rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
giovedì 8 gennaio 2014
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Adn Kronos del 07/01/15
FRANCIA: ARCI, FEROCE ATTACCO A
LIBERTÀ DI STAMPA
(AdnKronos) - «Con una violenza inaudita si è voluta così colpire la libertà di espressione
e di stampa». Con queste parole l'Arci condanna il feroce attacco armato al giornale
satirico parigino Charlie Hebdo, che ha ucciso 12 persone e ne ha ferito 8. «Tra le vittime
compaiono celebri vignettisti e intellettuali noti a livello mondiale - ricorda l'Arci - Una
perdita per tutto il mondo della cultura e del giornalismo. La matrice forse alqaedista o
comunque legata all'Is dell'attentato mette in luce ancora una volta il pericolo che queste
organizzazioni costituiscono per la civile convivenza umana e per la pace». «In nessun
modo però bisogna cedere ad atteggiamenti islamofobi, che confondono l'Islam con il
terrorismo - avverte l'associazione - alimentati dalla destra europea e italiana, che non
fanno altro che alimentare un clima di intolleranza i cui frutti sono sempre drammatici».
L'Arci «si unisce al dolore e all'indignazione espressa dal mondo dell'informazione
democratica e parteciperà alla fiaccolata promossa dalla Fnsi e dall'associazione Art.21
alle 18 di domani davanti all'ambasciata di Francia in Piazza Farnese a Roma».
(Red/AdnKronos)
Dell’8/01/2015, pag. 5
OGGI ALLE 18 FIACCOLATA NELLA
CAPITALE A PIAZZA FARNESE
Appuntamento alle 18 davanti all’ambasciata francese in piazza Farnese per la fiaccolata
di solidarietà per le vittime dell'attentato terroristico a Parigi e in difesa della libertà di
espressione e di informazione ovunque nel mondo. L’iniziativa è stata convocata da Fnsi,
Ordine nazionale dei giornalisti, Se Non Ora Quando, Articolo 21, Acli, Arci, Cgil, Cisl e Uil
e molte altre associazioni e organizzazioni.
Da Repubblica.it del 08/01/15
Fiaccole e matite. In piazza per Charlie Hebdo
In piazza Farnese alle 18. Roma si unisce a Parigi, al mondo. In un’intenzione: rispondere
agli attacchi alla libertà continuando a praticare la democrazia. E decine di associazioni
scendono oggi in piazza Farnese per una fiaccolata di solidarietà per le vittime
dell’attentato terroristico nella redazione di Charlie Hebdo. In piazza con una matita, da
ventiquattro ore simbolo della difesa della libertà d’espressione. L’appuntamento è alle 18
davanti all’ambasciata di Francia.
Nessuna generalizzazione. E praticare la democrazia significa anche esercizio pubblico
della ragione: fermare ogni tentativo di generalizzazione, sottrarre terreno
2
all’equiparazione tra Islam e terrorismo. Lo ricorda, tra le associazioni che aderiscono alla
fiaccolata, l’Arci: “In nessun modo bisogna cedere ad atteggiamenti islamofobi, che
confondono l’islam con il terrorismo, alimentati dalla destra europea e italiana, che non
fanno altro che alimentare un clima di intolleranza i cui frutti sono sempre drammatici”.
Non dare alibi agli integralismi. Al sit in promosso dalla Federazione Nazionale della
Stampa Italiana, l’adesione anche di Articolo 21. Questo il commento di Stefano Corradino
e Giuseppe Giulietti, direttore e portavoce dell’associazione: “Restiamo in attesa di una
puntuale e attenta ricostruzione da parte delle autorità francesi ma ciò che è sicuro è che
non si possono concedere alibi agli integralismi di qualsiasi natura che vogliono mettere in
discussione le libertà e i diritti civili”.
A promuovere l’iniziativa sono, tra gli altri: Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi),
Ordine nazionale dei giornalisti, Se Non Ora Quando, Articolo 21, Acli, Arci, European
Alternatives, Libera informazione, Ossigeno, Associazione Stampa Romana, Ordine dei
giornalisti del Lazio, Sindacato giornalisti della Calabria, #giornaLista, Stampa Libera e
Indipendente, giornalistitalia.it, Unci Nazionale
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2015/01/08/fiaccole-e-matite-in-piazza-per-charliehebdo/
Da Agenparl del 07/01/14
Terrorismo: Attentato a Parigi, fiaccolata a
Piazza Farnese
(AGENPARL) Roma, 07 gen – fiaccolata di solidarietà per le vittime dell’attentato
terroristico nella redazione di Charlie Hebdo e a difesa della libertà di espressione e di
informazione in Francia, in Europa ed ovunque nel mondo. L’appuntamento è in piazza
Farnese, davanti alla sede dell’Ambasciata di Francia. A promuovere l’iniziativa sono, tra
gli altri: Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi), Ordine nazionale dei giornalisti, Se
Non Ora Quando, Articolo 21, Acli, Arci, European Alternatives, Libera informazione,
Ossigeno, Associazione Stampa Romana, Ordine dei giornalisti del Lazio, Sindacato
giornalisti della Calabria, #giornaLista, Stampa Libera e Indipendente, giornalistitalia.it.
L’elenco delle adesioni verrà aggiornato nelle prossime ore sui siti delle diverse
associazioni
Da Adn Kronos del 07/01/14
Francia: Fnsi, domani a Roma fiaccolata
solidarietà per Charlie Hebdo
Domani alle 18, a Roma, fiaccolata di solidarietà per le vittime dell’attentato terroristico
nella redazione di Charlie Hebdo e a difesa della libertà di espressione e di informazione
in Francia, in Europa ed ovunque nel mondo. E' la Fnsi a dare notizia dell’appuntamento
che sarà in piazza Farnese, davanti alla sede dell’Ambasciata di Francia.
A promuovere l’iniziativa sono, tra gli altri: Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi),
Ordine nazionale dei giornalisti, Se Non Ora Quando, Articolo 21, Acli, Arci, European
Alternatives, Libera informazione, Ossigeno, Associazione Stampa Romana, Ordine dei
giornalisti del Lazio, Sindacato giornalisti della Calabria, #giornaLista, Stampa Libera e
Indipendente, giornalistitalia.it.
3
L’elenco delle adesioni verrà aggiornato nelle prossime ore sui siti delle diverse
associazioni.
http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2015/01/07/francia-fnsi-domani-roma-fiaccolatasolidarieta-per-charlie-hebdo_PYKESpCDHErh4gbxixbRaN.html
4
ESTERI
del 08/01/15, pag. 1/2/3
L’11 SETTEMBRE DELLA FRANCIA
BERNARDO VALLI
PARIGI
AL NUMERO 5 di rue Nicolas Appert, quasi di fronte al numero 6 di quella vecchia strada
c’è un teatro, La Comédie Bastille. Uno dei tanti nel quartiere, l’11° arrondissement, dove
c’è lo storico Faubourg Saint-Antoine. Chi passava o sostava davanti al teatro ha visto
sull’altro marciapiede due uomini mascherati e con tute nere di foggia militare infilarsi
nell’ingresso del numero 6. Non ha avuto il tempo di accorgersi delle armi che
imbracciavano né di notare l’auto nera dalla quale erano usciti. Poi quei due uomini sono
scattati fuori come molle, come se avessero sbagliato indirizzo, e si sono infilati
nell’edificio a pochi metri, il numero 10. E dopo pochi istanti è cominciata la sparatoria
nella redazione di Charlie Hebdo . Così è iniziata quella che potrebbe essere una
dichiarazione di guerra.
NON lo sporadico attentato di fanatici kamikaze rassegnati a morire con le loro vittime. Ma
un’operazione condotta secondo precisi ritmi militari. Ed eseguita nel cuore di Parigi,
quando erano all’incirca le 11 del mattino, con le strade piene di gente e il traffico intenso
della metropoli. L’11° arrondissment, dominato dal vecchio centro artigianale di Faubourg
Saint-Antoine, è una delle nobili immagini di Parigi, cuore d’Europa.
L’operazione dei due assassini in nero mi ha subito fatto pensare a un 11 settembre
francese. Forse meno spettacolare di quella di New York del 2001, ma simile per i simboli
colpiti e l’audacia con cui è stata compiuta. E al tempo stesso unica perché i due uomini
neri non hanno lasciato la loro vita sul posto. Non hanno agito da kamikaze ma da jihadisti
del califfato. Freddi come i tagliatori di teste. E addestrati. Il loro obiettivo era tuttavia
l’equivalente europeo delle due torri newyorkesi. Se quest’ultime erano l’espressione
dell’opulenta potenza americana, Charlie Hebdo , giornale satirico, libero, laico,
irrispettoso, carico di un humor dissacrante, era l’espressione della libertà di stampa ed
anche di uno schietto spirito repubblicano francese. I due uomini in nero hanno voluto
punire il giornale che aveva pubblicato delle caricature di Maometto, ma hanno colpito il
più nobile principio della democrazia europea, la libera opinione.
Charlie Hebdo , giornale senza tabù, la rappresentava. A fondarlo, col nome iniziale di
Hara Kiri Hebdo, fu François Cavanna, grande inventore di parole, sfacciato e
sentimentale. Aveva avuto una madre dell’Auvergne , terra della Francia profonda, del
terroir, e un padre emigrato dalla collina piacentina. Il padre non parlava il francese e la
madre non parlava l’italiano. Si capivano esprimendosi con i loro rispettivi dialetti.
Cavanna ha scritto Les Ritals ( sinonimo di italiani) che è la sua storia di ragazzo italofrancese. Morto anni fa, parlava e scriveva un francese ricco, colorato, innovatore, geniale,
ma quando passava all’italiano finiva in un groviglio di dialetti in cui c’erano tracce
dell’emiliano del padre e dell’ auvergnat della madre. Un idioma incomprensibile.
I due armati di kalasnikov, e in tuta nera, hanno ucciso quelli che potevano essere
considerati i suoi discepoli. Wolinski, Cabu, Tignous, Charb, i grandi disegnatori umoristi di
Charlie Hebdo, e altri, erano tutti là per una riunione di redazione. Gli uomini in nero gli
hanno scaricato addosso più di 30 pallottole. E’ difficile contare i colpi delle raffiche. E’
invece semplice contare i morti: 12 finora. Ma il numero potrebbe aumentare alcuni feriti
sono gravi.
5
Di che razza erano gli assassini? Dopo avere vuotato i caricatori sui giornalisti sorpresi e
inermi, hanno esclamato : «Abbiamo vendicato il Profeta ». E ancora : «Abbiamo ucciso
Charlie Hebdo ». Poi il tradizionale omaggio musulmano a Dio, Allah Alkhbar . Avrebbero
anche detto di appartenere ad Al Qaeda. Il loro accento francese è apparso autentico. Lo
afferma la disegnatrice Corinne Rey : «Ero andata a cercare mia figlia all’asilo e arrivata
davanti alla casa in cui si trova il giornale due uomini mascherati e armati ci hanno
minacciato. Volevano entrare, salire e ho dovuto fare il codice che apre la porta. Hanno
sparato subito su Wolinski, su Cabu…E’ durato cinque minuti…Mi sono rifugiata sotto una
scrivania … parlavano un francese perfetto. Hanno rivendicato la loro appartenenza ad Al
Qaeda». Questo spiega la sosta dei due uomini al numero 6, dove hanno atteso che
qualcuno componesse il codice per aprire la porta del numero 10. Corinne Rey è servita a
questo. La sua testimonianza sul francese “ perfetto” degli assassini accende tante ipotesi:
molti immigrati arabi parlano un buon francese. Ma si può escludere che si trattasse di
autentici francesi convertiti all’Islam, come quelli che hanno raggiunto il califfato in Siria?
Stando alle ultime notizie si tratta di tre uomini, due fratelli di 34 e 32 anni, e un giovanotto
di 18, franco-algerini con una lunga esperienza in Siria e Iraq.
Lo stile terrorista, nonostante il richiamo ad Al Qaeda, è più simile a quello di Daesh, il
califfato. C’è la sinistra teatralità che vuole ferire i sentimenti occidentali, impaurire la
società e suscitare l’adesione dei virtuali jihadisti. Ai gruppi sparsi che si richiamavano un
tempo ad Al Qaeda, che non erano diretti ma ispirati dall’organizzazione di Bin Laden,
sono succeduti probabilmente gruppi ispirati dal califfato. Il quale con i video delle
decapitazioni e i successi militari in Siria e in Iraq colpisce molto più gli islamisti sparsi nel
mondo.
Charlie Hebdo era un obiettivo spettacolare. Come sinistramente spettacolari erano le gole
tagliate mostrate al mondo intero. Ma quel che stupisce è il rigido comportamento degli
assassini, dietro il quale c’è un addestramento che fa immaginare un’adeguata
organizzazione. E non il fanatismo dei kamikaze finora protagonisti degli attentati.
Dopo avere compiuto la strage i due uomini in nero hanno dimostrato, appunto, il sangue
freddo di militari preparati ad azioni di commando. Non sono saliti sull’automobile con la
fretta di chi fugge. Uno di loro ha raggiunto un poliziotto ferito mentre li inseguiva. Era
steso sul marciapiede e il terrorista gli ha sparato alla nuca. Il secondo terrorista deve
avere perduto una scarpa, perché ne ha raccolta una di tela sull’asfalto. Poi sono saliti in
macchina e si sono diretti verso la Porta di Pantin, dove hanno rapinato un’altra macchina
e con l’autista ancora a bordo si sono dileguati. Era tutto calcolato. Avevano scelto
l’itinerario da seguire per sfuggire alla caccia scatenata dalla polizia. Alle spalle si sono
lasciati gli 11 cadaveri, poi diventati 12, e 8 feriti dei quali alcuni gravi.
Nel parlare delle vittime Corinne Rey nomina per primo Wolinski. E’ stato il primo ad
essere colpito ? Georges Wolinski aveva 80 anni ed era un disegnatore celebre da tempo.
Le sue caricature erano forti. Era un simpatico provocatore. Quando cronista lo trovavo su
un avvenimento alla ricerca di un’ispirazione per i suoi disegni mi rimproverava di essere
un moderato. Leggeva l’italiano. La madre era un’italo- francese di Tunisia e il padre un
ebreo. Se stentava a fare un disegno ed era colto dalla collera gettava il foglio contro il
computer e diceva : « Sbrigatela con lui ». Jean Cabut, detto Cabu, aveva 76 anni.
Bernard Verlac, detto Tignus, ne aveva 57. Stephan Charbonnet, direttore del giornale,
che firmava le caricature con lo pseudonimo Charb, ne aveva 10 di meno. Erano i
disegnatori più famosi di Charlie Hebdo . I quali non risparmiavano le caricature di
Maometto ai musulmani, ma neppure quelle del Papa ai cattolici, e quelle dei rabbini, o dei
dirigenti israeliani, agli ebrei. Erano uomini che praticavano humor e sfacciataggine con
l’obiettivo di suscitare risate. Un modo per relativizzare i fatti della vita, e in particolare
della politica. Così praticavano la laicità. Non mancavano di coraggio perché le minacce
6
piovevano sul loro giornale da anni. Il loro giornale era una trincea avanzata della libertà
d’opinione. I poliziotti di guardia alla redazione non erano una protezione rassicurante. Tra
i morti ci sono anche 2 agenti.
Il presidente della Repubblica è accorso in rue Nicolas – Appert, quando i feriti venivano
ancora curati sul posto, e ha subito lanciato un appello all’unità nazionale. Poi ripetuto in
serata in un discorso televisivo rivolto alla nazione. Hanno imitato François Hollande i
rappresentati delle varie religioni a porte chiuse, nel palazzo dell’Eliseo. Quelli musulmani
hanno pubblicamente condannato con forza la strage e ribadito la loro fede repubblicana. I
musulmani in Francia sono 6 milioni. La cifra non è ufficiale perché non ci sono censimenti
sull’ appartenenza religiosa dei cittadini. Sono proibiti. L’islamofobia cresce tuttavia e si
traduce spesso in successi elettorali per l’estrema destra. Il Front National di Marine Le
Pen, pur avendo sfrondato il linguaggio del vecchio Jean Marie, il padre fondatore che non
rinunciava al razzismo, antisemitismo compreso, ha conservato una netta posizione antiimmigrati. Come la Lega italiana di Salvini, sua alleata. La strage nella redazione di
Charlie Hebdo non può che favorire la crescita del Front National, al quale viene già
aggiudicato un 30 per cento virtuale alle prossime elezioni presidenziali.
La caccia agli assassini si è estesa a tutta la regione parigina. Le periferie popolate di
immigrati musulmani non sono state certamente trascurate. Ma la preoccupazione
maggiore è di risparmiare un’eccessiva frustrazione dei milioni di magrebini dispersi nel
paese. E di evitare soprattutto incidenti tra comunità. Le piazze di molte città, da Lione a
Tolosa, si sono riempite per esprimere solidarietà a Charlie Hebdo . La folla agitava cartelli
su cui erano scritti, insieme al titolo del settimanale, i nomi dei disegnatori uccisi. Il trauma
nazionale è forte. Le misure di sicurezza adottate in molte scuole e istituzioni pubbliche
hanno dato la sensazione che la minaccia di altri attentati sia reale. Del resto lo stesso
Hollande ha detto che negli ultimi giorni ne sono stati sventati parecchi.
La strage di Charlie Hebdo è avvenuta in un momento in cui il problema della presenza
islamica in Francia viene dibattuto con passione. Il libro del giornalista Eric Zemmour , dal
titolo Suicidio francese , descrive la presenza dei musulmani una calamità, di cui sarebbe
bene liberarsi. Il saggio panfletario ha venduto più di 100mila copie, tallonando le opere
del Premio Nobel, Patrick Modiano. Un romanzo di grande successo già dalle prime ore di
uscita nelle librerie, Sottomissione di Michel Houellebecq, descrive una Francia governata
nel 2022 da un presidente musulmano, che con spirito tollerante sopporta l’opposizione
del Front National, solo partito sopravvissuto a quelli tradizionali. La democrazia
musulmana non esclude la poligamia, l’emarginazione della donna, ed altri precetti del
Corano, adeguati alla società europea, rassegnata al nuovo potere. Il paradossale talento
di Houellebecq occupava nelle ore precedenti alla strage di rue Nicolas-Appert radio e
televisioni sollevando dibattiti : contestazioni e approvazioni : e attizzando i timori, le
paure, di milioni di ascoltatori e telespettatori non tutti esenti dall’angoscia suscitata dalla
presenza islamica, presentata come un suicidio della Francia o una Sottomissione
europea, come dicono i titoli di Zemmour e di Houellebecq. Le due opere, di diverso
valore, appaiono adesso come un commento preventivo alla strage.
del 08/01/14, pag. 4
“Sangue e cadaveri la redazione sembrava un
campo di battaglia”
7
Nel palazzo dell’agguato: raffiche all’ora della riunione Ma l’azione era
partita con un errore sull’indirizzo
ANAIS GINORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI
«DIMMI che non è vero. Stéphane non è morto». La moglie di Stéphane Charbonnier
cammina sul sangue, riesce a fendere i cordoni di sicurezza. Chiede di salire negli uffici di
Charlie Hebdo, al secondo piano. «Lo voglio vedere. Fatemelo vedere». Suo marito, alias
Charb, era il direttore del settimanale satirico. Aveva 48 anni. «Meglio di no, madame»
risponde un poliziotto che subito tace. Dovrebbe aggiungere: non è più una redazione,
madame, è un campo di battaglia. I primi soccorritori sono rimasti sotto choc. «Non
abbiamo potuto fare nulla, erano tutti morti », racconta Solange, che partecipa
all’accoglienza delle persone ferite sulle scale, nell’androne, in strada. L’ospedale di
emergenza è allestito in un popolare teatro. Ieri mattina un infame regista ha voluto calare
il sipario sulla Francia.
