La ricerca - Provincia di Massa
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La ricerca - Provincia di Massa
Università degli Studi di Pisa Dipartimento di Scienze Sociali Le lavoratrici di cura migranti della Provincia di Massa Carrara a cura di Francesco Paletti Giugno 2008 Il presente lavoro di ricerca è stato realizzato dal Laboratorio di Ricerca sullo Sviluppo Sociale del Dipartimento di Scienze Sociali di Pisa nell’ambito delle attività finanziate dall’Amministrazione provinciale di Massa Carrara (Osservatorio per le Politiche Sociali). La presente ricerca è stata realizzata in collaborazione con: Local-Global S.a.s. Via di Ricorboli, 1 50126-Firenze Tel.: 055 0113472 Fax: 055 6802511 Staff del progetto: Supervisione scientifica: Gabriele Tomei Coordinamento generale: Andrea Manuelli Analisi e redazione del rapporto di ricerca: Francesco Paletti Indagine sul campo: Francesco Paletti e Irene Lencioni 2 Si ringraziano tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione della presente indagine ed in particolare: - Le donne straniere che svolgono lavoro di cura. per la disponibilità a regalarci una parte del loro tempo prezioso; - La dott.ssa Irene Lencioni che ha curato la raccolta e sistematizzazione delle interviste; - La dott.ssa Rosanna Vallelonga della Società della Salute della Lunigiana, Rovena Muča dell’Associazione “Casa Betania” e Abdessamada Elboudlali (Samad) dell’Associazione “El Kandil” per la preziosa collaborazione. 3 Indice Introduzione ………………………………………………………….….........................................6 Cap. 1 – Lavoratrici di cura migranti: esistenze al crocevia del cambiamento ……………….8 1.1 – Inquadramento generale del fenomeno ……………………………………………….8 1.2 – Le lavoratrici di cura migranti in Italia ……………………………………………....15 1.3 – Le lavoratrici di cura migranti in Toscana e in Provincia di Massa Carrara………….23 Cap. 2 – Le lavoratrici di cura migranti nella provincia di Massa Carrara. L’indagine sul campo …………………………………………………………………………………….30 2.1 – Le lavoratrici di cura intervistate: anagrafe del campione ……………………………30 2.2 - I progetti migratori: tra bisogno e pianificazione ……………………………………. 36 2.3 – Il mercato occupazionale: il punto di vista delle lavoratrici di cura ………………….46 2.4 – L’abitazione: tra coresidenza e progetti d’autonomia ………………………………..52 2.5 – Il rapporto con il territorio e la rete dei servizi ……………………………………….55 2.6 – La competenza linguistica …………………………………………………………….61 2.7 – Madri, figlie e mogli “a distanza” …………………………………………………….63 Cap. 3 – Il punto di vista dei “testimoni privilegiati” ……………………………………………71 3.1 – Uno sguardo complementare ………………………………………………………….71 3.2 – L’integrazione sociale delle lavoratrici di cura: nodi critici ………………………….72 4 3.3 – Lavoratrici di cura straniere e sistema di servizi e interventi promossi nel territorio ..74 3.4 – Ricerca di lavoro e qualificazione professionale. Sintesi delle proposte di miglioramento della rete di servizi e interventi territoriali rivolti alle lavoratrici di cura straniere ………………………………………………………..75 Note conclusive …………………………………………… ………………………… ………… 79 Riferimenti bibliografici …………………………………………………………… ……………82 Allegati/ Le matrici dell’indagine sul campo ……………………………………………………83 5 INTRODUZIONE C’è uno spartiacque nella letteratura scientifica relativa alle lavoratrici di cura straniere ed è la grande regolarizzazione del 2002 collegata alla cosiddetta “Bossi-Fini” (l.189/2002) che ha consentito l’emersione dall’irregolarità di oltre 230mila lavoratrici e lavoratori migranti inserite nel settore domestico. E’ sufficiente anche solo scorrere i riferimenti bibliografici di questo rapporto per rendersene conto: prima è stato un fenomeno largamente ignorato, “sommerso” anche nelle scienze sociali eppure già ben presente nel quotidiano delle famiglie italiane; dopo è stato oggetto di una rincorsa quasi forsennata, allo scopo di recuperare il ritardo accumulato. Quello della sociologia delle migrazioni è anche il ritardo dei decisori politici, poco capaci d’interpretare il cambiamento epocale che sta vivendo la società italiana, di cui le lavoratrici di cura di cura immigrate erano un segno premonitore e sono diventate uno dei sintomi più visibili: la popolazione invecchia, nuovi modelli familiari si affermano e l’inserimento occupazionale delle donne non è più solo una questione d’emancipazione femminile ma anche una necessità. Aumentano le fragilità all’interno delle famiglie e diminuisce la loro capacità di presa in carico. E’ al crocevia di questi cambiamenti che si situano le lavoratrici di cura straniere, protagoniste di un “welfare informale” nato dal basso e tutto a lato degli interventi istituzionali. Si tratta di un segmento della popolazione con caratteristiche specifiche proprie, sia quanto a struttura socio-demografica che in relazione all’intenzionalità dei progetti migratori. Anche in Toscana, però, non ha ancora compiutamente suscitato l’attenzione del mondo della ricerca: questo rapporto, commissionato dall’Osservatorio Provinciale per le Politiche Sociali di Massa Carrara al Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pisa, infatti, è una delle prime indagini qualitative tesa a colmare un vuoto di conoscenza abbastanza profondo. Nel primo capitolo, dopo un inquadramento generale sulle cause strutturali che hanno generato la rapida crescita di questo segmento di popolazione straniera, se ne tratta le caratteristiche sociodemografiche sia in riferimento al livello nazionale che a quello regionale e provinciale. In esso si propone anche una stima della presenza reale delle lavoratrici di cura sul territorio toscano. Il secondo, invece, è interamente dedicato all’indagine qualitativa svolta a partire da un questionario semi-strutturato somministrato a 22 lavoratrici di cura che vivono nella Provincia di Massa Carrara. E’ certo la dimensione lavorativa, e per ovvie ragioni, ad occupare una parte significativa dell’indagine, senza però, crediamo, che sia stata sacrificata quella della relazione con il contesto d’accoglienza e del rapporto con il Paese d’origine. Da una parte, infatti, vi era l’esigenza di dare in qualche modo conto del vissuto complessivo delle lavoratrici di cura che abitano questo territorio, 6 evitando accentuazioni eccessivamente funzionali, e mistificanti, come nel caso ci fossimo dedicati esclusivamente ad esplorare le dinamiche del contesto occupazionale; dall’altra vi era il dovere di far emergere la dimensione “transnazionale”, particolarmente marcata per questi flussi, in quanto fortemente condizionante il quotidiano delle lavoratrici: in tal senso quella dei rapporti con i congiunti rimasti in patria costituisce un’area d’analisi ineludibile. Infine, nel terzo capitolo, sempre attraverso la somministrazione di un questionario semistrutturato, si cerca succintamente d’indagare il punto di vista dei c.d. “testimoni privilegiati” -operatori dell’immigrazione, assistenti sociali e assistenti domiciliari- in relazione alla capacità del sistema territoriale di offrire risposta ai bisogni e agli interrogativi posti, in primo luogo agli enti locali, dalla presenza crescente di queste persone. Lo scopo era anche quello di far emergere dalla loro esperienza alcune ipotesi d’intervento, eventualmente da approfondire in vista di una loro sperimentazione. Questo lavoro non ha la pretesa di essere esaustivo, né tanto meno di dire alcuna “parola definitiva” sull’argomento. Vuole essere, invece, un contributo, certo perfettibile ma crediamo già utile, alla riflessione. 7 Cap. 1 Lavoratrici di cura migranti: esistenze al crocevia del cambiamento 1. 1 Inquadramento generale del fenomeno Assistenti domiciliari e collaboratrici familiari, lavoratrici di cura e domestiche, caregiver, colf, badanti1: sono tanti i termini cui si fa ricorso, anche nella letteratura scientifica, per definire coloro, sempre più spesso migranti, che sono incaricati di accudire i soggetti più deboli (prevalentemente anziani) delle famiglie. Si tratta di termini che spesso sono utilizzati indifferente per richiamare uno stesso fenomeno mentre invece si riferiscono ad aspetti che, quanto meno in linea teorica, andrebbero tenuti distinti benché nella prassi quotidiana siano strettamente collegati: • un primo gruppo di termini (assistenti domiciliari, collaboratrici familiari, lavoratrici domestiche e colf) enfatizza soprattutto le mansioni di tipo prettamente “casalingo”: cucinare, pulire, riassettare le camere, lavare, stirare e via dicendo; • un secondo gruppo (lavoratrici di cura e caregiver) rimanda, invece, soprattutto a compiti di tipo socio-assistenziale riferiti a persone limitatamente, o completamente, non autosufficienti arrivando talvolta ad includere anche mansioni di assistenza sanitaria primaria (ad esempio somministrare farmaci, fare punture o misurare la pressione). Il fatto che nella prassi, sia comune che scientifica, si faccia ricorso indifferentemente a termini che in realtà richiamano aspetti qualitativamente diversi è dovuto in parte alla normativa, segnatamente il Decreto Legislativo del 30 marzo 2001, che sotto la voce “collaboratore domestico e assimilati” include diverse sottocategorie quali: “balia, bambinaia, collaboratore familiare, donna di servizio, fantesca, guardarobiere domestico, lavoratrice domestica, maestro di casa e servitore”; in misura preponderante, però, ciò è dovuto al fatto che spesso la lavoratrice di cura “svolge allo stesso tempo attività di collaboratrice familiare per cui, pur essendo razionalmente agevole distinguere tra le due funzioni, in pratica bisogna rendersi conto che la stessa persona, contemporaneamente o successivamente, è chiamata ad esercitarle entrambe” (W.Nanni e S.Salvatori, pag. 286 in “Dossier Statistico Immigrazione 2004”, IDOS). In questa sede, pur senza alcuna pretesa di dirimere la questione terminologica, si utilizzerà il termine “lavoratrice/lavoratore di cura”2 ricomprendendo in esso tutte le donne migranti impiegate 1 “Il termine “badante” è riduttivo e ingiusto: le donne immigrate (ma talvolta anche gli uomini) sono chiamate ad assicurare servizi che vanno ben oltre il semplice “badare” agli anziani loro affidati” (M.Ambrosini, pag. 253 in “Dossier Statistico Immigrazione 2006”, Caritas/Migrantes, IDOS) 2 Secondo la ricerca “Il Welfare fatto in casa” (Iref/Acli, 2007) è donna l’84% degli addetti al lavoro di cura. 8 presso famiglie italiane nel cui “mansionario” è inserito anche un qualche compito di cura per quanto esso non sempre possa essere prevalente. Quello delle lavoratrici di cura straniere non è un fenomeno nuovo per il nostro Paese visto che i primi flussi risalgono all’inizio degli anni ’70 e riguardano soprattutto “colf” (è la definizione ricorrente allora) provenienti da Paesi cattolici (Filippine, Perù e America Latina in genere), dal Corno d’Africa (Somalia, Eritrea ed Etiopia) e da Capoverde. Ma è solo nell’ultimo decennio che esso assume una rilevanza quantitativa e una visibilità sociale tale da attrarre in misura crescente l’attenzione dei media, delle scienze sociali e, sia pure con qualche ritardo, anche dei “policy maker”. Le stime più accurate3, e recenti, al riguardo indicano in oltre 600mila le cittadine immigrate che in Italia sono impegnate nel lavoro di cura, incluse coloro che si trovano in una posizione d’irregolarità. Quelle regolarmente iscritte all’INPS a fine 2004 erano, invece, oltre 336mila, un valore sensibilmente sottostimato rispetto a quello reale ma, comunque, di cinque volte superiore a quello del 1995: in dieci anni, infatti, il numero dei migranti iscritti all’INPS nel settore del lavoro domestico è aumentato di ben il 408,1%. Una diffusione così ampia del fenomeno si spiega a partire dal consistente incremento del bisogno di cura delle famiglie italiane, conseguenza dell’invecchiamento della popolazione: l’Italia, infatti, già oggi è la nazione con il più alto tasso nel mondo di persone con oltre 65 anni di età e la tendenza è quella di un aumento della longevità se è vero che la speranza di vita continua ad aumentare4 non essendo sufficiente a compensarla la lievissima ripresa della natalità5. Conseguentemente si fanno sempre più diffuse le situazioni di persone in condizioni di non autosufficienza: uno studio del Ministero del Welfare (2006) ha calcolato in circa 2milioni e 800mila gli italiani non autosufficienti. Il problema è particolarmente sentito nelle classi d’età più avanzate: una qualche forma di disabilità, infatti, colpisce circa un quinto (19,3%) degli ultrasessantacinquenni e quasi la metà (47,7%) di quelli con più di ottanta anni6. 3 Vedi paragrafo seguente. “La speranza di vita alla nascita è cresciuta in un solo decennio (1993-03) di quasi tre anni per gli uomini e di quasi due per le donne, portandosi a 77 anni per i primi e ad 82 e mezzo per le seconde (…). Circa due terzi dell’allungamento della speranza di vita complessiva sono ascrivibili ai miglioramenti intervenuti nelle età più avanzate” (pag. 77, “Rapporto di monitoraggio delle politiche sociali”, Ministero del Welfare, 2005). 5 Passata da 1,19 figli per donna in età feconda del 1995 (minimo storico per l’Italia) a 1,33 nel 2004. 6 La stessa indagine ha evidenziato come più di un quinto (22,5%) degli ultraottantenni viva in una condizione di “confinamento individuale” (costrizione a letto, su una sedia a rotelle o in casa) e circa un terzo incontra difficoltà nell’espletamento delle principali attività di cura della propria persona (vestirsi, lavarsi, mangiare, etc). (pag. 100, “Rapporto di monitoraggio delle politiche sociali”, Ministero del Welfare, 2005). 4 9 Tabella 1 – La popolazione anziana in Europa: gli 8 Paesi con maggior incidenza di ultrasessantacinquenni. EU (25 Paesi) Italia Germania Grecia Svezia Bulgaria Belgio Spagna Portogallo Popolazione residente 455.022.000 57.321.000 82.537.000 11.006.000 8.941.000 7.846.000 10.356.000 41.664.000 10.407.000 % popolazione anziana 16,3 19 17,5 17,5 17,2 17 17 16,9 16,7 Fonte: Ns. elaborazioni IRS su dati Eurostat, 2003 Eccezion fatta per i casi di persone affette da patologie di una certa gravita, in Italia è sempre stata la famiglia, e soprattutto le donne, a farsi carico dei compiti di cura nei confronti dei membri più fragili, anziani in particolare. Questo modello di presa in carico ha tenuto almeno fino alla metà degli anni ’80; da un ventennio a questa parte, invece, ha palesato segnali di crisi sempre più evidenti. In primo luogo per là già sottolineata crescita della popolazione anziana, ma anche perché sono in rapida trasformazione i modelli e le istituzioni socio-culturali di riferimento della società italiana: il riferimento è, innanzitutto, all’emancipazione lavorativa femminile, che nel nostro Paese non è stata accompagnata da percorsi di redistribuzione fra i sessi dei compiti familiari di cura di uguale intensità. La conseguenza è stata una traslazione della linea d’impegno delle donne italiane: da «casalinga-madre-moglie» a «lavoratrice-madre-moglie». “Alcune di esse arrivano a lavorare anche 70 ore a settimana e questo in un contesto in cui è venuto meno il perno tradizionale dei familiari e dei parenti stretti e, specialmente nelle aree metropolitane, sussiste la difficoltà a ritornare a casa in tempi accettabili a causa della distanza del posto di lavoro”7 (INPSCaritas/Migrantes, dicembre 2004). L’affermarsi di un modello familiare nucleare in luogo della famiglia «allargata», prevalente fino a qualche decennio fa e in grado assicurare quella trama di relazioni e rete di supporti ai soggetti più deboli del nucleo, è un altro elemento di trasformazione della società italiana che concorre ad incrementare il bisogno di cura. Ciò anche alla luce del 7 Questa asimmetria di genere, che interviene nell’organizzazione familiare e nelle soluzioni adottate dai suoi membri, emerge in modo chiaro da alcuni dati desunti dall’Indagine Multiscopo sulle famiglie dell’Istat (2001-2002): di fatto, nelle coppie a doppia carriera, il 53,5% delle donne attive (coniugate con figli) dichiarano di essere impegnate per oltre sessanta ore a settimana (considerando il tempo dedicato alla professione, ai familiari e alla casa), contro il 17% degli uomini che sostengono il medesimo livello di carico sociale. 10 moltiplicarsi delle forme familiari in conseguenza dell’aumento delle separazioni e dei divorzi che ha implicato una crescita dei nuclei ricostituiti e di quelli costituiti da una sola persona8. A fronte di cambiamenti di tale portata, che non è esagerato definire epocali quanto meno dal punto di vista socio-culturale, il sistema di welfare nazionale si è fatto trovare ampiamente impreparato: il sistema di protezione sociale italiano, infatti, è basato essenzialmente “su trasferimenti di reddito, soprattutto sotto forma di pensioni, e meno su servizi pubblici alle persone e alle famiglie, rispetto ai Paesi dell’Europa settentrionale e centrale (..) Ma una simile architettura del welfare riflette un assetto sociale tradizionale, in cui gli uomini lavorano fuori casa (…), mentre le donne si occupano dei compiti afferenti alla sfera domestica (…). Questo assetto scricchiola sempre più da quando anche le donne sposate sono entrate massicciamente nel mercato del lavoro extradomestico ed è aumentato il numero di anziani da assistere, mentre non ha fatto grandi progressi la redistribuzione dei compiti all’interno delle famiglie” (Ambrosini, pag.19, 2004). Prova ne è che l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che dispone del numero più basso di posti letto in residenze protette per anziani: 20 per ogni mille ultrasessanticinquenni mentre nessun altro Paese industrializzato scende sotto la media dei sessanta. Non solo, uno studio dell’EACHH (European Association of Care and Help at Home) ha confrontato i sistemi di assistenza domiciliare di undici Paesi europei evidenziando come il nostro sistema sanitario nazionale riesca a raggiungere a domicilio una proporzione inferiore all’ 1% degli anziani con più di 65 anni. “Il distacco dagli altri Paesi è elevato: la Repubblica Ceca, penultima per consistenza dei servizi domiciliari, raggiunge comunque il 6 per cento degli ultrasessantacinquenni; la Francia l’8 per cento, la Germania il 10, la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi il 20” (W.Nanni/S.Salvadori, pag. 291 in “Dossier Statistico Immigrazione 2004”, IDOS). Un ultimo elemento che evidenzia ulteriormente il bisogno di cura delle famiglie italiane è quello che Castagnaro (2002) ha definito come “cultura della domiciliarità”. In un contesto di forte trasformazione, come quello delineato nelle pagine precedenti, sembra restare costante, invece, il desiderio di dare risposta alle necessità di cura dell’anziano nell’ambito del suo contesto di vita. “Non è soltanto la carenza di strutture residenziali per gli anziani bisognosi di assistenza, o il loro costo, infatti, a indurre le famiglie alla soluzione privatistica dell’assunzione (regolare o meno) di un’aiutante domiciliare. Interviene anche il rifiuto di soluzioni istituzionalizzanti, il desiderio di mantenere l’anziano nel proprio ambiente di vita, di non sconvolgere i suoi ritmi e le abitudini, 8 Le persone che vivono da sole sono l’11,9% della popolazione adulta: si tratta di un fenomeno che in parte è addebitabile all’invecchiamento della popolazione (e quindi all’accresciuta possibilità di trovarsi in una situazione di vedovanza), ma in misura rilevante è anche conseguenza della frantumazione della coppia (nella fascia d’età compresa fra i 45 e i 64 anni sono divorziati o separati più della metà degli uomini che vivono da soli e circa i due terzi delle donne) o della scelta di autonomia in assenza di una coppia (circa i tre quarti degli “under 45” che vivono da soli sono celibi o nubili). (Ministero del Welfare, 2006). 11 poterlo visitare liberamente quando lo richiede o quando c’è un momento libero (M.Ambosini, 19:2004). Lo conferma anche una recentissima indagine del Censis (giugno 2008) secondo cui solo il 7% degli italiani pensa che in caso d’insorgenza di non autosufficienza in un proprio genitore bisognerebbe trasferirlo in una struttura residenziale; mentre il 30% ritiene che dovrebbe esserci un’offerta pubblica e privata di assistenza domiciliare modulata sulle esigenze, il 28% è convinto che dovrebbe vivere con uno dei figli (se ne ha ovviamente) e il 22% che dovrebbe rimanere in casa propria salvo beneficiare di viste regolari da parte dei familiari per garantire l’assistenza necessaria. Ricapitolando, quindi, i fattori che in Italia hanno favorito il diffondersi del ricorso al lavoro di cura, elencati di seguito, sono tanto demografici, quanto sociali e culturali: • invecchiamento della popolazione e aumento degli anziani non autosufficienti; • emancipazione femminile non accompagnata da un altrettanto intensa redistribuzione di genere dei compiti di cura in ambito familiare; • passaggio da un modello di famiglia «allargato» ad uno di tipo nucleare; • limitata capacità del welfare nazionale di offrire risposte ai nuovi bisogni ingenerati dai cambiamenti in atto; • permanere di una forte “cultura della domiciliarità”. E’ al crocevia di queste tensioni, quasi tutte orientate al cambiamento, che si costruisce quel “welfare nascosto” di cui le lavoratrici di cura straniere costituiscono il pilastro fondamentale. “Si configura un welfare “leggero”, familiare e informale, povero di professionalità ma percepito e vissuto come più “amichevole”, deburocratizzato, flessibile e, naturalmente più governabile da parte degli utilizzatori-datori di lavoro. Le famiglie scambiano di fatto la rinuncia ad avvalersi di servizi istituzionali (che peraltro non riuscirebbero a rispondere ai loro bisogni) e anche ad un’assistenza professionalmente qualificata e razionalmente organizzata, con la libertà di gestire le cure per gli anziani entro lo spazio domestico, intaccando il meno possibile abitudini e ritmi di vita del congiunto” (M.Ambrosini, 20:2004). Le lavoratrici di cura immigrate, infatti, garantiscono tutta una serie di “requisiti” che incontrano i bisogni delle famiglie autoctone. In primo luogo la disponibilità a svolgere un lavoro che gli italiani non accettano più di fare, a causa certo della bassa retribuzione, ma ancor di più della pesantezza delle mansioni da svolgere e della bassa considerazione sociale di cui gode questa professione9. Quindi, come accennato, il risultare economicamente molto più convenienti rispetto 9 In una prospettiva di genere “ciò è facilmente spiegabile in un Paese dove ancora il lavoro delle casalinghe italiane non è riconosciuto come lavoro vero. (…) L’opinione corrente (maschile soprattutto) ancora classifica come naturale attività femminile riordinare la casa, fare la spesa, cucinare, crescere i bambini e accudire gli anziani”. (A.Santoro, 48, in “Briciole: nello sguardo dell’altra, raccontarsi il lavoro di cura”, CesvoT, ottobre 2006). 12 all’assistenza privata convenzionata, anche in conseguenza del fatto che molte di queste donne sono disposte (a volte per mancanza di alternative, altre volte perché vantaggioso rispetto agli obiettivi del loro progetto migratorio) a monetizzare la rinuncia ad alcuni diritti contrattuali, “per esempio facendosi pagare un po’ di più il mese di ferie, rinunciando in cambio a goderle” (A.Rossi/P.Piva, 16:2006). Al riguardo una ricerca di alcuni anni fa (novembre 2001) condotta dall’Osservatorio Socio-religioso del Triveneto e dalla Delegazione Caritas Nord-Est stimava in circa 273 milioni di euro il risparmio delle famiglie venete e dell’amministrazione regionale derivante dalla presenza delle circa 15mila lavoratrici di cura immigrate. A tutto ciò si aggiunge il vantaggio della coresidenzialità, ossia il fatto che la lavoratrice, frequentemente (soprattutto nel primo periodo di permanenza in Italia), è disponibile a vivere nell’abitazione della persona accudita: per le immigrate la convenienza sta nel fatto di risolvere in tempi brevi il problema abitativo, rendendosi pressoché invisibili nei confronti di eventuali controlli e risparmiando somme relativamente elevate da rimandare in patria; le famiglie, invece, possono garantire la permanenza dell’anziano in ambiente domestico grazie all’assistenza continuativa della lavoratrice di cura che, in tali circostanze in modo particolare, assicura il massimo della flessibilità disponibile sul mercato del lavoro: “oltre ai normali compiti di cura della casa, che sono di solito l’oggetto principale del contratto esplicito, vengono qui richieste prestazioni di tipo assistenziale e para-sanitario, come quelle di lavare, tenere in ordine, mettere a letto e alzare le persone assistite, tenere sotto controllo il loro stato di salute, a volte medicare, somministrare farmaci, prevenire e curare le piaghe da decubito. Ma si richiede anche compagnia e sostegno emotivo o, in altri termini, una disponibilità allargata a sostituire i familiari assenti nel sollevare il morale e far passare il tempo agli anziani assistiti” (M.Ambrosini, 24-25;2004). Questo welfare informale e nascosto non assicura solo convenienza reciproca ma produce anche svantaggi su ambo i lati della relazione. Il carico maggiore è sulle spalle delle donne migranti, segregate in nicchie occupazionali che godono di scarsa considerazione sociale e, sovente, impieghi inferiori alle loro competenze e aspettative. Le possibilità di emanciparsi da tale situazione e di integrarsi nel territorio locale sono limitate a causa dei gravosi orari, dei carichi di lavoro e soprattutto della coresidenzialità, la quale, frequentemente, finisce col limitare anche i ricongiungimenti familiari per la mancanza di un alloggio autonomo. Sul versante familiare, invece, l’inconveniente maggiore è l’assenza di profili professionali non adeguati per un lavoro, come quello di cura, che domanda non solo disponibilità alla fatica fisica ma anche competenze relazionali e socio-sanitarie specifiche di cui, spesso, le lavoratrici di cura sono sprovviste. Finora si è analizzato soprattutto il versante della domanda, ossia le ragioni per cui in Italia vi è una richiesta così quantitativamente significativa di lavoratrici di cura. Ma qualche parola deve 13 essere spesa anche sul versante dell’offerta, cioè sui motivi per cui esse decidono di lasciare la propria famiglia e i propri affetti più stretti per trasferirsi in un altro Paese inserendosi in questo specifico segmento del mercato del lavoro nazionale. La scelta di queste donne è da ricondursi, prevalentemente, alla categoria delle migrazioni economiche ed affonda le radici nella situazione di povertà vissuta in patria e nelle opportunità di relativo benessere che sembra offrire10 l’emigrazione. Il divario che separa i contesti di partenza di queste migranti dall’Italia è evidente anche prendendo in considerazione alcuni elementari indici di sviluppo, come illustra la tabella 2 che mette a confronto aspettativa di vita, alfabetizzazione, iscrizione scolastica e PIL procapite dell’Italia con gli analoghi indicatori relativi a quattro dei principali Paesi di provenienza delle lavoratrici di cura straniere. Tabella 2 – Indicatori di Sviluppo (2005): confronto fra Italia e Paesi di provenienza delle lavoratrici di cura. Aspettativ Tasso alfabetizzazione Tasso iscrizione PIL pro capite14 11 12 13 a di vita (%) scolastica (%) Italia 80,3 98,4 90,6 28.529 Romania 71,9 97,3 76,8 9.060 Ucraina 67,7 99,4 86,5 6.848 Filippine 71 92,6 81,1 5.137 Rep. 71,5 87 74,1 8.217 Dominicana Fonte: Ns. elaborazioni su dati UNDP (2005) Guardando solo il dato economico, emerge con chiarezza come il PIL pro capite italiano sia grande tre volte quello romeno e dominicano, più che quattro volte quello ucraino e più che cinque quello filippino. Un indicatore un po’più preciso e mirato della situazione personale vissuta è quello relativo al numero di familiari occupati all’epoca dell’espatrio, preso in considerazione da una ricerca di IREF/Acli (giugno 2007) basata sulla somministrazione di un questionario standardizzato ad un campione di 1.003 lavoratrici di cura provenienti da Paesi a forte pressione migratoria: “il dato da rimarcare è che quasi un collaboratore domestico su quattro è emigrato quando nella propria famiglia non lavorava nessuno; un altro 45% è partito con un solo occupato in famiglia. Ciò vuol 10 “Non appena le esigenze superano il livello minimo di sussistenza e ci si trova ad affrontare necessità economiche più strutturate, come le spese di istruzione per i figli, o le spese sanitarie, l’emigrazione diventa per molte donne l’unica via percorribile per affrontare tali incombenze e garantire un benessere alla propria famiglia” (E.Castagnone/R.Petrillo, pag. 13-14 in “Madri migranti, le migrazioni di cura dalla Romania e dall’Ucraina in Italia”,Cespi, Working Papers 34/2007). 