aderisco ovviamente con piacere, so che mi è sempre stato sufficiente un attimo per iniziare a parlare di AMCA ed è quasi difficile poi finire. E sempre devo
pormi dei limiti, strutturare gli interventi e mettermi dalla parte di chi mi
ascolta, per capire dove e come catturare l’attenzione, dove sono gli interessi di
chi mi ascolta e quale registro di linguaggio adottare. Anche in gruppi eterogenei si crea sempre un’atmosfera di ascolto, nella quale chi parla e chi riceve le
informazioni si ritrova o si scontra. E tutto ciò mi ha sempre stimolato.
Generalmente non è difficile immaginarsi per un oratore quale sia l’ambiente di
una scuola, o di una sala di conferenza, ma io il carcere non lo conosco: me lo
rappresento, ma non lo conosco. E conosco poco le persone che ci vivono; garantista di natura, ho addirittura sempre pensato che queste strutture fossero
luoghi troppo coercitivi, dunque di relativa sofferenza.
La visita che Mauro mi offre prima dell’incontro è una visita completamente
aperta, di scoperta di un luogo chiuso, di accesso ad una porzione di rimozione
che la società credo viva nei confronti di una struttura carceraria. Laddove si
entra, e in seguito non è più interesse sociale sapere cosa succede. Una porta
con poca comunicazione tra il dentro e il fuori. Ma parlo di rappresentazioni di
una comunità “fuori”, quella a cui appartengo, troppo indaffarata in mille affanni per chiedersi cosa avviene oltre se stessa.
E la scoperta è grande; un luogo in cui vi sono molte meno porte chiuse di quelle
che pensavo, molte attività, tanti contatti fisici: darsi la mano ad un incontro è
un atto che quasi più nessuno fa. Presentarsi, darsi il buongiorno, guardarsi
negli occhi, fa parte dei ricordi di chi ha avuto la fortuna di vivere in piccole comunità, villaggi, dove tutti si conoscono.
Il mio pubblico è attento, forse il più attento che abbia mai avuto. La sua curva
dell’attenzione non accenna a diminuire e il momento delle domande è un momento di relazione; di domande essenziali e non banali, di domande personali,
su di me e su di loro, sul Nicaragua ma anche sulla politica, sul mondo.
Ringrazio di cuore questa comunità – e le sue strette di mano, i suoi saluti – che
ha voluto accogliermi e ascoltare la nostra storia; i progetti come luoghi, anche
loro, di lotta contro l’emarginazione e l’alienazione, attuate da strutture forti, al
di fuori del nostro controllo. E ringrazio i responsabili di questa struttura, e gli
operatori, che con queste opportunità di visita e di partecipazione alla vita del
carcere permettono alle porte di essere meno chiuse.
In Nicaragua mi hanno detto spesso compartimos el poquito que tenemos, e ho
davvero spesso condiviso tortillas y queso anche se forse erano le ultime in
quella casa, perché i miracoli forse nascono proprio da lì, dalla solidarietà e
dalla condivisione.
Manuela Cattaneo
Jet di Roberto
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Le verità nascoste sulla carne
“Il vero viaggio di scoperta non è vedere nuovi mondi ma cambiare occhi” M. Proust
lunedì Cultura
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Mentirei se dicessi che la proposta di andare a fare una conferenza in carcere non mi abbia un po’ inquietata. Ma nello stesso tempo, la curiosità
di fare un’esperienza di questo tipo mi ha portata ad accettare subito l’invito.
Inquietudine, da una parte, generata dall’immagine che ci si fa del carcere e, dall’altra, rinforzata, nel mio caso, da un contatto precedente già avuto
con una struttura carceraria. Ebbene sì, il mio primo contatto, avvenuto anni addietro per motivi di lavoro, aveva rafforzato la percezione della struttura carceraria come luogo denso di tensioni e vissuti negativi. Forse perché in quell’occasione dovevo incontrare una persona per un colloquio,
e la normale procedura di sicurezza vigente all’interno di una struttura di questo tipo mi aveva messa a disagio.
Per questo, l’inquietudine.
L’inquietudine di dover andare a passare due ore in compagnia di detenuti: oltretutto, di detenuti uomini!
Mi è stata offerta la possibilità di fare una prima visita della struttura, durante la quale ho potuto cominciare a prendere confidenza con il contesto nel quale avrei successivamente svolto la conferenza. Già da quel primo momento, la mia percezione e le conseguenti sensazioni hanno cominciato a cambiare. Ho scambiato qualche parola con alcuni agenti di custodia e incontrato alcuni detenuti. Grazie a questo primo approccio, che
mi ha permesso di iniziare a sciogliere la mia iniziale inquietudine, il giorno della conferenza ero onestamente più preoccupata dell’andamento
della mia presentazione piuttosto che del luogo in cui sarebbe avvenuta.
Ho cominciato a fare la mia presentazione, a parlare, a spiegare le slides che mostravo, e ad un certo punto non esistevano più le mura carcerarie, gli agenti di custodia e i detenuti, ma semplicemente un pubblico attento, motivato e curioso che ha reso quelle due ore un momento d’incontro
in cui ci siamo scambiati domande, risposte e punti di vista, a volte anche molto discordanti: ma sapevo fin dall’inizio di aver scelto un tema assolutamente non facile da trattare e spesso motivo di dibattiti piuttosto accesi e, a volte, polemici. In questa occasione il dibattito si è sviluppato e
risolto in maniera assolutamente costruttiva.
E cosa dire del mio terzo momento?
Una mattinata a cucinare e chiacchierare con le donne sull’alimentazione?
La gentilezza, la cordialità e la simpatia con la quale mi hanno accolta, non la scorderò mai. All’inizio ero un po’ impacciata con loro, ma sono riuscite a farmi sentire a mio agio e a farmi vivere una mezza giornata davvero piacevole. Ad un certo punto faticavo perfino a capire come potessero
essere finite in carcere persone così gentili.
Sono molto contenta di aver avuto l’occasione di fare questa esperienza che mi ha permesso di osservare il carcere e, soprattutto, la
popolazione carceraria con altri occhi: con occhi che guardano oltre, che non si fermano solamente all’idea che ci si fa aderendo,
spontaneamente e senza troppo rifletterci, all’immaginario collettivo, il quale considera il carcere unicamente come dimora per persone che hanno commesso un crimine e vede nei carcerati solo individui che hanno meritato la detenzione per gli atti che hanno commesso.
I detenuti sono prima di tutto delle persone e il progetto In-Oltre sta dando valore
proprio a questo, permettendo a chi in passato ha agito contro la legge di costruire
le basi per una vita futura migliore. E grazie a progetti come questo, il carcere non è
più solamente luogo di detenzione, ma luogo di crescita, riflessione, formazione,
umanità.
Credo pure che un progetto del genere abbia altresì il merito di permettere – a chi
ha la fortuna di poter fare un’esperienza di incontro all’interno del carcere, come
quella che ho fatto io – di andare oltre il pregiudizio e il luogo comune e quindi di costruirsi una nuova percezione del carcere più ricca e più aderente alla realtà. Nuova
percezione che porta a nuove emozioni.
Nel mio caso, l’inquietudine si è trasformata in piacere.
Scultura di Stefano
Marina Trento
La mia Africa...
la mia Svizzera
Sono stato invitato da Mauro Broggini ad un incontro con i detenuti alla Stampa,
nell’ambito della formazione del lunedì pomeriggio. C’erano situazioni che non
mi erano nuove: sono, per così dire, “abituato” a parlare in un contesto scolastico, come davanti ad una classe; non sono proprio abituato, ma ero già stato
alla struttura della Stampa, per trovare dei conoscenti. Ma ho avuto un po’ di
preoccupazione, come sempre, quando devo incontrare persone che non conosco e quando devo parlare di un’esperienza che io stesso devo ancora capire bene.
Sono partito in Ciad come missionario: cos’è un missionario, cosa fa?
Com’è il Ciad? Non è facile raccontare solo così, senza immagini, un
mondo, tanti volti, tante impressioni. E, tra le tante cose che si possono
dire, quali aiutano a capire, quali aiutano a vivere?
Ho trovato degli Africani: chissà cosa pensano delle mie impressioni
sul loro mondo? Avevo messo in conto di essere preoccupato per la
loro presenza; invece ho provato una sensazione comunque di sollievo e di comprensione, nel modo in cui hanno ascoltato e in cui
sono intervenuti: quasi di “complicità” nel senso buono, perché,
ascoltandoli, ho sentito che abbiamo visto le stesse cose, e questo mi ha incoraggiato a scambiare delle impressioni.
Ho scoperto in questo incontro un certo modo comune di vedere le cose, comune tra me che dovevo parlare e chi mi ascoltava: cioè quando devi mettere in conto
una distanza tra te e il mondo, che sembra lontano e che ti sembra solo da mediare, da immaginare, da ricordare, eventualmente da progettare per il futuro.
Abbiamo cercato insieme dei punti di aggancio di discussione, che hanno funzionato: per esempio: come faccio a
cogliere le opportunità che mi vengono offerte? Come reagisco di fronte a una valanga di problemi che ti travolge? Perché ho paura ad investire nel futuro? Come gestisco i beni che ci sono? Quali sono i rapporti che costruiscono e aiutano?
Non so più bene di cosa ho parlato, sicuramente di troppi problemi e di troppe preoccupazioni. Ma su una cosa ci siamo incontrati: sul
bisogno di ricostruire tutto un mondo, che sembra troppo lontano, a partire da riflessioni su pochi ricordi, su qualche informazione, a partire dai problemi che ci toccano adesso e che ci domandano di vivere.
Alla fine, come conclusione, ho ritenuto due frasi che mi fanno sentire che l’incontro è avvenuto, due frasi di cui sono riconoscente, come di una gentilezza:
uno ha chiesto: “donnez-nous un conseil…”. “Donner des conseils” è un’espressione che ho sentito molte volte in Ciad: indica quando il padre semplicemente parla o racconta le sue cose davanti ai figli, e loro ascoltano, come per apprendere dalla sua esperienza, come per entrare nella sua vita. Io non avevo consigli da dare, ma ho ricevuto
onorato questa frase.
Un’altra frase importante è stata “… pour quand on sera dehors”. Sì, è il modo giusto di vedere; non è che la nostra vita sia “in sospeso”, solo attaccata a ricordi o segnali
lontani. Non è che la nostra vita sia qui ibernata in attesa di riprendere un giorno. Già adesso possiamo imparare a vivere, incontriamo persone che cercano di vivere con i
loro problemi, che possiamo aiutare con quello che abbiamo di buono, e che ci possono aiutare con la ricchezza della loro vita.
Lorenzo Bronz
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lunedì Cultura
Solamente per passione
Memore della bella esperienza fatta con la mia conferenza sulla Bolivia nel 2010, ho accettato l’invito di
Mauro Broggini di tornare alla Stampa per presentarvi un tema che mi stesse a cuore.
Sapendo, dall’ultima volta e dai commenti degli altri conferenzieri letti nel vostro giornaletto, che siete un
pubblico esigente e preparato, ho pensato che raccontare assieme all’amico Sergio Luban il percorso che
ci ha portati a pubblicare due libri poteva richiamare il vostro interesse ed essere di vostro gradimento.
Sono medico dentista e Sergio è medico. Come molte persone a questo mondo, nel nostro tempo libero ci
dedichiamo a delle attività che ci appassionano e che ci emozionano. Personalmente fin dalla scuola elementare sono stato attratto dalla scrittura. Ricordo bene l’ampio albo del liceo che fungeva da campo di battaglia per feroci scambi di idee attraverso lunghe lettere che alcuni di noi studenti e a volte professori
scrivevamo su vari argomenti. Eravamo nel 1969, dunque ancora in pieno spirito del ‘68: un’epoca di ebollizione
e di effervescenza in cui esprimere con animosità le proprie opinioni.
Poi sono cominciati i viaggi, di cui riportavo le esperienze riempiendo in modo spasmodico dei diari che conservo
ancora. Il problema è rileggere pagine di giorni descritti nei minimi dettagli e di cui a volte non ricordo più niente. Durante un viaggio in Messico, avevo pianificato la visita degli ultimi discendenti diretti dei Maya: i Lacandoni. Questa tribù
vive nel mezzo della foresta tropicale dello stato del Chiapas. Il giornale Eco di Locarno mi aveva proposto di scrivere una
serie di articoli su questa esperienza. Avevo così potuto riassumere in tre puntate il pregnante incontro con questa etnia.
