scrittura e calligrafia
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MISTERO GIAPPONE SCRITTURA E CALLIGRAFIA di Roberto steve GOBESSO L’esperienza di un occidentale nella pratica della calligrafia orientale. Un viaggio alla scoperta dei segni e dei significati delle antiche forme della scrittura cinese e degli eventi storici attraverso i quali la cultura giapponese le ha importate e interpretate. A VEVA INIZIATO A STUDIARE CALLI- grafia giapponese perché voleva esporre nel tokonoma della stanza del tè qualche cosa scritta di suo pugno. Però, per poter ammirare una sua opera nel tokonoma, avrebbe dovuto imparare a scrivere; avrebbe dovuto studiare per mesi e mesi... per anni, per decenni, sicuramente. Sapeva che nell’ambito della Tradizione il tragitto era pieno d’insidie, sempre in salita e senz’alcuna meta, e lo spirito giusto con il quale percorrere una «Via» era quello di farsi amiche le delusioni, di saper reggere gli sforzi e di mettere se stessi sempre in gioco. Alla «Via del tè» – lo studio del chado- – si era avvicinato nell’autunno del ‘93 dopo il felice incontro con la maestra Kikuchi, una signora giapponese che viveva a Roma e insegnava quest’arte nella sua abitazione vicino alle Mura vaticane e al Centro Urasenke 1 in Prati. Lei era maestra senza pari: paziente, calma, dolce benché esigente, severa ma giusta, autorevole e mai autoritaria; lei non spingeva mai oltre il necessario e lui non chiedeva più di quanto gli veniva dato. Era un sodalizio di rara eleganza, un rapporto perfetto. Quel genere di rapporto perfetto che, sin dai tempi trascorsi, si instaura fra maestro e allievo mentre si percorre il sentiero della «pura imitazione dell’antico, perché questa è la modalità degli avi, e gli avi non devono essere contestati né messi in discussione» 2. 1. Con la O-motesenke e la Mushanoko-jisenke è una delle scuole del tè più antiche del Giappone. 2. E.F. BLEILER, Il libro del tè, uno scritto del 1964 (Dover Publications, Inc.) in appendice all’edizione del 1995 della SE Lo zen e la cerimonia del tè di K. OKAKURA, pp. 117-123. 139 SCRITTURA E CALLIGRAFIA MISTERO GIAPPONE Kikuchi sensei era l’ultimo anello della catena di ‘maestri invisibili’ che l’avevano preceduta nella trasmissione della Tradizione. Poi, come spesso accade agli entusiasti, ai neofiti e ai nippolatri (come lo chiamavano gli amici in tono scherzoso), si era unito a un gruppo di praticanti di kyudo-, la nobile e dura disciplina del tiro con l’arco e, insaziabile, nel gennaio del ‘98 si registrò a un corso di shodo, la «Via della scrittura». Nella vita, sul piano professionale, si occupava di comunicazione visiva e realizzava progetti editoriali; era un esperto d’infografica e di cartografia storica e geopolitica. La rappresentazione di concetti attraverso il linguaggio pittografico, l’utilizzo delle immagini, dei segni e l’uso della tipografia come impianto architettonico per la costruzione di scenari per l’informazione, erano il suo pane quotidiano. Il mio nome è Zucca Vuota Ben presto questa «cosa» della calligrafia iniziò a intrigarlo parecchio. Era partito con grande slancio e determinazione. Come nome da calligrafo si scelse quello di Ku- Hyo-, «Zucca Vuota», dopo aver visto un dipinto (piuttosto curioso) in un libricino sull’opera pittorica del monaco giapponese Sengai 3. Nel dipinto è raffigurata una zucca che galleggia in un torrente in balia delle acque. Ispirandosi al testo, che completava la composizione pittorica, trovò divertente provare a giocare sul doppio senso delle parole ‘zucca vuota’ e sui significati che, sul piano simbolico, sarebbero affiorati alla mente di un orientale e a quella di un occidentale. Il testo recita: «Come una zucca che galleggia: mai immobile, ora sopra, ora sotto l’acqua, in balia delle onde e del tutto estranea ai propri movimenti. Se anche venissero a prenderla il Buddha o il Diavolo, Yao o Shun, Confucio o Mozi, Laozi o Zhuangzi, la zucca sfuggirebbe loro di mano. Sorprendente!» 