11 In anni. 12 Espresso in percentuale sul totale della popolazione con più di 15 anni. 13 Ponderato fra livello primario (corrispondenti alle scuole elementari e medie italiane), secondario e terziario (università). 14 Espresso in dollari a parità di potere d’acquisto. 14 dire che la necessità di integrare il proprio reddito familiare è un movente fondamentale in questi processi migratori” (IREF/Acli, 18:2007). La povertà relativa dei Paesi d’origine rispetto a quello d’approdo spiega sicuramente la scelta d’emigrare, ma “dice” poco sul motivo per cui a compiere tale scelta siano soprattutto le donne della famiglia, fra l’altro frequentemente in età non più giovane. Castagnone e Petrillo (febbraio 2007), autrici di uno studio di caso su un campione di collaboratrici familiari romene (e ucraine), evidenziano al riguardo “la scarsità di offerta di lavoro (in patria N.d.A) per le donne in età avanzata con carichi familiari. Molte, che pure in passato lavoravano, raccontano infatti di aver abbandonato la propria occupazione per diversi anni per prendersi cura dei figli nei primi anni di vita, e di aver in seguito incontrato notevoli difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Per la maggior parte di queste donne il prolungato periodo di assenza dal lavoro e l’avanzare dell’età hanno ridotto sensibilmente la possibilità di trovare impiego in Romania” (pag. 16, ivi). Inoltre non deve essere sottaciuto il fatto che in molti casi il migrante espatria con la consapevolezza che nella nazione d’arrivo troverà lavoro in un specifico settore. Le informazioni sui fabbisogni di manodopera, infatti, sono una delle risorse fondamentali nelle valutazioni che precedono la migrazione e difficilmente potrebbe essere diversamente se si considera che il principale canale di primo impiego sono parenti e amici o conoscenti connazionali. Al riguardo anche la ricerca di IREF/Acli evidenzia come il 40,8% delle donne migranti intervistate è partito già pensando di trovare un impiego nel lavoro di cura. 1.2 Le lavoratrici di cura migranti in Italia Quello delle lavoratrici di cura è un flusso tutt’altro che recente nella storia delle migrazioni dirette verso l’Italia: i primi flussi del dopoguerra, infatti, risalgono agli anni ’60 e riguardano principalmente le donne capoverdiane che giungono nel nostro Paese grazie alla mediazione dei Padri Cappuccini. Successivamente è possibile distingure tre diverse fasi: • la prima, negli anni ’70, coinvolge prevalentemente lavoratrici di cura provenienti dalle ex colonie italiane e da Paesi cattolici (Filippine, Perù e, in generale, America Latina). La mediazione di molte organizzazioni d’ispirazione cattolica consente loro di giungere nel nostro Paese già con i documenti in regola; • è a partire dagli anni ’80 (e ancor di più nel decennio successivo), però, che il fenomeno acquista una consistenza numerica significativa: in particolare fra il 1995 e il 1996, a seguito 15 della regolarizzazione, si verificò il raddoppio degli addetti stranieri del settore passati, nello spazio di un anno, da 59mila a quasi 110mila15; • La terza fase, quella in cui il fenomeno delle lavoratrici di cura straniere diviene ampiamente diffuso in tutto il Paese, a partire dal 2000 assume un’evidenza anche nelle fonti ufficiali e conosce il culmine in occasione della regolarizzazione del 2002 quando furono presentate ben 348mila domande di emersione così ripartite: 233mila per l’Est Europa, 50mila per l’America Latina, 32mila per l’Africa e 31mila per l’Asia. E’ nel decennio in corso che si verifica anche la rivoluzione nella geografia delle provenienze delle lavoratrici di cura straniere, con le donne originarie dei Paesi dei Balcani e dell’ex Unione Sovietica che cominciano a sopravanzare, in misura sempre più significativa, le colleghe provenienti dai tradizionali bacini occupazionali per il lavoro di cura e la collaborazione domestica (Filippine soprattutto, ma anche i Paesi del subcontinente indiano e quelli del Corno d’Africa). Che il fenomeno del lavoro di cura svolto da donne immigrate sia piuttosto diffuso è un dato esperienziale universalmente riconosciuto; quanto lo sia però è questione piuttosto difficile da chiarire. Gli unici dati ufficiali al riguardo sono quelli di fonte INPS che, però, scontano un doppio handicap: sono notoriamente sottostimati rispetto al dato reale a causa dell’ampio ricorso al lavoro irregolare presente nel settore, ma sovrarappresentano la quota di lavoratici di cura regolarmente iscritte in quanto incorporano questa categoria all’interno di quella più ampia dei lavoratori domestici, che includono anche coloro che si occupano esclusivamente della pulizia e della custodia delle abitazioni. L’interesse suscitato dall’argomento ha fatto sì che, in anni recenti, molti studiosi ed istituti di ricerca si siano cimentati in tentativi di stime delle persone realmente impiegate nel lavoro di cura16. La maggior parte di tali lavori, però, a causa delle difficoltà , non è stata in grado di estrapolare dalla stima complessiva la disaggregazione relativa agli occupati di nazionalità italiana ed estera17; ancora meno quelle in grado d’indicare la ripartizione per sesso dei lavoratori del settore. Fa eccezione rispetto al quadro sommariamente delineato lo studio dell’IRS del settembre 2006, il quale si cimenta in un tentativo di stima piuttosto articolato partendo dalla base ufficiale dei dati INPS. 15 “Questo dato è il risultato sia dell’effettiva domanda di nuovo personale, sia dell’utilizzo della collaborazione domestica come una buona copertura per poter essere regolarizzati, tant’è vero che vennero coinvolti anche uomini provenienti da alcuni Paesi del continente africano, tradizionalmente poco portati per questo tipo di lavoro e, non a caso, ottenuto il permesso di soggiorno, si registrò una fuoriuscita dal settore con passaggio ad altre attività” (A.Fucilitti, pag. 290 in “Dossier Statistico Immigrazione 2005”, Caritas/Migrantes, IDOS). 16 Secondo uno studio di Cergas/Bocconi (2005) i lavoratori impiegati nel settore sarebbero fra i 713mila e il milione 134mila unità; una ricerca di IREF/AcliColf (2005) parla di un bacino occupazionale di un milione di persone come “il minimo immaginato possibile”; un indagine pubblicata da “Il Sole 24” (2006) ha stimato una presenza di lavoratrici immigrate irregolari che va da un minimo di 250mila ad un massimo di 900mila persone. 17 Le indagini a campione più precise e recenti al riguardo indicano una quota di lavoratori italiani pari al 3-5% del totale degli occupati nel settore (IRS, settembre 2006; IREF/AcliColf, giugno 2007). 16 Tabella 3 – Italia: stima delle lavoratrici di cura i (2006) Stima L.C. straniere regolarizzate INPS al 18 2006 248.000 Stima delle Stima L.C. L.C. straniere straniere operanti nel totale sommerso19 Stima L.C. italiane regolarizzate INPS al 2006 Stima L.C. Stima totale italiane operanti nel sommerso 372.000 29.000 44.000 620.000 693.000 Fonte: Ns. elaborazioni su stime IRS Secondo l’IRS le lavoratrici di cura straniere sarebbero 620mila, l’89% del totale delle addette del settore. In Italia, dunque, ci sarebbero 57 lavoratrici di cura immigrate ogni 1.000 ultrasessanticinquenni20 residenti. La condizione d’irregolarità riguarderebbe il 60% di esse: il 38% perché priva di un titolo di soggiorno legale mentre il 22% in quanto, pur legalmente soggiornante, opera nel lavoro sommerso. Anche i numeri della Banca Dati INPS, per quanto ampiamente sottostimati rispetto al fenomeno reale, sono in grado comunque di evidenziare alcune delle tendenze in atto nel nostro Paese. Fig. 1 – Lavoratori domestici iscritti all’INPS (1995-2004) 400.000 370.502 350.000 336.524 300.000 250.000 200.000 150.000 107.727 100.000 50.000 134.217 119.297 66.236 0 1995 1997 1999 2001 2003 2004 Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Statistico Immigrazione 2007. In dieci anni (dal 1995 al 2004) i lavoratori domestici stranieri iscritti all’INPS sono quintuplicati (+408%). I picchi d’aumento più significativi sono stati realizzati in coincidenza con i 18 Stima (l’INPS elabora i dati con due anni di ritardo). Sia irregolarmente soggiornanti, che con permesso di soggiorno ma con posizione lavorativa irregolare. 20 Se, invece, si prende in considerazione il totale (straniere e italiane) l’incidenza sale a 64 lavoratrici di cura ogni 1.000 ultrasessantacinquenni residenti. 19 17 provvedimenti di regolarizzazione: fra il 1995 e il 1997, a cavallo quindi della c.d. “sanatoria Dini”, le iscrizioni sono cresciute del 62,6%; fra il 2001 e il 2003, in occasione della grande regolarizzazione collegata alla c.d. “Bossi-Fini” (l.189/2002), si è assistito addirittura ad un aumento di quasi tre volte (176%). Dati che confermano, anche relativamente a questo settore, le notevoli difficoltà poste dalla normativa vigente ad accedere ai normali canali d’ingresso per motivo di lavoro e “l’inadeguatezza delle quote per chiamate nominative, sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista dei requisiti necessari” (W.Nanni/S.Salvatori, pag. 286, in “Dossier Statistico Immigrazione 2004”, IDOS). Altre difficoltà sono evidenziate anche dalla diminuzione delle iscrizioni che si è verificata fra il 2003 e il 2004 (-9,2%, pari a circa 34mila unità). Caritas/Migrantes parla al riguardo di “fenomeno carsico” (M.Nanni, pag. 258, “Dossier Statistico Immigrazione 2007”, IDOS) ed evidenzia come tale calo “possa essere ricondotto alla precarietà tipica del lavoro di cura e alla scarsa propensione a formalizzare questo tipo di prestazioni da parte del datore di lavoro”. Analogo fenomeno è sottolineato anche dal Censis (giugno 2008) secondo cui i regolarizzati per lavoro domestico con la grande sanatoria del 2002 sono diminuiti di ben il 20,8% nello spazio di tre anni (dal 2004 al 2007), “a segnare un probabile ritorno al nero e al sommerso”21. L’Istituto di ricerca punto l’indice soprattutto contro “la farraginosità burocratiche delle procedure normative, chiaramente lontane dalla realtà che i soggetti incontrano (…). La prima esigenza (delle famiglie N.d.A) impone di circoscrivere la ricerca della badante da mettersi in casa a persone presenti fisicamente in Italia, da contattare, incontrare, valutare, magari mettendole alla prova per un breve periodo. Questo richiede il ricorso a canali informali (…), “a lato” delle procedure normative e regolatorie che prevedono i famosi canali di accesso ufficiali che, rispetto alla concreta realtà dell’assistenza ai non autosufficienti, sono irrilevanti, fantasiosi, inefficaci” (pag.16-17, “Il sociale non presidiato”, Censis). Le informazioni rilevate dalla banca dati INPS, aggiornati al 31.12.200422, consentono anche di tracciare un sommario profilo socio-demografico e anagrafico delle lavoratrici di cura iscritte. Il rapporto “Il Welfare fatto in casa” (giugno 2007), un’indagine campionaria a cura dell’IREF offre al riguardo un quadro maggiormente approfondito cui si farà ricorso in questa sede a complemento dei dati ufficiali. Finora abbiamo declinato il lavoro di cura sempre al femminile, sia per gli obiettivi che si propone la presente indagine, sia perché si tratta di un bacino occupazionale che, tradizionalmente, vede impiegate soprattutto donne. Ma non deve essere taciuto il fatto che il lavoro di cura interessa anche 21 In realtà, almeno in linea teorica non si può negare la possibilità che, una quota di essi, abbia cambiato lavoro e, quindi, attualmente risulti iscritto all’INPS in un settore diverso. 22 Abbiamo già spiegato che l’Osservatorio occupazionale INPS elabora i dati con due anni di ritardo. 18 gli immigrati di genere maschile per quanto con un’incidenza minima rispetto al totale: le lavoratrici domestiche23, infatti, sono l’87,5% di tutti gli occupati stranieri nel settore, mentre gli uomini coprono il restante 12,5%. Tali proporzioni sono confermate anche dall’indagine nazionale IREF: le donne, infatti, sono l’83,7% del campione selezionato (che include anche lavoratori irregolari). Figura 2 – La distribuzione di genere delle lavoratrici domestiche per area di provenienza (31.2.2004) 120,0% 100,0% 5,3% 9,3% 17,7% 32,1% 80,0% M 60,0% F 94,7% 40,0% 90,7% 82,3% 67,9% 20,0% 0,0% Europa Est Africa Asia America centromeridionale Fonte: Ns. elaborazioni su Dossier Statistico Immigrazione/INPS La componente femminile è quasi assoluta per quel che riguarda i lavoratori domestici provenienti dai Paesi dell’Europa Orientale (94,7%) e rimane più elevata della media nazionale anche per quel che riguarda gli occupati originari dell’America Centro-Meridionale (90,7%); scende, invece, al di sotto di tale soglia in riferimento alle lavoratrici e ai lavoratori africani (82,3%) e, soprattutto, asiatici (67,9%)24. In questo continente, infatti, vi sono alcuni Paesi di provenienza in cui la componente maschile di occupati nel settore domestico è particolare alta (Filippine, 23,7%), in qualche caso, soprattutto nel subcontinente indiano, addirittura superiore a quella femminile (Sri Lanka 51,3%, India 55,3%, Bangladesh 88,5%). I Paesi della regione balcanica e dell’Europa Orientale, invece, evidenziano una tendenza opposta: in essi la componente femminile delle lavoratrici domestiche si colloca, quasi sempre al di sopra del 90%. Prendendo in considerazione solo le nazioni da cui giungono i flussi più significativi di lavoratrici di cura, è il caso dell’Ucraina (97,2%) e della Romania (91, 7%), ma anche di Russia (97,6%), Polonia (96,2%), Bielorussia (96,5%) e Moldavia (95,6%). In generale, riguardo alle provenienze (figura 3), oltre la metà delle lavoratrici di cura iscritte all’INPS arrivano dall’Europa Orientale (58,8%), quasi un quinto (17,7%) dall’America centromeridionale e il 16% dall’Asia. 23 E’ la dizione di riferimento della Banca Dati INPS. Nell’analisi non sono stati presi in considerazioni i lavoratori domestici provenienti dall’Europa Occidentale, dall’America Settentrionale e dall’Oceania perché la loro incidenza percentuale è irrisoria. 24 19 Fig.3 – Distribuzione % per area di provenienza dei lavoratori domestici (31.12.2004) % totale % donne America centromerid; 17,7 America Latina; 17 Altri; 0,3 Altri; 0,3 Asia; 20,6 Asia; 16 Africa ; 7,6 Europa Est; 54,4 Europa Est; 58,8 Africa ; 7,2 Fonte: Ns. elaborazioni su Caritas/Migrantes e INPS Nello specifico (tabella 4) oltre un quinto delle lavoratrici domestiche provengono dall’Ucraina (23,3%). Seguono Romania (15%), Filippine (11,9%), Polonia (7,2%) ed Ecuador (6,8). Tabella 4 – Lavoratori domestici: i primi dieci gruppi nazionali (31.12.2004) Paese Ucraina Romania Filippine Polonia Ecuador Perù Moldavia Sri Lanka Albania Marocco v.a. totale 70.603 48.132 46.093 22.041 21.765 20.200 18.451 15.691 11.019 7.573 % 21 14,3 13,7 6,6 6,5 6 5,5 4,7 3,2 2,3 Paese Ucraina Romania Filippine Polonia Ecuador Perù Moldavia Albania Sri Lanka Marocco v.a. donne 68.646 44.160 35.149 21.212 20.002 17.909 17.647 9.473 7.645 6.229 % 23,3 15 11,9 7,2 6,8 6,1 6 3,2 2,6 2,1 Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Immigrazione Caritas e INPS Analoghe tendenze sono evidenziate anche dallo studio dell’IREF il quale sottolinea anche come l’Italia si caratterizzi per due diversi flussi sia in relazione alle aree di provenienza che al periodo in della migrazione: a partire dagli anni ’90, infatti, si sono via via intensificati gli ingressi provenienti dalla regione Balcanica e dai Paesi dell’ex Unione Sovietica, i quali sono andati a sovrapporsi ai precedenti flussi per lavoro domestico provenienti dall’area mediterranea, dall’America Latina e 20 dalle Filippine. Secondo uno studio di caso dell’IRS (settembre 2006), dedicato alle lavoratrici di cura della Lombardia, i due fattori maggiormente capaci di orientare tali flussi sono “il reclutamento dei lavoratori per conoscenza”25 e “le differenti opportunità di emigrazione legate ai sistemi di regolazione dei diversi Paesi”: di fatto accade che “una nazionalità fortemente radicata (come nel caso di quella filippina o srilankese N.d.A) può essere teoricamente in grado di veicolare molte opportunità senza tuttavia poterle utilizzare nella pratica qualora, ad esempio, l’arrivo di nuovi migranti dal Paese di provenienza diventi nel corso del tempo più difficile o più costoso; al contrario insediamenti anche molto limitati possono conoscere uno sviluppo molto veloce, qualora il sistema dei controlli consenta di fatto l’arrivo di volumi rilevanti di emigranti da quel Paese” (IRS, 19:2006), come nel caso, in particolare, delle ucraine le quali, almeno fino al 2004, potevano entrare regolarmente in Italia grazie ad un visto turistico rilasciato dall’Ambasciata tedesca26, molto più facilmente reperibile rispetto a quello italiano. L’IREF dedica al ruolo delle politiche migratorie rispetto all’ingresso in Italia uno specifico approfondimento da cui emerge, apparentemente, una tendenza abbastanza marcata alla regolarizzazione: il 54,2% delle lavoratrici di cura immigrate, infatti, ha un regolare permesso di soggiorno e il 18,2% addirittura la carta di soggiorno27; le lavoratrici di cura irregolari, invece, sarebbero il 23,9%, poco meno di un quarto del campione. Se, però, si pone la sanatoria del 2002 come spartiacque28, allora il quadro muta in modo abbastanza significativo. Il tasso di regolarità della presenza, infatti, è molto alto fra coloro che hanno iniziato la professione di lavoratrice di cura prima di quell’anno visto che ben i due terzi di essi hanno un permesso di soggiorno e oltre un quarto addirittura la carta di soggiorno, mentre coloro che sono ancora in condizione d’irregolarità sono appena il 5,2%. Viceversa la situazione muta profondamente se si guarda a coloro che si sono inseriti in questo settore professionale successivamente a quella data: in questo caso, infatti, le regolari sono il 42,3% contro un tasso d’irregolarità pari al 41,3%. “Gli effetti della nuova normativa (la legge Bossi-Fini) sono pertanto ambivalenti: da una parte si è permesso a quote consistenti d’immigrati già attivi nel mercato di mettersi in regola (…); dall’altra la legge non ha intaccato minimamente quella sorta di “irregolarità strutturale” che sembra essere il minimo comune denominatore dell’Italia come Paese d’immigrazione” (IREF, 25:2006). 25 Chi è in Italia e già lavora come lavoratrice di cura garantisce sulle qualità della connazionale in arrivo. Molti immigrati giungono in Italia in cerca di lavoro con un visto turistico di breve durata, che può essere ottenuto non necessariamente presso l’Ambasciata italiana, ma anche presso quelle degli altri Paesi dell’Unione Europea. 27 Equivale ad un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. E’ rilasciata allo straniero titolare di un permesso di soggiorno che consente un numero indeterminato di rinnovi e soggiornante in Italia da almeno 6 anni, a patto che dimostri un reddito almeno pari all’importo annuale dell’assegno sociale. 28 Si ricorda che la regolarizzazione del 2002 ha riguardato anche i lavoratori domestici operanti come tali nel territorio nazionale nei tre mesi antecedenti l’entrata in vigore del provvedimento. 26 21 Per quanto riguarda l’età, contrariamente ad uno stereotipo molto diffuso, non si tratta di donne giovani: lo studio dell’IREF evidenzia un’età media di 40 anni e una classe d’età prevalente (65%) compresa tra i 30 e i 50 anni. Con il modificarsi dei flussi, è cambiata anche l’età in cui matura la scelta d’emigrare: circa un terzo (31,6%) delle lavoratrici di cura provenienti dagli Stati dell’ex Unione Sovietica, infatti, ha lasciato il proprio Paese quando aveva più di 40 anni; ad emigrare da giovani, invece, sono soprattutto le asiatiche: il 34,6% di esse, infatti, al momento di emigrare aveva meno di 25 anni. Data la classe d’età prevalente, non sorprende che nella maggior parte dei casi si tratti di persone coniugate (61,5%) e con figli (50,4%). Anche se ciò non implica automaticamente una convivenza con i propri congiunti: anzi, solo il 38,3% delle lavoratrici di cura vive in Italia con tutti i familiari più stretti mentre nel 68,3% dei casi si è di fronte a c.d. “famiglie transnazionali”, ossia a nuclei familiari in cui almeno un componente è rimasto nel Paese d’origine. Nello specifico, il 37,6% delle lavoratrici di cura vive lontano dal partner e il 57,4% dai figli. Abbastanza elevato il grado d’istruzione se è vero che circa un quarto delle lavoratrici di cura ha frequentato l’università -nel 12,6 dei casi29 laureandosi- e che il 20,4% è diplomata. L’impegno richiesto alla lavoratrici di cura è, di fatto, a 360 gradi: oltre la metà (51,9%) delle donne impegnate presso famiglie italiane, infatti, svolge un ampio ventaglio di mansioni che vanno dal lavoro di cura in senso stretto (in particolare modo nei confronti di anziani non autosufficienti) alla gestione e alla pulizia della casa. Dal punto di vista della qualità della vita della lavoratrice il quadro cambia in modo abbastanza significativo se questa riesce a lavorare in “multicommittenza”, cioè per più di un datore di lavoro, o invece in “monocommittenza”: in quest’ultimo caso, infatti, la coresidenza con la persona assistita, la quale necessita di un’assistenza continuativa, è quasi una scelta obbligata (59,1% contro il 20% di coloro che lavorano per più famiglie). Un’ultima considerazione, infine, riguarda le retribuzioni così come risultano da Banca Dati INPS (dato al 31.12.2004). Il reddito medio annuo di un lavoratore di cura immigrato è di 4.860 euro, un livello retribuito sostanzialmente in linea (benché leggermente inferiore) a quello di chi percepisce l’assegno sociale (che, a fine 2004, era di 4.875 euro), soglia minima posta dal legislatore nazionale per la concessione e il rinnovo del permesso di soggiorno. Per quanto i salari delle lavoratrici di cura siano fra i più bassi d’Italia, è evidente che tale soglia di reddito è soprattutto la conseguenza di quelle “forme di nero parziale” cui molte famiglie ricorrono: dallo studio dell’IRS emerge, in proposito, come le ore dichiarate sul contratto risultino, in circa i due terzi dei casi, inferiori al numero di ore effettivamente lavorate e, quasi sempre, pari alle 25 ore settimanali, cioè il monte ore settimanale minimo per lo scatto di contribuzione meno onerosa per il datore di lavoro. Ciò detto, 29 Oltre la metà dei laureati è originaria di un Paese dell’ex Unione Sovietica. 22 non può essere taciuto il fatto che, facendo riferimento esclusivamente alla retribuzioni denunciate all’INPS, i lavoratori domestici guadagnano, in media, 432 euro al mese in meno rispetto agli altri lavoratori immigrati. 1.3. Le lavoratrici di cura migranti in Toscana e in Provincia di Massa Carrara Il fenomeno delle lavoratrici di cura straniere in Toscana, fino ad oggi, è stato ancora poco esplorato: ad esso ha dedicato un’analisi abbastanza approfondita il CesvoT (ottobre 2006)30, ma di tipo marcatamente qualitativo, quindi per tracciare un quadro socio-demografico delle lavoratrici di cura straniere presenti sul territorio regionale si deve far riferimento, anche in questo caso, dalla banca dati INPS. Tabella 5 – Le lavoratrici domestiche in Toscana: ripartizione provinciale (31.12.2004) Provincia sesso Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa Carrara Pisa Pistoia Prato Siena M 2.114 7.455 1.222 1.825 1.919 778 1.976 1.566 1.062 1.520 Tot. Toscana Italia 21.437 294.488 F Totale Inc % F 2.314 91,4% 9.072 82,2% 1.306 93,6% 1.976 92,4% 2.173 88,3% 848 91,7% 2.278 86,7% 1.714 91,4% 1.198 88,6% 1.678 90,6% 3.120 24.557 87,3% 200 1.617 84 151 254 70 302 148 136 158 42.036 336.524 87,5% Fonte: Dossier Statistico Immigrazione. Elaborazioni su dati INPS I lavoratori domestici stranieri iscritti all’INPS sono 24.557, il 7,3% del totale nazionale. Le lavoratrici, invece, sono 21.437, pari all’87,3% di tutti gli impiegati nel settore regolarmente registrati. Quasi la metà di esse opera nel triangolo Firenze-Prato-Pistoia (47,1%), ma con una netta prevalenza del capoluogo, principale centro urbano della regione, in cui lavorano più di un terzo delle addette. Lungo le province della fascia costiera, invece, è impiegato il 36% delle lavoratrici domestiche, prevalentemente concentrate nella c.d. “area vasta” livornese-pisano-lucchese visto che vivono in questo triangolo circa i tre quarti delle lavoratrici domestiche della Toscana costiera. 