il trionfo della vita - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano

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il trionfo della vita - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano
IL TRIONFO DELLA VITA
di Arianna Marconi e Rosa Maria Ravera
A.S. 2013/2014 classe VD
COLLOQUI FIORENTINI XIII EDIZIONE
E' incredibile scoprire come in D'Annunzio la parola vinca ogni limite e possibile ostacolo che è
solito frapporsi tra autore e lettore: la forza evocatrice del linguaggio, la sua capacità di
rappresentare “il sovraumano...l'oltremirabile” ci ha infatti permesso non solo di scoprire,
conoscere, commentare l'esperienza dannunziana, ma ci ha anche donato il privilegio di viverla.
In questo modo anche noi abbiamo avvertito l'irrefrenabile necessità di chiederci: "Ah perché non è
infinito come il desiderio il potere umano?".
Attraverso questa domanda D'Annunzio ha espresso un dubbio che da sempre perseguita l'essere
umano e al quale ancora oggi troviamo difficoltà a rispondere: egli soffre nell'avvertire la presenza
di una realtà che impedisce di agire liberamente, nell'essere schiavo di un'esistenza che mai potrà
soddisfare l’infinità del proprio desiderio. Ma qual è il vero significato del termine desiderio? E per
quale ragione ne necessitiamo l’infinità?
Il desiderio è una violenta e profonda ribellione alla limitatezza della realtà, alle sue incessanti
restrizioni che impediscono l'assoluta e bramata realizzazione dell'essere. Desiderare significa
vivere: "la quantità di desideri e la loro intensità maggiore o minore è il termometro che misura la
vitalità, più desideri hai più sei vitale, meno ne hai e meno sei vitale”, afferma Eugenio Scalfari.
In questo senso il desiderio è ciò che dona significato all'esistenza, è ciò che garantisce l'agire, il
sentire: "Qual è il senso, qual è il pregio della vita? Perché vivere? Perché affaticarsi?...Noi
dobbiamo uccidere le nostre passioni l'una dopo l'altra e intendere ad estirpare dalle radici la
speranza e il desiderio che sono la causa della vita. La rinuncia, la piena incoscienza, il
dissolvimento di tutti i sogni, l'annientamento assoluto: ecco la liberazione finale!...” ("Le vergini
delle rocce")
D'Annunzio è quindi l'incarnazione del desiderio. È interessante notare l'origine di questo termine:
dal latino desiderium è formato dall'unione della particella de con il sostantivo sidus il quale fa
riferimento al linguaggio degli antichi aruspici che non riuscivano a praticare le funzioni divinatorie
a causa del cielo nuvoloso e della conseguente assenza delle stelle: proprio in quell'istante si
accendeva in loro la volontà di risolvere la difficoltà, di superare l'impedimento.
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D'Annunzio si identifica dunque con l'indovino che, impossibilitato dalla sua stessa natura, avverte
l'irrefrenabile istinto di affermarsi, di rivendicare il proprio ruolo nell'universo, di combattere contro
ogni suo limite, tendenza all'inerzia e quindi al non essere: "Perché oziava egli? In ogni ora, in ogni
attimo bisognava esperimentare, lottare, affermarsi, accrescersi, contro la distruzione, la
diminuzione, la violazione, il contagio. In ogni ora, in ogni attimo bisognava tener l'occhio fisso
alla mira, convergere tutte le energie a quella, senza tregua, senza fallo”. ("Il piacere")
Per il poeta ogni singolo istante rappresenta un'occasione irripetibile nella quale occorre essere e
non semplicemente esserci, nella quale ogni potenzialità deve essere sfruttata per agire: "E
riconobbi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di
aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s'accresce di bellezza e di
dolore", afferma l'autore ne "Le vergini delle rocce". Ma nel fare questo è forse possibile
soddisfarsi, realizzarsi completamente? D'Annunzio sembra rispondere positivamente a questa
domanda, in realtà il suo ostinato e quasi morboso vivere è la rappresentazione di un "disperato