4. La zucca, in Cina, è considerata un simbolo taoista d’immortalità e in questa composizione rappresenta il «carattere inafferrabile della verità: nemmeno i più grandi saggi (...) riuscirebbero mai a catturarla, a stringerla, a possederla in modo stabile: a sottrarla al movimento infinito dell’acqua (cioè del Tao)» 5. Adottò quel nome, fece suo quel simbolo e per un po’ restò a guardare le reazioni divertite che l’appellativo ‘zucca vuota’ provocava nei suoi interlocutori. Durante gli anni della pratica iniziò a percepire il fascino e la particolarità di questa disciplina e si spinse oltre fra le pieghe e le sfumature di quest’arte. Ben presto si rese conto che poteva «scrivere» correttamente anche senza conoscere la scrittura orientale, un po’ come Barthes quando afferma che è «il sogno di tutti: co- 140 3. SENGAI GIBON (1750-1837) nel 1790 fu l’abate del monastero Sho-fuku-ji, il tempio zen della setta Rinzai più antico del Giappone che si trova nella provincia di Fukuoka. La Rinzai, insieme alla So-to-, è una delle principali sette del buddhismo zen giapponese; fu introdotta dalla Cina nel 1191 grazie al monaco Eisai (1141-1215) che fece costruire il Sho-fuku-ji. Cfr. Storia delle religioni - 4. Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, a cura di G. FILORAMO, Roma-Bari 1996, Editori Laterza, pp. 429-430. 4. P. LAGAZZI (a cura di), La saggezza dei maestri zen nell’opera di Sengai, Parma 1994, Guanda, pp. 90-91. 5. Ivi, p. 91. wa «armonia» kei «rispetto» sei «purezza» jaku «tranquillità». I quattro princìpi della «Via del tè» in un’opera di Ku- Hyo-. 141 142 SCRITTURA E CALLIGRAFIA MISTERO GIAPPONE noscere una lingua straniera (strana) e purtuttavia non comprenderla» 6. Sapeva tracciare correttamente i tratti che compongono un carattere e di caratteri ne aveva memorizzati un buon numero, era in grado di armonizzarli fra loro e di impaginarli correttamente in uno spazio stabilito, a intervalli regolari e in maniera ordinata – così come richiesto per tradizione nell’apprendimento dell’arte calligrafica –, ma non era in grado di «capire» quella forma di scrittura. Può sembrare assurdo ma è così. Un conto è saper fare della «bella calligrafia», altro è saper scrivere. Saper scrivere significa conoscere e aver capito la ‘struttura interna’ di una scrittura, significa saperla leggere, saperla parlare. Significa conoscere una lingua e, nel nostro caso, significa (anche) conoscere più caratteri possibili. Una cosa è saper tracciare e dipingere dei caratteri (a pennello, con l’inchiostro «nero di Cina» e sulla carta di riso) in maniera corretta e canonica, nelle diverse forme 7 e copiando gli stili 8 personali dei grandi calligrafi del passato, ben altro è scorrere un testo e, leggendolo, capirne il contenuto, afferrarne il significato. Per un calligrafo la componente tecnica è uno degli aspetti importanti della rappresentazione di un carattere. Mentre si traccia un carattere si impara a conoscerne le proporzioni, a padroneggiare il ritmo dei tratti durante la sua stesura e si avverte l’armonia che si crea fra pieni neri e spazi bianchi. Tracciare un carattere vuol dire seguire le regole tecniche della giusta composizione: l’ordine temporale e spaziale nell’esecuzione dei tratti, la loro inclinazione o rotondità, la regolarità o l’asimmetria negli spessori, il ritmo tra i vuoti e i pieni nella composizione del segno e mentre tutto questo accade il calligrafo è in grado di compenetrare, non solo attraverso la mente ma anche con il corpo, la forma di una scrittura. Per un calligrafo padroneggiare la scrittura vuol dire trasformare la regola in intuizione, giacchè la bellezza della regola si sublima nel momento in cui la regola stessa si stempera con il comportamento spontaneo. Ogni calligrafo sa molto bene che deve esercitarsi all’infinito prima di conoscere e poter «governare» un carattere. Si deve impadronire di esso a tal punto che la sua mano, il suo braccio, tutto il suo essere – mente, corpo e cuore uniti insieme – lo possa tracciare senza più alcuna consapevolezza, in modo naturale, come se l’immagine raffigurata si «formasse da sola» e riuscire così a «trasformare l’arte appresa in arte inappresa». Tutta questa roba però non c’era nel suo Dna... insomma per lui, occidentale, la fatica raddoppiava perché non conosceva la scrittura e questa pratica, a lungo andare, avrebbe potuto chiudersi in un esercizio sterile di mera «bella grafia» che mai gli avrebbe permesso di cogliere in un istante quanto stava raffigurando. Stava scrivendo un’altra lingua e non conosceva quella lingua, stava scrivendo un’altra scrittura ma questa scrittura gli rimaneva sconosciuta. Per la prima volta si rese conto di ciò che effettivamente accade quando si va a raffigurare un linguaggio sul piano calligrafico. Ebbe modo di provare di persona quello che realmente succede nel rappresentare la forma solida di un linguaggio 9 che non ti appartiene, che è altro da te. Era nel bel mezzo di un ginepraio. Rappresentare il linguaggio, ecco... era quello il punto. E a quel punto si chiese se non fosse il caso di imparare il cinese. 