La Comédie Bastille, proprio di fronte alla sede di Charlie Hebdo, è diventata l’unità di crisi
di medici e investigatori che smistano testimonianze, organizzano i prelievi, raccolgono i
bossoli a terra. Gli psicologi dovrebbero dare supporto ai sopravvissuti, ma anche loro
vacillano. Non esistono parole giuste. Offrono coperte termiche, forse pensando che aiuti
a sopportare una misteriosa calamità, qualcosa di umanamente incomprensibile. La rue
Nicolas Appert, vicino a Bastille, è una piccola strada a traffico limitato. Un posto dove i
bambini del quartiere vengono a giocare. «All’inizio pensavo fossero petardi di ragazzi»
spiega Sandrine Tolotti, caporedattrice del mensile Books. «Mi sono affacciata alla finestra
e ho capito ». È entrata pochi istanti dopo la sparatoria nella redazione in un silenzio
irreale. I colleghi di Charlie Hebdo sono sempre pronti a scherzare, offrire un caffè, una
scapigliata famiglia. «Non c’era più nessuno, a parte i cadaveri». La palazzina di proprietà
del comune è una cittadella di media. Proprio di fronte a Charlie Hebdo, c’è la sede la
redazione dell’agenzia Première Ligne. Martin Boudot ha sentito un collega entrare
urlando: «Kalach!, kalach!». «Abbiamo sbarrato la porta con sedie e tavoli — continua — e
siamo saliti sul tetto».
L’intero perimetro è ormai transennato, operatori e fotografi sono tenuti fuori. François
Hollande arriva davanti al palazzo, non sale. Si fa raccontare tutto dai poliziotti.
«Presidente, è il più grave attentato dal dopoguerra», dice un agente. Un altro funzionario
chiosa: «È il nostro 11 settembre». Un dirigente del ministero dell’Interno sente che c’è un
video in cui è filmata l’esecuzione del secondo poliziotto. «Me ne sbatto del video. Voglio
trovarli, hanno ucciso giornalisti e poliziotti. Hanno attaccato i simboli della Francia ».
Alain, che ha un atelier al pianoterra dell’edificio, era uscito a prendere un caffè. «In un
attimo, è stata la guerra».
Un commando militare. «Erano così professionali che li ho scambiati per forze speciali che
inseguivano trafficanti di droga» spiega Richard, venuto a fare una vista medica nel
palazzo. Gli attentatori sapevano che ogni mercoledì mattina si svolge la riunione del
settimanale. Andavano a colpo sicuro. Intorno alle undici mettono in atto il loro piano,
compiendo un primo errore: due uomini entrano al civico 6 e non al 10. Un terzo uomo
resta in strada. Minacciano il portiere, lo uccidono, si dirigono verso la sede del giornale. In
fondo a un corridoio c’è la porta blindata. Ha un codice di sicurezza. I due uomini
s’imbattono nella vignettista Corinne Rey, che si firma Coco. «Ero andata a cercare mia
figlia all’asilo — racconta — . Tornando in redazione, davanti alla porta del palazzo del
giornale, due uomini incappucciati e armati ci hanno brutalmente minacciato». La donna
presa in ostaggio li porta in redazione. «Volevano entrare. Ho aperto la porta con il codice
numerico ». La sala di riunione è all’ingresso, sulla sinistra. Gli attentatori cercano
8
Stéphane Charbon- nier. «Dov’è Charb? Dov’è Charb?», ripetono chiamandolo con il
nome di penna. Colpiscono Charb e la sua guardia del corpo. La raffica di kalashnikov
prosegue. Intorno al tavolo non sopravvive nessuno: i vignettisti Georges Wolinski, Jean
Cabut, in arte Cabu, e Bernard Verlhac, detto Tignous. Almeno una trentina di colpi nella
redazione. Muore anche un grafico, l’economista Bernard Maris che collaborava con il
gior- nale e un lettore invitato. Gli attentatori urlano “Allahu Akbar”, Dio è Grande, e
“Abbiamo vendicato il Profeta”. La disegnatrice Coco ricorda: «Mi ero rifugiata sotto la
scrivania. Parlavano perfettamente francese. Dicevano di essere di Al Qaeda».
Gli attentatori scendono in strada. Comincia la sparatoria con la polizia, ripresa in un video
di giornalisti di Première Ligne rifugiati sul tetto. La Citroën nera avanza fino a boulevard
Richard-Lenoir. Un agente viene ferito. Cade a terra. Uno degli attentatori si avvicina. Gli
spara addosso il colpo di grazia. Nel video ripreso da un abitante del quartiere si sente che
ripete «abbiamo vendicato il Profeta » e «abbiamo ucciso Charlie Hebdo». Gli attentatori
proseguono verso nordest, l’auto ha un primo tamponamento in place du Colonel Fabien.
La macchina viene abbandonata in una strada adiacente. Il commando sequestra un’altra
auto privata, una Clio grigia. Alle 13 si perdono le loro tracce. In serata arriva la notizia di
tre persone identificate a Jennevillieres.
In rue Nicolas Appert scende la nebbia. A tarda sera, Delphine posa a terra una rosa. È
una fedele lettrice di Charlie Hebdo. Partecipa anche lei al pellegrinaggio laico vicino alla
sede del giornale, ancora circondata dai poliziotti. «È sconvolgente », dice. «Come si può
attaccare un giornale che difende i nostri valori repubblicani?». Sulla facciata del palazzo
di fronte alla redazione di Charlie Hebdo c’è un gigantesco graffito. Forse Charb e gli altri
“eroi”, parole di Hollande, guardavano spesso dalle loro finestre questo affresco: un
porticato oltre il quale si intravede il mare. Un orizzonte di libertà mai così prezioso.
del 08/01/15, pag. 6
Caccia ai killer in nero dalla banlieue a Reims
dieci ore per stanare i fratelli del terrore
Sarebbero Said e Cherif Kouachi e un giovane complice Già seguiti
dalla polizia, avevano combattuto in Siria
PAOLO BERIZZI
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI
HANNO attaccato come i cobra e sono fuggiti come lepri braccate. Per tutto il giorno li
davano rintanati in un buco del «93», Seine-Saint-Denis, la banlieue più criminale di
Francia. Invece erano già lontano dalla suburra parigina, perché sapevano che era lì che
avrebbero iniziato a dargli la caccia: 3 mila uomini armati fino ai denti, poliziotti, gendarmi,
le unità speciali dell’esercito. Li hanno stanati dieci ore dopo il massacro i boia con il
passamontagna in testa e il fucile sguainato a mo’ di scimitarra. Li avrebbero identificati da
un documento abbandonato nell’auto usata per la fuga. Un sito israeliano e fonti Usa citate
da Nbc — ma la polizia francese smentisce — dicono che due sarebbero stati arrestati,
uno ucciso.
Eccoli, i sospettati sono i fratelli franco algerini, Said e Chérif Kouachi, 34 e 32 anni. Sono
nati a Parigi e hanno gravitato a Jennevilliers, nella regione dell’Île-de-France come il loro
complice, Hamid M., un diciannovenne senza fissa dimora. Sul loro profilo si sa ancora
poco. Una cosa sarebbe confermata: si sono fatti le ossa in Siria, nei feudi del califfato.
9
Terroristi spietati, addestrati per fare una strage. Per lavare col sangue l’onta di Charlie
Hebdo. A sera le teste di cuoio hanno individuato gli attentatori a Reims, 140 chilometri da
Parigi. Un’operazione, in tre luoghi diversi, nel quartiere Croix Rouge dove la polizia ha
circondato un edificio vicino a un liceo e a Charleville-Mezières dove è stata fermato un
familiare dei sospettati. Uno dei tre terroristi era già noto alla polizia: nel 2005 è stato
arrestato — mentre stava partendo per Damasco — nel corso di un’operazione contro una
filiera jihadista irachena con base nel 19mo arrondissement di Parigi. Lo stesso luogo
dove ieri a mezzogiorno gli assalitori hanno fatto perdere le loro tracce.
Chi sono? Come hanno agito? Si vede che sono cecchini abituati al combattimento a corto
raggio, il più ravvicinato: avanzano, piombano sulla vittima, la falciano, e si ritraggono. Un
primo assalto. Poi ancora. Cinquanta metri dopo. Scatenano l’inferno dosando la
scansione dei tempi, la velocità del sangue: prima fulminei, da piano terra al secondo
piano della redazione di Charlie Hebdo. Riscesi in strada rallentano, una molla che ripiega,
freddi, calmi nella loro ferocia, mai in confusione. Scaricano una pioggia di proiettili
sull’auto della polizia: siamo ancora su rue Nicolas Appert. Gli agenti sono costretti a
indietreggiare, e intanto c’è un altro «agnello», l’agente di polizia Ahamed, che sta
andando incontro alla morte distribuita dai «vendicatori del profeta Maometto». Tre,
secondo il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. I due franco-algerini e un terzo
giovane che li ha aiutati. Spostiamoci in boulevard Richard Lenoi. Lì, nel video girato
dall’alto, li vedi bene. L’agente Ahamed è a terra, ferito dalla prima sventagliata di
kalashnikov. Loro mollano la Citroen C3 nera in mezzo alla strada e «prendono» la scena,
il fronte. Sparano a alzo zero. Uno dei due plana sul poliziotto e finisce il lavoro con un
colpo in testa. Adesso possono tornare in macchina, senza troppa fretta.
«E’ gente che è stata formata nei territori si- riani», dice nel pomeriggio l’esperto di
terrorismo Claude Moniquet. Tengono i fucili vicini al corpo protetto da tenute antiproiettile;
li maneggiano con una destrezza impressionante. Non importa se parlano perfettamente il
francese — come ha riferito la vignettista Coco — o se, ed è la sensazione acustica che si
ricava ascoltando le voci nel video che ha ripreso pezzi del massacro, il loro è un francese
«sporco».
Terroristi dell’Isis? Esecutori di Al Qaeda? «La vendetta per il profeta Maometto è solo agli
inizi — ha twittato in serata uno jihadista del califfato nero — andremo avanti fino a
quando non li avremo sterminati tutti, assieme all’ultimo dei loro governi». Per i media
arabi, ma tutto è ancora da riscontrare, è il testo della «rivendicazione della strage». Una
macelleria che si consuma dentro 40 minuti di follia. Fino all’ultima immagine. Ore 12,30:
Porte de Pantin. Nord-Est di Parigi. Dopo una corsa a 200 km all’ora per le strade della
città, la Citroen nera degli attentatori tampona una Volkswagen e investe un pedone.
Siamo al confine con il 19esimo arrondissement. Dove inizia a affacciarsi una delle
possibili tane, magari per un primo “passaggio”: quella banlieue Seine-Saint-Denis che
verrà setacciata per tutto il giorno anche dai reparti speciali delle forze di sicurezza. Il
commando molla la prima auto in rue de Meaux: scatta la staffetta con una Renault Clio
grigia. E qui le tracce dei terroristi sfumano. Parigi è una città blindata, paralizzata dalla
paura. Gli agenti della brigata «anti-gang» perquisiscono appartamenti a Jennevilliers e a
Pantin. È trascorsa la lunga notte del 7 gennaio. La drammatica profezia di Stéphane
Charbonnier, direttore del «Charlie», «Charb», come si firmava, si è compiuta. «Ancora
niente attentati in Francia» recitava ieri mattina la sua ultima vignetta. Sotto, la risposta di
un terrorista islamico con il fucile in spalla: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di
gennaio per farvi i nostri auguri».
10
del 08/01/15, pag. 1/13
Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello del radicalismo
laico e repubblicano, molto solido in Francia. Con una forte innervatura
sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito
sessantottardo ma ben presente anche prima, lungo Nove e Ottocento
Nella strage delle matite i giovani fanatici
giustiziano i vecchi libertini
MICHELE SERRA
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino,
è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla
fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle
vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali
anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges
Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a
licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne
al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due
imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai
fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello,
così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura
sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben
presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista
fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti
e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi
un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo
orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso
numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra
perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del
giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la
strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli
come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso
esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva
non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La
lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman
Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo
primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti
islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di
immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi
compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina.
Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le
cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto
immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della
insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei
morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà).
11
Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul
rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non
può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un
passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da
disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa
carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in
questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo
grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più
vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la
trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente
appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean
Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio
politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e
a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue
Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali
italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla
pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai,
neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come
europei, alla Francia e a Parigi.
Dell’8/01/2015, pag. 3
Una strage che viene da lontano
I precedenti. L’attentato al museo ebraico di Bruxelles a giugno, la redazione
bruciata nel 2011. Il giornale era nel mirino dal 2006. Un mese fa un turista
decapitato in Algeria. E Le Pen cavalca l’anti-islamismo
Angelo Mastrandrea
Se dovessimo andare alla ricerca delle avvisaglie di questa sorta di 11 settembre francese
che è stata la strage di ieri a Parigi, non si può non tenere in considerazione il fatto che il
Charlie Hebdo era nel mirino dell’estremismo islamico fin dal settembre 2005, quando il
giornale satirico parigino decise di mettere in pagina le caricature di Maometto pubblicate
dal danese Jylland Posten e considerate «blasfeme» da tutto il mondo islamico. La satira
sul Profeta provocò violente proteste di piazza e assalti alle ambasciate che causarono un
centinaio di morti in tutto il mondo.
Chi ha buona memoria ricorderà che, in Italia, a gettare benzina sul fuoco ci pensò l’allora
ministro per le Riforme, Roberto Calderoli, che si presentò in tv con una t-shirt che riproduceva le vignette, generando un’esplosione di rabbia e alcuni morti a Bengasi, nella Libia
ancora gheddafiana. Le vignette incriminate furono poi acquisite dalla Biblioteca reale
danese e finirono in un Museo dei fumetti. Ma nel frattempo, l’11 febbraio del 2008, i servizi segreti bloccarono ad Aarhus quattro presunti jihadisti, sospettati di preparare un
attentato a uno dei vignettisti, il settantatreenne Kurt Westergaard, che aveva ritratto Maometto con una bomba nel turbante.
Anche il Charlie Hebdo divenne un target: alla fine del 2011 la redazione fu completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale finì vittima di un attacco hacker
dopo un numero speciale denominato «Sharia Hebdo». Per un periodo i giornalisti furono
ospitati dal quotidiano Libération. Che il giornale fosse ad altissimo rischio era cosa risa12
puta da anni, dunque, al punto che davanti alla redazione di regola stazionavano un paio
di agenti di polizia, un po’ com’era accaduto al manifesto dopo la bomba neofascista del
2000. Ma le misure di sicurezza non sono bastate.
Se si volesse andare invece alla ricerca di qualche segnale più vicino nel tempo, non si
può non partire da quanto accaduto alla vigilia delle ultime elezioni europee a Bruxelles,
quando un uomo armato di kalashnikov era entrato nel Museo ebraico e ucciso quattro
persone, tra i quali due visitatori israeliani. Una decina di giorni dopo l’autore della strage
fu arrestato a Marsiglia, ma non è mai stato chiarito se avesse agito da solo e chi fossero
i mandanti. Quel che è interessante è però la ricostruzione del profilo dell’attentatore.
Mehdi Nemmouche, un ventinovenne di origini tunisine ma con passaporto francese,
veniva da Roubaix, la città più povera e con il più alto tasso di disoccupazione della Francia. Era stato arrestato cinque volte e condannato sette, sempre per reati comuni. Non
propriamente il curriculum di un estremista islamico, piuttosto quello di un giovane che
vive di espedienti in una realtà difficile. Ma Nemmouche, uscito dal carcere, alla fine del
2012 aveva fatto perdere ogni traccia di sé e con ogni probabilità era finito in Siria. Al
ritorno, era un altro uomo, addestrato a colpire in Europa. Il giorno dell’arresto gli fu sequestrato un kalashnikov avvolto in un telo nero con lo stemma dello Stato islamico in Iraq
e nel Levante. È quest’ultima dinamica che, forse, riesce a spiegare più di tutte come
i reclutatori dell’islamismo più intransigente riescono a trarre linfa dal malcontento delle
periferie francesi. È nella banlieue parigina di Clichy-sous-Bois che, nel 2006, la morte di
due minorenni, fulminati in una cabina elettrica nella quale avevano cercato riparo per
sfuggire alla polizia, aveva provocato una rivolta che aveva mostrato come la Francia
fosse già un gigante malato, dai gravi problemi sociali. Che il Paese fosse nel mirino degli
estremisti islamici (legati alla galassia di Al Qaeda o al recente Isis) era chiaro dopo le
minacce per l’intervento armato in Mali, lo scorso anno, e dopo la decapitazione, un mese
fa in Algeria, di un turista, Hervé Gourdel. Meno pregnanti e forse solo significativi di un
clima di scontro nel quale anche il gesto di un folle può risultare politicizzato, invece,
paiono le azioni disperate come quella di un lupo solitario di 44 anni che lo scorso Natale
ha accelerato con il suo furgone fino a schiantarsi contro un chioschetto che vendeva vin
brulé in un mercatino natalizio, travolgendo undici persone e uccidendone una, o dello
squilibrato che a Digione ha investito tredici passanti con la sua auto. Testimonianze di
una Francia sull’orlo di una crisi di nervi, dove l’estrema destra di Marine Le Pen cavalca
la marea anti-islamista che monta in tutta Europa e si candida a governare un Paese in
guerra con se stesso.
del 08/01/15, pag. 7
“Agiranno ancora” sale l’allerta in Europa per
i miliziani di ritorno
CARLO BONINI
ROMA . Nel sangue di Parigi annega l’illusione che esista un angolo di Europa immune ai
macellai del radicalismo islamico. E nelle ore complicate che seguono il massacro della
redazione del Charlie Hebdo, nella prima identificazione dei componenti del commando
stragista, accade che nella comunità degli apparati della sicurezza, torni a materializzarsi
l’incubo dei foreign fighters agitato nelle decapitazioni rituali dell’Is e accreditato negli
ultimi sei mesi dal lavoro dei Servizi segreti e dalle polizie di mezza Europa: «Porteremo la
guerra nel cortile delle vostre case ».