coraggio"che gli impedisce di riconoscere la propria fragilità e lo investe di una forza straordinaria:
l'identificarsi impotente, inetto, inconsistente significa essere vittima della propria inferiorità,
rinunciare alla preziosa opportunità di divenire, di esistere: "Nulla oggi ha misura. Il coraggio
dell'uomo non ha misura. L'eroismo è senza limiti...Pindaro ha troncato le sue corde, ha mutilato la
sua cetra, perché sa quanto sia più bello pugnare e osare". ("Notturno")
Egli è consapevole delle eventuali delusioni che possono derivare dal desiderio ma non per questo
rinuncia, egli preferisce dare libero sfogo agli istinti, alle passioni, sperimentare il dolore: "Tuttavia,
di la dal mio sapere, seguito a compiere le mie opere palesi o segrete. Ne veggo talune perire
mentre io ancora duro; ne veggo altre che sembrano dover durare eternamente belle e immuni da
ogni miseria, non più mie, se bene nate dai miei mali più profondi. Veggo dinanzi al fuoco mutarsi
tutte le cose, come i beni dinanzi all'oro. Una sola è costante: il mio coraggio". (“Il fuoco”)
Se il desiderio venisse uniformato, stereotipato, il senso dell'esistenza sarebbe interamente distrutto,
la realtà diverrebbe univoca, oggettiva, priva di significato. D'Annunzio ne è la prova inconfutabile:
egli indirizza il proprio interesse ad ogni possibile realtà materiale, immateriale, fondata o fittizia
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non limitandosi all'astratto ma rivolgendosi al concreto: "La passione in tutto. Desidero le più lievi
cose perdutamente come le più grandi. Non ho mai tregua". (“Il piacere”)
Lo scrittore esalta la vita attraverso innumerevoli sfumature differenti, tenta di assaporarne ogni
gusto per mezzo di un agire ardito simbolo del potere umano. Quest'ultimo rappresenta la ricchezza
più preziosa di cui ciascun individuo dispone in quanto permette di acquisire certezze, di
distinguersi, di rivendicare la propria superiorità: come nell'animale anche nell'uomo la possibilità
di agire risulta strettamente legata agli istinti, alla sopravvivenza, ma con una differenza sostanziale:
l'essere umano, al contrario di un qualsiasi animale, possiede la capacità di essere consapevole di
tale potenzialità e conseguentemente di avvertirne il piacere. Un piacere che può derivare dal potere
sulle donne, sull'Arte, sulla ricchezza, sugli oggetti, sulla natura e infine su se medesimo.
D'Annunzio è indubbiamente l'incarnazione del potere inteso come la necessità di dominare ma
anche di essere dominato, di possedere e allo stesso tempo di essere posseduto: "Era in fondo al suo
cuore il desiderio di darsi, liberamente e per riconoscenza, a un essere più alto e più puro". ("Il
piacere"), e ancora: "Un bisogno sfrenato di schiavitù mi fa soffrire. Mi divora un desiderio
inestinguibile di donarmi tutta quanta, di appartenere ad un essere più alto e più forte, di
dissolvermi nella sua volontà, di ardere come un olocausto nel fuoco della sua anima immensa.
Invidio le cose tenui che si perdono, inghiottite da un gorgo o trascinate da un turbine". (“Le
vergini delle rocce”)
In questo modo l'amore, mai univoco e celato sotto ogni aspetto della realtà, diviene uno strumento
che offre l'illusione di soddisfare la brama di potere e la ricerca del piacere. Ma l'illusione non è
sufficiente per l'autore, egli brama il tutto non la parzialità e da questo deriva, ad esempio, la
scissione della figura femminile: la sua divisione, infatti, rappresenta la necessità di ricomporre
un'idea ancestrale della donna che ha garantito un appagamento originario ma che poi ha perso
vigore e autenticità: “Egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i
sensi, l’alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità". ("Il
piacere")
D'Annunzio non è il vile, non il codardo, bensì il Titano che non si commisera e tenta di conciliare
le proprie realtà contrastanti facendo completo affidamento al proprio osare.