6. R. BARTHES, L’impero dei segni, Torino 1984, Einaudi, Gli struzzi/288, p. 9. 7. Spesso i calligrafi occidentali sono soliti usare il termine «stile» per indicare le tipologie grafiche della scrittura, ma non è il termine appropriato. La parola «forma» è più corretta quando si indicano le diverse grafie che nei secoli hanno segnato l’evoluzione della scrittura in Cina (cfr. la figura a p. 145 che riproduce la pagina di un dizionario cinese con il carattere «tartaruga», e la tavola delle «for me» a p. 146). Il termine «stile», invece, è più usato per indicare le caratteristiche proprie di un calligrafo (tecnica, sensibilità, maestria, ecc.) nell’interpretare, in maniera personale, una di queste forme. 8. Vedi nota 7. Come nasce un scrittura Prima di parlare delle scritture estremo orientali è doverosa una premessa sulle origini della «forma solida di un linguaggio». Tale evento è molto più raro di quanto si possa pensare, dato che tutti gli «alfabeti» usati oggi nel mondo derivano da due soli tipi di scrittura: i geroglifici egizi e i caratteri cinesi, poiché l’altra, il cuneiforme – sorta indipendentemente come queste –, si è estinta. Le origini della scrittura, pur restando ancora sconosciute, sono sempre in stretta relazione con il Divino, sia nell’Egitto dei faraoni che nell’antica Cina. Inoltre, il potere che essa scatena resta spesso legato alla magia. Nel Fedro di Platone troviamo Socrate che narra di come «Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano essere diffuse presso tutti gli Egiziani. (...) Quando giunsero all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”» 10. In uno dei commentari al Yi Jing, il Libro delle mutazioni, si legge che l’inventore degli otto trigrammi, i segni precursori dei caratteri cinesi, fu il mitico Fù Xi, vissuto 5.000 anni fa e primo dei ‘Cinque imperatori’ del periodo leggendario. Ma «anche Huàng Dì, vissuto 4.700 anni fa, è ritenuto il padre della scrittura. Il leggendario Imperatore Giallo, avrebbe ricevuto in dono i caratteri da un drago» 11. E si narra anche di un terzo pretendente che li ricevette da una tartaruga in segno di gratitudine per essere stata salvata da un’alluvione 12. Ho riportato il passo del Fedro e le leggende cinesi non per sottolineare quanto gli antichi fossero, sul piano filosofico, «dominati da una sorta di timore per il potere della scrittura»13, bensì per ricordare come in culture diverse e a diverse latitudini questo ‘dono’ sia sempre legato alla presenza della divinità (che spesso si palesava in sembianze animali). 9. Qui – mentre scrivo –, accanto alla tastiera del Mac, c’è un libro (con l’elegante copertina dal fondo verde chiaro) dove il titolo recita: «La forma solida del linguaggio». È l’edizione italiana, curata dalla Sylvestre Bonnard sas, del saggio di R. BRINGHURST dal titolo The Solid Form of Language, scritto nel 2004, tradotto e pubblicato in Italia nel 2006. È stata la sua lettura a regalarmi alcune riflessioni. 10. PLATONE, Fedro, 274/d-274/e, traduzione del 1966 di P. PUCCI, Editori Laterza, collana Economica, Classici della filosofia con testo a fronte, Roma-Bari 1998, pp. 114-117. 11. E. FAZZIOLI ed E. CHAN MEI LING, Caratteri cinesi, 4a edizione, Milano 2005, Mondadori, p. 13. 12. Ibidem. 13. U. ECO, Segno, Milano 1973, Enciclopedia filosofica ISEDI, Istituto Internazionale Editoriale, p. 98, dove prosegue sottolineando che il faraone rimprovera «l’ingegnoso inventore dei grammata » di «avere immobilizzato la volatilità e rinnovabilità del pensiero in segni che lo gelano per sempre». 143 SCRITTURA E CALLIGRAFIA La scrittura cinese e il suo percorso evolutivo In Cina il complesso sistema linguistico ha conosciuto un’evoluzione senza pari e la sua forma scritta si è andata perfezionando seguendo il ritmo delle necessità dettate dalla storia, dalla cultura e dalla geopolitica di un impero vastissimo. La forma visiva adottata dai cinesi per raffigurare il loro linguaggio è composta da gruppi di segni detti han tsi (hanzi) che in Cina significa ‘caratteri’ (tsi ) degli han, ovvero i cinesi. Esistono oltre 60.000 caratteri (alcune fonti dicono 80.000), anche se nell’uso corrente ne vengono impiegati poco più di 3.000. Ogni carattere rappresenta un morfema, termine con il quale «i linguisti indicano la più piccola parte di un enunciato linguistico