Tornato in Ticino ho aderito ad un’Associazione che si chiama Società per l’Arte e la Natura, che è attiva nella difesa del patrimonio culturale e architettonico del Ticino e
anche delle sue componenti naturalistiche. La STAN ha una bella rivista che si intitola “Il nostro paese” e che viene pubblicata 4 volte all’anno. Finché sono stato nel comitato, per una decina di anni, scrivevo regolarmente degli articoli per la rivista su temi che spaziavano dalla difesa, contro l’ingordigia edilizia speculativa, di certe belle ville
di fine ‘800, alla protezione di zone naturalistiche preziose.
Nel 1998 ho fondato l’Associazione Bolivia-Ticino, di cui vi ho parlato durante il nostro primo incontro, per venire in aiuto alla popolazione della città di Aiquile distrutta in
quell’anno da un terremoto. Per diversificare la raccolta di fondi in favore dei terremotati boliviani, ho pubblicato un libro in cui ho raccolto le filastrocche in dialetto ticinese
che avevo composto e che raccontavo ai miei figli piccoli per farli addormentare.
Le filastrocche avevano come protagonisti degli animali… ebbene, è capitato che una settimana dopo la presentazione del libro ho incontrato Sergio al Mercatino natalizio di
Ascona e lui, sapendo della mia presentazione e del tema del libro, mi ha chiesto se non mi sarebbe piaciuto scrivere una breve storia sui gabbiani, dal momento che in quel
periodo aveva concentrato il suo hobby di fotografo su questi uccelli e accarezzava l’idea di un libro con una storia corredata dalle sue foto. Sul momento liquidai la pendenza
con un “vedremo” che non era sicuramente di buon auspicio e aveva il tono della rinuncia a priori.
Poi, tornato a casa, sono stato assalito bellamente nella mente da uno stormo di gabbiani; pensavo in continuazione a loro e, io che sono un canottiere abbastanza costante,
mi sorprendevo a fermarmi sul lago ad osservare l’evoluzione di questi uccelli invece di remare. Mi sono chiesto cosa avrei potuto scrivere sui gabbiani. La prima tentazione
è stata quella, per trovare qualche spunto, di andare a rileggermi il famoso “Gabbiano Livingston” di Richard Bach che tanto mi aveva colpito vent’anni prima. Mi sono detto
però che se l’avessi fatto, sarei rimasto in soggezione di fronte alla bellezza del testo e che poi non sarei mai stato in grado di scrivere niente di valevole. Mi ero convinto che
se storia doveva essere…, primo: avrebbe dovuto essere solo farina del mio sacco, senza suggerimenti o condizionamenti esterni di qualsiasi natura; secondo: la storia comunque doveva comprendere una vicenda in cui fossero presenti anche personaggi umani, e non solo uccelli.
Non sapevo da dove cominciare, finché un giorno ho avuto una vera e propria folgorazione e in pochi minuti ho avuto ben chiaro in testa in grandi linee la trama esatta della storia dall’inizio alla fine. La storia era ancora tutta da scrivere ma partire con queste premesse era confortante. E così poco a poco, in tre anni, sono riuscito a completare l’opera.
È stato un lavoro duro, appagante, ogni tanto disperante ma soprattutto rassicurante per la presenza di Sergio nell’operazione. Mi sentivo sempre un po’ meno solo davanti alle
pagine bianche da riempire. Tutto il lavoro che abbiamo fatto assieme è stato il risultato di un rilancio reciproco e continuo dei propri entusiasmi: le parole dello scrittore innescavano le idee per nuovi scatti del fotografo, le cui immagini a loro volta spronavano la fantasia del primo e questo in un movimento simile a quello dei pattinatori i quali, tenendosi per mano, si spingono a vicenda sul ghiaccio.
Nella stesura del racconto mi sono affidato molto alla mia voglia di viaggiare e alla mia passione per la natura. Mi è capitato di descrivere dei posti in cui non ero mai stato:
la Valtellina per esempio, o l’Irlanda.
Il risultato è nelle vostre mani e spero che abbiate letto il libro e che sia stato di vostro gradimento.
Il secondo libro, “Il sapore del racconto”, ci è stato ispirato da un famoso fotografo specializzato in pubblicazioni culinarie, Bruno Hausch.
Bruno desiderava pubblicare un libro in cui comparissero le fotografie di ricette ticinesi e dei personaggi che avessero proposto questi piatti.
Sergio era stato reclutato per ritrarre i personaggi ed io per scovare sul territorio persone disposte a svelare ricette autoctone particolari.
Scomparso prematuramente Bruno Hausch, l’operazione sembrava ormai destinata al dimenticatoio. Poi, un giorno, mi è venuta l’idea di riprendere il tema modificando gli intenti: chiedere a vari personaggi, dimoranti in Ticino, di svelare la loro vita e una loro ricetta di cucina. La
scelta dei personaggi non è stata in alcun modo pianificata a tavolino. In fondo ci siamo lasciati guidare dalla spontaneità e soprattutto dall’ispirazione che i personaggi ingaggiati suscitavano di volta in volta in noi.
Le prime due interviste erano già state programmate nel progetto originale, anche se Ninetta e Graziella, depositarie di due ricette molto originali e proprio autoctone della Valle Onsernone, non si aspettavano che la loro biografia diventasse il tema dominante del progetto.
A dire il vero avevamo deciso che le prime due storie dovevano fornirci le indicazioni se il libro, così come l’avevamo pensato e concepito, fosse realizzabile. Ebbene, è stato un momento di piacere e di intense emozioni ascoltare gli aneddoti, le gioie, le vicissitudini di Ninetta, una donna di grande
dignità, vissuta nella semplicità ma con una forte carica di umanità, dotata in più di un notevole senso dell’ironia. Questa prima intervista con lei mi
ha commosso profondamente. Ciò che mi ha colpito è il legame reciproco di simpatia e di affetto istauratosi durante l’incontro con Ninetta. È da
lì che ha cominciato a fare breccia l’idea del sapore non solo delle ricette ma soprattutto dei ricordi, della storia, degli affetti delle persone intervistate.
Alla fine ne è risultato un lavoro di cuore, umanamente molto arricchente, emotivamente rilevante. Abbiamo dato ampio
respiro all’ascolto, cercando di sviluppare la capacità di sintonizzarci sugli stati d’animo dell’altro. Ciò ha rafforzato in noi
la convinzione di come, in generale, sia importante la conoscenza reciproca con chi ci circonda. La ricetta giusta sta nel dedicare a una persona tutta la nostra attenzione,
l’ascolto senza distrazioni. Solo così si riesce a sentire appieno il sapore del suo racconto e la bellezza dell’intesa che ne consegue. Viviamo un’epoca in cui continuano a far
notizia soprattutto la violenza, l’aggressività, la sopraffazione, e molti si chiedono come uscir fuori da questa spirale infernale. Noi non abbiamo la pretesa di dare ricette all’infuori di quelle culinarie. Ma forse un suggerimento può risultare utile: ci vuole sicuramente dialogo, ma a monte di quello è fondamentale l’ascolto, un ascolto senza distrazioni portato avanti con umiltà da una parte e con empatia e partecipazione dall’altra. Il risultato del lavoro è questo libro in cui troviamo 14 personaggi uniti dall’intreccio
ricamato con il filo della loro terra e da quello della vita che offre ad ognuno alterne fortune e disgrazie. Spero che anche il secondo libro vi sia piaciuto e che abbiate magari
potuto realizzare alcune delle ricette.
Alain Morgantini
Quale fotografo in evoluzione mi diletto con diversi obbiettivi e non con una penna...
I primi anni della nostra vita sono determinanti per le decisioni future in ambito professionale, privato e artistico. Così penso che la mia dedizione profonda alla fotografia si
sia consolidata anche grazie ad una dimensione culturale poliedrica costante vissuta durante l’infanzia-adolescenza ad Ascona. La casa si chiamava "Incontro" e ricordo diversi dialoghi con pittori, scrittori, musicisti, architetti, psicoanalisti di grande spessore attorno al tavolo di legno la domenica pomeriggio. Era un rito settimanale, la mattina mia madre preparava la torta e mio padre i libri da regalare. I primi scatti risalgono al periodo liceale, il primo apparecchio fotografico (Konica) era totalmente manuale
e le stampe si creavano in cantina; una realtà ben diversa rispetto alla tecnica odierna. Prediligo fotografie di paesaggi e ritratti, e l’intento finale riguarda una condivisione
costante del mio lavoro "artistico" per regalare un momento di forte emozione. Le immagini sono "previsualizzate" nella mia mente e il mio compito riguarda la ricerca dei
soggetti da immortalare.
L’incontro con Alain, dunque, non è poi così casuale, e concretizzare 2 libri è stata un’esperienza fantastica e stimolante. Un progetto convergente crea un legame indissolubile, con lui ho conosciuto diverse persone e luoghi che hanno lasciato un’impronta profonda nel mio animo. Tramite questa esperienza ho scoperto l’importanza di valori
semplici ma basilari come la determinazione, la pazienza, la passione, l’amicizia, la solidarietà, il rispetto e l’empatia.
Il carcere lo conosco da precedenti esperienze professionali in ambito psichiatrico a Ginevra. Presentare una nostra creazione è molto diverso, ritengo che la dimensione artistica sia universale e ponte ideale tra esseri umani così simili a livello primordiale.
Ringrazio Mauro Broggini per questa diversa opportunità ricca a livello umano ed emozionale.
Sergio Luban
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6
Moduli
di formazione
Quando arrivi, la mattina quasi all’alba, alla Stampa, per
entrare devi confrontarti a diversi cancelli sprangati, la
richiesta di documenti, la consegna del telefonino. Poi
attraversi lunghi corridoi, ti ritrovi sul campetto di
calcio praticamente vuoto a quell’ora, entri in una
piccola aula dove ti aspettano una decina di persone
che hanno manifestato il proprio interesse a una
discussione sulla Svizzera, le sue istituzioni, la
sua democrazia, i suoi poteri forti. E improvvisamente ritrovi il calore umano fra persone che in
parte ti riconoscono e che subito all’inizio dimostrano il loro marcato interesse per il contenuto del corso. Persone con un passato
vissuto, con esperienze diverse, anche di
nazionalità diversa, ma tutte consapevoli
dell’importanza di conoscere un po’ meglio il paese nel quale, in quel momento,
si trovano, e che certo non possono lasciare.
E allora ti metti a raccontare di come la
Svizzera attuale è il frutto di una lunga maturazione che ha comportato un continuo sviluppo che ha
portato a quella realtà che stiamo vivendo in questo momento.
E da lì tutta una serie di domande, che vanno dal sistema finanziario,
alle banche, alla cultura ma anche al sistema giudiziario, alla politica sugli
stranieri, alla questione Svizzera aperta oppure no, Svizzera che sfrutta gli stranieri,
che non garantisce la parità di trattamento, nemmeno in carcere.
È tutta un’umanità che ti si mette di fronte quasi a farti dimenticare il luogo dove sei: anche nella pausa
sigaretta, richiesta dopo quasi due ore di scambio di idee, hai la consapevolezza che di fronte trovi delle persone con le loro idee, i loro umori, il loro passato del quale ti parlano anche in modo sorprendentemente aperto.
Alla fine ti dispiace di dover interrompere quello scambio così intenso di idee e di sensazioni. Esci però con la consapevolezza di aver dato qualcosa che è stato assunto con interesse e curiosità. A quel punto qualcuno ti dice: Vorrei poter uscire con te.
Un sorriso di comprensione e, attraversando il campo per entrare nei corridoi che ti portano all’uscita, pensi alla durezza di una vita in
carcere ma anche alla qualità della pena, alle possibilità date ai detenuti di formarsi e di interessarsi alla società nella quale prima o poi dovranno rientrare, e vivere.
Corrado Barenco
Come provare a descrivervi quest’esperienza quale formatrice presso
il penitenziario? Avrei potuto iniziare con una lunga lista di paure e remore che mi hanno assalito un minuto dopo aver accettato tale incarico quale donna, ma preferisco puntare l’attenzione sul vero fulcro
di tale mia esperienza: la liberazione dai preconcetti ed il miglioramento delle mie competenze quale formatrice.
Con il trascorrere del tempo e conoscendo meglio i corsisti è diventato per me fondamentale soddisfare le loro esigenze di apprendimento, più che giudicare il loro passato.