13
Di più: accade che si assuma quale ragionevole certezza — come osserva una fonte
qualificata della nostra Intelligence — che «i “ neri” torneranno a colpire». «Poco importa,
poi, se rivendicando a sé il franchising del marchio di Al Qaeda o quello del Califfato di Al
Baghdadi, o di Al Qaeda del Maghreb islamico». Anche se prevedere il dove, il come e il
quando diventa esercizio ozioso, almeno in assenza di indicazioni concrete e specifiche
della minaccia. Salvo non voler utilizzare come bussola quella che, già alla vigilia di ieri,
collocava la Francia al vertice della piramide del rischio, subito sopra la Gran Bretagna e i
Paesi scandinavi.
Del resto, se è vero che esiste uno «specifico francese» nella strage (a cominciare dalla
scelta e dalla storia dell’obiettivo), è altrettanto vero che l’assalto di ieri parla a tutte le
capitali europee per la “qualità” della minaccia che documenta. «Il commando —
argomentano due diverse fonti della nostra Antiterrorismo — si è mosso dimostrando
indubbie capacità paramilitari. Stavolta non hanno colpito nel mucchio. E dunque non è un
caso che secondo le informazioni francesi dietro quei passamontagna neri si
nascondessero cittadini francesi foreign fighters di rientro dal teatro di guerra SirianoIracheno, di cui per altro la Francia detiene il primato europeo. Insomma, per freddare un
uomo a terra o per esplodere una raffica di 12 colpi sul parabrezza di un auto con un
diametro della “rosa” non superiore a 25 centimetri, bisogna aver avuto in mano un
kalashnikov per lungo tempo. Soprattutto, bisogna avere già ucciso ».
C’è dunque nella sua “militarizzazione”, nell’affinamento delle sue tecniche di morte, un
oggettivo salto di qualità della minaccia “asimmetrica”, già di per sé esiziale con i suoi “lupi
solitari” affamati di vendetta e capaci di auto-innescarsi. Ma c’è anche qualcosa di più. Il
rischio che, in una spirale di vendetta incontrollabile, il sangue “cristiano” di Parigi chiami
sangue “musulmano”. E non necessariamente in Francia, ma in altri angoli di Europa,
dove è forte il radicamento delle destre nazionaliste e dei sentimenti anti-islamici. E’ la
preoccupazione che si coglie nell’analisi di queste ore della nostra Intelligence. Non fosse
altro per gli effetti che uno scenario di questo tipo produrrebbe. «Significherebbe
consegnare in un colpo solo migliaia di musulmani tiepidi alla causa del radicalismo e
accendere l’Europa di infiniti focolai di odio. Esattamente quel che cerca l’Is».
Anche per questo, per tutta la giornata di ieri, e almeno per quanto concerne la nostra
dimensione “domestica”, sia Palazzo Chigi che il Viminale (dove il ministro dell’Interno ha
riunito d’urgenza il Comitato di analisi strategica antiterrorismo), che lo stesso direttore del
Dis, l’ambasciatore Giampiero Massolo, hanno fatto attenzione a restare in un sentiero
stretto. Se infatti sono state annunciate (lo ha fatto Alfano) misure di protezione rafforzate
soprattutto su potenziali obiettivi francesi nel nostro Paese (scuole, banche, linee aeree,
aziende, istituti di cultura), è stato anche contestualmente ribadito che «la qualità della
minaccia che riguarda l’Italia non è cambiata rispetto a due giorni fa». Che dunque il
nostro essere «oggettivamente a rischio » - «il livello di allerta è elevatissimo », ha
spiegato il ministro dell’Interno - non ha sin qui avuto alcun corollario in termini di
«minaccia specifica». Il punto, insomma, resta quello della nostra oggettiva “esposizione”
e dell’altrettanto oggettiva minaccia rappresentata appunto dai foreign fighters .
Un tema discusso ieri sera in consiglio dei Ministri subito dopo le indicazioni sul
commando arrivate da Parigi. Con una consapevolezza, per dirla con le parole di una
fonte qualificata di Palazzo Chigi: «Che contro questo tipo di terrorismo molecolare non c’è
difesa possibile. A meno di non voler rinnegare la nostra natura di democrazie».
14
Dell’8/01/2015, pag. 9
Isis, soldi e propaganda anti-occidentale per
reclutare nuovi adepti
Iraq/Siria. A differenza di al Qaeda, il califfo ha come obiettivo il
controllo dei territori occupati, non la guerra all'Occidente. Pubblicato il
budget 2015: una ricchezza da 2 miliardi di dollari che fa tremare anche
gli ex alleati del Golfo
Chiara Cruciati
<<Parlavano perfettamente francese. Dicevano di essere di al Qaeda». Questa la testimonianza dei sopravvissuti all’attacco al magazine Charlie Hebdo, nel cuore di Parigi, nel
cuore dell’Europa. Un attacco che risolleva la questione calda dei jihadisti di ritorno, estremisti europei che, dopo essersi uniti alle file dei gruppi islamisti mediorientali, addestrati
e stipendiati in Siria e Iraq, ritornano ai paesi di origine. Un fenomeno che preoccupa le
cancellerie europee, soprattutto alla luce dei numeri: secondo un rapporto di ottobre del
Consiglio di Sicurezza Onu, sarebbero 16mila i jihadisti stranieri tra Siria e Iraq.
Provenienti da oltre 80 paesi diversi e passati dallo scarsamente controllato confine turco,
attirati in Medio Oriente dalla moderna propaganda dello Stato Islamico e dalla ricchezza
economica del califfato, sono per lo più cittadini musulmani di seconda generazione, nati
e cresciuti in Europa, con un’elevata educazione alle spalle e spesso invischiati in crisi di
identità che il neonato califfo punta a risvegliare e traviare.
Perché, a differenza della madre abbandonata al Qaeda, che dalla lotta all’Occidente ha
fatto uno dei capisaldi della propria dottrina, all’Isis di attaccare l’Europa e gli Stati uniti
importa poco: l’obiettivo dichiarato del leader al-Baghdadi è la creazione di una nuova
entità politica e religiosa, il califfato, lo Stato Islamico, a cavallo tra Iraq e Siria dove dare
vita ad un governo fondato sulla Shari’a e sui lucrosi profitti derivanti dal controllo delle
risorse energetiche locali. E gli attacchi fuori restano nei confini del mondo arabo,
dall’Algeria alla Libia. In un tale contesto, la propaganda anti-occidentale diventa lo strumento di reclutamento di nuovi miliziani europei, il mezzo per attirarli e utilizzarli ai propri
fini. Che il loro ritorno in Europa possa tradursi in attacchi individuali fa il gioco di alBaghdadi, che rafforza così il proprio messaggio propagandistico.
L’elevata presenza di stranieri tra Siria e Iraq, definita dall’Onu «senza precedenti», è lo
specchio del proselitismo cosmopolita di al-Baghdadi, un linguaggio internazionale distribuito attraverso i social network, magazine online, video di moderna fattura che raccontano di come oggi lo Stato Islamico controlli sei milioni di persone tra Iraq e Siria, porzioni
di territorio più ampie di quelle effettivamente controllate dai governi di Baghdad
e Damasco. Alla macchina della propaganda, l’Isis affianca un budget che mai al Qaeda
ha raggiunto. Grazie all’iniziale e fondamentale finanziamento dei paesi del Golfo, Arabia
saudita in testa (che ha visto nei gruppi estremisti sunniti lo strumento per frenare l’asse
sciita guidato dall’Iran), oggi lo Stato Islamico gode di entrate quasi del tutto indipendenti,
frutto delle razzie compiute nelle banche, dei riscatti derivanti dalla presa di ostaggi locali
e occidentali e della vendita a prezzi stracciati del petrolio iracheno.
Secondo ex jihadisti intervistati dopo aver abbandonato l’Isis, il califfato è in grado di
pagare stipendi fissi ai miliziani stranieri, da un minimo di 400 dollari a 1.200. Tanti soldi
che spesso hanno spinto membri del Fronte al-Nusra e del moderato Esercito Libero
Siriano a cambiare bandiera e arruolarsi con l’Isis. A riprova di tale ricchezza c’è il budget
interno reso pubblico dallo stesso Stato Islamico: nel 2015 il califfato godrà di due miliardi
15
di dollari, che saranno impiegati nella copertura degli stipendi dei miliziani e i risarcimenti
alle famiglie dei caduti. Resterà un surplus di 250 milioni di dollari (secondo un calcolo
considerato credibile da think tank arabi e europei) per coprire i costi della continua avanzata militare e che sarà amministrato dalla prima banca del califfato a Mosul.
E se a fondare le basi economiche e militari dell’Isis è stata anche Riyadh, oggi l’Arabia
saudita è tra i paesi che pagano le spese del jihadismo di ritorno. In un’intervista del 29
agosto scorso al manifesto l’analista palestinese Rabbani, condirettore del think
tank Jadaliyya, lo aveva previsto: «Nell’ultimo decennio gran parte dei miliziani dei gruppi
radicali sono arrivati dal Golfo: seppure manchino prove inconfutabili di un reclutamento di
nuovi jihadisti da parte di Riyadh o Doha, sicuramente non sono stati fermati. Il Golfo
è stato il primo sponsor di questi gruppi nel tentativo di far fruttare i propri interessi nella
regione e di indirizzare le loro energie fuori dai propri confini. Ora il timore è che possano
tornare indietro. In Arabia Saudita succede già».
del 08/01/15, pag. 5
Sono tornati i boia dalla Siria per toglierci le
nostre illusioni
Per colpire hanno scelto il simbolo “blasfemo” della società occidentale
Domenico Quirico
Non l’hanno scelta a caso, Parigi. Oh non per punirla della guerra nel Sahara contro gli
islamisti o per le bombe dei Rafale sparse in Iraq. E neppure per le banlieue derelitte
zeppe di un lumpenproletariat musulmano. Hanno scelto Parigi perché in nessuna altra
città il nostro mondo, circondato dai vortici della bufera, sembra apparentemente protetto
da una bonaccia dove non c’è vela che sbatte o si muove. Una città-museo, sì, che ci
avvolge, il nostro modo di vivere la nostra storia la nostra civiltà, in un’uniforme calma
protettrice: la si attraversa, appunto, le sale di una esposizione, viva, di ciò che vogliamo
essere, un qualcosa di stranamente metafisico come il pensiero di un dietro a tutto e dopo
tutto: l’immensa pace del passato che è pace appunto perché è passata, quella pace
trasparente che tiene ogni cosa al suo posto, non permette che il tumulto venga alla
superficie.
Diversi da Bin Laden
Quello che volevano violare è appunto ciò che resta, il riflesso della affascinante illusione
del nostro mondo, l’illusione di vivere in eterno se riusciamo a toglierci la pelle di serpente
di ciò che ci sta intorno e ci assedia. Ora il califfato islamico è, anche, qui. Ma attenti, non
con il terrore cieco: veniamo da voi, ci hanno detto, con un atto di guerra. Quella che vi
abbiamo dichiarato.
Una volta, ai tempi di Bin Laden, organo criminale occulto, avrebbero istigato qualche
solitario, con un’arma e dell’esplosivo: avrebbe cercato un luogo frequentato, la
metropolitana una banca un deposito di bus, avrebbe sparato a viso scoperto, alla cieca,
preso ostaggi, li avrebbe uccisi e, alla fine, si sarebbe immolato gridando un funebre
messaggio di vittoria al suo dio. La Francia ha conosciuto tutto questo. Una volta. Prima.
Prima del califfato.
Guerra, non attentato
Temevamo il jihadista della porta accanto, anonimo, non identificabile. E invece hanno
mandato i professionisti della guerra santa. Sì, il boia del povero Foley è tornato a casa,
ma non è un reduce che si nasconde o vuole farsi martire. È tornato per continuare la
16
guerra, qui e ora. Sono probabilmente giovani francesi che vivono nella guerra da due, tre
anni, in Siria e in Iraq, gli uomini del commando che ha attaccato la redazione del giornale
satirico: come i comunisti che parteciparono alla guerra di Spagna. La loro vita, il loro
mestiere è la rivoluzione mondiale, bolscevichi verdi, ma questa volta non con la bandiera
rossa; con quella nera dell’islam radicale. Al motto proletari di tutto il mondo unitevi si è
sostituito «non c’è altro dio fuori che dio». Ancor più implacabile perché coinvolge non una
verità umana seppur santificata ma l’intervento divino diretto nelle vicende della storia.
Sono nati tra noi, noi in fondo li abbiamo portati a essere ciò che sono, a Raqqa e a Mosul
non hanno fatto altro che dar loro un kalashnikov e un addestramento. Hanno loro
insegnato a dividere il mondo: noi e loro.
Noi e l’Altro: quante volte lo abbiamo visto in azione, questo ingranaggio, nell’ex
Jugoslavia, in Ruanda… Ecco: un gran numero di individui comincia a credere o vuole
credere di appartenere a qualcosa di unitario e distinto, la razza la nazione la vera fede. Si
sono costruiti un criterio identitario che gli serve da conchiglia di sicurezza per attraversare
tempi torbidi. A questo punto il percorso comincia a divenire irreversibile, quando si
abbandonano le proprie identità individuali per fondersi in quella che ormai è diventata la
comunità: noi siamo il vero islam, non più marocchini o afghani, iracheni o francesi, ma
uomini di dio. È una corrente che unisce la violenza barbara del Medioevo e le raffinatezze
sistematiche dei totalitarismi moderni.
Come soldati
Non voglio immolarsi, come i terroristi di Al Qaeda: vogliono vincere, creare la società
perfetta ma per inebriarsene, qui e ora non in paradisi remotissimi. In fondo la follia
fanatica, il terrore cieco ci aiutava a resistervi: la sua enormità è la prova stessa della sua
arbitrarietà. È anormale, quindi non esiste. La morte che ci guarda dagli occhi spenti dei
folli è una morte viva quasi ancora più incomprensibile di quell’altra la morte senza vita.
Ma questa volta gli assassini erano un commando, mascherato per non farsi identificare,
che ha scelto il bersaglio (la satira, un altro frammento della nostra perenne occidentale
blasfemia…), portato a termine la missione con precisione spietata. Ecco la differenza: se
ne sono andati, misteriosi, implacabili. Assomigliano ai corpi speciali a cui abbiamo
affidato la guerra renitente che conduciamo contro lo Stato islamico.
Non si sono uccisi, non hanno srotolato bandiere nere e proclami, non hanno costruito uno
spettacolare martirio. Sono «soldati»: pronti per un’altra azione, per obbedire ad altri ordini
tremendi.
del 08/01/15, pag. 1/9
LA STRAGE DI PARIGI
Il fermo immagine del poliziotto ferito al suolo e finito con naturalezza
meccanica dallo sparatore, indifferente al braccio alzato in cerca di
pietà, ha un’invincibile doppiezza: noi lo guardiamo con raccapriccio,
ma altri avranno esultato
Il fondamentalista e l’agente Ahmed uccidere
e morire in nome di Allah
ADRIANO SOFRI
GLI assassini urlavano “Allahu Akbar”, il poliziotto si chiamava Ahmed. Quando ieri le
aperture in rete dei giornali hanno scelto il fermo immagine del poliziotto ferito al suolo,
17
raggiunto e finito con indifferente esattezza dal suo sparatore, non conoscevano il nome
del morente. Si chiamava Ahmed, dunque quando ha avuto ancora la forza di alzare un
braccio, forse per un gesto estremo di protezione, forse per chiedere pietà — che cosa c’è
di più umano che aspettarsi pietà anche dal proprio assassino? — può aver pronunciato
anche lui, in altro tono, il nome di Allah?
Hanno ammazzato Wolinski e Ahmed, e gli altri. Non abbiamo, quando scrivo, immagini
dell’eccidio perpetrato dentro le stanze di Charlie Hebdo: meglio così, o forse no. Forse
avremmo dovuto guardarli questi efficienti vigliacchi mentre trucidavano — e chissà
quante lodi al loro Dio gridavano — uomini normalmente coraggiosi che facevano dei
disegni. Forse gli assassini avevano una telecamera incorporata e si metteranno in rete,
per riscuotere l’ovazione dei compagni di ideali. Le immagini hanno un’invincibile
doppiezza. Abbiamo il film della fucilerìa in strada, il poliziotto inerme e sgomento ferito da
lontano e finito mentre si torce al suolo. Gli assassini gli sono addosso di corsa, uno copre
dal centro della strada, l’altro gli dà il colpo di grazia, con una naturalezza meccanica,
come in un’esercitazione ripetuta cento volte, come in un videogioco. Gridano che Allah è
grande.
Guardiamo con raccapriccio. Altri avranno guardato con entusiasmo. Il terrorismo offre al
suo pubblico pagante due gratificazioni preziose: i nemici uccisi a saziare il loro odio,
l’efficienza sanguinaria a saziare la loro frustrazione. Fossero stati suicidi, avrebbero
guadagnato la venerazione che i “martiri” meritano da parte dei correligionari invasati.
Sono andati via vivi, agili, sicuri di sé, avendo ragione di tre successive pattuglie di polizia,
fino alla beffa: l’automobilista derubato che chiede e ottiene di tenersi il cagnolino. In una
parola: professionali. Vere teste di cuoio, al cui confronto i poliziotti fanno figura di
bravuomini allo sbaraglio. Sono anni che sentiamo parlare di guerra asimmetrica: non
sarebbe che un nuovo nome assegnato al divario fra le armate regolari, inceppate dalla
propria stessa potenza, e la guerra di guerriglia. Salvo che l’ebbrezza islamista ha messo
in scena la novità della ricerca del martirio: non l’antica eroica disposizione a sacrificare la
vita per un ideale — «siam pronti alla morte…» — ma il desiderio goloso di morire
uccidendo e guadagnarsi il premio.