che sia provvista di significato» 14; possiamo dunque definire questa scrittura una scrittura di tipo sillabico, dove ogni carattere rappresenta una sillaba e tale sillaba determina un’idea precisa. In più, nella lingua cinese, i verbi non vengono coniugati, non c’è differenza tra singolare e plurale, eccetera, e dunque tutti i termini sono, di solito, invariabili. In occidente si è soliti indicare i caratteri cinesi, e più largamente quelli estremo orientali, con i termini ‘ideogramma’ o ‘pittogramma’. Non è del tutto sbagliato, ma la terminologia corretta, preferita oggi dagli studiosi, è «logogramma, cioè un segno (gramma) che trascrive una parola (logo)»15. Anche questo termine però è inesatto perché spesso «una parola cinese si scrive con due o più caratteri» 16. Questo sistema logografico produce dei caratteri che vengono usati anche per scrivere il giapponese e il coreano 17. Queste due scritture utilizzano i caratteri cinesi insieme a dei tratti fonetici locali ovvero i sillabari kana, letteralmente ‘scrittura sostitutiva’ in Giappone e l’alfabeto hangul, che prevede ‘segni’ (lettere) sia per le consonanti che per le vocali che compongono le sillabe, per la Corea 18. Entrando nel merito della struttura possiamo distinguere due categorie: i caratteri semplici, formati da pochi tratti, e quelli complessi, composti da caratteri semplici assemblati in più parti organizzate secondo un ordine ben preciso. Nella figura della pagina a fronte ci sono alcuni esempi di come si compongono i caratteri complessi: nella prima fila si, piao e shuang sono caratteri composti da una parte superiore e una inferiore, in shuo, ru e fan vi è una parte sinistra e una destra, wang, yan e mi hanno una parte interna e una esterna, mo, bin e hui una parte superiore, una centrale e una inferiore e infine – nella quinta fila – jie, ji e shu sono caratteri composti da una parte sinistra, una centrale e una destra. 144 14. M. CIMAROSTI, «3.1 La scrittura cinese», in Non legitur. Giro del mondo in trentatrè scritture, Roma 2005, Stampa Alternativa & Graffiti, p. 112. 15. Ibidem. 16. Ibidem. 17. Anche la lingua vietnamita, inizialmente, ha seguito questa linea poi, verso la fine del 1800, ha adottato l’alfabeto latino. 18. Per essere più precisi, nella scrittura coreana i caratteri cinesi si usano soltanto per scrivere parole di origine cinese mentre tutto il resto si scrive in hangul; nella Corea del Nord, inoltre, i caratteri cinesi sono stati aboliti da diversi decenni e dunque anche le parole cinesi si scrivono in forma fonetica. Anche la Corea del Sud, ultimamente, sta andando in questa direzione e i caratteri cinesi si usano ormai solo per evitare malintesi fra parole con la stessa pronuncia ma dal significato diverso. Cfr M. CIMAROSTI, Non legitur, op. cit., pp. 144-145 e 150-153. MISTERO GIAPPONE STRUTTURA DEI CARATTERI COMPLESSI PAGINA DI UN DIZIONARIO DI FORME E STILI Le origini pittografiche della scrittura cinese vengono collocate intor no al 2500 a.C. Un recente scavo tra le rovine di un’antica città situata nella contea di Huaiyang, provincia centrale di Henan, ha permesso di portare alla luce un frammento di ceramica che riporta iscrizioni datate a oltre 4.500 anni fa e che potrebbero costituire la prova della primissima forma scritta della lingua cinese. Il reperto è un pezzo di ceramica nera sul quale sono riportate aste di scrittura in colore bianco 19. I nativi, dunque, iniziano a utilizzare dei segni convenzionali che hanno la valenza di elementi mnemonici, sostituiti in seguito da rappresentazioni grafiche di oggetti concreti, ovvero i pittogrammi. A questi furono poi affiancati dei simboli «indiretti», gli ideogrammi, che più si prestano alla raffigurazione di forme verbali e concetti astratti 20. 19. Cfr. dell’autore «Sulla scrittura cinese. Un viaggio di 4.000 anni tra le forme calligrafiche», in Progetto grafico, Roma 2006, a. 4, n. 9, pp. 194-199 (fonte: Newsletter-China, a. VII, n. 127, 31 ottobre 2006). 