30 L.Luatti/S.Bracciali/R.Renzetti, “Nello sguardo dell’altra: raccontarsi il lavoro di cura”, CesvoT, ottobre 2006. 23 Tabella 6 – Confronto lavoratrici domestiche straniere/regolarmente soggiornanti (31.12.2004) Provincia Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa Carrara Pisa % lavoratrici domestiche 9,9% 34,8% 5,7% 8,5% 9,0% 3,6% 9,2% % regolarmente soggiornanti 10,1% 34% 4,5% 5,3% 6,8% 3% 9,1% Pistoia 7,3% 6,8% Prato 5,0% 12,7% Siena 7,1% 7,7% Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Statistico Immigrazione e INPS La distribuzione territoriale delle lavoratrici di cura riflette sostanzialmente quella degli immigrati regolarmente soggiornanti con due significative eccezioni che riguardano la provincia di Prato, dove le prime le lavoratrici di cura hanno un peso percentuale sul totale regionale significativamente inferiore (-7,7%) rispetto a quello dei regolarmente soggiornanti, e la provincia di Livorno in cui, invece, la situazione è ribaltata: l’incidenza delle collaboratrici domestiche sul totale regionale, infatti, supera del 3,2% quella analoga dei stranieri “regolari”. Tabella 7 – Incidenza lavoratrici domestiche su popolazione ultrasessantacinquenne (31.12.2004) Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa Carrara Pisa Prato Pistoia Siena Totale Lavoratrici domestiche anziani > 65 Incidenza* 2.314 74.755 31,0 9.072 223.613 40,6 1.306 53.421 24,4 1.976 77.506 25,5 2.173 85.285 25,5 848 46.371 18,3 2.278 86.140 26,4 1.714 45.113 38,0 1.198 60.946 19,7 1.678 65.121 25,8 24.557 818.271 30,0 *per 1.000 residenti Fonte: Ns. elaborazioni su dati INPS e ISTAT La tabella 7 mostra l’incidenza (per mille residenti) delle lavoratrici domestiche straniere sulla popolazione anziana di ciascuna provincia. Si tratta ovviamente di valori ampiamente sottostimati in quanto i dati relativi alle collaboratrici familiari, di fonte INPS, non danno conto delle addette in condizione d’irregolarità. Ma sono, comunque, indicativi rispetto alle tendenze dei diversi territori. In media, in Toscana, vi sono 30 lavoratrici domestiche ogni 1.000 residenti. Le incidenze più 24 elevate si realizzano nelle province di Firenze (40,6 per mille) e Prato (38), ad evidenziare, in quest’ultimo caso, come lo scarso peso percentuale delle collaboratrici familiari rispetto al totale regionale sia da collegare ad un numero di anziani sensibilmente inferiore rispetto a quelle delle altre province. Al di sopra della media regionale anche Arezzo (31), mentre tutte le altre si collocano al di sotto di tale soglia. Per quanto riguarda le retribuzioni regolarmente denunciate, i lavoratori domestici stranieri della Toscana, in media, hanno un reddito annuale di 5.049 euro, 190 euro in più rispetto al valore medio nazionale e, soprattutto, 174 in più rispetto a quello che conseguirebbe dalle entrate derivanti da un assegno sociale (4.875 euro) che, come abbiamo visto, è il livello che uno straniero regolare deve raggiungere per il rinnovo del permesso di soggiorno. La province dai lavoratori domestici “più ricchi” sono quella di Siena (5.285 euro) e Firenze (5.205 euro), verosimilmente, corrispondenti a quelle in cui il costo della vita è più elevato. Al di sopra della soglia dei cinquemila euro anche Lucca (5.085 euro), Livorno (5.071 euro) e Prato (5.036 euro). Quella in cui si guadagna meno, invece, è Massa Carrara (4.753 euro). Anche in questo caso vale quanto già sottolineato nel paragrafo precedente, ossia che le retribuzioni regolarmente denunciate all’INPS sono sensibilmente inferiori a quelle realmente percepite a causa del diffuso ricorso a “forme di nero parziale” da parte dei datori di lavoro. Ma, almeno stando ai dati ufficiali, anche in Toscana gli addetti stranieri al lavoro di cura sono sensibilmente più poveri rispetto agli altri lavoratori immigrati visto che mediamente guadagnano il 45,3% in meno corrispondenti a 4.179 euro all’anno. Le province dove questo differenziale è maggiormente pronunciato sono quelle di Arezzo, Pisa (-51,2% in entrambe) e Pistoia (-50,5%). Invece migliore, ma solo lievemente, la situazione a Grosseto (-40,4%) e Livorno (-40,7%). Fig. 4 – Confronto fra i redditi annuali dei lavoratori domestici stranieri e quelli degli altri lavoratori immigrati (31.12.2004) € 12.000 € 9.925 € 10.000 € 9.080 € 8.028 € 8.546 € 10.010€ 9.714 € 9.291 € 9.083 € 9.935 € 8.568 € 10.042 € 9.228 € 8.000 € 6.000 € 4.000 € 2.000 € 4.843 € 5.205 € 4.880 € 5.036 € 5.049 € 4.785 € 5.085 € 5.071 € 4.753 € 4.806 € 5.258 € 4.860 lavoratori domestici Ita lia T os ca n a S ie na P ra to P is to ia P is a C a rr ar a Lu cc a M as sa Li vo rn o G ro ss et o F ire n ze A re zz o € 0 immigrati regolari Fonte: Ns. elaborazioni su dati Dossier Statistico Immigrazione e INPS 25 Fin qui l’analisi si è basata sui dati ufficiali di fonte INPS, notoriamente sottostimati in quanto non includono il sommerso del lavoro di cura. Ma qual è il numero reale delle persone impiegate in questo settore in Toscana? Il dato, per evidenti ragioni, è impossibile da rilevare e la poca letteratura dedicata al fenomeno, per quanto è dato sapere, non si è mai cimentata in un tentativo di stima in riferimento al territorio regionale, anche per le oggettive difficoltà che tale misurazione comporta. Basandoci sul modello costruito dall’IRS31 (settembre 2006), si tenta in questa sede una stima delle persone straniere impiegate nel settore per quanto riguarda la Toscana, consapevoli delle difficoltà e delle possibilità di errore che essa comporta. In primo luogo si è realizzata un’attualizzazione al 2007 dei dati relativi ai lavoratori domestici iscritti all’INPS tenendo conto degli ingressi sul territorio regionale attraverso i decreti flussi32. Quindi, a partire da alcuni recenti ricerche campionarie33, abbiamo costruito una “forchetta” con un’ipotesi massima e una minima. Diversamente dall’IRS, invece, non si è proceduto ad una stima delle lavoratrici di cura straniere “in senso stretto”, cioè di coloro che sono dedite in modo quasi esclusivo a mansioni di care, ritenendolo un criterio eccessivamente stringente rispetto alla fluidità di un fenomeno in cui funzioni strettamente di cura si sovrappongono a compiti di tipo domestico rimanendo in capo alla stessa persona. Tabella 8 – Stima lavoratori di cura presenti in Toscana Lavoratori domestici stranieri iscritti all'INPS al 31.12.2004 24.557 Lavoratori domestici stranieri iscritti all'INPS al 31.12.2007 (attualizzazione) 38.419 Stima lavoratori domestici irregolari (ipotesi minima) 8.836 stima lavoratori domestici irregolari (ipotesi massima) 23.051 stima totale (ipotesi minima) 47.255 stima totale (ipotesi massima) 61.470 Fonte: Ns. elaborazioni a partire da dati INPS 31 Lo stesso che è stato citato anche per la stima delle lavoratrici di cura realmente impiegate a livello nazionale cui si è fatto riferimento nel primo paragrafo del presente capitolo. 32 Una più precisa attualizzazione avrebbe dovuto tener conto anche dei lavoratori e delle lavoratrici di cura che, fra il 2004 e il 2007, hanno perso il lavoro o lo hanno cambiato passando ad un altro settore visto che la posizione INPS di lavoratore domestico è cancellata al verificarsi di una di queste due evenienze. 33 IREF (giugno 2007), IRS (settembre 2006): la prima si basa su interviste a lavoratrici di cura e stima una quota d’irregolarità del 23% rispetto a quelle “regolari”, la seconda fa riferimento ad interviste a testimoni privilegiati e ipotizza una quota d’irregolarità intorno al 60 %. Avremmo potuto anche basarci sulle domande d’ingresso per lavoro domestico presentate, e non accolte, in relazione ai diversi decreti flussi succedutisi dal 2005 ad oggi, ma abbiamo preferito affidarci alle evidenze emerse dalle ricerche campionarie ritenendolo un criterio potenzialmente più preciso in quanto il criterio delle domande non accolte avrebbe escluso coloro che sono rimaste/i nel “sommerso” senza inoltrare alcun modulo di domanda. 26 Il totale delle lavoratrici e dei lavoratori di cura impiegati in Toscana (regolari e non) si collocherebbe entro una forchetta che va dalle 47mila alle 61.500 persone. Se così fosse, quindi, in Toscana vi sarebbero fra i 53 e i 75 addetti del settore ogni 1.000 residenti ultrasessantacinquenni, circa il doppio rispetto all’incidenza calcolata a partire dai dati INPS. Le collaboratrici familiari in provincia di Massa Carrara Il modello costruito dall’IRS per la stima delle lavoratrici di cura a livello nazionale, e da noi replicato (con qualche modifica) per la Toscana, non si presta ad un’applicazione in contesti geograficamente limitati come un singolo territorio provinciale. Quindi per un quadro generale sul fenomeno relativamente alla provincia di Massa Carrara si dovrà fare affidamento solo sui dati di fonte ufficiale, ossia quelli della banca dati INPS. I lavoratori domestici della provincia di Massa Carrara iscritti all’INPS (al 31.12.2004) sono 848. A livello regionale il territorio si caratterizza per almeno due primati “negativi”: è quello con il minor numero di iscritti (3,2% del totale regionale) e con il reddito medio annuo denunciato più basso (4.753 euro), inferiore anche a quello corrispondente all’assegno sociale (4.875 euro), della cui importanza abbiamo già detto34. Le lavoratrici, invece, sono 778, pari al 91,7% del totale. Si tratta prevalentemente di donne adulte visto che il 43,2% di esse ha più di quaranta anni e, addirittura, i tre quarti (76,5%) ne ha più di trenta. L’età è determinata soprattutto dai flussi migratori più recenti, composti prevalentemente da lavoratrici provenienti dai Paesi dell’Europa Orientale, che pure nella provincia di Massa Carrara confermano le stesse caratteristiche anagrafiche evidenziate a livello nazionale: le donne impiegate nel lavoro di cura originarie di quest’area, infatti, sono coprono ben il 60,1% delle addette del settore ed hanno un’età più elevata della media se è vero che quasi la metà di esse (47,5%) ha già compiuto quarant’anni e poco meno dei quattro quinti (78,3%) ha superato la soglia dei trenta. A ciò si aggiunga che la carta d’identità comincia a far sentire i suoi effetti anche sui flussi più consolidati nel tempo come quelli provenienti dall’America Centrale (Repubblica Dominicana in particolare): questo, infatti, è il caso di donne arrivate a Massa Carrara in giovane età ma, tranne poche eccezioni, presenti sul territorio da circa un decennio. Dal punto di vista anagrafico, quindi, la conseguenza è analoga: l’80% di esse ha più di quarant’anni. 34 anche se lievemente superiore a quello medio nazionale. 27 Fig.5 – Le provenienze delle lavoratrici domestiche della provincia di Massa Carrara (31.12.2004) 6,3 2,1 3,5 0,5 8,6 11,6 67,4 Est Europa America centrale America Merid Africa centro-merid Asia Orientale altro Africa Nord Fonte: Ns. elaborazioni su dati INPS In generale oltre i due terzi delle lavoratrici domestiche straniere regolari provengono da un Paese dell’Europa Orientale, l’11,6% dall’America Centrale e l’8,6% dall’America Latina. Poco rappresentato, invece, il continente asiatico causa anche la poco rilevante presenza di filippine e srilankesi. La disponibilità dei dati ufficiali complessivi, relativi a ciascuna annualità, per il periodo 2001-2005 consente anche di fare qualche riflessione sulla tendenza nel tempo delle lavoratrici domestiche, evidenziando gli effetti locali della regolarizzazione del 2002. Tabella 9 – Incremento delle lavoratrici domestiche in provincia di Massa Carrara (2001-2005) 2001 2002 2003 2004 2005 100 108 89 100 94 Centro-America 100 649 706 661 643 Europa Est 308 323 304 295 Totale lavoratrici 100 Fonte: Ns. elaborazioni su dati INPS Dal 2001 al 2005 le addette del settore iscritte all’INPS sono quasi triplicate. L’incremento è particolarmente significativo per le lavoratrici provenienti dall’Europa Orientale che, nello spazio di cinque anni, sono aumentate di ben 6 e mezzo volte mentre, invece, restano sostanzialmente stabili quelle provenienti dall’America centrale. Evidente l’impatto della regolarizzazione: in due anni, dal 2001 al 2003, il totale delle lavoratrici domestiche straniere aumenta di quattro volte e quello delle addette dell’Europa dell’Est addirittura di sette. Nell’ultimo biennio preso in considerazione, però, 28 anche in provincia di Massa Carrara si realizza un calo abbastanza vistoso delle iscrizioni tanto da poter parlare, anche per questo territorio, di quel “fenomeno carsico” (Caritas/Migrantes, 258:2007) riconducibile alla tipica precarietà che caratterizza questo settore. 29 Cap. 2 Le lavoratrici di cura migranti nella provincia di Massa Carrara. L’indagine sul campo 2.1 Le lavoratrici di cura intervistate: anagrafe del campione Questa indagine si basa su 22 interviste approfondite a lavoratrici di cura straniere della Provincia di Massa Carrara. Per raccoglierle si è utilizzato un questionario semistrutturato, pensato allo scopo di ricostruire in modo articolato i percorsi di vita e le carriere professionali di queste migranti, approfondendo in chiave locale alcuni nodi critici evidenziati in letteratura e lasciando spazio e tempo alle lavoratrici di cura per esprimere una lettura “autobiografica” della situazione vissuta35. L’indagine, infatti, adopera un approccio longitudinale, teso a penetrare i vissuti e la trama di relazioni di queste persone, piuttosto che un approccio “fotografico”, diretto a produrre un’analisi quantitativa del fenomeno sul territorio. Oltre la metà del campione (13 interviste) è composto da lavoratrici di cura originarie dell’Europa Orientale, soprattutto della Romania. L’altro gruppo abbastanza omogeneo per provenienza geografica è quello dell’America Centro-Meridionale cui appartengono sei delle donne intervistate (3 dominicane, 2 ecuadoriane e 1 colombiana). Fig. 6 – Aree geografiche di provenienza del campione Africa; 2 Asia; 1 America centro meridionale; 6 Europa Orientale; 13 Fonte: Ns. Indagine Diretta 35 E’ questo il senso dell’ampio ricorso alle domande aperte nel questionario. 30 La distribuzione per aree geografiche del campione fa emergere i due principali flussi migratori di addette del settore di cura che, negli ultimi due decenni, hanno caratterizzato il territorio provinciale succedendosi nel tempo: diversamente da altre zone d’Italia, infatti, L’alta Toscana non ha mai attratto flussi consistenti dall’Asia e dall’Africa per quanto anche in questi continenti vi siano state, e in parte siano tuttora in corso, migrazioni quantitativamente rilevanti di donne poi inseritesi nel settore della collaborazione familiare. Viceversa, invece, in questa provincia il lavoro di cura e domestico svolto da immigrate è stato per lungo tempo (anni ’80 e ’90) monopolio quasi esclusivo delle donne dell’America Centro-Meridionale, soprattutto di dominicane ed ecuadoriane, cui a partire dal 2000 si sono prima affiancate e poi, almeno in parte sostituite, le migranti provenienti dall’Europa Orientale e, in modo particolare, dalla Romania. Tendenze che sono evidenziate anche dalla longevità migratoria delle intervistate: quelle arrivate da oltreoceano sono presenti a Massa Carrara, mediamente, da 8 anni e 8 mesi mentre le romene da poco più di 3 anni. Tranne un’eccezione, infatti, le lavoratrici di cura dell’America CentroMeridionale si sono stabilite nel territorio prima del 2001; tutte le romene, invece, sono arrivate dopo tale data. Tabella 10 – Periodo d’arrivo in Provincia di Massa Carrara 1990-95 1995-99 Romania America CentroMeridionale 2 Altre 1 Totale 3 Fonte: Ns. Indagine Diretta 1999-2001 2001-03 2003-05 2 5 2005-07 Media 5 3,1anni 1 6 1 8,8 anni 1 7 anni 7 5,4 anni 3 3 1 3 In oltre due terzi dei casi il percorso migratorio non ha conosciuto tappe intermedie: 15 delle 22 lavoratrici di cura intervistate, infatti, sono partite dal Paese d’origine arrivando direttamente a Massa Carrara, dove hanno trovato lavoro e si sono stabilite contando su una rete d’appoggio di parenti e amici connazionali che ha offerto loro supporto nel primo periodo. Questa caratteristica è particolarmente evidente per le romene (10 su 12 sono partite dalla Romania sapendo già con precisione dove andare): Mia sorella lavorava già qua e me l’ha trovato anche a me (il lavoro N.d.A), così anche lei poteva tornare a casa ogni tre mesi. All’inizio facevamo con il sistema dei visti per turismo: tre mesi io e tre lei, a rotazione. 31 Sono arrivata subito qua, a Massa Carrara, perché attraverso alcune amiche che già vivevano in questa zona, avevo saputo di un sacerdote che aiutava noi badanti a trovare lavoro36. Ma le c.d. “catene migratorie” sono state fondamentali anche per le altre lavoratrici di cura: Safia37, marocchina, ad esempio, è partita da Agadir con il chiaro intento di raggiungere il cognato, a Massa Carrara già da qualche anno. E’ un operaio nel settore del marmo. Ogni volta che tornava, ci parlava della possibilità di venire qua e del fatto che per una donna sarebbe stato più facile trovare lavoro. Così, dopo averne discusso con mio marito, ho deciso di raggiungerlo. I primi tempi ho vissuto con la sua famiglia. Meno lineare, invece, il percorso migratorio delle lavoratrici di cura dell’America CentroMeridionale che, nella metà, dei casi hanno avuto tappe intermedie prolungate. A ventidue anni ho lasciato Santo Domingo e sono andata in Spagna. Lì vivevo e lavoravo insieme a mia sorella. Ma poi un’amica è venuta a trovarci e ci ha suggerito di venire qua perché c’erano opportunità migliori. Così abbiamo fatto le valigie e siamo partite. Era il 1992. E chi, invece ha percorso tutto lo stivale: La prima città in cui ho abitato è stata Verona, nel 1998. Sono partita dalla Colombia sapendo che lì mi avrebbe aspettato un lavoro sicuro per qualche mese almeno. Finito quello ho girato mezzo nord-est: Vicenza, Pordenone e Udine soprattutto. Poi Napoli ... E ora eccomi qui. E’ evidente che quando la migrazione è di lungo periodo, come nel caso delle due esperienze riportate, i percorsi di vita e professionali sono sottoposti ad un numero maggiore di aggiustamenti e cambiamenti che non nel caso di esperienze migratorie ancora allo stadio iniziale. Questa tendenza generale, si acuisce particolarmente nel caso di coloro che sono impiegate nel lavoro di cura, una professione sottoposta ad un elevato turn-over anche dal lato dei datori di lavoro: può sempre accadere, infatti, che l’anziano accudito passi a miglior vita o che il bambino seguito raggiunga un’età tale da non aver più bisogno d’assistenza. Anche in provincia di Massa Carrara, comunque, il lavoro di cura è una professione svolta principalmente da donne straniere adulte: l’età media delle intervistate, infatti, è di 40 anni e la classe d’età nettamente prevalente è quella compresa fra i 31 e i 50 anni38. 36 Brani tratti dalle interviste a due lavoratrici di cura romene. Questo, come tutti i gli altri nomi che seguiranno, sono di pura fantasia, allo scopo di tutelare la privacy delle intervistate. 37 32 Tabella 10 – Ripartizione per classi d’età delle intervistate America centroEtà Romania meridionale Altre 20 - 30 0 0 31 - 40 8 0 41 - 50 3 5 oltre 51 1 1 media 38 47 Fonte: Ns. Indagine Diretta Totale 1 3 0 0 33 1 11 8 2 40 L’età media molto elevata delle lavoratrici d’oltreoceano è sintomo di un flusso particolarmente rilevante fino a tutti gli anni ’90 ma che ora pare essersi arrestato, come sembra indicare anche l’impatto contenuto che la regolarizzazione del 2002 ha avuto sulle collaboratrici domestiche centroamericane (vedi paragrafo 1.3). Diverso, invece, il discorso per le romene: altri studi di caso39, infatti, hanno evidenziato come per questo gruppo nazionale, ma più in generale per le migranti di tutti i Paesi dell’Europa Orientale, la scelta dell’emigrazione per inserirsi nel lavoro di cura avvenga frequentemente in età adulta se non addirittura matura. Ulteriori conferme, in tal senso, giungono se si guarda all’età al momento dell’emigrazione delle intervistate: più della metà di loro è partita quando aveva fra i 31 e i 40 anni. L’età media alla partenza delle romene è di 35 anni; addirittura più elevata quella delle lavoratrici di cura provenienti dall’America Centro-Meridionale (36 anni e mezzo) ma in quest’ultimo caso il numero d’interviste è troppo limitato per trarne qualunque tipo di generalizzazione. Tabella 11 – L’età delle intervistate al momento dell’emigrazione Età Romania > 18 20 - 30 2 31 - 40 8 41 - 50 2 < 51 media 35,3 Fonte: Ns. Indagine Diretta America CentroMeridionale 1 4 1 36,5 Altre 1 2 1 24 totale 1 5 13 3 0 33,5 La quasi totalità delle intervistate ha figli, ma solo la metà di esse è coniugata, poco più un terzo è riuscita a ricongiungersi con qualcuno dei propri familiari e meno di un quinto vive in Italia con la propria famiglia. In generale, comunque, la condizione di “madre a distanza” sembra essere molto comune anche fra lavoratrici di cura straniere della Provincia di Massa Carrara: la situazione è 38 L’indagine campionaria dell’IRS (settembre 2006) sul lavoro di cura in Lombardia aveva calcolato un’età media di 41 anni. Quaranta, invece, l’età media risultante dall’indagine nazionale dell’IREF (giugno 2007). 39 In particolare Cespi, febbraio 2007. 33 particolarmente pesante per le romene, in maggioranza alle prese con figli in età adolescenziale40, mentre pare essere più gestibile per le donne originarie dell’America Centro-Meridionale visto che nella quasi totalità dei casi i figli sono persone ormai adulte con una vita autonoma41. Le celibi sono pochissime mentre, anche nel campione intervistato, è molto alto il numero delle separate/divorziate, quasi tutte con figli a carico. Capita con una certa frequenza, infatti, che sia proprio la rottura della relazione matrimoniale, e l’accresciuto carico di responsabilità nei confronti dei figli, a spingere molte donne ad emigrare. Ho fatto solo la quinta elementare e, fino a prima che mio marito mi abbandonasse, avevo sempre fatto la casalinga. Così quando mi sono ritrovata da sola ho fatto l’unico lavoro che conoscevo, ma in casa di altri. Prima in Colombia e poi lontano da casa, perché con i soldi che guadagnavo mantenere tre bambini proprio non era possibile. Mio marito se n’è andato con un’altra e mi ha lasciata sola con tre figli da mantenere visto che da un giorno all’altro non si è praticamente più fatto sentire. Che cosa potevo fare in Romania con il mio stipendio da cinquanta euro al mese? Nel caso del nostro campione, invece, sembra valere meno l’assunto secondo cui sarebbe proprio il protrarsi della migrazione e la distanza dal marito (oppure le difficoltà dovute al fatto che la coppia si riunisce in un contesto sociale e culturale completamente nuovo) ad incentivare la rottura della relazione. Quanto meno fra le 22 intervistate non è emerso alcun caso del genere. 40 41 L’età media è di 16 anni e mezzo e la classe d’età prevalente è quella compresa fra gli 11 e i 15 anni. In questo caso l’età media è di 26 anni e mezzo e la classe d’età prevalente è quella compresa fra i 26 e i 30 anni. 34 Fig. 7 – Ripartizione per stato civile e area di provenienza delle lavoratrici di cura intervistate 14 12 12 10 10 8 6 7 5 5 3 4 3 2 2 2 2 1 1 1 0 Romania coniugata America CentroMeridionale separata/divorziata altre separata/divorziata con figli totale celibe Fonte: Ns. Indagine Diretta Il livello d’istruzione delle intervistate è distribuito in modo abbastanza equo su tutti i diversi gradi scolastici: circa un terzo è diplomata e altrettante sono quelle che hanno assolto l’obbligo scolastico nel loro Paese; un quarto, invece, coloro che hanno frequentato cicli biennali di avviamento professionale, mentre una persona è laureata. Due, infine, i casi in cui l’intervistata ha detto di avere smesso di andare scuola ancora prima dell’assolvimento del ciclo obbligatorio. A prescindere dal livello d’istruzione raggiunto, però, non può essere taciuto il fatto che la maggior parte delle lavoratrici di cura oggetto di questa indagine (oltre i quattro quinti) ha fatto studi che hanno poco a che fare con la professione attualmente svolta. Simile riflessione riguarda anche i percorsi professionali sviluppati prima dell’emigrazione: sarta, operaia, estetista, macellaia, pasticcera, cameriera, commessa, barista e casalinga. Il ventaglio è ampio, ma solo in meno di un quarto dei casi si riscontrano esperienze pregresse in qualche modo collegate al lavoro di cura: in particolare tre persone svolgevano la stessa professione anche in patria, una invece è stata per lungo tempo infermiera nella sala operatoria dell’ospedale e un’altra ha svolto attività di assistenza in una casa di riposo per anziani. Infine in ordine alla legalità della presenza anche il nostro piccolo campione sembra mostrare una marcata tendenza alla regolarizzazione (sono regolarmente soggiornanti 19 delle 22 intervistate); ma anche in questo caso meglio non trarre affrettate generalizzazioni: il numero d’interviste è limitato e coloro che vivono in una situazione d’irregolarità tendono a nascondersi finendo con l’essere ancora più “sommerse” di quanto non lo sia il lavoro di cura in sé. E’ presumibile, quindi, che la quota d’irregolarmente presenti sia più elevata ma che poche di esse siano finite nel campione proprio per i timori che queste donne collegano alla visibilità. 35 2.2 I progetti migratori: tra bisogno e pianificazione Le migrazioni delle lavoratrici di cura possono essere considerate alla stregua di una specificazione di quelle spinte da motivazioni economiche: quasi sempre, infatti, per queste donne l’emigrazione è una strategia pianificata in risposta ai bisogni e alla povertà vissute in famiglia. Al riguardo le ricerche dedicate al fenomeno42 giungono a conclusioni pressoché unanimi e lo studio qualitativo che abbiamo condotto sulle lavoratrici di cura straniere della Provincia di Massa Carrara le conferma in toto: ben 19 delle 22 intervistate, infatti, hanno indicato in una situazione di particolare disagio socio-economico la molla principale che ha dato origine alla loro personale emigrazione. Nello specifico si emigra soprattutto per assicurare sostegno economico a sé stesse e alla propria famiglia, in particolare ai figli: pagamento delle utenze domestiche piuttosto che acquisto di generi alimentari e vestiti sono le necessità più frequenti cui si riesce a sopperire solo grazie alle flusso di rimesse garantito dalle lavoratrici di cura impiegate all’estero. La situazione nel mio Paese non era facile: ero una maestra ma lo stipendio era una miseria e poi, spesso, lo Stato si dimenticava anche di pagarcelo. In India vivevo davvero male … Ero arrivata al punto di odiare quel tipo di vita, quella miseria. Volevo … non lo so … Volevo guadagnare, essere autonoma, avere la libertà di comprarmi un vestito. Cose così. C’era bisogno di soldi perché da noi gli stipendi sono davvero bassi e con quello che ti danno non puoi fare niente. Qua c’era un’amica e io l’ho raggiunta. Come mai sono partita? Semplice, sia io che mio marito avevamo bisogno di un lavoro: per molto tempo abbiamo lavorato nella stessa fabbrica, un mobilificio. Ma poi ha chiuso e noi per sette anni siamo stati disoccupati. Mio marito guadagnava pochissimo e io non lavoravo. Non potevamo continuare in quel modo. Purtroppo non c’era altra soluzione: sono dovuta partire. I figli sono il primo pensiero delle lavoratrici di cura straniere intervistate: aiutarli economicamente nell’imminenza di un evento della vita importante (ad esempio un matrimonio), sostenerli nei loro percorsi di autonomia lavorativa in patria ma soprattutto consentirgli di proseguire gli studi. Lavoravo in un albergo ma è fallito e mi sono ritrovata disoccupata. Mio figlio doveva sposarsi e io non sapevo come aiutarlo. Così ho preso la decisione di lasciare la mia terra. 