L’intensità della lezione, infatti, li proiettava intellettualmente
tutti al di fuori di quella struttura, permettendogli di sognare,
di fantasticare e di progettare realmente un’attività quali
indipendenti una volta scontata la pena e rientrati alla loro
vita normale. Inevitabilmente da tale approccio è derivata
una quantità di domande che mi hanno portato ogni volta
ad un approfondimento piacevole della materia, che mi
ha arricchita e resa più esperta di quanto non fossi all’inizio.
Un aneddoto simpatico mi permetterà di farvi capire
quanto ad un certo punto io non mi sentissi più in
una struttura penitenziaria. L’ultima lezione prima
delle festività natalizie ho voluto acquistare dei
panettoni e delle bibite presso lo spaccio interno
del penitenziario per consumarli insieme a loro.
Quando è arrivato il momento di aprire i panettoni mi sono resa conto che eravamo sforniti
di coltello, così ho chiesto ad alcuni partecipanti di procurarselo in cucina, ma ovviamente è scattata una risata generale,
pensando che stessi scherzando. Solo dopo
tale risata mi sono resa realmente conto che il coltello poteva essere un problema, così, dopo varie proposte
irrealizzabili cui avevo ormai dato il via con la mia, abbiamo deciso
di chiamare una guardia, la quale, con il suo coltellino da tasca, ha provveduto a tagliare le fette del nostro bel panettone.
In conclusione credo che veicolare le immense forze dei corsisti verso un obiettivo sano e
lecito sia diventato il vero risultato del modulo: ne vado fiera e ringrazio coloro che hanno reso
possibile tutto ciò collaborando insieme a me anche silenziosamente.
Daniela Colloca
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7
Moduli di formazione
Cura degli
spazi
comuni
pratica.
Anche quest’anno mi è stato proposto di insegnare al
corso base per scopini presso il penitenziario giudiziario La
Stampa di Lugano.
Considerate le esperienze positive degli scorsi anni e l’entusiasmo dei partecipanti
al modulo, ho accettato l’incarico con immenso piacere.
In accordo con la direzione della scuola, si è deciso di dividere il corso in due parti: una teorica e l’altra
Per la parte teorica si sono approfonditi i seguenti punti:
- Le conoscenze di base della pulizia
- La sporcizia non aderente
- La sporcizia aderente
- Igiene e pulizia (anche dal punto di vista personale)
- Sicurezza sul posto di lavoro
- Protezione dell’ambiente
- Gestione dei rifiuti
Per la parte pratica si sono esaminati i seguenti punti:
- Come procedere per ottenere una corretta diluizione dei prodotti chimici
- Come e con quali prodotti si puliscono quotidianamente i servizi igienici in generale
- I sistemi della scopatura dei pavimenti
- Le tecniche del lavaggio manuale dei pavimenti
- La pulizia del mobilio
- Il lavaggio dei vetri
I futuri responsabili delle pulizie (scopini) hanno partecipato attivamente alle lezioni apprezzandone i contenuti.
Da settembre 2011 ad aprile 2012, in sostituzione della collega Tamara Cadra assente per congedo maternità, ho avuto modo di lavorare con i
detenuti minorenni, insegnando loro le seguenti tematiche che possono essere utili nella vita quotidiana:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Le basi della pulizia aderente e non aderente e dell’igiene personale
La pulizia di base dei locali (camera, servizi, lavanderia, aula, ufficio, corridoio)
Cura della biancheria (leggere le etichette, scegliere il programma di lavaggio, stiro)
Dosaggio corretto dei detersivi
Riconoscere i simboli di pericolo dei prodotti chimici
Cucinare semplici pietanze
Quest’anno l’esperienza è stata particolarmente stimolante e soddisfacente. Ho legato molto con i ragazzi e le ragazze che hanno frequentato
i miei corsi e ho scoperto in loro un lato umano che mai mi sarei aspettato. A malincuore ho terminato l’ultima lezione.
Vito De Vito, docente di conoscenze professionali
…
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Risotto alle ortiche
150 cipolle
300 g ortiche
600 g riso carnaroli (arborio)
1,8 l brodo (50 g brodo pasta)
1,5 dl vino bianco
200 g grana padano
150 g burro
Lavare le ortiche e farle bollire velocemente in tanta acqua salata, raffreddarle in acqua e
ghiaccio, togliere i gambi e tritarle finemente.
Fare imbiondire le cipolle tritate con burro, aggiungere il riso e rimestare fino a quando non
sia caldo (tostare). Bagnare con il vino bianco e aggiungere le ortiche. Bagnare con il brodo
bollente poco a poco mescolando sempre. A fine cottura togliere dal fuoco e aggiungere il
burro e parmigiano (mantecare).
Yves Bussi, docente di conoscenze professionali
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8
Locandina ORL 1-12_Manif_Ospedale_ 08.06.12 15.26 Pagina 1
Raccolta di lavori
eseguiti da detenuti
del Penitenziario cantonale
S C U O L A I N - O LT R E
In-Oltre
Dipingere dentro II
Disegno di Shaban
Mostra d’arte
Ospedale
Regionale di Lugano
Sede Civico
La mostra è allestita nei piani:
-1, piano terreno e +1
3 gennaio − 5 febbraio 2012
A settembre 2006 ha preso avvio presso il Carcere giudiziario La Farera e successivamente presso il carcere penale della Stampa l’avventura di Scuola In-Oltre. Destinata all’inizio ai minorenni in detenzione preventiva, ha poi coinvolto, visto il crescente
interesse per le attività proposte, pure i detenuti adulti che scontano pene più o meno
lunghe.
La prima attività pensata sia per i minorenni che per gli adulti, è stata quella legata,
all’Educazione visiva ed artistica ed il ruolo di docente è stato assegnato all’artista
Malù Cortesi, docente presso la CSIA di Lugano ed educatore di formazione. Malù
vanta pure esperienze decennali nel campo dell’assistenza sociale e del reinserimento, dapprima presso la Fondazione Diamante a Solduno, poi all’Antenna Icaro di
Locarno ed in seguito presso la Clinica Varini ad Orselina.
L’attività pittorica, come noto, riveste una grande importanza dal punto di vista dell’espressione di se stessi, applicata in un settore così delicato come quello carcerario, assume proprio i contorni di una metaforica evasione. A tal proposito, l’artista
Pierre Casè, ospite conferenziere presso il Penitenziario, la scorsa primavera, ha intitolato la sua prima prolusione “Creatività = Libertà”.
Lo stesso Pierre Casè, durante la sua visita nelle aule dove si svolgono le attività scolastiche è rimasto impressionato da alcuni lavori prodotti da detenuti che, detto per
inciso, nella maggior parte dei casi, non hanno mai avuto rapporto alcuno con colori,
tavolozze e pennelli.
In-Oltre sta ad indicare quale nome della nostra Scuola, quell’Istituzione che opera
all’interno e si adopera anche per il dopo, nel quadro di quello che comunemente
viene definito reinserimento sociale.
Il percorso espositivo scelto da Malù Cortesi raggruppa lavori che aiutano a leggere
dentro se stessi (il mio Sole), inoltre delle tavole didattiche che servono ad affinare le
varie tecniche pittoriche che i detenuti hanno appreso.
L’applicazione libera di quanto imparato trova poi spazio in altri lavori.
L’occasione che ci viene ora offerta dall’Ospedale Regionale di Lugano e dalla sua
Commissione culturale, dopo l’analoga esperienza presso l’Ospedale La Carità di Locarno, è apparsa subito come una seconda splendida occasione per mostrare all’esterno quanto uomini che si trovano a vivere l’amara realtà del Carcere riescono a
realizzare.
Questa opportunità offre quindi visibilità a lavori che altrimenti servirebbero unicamente da arredo-decorazione alle grigie mura del penitenziario.
Orario d’apertura:
Tutti i giorni dalle 08.00 alle 20.00
L’entrata è libera
Disegno di Peter
Disegno di Juan Carlos
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Docenti Italiano
Va’ dove ti
porta il cuore
(e la mente …)
Sognare, riflettere, scrivere e lasciarsi trasportare dove ti porta il
pensiero, può essere un momento interessante, per chi vuole
fermarsi un attimo e lasciar decantare le proprie emozioni.
Nulla come le immagini, o la musica, possono aiutarti a trasmettere un lato originale di una
realtà interiore.
Le piccole, ma autentiche verità
interiori, sono leggibili in questo
collage di idee. Partono da una
attenta scelta della fotografia,
accompagnata da una riflessione
scritta di pugno dall’autore.
C’è di tutto: speranza, rabbia,
sogno, delusione, attesa, soprattutto quest’ultima può far molto
pensare...
Michel Candolfi
Disegno in sottofondo di Carlo
Michel Candolfi, docente di italiano
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Il carcere, scuola di vita
Docenti Italiano
Come vivi l’esperienza del carcere? Cosa ti
dà, e cosa ti manca di più? Domande semplici, quelle che ho rivolto ai miei allievi del
corso di italiano per avanzati, ma dietro le
quali si apre tutto un mondo. Nelle loro riflessioni ci sono sogni, speranze per il domani, ma anche l’accettazione di un oggi
vissuto non solo come espiazione, ma anche
come occasione preziosa di arricchimento.
E queste riflessioni arricchiscono, appunto,
anche noi.
Mauro Euro
Vasil
Disegno di Stefano
Shaban
Disegno in sottofondo di Juan Carlos
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Federico
Irvan
Anderson
Mauro Euro, docente di italiano
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Docenti Francese
“Ci sono delle ore libere di francese in carcere, ti interessano?” E io, con una spavalda leggerezza: “Certo. Ne parlo con le mie figlie, poi ti faccio sapere”. Eravamo ancora
immerse nell’ozio estivo, nel tempo liquido sgombro di affanni quotidiani. Le ragazze, un poco esaltate dall’idea di avere una mamma che va in prigione, mi hanno spinta
con entusiasmo (probabilmente anche con l’inconfessabile speranza che una genitrice occupata a tempo pieno con il lavoro non potesse “rompere” più del dovuto).
Per non arrivare completamente sprovveduta, in agosto ho iniziato a mettere i piedi in acqua assistendo ad una conferenza. Mi avevano avvertita: il primo impatto con
le innumerevoli porte del carcere lascia solitamente il novizio sbalordito. Ero preparata. Ho cercato di assumere la situazione con un’artificiosa “nonchalance”. Ma
l’odore… nessuno mi aveva detto dell’odore, dell’odore di chiuso che ti cauterizza le narici. E l’austero contegno che mi ero imposta ha faticato assai a non vacillare…
Credo però di averla fatta franca e di esser riuscita a non farmi “sgamare” ostentando un “aplomb” che non mi apparteneva. Ho seguito diligentemente la conferenza
grattandomi il naso per confondere un po’ le narici e sgranando gli occhi sui partecipanti per cercar di carpire chissà cosa.
E poi l’ora della prima, vera, immersione è arrivata. Poco meno di una decina i corsisti che mi scrutano (probabilmente mi guardavano e basta) in un’aula che, malgrado gli sforzi, resta piuttosto inospitale. La curiosità reciproca sfonda la barriera dell’imbarazzo e ci presentiamo. E non ci sono più porte, odori, arredi, solo voglia
intrinseca di contatto.
Ubriaca di emozioni attacco con i fondamenti della lingua di Molière ma mi è subito chiaro che sto confondendo rotta, non posso sovrapporre la scuola media alla
scuola In-Oltre. Didatticamente parlando la prima lezione sfiora il burlesco. I livelli culturali, l’estrazione sociale e geografica, l’età, i percorsi scolastici, i reati commessi, sono difficilmente accostabili. È una grande sfida trovare un comune denominatore per suscitare interesse e partecipazione, per rimuovere abitudini consolidate e per sviluppare fiducia in se stessi.
Con il tempo sto imparando l’essenza dell’insegnare in carcere, che non è esclusivamente una trasmissione di conoscenze, ma una costante ricerca di come poter
sviluppare le potenzialità soppresse, spesso mai coltivate, nei reclusi. Una specie di palestra interiore, che costa fatica ma che regala un insolito piacere. Un piacere
che si fa ad ogni incontro più intenso e che durante la pausa caffè, spogli dei nostri ruoli, s’infittisce d’emozioni.
“O fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire” (Le ali della libertà).
Belinda Besomi, docente di francese
–
–
–
– Bonjour à tous, je suis Belinda.
Bonjour maîtresse!
Non, non, on ne dit pas comme ça. Ça c’est toute autre chose. Je suis votre prof de français et on passera l’année scolaire ensemble. Et vous, qui êtes vous?
Je suis Federico, moi je suis Musa, moi Vasco, et je, ehm pardon, moi Stefano.