20. Cfr. E. FAZZIOLI ed E. CHAN MEI LING, Caratteri cinesi, op. cit. 145 SCRITTURA E CALLIGRAFIA MISTERO GIAPPONE L’aspetto grafico di questa scrittura è stato invece modificato nel corso dei secoli; le tappe storiche del suo percorso evolutivo sono caratterizzate dall’utilizzo di 7 forme (nella tavola in basso 21), arricchite da numerosissimi stili. Queste forme sono, in ordine cronologico, la jiaguwen e la jinwen, ovvero le scritture arcaiche, la forma xiaozhuan, o forma «sigillare», il lishu, detto «dei funzionari», il kaishu, letteralmente «modello di scrittura da imitare» e infine il caoshu e il xingshu, i corsivi. utilizzata per trascrivere gli oracoli, le cronache dei sacrifici, per ingraziarsi il Cielo o per i resoconti dell’attività militare e gli appunti di astronomia. Questa scrittura utilizza spesso più versioni grafiche per uno stesso segno. La sua evoluzione si perfeziona nella forma jinwen della dinastia Shang (1766-1122 a.C.) 24, usata per le fusioni in bronzo. Ju Xiaoshi, ministro del re Tang, secondo la leggenda «riunì i consiglieri più fidati per inventare le parole che descrivessero al meglio le prodezze del suo monarca e creare caratteri perfetti, degni di attraversare la storia»25. A determinare l’abbandono di queste forme arcaiche fu una questione geopolitica: Qin Shihuangdi, mettendo fine al periodo degli Stati combattenti (453-221 a.C.), diede vita a un potere centrale che sentì la necessità di uniformare le tante scritture in uso negli antichi regni. Shihuangdi, il fondatore della dinastia Qin (221207 a.C.), è quello, per capirci, della grande muraglia e dell’armata di terracotta. Uno dei suoi ministri di corte, il colto Zhao Yunshao, creò una scrittura chiamata xiaozhuan, «piccolo sigillo», ispirandosi alla forma dazhuan, conosciuta come «grande sigillo» e utilizzata ufficialmente nell’impero. La caduta dei Qin fu determinata da un’insurrezione contadina che, infiammata e foraggiata da un semiletterato, rovesciò il potere centrale. Liu Bang divenne imperatore e fondò la dinastia degli Han (207 a.C.-220 d.C.) 26, quella popolazione che oggi gli occidentali chiamano «cinesi». Uno dei suoi ministri, il letterato Wang Qikun, realizzò una nuova grafia in forma molto semplificata, facile da scrivere e da leggere. Nacque così la forma lishu, meglio conosciuta come «dei funzionari» 27. Chi si prende il merito (a pieno titolo) di aver riformato del tutto la struttura grafica di questi caratteri è però l’imperatore Liu Xie. Alla fine della dinastia Han, l’impero «di mezzo» compie un grande balzo in avanti grazie allo sviluppo agricolo e alla produzione artigianale; la scrittura esce così «dalla sua condizione elitaria per iniziare a democratizzarsi, diventando parte integrante degli scambi commerciali e del mondo contadino»28. Questa scrittura, che prende il nome kaishu, «modello di scrittura da imitare», è di forma più regolare, con tratti orizzontali e verticali molto semplificati, ed è di facile apprendimento per la gente meno istruita e per i bambini. Gli esperti calligrafi, artefici della sua creazione, stabilirono i canoni grafici del nuovo disegno dei caratteri, semplificarono le forme, implementarono l’astrazione e ridussero al minimo il numero dei tratti necessari per rappresentarle. Il kaishu, nato 1.700 anni fa, è ancora oggi la forma scritta più comune e più usata dai cinesi. IL PERCORSO EVOLUTIVO DELLA SCRITTURA CINESE: DENOMINAZIONI, TAPPE STORICHE E ASPETTO GRAFICO FORME PIOGGIA ANFORA PORTA BAMBINO VEDERE CATEGORIE JIAGUWEN XIX/XVIII secolo AVANTI CRISTO FORME ARCAICHE JINWEN XVIII/XVII secolo XIAOZHUAN IN GIAPPONESE TENSHO III secolo LISHU IN GIAPPONESE REISHO DEI FUNZIONARI KAISHU MODELLO DI SCRITTURA DA IMITARE II secolo IN GIAPPONESE KAISHO II/III secolo DOPO CRISTO FORME SIGILLARI CAOSHU – IN GIAPPONESE SOSHO II/III secolo CORSIVI XINGSHU – IN GIAPPONESE GYOSHO III secolo Per tracciare alcuni cenni storici sulla genesi di queste 7 forme mi faccio aiutare dal libro Entre Ciel et Terre 22 del maestro Shi Bo 23. La forma più arcaica di scrittura cinese è la jiaguwen, «incisa su ossa»; veniva 146 21. Cfr. anche la tabella Evoluzione dei caratteri a pagina 15 del libro di E. FAZZIOLI ed E. CHAN MEI LING, Caratteri cinesi, op. cit. 22. SHI BO, Entre Ciel et Terre, Parigi 2000, Les Editions Alternatives. 23. Artista, poeta, scrittore e calligrafo di fama internazionale. Nato a Shanghai in una famiglia tradizionale di grandi letterati, a soli cinque anni inizia a esercitarsi nell’arte pittorica e nella calligrafia; a Pechino è stato professore universitario, giornalista e vicepresidente anziano dell’Accademia nazionale di pittura calligrafica. Ha pubblicato più di sessanta libri, in Cina, a Taiwan e a Hong Kong e da quando si è stabilito in Francia, nel ‘90, un’altra ventina di testi scritti in lingua francese. Ha or ganizzato numerose esposizioni e le sue opere sono custodite presso musei e collezioni private. Vive a Parigi, dove tiene corsi di calligrafia. 