42 In particolare quelli promossi dal Cespi nell’ambito del Programma “MigrAction” 36 Ero sola, non avevamo soldi e io volevo ad ogni costo far studiare le mie bambine. Ho chiesto a mia sorella di aiutarmi a trovare un lavoro e sono partita. A casa guadagnavo poco poco: cinque anni fa il mio stipendio era di cinquanta euro al mese. Sono venuta in Italia soprattutto per i miei figli, per permettergli di completare gli studi. A volte non si tratta di necessità vitali, o comunque, d’importanza centrale per la crescita di una persona; inizialmente si può scegliere la professione di lavoratrice di cura in Italia anche per togliersi uno “sfizio”. O meglio per toglierlo ai figli che, in ogni caso, restano l’elemento centrale attorno a cui ruota gran parte della vita e della quotidiana di queste “madri a distanza”. Ero venuta a trovare mia sorella, che lavorava già in Italia, perché aveva partorito. Una volta qua ho deciso di lavorare per tre o quattro mesi … perché volevo comprare un computer a mia figlia. Altre volte il progetto migratorio è orientato ad un obiettivo specifico: quasi mai, però, si tratta d’investimenti produttivi. Nessuna delle donne intervistate, ad esempio, ha detto che la scelta dell’emigrazione è funzionale al reperimento di risorse per la promozione di un’attività economica in patria. Capita con maggiore frequenza, invece, che l’obiettivo sia la costruzione di una casa. Sono partita perché voglio guadagnare i soldi che mi servono per finire di sistemare la casa che ho acquistato in Romania per me e per i miei figli. Ho dovuto farlo perché la cessione dell’abitazione in cui stavo prima non è bastata a raggiungere la cifra di cui ho bisogno. Con i soldi guadagnati facendo questo lavoro mi sono comprata una casa al mare, a Santo Domingo. Prima di morire voglio godermi un po’ la vita e lo farò lì. Alle motivazioni strettamente economiche, qualche volta se ne sovrappongono altre, di natura più personale. C’è anche chi, probabilmente perché giovane, è partita soprattutto per migliorare le condizioni economiche della famiglia, ma un po’ anche per conoscere “nuovi mondi” e culture. Chi, invece, se ne va, spinta dal bisogno di ottenere una maggiore autonomia, economica e relazionale, da un marito possessivo e “ingombrante”. Sono venuta in Italia per colpa di mio marito: avevo bisogno di allontanarmi un po’ da lui perché era troppo stressante. Me ne sono andata insieme a mia figlia. L’avevo immaginata come una pausa, inizialmente in realtà volevo 37 tornare con lui, ma stando da sola mi sono resa conto che non era più possibile. Comunque, qualunque sia la causa specifica da cui si è originato il progetto migratorio, la scelta delle donne che partono per dedicarsi al lavoro di cura evidenzia quasi sempre una pianificazione abbastanza elevata: diversamente dalle migrazioni originate da catastrofi (naturali o prodotte dall’uomo che siano), infatti, le migrazioni di tipo economico, quale quelle del tipo delle lavoratrici di cura, non hanno i connotati caratteristici della fuga da situazioni di disastro e oppressione. Si parte quasi sempre per andare in luogo preciso, dove si hanno già dei contatti, possibilità di prima accoglienza (magari da un parente o da un’amica) e si conosce anche il tipo di occupazione offerto dal mercato del lavoro del contesto d’arrivo. Fig. 8 – Il “contatto” delle intervistate nel luogo d’arrivo conoscente; 5 fratello; 1 sorella; 8 amica; 6 altro parente; 2 Fonte: Ns. Indagine Diretta Quasi la metà delle addette al lavoro di cura intervistate è arrivata nella provincia dell’alta Toscana tramite qualche parente (frequentemente una sorella); la parte restante attraverso la rete delle amiche e dei/delle conoscenti. Solo in un caso l’immigrata è arrivata senza avere alcun riferimento in loco43. Le migrazioni di questo genere di lavoratrici, dunque, sono la conseguenza di “catene migratorie” che hanno la peculiarità di essere declinate quasi esclusivamente al femminile. Nei tre quarti dei casi, infatti, il “facilitatore” della migrazione è una donna anche fra le “nostre” intervistate: frequentemente una sorella o una cugina, ma anche un’amica o una semplice conoscente. In ogni caso è questa persona, spesso inserita nello stesso settore occupazionale, che prepara l’arrivo, 43 ma è una situazione “particolare” che nulla ha a che vedere con il lavoro di cura visto che si tratta del rapimento di una giovane ragazza destinata al “mercato” del sesso. 38 facendosi carico d’individuare una prima, provvisoria, sistemazione abitativa e di trovare un lavoro alla nuova venuta. L’impegno di cui essa si fa carico è dipendente dall’intensità del legame: ovviamente sarà maggiore quando la prima accoglienza è a carico di sorelle o parenti stretti e più leggero nel caso di semplici conoscenti. Dovevo ricostruire la casa e mi servivano molti soldi. Mia cognata mia ha detto che qua c’erano buone opportunità di lavoro. Lei era disponibile ad aiutarmi … Così, eccomi qui. Fig.9 – I “contatti” delle intervistate: ripartizione per genere non specificato; 3 Uomo; 2 Donna; 17 Fonte: Ns. Indagine Diretta La presenza di robuste “catene migratorie” lascerebbe supporre una conoscenza abbastanza approfondita, anche prima della partenza, dell’Italia e dello specifico contesto territoriale in cui si andrà a vivere. In realtà le risposte delle intervistate tracciano al riguardo un quadro con diverse ambiguità e apparentemente in contraddizione con un’emigrazione che, come abbiamo visto, risulta fortemente pianificata: infatti circa un terzo di esse sostiene che, quando era in patria, non sapeva praticamente niente dell’Italia; più o meno altrettante, invece, avevano avuto qualche informazione soltanto dalla televisione nonostante la presenza in loco di parenti ed amici. 39 Fig.10 –La conoscenza dell’Italia e della Provincia di Massa Carrara prima della partenza 10 10 9 8 8 7 7 6 6 5 5 4 3 Nulla mediata dalla tv 3 3 2 3 mediata da parenti ed amici 1 1 0 Romania America CentroMeridionale totale Fonte: Ns. Indagine Diretta In particolare la tv è stata il principale strumento d’informazione sull’Italia delle romene: evidente in questo caso l’influenza della vicinanza geografica e, in una certa misura, anche culturale fra il Paese di partenza e quello di arrivo. La sensazione che emerge dai colloqui con le lavoratrici di cura intervistate, comunque, è di una conoscenza superficiale, mai veramente approfondita, eccezion fatta, forse, per le opportunità occupazionali offerte dal contesto d’accoglienza, cosa peraltro assolutamente comprensibile visto che si tratta del principale movente che le ha spinte all’emigrazione. Dell’Italia conoscevo un po’ Roma, Venezia … le città più importanti insomma. Ma solo per averle viste in tv. Di Massa Carrara, invece, non sapevo praticamente niente: solo che c’era un’amica che lavorava qui. Mi diceva che si trovava bene e che, volendo, sarei potuta venire anch’io … Che lavoro ce n’era. Sapevo davvero poco: solo quello che ci mostrava la tv e poi i racconti di qualche amica che era venuta qua e diceva di aver fatto fortuna. Sentendo loro, mi sono convinta e ho deciso di partire anch’io. Conoscevo l’Italia, e Aulla in particolare, dai racconti di mia cugina, che lavorava qua. Ma anche lei era arrivata da poco, sicché non è che sapesse tanto. E poi le non era molto chiara … non si capiva bene insomma, a parte che si poteva lavorare. E poi conoscevo il Giro d’Italia perché in Spagna ho lavorato in un negozio di biciclette e gli appassionati di ciclismo ne parlavano spesso. 40 Un po’ com’erano fatte Roma e le altre grandi città … da quello che ci mostrava la televisione. Ma sapevo poco. A Carrara ci viveva mia sorella, lei ogni tanto me ne parlava. Ma parlavamo soprattutto delle possibilità di lavoro. L’iniziale superficiale conoscenza sembra condizionare anche l’opinione sul grado di soddisfazione dell’esperienza migratoria vissuta rispetto alle attese: il giudizio, infatti, ruota prevalentemente attorno all’esperienza lavorativa e alla sua capacità di dare risposta alle aspettative personali e/o familiari. Le parole più ricorrenti, ovviamente, sono “guadagno” e “guadagnare”. Sono contenta dell’Italia … sì. Volevo un lavoro retribuito meglio di quello che avevo in Ecuador e l’ho trovato. E’ vero, ogni tanto capita di perderlo, ma si fa anche in fretta a trovarne un nuovo. Non sono contenta, no. Ero venuta per guadagnare qualche soldo, ma ne ho guadagnati pochi … L’affitto è alto e le spese sono tante. Le mie aspettative? Tutte soddisfatte. Sono venuta per lavorare e guadagnare e qua riesco a risparmiare molto di più di quanto potessi fare in Romania. Poi vivo a Carrara, una città piccina e tranquilla. Proprio giusta per me. Quando uno emigra pensa sempre che il Paese dove va sia meglio del suo. Comunque in Italia non si sta male e si guadagna ancora abbastanza bene, benchè prima, con la lira, le cose andavano meglio. Sono il lavoro e la retribuzione, come detto, a catalizzare l’attenzione delle lavoratrici di cura straniere sia quando il giudizio è positivo che, invece, quando è meno benevolo nei confronti del nostro Paese e, nello specifico, del territorio di Massa Carrara. Ma le loro riflessioni spaziano anche su altri aspetti: alcune sono dimensioni centrali nella vita dei migranti tanto quanto l’occupazione, come ad esempio, la chiusura culturale nei confronti della diversità riscontrata da un’intervistata, mentre altri sono, invece, aspetti “accessori”, ma che evidentemente hanno attratto la loro attenzione. Di seguito se ne propone una breve rassegna. Pensavo che l’Italia fosse più aperta e accogliente. Abbiamo passato momenti veramente difficili: trovare un lavoro è stata un’impresa e ancor più difficile è stato mettersi in regola con i documenti. Comunque, da quando la Romania è entrata nell’Unione Europea, mi sembra che le cose vadano un po’ meglio. Sinceramente pensavo che l’Italia fosse peggiore. Soprattutto che gli uomini fossero peggiori: li immaginavo più duri, “rozzi”. Invece, almeno nei miei confronti, sono stati tutti molto gentili. 41 Appena arrivata, una signora mi disse che in meno di un anno potevo guadagnare una cifra sufficiente ad acquistare una casa … Era facile secondo lei. Poi ho capito … ma nel mio Paese non si vedono così tante donne sulla strada. Questa cosa qui, dell’Italia, è proprio brutta. Pensavo che fosse tutto bello, tutto pulito … che le strade fossero tutte pulite. E invece non è così, ad Aulla proprio no. Negli altri posto non lo so, perché non sono mai uscita da Aulla. Mi piace Carrara soprattutto, più di Caltanisetta. Mi avevano detto che Carrara era vicino alle montagne e Caltanisetta in Sicilia … che è un’isola, no? Allora sono andata a Caltanisetta perché volevo stare vicino al mare … e invece sono finita in mezzo ai boschi (ride). Invece a Carrara, dove dovevano esserci le montagne, ho trovato il mare. Il mare mi piace proprio tanto, mi rilassa. Fig.11 – Capacità dell’esperienza migratoria di soddisfare le aspettative delle intervistate nessuna aspettativa; 2 Insoddisfatta; 3 Abbastanza insoddisfatta; 4 Soddisfatta; 6 Abbastanza soddisfatta; 7 Fonte: Ns. Indagine Diretta In generale l’esperienza migratoria in Italia e a Massa Carrara, rispetto alle attese, è giudicata “soddisfacente” e “abbastanza soddisfacente” da oltre la metà delle intervistate; circa un terzo, invece, coloro che la reputano “insoddisfacente” o “abbastanza insoddisfacente”. Almeno in riferimento al nostro campione, l’anzianità dell’emigrazione non sembra essere un criterio capace di spiegare il grado di soddisfazione/insoddisfazione delle intervistate: in via generale, infatti, è senz’altro vero che la capacità della maggior parte delle esperienze migratorie di rispondere positivamente alle attese personali e familiari proiettate su di esse aumenta con il trascorrere del tempo, con lo stabilizzarsi della presenza e l’approfondirsi della conoscenza del territorio e delle sue risorse. Nel caso delle lavoratrici di cura straniere prese in considerazione dalla presente analisi, 42 però, non è così: i due terzi di coloro che sono arrivate dopo il 2003, infatti, trova almeno “abbastanza soddisfacente” il proprio percorso migratorio (in rapporto alle aspettative della vigilia), contro la metà di quelle arrivate prima di tale anno. Fig. 12 – Grado di soddisfazione dell’esperienza migratoria: confronto fra “vecchie” e “nuove” lavoratrici di cura (campione delle intervistate) 2003-07 1990-2003 nessuna aspettativa; 2 Insoddisfatta; 1 Soddisfatta; 3 Insoddisfatta; 2 Abbastanza insoddisfatta; 3 Abbastanza insoddisfatta; 1 Soddisfatta; 3 Abbastanza soddisfatta; 2 Abbastanza soddisfatta; 5 Fonte: Ns. Indagine Diretta Un elemento decisivo per comprendere la natura del progetto migratorio è la durata che ad esso viene attribuita dai protagonisti, a prescindere dalla coincidenza fra previsioni e realtà (che invero capita ben di rado). In particolare è importante capire se ci si trova di fronte ad un’emigrazione che, quanto meno nelle intenzioni, ha un carattere permanente o di lungo periodo o se, invece, ne ha uno transitorio. Le ricerche e la letteratura in materia (M.Ambrosini, 2004; IREF, 2007) concordano nell’attribuire a quella della lavoratrici di cura un carattere prevalentemente transitorio, una tendenza che si ritrova anche nelle intenzioni delle intervistate: la metà di esse, infatti, esprime la volontà di tornare un giorno nel Paese d’origine. Coerentemente con quanto evidenziato dal Cespi44, anche nel nostro campione sono soprattutto le addette del settore romene ad esprimere in modo più marcato il desiderio di tornare a vivere nel Paese d’origine, dove spesso hanno i figli e un marito che le attende, e a pianificare con maggiore accuratezza il ritorno: circa i due terzi di coloro che si sono espresse in tal senso, infatti, proviene dallo Stato balcanico. 44 “Le donne rumene, in particolare, ambiscono a lavorare in Italia per pochi mesi, un paio d’anni al massimo” (E.Castagnone/R.Petrillo, 19:2007). 43 Sembrerebbe confermata anche la correlazione evidenziata dall’IREF (18:2007) fra il desiderio di tornare a vivere nel proprio Paese e il fatto che là sia rimasta una parte importante della propria famiglia (quando non tutta) se è vero che oltre i quattro quinti delle “favorevoli” al ritorno ha lasciato in patria i figli o il marito (o entrambi). Tabella 13 – L’intenzione delle intervistate: ritornare o restare America Centro Romania Meridionale Altro Totale 7 2 2 11 Rientra a casa 5 2 1 8 Resta In Italia 0 2 1 3 Non sa Fonte: Ns. Indagine Diretta Una lettura qualitativa più approfondita delle risposte, però, induce ad operare una distinzione: da un lato vi sono coloro per le quali il ritorno rappresenta un’ipotesi concreta, già abbastanza pianificata; No, non penso proprio di rimanere in Italia. Sono in attesa dell’affidamento del figlio che ho avuto qua con un italiano. Appena ce l’ho, ritorno a casa. Al massimo resto ancora un paio d’anni, per guadagnare qualcos’altro ancora. Sicuramente non di più. Ho 52 anni ed ho fatto i miei conti: fino a 60 anni resto in Italia, perché almeno fino a quell’età voglio lavorare. Poi torno. Rimarrò altri due o tre anni ancora, il tempo necessario per guadagnare i soldi che mi servono per finire i lavori alla casa. Poi devo tornare perché il posto di una mamma è accanto ai suoi figli. dall’altro, invece, vi sono coloro per i quali il ritorno non va oltre il vago auspicio, rappresentando più una sorta di cordone ombelicale che non si vuole recidere che non un’ipotesi realistica. Non so ancora quando, ma sicuramente un giorno tornerò nella mia terra dominicana … Mi viene la voglia soprattutto ogni volta che sento Bossi parlare in televisione. E penso anche che quel giorno non è poi tanto lontano. Qui ho un lavoro, è vero, ma la vita non è semplice … e soprattutto costa molto. Penso proprio che un giorno tornerò a casa, ma è ancora troppo presto per stabilire quando. Non so quando tornerò nel mio Paese, ma so che ci tornerò un giorno … Forse quando avrò sessant’anni. (La ragazza ha 22 anni N.d.A) 44 L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla volontà di effettuare il ricongiungimento familiare: si tratta, infatti di un indicatore significativo della volontà di stabilirsi permanentemente, o per un lungo periodo, nel Paese c.d. “d’accoglienza”. Tale eventualità, però, sembra interessare solo la metà del campione45: com’è facilmente intuibile nella maggior parte dei casi il ricongiungimento ha riguardato, o si vorrebbe riguardasse, i figli e il marito, ma anche il desiderio di riunirsi ai genitori, frequentemente anziani (data l’età media elevata delle lavoratrici di cura straniere) e con qualche problema di salute, è percepito con una certa insistenza. Mia mamma ha seri problemi al cuore … E papà è stato operato alla testa: sono preoccupata perché so che non stanno bene. Mi piacerebbe farli venire qua per potergli essere vicina ed assisterli. Vorrei portare qui anche mia mamma … E’ stata operata per un calcolo renale: fino a poco tempo la curava mia cognata, ma ora lei è andata via … Chi se ne occupa? Certo, c’è sempre mio fratello , ma non è la stessa cosa … Capisci ? Fig. 13 – Con chi ti sei già, o vorresti, fare il ricongiungimento familiare? 7 7 6 6 5 4 3 2 2 1 1 0 marito figli genitori fratelli/sorelle Fonte: Ns. Indagine Diretta L’altra metà delle intervistate, invece, non sembra essere eccessivamente attratta dal ricongiungimento familiare. I motivi di questo scarso appeal vanno ricondotti ancora una volta ai figli, il principale polo d’interesse e d’attenzione delle intervistate: il fatto è che, come abbiamo visto, la scelta d’emigrare solitamente matura ad una età significativamente adulta, con i figli ormai già grandi e inseriti in un contesto di vita, impegni (molti studiano e qualcuno lavora) e legami 45 Dato in linea con i propositi di rientro della maggioranza dell’intervistate. 45 affettivi (spesso sono già sposati e qualche volta hanno anche dei figli) strutturati che, di fatto, rendono semplicemente non praticabile la scelta di seguire la mamma. Certo che vorrei farli venire a vivere con me … Gliel’ho proposto tante volte, ma non vogliono. E li capisco, sono grandi ed hanno la loro vita: uno sta per sposarsi e l’altro ha il suo lavoro, fa il barrista, e non vuole assolutamente lasciare la Romania. Devo accettarlo. Senti, ho tre figli: il più grande è un ufficiale dell’esercito, la ragazza fa l’università e il più piccolo l’ultimo anno del liceo. Come faccio a dirgli di lasciare tutto e venire in Italia? Sinceramente anch’io sono più contenta se riescono a costruirsi una vita loro a casa. Quando, invece, i figli sono più piccoli il ricongiungimento diviene un’ipotesi praticabile, ma non sempre dà i risultati attesi. L’anno scorso abbiamo provato a far venire la bambina piccola. E’ stata qua tutta l’estate e a settembre si sarebbe dovuta iscrivere a scuola, qui in Italia voglio dire. Ma lei non ha voluto: chiaramente non parlava bene l’italiano e gli altri ragazzini del vicinato, inclusi alcuni figli di romeni, la prendevano continuamente in giro. E’ stata lei a supplicarci di riportarla in Romania, dai suoi amichetti di sempre. E’ stata una scelta sofferta, ma alla fine penso che sia stata giusta: penso che l’ambiente di casa farà meglio alla sua crescita. In questo caso entrano in ballo anche di ordine educativo: alcuni genitori, infatti, considerano preferibile far crescere i figli nel proprio contesto vita, anche se lontano dal nucleo familiare, piuttosto che il contrario. 2.3 Il mercato occupazionale: il punto di vista delle lavoratrici di cura Il primo gradino che anche le lavoratrici di cura straniere devono salire nel loro percorso d’inserimento nel mercato occupazionale italiano è, inevitabilmente, il contratto di lavoro: si tratta, infatti, di uno strumento fondamentale per raggiungere un elementare livello di tutele lavorative e sociali, fondamentale per qualunque progetto migratorio a prescindere dai diversi obiettivi che ciascuno di essi si propone. Un gradino che, di anno in anno, è divenuto sempre meno inaccessibile alle lavoratrici di cura straniere anche in un segmento del mercato del lavoro caratterizzato da un ampio ricorso al “sommerso”. Massa Carrara, in tal senso, sembra allinearsi alla tendenza nazionale: solo un quinto delle intervistate, infatti, ha una posizione lavorativa completamente irregolare. Il contratto di lavoro? No, non ce l’ho. Lavoravo per una famiglia pensando di essere in regola. L’estate scorsa sono andata a casa a visitare i miei familiari e, quando sono tornata ho scoperto che la signora non aveva pagato 46 i contributi … Così non sono più regolare. Mi hanno fatto la richiesta di espulsione ma una mia amica mi ha detto di non preoccuparmi, anche se rimango non mi fanno niente. Così sono rimasta. Data la limitatezza del campione, in via di principio non si può escludere che la quota di posizioni lavorative irregolari sia in realtà più elevata di quella dedotta dal campione, ma sia rimasta in larga misura nascosta anche alla presente indagine in considerazione dei rischi (reali e percepiti) associati a tale condizione. E’ più probabile, però, che anche la provincia dell’alta Toscana sia caratterizzata da quelle forme sempre più diffuse di “nero parziale” di cui si è parlato anche nel primo capitolo: infatti l’orario settimanale medio delle intervistate che hanno un contratto di lavoro è precisamente di 25 ore settimanali, ossia la soglia minima contributiva più vantaggiosa per il datore di lavoro, ma anche per la lavoratrice straniera, che talvolta preferisce questo tipo d’inquadramento contrattuale a patto che sia integrato da un adeguato “fuori busta” a copertura della parte restante dell’orario lavorativo effettivamente svolto. La “verità” del contratto, però, raramente coincide con la realtà vissuta dalle lavoratrici: Il mio contratto è solo per una signora non autosufficiente, però da due anni devo accudire anche suo suocero, pure lui non autosufficiente. Quindi di fatto seguo due persone. Per forza lavoro tanto: anche 11 o 12 ore al giorno. Lavoro per due famiglie diverse: la mattina sto da una e il pomeriggio, verso le quattro e mezzo, vado dall’altra. Ma ho un solo contratto di lavoro. Inevitabilmente, quindi, lavoro di più rispetto all’orario previsto. Più o meno sessanta ore a settimana. Soltanto una delle intervistate ha detto che, più o meno, l’orario contrattuale corrisponde a quello effettivamente volto. Tutte le altre “contrattualizzate”, invece, dichiarano di lavorare di più. Per capire “quanto” di più abbiamo confrontato il monte orario contrattuale con quello effettivamente svolto negli otto casi in cui è stato possibile quantificarlo. Tabella 14 – Confronto fra monte ore contrattuale e monte ore effettivo Intervistata 1 Intervistata 2 Intervistata 3 Intervistata 4 Intervistata 5 Intervistata 6 Intervistata 7 Intervistata 8 Media Monte ore contrattuale 25 20 25 25 25 25 25 25 24,4 Monte ore effettivo 10 30 77 50 60 50 50 50 47,1 Fonte: Ns. Indagine Diretta 47 Per quanto relativo ad un numero molto limitato di persone, la tabella 14 sembra delineare una tendenza a forme piuttosto acute di “nero parziale”: le otto lavoratrici di cura, infatti, lavorano il doppio delle ore effettivamente dichiarate dal contratto. Un fenomeno preoccupante, frequentemente accettato quasi supinamente dalla lavoratrici stesse, probabilmente perché poco informate in ordine ai loro diritti in materia di lavoro, in posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro e, forse, qualche volta anche tacitamente d’accordo. Ho un contratto da venticinque ore alla settimana, ma faccio assistenza ventiquattro ore su ventiquattro … Lavoro giorno e notte. Ma il contratto è fatto in quel modo lì per pagare meno tasse. La retribuzione mensile media dichiarata dal campione è di 788 euro, ma la “forchetta” è molto ampia: la punta più alta, almeno stando alle dichiarazioni della diretta interessata, è di 1.700 euro; la più bassa, invece, si ferma a quattrocento. Oltre i tre quarti delle lavoratrici intervistate guadagna meno di 900 euro al mese e quasi la metà si colloca nella fascia compresa fra i 700 e i 900 euro. Fig. 14 – Ripartizione del campione per classi di reddito mensile 10 10 9 8 7 6 5 5 4 3 2 3 2 1 1 1 0 >500 501-700 701-900 901-1100 1101-1500 <1500 Fonte: Ns. Indagine Diretta Nel dettaglio, le romene intervistate guadagnano in media duecento euro in più al mese rispetto alle colleghe provenienti dall’America Centro-Meridionale, benché quest’ultime lavorino mediamente undici ore in più alla settimana e nonostante il loro sia il flusso più recente. L’analisi dei compiti professionali quotidianamente svolti dalle addette del settore rivela in modo abbastanza chiaro quanto la distinzione fra cura delle persone, collaborazione domestica e gestione 48 della casa 46 , in pratica, riveli una scarsa capacità esplicativa: nell’esperienza quotidiana delle intervistate, infatti, i diversi ruoli si alternano e si sovrappongono senza soluzione di continuità nello spazio di una stessa giornata lavorativa pur rimanendo in capo alla stessa persona. “Guardo”47 una donna anziana di ottant’anni e poi faccio tutto: pulizie, lavatrice, giardino … accudisco anche il cane. E poi aiuto la signora nelle mansioni quotidiane; volendo saprei fare anche le punture … La signora ha il Parkinson, quindi la devo pulire, l’aiuto a camminare, a cambiarsi, gli faccio la doccia, cucino e faccio tutti gli altri lavori di casa. La mattina andavo in camera della signora, l’aiutavo a lavarsi, le facevo colazione, la massaggiavo, le cambiavo il pannolino, le davo le medicine … Poi mi spostavo in cucina … Faccio tutte le cose che fanno le persone che accudiscono gli anziani. Cucino, lavo, stiro, curo l’orto, faccio punture, cambio il pannolone, a volte taglio anche i capelli … La fatica è tanta, soprattutto quando devo alzare la signora dal letto: è pesante e da sola proprio non ce la faccio. Così, per fare questa cosa, aspetto sempre che arrivi il fisioterapista … Tanto viene tutte le mattine. Pulisco casa, faccio da mangiare, cambio l’anziana, la giro nel letto perchè c’ha le piaghe e da sola non ce la fa, le do le creme … Faccio la badante insomma (ride). Assistevo un anziano non autosufficiente: lo lavavo, facevo le pulizie in casa e lo assistevo in tutto, gli facevo anche le punture … Vedi? Ho la cervicale, mi è venuta ad alzarlo tutte le mattine, perché era molto pesante … Dalle testimonianze delle intervistate emerge come alle lavoratrici di cura straniere siano delegate in misura crescente anche funzioni di carattere parasanitario o di assistenza sanitaria primaria: sono loro, infatti, che fanno le punture, somministrano i farmaci e supportano le capacità di deambulazione di persone affette anche da patologie gravi. Tutte funzioni apprese “sul campo”, magari guardando o facendosi insegnare da qualche collega più competente, senza però avere una preparazione professionale adeguata alla gravità delle patologie che affliggono molti degli accuditi. Ricapitolando, i carichi di lavoro sono intensi e faticosi, sia dal punto di vista fisico che mentale, e gli orari decisamente lunghi (fra le otto e le dieci ore giornaliere) mentre la retribuzione è modesta: raramente supera i novecento euro. A ciò si aggiunga che, nella quasi totalità dei casi (19 su 22) si 46 Vedi IREF (27,28:2007) Anche il lavoro di cura ha un suo gergo professionale: il verbo “guardare”, infatti, nel linguaggio di queste lavoratrici è strettamente collegato alle funzioni di cura della persona e sta ad indicare i compiti strettamente controllo della persona accudita. 