“LA RIVOLUZIONE AMERICANA PROF .SSA CARMELINA

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“LA RIVOLUZIONE AMERICANA PROF .SSA CARMELINA
“LA RIVOLUZIONE AMERICANA”
PROF.SSA CARMELINA GUGLIUZZO
Università Telematica Pegaso
La rivoluzione americana
Indice
1
UN DESTINO MANIFESTO? ----------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
GLI INIZI DELLA RIVOLUZIONE -------------------------------------------------------------------------------------- 6
3
CARATTERI DELLA RIVOLUZIONE ---------------------------------------------------------------------------------- 9
4
LACERANTI CONTRADDIZIONI STATUNITENSI ---------------------------------------------------------------- 12
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 14
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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1 Un destino manifesto?
“L’America è oggi la più vecchia repubblica e la più vecchia democrazia e ha la più antica
Costituzione scritta del mondo… Fin dai suoi primi anni di vita, il suo popolo ha avuto coscienza di
uno speciale destino… su di essa si sono basate le speranze e le aspirazioni dell’umanità… essa ha
attuato quel destino e giustificato quelle speranze”: così scrivevano negli anni Quaranta del secolo
scorso i due storici statunitensi Allan Nevins e Henry Steele Commager, nella loro “Storia degli
Stati Uniti”, testo divenuto subito un classico del suo genere. La repubblica americana, sin dalla sua
fondazione, si è caratterizzata come un’esperienza politica originale e unica, specie se raffrontata ai
paesi europei di allora come di oggi, tanto che si è a lungo parlato di “eccezionalismo americano”.
A rendere gli Stati Uniti unici contribuirono l’ambiente, gli enormi spazi che permisero alla giovane
nazione di espandersi verso ovest per oltre un secolo, le vaste pianure fertili perfette per
l’agricoltura, le immense risorse naturali e la mancanza di una gerarchia sociale basata sulla
tradizione e sui titoli nobiliari. Tutti questi elementi resero possibile l’edificazione di una società del
tutto nuova con una rapidità che mai si era verificata nella storia delle civiltà. Come buona parte
delle rivoluzioni, anche quella americana fu innescata da problemi economici, vale a dire di tasse.
Sappiamo che la guerra d’indipendenza che portò alla nascita degli Stati Uniti incubò per diversi
anni in seguito all’imposizione di una serie di tasse dirette, cioè non legate al commercio e di cui
beneficiava il solo erario di Londra, cosa mai avvenuta prima. Oltre all’onere economico, a bruciare
di più era il fatto che tali provvedimenti furono adottati unilateralmente, senza ascoltare
preventivamente i diretti interessati, che da un secolo e mezzo avevano invece costituito governi
locali – con il beneplacito del governo inglese che si era occupato delle colonie con una discreta
noncuranza – e si erano dati (anche con il concorso dei governatori britannici – proprie costituzioni
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locali. Come molti storici di oggi sottolineano, quella americana fu una rivoluzione ideologicoradicale, ispirata da pensatori inglesi del Seicento (epoca della Rivoluzione Gloriosa britannica) e
dell’illuminismo, ma anche da un forte senso religioso, di diretta derivazione puritana, che poneva
la legge di Dio – identificabile con il diritto naturale di ogni individuo – al di sopra di quelle degli
uomini, giustificando quindi la ribellione contro queste ultime se in contrasto con gli ideali di libertà
e di autodeterminazione di un popolo. Le radici ideologiche della “Dichiarazione di indipendenza”
derivavano direttamente da quei pensatori e politici inglesi che avevano sostenuto le rivoluzioni del
Seicento e l’istituzione della monarchia parlamentare alla fine di quel secolo, come pure
dall’illuminismo. Di questo scenario gli americani cercarono di prendere tutto il buono, anche