24. Per la datazione delle dinastie cfr. C. MEDIAVILLA, L’ABCdaire de la Calligraphie chinoise, Parigi 2002, Flammarion. 25. SHI BO, Tra cielo e terra. Sulle tracce della scrittura cinese, Isola del Liri (FR) 2005, Ed. Pisani, p. 28. 26. Han anteriori (206 a.C.-25 d.C.) e Han posteriori (25-220). 27. Inoltre l’erudito Xu Shen (58-148 ?) nel 121 raccolse tutti i caratteri allora esistenti nel primo vero dizionario, lo Shuo Wen Jie Zi (Spiegazione di pittogrammi e altri caratteri). Xu Shen stabilì sei grandi categorie (liu shu), di cui quattro (xiangxing, zhishi, huiyi, xiesheng o xingsheng) fanno riferimento alla genesi dei caratteri stessi e due (zhuanzhu e jiajie) alla loro funzione (fonte: http://www.club.it/ culture/luciana.bressan/note.bressan.html. Nel dizionario «vi si introducevano anche, per la prima volta, i radicali per la ricerca degli ideogrammi, in numero di 541, poi ridotti col tempo agli attuali 214», cfr. A. TOLLINI, Lineamenti di storia della lingua giapponese, Venezia, anno accademico 2001-2002, Università Ca’ Foscari, p. 51, documento scaricabile da: http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=29 303. Il dizionario (sempre secondo Tollini, p. 52) è compilato in caratteri della forma ‘piccolo sigillo’. 28. SHI BO, Tra cielo e terra, op. cit., p. 60. 147 SCRITTURA E CALLIGRAFIA MISTERO GIAPPONE Intorno al III secolo assistiamo anche all’avvento di un periodo di grandi turbamenti sociali e di nuovi fermenti culturali tesi a mettere in discussione il radicato pensiero tradizionale e che scuotono le fondamenta di un impero fortemente centralizzato. In questo contesto nasce un tipo di scrittura che si colloca al di fuori dei canoni usuali: il caoshu, la forma degli intellettuali. Il termine cao significa erba, questa nuova forma è dunque nota come «scrittura d’erba» perché sorta in piena libertà 29. A questa, pochi decenni dopo, si affiancò la forma xingshu, un corsivo meno estremo e radicale che, come leggibilità, si colloca fra il kaishu e il caoshu. I cinesi sono riusciti a mantenere inalterate queste forme grafiche nonostante la vastità del territorio, le numerose tipologie etniche e i molteplici linguaggi e dialetti parlati nelle province. Le cinque principali forme di scrittura vennero standardizzate attorno al III secolo d.C. dopo un percorso evolutivo durato solo sei secoli e dunque relativamente breve se rapportato alle vicende storiche di questo impero millenario. Nel III secolo i cinesi si sono dunque fermati nell’elaborazione delle forme ma i calligrafi hanno continuato a lavorare sugli stili e continuano a farlo. Sono gli stili dei grandi maestri, liberi e personalizzati, che oggi si studiano. bero rapporti stretti, anche se intermittenti, con le popolazioni della terraferma e soprattutto con i coreani. Se prendiamo come riferimento i cronisti della corte cinese – che nei loro racconti sugli Annali della dinastia degli Han posteriori si interessarono ai «barbari d’oriente che abitano la terra di Wa» – possiamo trovare menzione di un dono che nel 57 d.C. il loro imperatore fece a un capotribù giapponese: un sigillo d’oro a base quadrata (lato 2,4 cm. e alto 2,4 cm.) con incisa la frase «Re Nu di Wa (vassallo) degli Han» 34. Sul piano linguistico il testo cinese più antico che tratta della lingua giapponese è il Gishi Wajin Den, della fine del III secolo, che riporta la lettura di «parole ideografiche» delle «genti di Wa» per le cariche pubbliche e i nomi delle località. Grazie ai crescenti contatti con altre popolazioni, dovuti all’intensificarsi degli scambi con il continente – anche in seguito a una breve occupazione della parte sud occidentale della penisola coreana –, venne subito avvertita l’istanza di possedere una scrittura che rispecchiasse le diversità della lingua autoctona. È molto probabile che il Giappone abbia introdotto il modello di scrittura cinese intorno al IV secolo d.C. e dunque in epoca Yamato; lo testimoniano le tracce trovate sulle spade e gli specchi rinvenuti nei kofun, le «tombe a serratura» dei primi imperatori 35. Ma è anche probabile che il tutto sia avvenuto in maniera molto graduale, coprendo un lungo periodo storico. La cultura nipponica avrà per molti secoli come forte punto di riferimento il modello cinese e soprattutto i dogmi, le tradizioni e i codici dalla cultura classica confuciana e buddhista. La scrittura degli Han viene dunque immediatamente adottata da monaci, letterati