Di questa guerra non si può venire a capo, la si può arginare, e tagliarle intanto sotto i
piedi l’erba di una cultura delirante. Ma il film di ieri dentro Parigi — la città di ognuno di noi
— ha mostrato una guerra asimmetrica alla rovescia. L’efficienza militare dispiegata dai
terroristi che soverchiava l’impotenza sbigottita della difesa di un grande Stato. Si capisce,
certo: chi decida di squarciare ferocemente l’ordine della vita quotidiana dispone di una
potenza provvisoriamente smisurata. Lo conosciamo anche dal nostro terrorismo. Il
precedente più agghiacciante, e più pertinente, è l’impresa di un uomo solo, Anders
Breivik 2011, cui riuscì una strage enorme, anche allora in due tappe, l’attentato nel centro
di Oslo e poi il massacro sull’isolotto di Utoya. Viltà e prodezza sanguinaria non sono
infatti in contrasto, e Breivik fece strage di ragazzi e uomini di ogni credo in nome della
sua crociata contro l’invasione islamista. Da allora l’infame non ha cessato di proclamare
che un giorno l’Occidente lo rivendicherà come il proprio antiveggente eroe e martire.
I servizi di scorta e di vigilanza si possono organizzare molto meglio, ma in una città libera
e serena gli assassini potranno sempre colpire e far male. L’asimmetria nella folla serena
delle democrazie gioca a loro vantaggio, se non a far che vincano, che sfoghino il loro
furore. Il commando di ieri non è di lupi solitari obbedienti all’appello jihadista a colpire
chiunque e dovunque. Ma ha comunque a che fare con la guerra di civiltà che infuria nel
vicino oriente, e non solo. Lì la cosiddetta guerra non è più solo asimmetrica, e rischia anzi
di esserlo anche lì alla rovescia.
C’è un terrorismo che si è fatto Stato, si è preso un territorio cancellandone i confini, ha
armamenti pesanti, esercita un richiamo su paesi molto più remoti. La sua propaganda si
18
fonda sull’impressione ipnotica di potenza, efferatezza e vittoria. La cosiddetta comunità
internazionale, che aveva lasciato andare la Siria allo sbaraglio per anni, ha esitato ed
esita ancora a stroncare la sfida jihadista, benché la forma che ha preso consenta una
resa dei conti più netta e risolutiva. L’inerzia verso la Siria spande nel mondo, compreso il
nostro, milioni di scacciati e spogliati. L’esitazione verso il Califfato tramuta gli invasati
nelle nostre città, commando agguerriti o lupi solitari, in sue avanguardie. Abbiamo ucciso
Charlie Hebdo , hanno gridato. Siamo tutti Charlie Hebdo , hanno scandito poi i cittadini
nelle piazze. Se solo riuscissimo a prenderlo sul serio.
del 08/01/15, pag. 1/14
In risposta alla strage di Parigi, la Francia dovrebbe lavorare mano nella
mano con i musulmani residenti sul territorio, riconoscendoli cittadini a
pieno titolo Ma l’ideologia dominante mette all’indice lo straniero
Trucidati i miei fratelli ma le vere vittime sono
gli islamici che vivono in pace
TAHAR BEN JELLOUN
DODICI morti e decine di feriti per «vendicare il Profeta»: così gli assassini che hanno
attaccato la sede di Charlie Hebdo giustificano il loro crimine. Ma né il Profeta (il suo
spirito), né alcun teologo serio li ha mai incitati a massacrare giornalisti liberi, impegnati
nel campo della satira, che mai hanno avuto riguardi per le religioni in genere. Dal 1905 la
Francia è un Paese laico, in cui la Chiesa è separata dallo Stato. Ma questo, i terroristi
armati e decisi a uccidere non lo riconoscono.
È il caso di ricordare le parole del Profeta Maometto, quando esortò i suoi soldati a recarsi
a Mu’ta, in Siria, a combattere contro i Gassanidi protetti dai Romani: «Andate in nome di
Dio. Combattete i nemici di Dio che sono vostri nemici. In Siria troverete monaci che
vivono nelle loro celle, lontano dalla gente: non li importunate. Troverete guerrieri votati a
Satana: combatteteli con la sciabola in mano. Non uccidete né donne, né bambini né
vecchi, non sradicate nessun albero o palma, non distruggete nessuna casa».
Non è la prima volta che i fondamentalisti musulmani aggrediscono un organo di stampa.
Quando Charlie Hebdo pubblicò le caricature del Profeta Maometto, il giornale e i suoi
redattori furono oggetto di minacce. Ma con l’attentato di mercoledì mattina si è passati a
un altro livello. I terroristi sono apparsi come guerrieri armati fino ai denti, e hanno ucciso
deliberatamente chiunque si trovasse sul posto. Purtroppo quel giorno tutte le maggiori
firme erano presenti. Per l’ultimo numero del giornale, Charb (che è tra le vittime) aveva
disegnato una vignetta alquanto provocatoria. Si vede un uomo armato di bombe, e Charb
gli dice: «Ancora niente attentati?» L’uomo risponde: «Aspetta, c’è tempo fino a fine
gennaio per fare gli auguri». Eccoli: li hanno fatti il 7 gennaio, alle 11.30. I miei amici Cabu
e Wolinski sono morti insieme ad altri dieci giornalisti. E ancora una volta si parlerà
dell’Islam. Sì, gli assassini hanno gridato «Allah Akbar», come per firmare il loro crimine.
Ma non è detto da nessuna parte che si debba assassinare chi non la pensa come voi.
Ovviamente il rettore della Moschea di Parigi ha condannato quest’atto barbarico, e molti
musulmani francesi hanno espresso tutto il loro orrore. Che altro fare? Una soluzione ci
sarebbe, ma per questo la Francia dovrebbe lavorare mano nella mano coi musulmani
residenti sul suo territorio, riconoscendoli e considerandoli come cittadini a pieno titolo,
19
integrandoli nei valori repubblicani. Perché di fatto quest’atto criminale è un attacco contro
l’Islam, contro i musulmani che vivono pacificamente in Europa.
Ma prima ancora dobbiamo ricordare che i questi ultimi tempi sembrava si fosse aperta
una caccia contro l’Islam e i musulmani, stigmatizzati in continuazione, segnati a dito ogni
volta che una certa Francia si lasciava andare allo sconforto e alla ricerca di capri
espiatori, per spiegare la crisi morale o la paura del futuro. C’era nell’aria qualcosa di
funesto, di malsano — umori e toni di razzismo trasudanti dalle pagine di alcuni libri che
hanno avuto un’eco notevole.
Si è fatto commercio con l’odio e la paura, le ossessioni e le crisi d’identità. Si sono presi
di mira gli immigrati extra-comunitari e l’Islam. Il Front National si fregava le mani vedendo
aumentare i propri voti alle elezioni parziali. L’ideologia dominante in questa Francia in
crisi, dove il morale della popolazione è basso e non si vedono soluzioni alla
disoccupazione e alla precarietà, si riduce a segnare a dito gli stranieri. Dopo il saggio sul
«Suicidio francese» di Éric Zemmour, ora è la volta dell’ultimo romanzo di Michel
Houellebecq, che pronostica per il 2020 un presidente della Repubblica musulmano.
La paura ha ormai preso piede. I musulmani sono stanchi di essere sospettati, ostaggi di
una crisi morale e identitaria. So- no i primi a essere inorriditi dalla barbarie dell’Is e di Al
Qaeda. E sono le prime vittime di questo terrorismo. La Francia sta pagando in qualche
modo il proprio impegno in Africa, in Siria e in Iraq. I suoi soldati combattono il terrorismo.
In Mali sono riusciti a farlo arretrare; l’aviazione francese ha messo a segno ogni
settimana diversi attacchi contro l’Is; e la portaerei Charles De Gaulle sarà inviata in
prossimità della Siria. La Francia è in guerra contro quest’Islam barbaro e deviato. Non so
se l’attentato contro Charlie Hebdo sia una vendetta o una risposta dell’Is alla Francia, che
si è alleata con l’America per combatterlo. Sia come sia, oggi sono i musulmani di Francia
a essere i più malvisti da una maggioranza della popolazione. Per quanto possano
denunciare e condannare questi atti intollerabili, il sospetto su di loro rimane. ( Traduzione
di Elisabetta Horvat)
del 08/01/14, pag. 10
Morti i principali vignettisti, il direttore e l’editorialista della rivista che
ha fatto la storia della libertà d’espressione in Francia L’ultimo disegno:
“Ancora nessun attentato? C’è ancora gennaio”
Wolinski, Charb e gli altri la satira colpita al
cuore dopo anni di minacce “Ma noi
resisteremo uniti”
DANIELE MASTROGIACOMO
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI .
La jihad ha colpito al cuore la satira. Le raffiche di due Ak-47 hanno annientato l’anima del
più famoso settimanale umoristico francese. Cadono sotto i colpi dei kalashnikov i pilastri
di Charlie Hedbo . Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, le colonne francesi di quella speciale
forma di libertà del pensiero che si chiama satira, quattro matite spezzate una mattina
come tante altre, quattro storie di irriverenza e indipendenza, massacrate in redazione
dagli uomini in nero in nome di Allah. Sulla homepage della rivista, da ieri, solo una scritta
20
bianca su fondo nero: «Je suis Charlie». Le radio e le tv continuano una maratona di
confronti e di opinioni, con ricordi, pensieri, omaggi.
Charlie Hebdo , l’arte di essere cattivi con intelligenza. Questa era la cifra del giornale. In
una Parigi sconvolta e attonita, passa di mano in mano l’ultima copertina della rivista in cui
si inneggia alle «profezie del mago Houllebecq », lo scrittore ora al centro delle polemiche
per aver immaginato, nel suo ultimo libro, la sottomissione della Francia all’Islam: «Nel
2015 perderò i miei denti... e nel 2022 festeggerò il Ramadan ». George Wolinski era una
delle anime della rivista: compiva proprio ieri 80 anni, sessanta dei quali trascorsi a
disegnare personaggi reali e fantasiosi, in decine di riviste francesi e internazionali. Nato a
Tunisi da madre franco-italiana e da padre polacco, di origine ebrea, era arrivato in
Francia a soli 13 anni. Aveva subito scoperto la sua passione per quei tratti umoristici che
lo avrebbero reso famoso per quattro generazioni di lettori di satira. So- prattutto in
Francia dove l’ironia scritta e disegnata vanta una tradizione difesa sempre in nome della
libertà. Anche quando lo stesso Wolinski viene condannato e poi costretto a sospendere le
pubblicazioni di Harakiri, la rivista di cui Charlie è l’erede, a causa di una vignetta
considerata irriverente nei confronti di De Gaulle. Noto anche in Italia tra gli appassionati
di Linus, Wolinski sapeva di colpire. Graffiava con la sua matita. Ma difendeva le sue
scelte e la libertà di essere feroce, spietato, spesso irrispettoso, nei confronti di tutti gli
estremismi religiosi. Non solo musulmani, anche cristiani.
È invece il direttore del settimanale, Stephane Charbonnier, “Charb” per gli appassionati, a
pagare con la morte la sua ultima vignetta. Un disegno che adesso acquista il sapore della
premonizione: c’è il classico jihadista, con la barba, la lunga tunica, la cartucciera a
tracolla e il kalashnikov in mano che chiede al suo compare: «Ancora nessun attentato a
Parigi?». L’altro risponde: «Aspettate. Abbiamo tempo fino a gennaio per fare i nostri
auguri». Dal fondatore della rivista, il mitico Francois Lavanna, Charb aveva raccolto
quella linea editoriale “blasfema” che si scagliava contro l’oscurantismo religioso. Senza
distinzioni. Una scelta coraggiosa che gli aveva procurato, nel 2011, ripetute minacce di
morte. Da quattro anni viveva sotto scorta. Soprattutto da quando la redazione era stata
colpita da uno strano incendio, e il sito del giornale era stato oscurato da un attacco degli
hacker. Al posto della homepage era apparsa la moschea della Mecca sotto la quale c’era
impressa la scritta «Non c’è altro Dio che Allah». Charb non aveva mollato. Aveva deciso
di pubblicare la serie di vignette sul Profeta costate ad un settimanale satirico danese
violentissime proteste, seguite da una fatwa tuttora in vigore. Charbonnier non è mai
venuto meno nella sua battaglia.
E la Francia piange anche Philippe Honorè, noto semplicemente come Honore, nonché
Bernard Verlhac, 57 anni, in arte “Tignous”, pioniere della satira, collaboratore di decine di
riviste e quotidiani politici. Attento all’attualità, puntuale ed efficace con la sua matita, era il
grande fustigatore dei paradossi dietro i quali si nascondeva il “politicamente corretto”.
Cade sotto il piombo dei terroristi l’altra anima del settimanale satirico: Jean Cabut, che si
firmava Cabu, 76 anni. Aveva realizzato ben 35 mila disegni in 60 anni di attività
professionale. Aveva un tratto inconfondibile, unico. Era capace di disegnare qualsiasi
personaggio pubblico e del mondo del business. E sotto i colpi dei terroristi è finito anche
l’economista Bernard Maris, 68 anni: editorialista del giornale, era tra i suoi fondatori.
Collaboratore storico di France Inter, aveva una rubrica settimanale firmata con lo
pseudonimo “Oncle Bernard”.
La Francia si interroga e si allarma. La sua satira, quella che ha fatto la storia
dell’informazione del paese, è sconvolta, affogata in un lago di sangue. Si mobilitano i
giornalisti francesi: tutti offriranno il proprio contributo per fare uscire il numero di Charlie
Hebdo e tener alta la bandiera della libertà di stampa.
21
del 08/01/14, pag. 12
La partita politica, tra sicurezza e unità
La strage aggraverà le tensioni sociali e identitarie. L’Eliseo di fronte a
una doppia sfida
Anche l’orrore può essere perfetto. I terroristi che hanno massacrato la redazione di
Charlie Hebdo hanno riunito con una scarica di mitra molti elementi atti a disorientare,
dividere, rendere cupo e incerto il futuro della Francia, dell’Europa, delle società libere e
del dialogo interreligioso. Perfetta è stata la scelta dell’obiettivo, perché Charlie Hebdo era
già sovraesposto, per sua natura foriero di aspre polemiche e provocazioni. E perfetta è
stata la scelta del momento, in quanto mai come ora in Francia sono accesi i dibattiti
culturali e politici sull’identità nazionale, sul pericolo islamico, sulla «sottomissione» dei
valori occidentali, per citare l’ultimo Houellebecq in libreria in questi giorni. Un Paese per di
più in prima linea, a fianco degli Usa, nella lotta al terrorismo internazionale, dalla Libia al
Mali, dalla Siria all’Iraq.
Tutto concorre ad aggravare le problematiche sociali e politiche della Francia di oggi,
Paese in cui vivono 6 milioni di musulmani, senza contare clandestini e ultimi flussi
migratori. È un fatto la crescita del Fronte Nazionale di Marine Le Pen e, più in generale, di
sentimenti populisti, xenofobi, antieuropei, in una spirale che spesso confonde Islam,
terrorismo, immigrazione clandestina. Il Paese, colpito al cuore, si trova ancora una volta a
fare i conti con il fallimento del modello d’integrazione repubblicana, poiché — senza
scadere nella facile sociologia — è un fatto che alcune periferie francesi sono territori off
limits in cui si annidano odio, risentimento verso la società bianca, proselitismo,
radicalismo religioso. Da queste banlieue sono partiti centinaia di giovani per combattere
in Siria e in Iraq. Non è nemmeno escludibile che si tratti di elementi di ritorno, dopo un
periodo di addestramento e indottrinamento nei teatri di guerra.
L’Eliseo, il governo e anche l’opposizione gaullista lanciano messaggi di unità nazionale e
rinnovano l’impegno alla fermezza, ma al tempo stesso nessuno si nasconde la difficoltà di
trovare le contromisure più efficaci di fronte a un terrorismo che — se si ricordano ad
esempio i recenti attentati di Tolosa, Bruxelles e alla maratona di Boston — non arriva da
un altro mondo o da un altro Paese, bensì si annida — non solo in Francia — nei territori
nazionali e si mimetizza nelle società multietniche e multinazionali. Nonostante il lavoro
d’intelligence, che avrebbe sventato in queste settimane altri attentati; nonostante la
sorveglianza ai luoghi sensibili, i controlli alle frontiere, la cooperazione internazionale, non
è prevedibile l’attività sotterranea di decine, forse centinaia, di elementi pronti a colpire.
Ieri sera, il presidente François Hollande ha cercato di rassicurare un Paese che si sente
improvvisamente più debole, indifeso ed esposto a derive politiche e chiusure culturali che
potrebbero avere conseguenze drammatiche anche sul quadro europeo. Quella di
Hollande è adesso la partita della vita : partita doppia, sul fronte della sicurezza e
coesione nazionale e sul fronte delle strumentalizzazioni interne.
È possibile e auspicabile che il presidente sappia dare il meglio di sé nei momenti più
drammatici, ma l’agenda che lo attende — fra crisi, calo dei sondaggi, scadenze elettorali
— è piena di ostacoli. Il presidente ha provato a risvegliare il senso e il valori fondanti di
una Nazione, innanzitutto la libertà di stampa e di espressione. La Francia che ieri sera
piangeva i suoi morti innocenti, attonita davanti ai teleschermi, come gli americani nel
giorno delle Torri Gemelle, appare come un Paese ripiegato, sfiduciato, percorso da
apprensioni verso ogni genere di minacce e incognite. Ma la folla che spontaneamente si
22
è raccolta in place de la Republique, per onorare il martirio dei giornalisti, è un primo
segnale di coraggiosa reazione .
del 08/01/14, pag. 14
Arriva la condanna della Lega Araba Obama:
attacco diabolico, vi aiuteremo
Renzi: ora un’iniziativa europea. Ma il Financial Times critica il giornale:
stupidità editoriale
ROMA «Attacco codardo e diabolico, compiuto da terroristi che hanno paura della libertà
di espressione», dice Barack Obama, presidente degli Stati Uniti. «Crimine cinico»,
secondo il presidente russo Putin.
«Atto vigliacco rifiutato dall’autentica religione islamica», sostengono fonti governative
dell’Arabia Saudita, potente paese dell’Islam sunnita. Il segretario generale della Lega
Araba, Nabil al-Arabi, parla di «attacco terroristico da condannare con forza». L’università
Al Azhar del Cairo, istituzione religiosa sunnita, ricorda che «l’Islam rifiuta ogni violenza».
Il Consiglio mondiale degli ulema, vicino ai Fratelli musulmani, afferma: «Bisogna lavorare
tutti insieme per curare il pensiero terrorista, eliminandone radici e cause». Condanna
anche dal ministero degli Esteri iraniano, che invita anche a evitare «doppie misure
nell’affrontare le radici dell’estremismo».
I grandi della Terra reagiscono all’attacco contro inermi disegnatori satirici di Parigi.
«Questo è il nostro 11 settembre», sintetizza il leader dell’eurogruppo liberale Verhofstadt.
Una voce diversa è quella del Financial Times , quotidiano della City di Londra. In un
editoriale si legge che Charlie Hebdo ha peccato di «stupidità editoriale»: «Non si vogliono
minimamente giustificare gli assassini, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon
senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocano
i musulmani».