idealizzandolo fortemente; sorretti inoltre dalla tradizione religiosa puritana, secondo la quale gli
insegnamenti della Bibbia erano superiori a qualsiasi legge dello Stato, tanto da ritenere un diritto
inalienabile opporre resistenza a quegli atti ingiusti che contravvenivano alla legge di Dio e
mortificavano la libertà politica. La separazione di Stato e Chiesa, caratteristica della Costituzione
americana, fu ispirata direttamente dalle idee lockiane. La rivoluzione americana, prima, e quella
francese, poi, sebbene per ragioni profondamente diverse, hanno dato vita a un modello politico
corrispondente e parallelo all’emancipazione della ragione dall’autorità religiosa: sotto
l’impersonale protezione di un generico teismo, la costruzione politica delle costituzioni americana
e francese si edifica dal basso, sulla base dell’uguaglianza delle persone e delle idee, chiamate a
confrontarsi e a elaborare proposte di governo in termini di mero confronto razionale intorno alle
idea di giustizia, pace, benessere (e non bene) comune, determinando la separazione tra politica e
religione. Altri pensatori che influirono notevolmente sulla Costituzione statunitense furono David
Hume e Adam Smith e soprattutto il francese Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu. A
lui i Padri fondatori degli Stati Uniti d’America si ispirarono per l’idea di Repubblica federativa che
il filosofo francese aveva illustrato ne “Lo spirito delle leggi”, il testo più letto e citato nei dibattiti
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che animarono la stesura della Costituzione degli Stati Uniti. Montesquieu aveva avvertito del fatto
che neppure in democrazia è garantito il principio secondo cui “le pouvoir arrête le pouvoir” e
aveva sostenuto che propriamente la democrazia non può sussistere che in piccoli territori,
assegnando gli incarichi pubblici per sorteggio e non per elezione, essendo quest’ultimo un metodo
adatto alla repubblica aristocratica e all’oligarchia. Abbracciando una visione come quella di
Montesquieu, la storia delle grandi democrazie contemporanee andrebbe letta come una storia
dell’oligarchia sotto mentite spoglie: ma proprio durante le rivoluzioni americana e francese si
pongono le basi per una visione alternativa, incentrata su posizioni più vicine a quelle del
Federalista di James Madison. La rivoluzione americana fu il culmine di una serie di eventi che
presero le mosse dalla guerra dei Sette Anni (1756-1763), poi definita da Winston Churchill “la
prima vera guerra mondiale”. Da questo conflitto l’Inghilterra uscì vittoriosa e con il trattato di
Parigi, che vi pose fine, poté tra l’altro estromettere completamente i francesi dal Nord America,
acquisendo la zona tra il Missisippi e i monti Appalachi e tutto il Canada (che Voltaire aveva
liquidato come “pochi acri di neve”). Il trattato fu firmato dal re inglese Giorgio III, definito nel
testo come “il più sereno e il più potente Principe”; lo stesso che vent’anni dopo, nella medesima
città, avrebbe firmato la Pace che sanciva l’indipendenza degli Stati Uniti.
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2 Gli inizi della rivoluzione
La svolta avvenne al termine della Guerra dei Sette Anni, (1756-1763). Questa guerra
vedeva opposti Gran Bretagna e Prussia e dall’altra Francia, Spagna, Austria e Russia. Si trattava
della resa dei conti finale per stabilire il controllo di buona parte del mercato dell’Oriente. La Gran
Bretagna vinse la guerra e le condizioni della pace furono fissate dal Trattato di Parigi del 10
febbraio 1763, che stabiliva anche le sorti dei possedimenti nordamericani degli sconfitti. L’esito
della guerra, pur così favorevole, sarebbe però costato alla Gran Bretagna le sue tredici colonie
americane. Esso forniva infatti un tremendo impulso alla causa puritana dell’indipendenza.