e, soprattutto, dalla nobiltà. Una volta introdotto il sistema di scrittura con gli han tsi (in giapponese kanji), il punto era adattare questa grafia alla lingua ufficiale dello yamato – parlata nell’area della città di Nara – che, a differenza del cinese, è polisillabica e flessiva: i verbi vengono coniugati e le parole modificate attraverso l’aggiunta di desinenze o particelle posposte 36. La cosa non fu semplice e il risultato è stato l’aver creato una delle scritture più complicate al mondo. Le due opere più antiche a tema storico scritte in Giappone sono dell’inizio dell’VIII secolo 37 – negli anni che fanno da sfondo alla fioritura letteraria del periodo Nara – e testimoniano «dell’epoca piuttosto tardiva di adozione di un sistema di scrittura in Giappone» 38. Tali opere sono il Kojiki (Cronache degli antichi eventi) del 712 39, e il Nihongi o Nihon shoki (Annali del Giappone) del 720, redatto in La nipponizzazione del modello: un percorso geopolitico Come possiamo immaginare, non è facile stabilire la data esatta dell’utilizzo 30 del sistema di scrittura logografica da parte degli abitanti dell’arcipelago giapponese 31 poiché le conclusioni a cui giungono gli studiosi sono discordanti. Il territorio, nel III secolo d.C., era popolato da un insieme di stati tribali – alcuni molto potenti e in contatto con il continente – dominati da un gruppo accentratore che regnava nella regione Yamato 32. Tale clan, ben presto, divenne piuttosto influente e i sovrani di questa dinastia, tutti legati da vincoli matrimoniali, «sostenevano di discendere dalla dea del sole» 33. In epoche precedenti altre tribù eb- 148 29. Si racconta che il calligrafo Zhou Yuguang avesse, come unica via di sostentamento, la bella scrittura e per dar sfogo alla propria amarezza iniziò a infrangere i divieti realizzando calligrafie libere e armoniose, adottando una grafia personalizzata che lui riteneva migliore delle altre. Le sue opere si diffusero, venne imitato da altri letterati e i loro stili conobbero un successo repentino quanto inatteso. Erano lavori senza vincoli, senza disciplina e senza costrizioni, dove l’artista poteva rappresentare, attraverso la scrittura, il proprio umore e i propri sentimenti, in una parola: la propria anima. 30. «I giapponesi, per quanto ne sappiamo, non fecero mai tentativi di sviluppare una propria scrittura. I cosiddetti jindai moji, o “scrittura del tempo degli dei”, sembrano essere un falso storico, ossia una creazione posteriore in quanto i segni (alfabetici) (...) non rispecchiano la struttura fonetica del giapponese antico, ma piuttosto della lingua ad uno stadio posteriore di sviluppo. KANEDA, 1988, p. 12. Hirata Atsutane (1775-1843) nel suo Koshicho-, sostiene l’esistenza dei shindai moji, precedente all’introduzione degli ideogrammi», in A. TOLLINI, Lineamenti, op. cit., p. 52. 31. Anche se (riporto da YASUMARO, Ko-Gi-Ki. Vecchie cose scritte, prima versione italiana di M. MAREGA, Bari 1938, Giuseppe Laterza & figli, edizione anastatica del 1986, p. X): «è certo che nel 405 si formò in Giappone la prima corporazione di scrivani di corte». 32. Una piccola pianura posta tra le attuali città di Kyo-to e Nara; viene considerato il centro del potere del clan che ha fissato l’egemonia sul Giappone nel IV secolo d.C. dando origine alla dinastia imperiale. Il termine yamato viene spesso usato come aggettivo per indicare, in senso lato, ciò che si riferisce al Giappone antico, spesso con il significato di ‘originale giapponese’ o ‘autoctono’ in contrapposizione a quanto è stato introdotto dalla Cina. 33. M. COLLCUTT, M. JANSEN, I. KUMAKURA, Atlante del Giappone, Novara 1993, Istituto geografico De Agostini, p. 44. 34. Ibidem. 35. Risalgono al periodo della storia giapponese fra il 250/300 d.C. e fino alla metà del VI secolo. Cfr. la fotografia della seconda pagina dell’inserto a colori nel numero di Limes Asia maior, n. 1, anno 1999. 36. Una preziosa fonte sulla lingua di quel periodo, almeno per le parti scritte in forma autoctona, è la più antica collezione di poesie in giapponese: il Man’yo-shu- (Raccolta delle diecimila foglie), che rappresenta uno dei primi tentativi di adattamento del sistema di scrittura cinese alla lingua giapponese. 37. Riporto da YASUMARO, Ko-Gi-Ki, op. cit., p. X: «Veramente, la prima storia giapponese fu composta l’anno 620, ma tale opera andò distrutta in un incendio, nella guerra civile del 645». 