47 49 tratta di occupazioni in “monocommittenza”, e, come vedremo, in coresidenza: il fatto di lavorare per un solo datore di lavoro riduce ulteriormente gli spazi d’autonomia, professionale e personale, della lavoratrice di cura, soprattutto se l’ambito privato si sovrappone a quello professionale come accade nei casi di convivenza con la persona accudita. Nonostante tutto, i due terzi delle intervistate vuole crescere professionalmente in questo settore, magari lavorando a condizioni diverse dalle attuali, piuttosto che spostarsi in un altro: in particolare il superamento dell’assistenza continuativa c.d. “24 ore su 24” e il passaggio alla multicommittenza sono fra gli obiettivi professionali più ambiti. Mi piace questo lavoro e non credo che lo cambierei. Però vorrei tanto smettere di lavorare “24 ore su 24”, vorrei lavorare a ore e a turni … Non voglio cambiare lavoro, ma vorrei che mi facesse meno male: ho un problema congenito alla schiena e ho rischiato di rimanere bloccata. E poi lavoro tanto ma non vengo valorizzata, bisognerebbe cambiare tutto il sistema, valorizzare di più il nostro lavoro! Di cambiare lavoro non se ne parla. Anzi, in questo periodo sto anche seguendo un corso OSA48 per specializzarmi. Certo vorrei un po’ di autonomia in più e orari non così pesanti. Ma non è necessario cambiare professione per ottenere queste cose. Invece per un terzo delle intervistate la professione di lavoratrice di cura in famiglia rappresenta solo il primo gradino del loro percorso d’inserimento nel territorio dell’alta Toscana. Nel caso loro questo lavoro sembra rispondere soprattutto a motivazioni contingenti, dettate dalla necessità, mentre le aspirazioni sono altre. Se fosse possibile certo che lo cambierei. Se potessi, vorrei tornare a fare l’insegnante, che è il mio vero mestiere. “Guardare” le persone anziane da un lato mi piace, ma dall’altro mi fa soffrire: ad esempio l’anziano che “guardo” stanotte ha avuto un malore e io, ancora adesso, sto male. Ci soffro. Vorrei lavorare in una fabbrica, magari di scarpe, o in un ristorante. Ma per fare quei lavori devo imparare meglio l’italiano. Per adesso mi accontento di questo. Da qualche mese non faccio più la badante, sono operatrice in una casa di riposo. Le cose vanno meglio, era quello che volevo. Il prossimo passo? Provare a fare l’infermiera. Anche per questo sto 48 Operatore Socio-Assistenziale 50 frequentando un corso per operatori OSA e dopo farò anche quello per operatori OSS. Questo lavoro mi serve per vivere. Ma in futuro voglio fare altro … Mi piacerebbe fare l’estetista ad esempio, però prima devo studiare per prendere il diploma. Lo cambierei solo per uno migliore. Ma ti assicuro che non è facile: le offerte in altri settori per noi immigrate sono pochissime. Sono soprattutto le donne più giovani quelle più motivate a cambiare settore occupazionale: non a caso l’età media delle addette del primo gruppo, quelle di coloro che guardano con maggior favore alla prospettiva di rimanere nell’ambito del lavoro di cura a domicilio, è di quasi 40 anni contro i 33 anni del secondo gruppo. Lo sguardo delle protagoniste del lavoro di cura sulla loro professione lascia emergere diversi elementi di criticità: • La presenza di forme acute di “nero parziale”; • retribuzioni basse; • carichi pesanti, faticosi e complessi; • Prevalere dei rapporti di lavoro in monocommittenza. Nonostante ciò, l’apparente paradosso è che soltanto una delle lavoratrici intervistate si è esplicitamente definita insoddisfatta della sua situazione professionale: Dico la verità, sono due anni che vivo e lavoro nella casa della persona che accudisco e ora comincio ad essere davvero stufa. Convivere 24 ore al giorno con una persona malata che ha cinquanta o sessant’anni più di te è davvero pesante. Le responsabilità sono troppe. Il giudizio delle altre, invece, spazia dal “moderatamente” (15) al “molto soddisfatta” (6). La nascita di legami affettivi con la persona accudita e la sua famiglia, cui probabilmente a ragione una parte della letteratura attribuisce una caratterizzazione ambiguità in ragione del sovrapporsi della dimensione privata a quella professionale, è invece connotata positivamente da molte addette del settore. L’anziano che “guardo” lo vedo come se fosse mio nonno, come se fra noi ci fosse un legame di sangue. Mi piace stare con gli anziani. Con me ridono tanto … e anch’io rido con loro. 51 No, non credo cambierei lavoro anche se ricevessi una proposta migliore. Anche perché si costruiscono dei legami affettivi che vanno oltre il rapporto di lavoro. Quando “guardo” l’anziano che assisto mi sento come se mi prendessi cura dei miei genitori. Ma è presumibile che un’opinione così plebiscitariamente positiva sia influenzata pure dal timore di esprimersi “pubblicamente” con accenti critici nei confronti del proprio datore di lavoro. Anche nelle parole di chi ha espresso un giudizio sintetico positivo, infatti, si rintracciano diversi elementi problematici. Finora mi sono trovata bene perché ho sempre avuto a che fare con persone molto gentili, ma per i soldi non sono soddisfatta. Ho fatto anche il corso OSA per guadagnare di più, ma per il momento non ho trovato un lavoro meglio. Voglio fare questo lavoro perché mi piace, ma vorrei fare solo una mansione non tutte le cose. Fra l’altro fisicamente non sto bene e vorrei che il lavoro che faccio non mi rovini ancora di più … vorrei che fosse un lavoro più tranquillo, che non faccia male al fisico. Quando sono andata via ho pianto … perché con me erano bravi, anche se non mi parlavano molto e mi pagavano poco. 2.4 L’abitazione: fra coresidenza e progetti d’autonomia La casa è lo spazio fisico che permette di separare la dimensione lavorativa da quella pubblica, è il luogo in cui dare spazio agli affetti, il rifugio nei momenti di stanchezza, il requisito necessario per dare corpo ai propositi di ricongiungimento familiare. Certo, mi piacerebbe che i figli e mio marito mi raggiungessero, ma poi dove andremmo ad abitare? Prima devo trovarmi una casa … Sì, voglio portare qui i miei figli. Sarà la prima cosa che farò appena avremo una “nostra” casa. La casa, anche per le lavoratrici di cura di Massa Carrara, è una meta in larga misura ancora da raggiungere. Lo scenario tratteggiato dai rapporti annuali di “Scenari Immobiliari”49, che evidenzia una crescita costante delle compravendite che hanno come acquirente un immigrato (+8,4% nel 2007 e + 12,9% nel 2006), sembra trovare poca o nessuna corrispondenza nell’esperienza delle famiglie 49 L’Osservatorio nazionale che, da tre anni, pubblica il rapporto “Immigrati e casa” 52 straniere che hanno come fonte unica, o prevalente, un reddito proveniente dal settore del lavoro di cura domiciliare, quanto meno in quelle dell’alta Toscana al centro della presente indagine: nessuna delle intervistate, infatti, è proprietaria della casa in cui abita e coloro che sono in affitto coprono appena un terzo del campione; per i restanti due terzi la soluzione è la coresidenza con l’anziano assistito. La scelta fra la soluzione in affitto e la coresidenza dipende ovviamente dalle risorse economiche disponibili, ma soprattutto dalla natura del progetto migratorio: la prima, infatti, è la soluzione più indicata quando l’emigrazione ha un’intenzionalità di lungo periodo e vi è, quindi, la necessità di riunire in Italia, nel più breve tempo possibile, il proprio nucleo familiare; la seconda, invece, è funzionale alle migrazioni di breve periodo, orientate a risparmiare il più possibile per reinvestire in patria: la coresidenza è molto penalizzante sul piano dell’autonomia e della qualità della vita, ma ha il “vantaggio” di essere una sistemazione economicamente a costo zero presentandosi come un sacrificio accettabile alle migranti il cui scopo è guadagnare il più possibile in breve tempo. In effetti anche nei percorsi delle intervistate sembra esservi una certa correlazione tra soluzione abitativa in affitto e progetto migratorio di lungo periodo e prevalentemente orientato alla realizzazione nel Paese d’arrivo, visto che 5 delle 8 persone che vivono in affitto o si sono già ricongiunte con una parte almeno della loro famiglia o hanno intenzione di farlo nel più breve tempo possibile, e, sul versante opposto, tra coresidenza e progetto migratorio finalizzato ad investire sui familiari rimasti in patria, in quanto più della metà di coloro che hanno scelto questa soluzione non esprimono interesse verso la possibilità di ricomporre il proprio nucleo familiare nel Paese d’arrivo. Una tendenza alla regolarizzazione, simile a quella registrata per le posizioni di lavorative, si evidenzia anche per quanto riguarda i contratti di locazione: solo due delle intervistate fra quelle che vivono in affitto, infatti, sostiene di non averne sottoscritto alcuno. Pago poco, ma ovviamente tutto al nero. Quanto? Mi hanno detto 150 euro al mese più le spese domestiche che ancora devono quantificarmi. Non saprei spiegarti bene perché ha seguito la cosa mio marito .. Comunque il contratto ce l’abbiamo, solo che non è intestato a noi, ma a nome di un’altra persona che ce lo subaffitta. Il canone medio è di 347 euro al mese; quella che spende meno paga 150 euro (ma, come abbiamo visto, è al “nero”), mentre quello più costoso è di 505 euro. Nella totalità dei casi si tratta di appartamenti: piccoli (3 vani) ma anche abitazioni di dimensioni medie: 5 o 6 vani talvolta anche con tanto di terrazza e/o orto e/o giardino. La scelta prevalente (due terzi dei casi), però, è quella della coresidenza e ciò obbliga ad una riflessione sui rapporti interpersonali fra lavoratrice di cura e famiglia dell’accudito, data la protratta 53 vicinanza che tale soluzione comporta. Nella maggioranza dei casi le intervistate tracciano al riguardo un quadro quasi idilliaco: affermazioni come “li considero la mia famiglia” e “la signora è come se fosse mia sorella” sono piuttosto ricorrenti ed evidenziano, da un lato, una dose di coinvolgimento personale che va oltre il rapporto professionale; dall’altro, forse, il desiderio di delineare un quadro della situazione connotato più positivamente di quello che è realmente. Alcuni di tali tentativi, tra l’altro, assumono sfumature tragicomiche: Il rapporto con la famiglia era davvero buono: sia l’anziano che i familiari erano molto gentili nei miei confronti e i bambini particolarmente educati. Peccato soltanto che non mi hanno pagato i contributi … La stessa lavoratrice, più avanti, aggiunge: Abitavo con la famiglia dove lavoravo, dormivo in cantina, era brutto, era freddo e il tetto era basso. Al di là dei casi di chiaro e grave sfruttamento, come quello riportato nella testimonianza, si può certo ipotizzare che nella dinamica del rapporto fra lavoratrice di cura, accudito e famiglia di quest’ultimo vi siano tensioni e conflitti probabilmente molto più profondi di quanto emerga in questa sede: verosimilmente l’intervista semistrutturata alla lavoratrice non è lo strumento ottimale per far emergere tali tensioni. L’addetta al lavoro di cura straniera, in Italia da sola, che sceglie la via della coresidenza con l’accudito quale sistemazione abitativa ideale per incrementare la propria capacità di risparmio da un lato, e la lavoratrice che si attiva fin da subito per la ricomposizione del proprio nucleo familiare attraverso la ricerca di una casa in affitto dall’altro, costituiscono due profili tipici che di frequente si ritrovano anche nella vasta letteratura dedicata all’argomento. Ma nel territorio di Massa Carrara sembra trovare spazio anche un modello relativamente nuovo e non molto diffuso: quello della famiglia ricongiunta, o in fase di ricongiungimento, che vive in coresidenza. Vivo insieme alla mia famiglia nella stessa casa della persona che accudisco: stiamo un po’ stretti perché siamo in tre in una sola stanza. Però, siamo tutti insieme. Inoltre loro (i datori di lavoro N.d.A) hanno assunto anche mio marito, gli hanno fatto un piccolo contratto. Ci hanno dato una camera e anche un piccolo cucinotto. Io e mio marito viviamo lì. Anche lui lavora per la “signora”: lui fa le cose fuori e quelle più pesanti. Va a fare la spesa, cura il giardino e anche un pochino l’orto. … Gli obiettivi del presente lavoro non ci hanno permesso di esplorare approfonditamente il percorso attraverso cui alcune famiglie sono approdate al “ricongiungimento in coresidenza”: certo è che tale 54 modello implica un ruolo particolarmente attivo anche della famiglia della persona accudita, un legame fiduciario con la lavoratrice di cura particolarmente forte e possibilità economiche non alla portata di tutti visto che, in entrambe le testimonianze, il datore di lavoro si fa carico anche di un ulteriore contratto di lavoro nei confronti del marito. Vista dal lato della famiglia migrante, invece, si tratta ovviamente di una soluzione che, qualora si affermi in modo diffuso, potrebbe facilitare l’accesso al ricongiungimento anche alle straniere con progetti migratori di breve periodo e orientati al rientro nel Paese di provenienza: vitto e alloggio, infatti, restano in capo al datore di lavoro. 2.5 Il rapporto con il territorio e la rete dei servizi Che la solitudine sia un’assidua compagna di viaggio di chi lascia il proprio contesto di vita per cercare fortuna lontano non è certo una novità: “In effetti in tutte le storie di migrazione abbiamo a che fare con la scelta della separazione rispetto al contesto familiare, affettivo, sociale e culturale originario; questa scelta provoca una rottura dell’equilibrio presente nella vita della persona che decide di emigrare. Costituisce un momento contraddittorio di sofferenza e di aspettative. L’emigrante è di fronte alla sfida di dover ridefinire il proprio progetto di vita, di delinearne le coordinate nello spazio e il tempo. Deve elaborare il lutto della separazione dal gruppo originario, dai legami costruiti durante l’infanzia e interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva. La partenza, le condizioni nelle quali avviene la partenza, i motivi stessi della scelta dell’emigrare sono importanti perché condizionano tutta la traiettoria del migrante. Traiettoria che non è solo spaziale e geografica ma anche mentale e emotiva” (Goussot, 1:2004). Le caratteristiche e le modalità delle migrazioni per lavoro di cura enfatizzano, inevitabilmente, la sensazione di solitudine: la contraddizione fra la professione di cura svolta e l’impossibilità di curare adeguatamente le persone più amate e la difficoltà di separare la dimensione lavorativa da quella privata, accentuata dal frequente ricorso alla coresidenza con l’accudito, infatti, sono aspetti della vita delle lavoratrici di cura che, inevitabilmente, alimentano il senso di separazione dagli affetti più cari. Non stupisce, quindi, che coloro che si trovano in questa condizione indichino proprio la solitudine fra gli elementi maggiormente problematici della loro esperienza migratoria. 55 Fig. 15 – I problemi delle lavoratrici di cura intervistate50 6 18 6 salute lavoro amministrativo-legali solitudine 9 Fonte: Ns. Indagine Diretta Non deve destare sorpresa, quindi, il fatto che proprio la solitudine sia risultato il “problema vissuto” indicato con maggiore frequenza dalle 22 intervistate: il doppio delle volte rispetto alle problematiche di carattere amministrativo-legale che pure, come è noto, condizionano pesantemente la vita dei migranti, e addirittura il triplo nei confronti di “lavoro” e “salute”, nonostante la sanità pubblica, come vedremo, sia i servizi che esse utilizzano maggiormente. Il tempo libero, per quanto scarso, è il momento in cui tale sensazione si oggettivizza in situazioni e dati di fatto: oltre la metà delle intervistate, infatti, lo trascorre “da sola” e “in casa”, che come abbiamo visto, spesso significa in quella della persona accudita. Il mio lavoro mi lascia anche tempo libero … ma non conosco nessuno. Ho un’amica sola, che però sta a Forte dei Marmi, troppo lontano per andare a visitarla. Poi ho paura, non mi piace conoscere … ho paura. Avevo solo un giorno di riposo (alla settimana N.d.A), ma spesso non sapevo dove andare e rimanevo lì (nella stanza messa a disposizione dal datore di lavoro N.d.A) a guardare la tv o ad ascoltare la musica … che mi piace tanto! Se c’era il mercato, invece, ci andavo. Mi chiudo in casa, non mi piace uscire, non ho fiducia nelle persone. Forse ho paura di non essere accettata: alcune persone mi hanno rifiutata per come ero vestita, ho saputo che mi parlano dietro … Ma io non gli ho fatto nulla di male. Mi hanno fatta isolare. 50 Le “macro-aree” problematiche sottoposte al giudizio delle intervistate sono state quattro: solitudine, lavoro, area amministrativo-legale e salute. Ciascuna di esse aveva facoltà di indicarne più di una e anche, eventualmente, di aggiungere altre categorie (anche se nessuna lo ha fatto). 56 Per ovvie ragioni le più propense ad uscire sono le più giovani e quelle senza famiglia al seguito: è fra le “under 30”, infatti, che si concentra la quota maggioritaria di coloro che, nel tempo libero, frequentano luoghi pubblici all’aperto, contesti che, almeno in potenza, facilitano lo scambio e la relazione. Vado ad Aulla o a Monti. Là c’ho le amiche. Passiamo tutto il tempo libero insieme, a ridere e a raccontarci le cose che ci sono capitate durante la settimana. Vado al mare e là incontro tanti amici romeni. Cuciniamo e mangiano insieme. Passiamo la giornata. Il fatto di essere arrivate nel territorio di Massa Carrara seguendo i percorsi tracciati da precise “catene migratorie” fa sì che quasi tutte abbiano un congiunto o degli amici nelle vicinanze: spesso una sorella o un’amica, più raramente un fratello o un congiunto diverso. Quando la lavoratrice di cura vive da sola, è insieme a loro che trascorre una parte significativa del suo tempo libero, a prescindere dal fatto che ciò accada al chiuso delle mura domestiche o, invece, in spazi pubblici. Non ho molte amiche e comunque non mi piace uscire la sera. Preferisco guardare la tv, soprattutto programmi di cucina che mi servono per il lavoro. La domenica, che è il mio giorno libero, invece vado a casa di mio fratello e sto con la sua famiglia. Il giorno libero è la domenica. Mi alzo verso le quattro del mattino e vado a correre. Poi faccio ginnastica–ho comprato apposta una macchina per fare gli esercizi- e le pulizie di casa. A pranzo vado a casa di mia figlia e passo là tutta la giornata. Cammino tanto, faccio un giro al mercato. E poi vedo mia sorella e mia nipote, o mia cognata. C’è anche chi, deliberatamente, rinuncia a dedicare un briciolo di tempo a sé stessa e al riposo Non ho tempo libero. Nei giorni in cui, da contratto, non devo “guardare” l’anziano, vado a fare le pulizie in casa di altre famiglie. Proprio quando sono stanca stanca vado qualche ora al mare. E chi deve, invece, decide di spenderlo in iniziative formative, possibilità che, altrimenti, gli è preclusa a causa della lunghezza degli orari e della pesantezza dei carichi di lavoro. In questo periodo frequento il corso OSA ad Aulla e faccio il tirocinio in una struttura per anziani di Lerici. Devo andare nel giorno libero perché non ho altro tempo. La signora non è autosufficiente e ha bisogno di me. 57 Dal panorama delineato attraverso le testimonianze emerge un quadro che presenta diversi elementi di criticità: le condizioni di forzata solitudine e isolamento cui le “costringe” la professione svolta, il poco tempo a disposizione per sé stesse e per il riposo e la propensione a spenderlo al massimo nella ristretta cerchia dei parenti e degli amici connazionali, infatti, disegnano uno scenario che presenta pochissime opportunità di relazione paritaria con il contesto d’accoglienza e, per conseguenza, il rischio di rimanere reclusi in nicchie etniche che potrebbero finire con l’assorbire quasi tutti gli ambiti di vita della migrante, soprattutto in un momento storico, come quello che stiamo vivendo, in cui la diffidenza nei confronti dello straniero e del diverso alimenta in misura crescente stereotipi ed etichettature negative. In proposito, infatti, non si può che guardare con preoccupazione al fatto che nessuna delle intervistate abbia detto di spendere una parte del proprio tempo libero con amici italiani. Considerazioni che sembrano riflettersi anche nei servizi pubblici o di pubblica utilità maggiormente frequentati dalle lavoratrici di cura, per esigenze di classificazione ripartiti in quattro macrocategorie: sanità, istruzione e formazione, lavoro e immigrazione. Fig. 16 – I servizi pubblici/di pubblica utilità maggiormente utilizzati dai migranti Immigrazione; 8 Sanità; 22 Lavoro; 10 Formazione; 20 Fonte: Ns. Indagine Diretta Alle intervistate è stato chiesto d’indicare a quale delle quattro categorie afferiscono i servizi maggiormente utilizzati nel corso della loro esperienza migratoria a Massa Carrara, attribuendo il valore più alto (in una scala da 1 a 4) al “comparto” maggiormente frequentato. 58 La sanità (ospedale, servizi sanitari Asl, medico di famiglia) è il settore che è stato indicato più volte e la motivazione è abbastanza logica: la necessità di un tempestivo intervento51 o trattamento sanitario, infatti, costringe giocoforza ad abbattere diffidenze e paure che, invece, sembrano resistere quando la situazione non è tale da richiedere un intervento immediato. A dire il vero quando sto poco bene telefono a mamma e mi faccio spedire i medicinali di cui ho bisogno dalla Romania. Segue l’area che abbiamo denominato “formazione”52 ad evidenziare, forse, la positività dello sforzo congiunto di amministrazioni pubbliche e organizzazioni del terzo settore per la promozione di opportunità di formazione, linguistica e professionale, rivolte o accessibili a questo particolare segmento di popolazione straniera: la maggior parte delle intervistate non ha indicato questa categoria in seguito all’iscrizione dei figli alle scuole del territorio, bensì in conseguenza di una loro diretta partecipazione a corsi di formazione professionale o di italiano. Al riguardo, però, sarebbe necessario sottoporre questa indicazione di tendenza a verifiche più approfondite visto che è verosimile che essa in una qualche misura risenta delle modalità di selezione del campione, avvenuta inizialmente grazie al tramite delle associazioni e delle istituzioni locali. Invece il fatto che i servizi dell’area “lavoro”53 risultino complessivamente poco frequentati dalle lavoratrici di cura conferma come in questo segmento del mercato occupazionale il reclutamento avvenga in misura prevalente attraverso il sistema del “passaparola” e delle reti amicali, prevalentemente con connotazione etnica. La distanza delle lavoratrici straniere impiegate in questo settore dalle istituzioni e dalle organizzazioni che operano nel mondo del lavoro non riguarda, però, solo l’intermediazione o, comunque, l’avvicinamento fra domanda e offerta, ma sembra coinvolgere direttamente anche il mondo sindacale. In qualche caso non sembra essere neppure chiaro il loro mandato: Non sono mai andata perché ho sempre trovato lavoro tramite mia sorella e la cerchia delle nostra amiche. In generale, però, tale distanza è resa particolarmente evidente dal fatto che, più semplicemente, la maggior parte (i due terzi) delle intervistate non ha mai messo piede nella sede di un’organizzazione sindacale. 51 Una delle intervistate ha partorito e altre cinque si sono sottoposte ad interventi chirurgici nelle strutture sanitarie della provincia. 52 Scuole dell’infanzia e dell’obbligo per i figli, ma anche corsi di formazione professionale o di lingua per gli adulti e altre iniziative similari. 