Nell’America settentrionale non c’era più la temuta Francia, e la potenza della Spagna già da tempo
era in declino, per cui la presenza dell’esercito inglese non era più necessaria. Il fatto che ora la
Gran Bretagna, dopo aver liberato il nord America dai francesi, bloccasse tuttavia l’espansione ad
Ovest alle sue colonie americane (con la scusa di riservare territori agli indiani), voleva dire che la
Corona intendeva lasciare il mercato dell’Oriente alla East India Company, bloccando per sempre la
strada verso il Pacifico alle colonie americane. Fu questo in ultima analisi uno dei motivi della
guerra di Indipendenza americana: il mercato dell’Oriente. Infine le tasse: la Gran Bretagna doveva
recuperare le spese sostenute nella guerra in America. Nel 1764 furono introdotti il Sugar Act e il
Currency Act, nel 1765 lo Stamp Act e il Quartering Act, nel 1767 il Townshend Act. I Parlamenti
del New England furono in prima fila nell’esprimere le proteste delle colonie, e la loro abilità
consisté nell’indurre il governo inglese a spostare gradualmente la tassazione verso beni di largo
consumo, che colpivano la classe povera e media. La causa dei Puritani cominciava a prendere
piede anche negli strati bassi della popolazione. I grandi mercanti del Massachusetts decisero di
spingere sull’acceleratore e incaricarono i loro media (giornalisti, intellettuali, preti dal pulpito) di
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mantenere viva la polemica con la madrepatria. In tale clima cominciarono a crearsi degli incidenti.
Nel maggio del 1773 alcuni mercantili della East India Company che trasportavano tè furono
respinti nei porti di Boston, New York e Philadelphia. Nell’ottobre un altro mercantile veniva
incendiato ad Annapolis. Infine il 16 dicembre del 1773 ci fu l’episodio del Boston Tea Party, un
gruppo di uomini travestiti da indiani rovesciò in acqua il carico di tè di una nave alla banchina. Il
re Giorgio III era furioso col Massachusetts e ordinò la chiusura del porto di Boston sino a che il
danno non fosse stato ripagato, quindi tolse al Massachusetts molti poteri di autogoverno. Il
Massachusetts convocò allora tutti i Parlamenti coloniali per una riunione che si tenne a
Philadelphia dal 5 settembre al 26 ottobre del 1774. Fu il cosiddetto Primo Congresso Continentale.
Le colonie si riunirono ancora a Philadelphia durante il Secondo Congresso Continentale.
Dopo mesi di discussioni, la minoranza indipendentista, i cui leader erano i grossi mercanti puritani
John Adams, Samuel Adams e John Hancock, e i grossi piantatori del Sud, James Madison,
Alexander Hamilton, Thomas Jefferson e George Washington, riuscì a convincere l’assemblea a
decidere per la separazione definitiva dall’Inghilterra. Alla fine i Puritani erano riusciti nel loro
intento: il 4 luglio 1776 veniva così enunciata la Dichiarazione di Indipendenza, anche se più di un
terzo della popolazione coloniale era contraria. I firmatari della Dichiarazione offrono l’esatto
quadro dell’élite rivoluzionaria americana: 10 ricchissimi mercanti del New England; 11 grandi
latifondisti negrieri del Sud; 12 avvocati; 13 giudici; 4 medici; e quindi un fattore agricolo, un
editore-scrittore, un pastore protestante, un politico, un militare e un fabbro. Il loro intento era
quello sempiterno dei puritani: non importa quanto ricchi, bisognava avere la libertà di poter tentare
di arricchirsi di più. Allo scopo la monarchia inglese non andava più bene. Occorreva l’autogoverno
degli imprenditori ricchi; occorreva instaurare un’oligarchia mercantile. E questo dice la
Dichiarazione di Indipendenza americana. Quel “popolo” al quale essa attribuisce il diritto di
autogoverno non è altro che il corpo elettorale che già eleggeva i Parlamenti coloniali, che per via
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dei requisiti di ricchezza minima richiesti per il voto era la parte più ricca della popolazione, il 1525% del totale a seconda della colonia. Il loro leader era Thomas Jefferson, che come George
Mason, era un ricchissimo latifondista della Virginia che impiegava migliaia di schiavi. La
Dichiarazione di Indipendenza americana, e la retorica di Stato che l’ha sempre avvolta, ha
ingannato molte persone. Lo slogan del caso fu il Principio dell’Autodeterminazione dei Popoli. Ma
era appunto uno slogan: infatti gli americani mai riconobbero quel principio a nessun altro, quando
non conveniente sul piano economico. Vincendo la guerra per l’indipendenza le 13 colonie erano
diventate 13 Stati indipendenti. Lo erano sia nei riguardi dell’Inghilterra che l’una nei riguardi
dell’altra.