L'uomo che abbandona la certezza per l 'incertezza, il consapevole per l'inconsapevole, l'univocità
per la molteplicità e diversità non è un folle ma il simbolo di un'ideale assoluto che lotta contro la
costante minaccia di essere represso: "Non temere! Accogli l'ignoto e l'impreveduto e quanto altro ti
recherà l'evento; abolisci ogni divieto, procedi sicuro e libero. Non avere omai sollecitudine se non
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di vivere. Il tuo fato non potrà compiersi se non nella profusione della vita". ("Le vergini delle
rocce")
D'Annunzio incarna la ribellione contro una società che intimorisce l'individuo attraverso una serie
ostinata di imperativi, di regole “C'è un modo colpevole di abitare la città: accettare le condizioni
della bestia feroce dandogli in pasto i nostri figli. C'è un modo colpevole di abitare la solitudine:
credersi tranquillo perché la bestia feroce è resa inoffensiva da una spina nella zampa”, (Italo
Calvino, “Il castello dei destini incrociati”), contro una natura apparentemente benigna ma in realtà
impassibile, fonte perenne di dolore: "Io non obbedisco se non all'Iddio!...Io non obbedisco se non
alle legge di quello stile a cui, per attuare un mio concetto di ordine e di bellezza, ho assoggettato
la mia natura libera". (“Le vergini delle rocce”)
La materialità dell'esistenza che da sempre limita l'essere diventa nel poeta un'ulteriore opportunità
che viene sfruttata per sperimentare, per definire se stessi, un culto sicuro ma allo stesso tempo
ricco di insidie attraverso il quale D'Annunzio tenta di celare la propria fragilità: “Tutti quegli
oggetti, in mezzo ai quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui
acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni dei suoi amori, dei suoi
piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi... E poiché egli ricercava con arte, come un estetico,
traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione
non comprendeva la comedia dell'amore senza gli scenarii". ("Il piacere")
Tale tentativo è testimonianza della sofferta consapevolezza della propria inconsistenza, la quale
però salvaguarda la speranza,il desiderio: "Senza la speranza è impossibile trovare l'insperato”
afferma il filosofo Eraclito D'Efeso, così come senza il desiderio è impossibile trovare "una ragione
eroica di vivere...la certezza che l'ora di trasumanare ritornerà”. (“Notturno”) E in questo modo
anche la malattia più insidiosa diventa una sfida che mette alla prova il coraggio dell'uomo, il suo
attaccamento al vivere: "Perché voglio guarire? Non è ingiusta questa volontà di guarire? Davanti
a chi mi può valere questo lungo tormento? Davanti a chi mi può essere meritoria questa dura
pazienza per riacquistare quel che ho donato?". ("Notturno")
La sofferenza stessa non viene ripudiata, al contrario viene esaltata in qualità di sentimento che
dona senso e vigore al desiderio, all'agire, all’essere: "Creare!" diceva Zarathustra. "ecco l'atto che
affranca dal dolore e fa men grave il peso della vita. Ma, perché esista colui che crea, è necessario
l'aiuto dei patimenti e di quali metamorfosi!".
E Giorgio Aurispa aveva pensato più d'una volta, d'innanzi alla vastità della sua coscienza
dolorosa: "A furia di soffrire essendo io riuscito a moltiplicar senza fine i fenomeni del mio mondo
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interno, perché sia completa la mia vita io non debbo se non cercare il mezzo di rendere attivo il
mio dolore. La scienza del necessario deve avere per suo natural termine l'azione, la creazione".
("Il Trionfo della Morte")
Anche la sofferenza viene sfruttata per avvertire la propria vitalità, potenzialità della quale, come
sostiene Ugo Igino Tarchetti in “Fosca”, ognuno risulta superbo, geloso in quanto “sono essi che
compongono la corona della vita”. D'Annunzio si dimostra quindi un sincero difensore della Vita
intesa come ciclo di azione, creazione ma anche distruzione e morte. Se l'esistenza fosse infinita, se
l'individuo disponesse di innumerevoli possibilità e opportunità egli perderebbe il desiderio di
esistere.