È cominciato così l’anno scolastico. Non propriamente in una classe comune. Gli allievi? Adulti. Il contesto, un’aula rimediata del carcere La Stampa di Lugano.
Noi osservavamo lei, Belinda, lei osservava noi. Non ricordo chi fosse più impacciato. Lei? Sì, in fondo poteva trovarsi di fronte ad un auditorio di killer seriali di docenti di francese. E noi a guardare lei e ad aspettarci il primo errore; e ce ne sono stati: non è facile arrivare in una classe di detenuti con la sola esperienza di docenza in una classe delle medie. Qualche anno in più degli allievi di una scuola media e qualche delitto sulle spalle fanno di una classe così un oggetto da maneggiare
con precauzione.
Eppure il tempo ha consolidato un rapporto fuori dal comune. Qualcosa di francese abbiamo imparato, almeno quelli di noi che avevano voglia di studiare anche in
cella. Ma soprattutto abbiamo portato fuori dall’aula un’amicizia basata sul reciproco rispetto e la stima per chi entra in un carcere, ce la mette tutta e soprattutto
si astiene dal giudicare o anche solo dal curiosare nel passato di chi si trova davanti.
Poi abbiamo scoperto comuni pascoli: l’amore per la Spagna, non ultimo. Nel gioco della Spagna abbiamo coinvolto anche una guardia, di quelle simpaticissime.
Bastava un gioco di sguardi per capire che tutti pensavamo a spiagge assolate, sangrie e jamon serrano.
Quando ti chiedono come sono stati gli anni in carcere, non pensi ai pochi metri quadrati in cui sei stato confinato. Ti vengono in mente gli aspetti piacevoli, le risate in sezione, la carineria di un docente, la parola più umana di una guardia. Siamo tutti uomini, il carburante che ci fa funzionare meglio è il calore umano. È
così lodevole che qualcuno abbia pensato di mettere in piedi una scuola all’interno del carcere ed è così bello che i docenti scelti per questa bisogna siano tutte
persone seriamente motivate e buone.
–
Ah, donc maîtresse signifie ça? Mais donc il s’agit d’un thème très intéressant. On pourrait en parler…
Federico
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“But where do you teach when you’re not here?” is a question I’ve often been asked over the last three years at La
Stampa. “Are they easier to teach/better behaved?” often follow the first enquiry. There are, of course, fundamental differences; their age (outside the prison I teach students who are mostly in their mid/late-teens), their gender
(I have very rarely had all male classes!) and the number of students in a class. There have been a plethora of articles and discussions recently about the direction the school should take, how teachers should (and should not) be
trained, teacher burnout, integration of students from a non-Swiss cultural background, respect and motivation,
to name but a few. Given the particular situation of teaching at La Stampa, I should like to look at the last three.
Integration
As everyone knows, La Stampa holds people from many different nationalities and backgrounds, so this is one
of the fundamental issues facing a teacher here, whereas in my other classes there are relatively few obstacles in this area. I cannot speak for the situation outside the classroom but during the lessons, the unifying factor is that they are there to learn English, and apart from the occasional inevitable preference for
working in one pair or group rather than another, I have noticed a very helpful attitude from those who know
a little more towards those who know less. Indeed, in the most advanced group, where a lot of discussion
takes place in English, there is a real interest in what others have to say.
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Docenti
Inglese
Respect
I can honestly say that the respect shown by students at La Stampa is generally greater than that encountered
‘in my other job’. Where, very occasionally, this is not so, it is usually the other students who put them straight!
Motivation
I have no illusions that all those attending classes are burning to become proficient in English! By his own
admission, one student said that he had come along, thinking that it would be ‘an easy number’. He realised
pretty soon that the lesson was a real lesson, and after some initial reservations, appreciated it. Of course,
there are those who do little, but most (at least, as far as I am aware!) are keen to acquire some or a better
knowledge of a language so widely-used in the world. One of the biggest satisfactions last year was learning that two students who had worked very hard to pass the Cambridge First Certificate (B2) actually did – a
tremendous achievement considering their concerns about the present and the future. This year another
student, recently transferred to Lo Stampino, will be taking the Cambridge Advanced Certificate (C1), and my
very best wishes for success go with him.
A good friend of mine, an ex-child soldier from Uganda, now teaching
at the university of Padua, has given many talks to students in Ticino and worldwide about his personal history and how education changed his future prospects and inspired him to
overcome horrific memories and adverse circumstances.
He always reminds students at schools in our canton
of the importance of the desire and motivation to
study, and encourages them to make use of what is
offered to them here. My hope is that a good few at
La Stampa may feel the same. For me, as a
teacher, this work is a lesson in motivation. La
Scuola Inoltre is not trying to change the world,
but just maybe a skill learnt, a realisation that
yes, I can do more than I thought (and legally!)
may help some to have more faith in the future.
Linda Chiesa, docente di inglese
The Perfect Dream
I was looking for some place in the dark sky, not
anywhere special, but only one where I could put my
eyes and feel good, far away in the cosmos. Perhaps
my eyes were looking for sources in the sky, or in a
magic galaxy with fantastic colours. At that moment I felt
an unknown emotion, like I was flying out of space and
time, and I could see the most fantastic things; fish flying
around the planets, a black hole smiling, many children playing
happily – and nothing was bad; the dream was perfect. Pedro
I had decided to spend the whole of that Saturday afternoon in Central Park. Little did I know what adventures were about to start.
It was in 2009 and I was spending my Christmas holidays in New York together with my 30-year-old son, Victor. The day before we had been at Macy’s and we
definitely had spent too much, dramatically too much.
So that day we were both bent on a less expensive program. We decided then to stroll around Central Park.
Our apartment was on the 34th East, near the Empire
State Building. We stopped a yellow cab and we spent
no more than ten bucks to reach Central Park. What a
delightful place to spend a sunny afternoon! Of course
it was cold, but that was the warmest moment of the
day. Many people were around and some of them with
their dogs.
A very ordinary lady was coming towards us with two
fluffy Siberian Huskies. It was absolutely impossible to
avoid talking to her, the dogs were too extraordinary.
We chatted about their names, their habits, how well
they were getting along and so on. “Oh, so you are
Swiss?” “Yes, we are, but we live in Spain.” “Well, I live
here in that building with a view of the park.” Great, I
thought, for sure she has a bigger budget than mine!
This all happened where there is the John Lennon corner, if you know New York.
Well, once we separated from that kind (and probably
very rich) lady, we were so happy to have had the opportunity to play with two fluffy huskies.
A young man stopped us. “Do you know who that
lady was?” “No, no idea.” “She is Barbra
Streisand”.
And here started the adventurous part of the
afternoon. “Barbra Streisand? Incredible! I
have to reach her again.” A couple of minutes
later we reached that lady again and she was
so happy to meet us another time in the same
afternoon. “But you really are Barbra
Streisand?” “Yes, I am, of course, and you,
would you both like to act in my next movie?” We
didn’t hesitate one moment. “Yes, sure. Where
can we sign?” The following day we were in Hollywood, and the rest is the history of the cinema.
Well, well! This story is absolutely true up to where I
wrote “And here started the adventurous part of the afternoon.” From there on it is a little bit less true...
Federico
Letters to an imaginary pen-friend
Writing a narrative
My name is Absley. It’s an English name because my country was a British colony.
I’m a Nigerian from Delta State in the south of the country. I was living with my parents and my one brother and one sister. I’m 31 years old and I’m in Switzerland to
seek political asylum. I’m going to tell you about myself. I’m a black African and I’m
1m 71cm. I think I’m a positive person, extrovert and friendly. My friends say I’m a
kind person. I like watching movies in my free time and I also go to church on Sundays.
Ten years ago, I had a party for my birthday. I asked my friends to come and I expected to have good fun. I bought the drink and my mother prepared some wonderful food. I expected that they would start coming about eight o’clock but something
went wrong because at half past nine I was still alone in the house. I was starting to
become nervous when my sister called me to come for her at the station near my
house. I sat in the car and rushed to get her. Halfway to the station she called me
again and said that she had met a friend, and that he was going to drive her home.
As I stopped in front of my house all my friends were there. That was my best birthday ever!
Dusan
My name is Stefano. It’s an Italian name because my grandfather is called Stefano
and he is Italian from Calabria. I come from a village called Zungri in Calabria but
now I live in Cadro, a village in the south of Switzerland in the prison of La Stampa.
I study English once a week with a teacher called Linda. It’s my first school of English. I learn new words and verbs, so I’m happy. I’m going to tell you about myself.
As you can imagine in your mind, I have quite long, curly hair, my eyes are greenbrown. I’m quite tall. I’m a positive person and friendly. I also play guitar but here it’s
not possible. In my free time, I love writing and painting. I paint exclusively for my
beautiful daughter, Veronica. She is eight years old and we love each other very
much.
My name is Irio. I’m from Como, a town in the north of Italy. I live with my wife. I’m
50. I’m unemployed. I think I’m a positive person. In my free time I love running. I
have classes on Wednesdays.
My name’s Lorenzo. It’s an Italian name. I live in Turin, a big city in the north of Italy.
My family had a bakery for fifty years. I’m forty years old and I’m a pastry-cook. I am
bald. I’m quite calm and have green eyes. In my free time I love playing squash. I
have English classes on Wednesdays.
I remember that day as if it was today. I was at my workplace in a club, working like
any other day. I never thought that that day I was going to meet the most important
person in my life. She was standing there with her blonde hair, dancing like a
princess. I just looked at her and my heart started thumping. I could not stop looking at her. That is when I decided to talk to her. We talked the whole night and when
she was leaving, I told her that she was going to be my wife. She laughed but I was
correct!
Anon
My name is Sunday and here is my story of being together with my friend in a small
village called Lagos Roll in Nigeria. We’d been together for just a few weeks. First,
before our few weeks’ holiday at Lagos Roll village, we both arranged for a bedroom
and when we got there, we did not expect to have a very good room and good surroundings, as we had paid just a little, but it was so amazing and enjoyable. Meanwhile, we made other, new friends. They had made a great effort and convinced us
to come back there for our next holiday. Finally, we both showed appreciation to our
new friends. Then we said goodbye and we left the surroundings, peaceful and optimistic.
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A cosa può servire l’informatica all’interno
di un penitenziario?
(di Alessandro, Ilia e Walter)
• Per mantenere e migliorare le conoscenze informatiche che possono servire al momento dell’uscita.
• Per imparare nuovi programmi che ci possono aiutare a migliorare le conoscenze in questo ambito.
• Per spezzare la monotonia della giornata con momenti che possono farci migliorare.
• Nella pratica quotidiana, per risolvere dei piccoli problemi:
Mauro Ortelli, docente di informatica
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Ecco un altro esempio: qui abbiamo il testo del documento
Ecco cosa possiamo scrivere per creare una pagina web.
Miei pensieri
Tra tutti i corsi che mi sono proposti ho scelto il web Editing, per poter approfittare di una nuova tecnologia che potrà essermi utile e proporlo ai miei figli e conoscenti. All’inizio mi sembrava, dopo i primi passi, molto complicato. Sentivo
per la prima volta i termini come TAG,DIV,TD,TR,SPACING,TEXT-SHADOW.
Peccato! Me ne vado. Sono stato bene con voi.
Miei sinceri auguri.
Non vi dimenticherò.
Papa Ada
Questa è la pagina che definisce gli stili
(come si presenterà il documento)
Ed ecco il risultato...
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In - Oltre... le Mani
«Che grande dono della natura sono le mani per l'uomo.
Si adattano a un numero straordinario di attività. [...] la mano
consente la pittura, la modellazione, la scultura...»
( Cicerone sulla natura degli dei)
Docenti
Attività
creative
È la mano che fa la differenza, la superiorità e l’unicità del genere umano. Ci permette di esplorare, mettendoci in relazione con il “mondo”. La mano permette il contatto,
accoglie e...
... trasforma.
Diventa per noi uno strumento che ci permette di trasformare, plasmare, costruire.
Mano che gira, che prende , che strappa, che cuce, che modifica...
Queste giovani, queste donne, queste persone sono in carcere perché l'agire delle loro “mani“ non è stato corretto. Oggi, diamo loro la possibilità di “ri-conoscere” questo
prezioso strumento...
... di farlo “ri-vivere” e conferirgli nuovamente la sua dignità, e “ri-valutarsi” simbolicamente attraverso la trasformazione delle “cose”!
Francesca Bernasconi, docente di economia domestica
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Che cosa succede
durante le lezioni di sartoria?