38. Cfr. A. TOLLINI, «1.4 - Introduzione degli ideogrammi in Giappone» in Kanji. Elementi di linguistica degli ideogrammi giapponesi, Università degli Studi di Pavia, 1992, documento scaricabile da: http:// amscampus.cib.unibo.it/archive/00001692. 39. Compilato da nobile Yasumaro, restò sotto forma di manoscritto fino al 1644, cfr. Ko-Gi-Ki, op. cit. 149 SCRITTURA E CALLIGRAFIA kanbun 40, cioè in lingua cinese. Questi due testi, insieme al Man’yo-shu-, adoperano i caratteri cinesi in funzione talvolta semantica e talvolta fonetica e venivano letti con la pronuncia giapponese, o meglio: a quei tempi veniva data ai caratteri cinesi una lettura giapponese 41. I kanji venivano quindi usati sia per il loro valore logografico, sia per le caratteristiche fonografiche, parte che oggi viene svolta dall’alfabeto sillabico messo a punto nel IX secolo – all’inizio del periodo Heian – e ordinato i due sillabari: l’hiragana e il katakana 42. I kanji dunque, adoperati da soli, erano insufficienti a rendere graficamente tutte le componenti della lingua giapponese; per la parte flessiva e per altri aspetti si dovette ricorrere a una loro integrazione con queste due forme di caratteri a uso fonetico. Possiamo così assistere da un lato alla mera imitazione dei modelli classici, da to che lo «scrivere» – per i giapponesi – significava «scrivere in cinese», e dall’altro al desiderio di soddisfare le esigenze espressive della sensibilità autoctona e qui, soprattutto in campo poetico e letterario, ci furono numerosi tentativi per raggiungere un compromesso soddisfacente che però risultò spesso instabile. Questo continuo spostamento del baricentro fra l’innato istinto all’assimilazione e il desiderio di poter esprimere le proprie caratteristiche è uno degli aspetti che distinguono lo sviluppo della scrittura giapponese. I costanti e intensi contatti con il modello cinese, i rapporti con i primi esploratori europei, i mercanti e i gesuiti dopo il 1500, e l’impatto (spesso violento) con lo «stile statunitense» negli ultimi 150’anni, hanno contribuito molto ad arricchire la lingua e la scrittura dell’arcipelago. Sommato a questo vi è la caratteristica tipica giapponese di nipponizzare i modelli culturali importati, cercando nel contempo di rispettare il rapporto di «fedeltà» instaurato con il modello stesso. È grazie a questa particolarità culturale che la scrittura moderna del Sol levante riesce a mantenere riconoscibili più strati sovrapposti. © 2007 Roberto steve Gobesso Il testo di questo articolo è protetto dalla legge sul diritto d’autore. L’utilizzo del presente testo, anche in forma parziale, deve assere concordato con gli aventi diritto. Grazie. 150 40. Letteralmente «testo han », cioè testo cinese: opera in prosa scritta in lingua cinese classica. Si riferisce alla produzione letteraria il lingua cinese da parte di autori giapponesi. Il termine indica in realtà un insieme di stili abbastanza diversi, di cui i principali sono: il jun kanbun o kanbun puro, ovvero un testo scritto in Cina o comunque in cinese corretto, l’hentai kanbun o kanbun anomalo, testo scritto in una lingua cinese contaminata da elementi giapponesi e il kanbun kundoku, testo scritto in kanji con aggiunta di segni interpretativi o integrazioni in kana (fonte: http://www.hogaku.it/glossario/k/ kanbun.html). 41. Nella moderna lingua giapponese i kanji sono soggetti a due diversi tipi di lettura: la lettura kun, in giapponese, e la lettura on, in cinese. Un esempio: il carattere che significa «luna», nella lettura on viene pronunciato getsu, mentre nella lettura kun la pronuncia è tsuki. Per indicare la luna viene usata la lettura kun, mentre la lettura on viene in prevalenza utilizzata, con l’aggiunta di altri kanji, per i composti, come per «lunedì», che viene scritto e pronunciato in questo modo: getsu-yo--bi (getsuyo-bi ). Cfr. B. RIVA, La scrittura cinese e il suo adattamento alla cultura giapponese, 2 a edizione riveduta, stampato in proprio, ottobre 1999, p. 58. 42. Il primo, l’hiragana, è stato disegnato partendo dalla scrittura dei kanji in forma so-sho, il corsivo estremo, e viene oggi utilizzato per i segni grammaticali (desinenze, suffissi, particelle e ausiliari) e spesso per le parole di origine giapponese. Il katakana, invece, si usa per la traslitterazione delle parole di origine straniera, le onomatopee e i moderni linguaggi tecnici. Vi è poi un terzo tipo di scrittura aggiuntiva, il romaji, che sono i caratteri latini utilizzati per la trascrizione delle sillabe giapponesi.