Nelle parole dei leader occidentali torna più volte la «libertà» come obiettivo dei terroristi.
«Siamo con i francesi — dice Obama dalla Casa Bianca — Si è trattato di un attacco
codardo e diabolico ai giornalisti: questi terroristi temono la libertà di parola e la libertà di
stampa». «Ogni americano è con voi», afferma in francese il Segretario di Stato, John
Kerry. Obama offre per telefono al presidente francese Hollande «qualsiasi tipo di
assistenza per portare i terroristi davanti alla giustizia». E Putin da Mosca ribadisce «la
disponibilità della Russia a collaborare nella lotta al terrorismo».
Da New York, Ban Ki-moon, segretario dell’Onu, afferma che «questo attacco vuole
dividere, ma non dobbiamo cadere in tale trappola». La cancelliera tedesca Merkel e il
premier britannico Cameron hanno telefonato da Londra a Hollande: «Siamo a
disposizione per ogni aiuto». Condoglianze anche dalla regina Elisabetta, Buckingham
Palace. Da Gerusalemme il primo ministro israeliano Netanyahu afferma che «il terrorismo
islamista non guarda in primo luogo a Israele, ma punta a distruggere tutte le società dei
Paesi liberi, vuole sradicare la cultura per imporre la tirannia».
In Italia, il presidente Napolitano sottolinea che «il gesto di Parigi colpisce uno dei pilastri
sui quali si basa la nostra civiltà, la libertà di stampa». Il presidente del Consiglio Renzi nel
pomeriggio va a palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia. «Siamo tutti francesi»,
dice, in francese, all’ambasciatrice Catherine Colonna. «La Francia è un simbolo di libertà
in tutto il mondo, non è possibile permettere al terrorismo di vincere la sfida contro la
libertà e la ragione». Renzi aggiunge che «il Consiglio europeo e gli altri consessi
23
internazionali dovranno esprimere un messaggio di unità molto for-te contro il terrorismo,
la sua ideologia, l’orrore che rappresenta».
«Siamo tutti colpiti — dice il leader di Forza Italia, Berlusconi —. Non esiste per chi compie
atti di questo genere alcuna garanzia di pacifica convivenza, di rispetto delle libertà
politiche civili e religiose». Sul sito di Beppe Grillo, Aldo Giannuli lancia una proposta: «Chi
vuole entrare in un Paese europeo si sottoponga a una dichiarazione giurata di
osservanza della Costituzione e di accettazione dei valori di libertà, tolleranza religiosa,
laicità dello Stato, eguaglianza fra i sessi. In mancanza di tale dichiarazione, il soggetto
sarà respinto». Tutto ciò si basa sul fatto che un vero fondamentalista non presterebbe
falso giuramento.
Andrea Garibaldi
Da il manifesto del 08/01/14
I lumi spenti dell’Occidente
Carlo «Charlie» Freccero
Un frammento del video che mostra il kommando uccidere un poliziotto
ferito a terra per le vie di Parigi
Alla base dei fatti di Parigi c’è una profonda frattura culturale: da un lato il massimo valore
islamico, la religione, dall’altro il massimo valore illuminista: la libertà d’espressione.
Se l’11 settembre ha colpito al cuore il capitalismo, radendo al suolo le torri gemelle,
l’attentato fran-cese assume un significato simbolico ancora maggiore, nel momento in cui
colpisce nel paese «più illuminista» d’Europa, uno dei maggiori valori illuministici, la
libertà, intesa qui come libertà d’espressione, possibilità di mettere in discussione tutto e
tutti, anche il dogma religioso.
Non dobbiamo pensare che Charlie Hebdo fosse semplicemente anti-islamico. È una
testata di sinistra che ha sempre messo in discussione tutto e tutti, anche la religione
cattolica, in un modo che, in un’Italia controllata dal Vaticano, sarebbe per noi
improponibile.
Per questo il segretario di stato americano John Kerry ha potuto parlare di «oscurantismo»
a proposito dell’attentato di ieri e il presidente Hollande lo ha descritto come un «atto di
terrorismo».
Le immagini dell’omicidio del poliziotto parlano da sole. Fanno parte di quel repertorio che
non vor-remmo mai vedere, perché offende profondamente il nostro senso di giustizia.
Immagini che Serge Daney definiva images au purgatoire. Testimonianze sospese in un
limbo da cui non dovrebbero mai essere tolte, senza destare nel pubblico ripugnanza ed
indignazione.
Mi è stato chiesto un commento sull’esecuzione del poliziotto disarmato: per me si tratta
semplice-mente di un’immagine di guerra.
Tutta l’azione contro Charlie Hebdo è concepita come un’azione militare, con forze speciali
camuf-fate che riprendono l’assetto di azioni dei servizi speciali americani. La ferocia è
motivata dallo stato di eccezione. Parliamo di terrorismo perché ci rifiutiamo di pensare
che siamo in guerra. Però in questi giorni gira nelle sale cinematografiche un film come
«American Sniper» dedicato ad un cecchino che, nel contesto del conflitto iracheno, ci
viene presentato come un eroe (leggi l’intervista a Clint East-wood, ndr). Così come eroi si
presentano i kamikaze islamici.
Quanto accade oggi sotto i nostri occhi deve farci riflettere. L’unico motivo per cui
riteniamo di non essere in guerra è che la guerra riguarda o deve riguardare la periferia
del mondo, dove noi dovremmo «esportare» la nostra «democrazia» e i nostri valori e in
24
cui invece esercitiamo da tempo lo stesso inte-gralismo che, da parte islamica,
percepiamo come barbarico.
Il rapporto che noi abbiamo con l’informazione è un rapporto continuo di rimozione, per cui
le imma-gini di ieri sono cancellate, e ogni giorno nuove immagini guadagnano il centro
della scena stabilendo, con la loro evidenza, il ruolo dei buoni e cattivi. Le immagini di ieri
sono inequivocabili, sono imma-gini di barbarie, ma il problema è che noi non siamo più i
portatori dei valori dell’illuminismo, ma abbiamo introiettato da tempo quella barbarie che
ci sconvolge al di fuori di noi.
C’è un’origine in tutto questo. Un’origine che, essendo in contrasto coi valori di allora,
doveva per forza rendersi invisibile. È la prima guerra del Golfo, la guerra di Bush padre,
la «guerra intelligente» che colpiva solo gli obiettivi militari, scientificamente, e non doveva
fare neppure un morto tra i civili. Per occultare quei morti, che invece non potevano non
esserci, s’inventò una guerra senza immagini, senza riprese in campo lungo, solo come
scie luminose, come in un videogame.
Sono seguiti l’11 settembre e la seconda guerra del Golfo, questa volta tradotta in
immagini da parte dei reporter embedded, incorporati nell’esercito e quindi disposti a dare
della guerra una visione di parte, eroica, epica, come lo è oggi il film di Eastwood.
Infine le immagini meno edificanti della guerra, prima proibite, hanno cominciato ad
affiorare con Abu Grahib. Anche queste immagini non hanno sortito quella reazione di
disgusto che si poteva presa-gire di una cultura illuminista. Sono seguite a valanga le
rivelazioni di WikiLeaks e, recentemente, le rivelazioni su Guantanamo e le torture della
Cia. Tutto questo repertorio, ma soprattutto la nostra tie-pida reazione, ci dicono che un
mondo è finito, che l’illuminismo è stato inghiottito dalla voragine post moderna che
oppone all’integralismo islamico un nuovo integralismo occidentale. Bush è andato in Iraq
parlando di Dio, le forze del Bene contrapposte all’asse del Male.
I gruppi di destra che in Europa combattono l’ondata islamica non fanno appello alla
ragione ma alla nostra tradizione. E il fatto che nei paesi europei si cominci a pensare ad
un avvento democratico al potere dell’islamismo è un altro segno che la Sharia non è più
qualcosa di incomprensibile, di incom-patibile con le nostre costituzioni illuministiche, ma
comincia ad avere una sua «credibilità».
In questi giorni è prevista in Francia la pubblicazione del nuovo romanzo di Houllebecq,
che presenta uno scenario prossimo venturo, nel 2025, di islamizzazione totale della
Francia. Forse non siamo ancora lì, ma in questi anni il nostro cambiamento culturale è
stato così radicale da rendere quest’ipotesi credibile.
In un momento come questo, non è così assurdo che la guerra cominci a manifestarsi
nelle nostre strade, prima come terrorismo e rottura, poi come fatto consueto e quotidiano,
come successe in Italia negli anni di piombo.
Da Internazionale.it del 07/01/14
Non in mio nome
Igiaba Scego
Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale
satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del
profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto.
“Not in my name”, dice un famoso slogan, e oggi questo slogan lo sento mio come non
mai. Sono stufa di essere associata a gente che uccide, massacra, stupra, decapita e
piscia sui valori democratici in cui credo e lo fa per di più usando il nome della mia
25
religione. Basta! Non dobbiamo più permettere (lo dico a me stessa, ai musulmani e a
tutti) che usino il nome dell’islam per i loro loschi e schifosi traffici.
Vorrei che ogni imam in ogni moschea d’Europa lo dicesse forte e chiaro. Sono stufa di
veder così sporcato il nome di una religione. Non è giusto. Come non è giusto veder
vilipesi quei valori di convivenza e pace su cui è fondata l’Unione europea di cui sono
cittadina. Sono stufa di chi non rispetta il diritto di ridere del prossimo. Stufa di vedere ogni
giorno, da Parigi a Peshawar, scorrere sangue innocente. E ho già il voltastomaco per i
vari xenofobi che aspettano al varco. So già che ci sarà qualcuno che userà questo
attentato contro migranti e figli di migranti per qualche voto in più. C’è sempre qualche
avvoltoio che si bea delle tragedie.
È così a ogni attentato.
A ogni disgrazia cresce il mio senso di ansia e di frustrazione. A ogni attentato vorrei
urlare e far capire alla gente che l’islam non è roba di quei tizi con le barbe lunghe e con
quei vestiti ridicoli. L’islam non è roba loro, l’islam è nostro, di noi che crediamo nella pace.
Quelli sono solo caricature, vorrei dire. Si vestono così apposta per farvi paura. È tutto un
piano, svegliamoci.
Per questo dico che mi hanno dichiarato guerra. Anzi, ci hanno dichiarato guerra.
Questo attentato non è solo un attacco alla libertà di espressione, ma è un attacco ai valori
democratici che ci tengono insieme. L’Europa è formata da cittadini ebrei, cristiani,
musulmani, buddisti, atei e così via. Siamo in tanti e conviviamo. Certo il continente
zoppica, la crisi è dura, ma siamo insieme ed è questo che conta. I killer professionisti e
ben addestrati che hanno colpito Charlie Hebdo vogliono il caos. Vogliono un’Europa
piena di paura, dove il cittadino sia nemico del suo prossimo. E in questo vanno a
braccetto con l’estrema destra xenofoba. Tra nazisti si capiscono. Di fatto vogliono isolare
i musulmani dal resto degli europei. Vogliono vederci soli e vulnerabili. Vogliono
distruggere la convivenza che stiamo faticosamente costruendo insieme.
Trovo bellissimo che alla moschea di Roma alla fine del Ramadan, per l’Eid, ci siano a
festeggiare con noi tanti cristiani ed ebrei. Ed è bello per me augurare agli amici cristiani
buon Natale e agli amici ebrei happy Hanukkah. È bello farsi due risate con gli amici atei e
ridere di tutto. Si può ridere di tutto, si deve. Ecco perché questo attentato di oggi è così
pauroso. Fa male sapere che degli esseri umani siano stati uccisi da una mano vigliacca
perché volevano solo far ridere, ma fa male anche capire il disegno che c’è dietro, ovvero
una volontà di distruzione totale.
Una distruzione che sapeva chi e cosa colpire.
Niente è stato casuale. Sono stati spesi molti soldi da chi ha organizzato il massacro.
Sono stati scelti uomini addestrati. È stato scelto un target, la redazione di un giornale
satirico, che era sì un target simbolico, ma anche facile da attaccare. Tutto è stato studiato
nei minimi dettagli. D’altronde una dichiarazione di guerra lo è sempre. Chi ha compiuto
questo attentato sa cosa produrrà. Sa il delirio che si sta preparando. Allora se siamo in
guerra si deve cominciare a pensare come combatterla. In questi anni la teoria della
guerra preventiva, dell’odio preventivo, delle disastrose campagne di Iraq e Afghanistan
hanno creato solo più fondamentalismo.
Forse se si vuole vincere questa guerra contro il terrorismo l’Europa si dovrà affidare a
quello che ha di più forte, ovvero i suoi valori. Chi ha ucciso sa che si scatenerà l’odio. Ora
dovremmo non cascare in questa trappola. Ribadire quello che siamo: democratici. Ha
ragione la scrittrice Helena Janeczek quando dice che liberté, égalité, fraternité è ancora il
motto migliore per vincere la battaglia. E i musulmani europei ribadendo il “Not in my
name” potranno essere l’asso nella manica della partita. L’Europa potrà fermare la
barbarie solo se i suoi cittadini saranno uniti in quest’ora difficile.
26
del 08/01/14, pag. 2
Il trend. L'incidenza demografica (ed economica) è più forte soprattutto
nei Paesi ricchi e con un passato coloniale, a cominciare dalla Francia
Cresce il peso delle comunità musulmane
In Europa sono ormai una comunità nutrita, che si è in gran parte integrata nella società e
nell’economia, a cui offre un importante contributo. È ormai un dato acquisito: i musulmani
sono sempre più numerosi. E, stando alle proiezioni, lo saranno ancora di più nei prossimi
decenni. Secondo il think thank americano Pew Research Center, la loro percentuale in
Europa salirà di almeno un terzo nei prossimi 20 anni, quando rappresenterà l’8% della
popolazione complessiva.
Ma sono soprattutto i Paesi più sviluppati, ricchi e con un passato coloniale quelli dove il
fenomeno ha assunto proporzioni rilevanti. Non stupisce, dunque, che i musulmani
presenti in Italia, pur così vicina alle coste del Nord Africa (da cui proviene la maggioranza
dei musulmani europei) siano circa il 2,5% della popolazione (quasi 1,5 milioni secondo la
Caritas) mentre molto più a nord siano decisamente di più: dal 6% di Austria e Belgio, al
5% della Svezia.
La Francia resta il Paese che ospita la comunità più grande dell’Unione Europea: oltre sei
milioni di musulmani, circa il 10% della popolazione. E anche la città con la più alta
percentuale, Marsiglia, con il 30-35%. I Paesi del Nord Africa hanno offerto il contributo
maggiore: in testa gli algerini (1, 5 milioni) seguiti dai marocchini (un milione) e dai tunisini
(350mila).
Ma quando si parla di comunità religiose è difficile ottenere dati precisi. Comprendere chi
osserva realmente i precetti, e chi no. Per esempio, secondo alcune ricerche, solo un
terzo dei musulmani francesi si definisce un assiduo praticante. Ci sono tuttavia delle
tendenze comuni in alcuni Paesi (tra cui l’Italia). Se ormai i musulmani si sono inseriti nel
tessuto sociale ed economico, le posizioni che occupano mediamente non competono, per
prestigio e reddito, con quelle delle popolazioni autoctone. Buona parte dei musulmani,
soprattutto quelli provenienti dai Paesi asiatici, ma non solo, tendono poi a inviare nei
rispettivi Paesi di origine gran parte delle loro entrate. Calcolare il loro contributo
all’economia del Paese dove vivono è molto difficile.
Il secondo Paese con più musulmani è la Germania, colpita in questi giorni da
manifestazioni xenofobe antislamiche senza precedenti. Qui i musulmani sono circa 4
milioni, il 5% della popolazione. Il?Regno Unito è al terzo posto, con 2,8 milioni di
musulmani su una popolazione di circa 64 milioni (il 4,6%). Se si sposta l’attenzione non
sui valori assoluti, ma sulle percentuali, saltano subito all’occhio Paesi come Austria
(6,2%) , Belgio (6%) e Olanda (5,5%) e Danimarca (4,1%).
E l’Italia? Secondo l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii) ,
sono già 1,7 milioni (in gran parte immigrati regolari). «L’apporto dei musulmani - spiegava
in un’intervista Izzedin Elzir, imam di Firenze e presidente dell’Ucoii - determina il 4-5% del
Pil nazionale, oltre a rappresentare un contributo fondamentale in termini demografici,
culturali , religiosi e sociali». La comunità musulmana più numerosa è quella marocchina
(500mila) seguita dai tunisini (110mila) e dagli egiziani (circa 90 mila). «Qui, da noi precisa l’Ucoii al Sole 24 Ore - la maggior parte dei nordafricani svolge lavori nel campo
del settore manifatturiero, soprattutto con la mansione di operai. Ma sono anche presenti
nel settore della ristorazione (pizzerie) e delle macellerie. Quasi il 90% dei musulmani del
Medio Oriente, tra cui siriani e palestinesi, svolge lavori più qualificate, come medico e
27
farmacista». Ma rispetto ad altri?Paesi come la Francia, dove i musulmani sono già alla
quarta generazione, in Italia l’immigrazione è un fenomeno più giovane. «Qui – conclude
l’Ucoii – la gran parte dell’immigrazione è avvenuta a fine anni 90 e poco dopo. Stiamo
assistendo alla maturazione della seconda generazione.?E un efficace modello di
integrazione per gli immigrati ancora non c’è».
Dell’8/01/2015, pag. 9
La Palestina dal 1 Aprile nella Cpi
Israele/Territori Occupati. Il Segretario Generale dell'Onu Ban Ki-moon
ha annunciato che lo statuto per la Palestina entrerà in vigore alla Corte
Penale Internazionale il Primo Aprile 2015. Dopo Israele anche gli Stati
Uniti minacciano sanzioni economiche contro i palestinesi
Michele Giorgio
È ufficiale. Tra meno di tre mesi la Palestina si unirà alla Corte Penale Internazionale.
Sono risultati in ordine i documenti presentati venerdì scorso al Palazzo di Vetro
dall’ambasciatore palestinese Riyad Mansour e, ieri, il Segretario Generale dell’Onu Ban
Ki-moon, ha annunciato che lo statuto per la Palestina entrerà in vigore alla Cpi il 1 aprile
2015. «(Ban Ki-moon) ha accertato che i documenti ricevuti dall’osservatore permanente
della Palestina alle Nazioni Unite relativi all’adesione a 16 trattati, incluso lo Statuto di
Roma della Corte Penale Internazionale, sono in debita forma», ha comunicato l’ufficio del
Segretario generale. Non si torna indietro. Ma la mossa palestinese non è ostaggiata solo
da Israele — che ha già congelato il trasferimento all’Anp di Abu Mazen di 127 milioni di
dollari palestinesi — ma anche dagli Stati Uniti. Non appena ieri è giunto l’annuncio che la
Palestina si unirà alla Cpi, Washington ha fatto sapere che riesaminerà il pacchetto
annuale di finanziamenti da 440 milioni di dollari. Lo stesso governo israeliano, nei giorni
scorsi, aveva fatto sapere che si sarebbe rivolto ai suoi (numerosi) amici nel Congresso
Usa per interrompere il flusso di fondi americani ai palestinesi. L’adesione della Palestina
alla Cpi non comporta sanzioni automatiche da parte di Washington ma ogni denuncia
contro Israele presentata dall’Anp darebbe il via al taglio immediato di finanziamenti Usa.