L’economia del New England era di tipo fortemente mercantile, quella del Sud agricola in modo
estensivo. Nel Nord predominavano i Puritani, nel Sud c’era un’ampia maggioranza di ex membri
della Chiesa d’Inghilterra. Con una procedura iniziata nel 1777 fra le varie legislature e conclusa nel
1781 i 13 Stati si riunivano ufficialmente in una federazione, chiamata Stati Uniti d’America e
regolata dagli Articles of Confederation and Perpetual Union. Gli Stati, così, erano sempre in lite
fra loro, generalmente per ragioni di commercio. Così nel 1787 i tredici Stati si accordarono per
modificare tale statuto e il risultato fu una solenne Costituzione redatta a Philadelphia da 55 delegati
riuniti in assemblea con la presidenza di George Washington. James Madison espone in maniera
esemplare come la Costituzione americana del 1787 riesca a stabilire una forma di governo che sia
al tempo stesso repubblicana e federale. È necessario mantenere la Repubblica poiché nessun altra
forma di governo potrebbe essere compatibile con il popolo statunitense dopo la Dichiarazione
d’Indipendenza e la rivoluzione contro l’Inghilterra. Si può, tuttavia, definire Repubblica, a suo
giudizio, soltanto quel paese nel quale il governo derivi tutti i suoi poteri direttamente o
indirettamente dalla gran massa del popolo, ed è amministrato da persone che conservano il loro
incarico in modo precario e per un periodo di tempo limitato, finché dura la loro buona condotta.
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3 Caratteri della rivoluzione
La rivoluzione americana, a differenza di quella francese, fu moderata e a tratti
conservatrice, nel solco del liberalismo classico. Essa si può comparare alla gloriosa Rivoluzione:
“una rivoluzione non fatta, ma evitata”. I patrioti americani avrebbero quindi difeso i diritti
ereditati, avanzando rivendicazioni moderate e fondate su una solida conoscenza della natura umana
e dei diritti naturali.
Di conseguenza le loro nuove costituzioni scritte furono di ispirazione conservatrice. La
Costituzione che ne scaturì produsse un sistema molto equilibrato, tanto nuovo quanto figlio della
tradizione giuridica inglese. Edmund Burke, uno dei più fieri critici della rivoluzione francese,
ammirò quella americana, in quanto questa aveva preservato la libertà dei singoli e limitato il ruolo
dello Stato, il cui compito non era stato travisato con l’obiettivo di trasformare forzosamente la
natura umana. Del resto, nell’ottica dei Padri Fondatori, la democrazia non era un fine, ma solo un
mezzo per un fine più alto: la libertà. Sulla nozione di felicità dei padri fondatori americani
(Jefferson in particolare) il discorso resta aperto e potrà essere messo ulteriormente a fuoco
recependo gli spunti e le sollecitazioni del paradigma repubblicano applicato alla Rivoluzione
americana, non dimenticando però che l’espressione “pursuit of happiness” è più volte usata da
Locke nel Saggio sull’intelletto umano (1689). Come ebbe a spiegare Thomas Jefferson in
occasione del suo primo discorso inaugurale come presidente nel marzo 1801, i costituenti hanno
prefigurato un “governo saggio e frugale che impedisca agli uomini di farsi del male, ma che per il
resto li lasci liberi di regolarsi a loro piacimento nella ricerca della propria realizzazione, e non
sottragga dalle mani dei lavoratori il pane che si sono guadagnati”. Ogni tanto nel tempo vennero
fatte delle modifiche, delle puntualizzazioni o degli aggiornamenti, chiamate Emendamenti. Tali
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Emendamenti entrano a far parte integrante della Costituzione: i primi dieci, approvati in blocco nel
1791, sono chiamati il Bill of Rights. La Costituzione degli Stati Uniti non è la Costituzione di uno