Lavoro
di
Ely
La domanda può apparire stupida o con una risposta scontata, ma posso assicurarvi che non è così.
Quando mi hanno proposto di fare delle lezioni in carcere, ho subito pensato
ad un programma “scolastico comune” con delle basi logiche, coerente e didattico; ma di tutto questo faccio capo unicamente all’introduzione, o meglio
al primo approccio al mondo del cucito.
Lavoro
di
Diana
Tutte le donne/allieve alla mia prima lezione fanno degli esercizi di cucitura su
fogli di carta, dopodiché realizzano un piccolo sacchetto; da lì in poi il mio consueto programma scolastico cade e subentra il loro desiderio di cucire qual-
Lavoro
di
Florence
cosa per la loro figlia o figlio a casa, oppure il desiderio di realizzare qualcosa
per se stesse.
Premetto che questo metodo di lavoro è una mia scelta, che è maturata dopo
alcuni mesi di esperienza dai quali ho capito che per le donne del mio corso
non è tanto importante imparare, ma creare.
Anni fa, durante una classica chiacchierata a cena con degli amici, ricordo che
uno di loro mi parlò del problema della “depressione”, e mi spiegò che la miglior “cura” è riuscire a trovare “un qualcosa” che piace fare alla persona depressa. In poche parole: la “creatività in genere”
è la medicina ideale. Mi raccontò che se questa persona inizia a vivere in modo naturale la creatività, ricomincia a trovare positività: e questi sono piccoli ma fondamentali passi che l’avvicineranno ad una rinascita.
Oggi posso dire che questo mio amico ha pienamente ragione: infatti ho constatato che, dopo qualche lezione, in aula l’energia cambia, nell’aria si respira più positività e questo stato d’animo coinvolge anche le nuove arrivate.
Da tutto questo è nato il motivo della mia scelta: ovvero quello di lasciar creare liberamente, dimenticando tutte le regole convenzionali.
Ho di conseguenza dimenticato la teoria e il lavoro fatto a regola d’arte passa in secondo luogo, ma in primo piano devono esserci la realizzazione e la creatività.
Questo metodo di lavoro fa sì che occorre avere a disposizione una vasta scelta di modelli di diverse taglie e differenti stili: per
delle persone che non conoscono il mondo della sartoria, vuol dire che servono
delle fotografie dalle quali si può vedere il modello che si andrà a realizzare.
In aula ho messo a disposizione dei modelli creati a mano, ma, per poter soddisfare le loro richieste, mi sono organizzata procurandomi delle riviste di sartoria nelle quali ci sono sia fotografie che cartamodelli di diverse taglie. Da qui
parte il nostro lavoro, adattando ogni esemplare ad ogni esigenza.
Per quanto riguarda la scelta dei tessuti, le allieve si adattano a ciò che abbiamo e a quello che riesco a trovare tra una lezione e l’altra.
Sia da parte loro che da parte mia questo sistema di lavoro richiede molta pazienza ed elasticità, perché spesso succede di avere tre, quattro o cinque differenti modelli, di colore e lavorazione diversi.
Un’altra cosa che influisce molto sulla nostra attività è il fatto che le partecipanti sono tutte “donne in attesa di giudizio”: di conseguenza non si sa per
quanto tempo rimarranno e per quando è fissata la loro partenza, circostanza
che crea un po’ di pressione anche su di me, soprattutto quando una di loro
vuole terminare il proprio lavoro al più presto possibile.
Infine ribadisco quanto già sottolineato lo scorso anno, ovvero che la “Scuola
In-Oltre è una scuola in cui non apprende solo lo studente ma anche il docente”. Quest’anno posso aggiungere che sto imparando sempre di più cosa
vuol dire essere elastici, trovare soluzioni con pochi mezzi e poco tempo a disposizione, inventare modelli dal nulla affidandosi unicamente alla propria
esperienza e al proprio istinto; tutto questo senza un programma prestabilito,
in totale libertà e creatività.
Ora con alcune immagini cercherò di portarvi nell’aula di sartoria: potrete così
Lavoro di Cristina
vedere la creazione di alcuni dei lavori realizzati dalle mie allieve.
Prisca Cattani, docente di cucito
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Docenti
Educazione fisica
Viva la palestra
Cella, corridoio, spazio verde, spaccio alimentare, di nuovo cella… ed infine
un po’ di movimento in palestra! E sì, la palestra può dare molto per chi
vive una condizione di vita chiusa, che può protrarsi anche per lungo tempo,
tra le quattro mura. Nondimeno la condizione fisica, e di conseguenza la salute, è molto importante.
Nell’animazione delle lezioni i partecipanti vivono l’agonismo con dei giochi di squadra come la pallavolo e il calcio, come pure pensando alla condizione fisica, esercitandosi con gli attrezzi.
Viva lo sport!
Nicola Gianotti, docente di Educazione fisica
Disegno in sottofondo di Stefano
Cosa rappresenta per me lo sport?
È parte integrante della vita.
Sono momenti di stare in compagnia di giochi con tutti.
È un momento per staccare dalla quotidianità del carcere.
Cosa rappresenta per me l’educazione fisica?
È un momento di spensieratezza.
È un momento di evasione psicologica.
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TUTTA
UN’ALTRA STORIA
Alla ricerca di un equilibrio
fra programma da rispettare
e digressioni filosofiche
Qualche tempo fa un collega mi ha chiesto in che modo svolgessi il mio corso
di storia in carcere. Beh, gli ho risposto, a parte il fatto che non ci sono test,
interrogazioni, note e medie finali, per il resto è tutto come in una scuola normale, è logico! E invece no, ripensandoci non è logico affatto. Anzi, pensandoci ancor meglio, tutto si svolge in maniera completamente diversa.
Oddio, il programma in linea di massima è lo stesso: quest’anno siamo partiti dalle cause della prima Guerra mondiale, dove ci eravamo fermati nel giugno 2011, e siamo arrivati quasi ai giorni nostri, passando per gli eventi bellici
e la Rivoluzione sovietica, Fascismo e Nazismo, seconda Guerra mondiale e
secondo Dopoguerra, Cortina di ferro e caduta del Muro. E lungo questa via
abbiamo incontrato grandi personaggi (nel bene e nel male) e grandi ideali,
non sempre realizzabili e non sempre realizzati. La Storia dell’uomo, insomma.
Programma uguale, dunque: ma lo svolgimento delle lezioni… beh, questa è
tutt’un’altra faccenda. Soprattutto quest’anno: perché ogni spunto è stato
buono per dare il via a interminabili dibattiti sociologici e filosofici, che hanno
portato la piccola ma spumeggiante classe fuori dalla via tracciata, lungo i
sentieri più imprevisti. Così la lezione dedicata al consenso ottenuto dal Nazismo è sfociata in un’improvvisata tavola rotonda sul consenso ottenuto da
certi politici contemporanei, da lì si è passati alla democrazia diretta e indiretta, quindi ai margini di manovra dei governi e infine (ma solo perché il
tempo scadeva) ai problemi della finanza planetaria. La divisione del mondo
all’indomani della seconda Guerra mondiale è stata il pretesto per un’animata discussione sul patriottismo e il nazionalismo. E ogni altro tema era
buono per riflessioni di varia natura, che spesso finivano per mettere in dubbio il senso del nostro vivere messo a confronto coi modi di vita di qualche
popolazione esotica con la quale l’uno o l’altro dei miei allievi era entrato a
contatto.
Ammetto: spesso mi sono trovato spiazzato. O quantomeno incerto: tronco o
lascio fare? Quasi sempre ho lasciato fare, limitandomi a moderare il dibattito, a suggerire punti di vista alternativi, a dare ― quando potevo ― le risposte che avevo. La storia, per gli allievi delle scuole «normali», è spesso
roba vecchia, e dimostrarne l’attualità non è mai facile. In carcere l’attualità
veniva fuori da sola: perché tarpare le ali ai miei studenti? Entro certi limiti,
ho preferito lasciarli volare liberi: almeno in questo senso potevano farlo.
Mauro Euro, docente di storia
Disegno di Orfeo
MA LO SAI
CHE IN CARCERE
C’È LA SCUOLA
IN-OLTRE?
Sei in galera, assorto dai problemi veri che hai
fuori con il tuo lavoro, con la tua famiglia, con il
tuo futuro. Poi ti dicono che gestiscono una scuola
alla quale puoi iscriverti indipendentemente dalla
tua preparazione precedente. Puoi iscriverti a inglese, ma io lo so già; a francese, lo so già; italiano, figurati; storia, è la mia passione;
computer, ho tribolato per tutta la vita su queste
maledette macchine; gestione d’impresa, figurati,
ho creato gestito e affondato multinazionali; disegno, ma va là, non ho mai disegnato in vita mia
salvo pasticci sulle pareti di Farera… eppure, che
ridere, dopo un po’ ti trovi iscritto. Ma chi me l’ha
fatto fare? Non so chi me l’abbia fatto fare ma doveva essere assolutamente un genio perché non
poteva farmi scoprire mondo più affascinante.
Inglese? Ma chi ti ha detto che lo conoscevi? Vissuto in America? A che ti è servito? Da quando
ho conosciuto la docente Linda Chiesa ho capito
di non saperlo affatto e di aver sottovalutato
quanto possa essere affascinante una donna di
cultura. Poi ho conosciuto Belinda Besomi, parbleu, quanti dubbi sul mio francese del ginnasio.
E che risate con quella ragazza già madre di due
figlie, così intelligente e umana, che mi ha rapito
il cuore. Al corso d’italiano sicuramente non mi
P.S. Dal mio registro scolastico: «18 novembre. Il Fascismo fino alla guerra
d’Etiopia. N.B.: il Fascismo va avanti molto lentamente perché ci sono moltissime domande e molto dibattito: bene così!».
mette via nessuno, figurati, lo padroneggio. No, Mauro Euro, no ti
prego, non farmi vacillare anche questa sicurezza. Ma è mai possibile
che non mi sia mai reso conto prima di quanto sia complicata la nostra
lingua? Ed è mai possibile che tu Mauro sappia tutto? Ma non puoi
avere qualche dubbio anche tu? Non sei umano? Che rabbia la tua padronanza della mia bella lingua. Ma possibile che io non eccella in
nulla? Ah, in storia, lì ti metto via. Che belle lezioni Mauro Euro, lo
stesso di italiano. Quanto ho imparato e quanto so di averti rotto
l’anima, assieme a Pedro, quando abbiamo preso la tangente, tante
volte, e ti abbiamo rubato la scena parlando di politica, di Berlusconi,
io a favore, lui contro, della presidente argentina, del presidente
francese marito di Carlà, ora fuori dall’Eliseo. Ma credimi, ho imparato molto anche lì, la tua preparazione mi ha affascinato. Gestione d’impresa? Cara Daniela Colloca, come deve essere stato
difficile tenerci a bada, vero? Però alla fine tutti ti abbiamo apprezzato tanto, i tuoi sforzi non sono stati vani. Ah, dimenticavo,
ho fatto lo “scopino” esterno per più di un anno e la qualifica me
l’ha data la scuola di scopino, dove tutto lo scibile della materia
me l’ha passato Vito De Vito. Un genio di simpatia e di umanità.
E poi Mauro Ortelli. Ti confesso, Mauro, non ho imparato nulla
alle tue lezioni: ma non per colpa tua, per colpa mia, perché i
computer non mi interessano affatto, ma tu sei troppo forte.
Quanti tuoi allievi ti hanno voluto bene. Hai trovato la formula
giusta per farti apprezzare, forse non te ne sei nemmeno reso
conto, non ti dimenticherò facilmente. E poi il corso di cucina, e
quello sulla civica svizzera. Quanti corsi alla Scuola In-Oltre, e
conferenze e teatro. Già, anche il corso di teatro. Cecilia Broggini
e Simone non ricordo il cognome, quanto mi siete entrati nel cuore.
Per me siete attori da Oscar, non ho dubbi. E arte la lascio in fondo
all’articolo perché, Malù Cortesi, non ho imparato a disegnare sulla
carta ma mi hai insegnato a disegnare sull’anima. Che buona persona
sei! Quante volte mi hai fatto piangere di commozione. Non ti dimenticherò mai. Sto scrivendo questo articolo nella mia camera allo Stampino dopo un anno e mezzo di Stampa. Sai che la Scuola In-Oltre mi
manca enormemente? Già. Ho imparato di più che in un corso universitario. Sicuro!