Abu Mazen ha firmato i documenti per l’adesione alla Cpi il giorno dopo che il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite ha respinto (30 dicembre) la risoluzione palestinese che
fissa un termine di tre anni per il ritiro di Israele dai Territori occupati di Cisgiordania, Gaza
e Gerusalemme Est e per la creazione di uno Stato palestinese. A spingere il presidente
dell’Anp a compiere un passo tanto atteso e desiderato dalla sua gente ma ripetutamente
rinviato, sono stati diversi motivi. La necessità, ad esempio, di dare uno scossone al presidente Barack Obama che all’inizio del suo primo mandato aveva promesso un approccio
diverso alla questione mediorientale, alimentando forti speranze tra i palestinesi. E che poi
ha fatto retromarcia per adeguarsi alla linea dei suoi predecessori, ossia non esercitare
reali pressioni sull’esecutivo israeliano per spingerlo a rispettare le risoluzioni internazionali per i Territori che lo Stato ebraico ha occupato nel 1967. Lo stesso atteggiamento
debole e rinunciatario ha poi mantenuto anche il Segretario di stato John Kerry, durante
i nove mesi di mediazione tra israeliani e palestinesi terminati lo scorso aprile senza alcun
risultato. L’atteggiamento, spesso sprezzante del premier israeliano Netanyahu e di alcuni
dei suoi ministri verso le autorità palestinesi, unito al rilancio di una massiccia colonizzazione ebraica della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, hanno fatto il resto. Allo stesso
tempo Abu Mazen è sotto una forte pressione interna, spinto ad agire con più decisione
28
nei confronti di Israele, specie dopo i 50 giorni dell’offensiva militare “Margine Protettivo”
contro Gaza di luglio e agosto 2014 e le tensioni nei luoghi santi islamici a Gerusalemme.
Deludente per molti palestinesi è anche il testo della risoluzione respinta a fine anno dal
Consiglio di Sicurezza, emendato ed indebolito troppe volte su ordine del presidente
dell’Anp, per tentare (invano) di aggirare la minaccia di veto fatta dagli Stati Uniti.
L’ultimo, la scorsa estate, dei tre attacchi in sei anni contro Gaza sarà il punto principale
del procedimento che i palestinesi chiederanno alla magistratura internazionale di avviare
Israele, assieme alla colonizzazione dei Territori occupati. Un’indagine della Cpi potrebbe
anche portare a possibili accuse di crimini di guerra contro i palestinesi – su questo batte il
premier israeliano Netanyahu — ma l’ambasciatore Mansour ha detto che i palestinesi non
temono ripercussioni e non si lasceranno intimorire. La Corte Penale Internazionale
è stata creata per perseguire gli autori di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e il
genocidio. In un comunicato diffuso lunedì scorso, i suoi giudici ha spiegato che accettare
la giurisdizione della Cpi non attiva automaticamente un’indagine. Il procuratore Fatou
Bensouda perciò dovrà verificare se i palestinesi hanno rispettato i criteri previsti dallo Statuto per l’apertura di un’inchiesta.
Dell’8/01/2015, pag. 14
Il silenzio sui massacri in Eritrea
Enrico Calamai, portavoce del Comitato «Giustizia per i Nuovi Desaparecidos»
La terribile vicenda dei 13 ragazzini eritrei massacrati al confine con il Sudan, di cui «il
manifesto», unico tra i giornali italiani, ha meritevolmente riferito nell’articolo «Strage di
bambini in fuga dal loro paese», pubblicato nel numero del 2 gennaio, dimostra in maniera
eloquente a che punto di negazione totale dei diritti umani fondamentali, incluso quello alla
vita stessa, sia arrivata la dittatura di Asmara. Si tratta di crimini di cui gli esponenti e i
complici del regime, a tutti i livelli, dovranno prima o poi essere chiamati a rispondere, in
base al diritto internazionale, oltre che alla Giustizia del loro stesso Paese, una volta
abbattuta la dittatura e riconquistata la libertà.
Proprio per questo mi permetto di ricordare le sentenze penali con cui, nella Germania riunificata, vennero condannati alti dirigenti dell’apparato statale della Ddr, generali e comandanti militari che avevano dato l’ordine di aprire il fuoco e, infine, le guardie di frontiera che
avevano sparato su fuggiaschi che tentavano di passare il confine con la Germania occidentale, uccidendoli . L’operato della polizia di frontiera eritrea rientra nella stessa fattispecie di crimine contro l’umanità, reso particolarmente spregevole dal fatto di trattarsi di
minori. Ai ministri degli Esteri, Paolo Gentiloni, e dell’Interno, Angelino Alfano, che non più
di un mese fa presiedevano a Roma la Conferenza interministeriale per il varo del cosiddetto Processo di Khartoum, definito, nella pubblicistica ufficiale, momento qualificante
della Presidenza italiana all’Unione Europea, converrebbe domandare inoltre se ritengano
che i tredici ragazzi fucilati e fatti sparire fossero dei migranti e se sia questa la «più efficace gestione dei flussi migratori» che l’iniziativa diplomatica italiana intende perseguire.
E se non sentano disagio alcuno, per non dire problemi di coscienza, nel mantenere rapporti di cooperazione, che potrebbero un giorno venir definiti di complicità, con una dittatura che insieme alla Corea del Nord è considerata tra le più feroci al mondo, oltre che con
governi come quello somalo, etiope o, soprattutto, sudanese, sul cui presidente Al Bashir
pende un mandato di cattura da parte della Corte Penale Internazionale. Il tutto, per soffocare all’origine quelli che vengono definiti flussi migratori e che tali non sono, dato che di
rifugiati e richiedenti asilo si tratta.
29
Dell’8/01/2015, pag.8
Messico: i 43 si cercano nelle caserme
Massacro di Iguala. Le organizzazioni sociali contro la visita del
presidente Peña Nieto negli Stati uniti
Geraldina Colotti
Oltre 20 città degli Stati uniti hanno aderito alla “giornata di protesta contro la visita di
Peña Nieto negli Stati uniti”, organizzando manifestazioni e sit-in nei pressi di ambasciate
e consolati. Numerose organizzazioni sociali hanno amplificato in rete la protesta, in solidarietà ai 43 studenti normalistas, scomparsi in Messico tra il 26 e il 27 settembre. Tra
queste, Sos Warch, Messicani senza frontiere e Ustired2, che sta per “anche gli Stati uniti
sono stanchi”. Una frase che rimbalza nelle piazze e sul web da quando il Procuratore
generale messicano l’ha pronunciata in risposta ai giornalisti che lo incalzavano durante
una conferenza stampa («adesso mi avete scancato»). A New York, la polizia ha duramente represso le proteste, impedendo ai manifestanti di consegnare alle autorità Usa
documenti e informative sul massacro di Iguala (6 ragazzi uccisi dall’attacco congiunto di
polizia e narcotrafficanti, oltre una ventina di feriti e 43 studenti scomparsi).
In occasione della visita del presidente Peña Nieto — oggetto delle proteste dei normalistas per i suoi programmi neoliberisti che hanno fortemente messo in causa i diritti dei più
deboli — gli attivisti messicani residenti negli Stati uniti hanno già inviato al Congresso due
petizioni in cui chiedono a Obama di affrontare la questione dei diritti umani nei colloqui
iniziati lunedì scorso: «Consideriamo molto preoccupante che si continui a sostenere con
i soldi delle nostre tasse un governo che viola i diritti umani e che non rende conto alla
popolazione», scrivono. E si appellano all’emendamento Leahy, che proibisce l’invio di
fondi a forze straniere che calpestano i diritti umani.
Anche l’organizzazione Human Rights Watch ha appoggiato le lettere di protesta e si
è rivolta alle senatrici democratiche della California, Barbara Boxer e Dianne Feinstein, per
chiedere la sospensione degli aiuti militari al Messico da parte degli Stati uniti. L’Ong ha
chiesto urgentemente un incontro e anche un’udienza pubblica al Senato e ha snocciolato
le cifre del preoccupante aumento della violenza e dell’impunità: «Nei due anni di amministrazione di Enrique Peña Nieto, secondo i dati ufficiali, oltre 40.000 messicani sono stati
assassinati e circa 10.000 risultano scomparsi, inclusi i 43 giovani studenti normalistas di
Ayotzinapa». Si valuta che nell’ultimo decennio siano state assassinate e fatte scomparire
in Messico circa 80.000 persone. Gran parte delle vittime sono donne, prevalentemente
giovani o migranti centroamericani in transito dal Messico agli Usa con la speranza di passare la frontiera, indigeni, lavoratori e anche studenti e giornalisti (il Messico è il paese più
pericoloso per i cronisti). Tra le donne uccise, si contano molte vittime di aggressioni sessuali. Poi ci sono i narcotrafficanti, giovani senza futuro che finiscono al soldo delle bande,
potentemente innervate al sistema politico messicano.
All’interno di questa criminalità quotidiana in cui compare la complicità o l’assenza dello
stato, restano nella memoria dei messicani le date dei massacri compiuti da polizia e militari ogni volta che alcune grandi manifestazioni popolari hanno espresso la domanda di un
cambiamento strutturale: Tlatelolco (1968), Aguas Blancas (1995), Acteal (1997) e Atenco
(2006). E nel 2014, Iguala. Eventi «tragici», li ha definiti Barack Obama, promettendo di
aiutare il Messico a «debellare il flagello della violenza» e apprezzando i «piani di riforma»
proposti dal suo omologo messicano. Piani già bocciati dalle piazze, che hanno sempre al
centro la stessa dinamica repressiva e la stessa logica contro cui in questi giorni sono
30
scesi in piazza gli infermieri. «Vivi li hanno presi e vivi li vogliamo!», gridavano i manifestanti tenuti lontani dalla Casa Bianca. Le organizzazioni per i diritti umani, in Messico,
chiedono che si indaghi sull’esercito e che si cerchino gli studenti nelle caserme. In una
fossa comune di Cocula sono stati identificati i resti di uno dei 43 studenti, ma i famigliari
avanzano dubbi che siano stati effettivamente recuperati in quel luogo. Secondo la magistratura, lì sarebbero stati bruciati dai narcotrafficanti. Intanto, la polizia comunitaria continua a scavare e ad accompagnare le famiglie a ispezionare le caserme dei dintorni. E per
sabato, famigliari e collettivi hanno indetto una nuova giornata di mobilitazione, sia in Messico che a livello internazionale.
del 08/01/14, pag. 35
Obbligazioni. Buenos Aires alle prese con le elezioni presidenziali
Venezuela e Argentina, corsa contro il tempo
per evitare il default
Per Caracas l’incognita del prezzo del petrolio
MILANO
L’anno per i Paesi emergenti si apre con due incognite, Argentina e Venezuela impegnate
ad evitare i rispettivi default. L’attuale congiuntura economica con il prezzo del petrolio in
caduta libera, il rallentamento della Cina e la liquidità meno abbondante non aiuta a
sciogliere i nodi finanziari. A cominciare dal Venezuela la cui salvezza dipenderà
dall’andamento del prezzo del petrolio tra le principali voci delle sue esportazioni mentre si
trova ad affrontare un difficile scenario economico con l’inflazione stimata al 120% oltre
alla mancanza di dati che il governo non pubblica dal 2013. Quest’anno il Venezuela ha in
scadenza e pagamenti di interessi sul suo debito estero sovrano e corporate per circa 11
miliardi di dollari, concentrate nella seconda metà dell’anno mentre la prima metà è
relativamente leggera con scadenze per 1,7 miliardi di dollari. Più pesante la seconda
metà dell’anno quando verranno a scadenza obbligazioni per 3,4 miliardi di dollari e
interessi per 1,7 miliardi, per un totale di 5,8 miliardi di dollari. Se il prezzo del petrolio non
recupererà e con il paese fuori dai mercati internazionali dei capitali - dove le sue
obbligazioni sono attualmente scambiate con un rendimento del 50% e il rating assegnato
da Moody's e S&P’s è Caa1 è CCC+ come per Grecia, Egitto e Pakistan - molti nodi
potrebbero venire al pettine. Ad aiutare il Venezuela è scesa in campo ancora una volta la
Cina come già è successo per l’Argentina: il presidente cinese Xi Jinping ha promesso una
“cooperazione rafforzata” con Caracas, ricevendo nei giorni scorsi il suo omologo
venezuelano Nicolas Maduro, in visita a Pechino per cercare un sostegno finanziario.
Pechino è un alleato strategico per Caracas, suo principale investitore e secondo
importatore del suo petrolio dopo gli Stati Uniti. Gli analisti sono scettici sul rischio default
del Venezuela nonostante i prezzi impliciti espressi dai titoli obbligazionari sui mercati
dicano il contrario e Cds viaggino oltre 5.500 punti base: l’ipotesi su cui si starebbe
lavorando è quella di un allungamento delle scadenze per i titoli sovrani, mentre per le
obbligazioni delle società pubbliche come Petroleos de Venezuela SA e Citgo Petroleum
Corp le quali dipendono dagli investimenti esteri, un loro default è dato come improbabile.
Inoltre avendo entrambe divisioni negli Usa si aprirebbe il contenzioso sull’eventuale
sequestro. Nel frattempo i titolari di obbligazioni Argentina attendono di essere pagati e
sperano che succeda quest’anno. Il Paese sudamericano è stato costretto a dichiarare
default lo scorso luglio per il mancato pagamento di obbligazioni a investitori che non
31
avevano aderito allo swap, bloccando per tutti il pagamento degli interessi. I bondholder
attendono lo scadere della clausola della clausola Rufo (Right upon future offers) a fine
gennaio quando verrà meno l’obbligo di adeguare la rinegoziazione anche a coloro che
non avevano aderito alle ristrutturazioni del 2005 e del 2010. L’Argentina ha un altro
importante appuntamento: le elezioni del nuovo presidente il prossimo 25 ottobre: la nuova
amministrazione che entrerà in carica a dicembre 2015, giocherà le sue carte sulla futura
strategia finanziaria per uscire dall’impasse.
32
INTERNI
del 08/01/14, pag. 29
Il costoso peso dell’illegalità diffusa nell’Italia
che non si riesce a risanare
Corrado Stajano
L’ indignazione nei confronti di corrotti e corruttori dura poco qui da noi, lo spazio di un
mattino, una bolla di sapone, il breve pianto del bambino quando gli è sfuggito il pallone
tra le case. Ma tutto quanto è esploso negli ultimi mesi sembra davvero preoccupante,
segno di un Paese caduto in una crisi di civiltà. Non è mai successo che, di qua e di là dal
Tevere, il presidente della Repubblica e il Papa abbiano usato a proposito della corruzione
parole così gravi nei loro messaggi di fine anno.
Napolitano, nel denunciare le gravi patologie di cui l’Italia soffre: «A cominciare da quella
della criminalità organizzata e dell’economia criminale; e da quella di una corruzione
capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e
complici in alto».(…) «Dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra
società».
E papa Francesco, «essendo anche vescovo di Roma»: «Quando una società ignora i
poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a mafiarsi, quella società si impoverisce
fino alla miseria». (…) «Domandiamoci: in questa città, in questa comunità ecclesiale,
siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti,
insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti, stanchi?».
I fatti sono sotto gli occhi di tutti, persino in una società passiva come la nostra, impaurita
per la situazione economico-finanziaria che imprigiona uomini e donne nelle loro
insicurezze private: Mafia Capitale dopo gli appalti e subappalti dell’Expo e dopo il Mose di
Venezia. Traffici loschi ai danni della collettività, affari truffaldini coi soldi pubblici,
un’illegalità diffusa, per citare soltanto le ultime colonne portanti del malfare. Con il
sospetto che ovunque, o quasi, venga messo il dito si scopra che la legge, la regola, la
disciplina siano considerate nemiche, come la questione morale.
La corruzione ha radici antiche, più in Italia che negli altri paesi dell’Europa occidentale
dove non manca ma si trova davanti a reazioni sociali che costruiscono una naturale
muraglia. Il nostro padre Dante collocò nella 5° bolgia dell’Inferno, immersi in uno stagno
di pece bollente, i barattieri, coloro che si facevano corrompere per denaro traendo profitti
e guadagni dai loro pubblici uffici. Nella Commedia finiscono straziati da diavoli neri,
Cagnazzo, Barbariccia, Draghignazzo che fanno venire in mente gli uomini della banda
della Magliana, er Cecato, er Catena, ‘o Scucciato, lo Gnappa.
Arrivando ai tempi moderni c’è soltanto da punzecchiare la memoria, tra il «mondo di
sotto» e il «mondo di sopra», quello che più conta.
L’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della banca di Sindona, uomo
dell’onestà assassinato a Milano nel 1979 dalla mafia politica, era esterrefatto e dolorante
— risulta dai suoi diari — di trovarsi nemici uomini dello Stato che avrebbero dovuto
essere al suo fianco: dal presidente del Consiglio a ministri, generali, banchieri dello Stato,
pubblici amministratori.
E nel 1981 quando gli allora giudici istruttori di Milano, Gherardo Colombo e Giuliano
Turone, indagando sulla mafia scoprirono le liste della P2 rimasero sbalorditi davanti ai
nomi degli affiliati a quell’associazione segreta fuorilegge, ministri, capi dei servizi segreti,
generali, ammiragli, diplomatici, segretari di partito, direttori di giornali.
33
E oggi? Come può risanare un paese gravemente malato e liberarlo dal costoso peso
della corruzione l’attuale governo delle larghe intese fondato su un patto segreto con un
condannato proprio per frode fiscale che sta scontando l’affidamento ai servizi sociali, a
capo di un partito «alleato d’opposizione», come viene detto? Un simbolo del grottesco. O
un ossimoro vivente.
Ma la positività è d’obbligo. Guai ad aver sospetti, anche su quel dissennato tentativo della
norma «salva Berlusconi», un blitz da governo a fumetti andato a monte, per ora, perché
nonostante tutto l’opinione pubblica seguita a essere vigile.