Stato, ma di una federazione di Stati, ognuno dei quali ha una sua propria Costituzione. Anche oggi
ognuno dei 50 Stati della federazione ha una sua Costituzione. Al momento dell’adozione della
Costituzione federale tali Stati erano tutti delle oligarchie basate sulla ricchezza, funzionanti con un
sistema politico repubblicano e un sistema economico liberista. Tutti nelle loro Costituzioni
prevedevano requisiti minimi di ricchezza per poter votare. La Costituzione federale non fa altro
che cristallizzare tale sistema negli Stati, impedirgli che nel futuro possa evolvere in quel senso che
oggi viene chiamato “democratico” (la parola “democrazia” non è mai citata nella Costituzione, né
lo era stata nella Dichiarazione di Indipendenza). Molte sono le agevolazioni per la classe
mercantile messe al sicuro nella Costituzione: la proibizione di porre tasse sulle merci esportate
(Art. I, Sez. 9, par. c) ; la proibizione per uno Stato di diminuire il valore dei debiti contratti (Art. I,
Sez. 10, par. a) ; la proibizione di porre barriere tariffarie a merci provenienti da altri Stati (Art. I,
Sez. 10, par. b); il divieto di porre tasse federali sul reddito, ma solo pro capite (Art. I, Sez. 9, par.
d). Benjamin Franklin, che era anche uno scrittore e inventore, approfittò per far riconoscere (Art. I,
Sez. 8, par. h) i diritti d’autore e di brevetto. La proibizione di porre tasse federali sui redditi ha
resistito per 126 anni, e cioè sino al 1913, quando già da decenni si erano formati colossali
monopoli posseduti da una sola persona fisica (i vari Carnegie, Colgate, Rockfeller, Vanderbilt,
Schiff, Morgan ecc., per gran parte della loro vita non pagarono mai un dollaro di tassa sul reddito).
Ancora oggigiorno alcuni Stati non prevedono tasse statali sui redditi ma solo excise taxes, tasse
indirette sul venduto (una specie di IVA; sono però basse, mediamente del 7%). Gli Stati Uniti
erano diventati così una plutocrazia: l’economia era dominata da alcuni privati, titolari degli enormi
monopoli formatisi negli anni a cavallo del secolo in tutti i settori (acciaio, petrolio, alimentazione,
farmaceutica, ecc.) tranne che in quello delle Poste, riservato dalla Costituzione al governo federale.
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Secondo Charles Austin Beard (1874-1948), un grande storico americano: “Il movimento per la
Costituzione degli Stati Uniti fu originato e realizzato principalmente da quattro gruppi di interessi
corporati che erano stati danneggiati dagli Articoli della Confederazione: denaro, titoli pubblici,
manifatture, commercio ed armatoria navale”. La rivoluzione americana, insieme alle migliaia
d’immigranti venuti dall’Europa e l’industrializzazione, hanno poi rappresentato le basi della
cultura imprenditoriale americana moderna. La Costituzione del 1787 - che alle multinazionali
diede il via - è un documento prodotto da qualche decina di portatori di grandi interessi corporati e
di già multinazionali. Si stava già profilando in quel periodo il grande contrasto intestino che
avrebbe portato alla Guerra di Secessione: quello fra il grande capitale liquido del Nord-Est
puritano e il grande latifondismo negriero del Sud. L’Emendamento più importante è il X, di grande
valenza politica. Il sistema politico americano non si regge sulla Costituzione del 1787, ma sui
poteri che quella silenziosamente lascia alle legislature degli Stati. Ottenuta l’indipendenza, grande
obiettivo della politica americana fu quello di raggiungere la costa del Pacifico. L’Ovest costituiva
un’occasione di per sé: dal punto di vista economico (enormi estensioni a disposizione), da quello
politico (le nuove colonizzazioni sarebbero servite come valvola di sfogo per le masse di
disoccupati e diseredati).