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Disegno di Flavio
Disegno in sottofondo di Peter
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Disegno in sottofondo di Anderson
Testimonianze
uomini
Disegno di Juan Carlos
Testimonianze
minorenni
Un po’ di tempo fa, spesso mi dicevano: “È una memoria di scarso valore quella che lavora solo per
il passato”. All’inizio pensai che fosse una di quelle solite frasi rubate da un qualche film hollywoodiano, ma pian piano il tempo passa e così anch’io capii che forse le “solite frasi da film hollywoodiano” non erano state create solo per fare scena, ma per essere ricordate, e per avere un
senso. Così iniziai a pensare a quella frase, pensai alla sofferenza, pensai che forse quella frase
l’aveva inventata un essere umano che poteva aver vissuto qualcosa di collegato ad essa. Ma poi,
cominciò anche la mia di sofferenza. Passai dei tempi a dir poco terribili, mi trattavano senza dignità e ogni volta che guardavo il sole splendere nel cielo parzialmente veniva oscurato da sbarre
metalliche. Pian piano nella mia mente venivano impressi questi brutti ricordi, come una pressa ad
alta potenza che imprimeva nel mio cervello il marchio della sofferenza.
Poi, una sera d’inverno, mentre guardavo la televisione, vidi un film, e tutt’a un tratto sentii ripronunciare queste parole: “Dopo il brutto tempo arriva sempre la quiete”. E così ricordai tutti i ragionamenti fatti su questo tipo di frasi e pensai alla fine riguardante la mente, e di colpo mi piombò
in testa la risposta che cercavo da anni; e pensai: come avevo fatto a non pensarci prima? Prima mi
sembrava chiaro che un essere umano era in grado di focalizzare il passato, presente e futuro, ma
non in tutte le circostanze; capii che lavorare sul presente e sul futuro in un momento di seria sofferenza era più complicato che pensare a un tempo solo: il passato, la scia di dolore che ogni essere vivente trascina dietro di sé facendo da masso e rallentando il nostro cammino emotivo e
lavorativo.
Il trucco? Semplicemente non esiste se voi non credete che esista, ma se credete che esiste, il
trucco viene da voi.
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Testimonianze
Disegno di Shaban
La scuola nel carcere è indispensabile e molto utile per
migliorare la vita ai carcerati. Si imparano lingue e molte
altre materie interessanti. Ci sono molte conferenze che
fanno riflettere parecchio su argomenti interessanti. La
scuola secondo me non dovrebbe mai mancare a nessuno,
perché l’istruzione è troppo importante per la vita. Sapere
è anche volere, se una persona riesce con la sua testa a
creare qualcosa di suo o ad aiutare qualcuno, questo può
essere gratificante per se stessi.
Qui abbiamo il tempo per riflettere, per leggere, per
istruirci un pochino, per riordinare i nostri pensieri, possiamo conoscere nuove culture, fare sport, alimentarci in
modo sano, se si vuole, poi possiamo anche qualche volta
imparare un lavoro. Io personalmente voglio migliorarmi
più che posso, cerco di mettere in ordine tutto quello che
ha fatto sì che mi trovi in carcere. Ogni giorno affronto problemi e con perseveranza cerco di risolverli. Sono contento
e felice quando tutto va per il meglio. Ho avuto modo di
progettare un libro artistico alla lezione di educazione visiva: quando lo avrò realizzato veramente, quello sarà il
mio frutto. Il legatore è il mio mestiere, ho fatto l’apprendistato e ora sono gioioso di poter lavorare in questo
campo. Costruisco solitamente libri, ma non solo. I libri
per me sono speciali perché hanno un’anima. Lo dico perché la carta e il cartone, essendo un materiale che proviene dal legno, ha la vena. Disegnare alla lezione di
educazione visiva è estremamente rilassante, si esprime
ciò che si prova sul momento, si pensa molto e il maestro
è bravissimo.
Qualche disegno bello l’ho fatto, col tempo ho migliorato.
I colori, le ombre, i lineamenti, le varie sfumature e i vari
contrasti danno corpo al disegno.
Nella vita a volte bisogna lottare per avere, però quando
c’è impegno e sacrificio e passione tutto quanto dà gioia
interiore a noi stessi.
La gioia di vivere, di migliorare e di risolvere i problemi è
assolutamente importante per vivere meglio. Da otto anni
e più sono in carcere e ho imparato molto dagli altri. Un
giorno o l’altro mi toccherà l’appuntamento con la vera
vita, quella della libertà. Cercherò di amare il prossimo
come amo me stesso.
Orfeo
L’avevo completamente dimenticata, la gioia che sentivo da giovane quando mi
mettevo a disegnare. Chi l’avrebbe mai pensato che dovevo finire in galera
per riscoprire quanto fosse bello e stimolante. Quando disegno mi sembra di
ricordare chi ero. Ma forse questo ricordo inganna, un ricordo disegnato su
misura per nutrire la speranza o l’illusione. Un’ illusione che si comporta
come un virus. Attacca l’organismo che lo ospita, prende il controllo e lo costringe a obbedire ai suoi desideri e bisogni. Come l’illusione anche la speranza vuole sopravvivere. Cosa sono senza speranza? Polvere, nient’altro che
polvere, facile da spazzare via con un gesto indifferente. Non voglio essere
spazzato via. Sono un essere umano e la mia speranza è intatta. Vedo i miei
disegni e capisco che posso essere molto di più di quello che ero finora. Grazie per questa opportunità.
Carlo
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FARE FILOSOFIA ATTRAVERSO I FILM
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Nei mesi scorsi ho avuto la fortuna di poter partecipare ad un ciclo di incontri di cinema organizzato dall’associazione Pro-filo-umano, in collaborazione con la scuola In-Oltre. Questa organizzazione, attiva
nelle carceri e nelle comunità di recupero per la promozione della filosofia come forma di servizio sociale, ha proposto 4 incontri, nei quali era prevista la visione di un film, alla quale faceva seguito una discussione mediata dai docenti dell’associazione stessa. Il tema centrale di questi appuntamenti era
quello degli “affetti”, i film infatti presentavano numerosi spunti di riflessioni riguardo a tematiche
come l’amore, l’amicizia ed i legami famigliari. È stato facile quindi per lo spettatore immedesimarsi in
queste realtà di vita quotidiana, in situazioni da molti di noi già vissute come la sofferenza per una storia d’amore travagliata, il dolore per la perdita di una persona cara, il ricordo di un’avventura adolescenziale con i nostri amici. Questo ha permesso ai partecipanti di legare elementi del proprio vissuto
alle tematiche narrate nei film; di volta in volta ho potuto osservare la coesione e la crescita del gruppo
che si manifestava in discussioni sempre più appassionate ed animate, che terminavano soltanto quando
i partecipanti veniva riportati bruscamente alla realtà dal termine del tempo a loro disposizione. Ho osservato che il gruppo faticava a chiudere la discussione, poiché tanti erano gli argomenti messi in campo
ed a fatica le persone ritornavano nella loro dimensione di persone prive di libertà. Credo che questi incontri siano stati significativi per i partecipanti, perché hanno offerto loro la possibilità di confrontarsi
su tematiche di vita quotidiana, di rimettersi in discussione e di elaborare nuovi sentieri da percorrere.
Marco, stagiaire presso l’Ufficio di Patronato
LEZIONE DI MUSICA
Lezione di musica appena terminata, mi ritrovo a rileggere un testo del ragazzo con cui svolgo questa attività extra. Rime semplici dietro alle quali però si riesce a leggere ciò che una persona sente dentro,
emozioni che altrimenti non sono espresse. È questo quello che più mi piace dell’hip hop, il diventare
poeti per il tempo di una canzone, senza grandi sforzi o studi, ma solo la semplicità dell’espressione di
pensieri giocando con le parole.
Più andiamo avanti con le lezioni e più mi convinco che lo scrivere testi in rima, non solo aiuta una persona ad aprirsi ed a liberarsi di un peso interiore, ma diventa anche uno strumento didattico multifunzionale. Trovare rime interessanti, esprimere i sentimenti utilizzando metafore, seguire una ritmicità
che dà struttura alla canzone, utilizzare altre lingue per variare i contenuti, sono attività che stimolano
l’allievo ad arricchire le proprie conoscenze. Inoltre, attraverso la stesura dei testi cerco di ricordare e
di trasmettere valori come l’umiltà e il rispetto, essenziali in qualsiasi tipo d’interazione sociale.
Apprezzo molto avere la possibilità di trasmettere questa cultura in modo positivo, soprattutto perché
solitamente chi ascolta o si cimenta nell’hip hop non viene visto di buon occhio, a causa dei lati “negativi” che il genere musicale ha assunto negli anni. Infatti molti giovani cercano di immedesimarsi in ruoli
che non appartengono loro, creando uno stile di vita che non rispecchia la loro realtà quotidiana. Il messaggio che invece voglio far passare è che chiunque può fare hip hop, senza mettersi forzatamente nei
panni di un “gangster”, ma esprimendo semplicemente ciò che viene vissuto nella propria quotidianità,
positivo o negativo che esso sia.
Per terminare, riprendo una frase di Afrika Bambaataa (uno dei personaggi che hanno contribuito alla
nascita del genere musicale) che rappresenta l’essenza dell’hip hop: “peace, love, unity and having fun”
Estratto della canzone “Cara Mamma” di Anubi:
(Verso 2)
Mamma, ti ho causato molta sofferenza
Tu devi scusarmi, voglio apprezzarti, abbracciarti, farti capire quanto sei importante
Di bugie te ne ho dette tante, sei preziosa come un diamante
Tu mi hai dato la vita, tu sei il mio amore, ti porto sempre nel mio cuore
Ovunque vada, tu mi tiri sempre fuori dalla strada
Voglio tenerti stretta a me e regalarti un mazzo di fiori
Con nuovi colori e nuove emozioni
Tu per me sei tutto, provo per te un sentimento immenso
E ora che ci penso, ti chiedo scusa per tutti gli errori che ho fatto, ero solo un matto
Mi sono comportato male per dare sfogo al mio sentimento di frustrazione
Mamma ti dedico questa canzone
Tu hai sempre cercato di darmi tutto quello che potevi
Tu fai vivere lo spirito di una festa, questo mi è rimasto in testa
Cara mamma, I love you, per me esisti solo tu
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Disegno di
Paola
PIATTI PRELIBATI
Mattinata pesante; niente è andato per il verso
giusto, la pancia brontola per la fame. Mi decido
ad uscire per pranzo e nel corridoio vado a sbattere contro un gruppo di colleghi e collaboratori
che mi invitano “al pranzo degli apprendisti”. Ma
che è, una festa? E cosa si festeggia, la fine dell’apprendistato? L’ottenimento di un diploma?
Nulla di tutto ciò.
Accetto senza remore.
Attraversiamo il prato verde e ci dirigiamo verso
quella che un tempo era la Sezione femminile
della Stampa, ormai in disuso, decadente e
sporca. Salite le lugubri scale prive di quotidianità
e colme di polvere, scorgiamo nell’unico piccolo
locale illuminato tre uomini vestiti accuratamente
di bianco, che nascondono il bancone di una cucina. Con la giacca bianca scintillante a doppio
petto, degna di veri chef, uno di loro ci fa accomodare in una saletta lì di fronte.
La tavola è imbandita ed ogni cosa è al posto giusto.
Essendo un gruppo di circa sei persone, tra l’abbondanza di chiacchiere prendiamo posto attorno
al tavolo e, dimenticandoci di essere all’interno
di un penitenziario, cominciamo a sgranocchiare
fette di pane e sorseggiare l’acqua ben disposta
sulla tavola.
Ed ecco che ci viene servita una minestra. Uno di
quei misteriosi uomini vestiti di bianco si ferma in
testa al tavolo e ci presenta il piatto ”minestrone
ticinese con un tocco di pesto”… una delizia!
Sembra di essere in uno di quei ristoranti di lusso
che non sono abituata a frequentare, in cui lo chef
illustra la sua preparazione e fa un inchino.
“Bom, mò un toc da furmacc, em finii e pö quai
d’un ma sch’piega se sem dré fa…” penso con un
soffio di disagio.
E invece no! Colta alla sprovvista mi mettono sotto
il naso una portata dopo l’altra, a cui non riesco a
resistere: verdurine delicate, ricette innovative,
pollo, croquette, frittelle di mela, nocciole caramellate e anche qualcosa di molto difficile da decifrare (caratteristica tipica della nouvelle cuisine;
un punto a favore dei nostri apprendisti!).
Senza rendermi conto mi trovo al termine di un
pranzo davvero squisito, preparato con cura nei
dettagli, ben servito e presentato.