53 Centri per l’impiego, patronati, sindacati, associazioni e organizzazioni del terzo settore che hanno promosso servizi dedicati,etc. 59 Più conosciute e frequentate, invece, le associazioni d’immigrati o che si occupano d’immigrazione visto che la metà campione ha detto di esservi stata almeno una volta e, in alcuni casi, di andarvi con una certa assiduità. Chiaramente anche in questo caso, potrebbe trattarsi ancora di una distorsione dovuta alle modalità di selezione delle intervistate piuttosto che di una tendenza realmente operante sul territorio. A prescindere da questo, però, ciò che preme evidenziare in questa sede sono le modalità di fruizione degli spazi associativi. Sono andata spesso, sia quando ho avuto bisogno di trovare un lavoro che per avere informazioni sui corsi di formazione professionale. Quando voglio saper qualcosa vado lì. Ci vado spesso. Le prime volte andavo per capire che cosa dovevo fare per mettermi in regola visto che in quel periodo ero clandestina. Una volta risolto questo problema ho continuato ad andarci per cercare lavoro. Tramite loro ho fatto le pratiche di ricongiungimento familiare per far venire mio marito. Sono andata una volta per cercare un lavoro pomeridiano, visto che mi ero stancata di lavorare “a 24 ore” … Ma non l’ho trovato. Sì, all’inizio andavo ad un’associazione di chiesa che dava da mangiare. Dalle testimonianze emerge un tipo di fruizione marcatamente funzionale: le lavoratrici di cura frequentano le associazioni quando hanno un problema da risolvere o necessitano di un qualche servizio. Approcciano l’associazione con modalità da cliente/utente perché, prevalentemente, non vedono in esse dei luoghi e degli spazi di partecipazione, ma delle agenzie erogatrici di servizi. Al riguardo, però, anche nella provincia di Massa Carrara sembra che qualcosa stia cambiando Per un periodo ho fatto volontariato in una casa di riposo. Andavo la domenica, che era il mio giorno libero. Per me era un modo di passare il tempo facendo qualcosa di utile. Da quando sono arrivate le mie figlie, però, non sono più potuta andare. Sì, frequento la chiesa di Aulla. Ci troviamo due volte la settimana. Quando mi è possibile vado sempre perché mi fanno sentire completamente a mio agio, anche se sono l’unica straniera. Ho frequentato un circolo d’immigrati in passato. Si faceva da mangiare e ci ritrovavamo tutti insieme. Mi piaceva, almeno fino a che non sono cominciati a girare dei soldi ed hanno iniziato a prevalere gli interessi di qualcuno. Allora ho abbandonato, sono uscita. Sono anche iscritta alla Misericordia, per dare e ricevere aiuto. 60 No, non le ho mai frequentate perché non riesco a trovare il tempo. Anche se l’idea di dedicarmi al volontariato mi è sempre piaciuta. Da questo secondo gruppo di testimonianze, invece, sembrano emergere bisogni diversi rispetto ai precedenti, che richiamano una modalità più partecipativa di fruizione degli spazi associativi, visti come luoghi in cui esprimere un’identità culturale in una logica non rivendicativa, bensì centrata sulla pubblica utilità. Il bisogno “di uno spazio dove in totale autonomia (le lavoratrici di cura N.d.A) possano trattenersi in attività liberamente scelte” (Santoro, 53:2006), oltre a rispondere alle esigenze di questo modo d’intendere il rapporto con l’associazione, sembra qualificarsi anche come un antidoto al rischio d’isolamento e di reclusione all’interno delle reti etniche, specie se tali spazi riusciranno a qualificarsi come luoghi d’incontro e di partecipazione in grado di fare proposte attraenti non solo nei confronti delle lavoratrici di cura, ma anche verso la generalità dei cittadini. 2.6 La competenza linguistica Ognuna si è costruita il suo metodo: Mi è servito soprattutto guardare la tv. Inoltre mia sorella aveva un dizionario e io ogni tanto lo leggevo. Avevo anche uno squadernino con le parole italiane che imparavo. E poi quando non capisco sempre chiedo: cosa vuol dire? Così imparo. L’ho imparato soprattutto a forza di parlarlo, sul lavoro in particolare. La tv no, a me non mi ha aiutata … Sì, ascolti, ma non puoi rispondere. Cercavo le parole sul dizionario, leggevo ogni cosa mi capitasse fra le mani e poi guardavo molta tv … Dagli anziani, invece, s’imparano tanti errori, bisogna stare attente: loro parlano bene il dialetto. All’inizio ho fatto un corso con le cassette. Poi sono andata al comune di Aulla, dove c’era una signora che faceva un corso gratuito. Anche il vocabolario è utile. E poi quando non si capisce bisogna sempre domandare. Il primo tempo mi sono aiutata soprattutto con un libro bilingue, una pagina in italiano e quell’altra in romeno. Leggevo e prendevo tanti appunti. Le lavoratrici di cura intervistate l’italiano l’hanno imparato quasi tutte da autodidatte perché per partecipare ad un corso occorrono soldi e anche tempo, due risorse che non abbandonano fra le addette del settore. Anche chi lo ha fatto (cinque in tutto), inoltre, sostiene che Il corso serve per imparare le regole di base, ma la lingua l’ho imparata soprattutto guardando la tv e parlando 61 La strategie d’apprendimento sono le più svariate: praticamente ognuna se n’è costruita una su misura, a partire dalle proprie capacità e preferenze. Gli strumenti, invece, sono sempre gli stessi per tutti e fra questi a prevalere è la televisione54: a spingere molte di loro a trascorrere tanto tempo davanti al tubo catodico facendone il principale strumento d’apprendimento sono anche le condizioni, professionali e di vita, caratterizzate da una situazione di solitudine e marcato isolamento. Anche il luogo di lavoro, la casa della persona accudita, dal punto di vista dell’apprendimento linguistico si tramuta sovente in una palestra in cui esercitarsi continuamente: se è vero, infatti, che una lingua la si impara soprattutto praticandola, è inevitabile che proprio i momenti di dialogo con l’anziano e i suoi parenti possano divenire preziose occasioni per migliorare la competenza linguistica: Lo parlavo già in convento, dove l’ho anche un pochino studiato. Ma penso di averlo imparato abbastanza bene soprattutto con gli anziani: loro, infatti, spesso sono un po’ sordi e si dimenticano le cose. Così ripetono tante volte le stesse parole. E piano piano le impari. Fig. 17 – Gli strumenti per l’apprendimento della lingua italiana dizionario; 4 quaderno; 3 televisione; 12 leggendo; 4 corso d'italiano; 6 lavoro; 11 Fonte: Ns. Indagine Diretta Il risultato finale, almeno per quanto riguarda il nostro campione, non è da disprezzare se è vero che, secondo l’opinione degli intervistatori, il livello raggiunto è al di sopra della sufficienza (“vocabolario povero ma utilizzo appropriato” è il giudizio che ricorre con più frequenza) in oltre in 54 Nulla di nuovo per un Paese come l’Italia che, almeno imparte, deve la propria omogeneità linguistica proprio ai programmi televisivi popolari degli anni ’50 e ’60. 62 tre quarti dei casi. Probabilmente l’apprendimento della lingua, almeno fra le lavoratrici di cura della provincia di Massa Carrara, è facilitato dalla comune radice latina fra l’italiano da una parte e lo spagnolo e il romeno dall’altra, le due lingue madri maggiormente parlate fra le lavoratrici di cura straniere di questo territorio. Qualche problema in più, invece, sorge nella capacità di passare da una competenza linguistica sufficientemente funzionale rispetto a quanto richiesto dalle mansioni di cura ad una piena proprietà della nuova lingua, un passaggio che anche le intervistate residenti da più tempo in Italia faticano a fare se è vero che, sempre facendo riferimento alla valutazione degli intervistatori, in soltanto due casi il giudizio è stato molto positivo (“vocabolario ampio e utilizzo appropriato”). Probabilmente è proprio in tale fase che si evidenziano i limiti dello “apprendimento autodidatta” e la necessità di percorsi formativi appropriati per accrescere proprietà di linguaggio e capacità d’utilizzo della seconda lingua: una competenza linguistica non pienamente adeguata, infatti, si rivela di frequente un ostacolo all’integrazione sociale e culturale nella nuova realtà, oltre a limitare le possibilità di ascesa occupazionale visto che parlare bene l’italiano è un requisito fondamentale per accedere alla maggior parte delle professioni. 2.7 Madri, figlie e mogli “a distanza” Le migrazioni per lavoro di cura e domestico hanno, da sempre, la peculiarità di essere flussi prevalentemente costituiti da donne sole, un elemento che li differenzia dalla generalità delle migrazioni con movente economico le quali, invece, sono caratterizzate da uno spiccato protagonismo maschile. Si tratta di un elemento di differenziazione dalle importanti ripercussioni sui contesti di provenienza che ha proposto all’attenzione della sociologia delle migrazioni la questione del c.d. “care drain”: con insistenza sempre maggiore ci si chiede, cioè, se, e in che misura, i servizi di cura prestati dalle lavoratrici in Italia e in altri Paesi ricchi55 sottraggano risorse affettive ed assistenziali ai figli, ai mariti, ai genitori e, più in generale, alle famiglie rimaste nei Paesi d’origine. La riflessione, e gli approfondimenti scientifici, nel nostro Paese si sono intensificati soprattutto a partire dal 2003, successivamente alla grande regolarizzazione collegata alla legge “Bossi-Fini” che, fra le varie conseguenze, ha avuto anche quella di far crescere la consapevolezza del ruolo che tali flussi stanno giocando nel sistema di welfare italiano. La questione si presta ad essere affrontata anche in un’ottica di genere: “gli stili di vita del Primo mondo sono resi possibili da un trasferimento su scala globale delle funzioni associate al ruolo tradizionale della moglie –vale a dire cura dei figli, gestione della casa e sessualità di coppia- dai Paesi poveri a quelli ricchi. In termini generici e forse semplicistici, nella prima fase 55 Non solo occidentali visto che flussi consistenti di lavoratrici di cura sono diretti anche verso i Paesi del MedioOriente. 63 dell’imperialismo i Paesi del nord del mondo hanno attinto alle risorse naturali e ai prodotti agricoli, per esempio gomma, metalli e zucchero, delle terre che conquistavano e colonizzavano. Oggi, ancora dipendenti dai Paesi del terzo mondo per la manodopera agricola e industriale, i Paesi ricchi cercano di attingere anche a qualcosa di più difficile da misurare e quantificare, qualcosa che può sembrare assai prossimo all’amore”(Erenreich/Hoschild, 10:2004). Detto in altri termini, il paradosso sottolineato da alcune studiose di estrazione femminista è che per alleggerire il “doppio carico” di lavoro retribuito e lavoro domestico molte donne occidentali hanno dovuto ricorrere ai servizi di altre donne, provenienti da Paesi meno ricchi. E’ evidente che l’approfondimento della questione del “care drain” richiede indagini sia nel Paese d’arrivo che in quello d’origine, un obiettivo che non è alla portata del presente rapporto. E’, invece, possibile analizzare in modo abbastanza articolato la relazione che le lavoratrici di cura straniere della Provincia di Massa Carrara mantengono con i contesti di provenienza, andando alla radice di quell’acuta sensazione di solitudine che impregna la quotidianità di queste migranti e delle ragioni della loro scelta di partire. Il nodo centrale della questione, anche nel caso delle lavoratrici di cura dell’alta Toscana, è la distanza da i figli rimasti in patria, condizione che accomuna oltre i due terzi delle intervistate. Fig. 18 – I figli delle lavoratrici di cura rimasti in patria: ripartizione per classi d’età 6 6 10 6 4 0-5 anni 6-10 anni 11-15 anni 16-20 anni 1 21-25 anni 1 26-30 anni oltre 30 anni Fonte: Ns. Indagine Diretta I figli che le addette intervistate hanno lasciato nel Paese d’origine dono 34 e in oltre la metà dei casi sono adolescenti fra gli 11 e 20 anni (l’età media è 17,9 anni), la “stagione” del passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta. Ad occuparsi di loro sono più i nonni dei mariti, per quanto diverse 64 intervistate abbiano sottolineato un buon livello di partecipazione all’educazione dei figli anche da parte dei padri rimasti in patria. La bambina sta col padre e devo dire che sta bene. Anche se io e lui non stiamo più insieme ti dico che come babbo è davvero bravo. Inoltre è un ingegnere e ha un discreto stipendio, molto superiore a quello medio. I figli stanno con mia mamma e mio marito … E’ un uomo un po’ ambizioso lui, ma ci tiene che la gente lo consideri un bravo papà. Quindi non gli fa mancare nulla. Più raro, invece, il coinvolgimento di fratelli e sorelle, mentre capita che sia la sorella maggiore a prendersi cura del/della minore, specie se fra i due la differenza d’età è abbastanza ampia La bimba piccola sta con quella grande, che è sposata ed ha già un figlio. Vivono insieme a casa mia, tanto a me non serve … Io sono qua. La grande fa un po’ da mamma. Come detto, però, la figura cui queste madri migranti delegano i carichi di cura ed educativi maggiori è quella dei nonni (soprattutto materni), chiamati a vivere per la seconda volta la genitorialità, spesso in età molto avanzata e in condizioni di salute non buona. Il loro è un ruolo centrale, e ancora poco esplorato, sia nella vita dei figli rimasti in patria che in quella delle madri espatriate per le quali costituiscono, al contempo, un agente educativo supplente, un legame affettivo primario e un soggetto anch’esso bisognoso di cura. Le questioni poste dal fenomeno del “care drain”, infatti, riguardano tanto la cura dei figli quanto quella degli anziani della famiglia, due compiti tradizionalmente assolti dalle figure femminili del nucleo familiare. Fig. 19 – La “presa in carico” dei genitori anziani delle lavoratici di cura autosufficienti; 4 cognate; 2 nipoti; 3 fratelli; 5 sorelle; 3 Fonte: Ns. Indagine Diretta 65 Il ruolo dei fratelli e delle sorelle della lavoratrici di cura rimasti in patria , invece, assume rilevanza nel caso dei compiti di cura e assistenza nei confronti dei genitori anziani. Con il supporto, però, di una rete informale, costituita dagli altri congiunti più stretti, inclusi i nipoti adulti (soprattutto nel caso convivano con i nonni) e le cognate. Da quando è stata operata ad un rene, mia mamma si è trasferita da mio figlio. Subito dopo le dimissioni l’ha aiutato anche mia cognata, ma ora è soprattutto lui che assiste la nonna. Mia mamma vive da sola, ma a poche centinaia di metri di distanza dai miei fratelli e dalle mie cognate. In pratica viviamo tutti nello stesso quartiere. In caso di emergenza, basta una telefonata e in meno di un minuto qualcuno di loro è lì da lei. Quasi tutti i giorni vanno a visitarla. Nella trama di relazioni che si ricostruisce attorno ai figli (ma anche ai genitori) successivamente all’emigrazione, il ruolo materno assume connotazioni diverse ma non scompare: “le madri emigranti delle famiglie transnazionali, anche a distanza, continuano a prendersi cura dei figli, sforzandosi di rendersi presenti, di mantenere una comunicazione frequente, di assicurare supporto e guida emotiva, coinvolgendo le risorse della famiglia allargata (dalle figlie più grandi, alle nonne, alle zie …) ed eventualmente pagando a loro volta un aiuto domestico56” (M.Ambrosini, 39:2004). Nel caso delle “mamme a distanza” intervistate, è una presenza che si palesa soprattutto attraverso il contatto telefonico, ma anche Internet è uno strumento sempre più utilizzato: Sento tutti diverse volte la settimana. Le figlie le chiamo tutti i giorni, se necessario anche più volte. Mia mamma, invece, la sento un po’ meno: ma anche quando non ci sono cose particolari, almeno una volta a settimana chiamo. Tutte le sere chiamo. E’ il momento più bello della giornata. Facciamo un po’ per telefono e un po’ per Internet, così risparmiamo. Ho appena fatto un abbonamento che si paga poco. I figli li chiamo anche due o tre volte al giorno. Spendo un sacco di soldi di telefonate, lo so: a volte anche dieci euro al giorno. Ma almeno una volta la settimana sento anche mia mamma. Mio papà è morto undici anni fa e lei vive da sola … E’ vero che i miei fratelli abitano lì vicino, ma mi piace farmi sentire. Io chiamo solo una volta la settimana e parlo con tutti. Ma con mio figlio sono quotidianamente in contatto attraverso internet. E’ comodo perché lui studia ed è sempre al computer … E poi non si spende quasi niente. 56 Si tratta di una soluzione emersa in diversi casi di studio dedicati all’argomento. Nessuna delle lavoratrici di cura della Provincia di Massa Carrara intervistate, però, vi ha fatto riferimento. 66 Fig. 20 – Frequenza dei contatti con i figli rimasti a casa 1 4 10 7 quotidiani bisettimanali settimanali quindicinali Fonte: Ns. Indagine Diretta Quasi la metà delle intervistate chiama i figli almeno una volta al giorno e un altro terzo si fa sentire due o tre volte a settimana. Ovviamente la frequenza dei contatti dipende anche dall’età dei ragazzi: quando i figli hanno più di trenta anni e magari una vita autonoma, infatti, i contatti si diradano leggermente assumendo una cadenza settimanale. Più complesso, invece, il rientro a casa: il primo problema è costituito dalla distanza e dal costo, questione particolarmente assillante nel caso delle lavoratrici di cura originarie dell’America Centro-Meridionale. Il secondo è quello di trovare tempo: soprattutto per coloro che forniscono assistenza continuativa ad anziani non autosufficienti, infatti, non è semplice assentarsi per lunghi periodi. Poi c’è la questione dei documenti, il permesso di soggiorno in particolare: se non si è in regola, impossibile partire. Vorrei tanto tornare perché sono cinque anni che non vedo le mie figlie e non puoi immaginare quanto mi manchino. Purtroppo, però, il mio vecchio datore di lavoro non ha pagato i contributi e così sono ritornata clandestina. E ora devo stare qui. Il risultato è che fra una visita e l’altra passa, mediamente, un anno e mezzo. Ma sono più di un terzo quelle che hanno incontrato i figli per l’ultima volta più di due anni fa, mentre quelle che possono ritornare più di una volta l’anno sono meno di un quarto e tutte romene, per ovvie ragioni di vicinanza geografica. Chiaramente la cadenza delle visite deve essere messa in correlazione non 67 solo con gli ostacoli che le rendono particolarmente difficoltose, ma anche con i ricongiungimenti: è evidente, infatti, che l’esigenza e il desiderio di frequenti rientri si diluisce man mano che il nucleo familiare si ricompone nel contesto d’arrivo. A questo punto è necessario chiedersi se “ne è valsa davvero la pena”, ossia se le fatiche cui si sottopongono quotidianamente le lavoratrici di cura, le privazioni affettive vissute dai figli e la generale ristrutturazione di ruoli e compiti all’interno del nucleo familiare transnazionale siano o meno un sacrificio accettabile alla luce dei benefici che ne conseguono. Poiché un tratto peculiare di questi flussi è quello di essere prevalentemente orientati al sostegno economico dei congiunti rimasti in patria, le rimesse inviate periodicamente a casa dalle lavoratrici posso essere un indicatore (per quanto non eccessivamente raffinato) di successo del progetto migratorio. Abbiamo, quindi, chiesto a ciascuna intervistata di provare una stima delle rimesse finanziarie che mensilmente riesce a spedire ai propri congiunti, nella consapevolezza che si tratta di un’informazione comunque sottostimata visto che non comprende le rimesse che i migranti inviano sotto forma di beni materiali (vestiti, generi alimentari e via dicendo). Delle 22 lavoratrici di cura che costituiscono il nostro campione, 16 hanno dichiarato d’inviare rimesse con cadenza abbastanza regolare, 3 di non aver la necessità di farlo (si tratta di famiglie completamente ricongiunte che quindi, non conservano particolari legami con il Paese d’origine) e altrettante di non essere in grado di farlo pur desiderandolo. Fig. 21 – L’importo delle rimesse delle lavoratrici di cura intervistate 6 6 5 5 4 4 3 3 3 3 no figli figli totale 2 2 1 6 1 1 0 meno di € 100 100 - 300 300 - 500 oltre 500 Fonte: Ns. Indagine Diretta 68 L’importo medio delle rimesse inviate mensilmente a casa dalle intervistate è di 293 euro. I due terzi di loro spedisce una somma compresa fra i 100 e i 500 euro, ma vi è anche chi riesce a far arrivare circa 800 euro e chi, come detto, per quanto lo voglia, non riesce a mandare neppure un centesimo. Non posso mandargli niente perché non bastano nemmeno a me. Prima, quando lavoravo un po’ di più, almeno cento euro al mese li riuscivo a spedire, ma ora proprio non ce la faccio. I principali destinatari, ovviamente, sono i figli. Il fatto che vivano ancora in patria o, invece, abbiano raggiunto la madre a Massa Carrara costituisce, quindi, un fattore determinante della propensione ad inviare rimesse: infatti la quota media mensile scende a 157 euro per le lavoratrici di cura con famiglia completamente ricongiunta e sale a 32557 per quelle con almeno un figlio rimasto nel Paese d’origine. Servono per mantenere mio figlio all’università e per comprare le medicine di mia mamma, che sta poco bene. Li usano per mangiare, per la scuola, gli mando anche i pacchi con i vestiti. Invece la mamma ci compra medicine … Lei ha sempre la pressione alta. Mi servono per costruire una casa: ho venduto quella che avevo prima e con i soldi ho comprato il terreno. Adesso sto acquistando il materiale per la costruzione. Ci vogliono tanti soldi. Per fortuna non devo spendere troppo per la scuola dei bimbi: sono divorziata con figli a carico, quindi lo Stato mi fa degli aiuti. Fig. 22 – La destinazione delle rimesse inviate dalle lavoratrici intervistate58 altro; 2 casa; 3 cure mediche; 6 sostegno alla famiglia; 10 studi dei figli; 7 Fonte: Ns. Indagine Diretta 57 Nella media sono conteggiate anche le tre intervistate che non riescono ad inviare rimesse. Chiaramente le rimesse inviate da ciascuna intervistata quasi mai hanno un’unica destinazione; più spesso, invece, esse sono spese per una pluralità di scopi. 58 69 Come emerge anche dalle testimonianze, spesso le rimesse non sono vincolate ad una destinazione precisa ma sono usate per “il sostegno della famiglia”, ossia per l’acquisto di generi alimentari e vestiti, piuttosto che per il pagamento delle utenze di luce, gas e degli altri servizi di pubblica utilità. Quando, invece, una destinazione precisa ce l’hanno, sono ancora i figli fungere da catalizzatori: oltre un quarto delle volte, infatti, le mamme inviano i soldi per pagar loro gli studi, prevalentemente universitari. La destinazione “cure mediche”, invece, riguarda i genitori anziani. In alcuni casi limitati, poi, le rimesse servono per la casa, a volte da costruire, altre semplicemente da finire di pagare. Mai, invece, l’investimento è a sostegno di attività produttive. Anche le lavoratrici di cura straniere di Massa Carrara, quindi, sembrano allinearsi alla tendenza nazionale e internazionale: è raro, infatti, che le rimesse vadano a finanziare l’apertura di piccole imprese o di qualunque altro genere di attività economiche. Complessivamente oltre i tre quarti delle intervistate sostiene che il benessere familiare è “almeno leggermente” migliorato grazie alla loro emigrazione, mentre circa un terzo sono quelle che hanno visto “sostanziali miglioramenti” nella qualità delle vita della propria famiglia. Sono partito per aiutare mio figlio a sposarsi e perché volevo ristrutturare la casa in cui vive mia mamma … Per il figlio è andato tutto bene visto che ora vive con la sua famiglia ed è autonomo. Ma la mamma sta ancora in una casa tutta rotta … per ripararla serve davvero una somma grossa … Loro pensano che con i miei soldi si possa fare tante cose … ma purtroppo non è così. A dire la verità, purtroppo no. Da noi c’è il dollaro e la vita è molto cara. Per alcune cose di più che in Italia. Sì, perché i bimbi quando vedono una cosa che gli piace ora possiamo comprargliela. Noi viviamo per loro. Ma il prezzo pagato per far crescere, spesso di poco, il tenore di vita familiare è piuttosto alto e riguarda soprattutto la dimensione affettiva e relazionale Dal punto di vista materiale sicuramente non possono lamentarsi di niente … Però stanno crescendo senza papà e mamma. Una famiglia quando si divide non sta mai bene. Ma se parli dell’aspetto economico allora sì, qua in Italia si guadagna molto di più che in Romania. 70 Cap. 3 Il punto di vista dei “testimoni privilegiati” 3.1 Uno sguardo complementare I “testimoni privilegiati” sono quelle figure che, per la loro specifica collocazione, sono in grado di offrire uno sguardo terzo, ma competente, sul tema oggetto d’indagine. Per quanto in via di principio non debbano essere necessariamente professionisti del settore, nel caso presente si è fatto riferimento esclusivamente a questa categoria di soggetti poiché in quest’ultimo capitolo ci si è proposti, da un lato, di arricchire ulteriormente il quadro conoscitivo rispetto alle condizioni occupazionali e alla situazione socio-culturale della lavoratrici di cura della Provincia di Massa Carrara, dall’altro soprattutto di evidenziare criticità e punti di forza del sistema dei servizi e degli interventi territoriali59 e di abbozzare alcune possibili indicazioni operative per favorire l’integrazione di questo specifico segmento di popolazione straniera. Per questo, quindi, si è ritenuto d’individuare “testimoni privilegiati” che, a prescindere dalla professionalità specifica, si collocano “dentro” tale sistema: nella fattispecie mediatrici interculturali, operatori di sportelli per stranieri, assistenti sociali e assistenti domiciliari. Prevalentemente si tratta di cittadini italiani ma non mancano gli stranieri, soprattutto nel settore della mediazione interculturale, a conferma del fatto che per molti immigrati questo piccolo segmento del mercato del lavoro è uno dei pochi che consente loro possibilità di ascesa professionale e di uscita da situazioni di “segregazione occupazionale” e di costrizione in professioni scarsamente qualificate e remunerate. Lavorano nei servizi socio-sanitari pubblici e, in misura minore, in organizzazioni del terzo settore e del volontariato che operano in regime di convenzione con gli stessi servizi pubblici. Nessuno, invece, in strutture e/o progetti esclusivamente dedicate al lavoro di cura perché sembra non ne esistano sul territorio60: la maggior parte è impiegato in strutture e servizi che si occupano in senso generale d’immigrazione e al cui interno sono stati attivati servizi specificamente rivolti a questo segmento di popolazione straniera. Qualcuno, infine, lavora nei servizi e interventi per la terza età ed è a partire da questa prospettiva professionale che incontra e si confronta con la presenza di lavoratrici di cura straniere. 59 Da intendersi in un’accezione ampia, includente non solo i servizi del pubblico, ma anche quelli del terzo settore e del volontariato 60 Anzi, più di uno degli intervistati ne ha sollecitato la costituzione. 