È dunque la Morte ad attribuire significato alla vita, quella Morte che investe l'uomo di una forza
straordinaria e gli permette di rialzarsi, di guarire, di lottare ardentemente e dignitosamente, di
cantare: “l’immensa gioia di vivere, d’esser forte, d’essere giovine...di adorare ogni fuggevole
forma...ogni grazia caduca,ogni apparenza ne l'ora breve". ("Canto Novo")
Quella Morte infine che nella propria attesa “fa palpitare le prime stelle”, che garantisce il
raggiungimento della tanto bramata realizzazione: "La morte non mi appare se non come la forma
della mia perfezione. Eternerà tutti gli elementi che la vita commuove e commuta in me con una
perpetua alchimia". ("Notturno")
Ma se come sostiene Giacomo Leopardi “tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, perché
l'anima nell'ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere,
ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato” (“Zibaldone”), allora per quale ragione
D'Annunzio persevera, si ostina in tale ricerca?
"E hai tu mai pensato che l'essenza della musica non è nei suoni?...Essa è nel silenzio che precede i
suoni e nel silenzio che li segue. Il ritmo appare e vive in questi intervalli di silenzio. Ogni suono e
ogni accordo svegliano nel silenzio che li precede e che li segue una voce che non può essere udita
se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non sono uditi se non
durante la pausa dei suoni". (Il piacere")
L'essenza del desiderio non è quindi nella sua realizzazione, nel suo appagamento al contrario è
nell'attesa, nel suo restare insoddisfatto: il potere umano è il cuore della vita, ciò che le dona
maggior significato e validità, ma i suoi battiti possono essere percepiti soltanto grazie all'incapacità
di concretizzare il desiderio, all’impossibilità di identificarlo con l'assoluto.
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Per questa ragione l'interrogativo dannunziano: "Ah perché non è infinito come il desiderio il potere
umano?", nasconde sotto il velo dell'incertezza e della speranza il timore che tale desiderio possa
attuarsi. Ed è proprio del timore che l'autore si nutre per rafforzare la propria vitalità e di
conseguenza il proprio desiderio.
Ogni singolo uomo è vita ma D'Annunzio ne rappresenta uno dei difensori più sinceri e autentici,
disposto ad accettarne i compromessi, le diversità: "o Vita, o Vita, dono dell'Immortale alla mia sete
crudele, alla mia fame vorace, alla mia sete e alla mia fame d'un giorno, non dirò io tutta la tua
bellezza? Chi t'amò su la terra con questo furore?...Nessuna cosa mi fu aliena; nessuna mi sarà
mai, mentre comprendo, mondo, Laudata sii, diversità delle creature, sirena del mondo!...Tutto fu
ambito e tutto fu tentato...ogni arte mi piacque, mi sedusse ogni dottrina, m'attrasse ogni
lavoro...Tutto fu ambito e tutto fu tentato. Quel che non fu fatto io lo sognai; e tanto era l'ardore
che il sogno eguagliò l'atto". (“Maia”)
Molti vedono in D'Annunzio il malato, il folle, il perverso, noi lo identifichiamo meglio nel
guerriero che lotta, si difende, ferisce e viene ferito, cade ma si rialza sempre con l'unico fine di
mostrarsi riconoscente nei confronti del Dono più prezioso di cui ciascuno di noi dispone, la Vita:
"Pur nell’errore, pur nel dolore, pur nel supplizio egli non riconosceva se non il Trionfo della Vita.
Il patimento per lui era uno stimolo, producendo in lui l’effetto di quei farmachi i quali eccitano
accelerano aumentano le azioni organiche da cui risulta la potenza dell’essere”. (“Il Trionfo della
Morte”)
Una Vita la cui forma è “disegnata dal desiderio, le cui ombre sono prodotte dal pensiero, che
appare in tutti gli istanti e che non è se l'effetto di una continua creazione interiore. Una Vita infine
che non esiste se non in se medesimi”. ("Il Trionfo della Morte")
L’uomo che invece accetta l’esistenza come gli viene presentata, che forgia la propria indole ad
immagine e somiglianza della realtà circostante e al quale il cuore non trema perché nasce in lui “il
pensiero di andare più oltre” non esiste in se medesimo ma nelle cose intorno a lui. Egli non risulta
consapevole della propria ragion d’essere, della propria essenza e per questo percepisce soltanto
doveri, imperativi, limitazioni.