Un esercizio per coloro che stanno seguendo la
formazione in qualità di aiuto cucina, la possibilità di cucinare pietanze elaborate per un gruppo
ristretto di persone che assaggiano l’enorme potenziale dei cuochi, approfittando delle capacità
già presenti e augurando il meglio per una futura
carriera professionale.
…a quando il prossimo invito?
Valentina, stagiaire presso l’Ufficio di Patronato
AJB, collaboratrice dell’Ufficio di Patronato
Disegno in sottofondo di Peter
LA MANO, ORGANO DELL’INTELLIGENZA
Quando mi è stato chiesto di scegliere un attività individuale da svolgere con un detenuto, poiché in una situazione di bisogno, ho deciso di utilizzare come mezzo di
relazione l’attività manuale. La mia passione per le attività di tipo pratico e l’importanza dell’utilizzo della mano, organo dell’intelligenza, strumento che aiuta la mente
a conoscere e a comprendere l’ambiente, hanno spinto la mia scelta in questa direzione.
Credo che gli stimoli creativi che derivano dalle attività manuali aiutino le persone ad attivare il proprio interesse e a distrarle dalla situazione di disadattamento
in cui si trovano.
Uno strumento di comunicazione, non solo verbale, che favorisce l’espressione delle proprie emozioni, disagi e decisioni.
L’utilizzo di materiali e tecniche diverse e lo sbizzarrirsi con gli oggetti che ci si trova davanti permettono di costruire e dare forma ai propri pensieri.
Se questo percorso viene fatto con regolarità ed impegno, aiuta la persona a controllare gli impulsi e a scegliere canali di comunicazione idonei al contesto in cui si
trova.
La voglia di creare e dare un significato personale alla propria collaborazione ci aiuta a trovare fiducia e rispetto.
Giada, stagiaire presso l’Ufficio di Patronato
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Certificazioni
DELF e DALF, certificati di lingua francese
riconosciuti in tutto il mondo
Il DELF (Diplôme d’études en langue française) e il DALF (Diplôme approfondi de langue
française) sono diplomi di lingua francese destinati a tutte le persone che non sono di
madre-lingua francese; costituiscono oggi, indipendemente dalla nazionalità, la miglior
prova della loro competenza linguistica.
Presenti in più di 160 Paesi e rilasciati dal 1985, per conto del Ministero francese dell’educazione nazionale, dal Centro internazionale di studi pedagogici (CIEP), i diplomi DELF e DALF
sono riconosciuti mondialmente e in molti Paesi fanno parte integrante del cursus scolastico pubblico. Godono anche di una buona reputazione presso i datori di lavoro che spesso
e volentieri li richiedono al momento dell’assunzione del proprio personale o li consigliano
per l’aggiornamento professionale. Chi ne è in possesso può quindi aumentare le proprie
chances di trovare un posto di lavoro o di ottenere una promozione. Essi possono infine servire da passaporto per formazioni superiori o per accedere a università francofone.
I sei diplomi sono indipendenti e corrispondono ai livelli del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (QCER) del Consiglio d’Europa. A ogni livello sono esaminate le
quattro competenze di base della comunicazione: comprensione orale, produzione orale,
comprensione scritta, produzione scritta. Tutti i testi d’esame sono concepiti da specialisti che operano presso il CIEP, la conduzione degli esami e la valutazione degli elaborati
affidata a docenti locali che hanno seguito una formazione ad hoc.
Diplomi, contenuti e livello
DELF A1
Utilizzatore elementare.
Valorizzazione delle
prime acquisizioni
DELF B2
Utilizzatore indipendente.
Livello avanzato
DELF A2
Utilizzatore elementare.
Competenze elementari
DELF C1
Utilizzatore sperimentato.
Livello autonomo
DELF B1
Utilizzatore autonomo.
Livello soglia
DELF C2
Utilizzatore sperimentato.
Padronanza della lingua
In Ticino l’avventura DELF-DALF è iniziata nel 1999 quando l’Istituto cantonale di economia e commercio di Bellinzona è diventato sede del Centro d’esame per il Ticino e i Grigioni.
I suoi partners sono le scuole cantonali, gli istituti privati o qualsiasi persona che desideri
certificare il suo livello in lingua francese. Una sfida che da quest’anno hanno scelto di raccogliere anche alcuni detenuti del Penitenziario cantonale, che hanno frequentato le lezioni di francese tenute presso la Scuola In-Oltre dalla prof.sa Belinda Besomi.
Gilbert Dalmas, docente di francese e membro di DELF DALF SUISSE
CILS - CERTIFICAZIONE
DI ITALIANO COME
LINGUA STRANIERA
Recentemente si è svolta a Lugano la sessione estiva
degli esami per il conseguimento della Certificazione
di italiano come lingua straniera (CILS). La CILS, titolo ufficiale che dichiara il
grado di competenza comunicativa in italiano come lingua straniera, è rilasciata
dall’Università per stranieri di Siena.
In occasione della sessione estiva 2012 la sede luganese ha festeggiato il suo
1000° candidato. Si constata che l’interesse per la lingua italiana è molto vivo; infatti in questa sessione d’esami si sono presentati ben 61 candidati, suddivisi nei
sei livelli di competenza linguistico-comunicativa del Quadro comune europeo di
riferimento del Consiglio d’Europa (livelli A1, A2, B1, B2, C1 e C2).
Come lo scorso anno tre candidati hanno affrontato la prova presso il penitenziario “La Stampa” nei livelli A2 e B1; dopo essersi preparati con impegno all’esame,
lo scorso 6 giugno hanno svolto le prove con serietà, dimostrando un grande interesse per la loro formazione linguistica, in particolare per la lingua italiana.
Ma ecco in breve la presentazione della CILS…
La CILS è il titolo ufficiale che attesta il grado di competenza linguistica-comunicativa di un candidato; è la prima certificazione di italiano ad aver adottato il
sistema di sei livelli di competenza proposto dal Quadro comune europeo di riferimento per le lingue. I livelli CILS individuano una competenza linguistico-comunicativa progressivamente più ampia; la certificazione di ogni livello,
autonomo e completo, dichiara un grado di capacità comunicativa adeguato a
specifici contesti sociali, professionali e di studio. La CILS “fotografa” il livello
di competenza in lingua straniera di un apprendente non considerando particolari percorsi formativi.
Gli esami di certificazione sono creati e gestiti da un ente neutro rispetto al percorso formativo dell'apprendente, ente che al termine delle procedure di valutazione rilascia ai candidati che hanno superato l'esame un certificato di
conoscenza della lingua italiana spendibile per l’inserimento nel mondo del lavoro, per l’insegnamento dell’italiano, per l’iscrizione alle Università italiane e
per ogni ulteriore ambito d’uso in cui sia richiesto un determinato livello di competenza in italiano attestato formalmente.
Gli esami CILS rappresentano un obiettivo importante per tutti coloro che studiano la lingua italiana. In ogni livello sono valutate tutte le abilità linguistiche
(l'ascolto, la lettura, la produzione e interazione scritta e la produzione e interazione orale e la capacità di riflettere sugli usi della lingua), attraverso compiti che misurano le capacità dei candidati di usare la lingua italiana in vari
contesti di interazione comunicativa.
Nel 2004 la CILS ha ottenuto un importante riconoscimento: il Label europeo
delle lingue, un attestato di qualità che premia i progetti più significativi e innovativi nell’ambito dell’insegnamento delle lingue.
Silvia Lucarelli, ispettrice Università per stranieri di Siena
Gabriella Muraro, responsabile esami CILS Svizzera italiana
Test-gioco «Chic, le français!»
1. Si l’on vous dit: «Enchanté», que répondez-vous?
a) Très heureux!
b) Ça va bien!
c) Oui, je chante.
2. Elle s’appelle Heidi. Quelle question correspond à la réponse?
a) Comment elle va?
b) Où elle habite?
c) Quel est son nom?
3. Si l’on vous demande à table: «Je vous sers encore des légumes», que répondezvous?
a) Oui, volontiers!
b) Oui, c’est combien?
c) Oui, merci et vous?
4. «Je voudrais prendre des photos. C’est possible?» Que répondez-vous?
a) 50 francs suisses.
b) Oui, je suis photographe.
c) Non, c’est interdit.
5. «J’ai réservé 2 couverts pour ce soir.» Où pouvez-vous entendre cette phrase?
a) A la gare
b) Au restaurant
c) Dans une boutique
6. «Qu’est-ce que tu en penses?» Que répondez-vous dans cette situation?
a) Mais si! Ça t’étonne?
b) Je regrette, je ne suis pas d’ici.
c) Ce n’est pas mal!
7. «Il doit y avoir des problèmes.» Que signifie cette phrase?
a) Il y a sans doute des problèmes.
b) Il n’y a aucun problème.
c) Je n’en ai aucune idée.
8. «Si j’avais su, j’aurais appris le français avant.» Qu’exprime la phrase suivante?
a) Un conseil
b) Un regret
c) Une interdiction
9. «Où est-ce que vous voulez en venir?» Que signifie cette phrase?
a) Je comprends parfaitement.
b) Je n’en reviens pas!
c) Je ne vous suis pas très bien.
10. «Un millier de personnes aurait participé à cette rencontre.» Que signifie cette
phrase?
a) Un millier de personnes a participé à cette rencontre.
b) On prétend qu’un millier de personnes a participé à cette rencontre.
c) On ignore combien de participants il y a eu.
11. «Il en a fait son bras droit.» Que signifie cette expression?
a) Il s’est engagé dans une épreuve de force.
b) Il a fait de lui son principal adjoint.
c) Il lui a offert de l’aide.
12. «Elle a su tirer son épingle du jeu.» Que signifie cette expression?
a) Elle s’est dégagée avec habileté d’une situation embarrassante.
b) Elle s’est habillée avec grand soin.
c) Elle a su séduire son adversaire.
Soluzioni
1. a) 1 pto – 2. c) 1 pto – 3. a) 2 pti – 4. c) 2 pti – 5. b) 3 pti – 6. c) 3 pti – 7. a) 4 pti – 8. b)
4 pti – 9. c) 5 pti 10. b) 5 pti – 11. b) 6 pti – 12. a) 6 pti
Leggete le domande e segnate con una crocetta la risposta giusta! In nessun caso
tuttavia questo esercizio può determinare con precisione il vosto livello.
Il vostro livello
0-8 pti
È un buon inizio, hai il livello A1!
9-15 pti
Bravo, sei già al livello A2!
16-24 pti Bene, con un livello B1, sei autonomo!
25-35 pti Super! Puoi tentare l’esame B2!
36-42 pti C1 – C2! Il tuo francese è veramente ottimo.
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OPIFICIO
LEGATORIA
Da febbraio 2011 ho sostituito il capo arte
Legatoria, pensionatosi qualche mese
prima. Dopo un primo, logico e necessario
periodo d’analisi, in modo da comprendere
le tipologie dei vari lavori, l’occupazione dei
macchinari, le esigenze dei clienti e confezionare gli articoli inevasi, ho potuto raccogliere dati preziosi e apportare alcune
innovazioni sia livello specialistico e produttivo, sia nelle attrezzature in dotazione.
La Legatoria, adesso, è strutturata con
l’obiettivo di apportare ai detenuti presenti
una base di conoscenza tecnica e professionale: questo garantisce una manualità e
una qualità necessaria nell’eseguire le diverse tipologie lavorative e concretamente
fa sì che tutti siano attivi e produttivi, ma soprattutto offre un valido aiuto ai detenuti
presenti da più tempo in opificio e che svolgono i compiti più complessi e delicati.
Ritengo sia importante evidenziare i singoli articoli che vengono confezionati, poiché si spazia dai diversi generi di libri cartonati, con titoli dorati, argentati o a colori vari,
alle brossure, dalle riparazioni di volumi ecclesiastici, culinari, professionali e per il tempo libero, alla cucitura a mano, dal taglio e piega di prodotti finiti, stampati internamente
o da clienti esterni, alla fabbricazione e progettazione di scatole, fino ad arrivare ai semplici lavori manuali.
Questo coinvolgimento dei detenuti nei vari processi lavorativi produce molteplici benefici in quasi tutti, poiché costruire un prodotto e vederne concretizzata la fatica spesso
è gratificante, il tempo passa più velocemente, e ciò invoglia a partecipare quotidianamente al lavoro in Opificio.
Capo arte Legatoria, Gianluca Zaffiro
Quale cultura generale per un istituto particolare come il penitenziario della Stampa?