71 3.2 L’integrazione sociale delle lavoratrici di cura: nodi critici. Il primo elemento di riflessione è che la lettura delle criticità in materia d’integrazione sociale fatta dai testimoni privilegiati riproduce in modo abbastanza fedele quella dei lavoratori di cura: come evidenzia la figura 23, infatti anche per loro è la solitudine il problema più acuto con cui si confrontano le donne straniere impiegate in questo segmento del mercato del lavoro. La convergenza fra i due punti di vista, quello delle protagoniste e quello dei testimoni privilegiati, è un elemento di sistema, per nulla scontato61, da salutare positivamente perchè la percezione condivisa delle criticità relative ad un problema sociale è sempre condizione necessaria, anche se non sufficiente, per attivare i percorsi tesi alla sua soluzione. Fig. 23 – Gli ostacoli all’integrazione sociale secondo il punto di vista dei testimoni privilegiati 9 9 8 7 5 6 4 5 3 4 3 2 1 0 convivenza con accudito Lavoro Alloggio Solitudine Fonte: Ns. Indagine Diretta Questo positivo elemento di sistema, però, non deve oscurare la pesantezza di una sensazione di solitudine da cui si riesce ad allontanarsi solo temporaneamente e soltanto attraverso il ricorso alle reti etniche: anche i testimoni privilegiati intervistati, infatti, sottolineano come il tempo libero, quando non è trascorso al chiuso delle mura domestiche, è speso sempre in compagnia di parenti o amici connazionali: 61 Soprattutto la letteratura in materia di sociologia dello sviluppo ha evidenziato, invece, una distanza frequente fra i due punti di vista che, spesso, si riverbera con effetti distorsivi sugli interventi messi in atto (vedi Chambers, in particolare “Whose Reality Counts?”, 1997, ITDG) 72 D’estate vanno al mare; d’inverno, invece, stanno sul lungomare di Marina di Carrara. In entrambi i casi, comunque, frequentano soprattutto connazionali, anche se chi è a Massa Carrara da molti anni ha anche amici italiani. Prevalentemente si ritrovano fra di loro, fra connazionali voglio dire: i domenicani soprattutto a Marina di Carrara; i romeni, invece, qui a Carrara, in Piazza D’Armi. Qualche datore di lavoro si arrabbia perché trascorrono molto tempo al telefono. Il fatto è che per loro il telefonino è una delle poche vie di fuga disponibili. Un’altra è, appunto, la compagnia delle connazionali: in questa professione, infatti, capita con una certa frequenza di perdere il lavoro. Quando accade molte si sentono cadere il mondo addosso perché non perdono solo il lavoro ma spesso anche la casa, visto che la maggior parte vive con la persona accudita. Quasi tutte hanno qualche amica ed è naturale che, in tali circostanze, si rivolgano a loro. Non si tratta, ovviamente, di una problematica specifica della Provincia di Massa Carrara, bensì di un problema connesso alle condizioni di vita di questo gruppo di migranti, evidenziatosi anche in altri contesti, sia italiani che esteri. Ciononostante si deve sottolineare con preoccupazione come il ricorso alla compagnia dei connazionali quale occasione pressoché unica di svago rispetto ad un’estesa condizione di solitudine, fenomeno particolarmente acuto soprattutto nel caso delle donne che arrivano in età matura62, possa finire con l’incentivare percorsi di chiusura comunitaria che, certo, non sono il viatico migliore per un’equilibrata integrazione nel territorio. Il secondo elemento di criticità, per numero di citazioni, segnalato dai testimoni privilegiati è la convivenza con l’accudito. Può esserci qualche problema soprattutto se c’è un’altra donna in casa perché questa, a volte, si sente un po’ “usurpata” del ruolo di “regina” dello spazio domestico. A volte non è tanto la relazione in sé ad essere problematica, quanto le condizioni e il contesto entro cui si sviluppa: il bisogno di lavoro di cura, infatti, è molto sentito non solo nei centri urbani ma anche nei piccoli paesi delle aree montane, come quelli delle Apuane e dell’entroterra dell’alta Toscana, dove la popolazione anziana raggiunge incidenze particolarmente elevate. Contesti “poveri” di occasioni di svago per chi non è autoctono e poco servite dalla rete dei servizi di trasporto pubblico 62 Per le quali, quindi, la condizione di lavoratrice di cura non è la prima tappa di un percorso di ascesa sociale, ma la situazione professionale e umana entro cui si sviluppa la loro emigrazione. 73 Anche le distanze sono un problema: in Lunigiana vi sono molti paesini in cui il servizio pubblico non arriva, così nelle ore libere del pomeriggio le badanti non possono muoversi e sono costrette a rimanere in casa. Questa vicinanza forzata fra accudito e assistente si riverbera inevitabilmente anche sulla loro relazione che, in altre condizioni, probabilmente non avrebbe risentito di alcun problema. Altre volte, infine, è il “non detto” nella relazione fra anziano accudito e conginti a condizionare il rapporto con la lavoratrice di cura: Tante volte, anche fra noi colleghe, emerge la questione del razzismo degli anziani. E’ vero a volte dicono parole brutte, pesanti. Ma l’origine di tutto spesso è nel rapporto con i figli: da un lato vorrebbero che gli fossero più vicini, dall’altro comprendono che non possono chiedere di più. E la badante finisce spesso con il fungere da capro espiatorio: è quella che tiene lontani i figli perché, se non ci fosse stata, anche loro, pur con fatica, sarebbero stati maggiormente presenti. Comunque, anche se la causa non è il razzismo, per queste donne, in certe occasioni, la situazione non è facile. 3.3 Lavoratrici di cura straniere e sistema dei servizi e degli interventi promossi nel territorio Con “sistema dei servizi e degli interventi promossi nel territorio” si fa riferimento a tutti gli interventi promossi in una determinata area, a qualunque titolo e da qualsiasi soggetto, ma in grado di venire incontro ai bisogni delle lavoratrici di cura e non solo a quelli pubblici, o a “regia” pubblica63, per quanto quest’ultimi costituiscano ovviamente la parte più significativa. La valutazione generale dei testimoni privilegiati sull’adeguatezza o meno di tale sistema in ordine alla capacità di dare risposta alle questioni poste dalla presenza delle lavoratrici di cura straniere oscilla fra “l’abbastanza” e il “poco adeguato”, con una prevalenza del primo giudizio. Solo una persona, invece, lo considera “inadeguato” e nessuna “molto adeguato”. La moderazione delle opinioni espresse, a prescindere dalla declinazione positiva o negativa, si spiega probabilmente, in primo luogo, con il fatto che i soggetti intervistati, proprio per la loro qualità di “testimoni privilegiati”, non sono terzi rispetto a tale sistema, ma vi agiscono dal di dentro; in altri termini ne sono attori, sia pure a diversi livelli di protagonismo. Guardandosi indietro, al cammino fatto negli ultimi cinque anni, quasi tutti percepiscono segnali di crescita nella capacità del territorio di dare risposta ai bisogni evidenziati anche da questa indagine64. 63 Ad esempio, quelli delle organizzazioni del terzo settore e dell’associazionismo che gestiscono servizi in convenzione con enti pubblici. 64 Fa eccezione una sola testimonianza: “a me sembra che queste donne siano mandate allo sbaraglio, lasciate a sé stesse insomma”. 74 Il giudizio, invece, diverge sull’intensità di tale crescita: per qualcuno “è stata evidente”, oppure “abbastanza rapida”; qualche altro parla di “sistema molto migliorato”. Per altri, invece L’attenzione alla situazione di queste lavoratrici è senz’altro cresciuta: il Centro per l’Impiego di Aulla, ad esempio, ha attivato un servizio specifico che sarebbe anche utilissimo se, però, le badanti lo frequentassero. Ma è ancora poco rispetto alle necessità. Non posso dire che le cose non siano migliorate: ad esempio, è cresciuta la capacità dei diversi soggetti di “fare rete” e di lavorare in modo integrato. Ma si va avanti ad un passo troppo lento. Nello specifico i miglioramenti più significativi, secondo i testimoni privilegiati, hanno riguardato il sostegno all’apprendimento della lingua italiana (indicata 8 volte)65 attraverso l’accresciuta offerta di corsi per adulti e le azioni di orientamento di tipo amministrativo e legale (6 indicazioni). Solo una persona, invece, ha menzionato il “sostegno nella ricerca della casa” e nessuno l’area “lavoro”. Il parere unanime, comunque, è che nell’immediato futuro dovrà essere profuso un impegno ancora più intenso perché il bisogno di cura continuerà ad aumentare e, con esso, s’intensificheranno ulteriormente i flussi delle lavoratrici. Nello specifico lo sforzo di fantasia e d’innovazione cui sarà chiamato tutto il sistema, secondo i testimoni privilegiati, dovrà concentrarsi soprattutto sulla promozione di modalità meno “informali” d’incontro fra domanda e offerta di lavoro e sull’attivazione di percorsi di qualificazione professionale di questo segmento di manodopera, straniera e non. L’ultimo paragrafo di questo capitolo fa sintesi proprio delle indicazioni e soprattutto di alcune proposte operative emerse nel corso delle interviste con i testimoni privilegiati. 3.4 Ricerca di lavoro e qualificazione professionale. Sintesi delle proposte di miglioramento della rete dei servizi e degli interventi territoriali rivolti alle lavoratrici di cura straniere. Anche per i testimoni privilegiati intervistati è quasi esclusivamente attraverso il passaparola all’interno delle reti etniche o di colleghe che le lavoratrici di cura cercano, e trovano, lavoro. Abbiamo chiesto, infatti, a ciascuno di classificare i canali66 attraverso cui avviene l’incontro fra domanda e offerta di lavoro di cura straniero usando una scala di valore da 1 a 4 in base alla frequenza di utilizzo. La figura 23 ne sintetizza i risultati. 65 Anche se, come evidenziato nel capitolo precedente, “l’apprendimento autodidatta” rimane quello prevalente almeno fra le lavoratrici di cura intervistate. 66 Passaparola, associazioni d’immigrati, associazioni che lavorano con gli immigrati, Centri per l’Impiego. 75 Fig. 25 – I canali di ricerca di lavoro delle lavoratrici di cura secondo i testimoni privilegiati 40 35 30 25 20 15 10 5 0 passaparola associazioni d'immigrati associazioni che lavorano con gli immigrati Centri per l'impiego Ns. Indagine Diretta Eppure sul territorio provinciale ci sono sportelli che svolgono anche questo tipo di servizio: se ne occupa l’associazionismo, autonomamente o in convenzione con i servizi pubblici, e poi i centri per l’impiego. Ci sono gli sportelli promossi dalle associazioni e i centri per l’impiego. Inoltre qualche immigrata si rivolge anche alle agenzie interinali, anche se non tantissime perché la maggior parte di esse chiede il certificato d’idoneità alloggiativa. Accade da quando, con le modifiche introdotte dalla “BossiFini”, è il datore di lavoro che deve garantire l’idoneità della casa della lavoratrice di cura. Per quanto riguarda i Centri per l’impiego, invece, la maggiore difficoltà è di tipo linguistico: molte donne non riescono a leggere, e comprendere, il significato degli annunci e a compilare il modulo per le autocandidature. Tant’è che molte ritirano il modulo e vanno alle associazioni a farselo compilare. La situazione è percepita in modo leggermente diversa in Lunigiana, dove proprio il Centro per l’Impiego, ha attivato recentemente un sportello specificamente rivolto al lavoro di cura: E’ un servizio molto utile perché facilità l’emersione dal lavoro nero. Inoltre gli operatori sono molto preparati professionalmente. La fuoriuscita dall’informalità dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro va di pari passo con la necessità di una maggiore attenzione alla qualificazione professionale della lavoratrici di cura. Per la maggior parte dei testimoni privilegiati, infatti, è su questi due aspetti che, nel breve-medio periodo, dovrebbero concentrarsi con maggiore impegno le istituzioni locali e i soggetti del terzo settore e 76 dell’associazionismo in un sforzo di creatività diretto anche ad individuare risposte innovative a un bisogno crescente. Alcune proposte, sia pure in forma abbozzata, sono emerse anche durante le interviste In primo luogo sarebbe necessario una sorta di “censimento”: conoscere quante sono e dove. In modo da poterle mettere in rete. Mi rendo conto che è difficile perché tante sono irregolari. Ma uno sforzo in questa direzione deve essere fatto, altrimenti continueremo a lavorare con quelle poche che possono muoversi alla “luce del sole” senza alcun problema. Sarebbe opportuno che le lavoratrici di cura promuovessero un soggetto, non saprei se un’agenzia o una cooperativa, esclusivamente dedicato al lavoro di cura a cui le famiglie possono rivolgersi direttamente quando hanno bisogno d’assistenza. Un soggetto, ovviamente, in cui sono impiegate lavoratrici immigrate, anche se è importante che abbia il supporto dell’associazionismo e dei sindacati. Serve anche più formazione mirata. Penso all’assistenza sanitaria di base perché, anche se può sembrare strano, fare delle medicazioni ha anche delle implicazioni culturali. Lo stesso concetto d’igiene, ad esempio, non è uguale in tutte le culture. E poi delle agenzie che erogano servizi di cura domiciliare, composte sia da lavoratrici straniere che italiane. Al riguardo in molti hanno sottolineato l’importanza di aver incentivato la partecipazione delle lavoratrici di cura stranieri ai corsi per Operatori Socio-Assistenziali organizzati dalle Aziende Sanitarie: E’ importante che le immigrate li frequentino e imparino qualche nozione di assistenza sanitaria di base, soprattutto per i datori di lavoro che, in questo modo, si sentono più tutelati. E quindi tranquilli. Li fanno, ma dovrebbero farne più spesso. Ne servirebbe almeno uno l’anno. Corsi sicuramente più frequenti quindi, ma anche organizzati diversamente Sono a pagamento e molte non possono permetterseli. Inoltre richiedono molto tempo a disposizione e, quindi, non sempre sono accessibili a persone che hanno carichi di lavoro molto pesanti. Invece dovremmo agevolare di più la partecipazione delle badanti straniere: ad esempio diluendo i corsi in un arco di tempo più lungo in modo da accorciare la durata delle singole lezioni. Il passaggio successivo, poi, dovrebbe essere il riconoscimento della professionalità acquisita, a garanzia tanto della lavoratrice, quanto della persona accudita 77 Servirebbe una sorta di albo provinciale, in cui possono iscriversi le badanti che hanno seguito corsi di formazione mirati: ne guadagnerebbe tutto il sistema. Non manca, infine, chi sostiene anche il bisogno di una maggiore diffusione sul territorio di sportelli e iniziative d’informazione e orientamento rivolte alle lavoratrici di cura: Bisognerebbe potenziare anche i servizi di consulenza legale e amministrativa. Quelli che ci sono lavorano bene, ma sono pochi. Perché, ad esempio, non pensare ad un intervento di questo tipo nella piazza sul lungomare di Marina di Carrara e negli altri luoghi di ritrovo delle lavoratrici di cura? 78 NOTE CONCLUSIVE La crescente migrazione di donne che lasciano Paesi poveri per inserirsi in una nicchia del mercato occupazionale, quella appunto del lavoro di cura, di Paesi ricchi e caratterizzati da un’alta incidenza di popolazione anziana, è senza alcun dubbio una migrazione di tipo economico: la partenza, infatti, è una conseguenza della situazione di povertà o di bisogno vissuta in patria, seguita da una valutazione, solitamente familiare, in ordine al componente che deve emigrare e al luogo in cui andare. Come evidenzia anche il presente rapporto di ricerca, infatti, le c.d. “reti etniche transnazionali” si dimostrano straordinariamente capaci sia di selezionare le informazioni utili che di farle circolare fra i parenti e gli amici nei contesti di provenienza, sulla base delle quali, poi, questi pianificheranno la migrazione: si spiega così, infatti, l’apparente contraddizione tra la diffusa ignoranza delle lavoratrici di cura intervistate sulle caratteristiche generali del territorio in cui si accingevano ad emigrare (molte non sapevano neppure dove fosse prima di emigrare) e il fatto che tutte sapessero con precisione il lavoro che le avrebbe attese al loro arrivo. Una domanda destinata a crescere. L’IRS ne ha stimate 620 mila in tutta Italia, noi fra le 47 e le 61mila in Toscana. Secondo l’INPS, la fonte ufficiale più qualificata in materia, in dieci anni (19952004) le lavoratrici domestiche regolarmente iscritte sono più che quintuplicate. La tendenza è quella ad una crescita sempre più veloce per una miscela di motivazioni non difficile da comprendere: la popolazione continua ad invecchiare (l’Italia è il Paese più anziano d’Europa), la “famiglia allargata” è quasi scomparsa, le donne, un tempo loro malgrado depositarie di tutti i compiti di cura nell’ambito del nucleo familiare, non sono più in grado di assolverli a causa dei crescenti carichi di lavoro extradomestici mentre ancora stenta a diffondersi una diffusa cultura delle “pari responsabilità” in famiglia. Il sistema sociale e culturale che per lungo tempo aveva consentito di mantenere in ambito familiare la presa in carico dei componenti più fragili si sta rapidamente sgretolando e i “policy maker” se ne sono resi conto con colpevole ritardo se è vero che il sistema sanitario nazionale riesce a raggiungere a domicilio appena l’1% degli ultrasessantacinquenni contro il 20% dei Paesi scandinavi, il 10% della Germania, e il 6% della Repubblica Ceca. Inevitabile, in una situazione del genere, che la domanda di cura cresca, anche perché dall’altro lato, l’offerta è ampia e a prezzo contenuto. Segregazione occupazionale. Oltre i tre quarti delle intervistate, infatti, guadagnano meno di 900 euro al mese. Anche a Massa Carrara l’inquadramento contrattuale più diffuso sono le 25 ore settimanali anche se poi, mediamente, ciascuna lavoratrice lavora circa il doppio (47 ore per la precisione) perché la maggior parte di esse fa assistenza continuativa e abita in situazione di “coresidenza”, ossia sotto lo stesso tetto dell’anziano accudito. Ce n’è già abbastanza per spiegare il 79 motivo per cui quella del lavoro di cura, soprattutto se “a 24 ore”, è divenuta una nicchia del mercato del lavoro occupata quasi esclusivamente da lavoratrici straniere. Una migrazione economica “peculiare”. Per una parte di esse, le più giovani, questa professione rappresenta il primo gradino di un percorso di realizzazione professionale e sociale: di solito con un livello d’istruzione medio-alto, appena possono cercano un’occupazione più gratificante, meglio retribuita e che gode di maggiore considerazione sociale. Ma l’età media del campione delle intervistate è di 40 anni e la classe più numerosa è quella che va dai 31 a 50 anni: in linea con quanto evidenziato da altre indagini, insomma, i flussi per lavoro di cura, anche nella provincia di Massa Carrara, sono costituiti prevalentemente da donne adulte, quando non mature, e con progetti migratori, almeno nelle intenzioni, transitori e orientati prevalentemente all’investimento nel Paese d’origine. Divise fra il luogo in cui vivono e quello in cui hanno lasciato i propri affetti, diversamente dalle colleghe giovani non hanno una motivazione altrettanto forte ad affermarsi in Italia e finiscono, quindi, con l’alimentare quella situazione di segregazione occupazionale, evidenziata poco sopra, e quel sentimento di solitudine ampiamente descritto anche nelle testimonianze riportate in questo rapporto . L’età è solo una delle caratteristiche che rende questo genere di flussi peculiari nell’ambito delle migrazioni economiche. Un’altra è quella di essere costituita da c.d. “pioniere”, ossia di essere avviate da donne sole, contrariamente al marcato protagonismo maschile che caratterizza, solitamente, i flussi migratori con movente economico. Il ricongiungimento familiare è solo una possibilità, certo non remota, ma neppure una certezza, soprattutto nel caso di quelle più mature (e magari con figli in età adolescenziale) provenienti dall’Europa Orientale. I progetti migratori delle lavoratrici di cura. In ordine all’intenzionalità del progetto migratorio dichiarato dalle intervistate, quindi, le migrazioni delle lavoratrici di cura, con qualche forzatura, possono essere ricondotte a due profili prevalenti: • giovani donne, desiderose di realizzarsi professionalmente e socialmente in Italia, per le quali il ricongiungimento familiare rappresenta un obiettivo quasi irrinunciabile, pena il fallimento del progetto stesso, e il lavoro di cura solo un fase transitoria, legata alle esigenza di mantenersi nel primo periodo dell’esperienza migratoria. • donne mature e “madri e mogli transnazionali”, il cui movente principale è quello di guadagnare il più possibile per le esigenze dei congiunti rimasti in patria: cercano di riempire la distanza che li separa da loro con il telefono, i pacchi regalo, i rientri purtroppo non troppo frequenti e soprattutto le rimesse. Il bisogno di “policy” innovative. Si tratta quindi di flussi diversi, benché concomitanti, accomunati dal fatto di collocarsi, almeno per un certo periodo, nella stessa nicchia occupazionale. 80 Che, quindi, domanderebbero interventi differenziati: soprattutto per il secondo profilo, infatti, il problema non è solo legato alla mancanza di risorse per le politiche d’integrazione. Si tratta, invece, di migrazioni con caratteristiche peculiari che chiedono ai decisori politici di confrontarsi con la difficile sfida dell’innovazione: se è vero, infatti, che le lavoratrici di cura straniere hanno assunto un ruolo centrale nel nostro sistema di welfare, è un’ovvia conseguenza la necessità di governare tali flussi cercando un equilibrio fra il bisogno di cura delle famiglie italiane e quello di tutela delle lavoratrici straniere. La riflessione al riguardo è appena agli inizi e, come capita di frequente, vede coinvolti soprattutto gli enti locali, in quanto istituzioni quotidianamente a diretto contatto con i cittadini e, quindi, meglio capaci d’intercettare bisogni e fenomeni emergenti. Ma alcuni dei suggerimenti abbozzati dai “testimoni privilegiati”, se approfonditi e sperimentati, potrebbero rivelarsi piste operative innovative in grado di venire incontro alle esigenze poste da una presenza sempre più marcata anche nella Provincia di Massa Carrara. In particolare: • la promozione di percorsi di formazione professionale, riconosciuti e quindi spendibili sul mercato del lavoro, quale strumento diretto a colmare le lacune e ad arricchire il bagaglio di competenze delle lavoratrici di cura; • l’istituzione di una sorta di “albo delle lavoratrici di cura” o, comunque, di un sistema di accreditamento della professionalità acquisita, pubblico e accessibile alle famiglie, a garanzia sia della persona accudita che dell’operatrice; • la costituzione di agenzie di servizi dedicate al lavoro di cura, in cui sono impiegate operatrici italiane e straniere, in modo da potenziare il potere contrattuale sul versante dell’offerta; • la creazione di sportelli informativi decentrati nei luoghi pubblici d’incontro delle lavoratrici di cura; • infine il potenziamento delle iniziative e dei contesti d’aggregazione per il loro tempo libero. Analogo sforzo d’innovazione, ovviamente, sarebbe necessario anche sul lato della domanda di cura, anch’essa sempre più fragile man mano che i bisogni d’assistenza per la popolazione anziana si diffondono nella società italiana coinvolgendo anche i ceti sociali meno abbienti. In questa sede non se ne parla semplicemente perché altro è il focus della presente indagine. 81 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AcliColf, Le opinioni e la condizione delle colf in Italia, Acli, Roma, 2005. Ambrosini M., Gli immigrati nel mercato del lavoro italiano in Immigrazione Dossier Statistico 2006, Caritas/Migrantes, Roma, 2006 Ambrosini M., Un’assistenza senza confini. Welfare “leggero”, famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, ISMU, Milano, 2004 Baratto B., Castegnaro A. Veneto italiano in Immigrazione Dossier Statistico 2002, Caritas/Migrantes, Roma, 2002 Barbuglia P., Il progetto Lalera per le assistenti familiari romene in Romania, immigrazioni e lavoro in Italia, Caritas/Migrantes, Roma, 2008. 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Il lavoro privato di cura in Lombardia, Milano 2006 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio sulle politiche sociali, Roma, 2005. Nanni M., Gli archivi dell’INPS: iscrizioni e retribuzioni in Immigrazione Dossier Statistico 2007, Caritas/Migrantes, 2005. Nanni W., Salvatori S. I lavoratori immigrati nelle famiglie italiane in Immigrazione Dossier Statistico 2004, Caritas/Migrantes, 2004. OPS Massa Carrara, Dossier Statistico n.2, Massa Carrara, 2006. Piperno F., Fuga di welfare: quale equilibrio?, Cespi, 2006 Spano P., Anziani e badanti, le convenienze nascoste, Nuova Dimensione, Milano, 2006 Tomei G., Rapporto Sociale Provincia di Massa Carrara, Massa Carrara, 2005. 82 Allegati 83 Il progetto migratorio La scelta Il contatto Conoscenza dell'Italia Intervista 1 Motivazione economica (casa) Intervista 2 Motivazione economica (sostegno al figlio prossimo al matrimonio). Intervista 3 Problemi di salute. cognata Nulla. Amica Mediata dalla tv Sorella Nulla. Intervista 4 Motivazione economica. Amiche Mediata dalla tv e dalle amiche. Intervista 5 Motivazione economica (far studiare i figli). Intervista 6 Motivazione economica (costruirsi una casa). Intervista 7 Motivazione economica (sostegno ai figli). Intervista 8 Motivazione di genere (allontanarsi dal marito) Sorella Nulla. Amiche e cugina Conoscente Soddisfazione La prospettiva del delle progetto migratorio aspettative Nessuna Rientro indeterminato. aspettativa. Abbastanza Probabile trasferimento soddisfatta in Italia per tutta la vita. Abbastanza soddisfatta Insoddisfatta. Abbastanza insoddisfatta.. Mediata dai racconti di mia cugina Niente.. Il ricongiungimento Già effettuato. No, I familiari si oppongono. In Italia tutta la vita.. Già effettuato (con le figlie). Indecisa. Già effettuato Rientro indeterminato. Interessata. Abbastanza soddisfatta. Rientro Già fatto Abbastanza soddisfatta. Resto in Italia. Interessata.. Amica Niente Abbastanza insoddisfatta. Resto in Italia. Interessata. Niente.. Abbastanza insoddisfatta.. Rientro indeterminato. No. Mediata dai racconti dei conoscenti. Abbastanza soddisfatta. Resto in Italia. Interessata. Intervista 9 Motivazione economica (sostegno ai figli). Sorella Intervista 10 Motivazione economica (sostegno alla famiglia). Conoscenti Intervista 11 Motivazione Congregazione economica.