All’Ovest, dunque. Il primo passo fu l’apertura dell’Ohio Territory alla colonizzazione.
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4 Laceranti contraddizioni statunitensi
Ottenuta l’indipendenza, le tredici ex colonie americane avevano subito affrontato il
problema dei nativi. Era chiaro che questi dovevano scomparire. Il Congresso scelse una tattica
strisciante e attendista: non bisognava lasciare capire le intenzioni finali; le tribù andavano messe le
une contro le altre sfruttando le loro ataviche rivalità; i loro mezzi di sussistenza andavano erosi
lentamente ma costantemente; le tribù dovevano essere illuse di poter contrattare la loro sorte con
trattati che in realtà non si aveva alcuna intenzione di rispettare. I nativi erano costantemente
provocati: i coloni sterminavano la selvaggina, avvelenavano le sorgenti nascondendo sul fondo
carogne di animali, assoldavano individui senza scrupoli perché li uccidessero.
Così si estinsero quasi del tutto i nativi americani: nel 1630 ce n’erano almeno 5 milioni e al
censimento generale dell’anno 1900 se ne calcolarono 250 mila. Questo rapporto così crudele con i
nativi rappresenta una delle contraddizioni più acute della rivoluzione americana, insieme alla
schiavitù dei neri. Nelle colonie inglesi la schiavitù divenne rapidamente un’istituzione, il normale
rapporto di lavoro tra neri e bianchi. Con la schiavitù crebbe quel particolare sentimento razziale –
caratterizzato da odio, disprezzo, pietà o paternalismo – che ha segnato la posizione di inferiorità
dei neri in America per i trecentocinquant’anni successivi; ovvero il razzismo, nel quale si uniscono
una condizione di inferiorità e un’ideologia basata sul disprezzo. Viene così abbastanza meno l’idea
che la rivoluzione americana sia stata il risultato di una pura forza morale e che avrebbe potuto
continuare ad accrescere la sua potenza soltanto se avesse continuato ad esercitare un’influenza più
alta sulle coscienze dei singoli individui, dei meri diritti di libertà personale e di tutela della
proprietà privata che aveva contribuito a realizzare. In definitiva, la rivoluzione americana era
culminata nel reciproco riconoscimento dei cittadini nella comunità. La rivoluzione significa solo
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che i cittadini prendono l’impegno di aderire ad una comunità democratica e alle sue procedure.
Emerson definisce questo impegno, che è alla base sia della fraternità democratica così come del
conflitto politico, lealtà. Ma non tutti sono compresi in questa comunità.
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Bibliografia
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 Matteo Battistini, Una rivoluzione per lo Stato: Thomas Paine e la rivoluzione
americana nel mondo atlantico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012
 E. Foner, Storia della libertà americana, Donzelli, Roma 2000
 Friedrich von Gentz, L’origine e i principi della rivoluzione americana a confronto
con l’origine e i principi della rivoluzione francese, Sugarco, Milano 2011
 Jack Philip Greene, A companion to the American Revolution, Blackwell, Malden
Mass. 2004
 Eliga H. Gould – Peter S. Onuf (eds.), Empire and nation: the American Revolution
in the Atlantic World, The Johns Hopkins University press, Baltimore-London 2005
 Francis Jennings, La creazione dell’America, Mondadori, Milano 2003
 José Luis Orozco, La rivoluzione americana delle ‘corporations’: filosofia e politica,
Gangemi, Roma 2006
 V. L. Parrington, Storia della cultura americana, Einaudi, Torino 1969
 Eric Voegelin, Dall’illuminismo alla rivoluzione, Gangemi, Roma 2005
 Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, Il Saggiatore, Milano
2010
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