In questo anno scolastico, 2011-‘12, che volge oramai
al termine, ho svolto le lezioni di cultura generale in una
classe, dal punto di vista della formazione professionale, molto eterogenea.
In questa classe ci sono 4 curricoli scolastici diversi.
Ognuna di queste strade professionali richiede un’attenzione particolare, nello svolgimento del programma
di cultura generale.
Se, da un canto, ciò può essere stimolante per la varietà
delle attività, d’altro canto, nella programmazione e
nell’esecuzione delle stesse, a volte, si incontrano alcune difficoltà.
programmi d’istituto, costruiti dai docenti di cultura generale di ogni centro professionale.
Da questo punto di vista la mia situazione è un po’ particolare, in quanto sono l’unico docente di cg di questo
particolare istituto. A volte ciò può essere vantaggioso,
in alcuni rari casi, questa “solitudine” organizzativa, rappresenta un dispendio energetico non indifferente.
Dopo questa doverosa premessa di ordine tecnico organizzativo, mi cimento nell’esercizio non facile di rispondere, almeno in parte, alla domanda posta nel titolo
di questo mio esposto.
I programmi di cultura generale, nelle scuole professionali, di norma vengono definiti da un piano quadro federale, con specifici adattamenti nelle varie sedi con i
mostrato interesse e curiosità e hanno sottolineato l’arricchimento culturale derivato da un lavoro simile.
Per quanto riguarda la lingua e la comunicazione si sono
affrontati testi utilizzandoli in diversi modi, dalla semplice lettura, all’interpretazione dei contenuti, al riassunto, ...
Alcuni argomenti sono stati trattati occupando diverse
unità didattiche. Fra questi argomenti, mi sembra doveroso citare l’economia con i suoi tre settori principali.
Interessante, a questo proposito, sottolineare le discussioni e le riflessioni scaturite in merito al percorso di certi
beni di consumo, dall’estrazione della materia prima alla
lavorazione fino al prodotto finito e alla sua immissione
sul mercato.
Altro momento importante è stato quello improntato
sulla storia della comunicazione (vedi figure).
In questi momenti si sono toccati alcuni elementi fondamentali, quali l’apparizione di certi alfabeti, l’invenzione della radio, del telefono, fino a giungere all’utilizzo
dei satelliti artificiali e tutti i mezzi informatici disponibili
nel mondo.
Per lo svolgimento della cultura generale, in Penitenziario, faccio capo all’esperienza professionale, agli impulsi
che vengono dagli apprendisti e in grande parte al programma d’istituto preparato assieme ai miei colleghi di
Biasca.
A questo punto, mi sembra giusto portare esempi delle
attività svolte quest’anno.
Per tre apprendisti, una parte importante dell’anno scolastico è stata occupata dalla preparazione del Lavoro
di approfondimento.
Gli argomenti trattati sono stati quelli della medicina,
dello sport e della terra d’origine.
Nello svolgere questa attività tutti i tre allievi hanno di-
Stampato presso le strutture carcerarie cantonali
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L’elenco delle attività di cultura generale non si può
esaurire in poche e riassuntive parole.
Desidero concludere il mio esposto sulla cultura generale con la presentazione di un’attività particolare, svolta
nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza.
Nel percorso dell’educazione alla cittadinanza sono stati
trattati diversi punti, quali:
i regimi politici, i poteri politici, le usanze, le tradizioni,
le regole morali, il diritto.
Alcuni dei punti sopracitati sono stati approfonditi altri
meno, a dipendenza del tempo a disposizione e della
pianificazione.
Il mio desiderio, in questa seconda parte di anno scolastico, era quello di svolgere un’attività riguardante
l’educazione alla cittadinanza che coinvolgesse gli apprendisti e che non si limitasse ad una lezione cattedratica e in parte “frontale”.
Ecco ciò che ne è nato :
– ogni apprendista riceve un foglio con in cima la foto
della bandiera della propria nazione; riceve, pure,
altri fogli con le bandiere delle nazioni dei suoi colleghi e del docente;
– il docente ha a disposizione gli stessi fogli degli apprendisti;
– gli apprendisti ricevono altri due fogli con una serie
di dati in ordine sparso, riguardanti le nazioni presenti.
Compito: riportare i dati sparsi nei fogli delle nazioni giuste.
In un caso sono stato corretto anch’io, poiché il dato
statistico riportato non era veritiero, o per lo meno non
era attuale e il giovane mi ha segnalato la situazione
reale della sua nazione.
Dopo aver dato una prima occhiata alle consegne date,
può sembrare un semplice esercizio che gli apprendisti
devono affrontare in modo individuale e senza troppi
sussulti comunicativi e di interazione.
Ciò che ne è risultato, durante l’esecuzione del lavoro,
è invece tutt’altra cosa.
In questa attività c’è stato uno scambio intenso fra le
parti, si sono toccati argomenti riguardanti demografia,
economia, territorio, educazione alla cittadinanza, socialità ed altro ancora.
Gli apprendisti hanno cominciato a lavorare in modo individuale e un po’ in affanno, poi hanno cominciato ad
incuriosirsi e a chiedere ai compagni di classe, se alcuni
dati riguardavano la loro nazione o un’altra.
Ognuno risultava essere importante risorsa per gli altri,
meccanismo, questo, che porta ad una certa reciprocità.
Non sono mancati i “colpi di scena”. Qualcuno chiede
precisazioni in merito a una nazione e l’allievo che conosce meglio il dato richiesto proviene da un’altra nazione. Non necessariamente il “rappresentante“ di una
nazione conosce alla perfezione tutti i
dati richiesti.
Questo aspetto ha sollevato maggiore
curiosità, anche da parte di chi non conosce bene la realtà del suo paese di origine.
Popolazione:
4.494.749 ab.
7.870.100 ab.
60.742.398 ab.
3.162.000 ab.
7.563.700 ab.
Proclamazione / Indipendenza:
1861 / 1946
1291
1912
1878
1991
Densità popolazione:
201,57 ab/kmq.
125
ab/kmq.
ab/kmq.
83
190,63 ab/kmq.
69,5 ab/kmq.
Forma di governo:
Repubblica semipresidenziale
Repubblica parlamentare
Repubblica parlamentare
Repubblica federale direttoriale
Repubblica parlamentare
Superficie di acqua:
2,4%
0,3%
51% (acque territoriali)
3,7%
4,7%
Festa nazionale:
2 giugno
25 giugno
1 agosto
28 novembre
3 marzo
CORSI INTERAZIENDALI ALLA STAMPA:
È SOLO QUESTIONE DI FLESSIBILITÀ
Corsi interaziendali per falegnami alla Stampa: la prima
esperienza, tentata quest’anno, si è rivelata positiva e
sicuramente riproponibile in futuro, anche se richiede
una certa dose di elasticità. A dirlo è il formatore Ronnie
Tunzi, che sta seguendo in carcere un apprendista impossibilitato a seguire questi corsi nella loro sede abituale, il Centro di Gordola della Società svizzera
impresari costruttori.
Come e quando è iniziato il suo rapporto professionale col penitenziario cantonale?
«Le prime visite in carcere le ho fatte tre anni fa, come
ispettore di tirocinio, per vedere se potevano avere l’autorizzazione a formare falegnami CFP», risponde Tunzi.
«I macchinari che avevano inizialmente non erano idonei
alla formazione, ma poi ne hanno presi di nuovi con
l’aiuto dell’Associazione dei falegnami (ASFMS), e il problema è stato risolto. Subito dopo ho avuto la prima
esperienza con un apprendista che si trovava allo Stampino e che ha svolto i corsi interaziendali a Gordola, al
Centro SSIC. Essendo in carcere aperto doveva prima
trovare un posto di lavoro: una falegnameria di Tesserete si è offerta di tenerlo per circa sei mesi, e durante
questo periodo ha potuto appunto frequentare i corsi
interaziendali da noi. La cosa però si è rivelata un po’
difficoltosa, per la distanza che separa il carcere dal
Centro impresari costruttori».
Ma in seguito l’esperienza è stata ripetuta…
«Sì, l’anno scorso, con un altro detenuto che ha lavorato
nella stessa falegnameria di Tesserete per alcuni mesi, durante i quali ha svolto tre settimane di corsi interaziendali
a Gordola (occorre forse precisare che normalmente questi corsi hanno una durata di sette settimane suddivise
sull’arco dei quattro semestri, ma solo per tre di queste è
prevista una valutazione che conta per la media finale)».
Attualmente lei segue un terzo detenuto, ma in una
situazione ben diversa…
«La grande differenza è che lui non si trova nel carcere
aperto, ma alla Stampa, e dunque non può recarsi a
Gordola per i corsi interaziendali: quindi vado io apposta
in carcere per farglieli fare. Anche lui fa solo i tre corsi
con valutazione e salta gli altri quattro: in futuro si valuterà se questi corsi potranno essere tenuti direttamente in carcere dal capo d’arte Alberto Giottonini, ma
per quest’anno abbiamo deciso così».
Difficoltà?
«Beh, certamente le cose cambiano. A Gordola abbiamo tutto a norma e completo per poter eseguire i
corsi, a partire dai macchinari: in carcere, come in ogni
ditta, qualche lacuna c’è. A ciò va aggiunto che quella
del carcere non è una falegnameria con finalità produttive, è diversa rispetto a una normale azienda. Anch’io
ho dovuto adattarmi alla nuova situazione: organizzare
un corso alla Stampa è più difficile che farlo al Centro
SSIC, dove abbiamo già pronto il materiale, i formulari
Mi piace riportare questa esperienza, perché si tratta di
cultura generale applicata ad un contesto particolare,
come quello del Penitenziario. C’è stata una certa soddisfazione da parte di tutti i partecipanti all’attività e,
oltre ad un arricchimento nella materia, c’è stato uno
scambio di esperienze e di conoscenze fra gli apprendisti e fra gli apprendisti ed il sottoscritto.
Concludo questa mia relazione, con la speranza di aver
chiarito, almeno in parte, quale cultura generale può e
deve essere fatta in un istituto in cui le persone hanno una
certa condizione di vita e di apprendimento, non sempre
paragonabile a centri scolastici situati sul territorio.
Patrizio Maggetti
Docente di cultura generale Scuola In-Oltre
Ingresso ONU:
22 maggio 1992
14 dicembre 1955
10 settembre 2002
14 dicembre 1955
14 dicembre 1955
Pena di morte:
ultima esecuzione:
1989
1994
1973
1947
1995
Disoccupazione:
13,8%
9,4%
4,8%
16,1%
8,4%
Rete stradale:
44.033
km
71.000
km
22.500
km
1.000.000 km
32.840
km
Rete ferroviaria:
5.063 km
4.294 km
894 km
2.726 km
16.643 km
Salario lordo medio:
21.890 Euro
38.900 Euro
7.956 Euro
3.840 Euro
7.716 Euro
Tasso di natalità (nati/1000 ab.)
15,29
8,18
9,51
9,59
9,64
abolizione:
1998
1938/1992
1990
1948/1994
2007
e tutto ciò che serve. Bisogna anche dire che, per l’allievo, è più facile: lavora su macchine che conosce già
e che sono molto diverse dalle nostre; ma, proprio per
questo motivo, l’esperienza per lui sarà meno arricchente. Vista la situazione, comunque, non si può fare
altrimenti: bisogna adattarsi alla realtà del carcere».
Il calendario previsto è stato rispettato?
«Sì: la prima settimana si è svolta, come da programma,
dal 3 al 6 aprile scorsi e la seconda dal 22 al 25 maggio,
mentre la terza si svolgerà dal 25 al 28 giugno. E, più in
generale, posso dire che è andato tutto bene, anche
perché l’apprendista in questione è una persona molto
volonterosa: si impegna, è puntuale, fa le cose che gli
vengono dette e dimostra grande interesse per il lavoro.
Mi ha davvero ben impressionato: rispetto ai due colleghi precedenti ha qualcosa in più!».
Nel complesso, insomma, un’esperienza positiva…
«Certo! Impegnativa anche, eh? (io parto da casa verso
le 6 e non vi faccio rientro prima delle 19), ma sicuramente una bella esperienza».
Dunque si può pensare di riproporla?
«Sì, penso che se sarà da rifare si rifarà: occorre solo un
attimino di flessibilità. Peccato però, se posso esprimere
un’idea personale, che una volta che questi apprendisti
escono di prigione vengano allontanati: si parla tanto di
reinserimento, ma questo è un concetto da prendere con
le pinze… Se restassero da noi, allora sì che si darebbe
loro l’occasione di un vero reinserimento!».
M.E.