«Professionisti del retropensiero», ha tuonato Renzi indignato contro chi ha espresso
critiche e legittimi dubbi. (Regista dell’inghippo, il presidente del Consiglio, o incapace di
gestire un iter legislativo? «Tertium non datur»). Avrebbe potuto anche passar via liscio
quel decreto fiscale, un regalo agli evasori e, due piccioni con una fava, la cancellazione
della condanna di B. E sarebbero così diventati inutili anche gli incontri a due per la futura
presidenza della Repubblica dove si teme che le parole grazia e agibilità politica faranno
da presupposto alla trattativa su chi collocare sul Colle. Altro che rivoluzione copernicana.
Il test della politica più vecchia e stantia, piuttosto. Il pegno che Renzi ha dato a B. e B. a
Renzi. Resteranno fedeli.
Come aveva ragione quel gran critico senza eredi che fu Cesare Garboli quando, nel suo
Ricordi tristi e civili scrisse: «Ci sono perfino degli aspetti comici nella capacità italiana di
far convivere il carnevale con la tragedia».
Dell’8/01/2015, pag. 6
L’Italicum per tirare a campare
Riforme. Il governo concede la «clausola» in anticipo: la nuova legge
elettorale valida dal 2016. La promessa in aula della ministra Boschi.Il
nodo dei capolista bloccati e l’avvertimento alla minoranza Pd: o si fa
così o viene giù tutto
Andrea Fabozzi
Matteo Renzi era stato chiaro durante la conferenza stampa di fine anno, dieci giorni fa:
«Prima di parlare di quella clausola voglio vedere il testo definitivo della legge». E cioè: va
bene rinviare l’applicazione della nuova legge elettorale al (tardo) 2016, ma prima anche
i meno entusiasti dell’Italicum — minoranza Pd, fronda di Forza Italia, Lega, (al senato tutti
possono essere indispensabili) — accettino la nuova versione della legge elettorale, quella
firmata nell’ultimo patto del Nazareno con Berlusconi e Verdini. Era stato chiaro, Renzi,
ma poi ha cambiato idea.
Ieri, prima di andare a incontrare i deputati Pd (alla camera si comincia oggi con la riforma
costituzionale) chiama a palazzo Chigi la ministra delle riforme Boschi, il capogruppo del
suo partito Zanda e la presidente della prima commissione Finocchiaro, annuncia un cambio di strategia. È più importante spianare la strada all’Italicum. E così alle sei del pomeriggio, prima della discussione generale sulla nuova legge elettorale, prima del primo voto
sulle questioni pregiudiziali e sospensive, Maria Elena Boschi prende la parola nell’aula
del senato e fa una promessa: «Coerentemente con il percorso che stiamo affrontando
anche sul tema delle riforme costituzionali, il governo ritiene che l’efficacia della legge elettorale possa essere differita a una data successiva, quindi ragionevolmente al 2016». È la
clausola. La maggioranza del Nazareno «allargato» supera così di slancio i primi ostacoli,
la Lega ritira la sua richiesta di sospensione, gli alfaniani spiegano che una parola della
34
ministra basta a risolvere una sicura incostituzionalità (lo sostiene l’ex ministro Quagliariello), l’Italicum decolla in discussione generale: previsti quasi cento interventi nel deserto
dell’aula, poi — la prossima settimana — i primi voti sugli emendamenti. Un paio di questioni restano aperte. Il premio di maggioranza — previsto in realtà per la minoranza che
raggiunga il 40% dei voti validi: Renzi vuole assegnarlo alla lista, Forza Italia ma anche un
po’ di democratici fuori linea vogliono invece che vada alle coalizioni. Potrebbe essere un
problema, non fosse che Berlusconi ha ordinato al suo gruppo di non fare scherzi al premier, e almeno nei voti palesi dovrebbe riuscirci. Appena qualche rischio in più per il
governo può venire dalla minoranza Pd che a furia di ritirate strategiche è adesso attestata
nell’ultima trincea, quella del no ai capolista bloccati. Si tratta dell’ultima intesa tra Renzi
e Verdini: i capolista, che pure possono presentarsi ognuno in dieci collegi sui cento previsti, non dovranno raccogliere le preferenze, tutti gli altri sì. Una soluzione evidentemente in
contrasto con la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum e anche con il principio
di uguaglianza tra candidati all’interno della stessa lista, ma una soluzione che Renzi sta
ancora provando a difendere. La sua intenzione è quella di piegare la minoranza interna
con i metodi che fin qui hanno funzionato, la minaccia di elezioni anticipate innanzitutto.
«Se viene meno l’architrave delle riforme costituzionali viene giù tutto», ha detto ieri ai
deputati parlando del nuovo senato non più elettivo; il discorso vale naturalmente e più
urgentemente per l’Italicum. Senza relatore perché strappata alla commissione nella
famosa maratona notturna del 19 dicembre, la riforma elettorale è destinata a correre spedita appena il gruppo Pd o direttamente il governo caleranno l’emendamento che aggiorna
il testo approvato alla camera. Al netto dell’incrocio pericoloso con le votazioni per il Quirinale, la possibilità che entro la primavera l’Italicum diventi legge dello stato c’è tutta. Da
qui la necessità della clausola con la quale Renzi si impegna a non utilizzare la nuova
legge per andare al voto anticipato nel 2016. È la promessa ai senatori che questa (ultima)
legislatura non sarà breve, l’apprezzamento è trasversale. Eppure qualche senatore meno
disposto a fidarsi comincia a chiedersi: è possibile che una nuova legge elettorale tanto
attesa possa restare effettivamente in freezer anche nel caso venisse «giù tutto»? La
Costituzione vieta al governo di intervenire per decreto in materia elettorale, ma questo
divieto varrebbe anche per una piccola correzione, come far cadere domani la clausola
che si concede oggi? Un dubbio che accompagnerà l’Italicum nel suo passaggio decisivo
in aula, quando la promessa della ministra Boschi andrà tradotta in emendamento.
del 08/01/14, pag. 9
Metodo Matteo: le leggi se le scrive da solo (e
male)
AL PARLAMENTO E AL CDM ARRIVANO SCATOLE VUOTE, POI
VENGONO RIEMPITE SECONDO LA SUA VOLONTÀ. DAGLI STATALI AL
FISCO, E NAPOLITANO LO CENSURÒ
di Wanda Marra
La riforma del lavoro è il penultimo esempio (l’ultimo è la delega fiscale) del metodo Renzi
di fare le leggi. Un metodo che ha svuotato di ruolo e potere le sedi deputate. Per restare
all’esempio del lavoro: il governo ad aprile 2014 vara la legge delega. Il Parlamento
approva a dicembre. Con fiducia: il che vuol dire consegnare all’esecutivo una delega,
35
appunto, praticamente in bianco per scrivere i decreti attuativi, quelli che danno contenuto
alla riforma. Il Cdm della vigilia di Natale li fa e li approva. Ma c’è un punto – non
esattamente secondario – quello sugli statali, che non viene chiarito: rimandato al
Parlamento. O meglio alle future trattative politiche.
LA PRASSI è questa, dall’inizio. Il decreto sulla riforma della Pa, approvato dal Consiglio
dei ministri il 12 giugno, arrivò al Quirinale 12 giorni dopo, il 24 giugno. Sdoppiato. Perché
quello uscito dal Cdm era un testo “monstre”, un brogliaccio, fatto di norme giustapposte.
In quel caso, Napolitano spiegò al giovane premier che le leggi non si possono fare così.
Monito ribadito il 16 dicembre (parlando dell’ “abuso della decretazione d’urgenza”, e del
“ricorso –per la conversione dei decreti – a voti di fiducia su abnormi maxi- emendamenti,
”), nel discorso alle alte cariche dello Stato per il resto iper-renziano. Ma il presidente del
Consiglio va per la sua strada. Per dire, nella notte del 19 dicembre si fa approvare dal
Senato la legge di stabilità (ovviamente con fiducia), con alcune parti direttamente in
bianco. Confusione, imperizia, eccessiva velocità, mancanza di controllo delle strutture dei
ministeri? In parte, ma di certo non solo. Perché Renzi ha reso prassi consolidata e
portata alle sue potenzialità estreme l’abitudine di approvare le leggi “salvo intese”. Il che
vuol dire che post Cdm si può intervenire di nuovo e inserire qualsiasi cosa come (sembra)
sia successo con la delega fiscale. Lasciando un terreno di opacità su chi ha davvero
voluto una cosa. Nei vari brogliacci di legge modificati in corsa in questi mesi è entrato di
tutto: norme con sospetta incostituzionalità, favori all’una o all’altra lobby. Alcune cose
sono state tolte successivamente, altre sono rimaste. Tra la conferenza stampa in cui lo
stesso premier annuncia le misure e le misure effettivamente varate di tempo ne passa: e
così è molto difficile per l’opinione pubblica distinguere tra promesse e realtà.
NEL FRATTEMPO, la verticalizzazione delle decisioni diventa massima. Perché il
Parlamento, tra una fiducia e l’al - tra, è di fatto espropriato. E il Consiglio dei ministri
ratifica spesso cose sulle quali non ha l’ultima parola. Affidata a chi, invece, le leggi poi le
stende materialmente: il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi, guidato da
Antonella Manzione. La fedelissima ex vigilessa di Firenze, che Renzi ha voluto ad ogni
costo a Palazzo Chigi, nonostante la bocciatura della Corte dei Conti. Che ha il compito di
eseguire materialmente le direttive del Capo. Ovvero tradurre in leggi le sue intenzioni.
Alla fine, insomma, chi decide? Matteo Renzi.
del 08/01/14, pag. 14
Circoli veri e tessere false: il marcio del Pd
Capitale
DOPO GLI ULTIMI SCANDALI, VIA AI CONTROLLI NELLE 146 SEDI DEM
DI ROMA
di Antonello Caporale
Fatto centro in via dei Giubbonari, nello storico circolo tra piazza Farnese e Torre
Argentina, il rischio che la sinistra trascolori fino a divenire nero fumo è direttamente
collegato alla distanza che separa il cuore di Roma dalle sue borgate. Più ci si allontana
dalla città eterna più il Pd diviene preda di piccole imprese della clientela, gruppi di
pressione, lobby dalle identità incerte.
36
NELLA MAPPA del rischio politico il quartiere Talenti, ad est della città, figurava per
esempio tra le prime posizioni. Ed infatti ad inizio d’anno una bomba (vera) è scoppiata in
un circolo (finto). Si temono altre cattive notizie, ed altri sospetti (tra il Prenestino e il
Casilino, l’Aurelia e Boccea) illuminano la prima, straordinaria attività di zonizzazione delle
clientele che un partito abbia mai tentato. Roma, in questo caso, è all’avanguar - dia della
sperimentazione. La bomba di Capodanno non è dimenticata, rimossa sì. Già ripulito
l’ufficio, tolta l’insegna dalla stanzetta in cui Mirko Coratti, consigliere comunale, fatturava i
profitti politici della sua piccola impresa, messa su in via della Bufalotta, dentro Talenti,
l’est di Roma. Un’impresa sorta all’in - terno di un’azione parallela e autonoma di esercizio
della professione politica. Giovane, arrembante, deciso. Votato a raccogliere, nei suoi
passaggi da un partito all’altro, il meglio delle opportunità e sul mercato delle preferenze il
massimo risultato possibile. Infatti s’era visto. Primo tra gli eletti, aveva conquistato la
poltrona di presidente del consiglio comunale. “L’abbiamo letto dai giornali, a noi non
risultava quel circolo, e infatti è una sede privata”, dice Silvia Zingaropoli che insieme ad
altri dieci volontari, sotto la guida di Fabrizio Barca e su mandato del commissario Matteo
Orfini, hanno il compito di “mappa - re” il partito romano, radiografarne il corpo, saggiarne
l’esistenza in vita. Hanno saputo dai giornali della bomba che mani oscure hanno fatto
esplodere nell’ufficio del presidente del consiglio comunale rimasto impigliato nella rete di
Mafia capitale, e certo non è stato un bell’inizio.
PER CORATTI è un atto attribuibile “alla rabbia”, o anche “all’antipolitica”, a un moto
popolare di ribellione che ha trovato in lui (si è sospeso dal partito e si professa innocente)
un capro espiatorio perfetto. Gli inquirenti sembrano più cauti e cercano invece prove al
sospetto che quello scoppio sia invece nel manuale tipico dell’intimidazione, un segnale di
scuola dal tono inequivocabile. Domanda: dov’è finito il partito, nelle mani di chi? “Sono
molto preoccupato”, ha confidato Orfini. E ha ragione di esserlo perchè il timore è che altri
uffici paralleli vengano alla luce, insieme a liste elettorali e tessere fasulle, congressi farsa,
gruppi dirigenti fuori dalla condotta statutaria in un monopoli di cointeressenze, clientele,
amicizie, e lucrosi vantaggi economici. A Roma –magari obtorto collo – si inizia a fare
quello che in verità dovrebbe essere realizzato con urgenza in ogni luogo di Italia. Da
qualche settimana in un circolo del quartiere Monteverde un gruppo di volontari amanti
della ricerca e della statistica, hanno iniziato l’esame delle 146 sedi di cui si compone il
distretto politico del Pd. Devono appurare anzitutto se sono vere o finte. Si sono dati il
compito di distinguere il partito “buono” da quello “cattivo”. I circoli stimabili e le zone off
limits. I militanti certi dagli incerti. Perchè la realtà supera purtroppo la fantasia.
E UNA LETTERA del 5 settembre scorso inviata al segretario, poi commissariato, della
federazione romana, è pietra fondativa di dove il relax dei costumi possa portare. La
lettera, scritta da un pensionato e acclusa a una denuncia della coordinatrice del circolo
“Versante Prenestino”, recita: “Io sottoscritto A.C dichiaro di non aver mai voluto essere
iscritto al Partito democratico in quanto il mio orientamento politico è sempre stato di
centro destra e che il giorno 5 novembre 2013 sono stato portato con l’inganno a votare in
quanto nessuno mi aveva specificato che era il congresso del Pd e che i venti euro che mi
sono stati dati servivano a pagare l’iscrizione. Il presidente Scipioni aveva contattato sia
me che altri anziani del quartiere di Castelverde e ci aveva chiesto di andare a votare
perchè ci avrebbe aiutato ad aprire il centro anziani. Quel giorno alcuni uomini di sua
fiducia ci hanno dato venti euro e ci hanno detto chi votare”. Uno, dieci, mille iscritti così?
Era stata Valeria Spinelli, coordinatrice di un circolo sulla Prenestina, a denunciare
l’enorme business politico che l’aveva costretta a sospendere le votazioni congressuali.
Nonostante questa decisione un congresso finto si era tenuto ugualmente, con iscritti
estranei al registro ufficiale senza che la commissione di garanzia trovasse da obiettare
alcunchè.
37
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 08/01/14, pag. 23
“I boss di Mafia Capitale fecero il salto di
qualità con Alemanno sindaco”
Il riesame su Carminati: “Determinante la sua amicizia con uomini della
destra sociale ed eversiva saliti al potere”
MARIA ELENA VINCENZI
ROMA .
All’inizio era solo un’organizzazione criminale di strada. Poi in Campidoglio è arrivato
Alemanno. E per loro sono arrivati gli affari, «il monopolio dell’acquisizione degli appalti dei
servizi del Comune». Non hanno dubbi i giudici del tribunale del Riesame che Mafia
Capitale «il salto di qualità» lo abbia fatto nel giorno in cui è stato eletto sindaco l’ex
ministro di An. Ed è quello, secondo loro, uno degli spartiacque nella storia di un clan che,
fino a quel momento «operava in un ristretto ambito territoriale nel settore delle estorsioni,
dell’usura, delle rapine e delle armi. Ma con il passare del tempo si è notevolmente
ampliato sia nel numero dei partecipanti sia nei settori di intervento».
L’ESCALATION CRIMINALE
«Le ragioni di tale espansione — continuano i giudici nelle motivazioni con cui hanno
respinto le istanze di Massimo Carminati, Riccardo Brugia, Roberto Lacopo, Fabrizio
Testa ed Emilio Gammuto — devono essere ricondotte, in primo luogo, al fatto che, a
seguito della nomina di Alemanno, molti soggetti collegati a Massimo Carminati da una
comune militanza politica nella destra sociale ed eversiva ed anche, in alcuni casi, da
rapporti di amicizia, avevano assunto importanti responsabilità di governo ed
amministrative nella Capitale». I giudici fanno poi i nomi di questi “vecchi amici” tra i quali
vengono citati l’ex ad di Ama, Franco Panzironi e il consigliere regionale, Luca Gramazio.
LA JOINT VENTURE CON BUZZI
«Sotto altro profilo — continua il collegio presieduto da Bruno Azzolini — il salto di qualità
dell’attività dell’associazione è avvenuto grazie all’accordo con Buzzi, conosciuto da
Carminati in ragione del comune passato criminale». Un’intesa «che ha consentito
all’associazione di pervenire a un sostanziale controllo sull’intera attività del Comune di
Roma e delle sue partecipate in quei settori nei quali operavano le cooperative di Buzzi»
che «hanno accresciuto enormemente e in poco tempo la loro capacità di intervento ed il
fatturato, passato da 26 milioni di euro nel 2010 a oltre 50 nel 2013». In definitiva, scrivono
le toghe, «un’associazione criminale operante in Roma nel recupero crediti si amplia
ricomprendendo nella propria area di interesse anche il settore economico e quello legato
alla pubblica amministrazione». Tanto che all’intimidazione si affianca la corruzione,
«necessaria per consolidare la propria posizione monopolistica » e per «ridurre i rischi per
l’associazione» perché i corrotti non denunceranno mai.
IL “MITO” DEL CECATO
I giudici della Libertà sposano in pieno la tesi dei pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca
Tescaroli e dei carabinieri del Ros, secondo cui quella di Carminati è a tutti gli effetti
un’associazione mafiosa. E il capo, incontrastato, è lui. Un uomo «pericoloso» che
considera «il delitto come naturale modo di espressione della propria vita ». Una persona
«violenta» e «cinica » con grandi «capacità di infiltrazione nel settore politico,
imprenditoriale ed economico anche con metodi corruttivi». I magistrati lo definiscono
38
«fulcro », «etoile». «È proprio la “paura de lui” la chiave che consente di aprire tutte le
porte, anche quelle della pubblica amministrazione». Perché «la sua personale storia
criminale ha certamente contribuito ad accrescerne la “fama”. La contiguità con la Banda
della Magliana, l’appartenenza ai Nar, il coinvolgimento in processi di straordinaria
importanza mediatica, quali quello sulla strage di Bologna, l’omicidio Pecorelli e quello del
furto al caveau, sono indubitabilmente circostanze che hanno reso Carminati personaggio
criminale di eccezionale notorietà ». Da alcune accuse, poi, è stato assolto. E anche
questo, secondo il Riesame, ha contribuito a creargli «la nomea di “intoccabile”, di
personaggio in grado di uscire indenne da ogni situazione in ragione di oscuri collegamenti
con centri di potere ai massimi livelli ».