(migliorare religiosa la propria situazione) Intervista 12 Motivazione economica (sostegno alla figlia) Induzione con la violenza (tratta per sfruttamento della prostituzione). Intervista 13 Intervista 14 Intervista 15 Intervista 16 Sorella nessuno Motivazione Amica economica (sostegno alla famiglia). Motivazione Conoscenti economica. (sostegno alla famiglia, scuola per i figli), Motivazione economica (sostegno alla famiglia) Conoscenti Niente.. Soddisfatta. Resto in Italia.. No, Mediata dai racconti di mia sorella. Niente. Insoddisfatta. No, No, Nessuna aspettativa. Rientro indeterminato. Sì. Mediata dalla tv. Abbastanza soddisfatta. Rientro Interessata.. Mediata dai racconti di amici e conoscenti. . Abbastanza insoddisfatta.. Rientro.. No. Mediata dalla tv, Abbastanza soddisfatta. Rientro, No, Intervista 17 Motivazione Sorella economica. (sostenere i figli negli studi). Mediata dai racconti della sorella, Soddisfatta. Resto in Italia No Intervista 18 Motivazione Sorella economica e culturale. Mediata dai racconti della tv e della sorella. Insoddisfatta. Resto.. Noui Mediata dalla tv e dai racconti di mio fratello.. Mediata dai racconti della sorella. Soddisfatta. Rientro, No. Soddisfatta. Non sa. No. Intervista 19 Motivazione economica (la casa). Fratello Intervista 20 Motivazione relazionale (stare vicino alla sorella). Sorella 85 Intervista 21 Motivazione economica (sostegno alla famiglia e agli studi della figlia).. amiche Mediata dalla tv.. Soddisfatta.. Rientro.. No. Intervista 22 Motivazione economica (sostegno alla famiglia). cognato Mediata dai racconti del cognato. Soddisfatta. entrambi uno stipendio. Non sa.. Interessata 86 Il lavoro Intervista 1 mono/pluricommittenza Contratto:sì/no Orario Orario effettivo Stipendio contrattuale (settimanale) Monocommittenza sì 25 ore 10 ore 400 euro Altri lavori in Italia Soddisfazione disponibilità al cambiamento Nessun altro Moderata. No, Moderata. No,. Intervista 2 Monocommittenza sì 20 ore 30 ore 600 euro lavapiatti Intervista 3 Monocommittenza sì 25 ore 77 ore 500 euro Nessun altro Alta. No, Intervista 4 Monocommittenza sì 25 ore 50 850 euro Nessun altro Moderata. No, Intervista 5 Monocommittenza no Senza contratto 63/70 ore 725 euro Nessun altro. Alta. No Intervista 6 Monocommittenza no Senza contratto 50 ore 700 euro Nessun altro Moderata. No, Intervista 7 Pluricommittenza.. si 25 ore 60 ore 900 euro. Operaia Moderata. Sì. Intervista 8 Pluricommittenza. sì 25 ore Non quantifica 1.700 euro Cameriera Moderata. Sì. Intervista 9 Monocommittenza. sì 25 ore Non quantifica 800 euro Nessun altro Moderata. No,. Intervista 10 Monocommittenza sì 25ore Non quantifica 600 euro Cameriere Insoddisfatta.. Si. Intervista 11 Monocommittenza sì 25 ore Non quantifica 800 euro Nessun altro Alta.. No 87 intervista 12 Monocommittenza no non ho contratto lavoro 42 ore 560 euro Nessun altro Moderata Si, Intervista 13 Monocommittenza si 25 ore Non quantifica 700 euro Pulizie nelle famiglie Alta Sì, Intervista 14 Monocommittenza si 25 ore 50 ore 800 euro Nessun altro Moderata No Intervista 15 Monocommittenza no. 20 ore 30 ore 600 euro Nessun altro Moderata Si, Intervista 16 Monocommittenza no non sa 50 ore 800 euro nessun altro Moderata. No, Intervista 17 Pluricommittenza. sì 25 ore Non quantifica 1.200 euro nessun altro Alta.. No Intervista 18 Monocommittenza si 40 ore Non quantifica 1.000 euro Nessun altro Moderata. No Intervista 19 Monocomittenza sì 25 ore 25 ore. 600 euro Nessun altro Moderata. Sì. Intervista 20 Monocommittenza no 55/66 ore 850 euro al mese Nessun altro Moderata. No Intervista 21 Monocommittenza. si Nessun orario concordato. 25 ore 50 ore 850 euro Nessun altro Moderata. No Intervista 22 Monocommittenza. sì 40 ore 40 ore 80euro Nessun altro Alta No, 88 Il rapporto con il Paese d'origine Familiari a casa Intervista 9 fratelli 1 Intervista 2 figli, di cui 2 uno già sposato e uno di 27 anni che vive con la nonna cura dei figli età dei genitori **** deceduti la nonna materna 83 anni mamma papà deceduto Intervista i genitori 3 **** Mamma 83 Papa 79 Intervista 1 figlio 4 mamma fratelli nonna mamma 69 Intervista 3 figlie 5 mamma fratelli e sorelle sorella mamma 83 cura dei genitori frequenza telefonate frequenza visite rimesse finalità rimesse condizioni della famiglia dopo l'emigrazione **** non quantifica ogni 2/3 anni 100 euro al sostegno sostanzialmente (ogni tanto) mese familiare uguali mio figlio minore 2 volte a quando si può non una Per aiutare Mio figlio ha potuto (si aiutano settimana (non cadenza e una mio figlio a farsi una famiglia, reciprocamente) quantifica) somma fissa … sposarsi; per lui la situazione quando servono Per è migliorata; mia e si può ristrutturare mamma, invece, la vecchia vive con pochi soldi casa di mia di pensione ed ha mamma un sacco di spese. Loro pensano che con i miei soldi si possano fare un sacco di cose, ma non è così I miei fratelli (13) Tutti i giorni (ho ogni 2 anni 70 euro Per Beh sì. Almeno abitano tutti fatto anche un (sto là 10 comprare le possono curarsi nelle vicinanze contratto omnitel giorni) medicine ad hoc per (mamma spendere meno con pressione alta, papà diabetico) cognata una volta la ogni 3 anni più 400 euro studi No perché da noi figlio settimana con o meno universitari c'è il dollaro e la (reciprocamente) mio figlio contatti figlio vita è cara. quasi quotidiani medicinali via Internet mamma sorella ogni sabato (… ogni 5 anni sì, quando scuola per Prima sì, erano se ho i soldi per lavoro sì … sia figlie; migliorate. Ma ora la scheda alle figlie che a medicinali sono nuovamente telefonica) mamma. Ma non mamma; disoccupata … sempre lavoro sostegno purtroppo familiare 89 Intervista mamma 6 *** mamma 60 è autonoma. Se ha bisogno chiama mia sorella o mia nipote 2/3 volte a settimana Intervista figli 2 7 marito, nonna materna mamma 60 fratello almeno una volta una volta la settimana l'anno Intervista figlia 8 mamma fratello padre (anche mamma 64 se sono (ha un separati). tumore) Come padre è bravo, è un ingegnere ed un buon stipendio sorella Intervista figlie (2) 9 mamma babbo nonni paterni mamma 65 babbo 58 sono autosufficienti. Intervista figlio 10 marito fratelli marito, deceduti *** Intervista Fratelli 11 *** **** *** ogni 6/8 mesi 100 euro al mese medicine medicine per la mamma (ha la pressione alta); scuola e sostegno ai figli figlia tutti i giorni ogni 3 anni più 200 euro al Non so. mamma una o meno mese. Più Non credo volta a settimana qualche soldo in che i soldi le più una tantum. servano a E diversi pacchi. molto, il babbo già guadagna molto. Comunque è lui che decide le figlie quasi 1 volta l'anno 500/600 euro scuola. tutti i giorni alle figlie. Inoltre Sostegno mamma, una mando pacchi familiare volta a settimana con vestiti ai miei genitori spedisco i detersivi tutti i giorni una volta ogni 400 euro sostegno 6 mesi familiare spesso … una volta la settimana due anni 200 euro al mese ai figli. Ogni tanto qualcosa anche alla mamma e pacchi vestiario ai figli no **** sì, lei non potrebbe comprarsi le medicine perché ha perso il lavoro l'anno scorso. certo, adesso posono permettersi qualche agio in più. Qua 100 euro durano un attimo,là tantissimo Grazie al padre mia figlia stava già bene. Certo, ora sta un po' meglio. si stanno meglio. Ora si possono cambiare i mobili di casa. sì, perché i bimbi quando vedono una cosa che gli piace ora possiamo comprargliela. Noi viviamo per loro. **** 90 intervista figlia 12 genitori nonna nonni materni (il padre è morto) *** mamma 55 sorella papà 60 (ha avuto un infarto) mamma 60 non so … è tanto che non la sento, non so come sta ogni 2/3 giorni (grazie ad un'offerta vodafone) fratello ogni 2/3 settimane Intervista figli (3) 14 marito marito (…) **** Intervista figli (2) 15 genitori nonni materni mamma 63 papà 58 sono autosufficienti. tutte le sere (per telefono e internet). Ho fatto un abbonamento che si paga poco tutti i giorni per ogni 6 mesi telefono Intervista figlio 16 marito è autonomo (ha 27 anni) deceduti **** 2 o 3 volte la settimana Intervista figli (3) 17 genitori due sono autonomi. I nonni si prendono cura del piccolo **** papà 72 mamma 70 Nipoti grandi (hanno 27 e 24 anni) figli tutti i giorni una volta genitori una volta l'anno la settimana 600 euro. Studi universitari figlia sostegno familiare mamma 50 anni (papà deceduto) fratelli mamma tutti i giorni due volte l'anno 200 euro sostegno familiare un po' forse sì. Hanno qualche soldo in più stanno migliorando … con la casa saranno molto migliorate Forse un po' sì. Hanno più soldi per comprare da mangiare. Intervista mamma 13 fratelli Intervista mamma 18 fratelli suoceri 1 volta l'anno no, purtroppo non posso **** **** mai tornata a trovarli (arrivata definitivamente nel 2005) Ogni 3 mesi ultimamente sì, a mio fratello perché ha qualche problema si, quasi tutto ciò che guadagno. Circs 800 euro al mese studi di mio fratello spero, ma non so sostegno familiare si, stanno meglio 500 euro sostegno familiare (mutuo) studi dei figli sostegno familiare finanziariamente sì, affettivamente … gli mancano i genitori 1 volta l'anno 200 euro al mese Intervista figlie (4) 19 mamma mamma fratelli mamma 58 papà 59 solo autonomi 2/3 volte la settimana 1 volta l'anno 500 euro costruire la casa Intervista figli (3) 20 sono autonomi deceduti *** 2/3 volte la settimana ogni 4 anni 50/70 euro ai figli. 100 euro al mese a mio fratello piccolo sostegno familiare si stanno meglio. Ma vogliono sempre di più, da noi costa tutto di più Molto migliorate. I figli non avrebbero mai potuto studiare senza i miei soldi. 91 Intervista figlie (2) 21 mamma la figlia grande si prende cura di quella piccola Intervista figli (3) 22 mamma nonni paterni mamma 60 anni mamma 59 anni Fratelli cognate i figli anche 2 o 3 1 volta l'anno volte al giorno. Mamma una volta la settimana 425 euro studi universitari alla figlia sostegno familiare fratello tutti i giorni sia figli che mamma 300 ai figli 125 a mamma scuola per i figli; sostegno familiare 1 volta l'anno Economicamente sì: guadagniamo molto di più. Ma una famiglia, quando si divide, non sta mai bene. Molto. Adesso le spese quotidiane non sono più un problema 92 L'integrazione sociale/1 Il rapporto con la famiglia dell'accudito Intervista Bello, andiamo molto 1 d'accordo. Altrimenti l'avrei lasciata Intervista Mi trovo bene … Ma se torna 2 la ragazza che sto sostituendo, dovrò andarmene coresidenza o casa autonoma Autonoma Coresidenza Abiti da sola? Numero vani sistemazione abitativa con la mia famiglia 5 ******** 1 Intervista Me lo faccio andar bene. Il 3 signore è sempre nervoso, ma io sopporto e non me la prendo con nessuno. Autonoma Sola sì. Mi riposo, voglio la mia libertà, non voglio nessuno. 6 Intervista Buon rapporto, c'è dialogo. 4 Mi trovo bene Coresidenza (nei giorni di lavoro) casa autonoma i festivi Quando non lavoro abito con la mia famiglia; altrimenti dall'anziano 6 + orto/giardino Affitto? (canone e contratto) Conoscenza Modalità di della lingua apprendimento (secondo l'intervistatore) contratto regolare. Vocabolario Soprattutto guardando la 505 euro al mese povero ma utilizzo tv. Inoltre mia sorella appropriato aveva un dizionario e io ogni tanto lo leggevo. Avevo anche un squadernino con le parole italiane che avevo imparato. E poi quando non capisco chiedo: "Cosa vuol dire?". Così imparo. **** Vocabolario L'ho imparato soprattutto povero ma utilizzo parlandolo, sul lavoro e appropriato con la gente. La tv mi aiuta poco … perché non posso rispondere contratto regolare. Vocabolario L'ho imparato ascoltando 220 euro al mese povero ma utilizzo e parlando, soprattutto al appropriato lavoro. La tv non mi ha aiutato perché non la guardo: la sera non ce la faccio, sono troppo stanca e mi addormento. contratto regolare Vocabolario Cercavo le parole sul 470 euro al mese povero ma utilizzo dizionario, leggevo ogni appropriato cosa e guardavo molto la tv … Dagli anziani non s'impara molto: loro parlano il dialetto. 93 Intervista Il rapporto era molto buono, 5 con me erano gentili e anche i bambini educati … peccato che non mi hanno pagato i contributi e ora sono clandestina Coresidenza (dormivo in *** cantina, era brutto, era freddo e il tetto era basso) 1 *** Vocabolario Guardando la tv e se povero ma utilizzo non capivo domandavo appropriato cosa voleva dire una parola, non ho mai frequentato corsi per stranieri Intervista La signora ha problemi di 6 deficienza mentale … Il rapporto è quello che può essere. Con i figli e le mogli parlo soprattutto di cose di lavoro, ma mi sento rispettata. Se io non parlo, lei (la figlia) non parla. Intervista Ho un bellissimo rapporto 7 con loro … Una volta volevano persino portarmi in vacanza con loro, a Roma. Poi non sono andata perché dovevo rimanere qui con un'amica. Autonoma marito 6 + piccolo Contratto regolare Vocabolario giardino (abbiamo 300 euro povero ma utilizzo fatto dei lavori di appropriato ristrutturazione a nostre spese, anche se siamo in affitto) Da sola, sono andata a scuola d’italiano, ho preso la patente, leggevo il dizionario e quello che non capivo chiedevo Autonoma sola 4 + cantina Contratto regolare Vocabolario Parlando con le persone, 250 euro povero ma utilizzo guardando la tv. E poi appropriato leggo molte riviste. Intervista Ho un rapporto molto bello, 8 è come se fosse mia sorella: parliamo di tutto e mi sento a casa mia. Autonoma sola 6 + ampia terrazza Contratto regolare Vocabolario 400 euro ampio e utilizzo appropriato Ho cercato di imparare da sola, poi ho conosciuto persone che mi hanno aiutata, come il parroco di Aulla che mi ha portata da una maestra per imparare l’italiano. Ho letto molto, tutti libri di chiesa che mi dava il signore dove lavoravo la prima volta. La tv poco, non ho tempo 94 Intervista L'anziano e i nipoti sono in 9 gamba. Il figlio invece non si vede più: credo abbiano litigato Coresidenza **** 1 *** Intervista Molto bene, è una famiglia 10 per bene. Coresidenza *** 1 *** Intervista Ho un bel rapporto 11 soprattutto con la cugina della signora. In generale, comunque, mi trovo bene: non mi trattano come una di colore. Coresidenza intervista Un bel rapporto. Ancora 12 adesso, pur non lavorando più con loro, continuo a frequentarli autonoma Intervista Bene, c'è un bel dialogo 13 coresidenza *** con mio figlio *** 1 3 + giardino con orto 1 *** Vocabolario Scrivevo e traducevo povero ma utilizzo le parole rumene in appropriato italiano, guardavo la tv, chiedevo cosa significa se non capivo una parola e piano piano un po’ ho imparato Vocabolario L’ho imparato subito povero ma utilizzo perché all’inizio ho appropriato lavorato con un anziano religioso e leggevo libri di chiesa e in due settimane ho imparato subito Vocabolario Lo parlavo in povero ma utilizzo convento, l’ho studiato e appropriato praticato con gli anziani, loro ripetono tanto e mi ha aiutato a imparare non ho contratto, Vocabolario pago 150 euro più povero ma utilizzo le spese appropriato domestiche che ancora non mi hanno quantificato *** All'inizio ho fatto un corso con le cassette. Poi sono andata al comune di Aulla dove c'era una signora che faceva un corso gratuito. Anche il vocabolario è utile. E poi, quando non si capisce, bisogna sempre domandare. Vocabolario Soprattutto guardando la povero ma utilizzo tv e parlando. appropriato 95 Intervista Bene. Parliamo abbastanza. 14 Per loro non conta il fatto che io sia romena Intervista Buono. Mi trattano bene 15 coresidenza autonoma *** 1 *** Vocabolario Inizialmente leggendo un povero ma utilizzo libro bilingue (in romeno appropriato e in italiano) e prendendo appunti. Poi anche guardando la tv. marito 3 hanno fatto un contratto a nome di un altro uomo, non di mio marito (subaffitto) Vocabolario Con il vocabolario, ma povero ma utilizzo anche guardando la tv e appropriato soprattutto parlando *** 1 *** Vocabolario Lavorando e guardando povero ma utilizzo la tv appropriato Intervista Erano bravi, anche se mi 16 pagavano poco e con me non parlavano molto. Quando sono andata via ho pianto. Intervista Benissimo. Li considero la 17 mia famiglia coresidenza Intervista Un buon rapporto. Mi 18 lasciano tempo da dedicare alla mia famiglia coresidenza (insieme al marito e al figlio) *** 1 *** Vocabolario ampio ma utilizzo non appropriato Intervista E' ottimo, sia con l'anziana 19 che "guardo" che con la sua famiglia. Sono molto gentili. Comunque in Italia non ho mai avuto esperienze negative Intervista Era ottimo. Mi trattavano tutti 20 con rispetto e affetto: sia l'anziano che i suoi familiari. coresidenza *** 1 *** Vocabolario povero e utilizzo non appropriato coresidenza *** 1 *** Vocabolario povero e utilizzo non appropriato Autonoma sorella 4 vani contratto regolare Vocabolario 500 euro al mese ampio e utilizzo appropriato soprattutto guardando la tv Appena arrivata qua ho fatto un corso d'italiano. Ma la lingua l'ho imparata soprattutto guardando la tv e lavorando Un po' guardando la tv, ma soprattutto esercitandomi al lavoro … parlando insomma. Ascoltando mia sorella … e soprattutto sua figlia. E' bravissima in italiano. 96 Intervista Che dire? Entrambe le 21 persone che assisto non possono parlare per problemi di salute. Ho un ottimo rapporto con i loro familiari. Intervista Mi trovo bene. Sono gentili e 22 pagano con puntualità. Coresidenza (nei giorni di lavoro) casa autonoma (nei festivi) marito (quando non lavoro) 4 Coresidenza marito (nella stessa casa dell'accudito) 1 contratto regolare Vocabolario 325 euro ampio ma utilizzo non appropriato *** Piano, piano. Ho imparato molto sul lavoro, grazie alle correzioni degli assistiti e dei loro familiari. E poi guardando la tv. La prima volta che sono venuta in Italia avevo anche un dizionario. Ma l’ho lasciato a casa, non mi serve più. Anche il romeno è una lingua latina, per noi non è difficilissimo imparare la vostra lingua. Vocabolario Ho fatto un corso povero ma utilizzo d'italiano, appena non appropriato arrivata. Per acquisire le basi.Col tempo, parlando, sono migliorata molto. 97 L’integrazione sociale/2 Rapporto con i servizi del territorio frequentazione associazioni Intervista 1 Sanità 1(vado all'ospedale quando mi sento male); Formazione 0; Lavoro 0 Immigrazione 0 No, so dov'è il sindacato. Ma Il poco che ho lo spendo a non m'interessa casa mia, in famiglia. C'è frequentarlo. sempre qualcosa da fare. Intervista 2 Sanità1; Immigrazione 1; Lavoro 0; Formazione 0. Casa Betania. Sono andata una volta per cercare lavoro ma non ho avuto fortuna: ne cercavo uno ad ore perché mi sono stancata di lavorare "24 ore". Ma non l'ho trovato Casa Betania. Per cercare lavoro. No. Sto da sola, soprattutto a casa. Avrei tempo libero, ma ho solo un'amica che, però, vive a Forte dei Marmi ed è troppo lontano per andarla a trovare. Poi ho paura. Non mi piace conoscere gente, troppa paura. Intervista 3 Sanità 4 (mi hanno operata all'ospedale e da allora all'Asl sono di casa, ci vado tutti i giorni); Formazione 3 (Ho fatto un corso OSA e le mie figlie frequentano la scuola); Lavoro 1 (sono stata al centro per l'impiego, mi sono fatta aiutare nella compilazione dei moduli per il rinnovo del permesso di soggiorno); Immigrazione 1 (ricerca lavoro per mia figlia) Sanità 3 (sono stata all'ospedale e l'asl dal dentista e dal cardiologo); Formazione 3 (ho fatto corso OSA, corso d'italiano e i figli vanno a scuola) Lavoro 2 (sono stata al centro per l'impiego, ma non mi hanno trovato lavoro, e al sindacato); Immigrazione 1 (sono stata ad un agenzia -??- che mi ha trovato lavoro) Ho fatto volontariato in una casa di riposo per anziani, la domenica. Lo facevo per passare il tempo la domenica. Da quando sono arrivate le mie figlie non lo faccio più Sì, per farmi aiutare nella compilazione dei moduli per il rinnovo del soggiorno di mia figlia. Il giorno libero è la domenica. Mi alzo alle 4 e vado a correre. Poi faccio ginnastica (ho una macchina per fare gli esercizi). Dopo faccio le pulizie. Poi vado da mia figlia: mangio lì e passo lì tutta la giornata. No Sono stata una volta per una consulenza riguardo ha mio marito: ha lavorato tutta l'estate e non è stato pagato: ancora non ha risolto e non ha avuto i soldi. Il datore di lavoro non si trova più, ha rubato tutto! Sabato e domenica sono i giorni liberi, sistemo la casa, faccio da mangiare per la settimana, vado da mia sorella, sto con i miei figli, non si può andare in giro perché servono i soldi! Intervista 4 frequentazione sindacati Il tempo libero 98 Intervista 5 Sanità 0, Formazione 0, Lavoro 0 (sono No stata una, ma a Vicenza, non qui), Immigrazione 0 No Intervista 6 Sanità 4 (sono stata operata); Formazione 3(corso OSA e diploma di livello europeo per operatrice sociosanitaria); Lavoro 1 (colloqui di orientamento al lavoro); Immigrazione 0 Intervista 7 Formazione 2 (ho fatto un corso per No, non so dove abbiano la cameriera e poi la scuola guida); Lavoro sede. Non vado molto in giro, 1 (sono stata all'ufficio di collocamento); sono un po' chiusa. Immigrazione 0 (non so dove sono le associazioni); Sanità 0. No. Esco con alcune amiche e faccio i lavori domestici a casa mia … Ma il tempo libero non è molto, solo due giorni al mese. Intervista 8 Sanità 2 (sono stata operata al seno all'ospedale di Carrara); Lavoro 1 (sono stata al sindacato a chiedere alcune informazioni); Formazione 0 (sto cercando un corso d'italiano, mi serve l'attestato per l'equipollenza della mia laurea) Sì, frequento la chiesa della comunità di Aulla, ci troviamo due volte alla settimana. Quando posso ci vado: mi trovo bene, anche se sono l'unica straniera Sì, per una situazione che riguardava un'amica: aveva un contratto di lavoro di 3 mesi ma il datore non voleva pagarla. Poi l'ha fatto. Intervista 9 Sanità 0, Formazione 0, Lavoro 0 Immigrazione 0 No, non mi serviva No Mi chiudo in casa, non mi piace uscire, non ho fiducia nelle persone. Forse ho paura di non essere accettata: alcune persone mi hanno rifiutata per come ero vestita, ho saputo che mi parlano dietro … Ma io non gli ho fatto nulla di male. Mi hanno fatto isolare. Vado da mia sorella e in giro per i negozi. Ma soprattutto sto a casa. No preferisco fare da sola, ho No frequentato un circolo che si chiama “circolo latino” si faceva da mangiare, ci ritrovavamo; mi piaceva fino a che non hanno cominciato a girare i soldi ed era solo un approccio d’interesse così ho abbandonato, ci sono uscita. Sono anche iscritta alla misericordia per dare e ricevere aiuto 1. Avevo solo un giorno di riposo, alle volte non sapevo dove andare e rimanevo li a guardare la tv o ad ascoltare musica (mi piace tanto!), se c’era il mercato andavo li Soprattutto mi riposo, perché sono molto stanca. Al massimo vado a trovare mia sorella e faccio un po' di giri per i negozi. 99 Intervista 10 Sanità 3 (sono stata operata di ernia del No disco); Formazione 3 (corso OSA e patente); Lavoro 1 (sono stata al sindacato per avere la liquidazione); Immigrazione 0. Sì, per avere la liquidazione di un precedente lavoro. Intervista 11 Formazione 2 (corso Osa e poi faccio il No, mi piacerebbe fare tirocinio in una struttura di Lerici); Lavoro volontariato ma non ho mai 0; Immigrazione 0; Sanità 0. avuto tempo Sì, sono stata per il rinnovo Nel tempo libero … faccio il del permesso di soggiorno e corso OSA per fare la carta di soggiorno intervista 12 Sanità 3 (ho partorito qui e il bimbo ha fatto tutte le vaccinazioni all'Asl); formazione 3 (corso OSA, corso d'italiano e iscrizione scolastica del figlio che comincia a settembre); Lavoro 0; Immigrazione 0. Sanità 1 (mi sono fatta visitare all'ospedale un volta); formazione 0, lavoro 0, immigrazione 0 no no Prima stavo alla "Papa Giovanni" no di don Bensi … ma perché avevo avuto dei problemi, mi minacciavano vado ad Aulla o a Monti, là c'ho le amiche, passiamo il tempo insieme, chiacchieriamo del nostro lavoro Intervista 14 Sanità 0, Formazione 0, Lavoro 0, Immigrazione 0 no no Intervista 15 sanità 0; formazione 0; lavoro 0; immigrazione 0. no no Cammino tanto, vado un po' al mercato. E poi mi vedo con mia sorella, mia nipote e mia cugina. Sto con mio marito. Andiamo spesso al mare. Intervista 16 sanità 0; formazione 0; lavoro 0; immigrazione 0. sì, andavo da un'associazione di no chiesa che dava da mangiare Vado al mare e là incontro tanti amici romeni. Cuciniamo e stiamo insieme. Intervista 17 sanità1; Immigrazione 0; Lavoro 0; Formazione 0. No Ho 3 ore libere ogni pomeriggio più il lunedì. Sistemo casa mia … Non esco molto, non ho molti amici. Fra loro, però, c'è anche qualche italiano Intervista 13 No. E' mia sorella che mi ha trovato lavoro Nel tempo libero … lavoro. Faccio le pulizie in altre case. Raramente vado al mare. Lavori domestici a casa mia, in questo periodo sto anche scrivendo la tesi per il corso. E poi passeggiate nel parco col bimbo. 100 Intervista 18 Immigrazione 3; sanità 1; lavoro 1; formazione 1 Intervista 19 sanità 0 (a dire il vero quando mi sento male, mi faccio mandare le medicine dalla Romania); formazione 0; lavoro 0; immigrazione 0. Intervista 20 sanità 1 (nella normalità); lavoro 2 (sono andato tante volte ai centri per l'impiego e ai sindacati … non ho mai trovato lavoro tramite loro); immigrazione 2 (sempre a Casa Betania); formazione 0 sanità 1 (nella normalità); lavoro 0 (sempre trovato tramite amiche); immigrazione 0; formazione 0. Sono andata spesso a Casa Betania. Prima per mettermi in regola con il permesso di soggiorno, poi per cercare lavoro. no Formazione 2 (corso d'italiano); sanità 1 (nella norma); lavoro 0; immigrazione 2 (mi sono fatta seguire da un'associazione per le pratiche di ricongiungimento con mio marito) sì, a El Kandil, che gestisce l'Ufficio Immigrati del Comune di Carrara. Per le pratiche di ricongiungimento con mio marito. Intervista 21 Intervista 22 Sì, a El Kandil. Sono andata sia per cercare lavoro che per avere informazioni sui corsi di formazione. Ogni volta che ho bisogno di un'informazione vado lì. Casa Betania, ma una sola volta. Per vedere se riuscivo a trovare un lavoro pomeridiano. alla UIL. Per capire meglio il Sto soprattutto con la mia contratto di lavoro che stavo famiglia. per firmare. No Sì, ma non mi ricordo a quale. Non ho amiche, la sera non esco. Sto soprattutto in casa e guardo la tv, in particolare programmi di cucina: mi servono per il lavoro. Il giorno libero è la domenica e vado da mio fratello. Vado da mia sorella e sto con la sua famiglia no Ho qualche ora libera al pomeriggio, ma resto in casa perché sono stanca. Se proprio voglio rilassarmi faccio una passeggiata, ma raramente. I giorni liberi, invece, li passo in famiglia, assieme a mio marito. no. Mio cognato ha seguito le pratiche per l'assunzione. Tempo libero ne ho, ma non esco molto. Sto a casa, a parlare con la signora oppure con mio marito. 101