Ma la Vita non è un libro già scritto, un assioma che non necessita dimostrazioni ma un’opera d’arte
la cui realizzazione richiede il contributo di tutti gli artefici: “Io non comprendo perché oggi i poeti
si sdegnino contro la volgarità dell’epoca presente e si rammarichino d’esser nati troppo tardi o
troppo presto. Io penso che ogni uomo d’intelletto possa, oggi come sempre, nella vita creare la
propria favola bella. Bisogna guardare nel turbinio confuso della vita con quello stesso spirito
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fantastico con cui i discepoli del Vinci erano dal maestro consigliati di guardare nelle macchie dei
muri, nella cenere del fuoco, nei nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi<<invenzioni
mirabilissime>>e <<infinite cose>>”. (“Il fuoco”)
Nel realizzare tale opera molti artisti resteranno inermi davanti alla tela bianca con la mano che
stringe il pennello, tremante, altri in breve tempo riprodurranno delle forme e dei colori ispirati ad
una qualche pubblicità illudendosi del proprio talento, altri ancora, timorosi di fallire, apporteranno
correzioni su correzioni per ritornare al nulla da cui sono partiti, altri infine si limiteranno a dare
libero sfogo alla propria essenza realizzando un’opera originale, fonte di molteplici interpretazioni.
Questi ultimi, di cui fa parte il nostro autore, certamente impiegheranno una dose di tempo
maggiore, saranno soggetti a più sofferenze ma solo perché degni “di soffrire più degli altri”
(“L’Innocente”), risulteranno gli unici veri artisti, creatori di un qualcosa di grande, di vantaggioso
che giova perché non muore, “e solo per noi non muore, ciò che muor con noi”. (“La
contemplazione della morte”)
È vero. Siamo essere fragili, inconsistenti, anche D’Annunzio nel profondo ne è cosciente ma egli è
anche consapevole della preziosa opportunità di riscatto che ci viene concessa: la scelta. La scelta
tra muovere il pennello sulla tela o lasciarlo inerte, tra il realizzare un’opera ordinaria o innovativa,
quindi tra la viltà e il coraggio, l’essere e il non essere, la morte e la vita.
Ciascun individuo ha un’influente responsabilità, qualora si rifiuti di assumerla finisce di esistere e
non solo ostacola la propria vita ma anche quella altrui: “Sono l’uomo che doveva sposare la
ragazza che tu non avresti scelto, che doveva prendere l’altra strada del bivio, dissetarsi all’altro
pozzo. Tu non scegliendo hai impedito la mia scelta”. (Italo Calvino, “Il castello dei destini
incrociati”)
D’Annunzio ancora una volta incarna il Titano che preferisce affrontare le deludenti e dolorose
conseguenze della scelta anziché restare indifferente. Egli lotta contro l’indifferenza, la noia intese
come impossibilità di agire e quindi rischio di autodistruzione.
Il poeta può dunque essere accusato di questo: l’essere troppo sensibile al sentire, all’agire,
all’essere, ma soltanto tale colpevolezza gli permette di rendere possibile il “Trionfo della Vita”:
egli non tenta di comprenderla attraverso la ragione, di ridurre o negare le sue molteplice e
contrastanti realtà: “Io so che il vivo è come il morto, il desto è come il dormiente, il giovine è come
il vecchio, poiché la mutazione dell’uno dà l’altro; e ogni mutazione ha il dolore e la gioia per
compagni eguali. Io so che l’armonia dell’Universo è fatta di discordie, come nella lira e
nell’arco”. (“Il fuoco”)
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Più semplicemente egli la vive cercando di esaltarne tutta la spaventosa e indescrivibile bellezza
nascosta nelle vittorie, nelle certezze ma soprattutto nelle sconfitte, nelle paure. D’Annunzio la
rende trionfante in qualità di “opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca
quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti”.
(“Notturno”)
Ed anche nel momento in cui arriverà la Morte sarà il coraggio a vincere, sarà l’osare ad affermarsi,
sarà la Vita a trionfare.
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