39
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Da Avvenire del 08/01/14, pag. 15
Siriani la maggioranza dei profughi
Ilaria Sesana
Appena due anni fa, la Siria non entrava nemmeno tra le prime trenta nazioni d'origine dei
profughi sotto la protezione dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati
(Acnur). Oggi rappresentano il 23% del totale (più di 3 milioni di persone), più numerosi
persine degli afghani che, per oltre 30 anni, si erano aggiudicati questo triste primato.
E quanto emerge dal Rapporto sui primi sei mesi del 2014 diffuso ieri dall'Acnur. «Un
cambiamento che dimostra il rapido deteriorarsi della situazione nel Paese», si legge nel
testo. Sempre secondo i dati delle Nazioni Unite, il 14% della popolazione ha dovuto
lasciare la Siria durante la guerra per cercare accoglienza all'estero, soprattutto nei Paesi
limitrofi: Turchia (798mila), Giordania (645mila), Iraq (220mila), Egitto (138mila). Ma è
soprattutto il Libano, con 1,1 milione di rifugiati, a reggere buona parte del peso della crisi
siriana. n Paese dei Cedri, infatti, ha il più alto tasso di rifugiati ogni mille abitanti al
mondo: 257. Per dare l'idea, il primo tra i Paesi europei è Malta con un tasso di 23 rifugiati
ogni mille abitanti. Nei primi sei mesi del 2014, 5,5 milioni di persone sono state costrette a
lasciare le proprie case.
Portando a quota 13 milioni i rifugiati sotto il mandato dell'Acnur, il numero più elevato dal
1996, mentre il totale degli sfollati interni protetti o assistiti dall'Agenzia ha raggiunto il
nuovo record di 26 milioni. «Fino a che la comunità internazionale continuerà a fallire i
tentativi di trovare soluzioni politiche ai conflitti esistenti e dì prevenirne di nuovi, noi ci
troveremo ad avere a che fare con le drammatiche conseguenze umanitarie», ha
affermato l'Alto Commissario Onu per i Rifugiati Antonio Guterres. Con 2,7 milioni di
persone, gli afghani rappresentano il secondo principale gruppo di rifugiati sotto la
protezione Acnur, seguiti dai somali (1,1 milioni) e dai sudanesi (670.300 persone). Ad
accogliere questa imponente massa di persone sono soprattutto i Paesi limitrofi alle aree
di crisi, nonché - spesso - quelli più poveri e dalle economie più fragili: il Pakistan, ad
esempio, accoglie 1,6 milioni di rifugiati, in maggioranza afghani. Seguo il Libano, Iran,
Turchia, Giordania, Etiopia, Kenya e Chad.
40
SOCIETA’
del 08/01/15, pag. 24
“Mai più il logo Expo a convegni omofobi”
Milano, il commissario unico Sala contro Maroni: “Il nostro marchio non
può essere usato in modo così indiscriminato” Appello alle comunità
gay: “Incontriamoci e troviamo forme di coinvolgimento, voglio
un’Esposizione aperta a tutti i mondi”
ALESSIA GALLIONE
MILANO .
«Non abbiamo mai autorizzato l’utilizzo del logo di Expo per quel convegno », dice a
Repubblica Giuseppe Sala. È per questo che, dopo il caso del forum in odore di omofobia
organizzato dalla Regione, adesso il commissario unico dell’Esposizione invoca «nuove
regole». Anche per i soci dell’evento. Anche per il Pirellone: «Regione Lombardia pensava
che ci fosse un automatismo sull’utilizzo del simbolo, ma c’è stato un fraintendimento. È
arrivato il momento di rivedere il meccanismo perché il nostro marchio non può essere
messo in modo indiscriminato su ogni iniziativa». Ma dopo le proteste e la bufera che si è
abbattuta su Expo, dopo gli inviti a cancellare il simbolo dalla locandina, le minacce di
boicottaggio e le 700 mail che sono arrivate in pochi giorni sulla casella elettronica della
società del 2015, Sala lancia anche un altro appello. Diretto, questa volta, alle comunità
omosessuali: «Incontriamoci e discutiamo di come sia possibile organizzare un
coinvolgimento vero in Expo. Vogliamo portare a Milano 20 milioni di turisti ed essere
aperti a tutti i mondi ».
Alla fine, in calce alla locandina di invito per l’incontro in programma il 17 gennaio, oltre al
simbolo del Pirellone c’è anche quello dell’Esposizione. Ed è per questo che il simbolo è
finito ancora una volta nella bufera. Associato, questa volta, addirittura all’omofobia.
Giuseppe Sala spiega: «Abbiamo chiesto a Regione di togliere il logo». Eppure,
nonostante la lettera ufficiale spedita per ricordare come ogni appuntamento che vuole
vestirsi dei colori del 2015 debba passare da una commissione creata ad hoc, il
governatore Roberto Maroni ha deciso di tirare dritto. Il simbolo non sarà cancellato:
«Sono due anni che usiamo il marchio Expo per tutte le iniziative e continueremo a farlo»,
ha tagliato corto. Ma la Regione, in realtà, non potrebbe farlo. Ed è questo che dice Sala:
«La Regione si è mossa in modo diverso rispetto agli altri soci che, come il Comune,
chiede l’autorizzazione per ogni singolo evento. Pensavano di poterlo fare sulla base di
alcune riunioni tra gli uffici che non hanno definito con precisione le regole». Ma non è
così. Ormai il caso è esploso. E per il futuro serve una nuova strategia: Expo non potrà
finire legato a qualsiasi appuntamento. E il dibattito sulla “famiglia tradizionale”? Maroni
chiuderà i lavori e, dice, «se qualcuno sosterrà tesi strampalate (sull’omosessualità, ndr),
dirò che non sono d’accordo?». «Prendo atto delle parole di Maroni», dice il commissario.
Ma il caso non è ancora chiuso. Un gruppo di senatori del Pd ha presentato
un’interrogazione urgente per «fare luce sul convegno e valutare se, per l’assegnazione
del patrocinio, l’Expo si sia attenuta alle regole formali sancite dal suo stesso
regolamento». L’associazione Certi Diritti, invece, la sua protesta l’ha spedita a Parigi, al
Bureau international des expositions che sovrintende l’organizzazione delle Esposizioni.
41
del 08/01/14, pag. 47
Famiglia. La Corte d’appello di Torino ha ordinato la trascrizione
all’anagrafe - Il Comune prende tempo
Nato da due donne: ha status di figlio
La Sezione famiglia della Corte d’appello di Torino (presidente Renata Silvia, relatrice
Daniela Giannone, giudice Federica Lanza), per la prima volta in Italia, ha accolto la
richiesta di due donne, sposatesi in Spagna (indicate come «madre A» e «madre B»), di
trascrivere l’atto di nascita del figlio dato alla luce nello stesso Paese con l’inseminazione
eterologa. Una delle due donne è di nazionalità italiana.
La Corte ha ribaltato l’iniziale no del Tribunale dell’ottobre 2013, ordinando all’ufficiale di
stato civile del Comune di Torino di trascrivere la nascita del bambino. In primo grado era
invece prevalso il principio dell’ordinamento italiano secondo cui la madre è colei che
partorisce il bambino (in questo caso la cittadina spagnola) mentre la donna italiana,
donando gli ovuli, non aveva titolo per essere considerata tale - non essendo stato
riconosciuto un rapporto di filiazione - e quindi non poteva esercitare la genitorialità sul
minore (si veda l’articolo sotto).
Al bambino è stato riconosciuto un «diritto all’identità personale », per garantirgli tutele di
tipo sociale e patrimoniale, affinché possa contare sia su una rete riconosciuta di parenti
sia su diritti assistenziali e patrimoniali, in particolare ereditari .
Le due donne si erano sposate in Spagna nel 2009 e hanno divorziato nel 2014, pur
mantenendo la condivisione della responsabilità genitoriale. Per il ricorso si sono affidate
agli avvocati Stefano Garibaldi, Giovanni Acerbi e Gerardo Fortunato Tita. Garibaldi fa
presente che «i decreti si devono eseguire e che diversamente potrebbe configurarsi un
reato. Se ritiene, il Comune può ricorrere in Cassazione».
La posizione del Comune
Nonostante il decreto della Corte d’appello di Torino - datato 29 ottobre 2014 ma
depositato nei giorni scorsi - l’atto di nascita, almeno per il momento, non verrà trascritto.
La decisione è stata presa dopo un colloquio telefonico tra i Servici civici e la Prefettura di
Torino perché quest’ultima intende richiedere un parere al ministero dell’Interno. È quanto
ha precisato l’amministrazione comunale, negando quindi che ci sia un rifiuto da parte
degli uffici a eseguire quanto ordinato dai giudici. «Si precisa - si legge in una nota - che
questa richiesta è una prassi nei casi in cui è necessario approfondire l’interpretazione
delle norme, essendo gli enti locali delegati semplicemente a eseguire e applicare le
norme di Stato civile».
Ilda Curti, assessore alle Pari opportunità del Comune di Torino, commentando la vicenda
aggiunge che «il bambino ha diritto di avere riconosciute le due figure genitoriali di
riferimento, in questo caso due madri, che lo tutelino e abbiano nei suoi confronti gli stessi
diritti e gli stessi doveri di un qualsiasi altro genitore». Sulla sospensione della trascrizione,
l’assessore sostiene «la necessità di avere un’interpretazione univoca della norma ma
soprattutto un impianto legislativo che prenda atto dei cambiamenti sociali e civili in corso
nella materia in oggetto».
Primi commenti
«La concezione comune ci dice che una famiglia è composta da una madre e un padre. E
non servono interpretazioni sociologiche, ma basta andare per strada a chiedere ai
passanti. Visioni diverse vanno introdotte per legge e non tramite sentenze - scrive in una
nota il deputato del Pd Edoardo Patriarca, componente della commissione Affari sociali -.
Molto meglio sarebbe passa attraverso un percorso parlamentare» conclude Patriarca.
42
Rincara la dose Eugenia Roccella, parlamentare di Area popolare (Ncd - Udc): «Non è
nato da due donne il bambino che in Spagna risulta avere due madri, le quali, secondo i
giudici di Torino, dovrebbero essere riconosciute anche in Italia. Quel bambino ha un
padre, nascosto sotto l’espressione donatore, un padre che i magistrati accettano di
negare. Se questo atto di nascita del bambino venisse trascritto, si introdurrebbe quindi, di
fatto, il matrimonio omosessuale in Italia, con tanto di diritto di divorzio e di prole.
43
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 08/01/14, pag. 10
Ilva, il veleno sta sereno
Il governo “condona”
NEL DECRETO VARATO ALLA VIGILIA DI NATALE SALTANO LE
PRESCRIZIONI PIÙ IMPORTANTI COME LA COPERTURA DEL “PARCO
MINERIALI”, PRINCIPALE INQUINATORE DEL QUARTIERE TAMBURI
di Carlo Di Foggia
Poche righe e il condono ambientale è servito. Com’è prassi nell’era renziana, le pieghe
dei decreti di governo approvati alla cieca dal consiglio dei ministri si arricchiscono di
cavilli che ne svuotano la portata e le buone intenzioni. Molte promesse, poi, spariscono
del tutto. Andiamo con ordine. Comitati e associazioni di Taranto sono infuriati, e puntano
il dito su un comma del decreto “Salva Ilva” approvato dal governo la vigilia di Natale ed
entrato in vigore lunedì: quello che stabilisce che il piano di risanamento ambientale “si
intende attuato se entro il 31 luglio 2015 sono realizzate, almeno nella misura dell’80 per
cento, le prescrizioni in scadenza a quella data”. L’Autorizzazione ambientale integrata –
che dovrebbe impedire all’Ilva di continuare a uccidere i Tarantini – ne prevede 94. Stando
al testo, quindi, circa il 20% verrà di fatto condonato. Non solo. La valutazione, infatti, è
puramente numerica, senza alcun accenno ad elementi quantitativi. Significa che basterà
realizzare circa 75 prescrizioni per chiudere definitivamente la pratica delle bonifiche. Non
importa quali.
Peccato, però, che nel maggio scorso il governo abbia prorogato molte scadenze, visti i
ritardi nell’attuazione delle bonifiche, e alle date, salteranno tutte gli interventi più
importanti, a partire dalla copertura del parco minerali, considerato il principale
responsabile del sollevamento delle polveri verso il rione Tamburi. Servono 28 mesi per
metterli i sicurezza (in uno dei parchi dovrebbe sorgere l’edificio più grande d’Euro - pa),
ma i lavori non sono ancora partiti e i progetti esecutivi non hanno ottenuto il via libera
definitivo. “Nel quartiere sono increduli –spiega Angelo Bonelli, leader dei Verdi –è il
tradimento di qualsiasi speranza di un futuro migliore”. A scorrere la lista delle bonifiche a
rischio c’è di tutto: dagli interventi sugli agglomerati alle cokerie, agli altiforni. Prescrizioni
che da sole valgono costano quasi un miliardo di euro. Basta fare affidamento su una
cinquantina di interventi minori, e il gioco e fatto. La copertura di tutti i parchi minerari,
invece, non sarà obbligatoria, e a oggi è previsto solo la bagnatura delle polveri per
impedire la dispersione. Salta anche il 45 per cento delle coperture dei nastri che
trasportano i materiali, così come la fermata di diverse batterie degli altiforni. A finire nelle
maglie del condono anche il nuovo sistema di trattamento delle scorie dell’acciaieria:
“Saranno conclusi entro il 3 agosto 2016”, scriveva il governo nel maggio scorso. Ora
però, dopo luglio 2015 dovrà essere emanato un nuovo decreto ministeriale per
rideterminare la scadenza.
NESSUN OBBLIGO, però, ma solo un auspicio senza limiti precisi. C’è poi il sistema di
sicurezza “Proven”, quello che dovrebbe regolare la pressione interna dei forni: “Sarà fatto
entro 22 mesi”, quindi è fuori. Il condono riguarderà anche i livelli di guardia delle polveri
sottili: le soglie di sicurezza dovrebbero essere garantite da filtri e sistemi di spegnimento
che però non sono ancora stati completati, e viste le disposizioni del decreto non ci sarà
44
alcun obbligo ad accelerare i tempi. Stesso discorso vale per l’inquinatissima area di
gestione dei rottami ferrosi. “È assurdo – spiega Fabio Matacchiera, del Fondo
antidiossina di Taranto - Abbiamo fatto anche degli esposti alla Pocura: si tratta di un’area
visibilmente inquinante, dove si vedono i fumi alzarsi anche di notte”. “Così facendo il
governo ammette di non voler bonificare l’Ilva, visto che gli interventi più importanti non
sono più obbligatori”, spiega Bonelli. “Quella misura significa che Renzi ha solo deciso di
prendere tempo. Il tutto con un provvedimento incostituzionale”, continua Matacchiera. Il
riferimento all’impunità penale e civile per il futuro commissario (e i suoi uomini) che dovrà
gestire l’Ilva in amministrazione controllata. Il perché è presto detto: stando al testo, molte
delle prescrizioni sanitarie non verranno rispettate. Il cavillo disinnesca così qualsiasi
iniziativa della Procura di Taranto. Lo stesso obiettivo, peraltro, dei precedenti sei decreti
salva acciaieria varati dai governi Monti e Letta. Non solo. Dal testo sono spariti anche i 30
milioni per finanziare un progetto a Taranto di ricerca sui tumori, specialmente quelli
infantili, promessi dal premier. Stessa cosa anche per le assunzioni “a tempo
indeterminato” di personale per potenziare le attività di controllo dell’Arpa Puglia: niente da
fare. All’agenzia sono increduli, anche perché la promessa compeggia ancora sul sito di
Palazzo Chigi. Il governo, peraltro, nel decreto mette nero su bianco che “la valutazione
del danno sanitario non può modificare le prescrizioni che devono essere adottate sugli
impianti”. In pratica se la situazione peggiora, gli interventi di bonifica non cambiano. La
risposta a questa norma, forse, è nello studio della valutazione del danno sanitario redatto
dall’Arpa Puglia: in caso di non applicazione delle prescrizioni sarebbero a rischio cancro
25 mila persone, che in caso di piena applicazione si ridurrebbe solo del 50%. “Assistiamo
a un’operazione mediatica basata sul nulla perché il decreto di Renzi non stanzia neppure
un euro – spiega Alessandro Marescotti di Pacelink – Quel testo specifica anzi molto bene
che dalla sua attuazione ‘non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica’”.
45
INFORMAZIONE
Dell’8/01/2015, pag. 6
ITALIA
Left chiude e l’editore Fago se la ricompra
A gettare la spugna non ci pensano proprio e pur di provare a salvare il giornale in cui
lavorano da anni lanciano un appello ai propri lettori. «Aiutateci a comprare la testata».
Per Left questi primi giorni del 2015 rischiano di essere cruciali, quelli in cui si gioca il
futuro del giornale e dei suoi dipendenti. Dopo essere uscito per anni in allegato all’Unità,
con la chiusura del giornale fondato da Gramsci qualche mese dopo anche il settimanale
è stato costretto a interrompere le uscite in edicola. Interruzione tanto traumatica quanto
improvvisa, visto che, nonostante un sensibile calo delle vendite, le possibilità di proseguire con le pubblicazioni erano ancora molte. A dicembre, però, due fatti hanno contribuito a far precipitare le cose: la scoperta di rischiare di perdere il contributo dell’editoria
visto che, dopo il primo fallimento del marzo 2014 dell’Editrice Altra Italia la nuova cooperativa creta dai dipendenti, la Left-Avvenimenti, anziché prendere in affitto la testata ha
continuato a utilizzarla in comodato d’uso.
Il secondo fatto è stata la marcia indietro di Matteo Fago, già tra gli editori dell’Unità, che
aveva promesso un suo ingresso nella cooperativa e di conseguenza la salvaguardia degli
undici posti di lavoro, otto giornalisti, due poligrafici e un amministrativo ma che poi —
denuncia la redazione — si è tirato indietro. Salvo poi ricomparire a sorpresa ieri annunciando con un comunicato di aver fatto un’offerta tramite la Editoriale 90 per l’acquisto
delle testate di due giornali in liquidazione coatt: Left, per l’appunto, e il Salvagente.
Per i redattori di Left, impegnati nel tentativo di salvare il giornale, si è trattato di una vera
doccia fredda. Anche perché Fago non avrebbe dato nessuna rassicurazione circa il mantenimento dei posti di lavoro. «Dopo averci comunicato di non avere più alcun interesse ad
investire nella cooperativa – scrivono in una nota – Fago ha avanzato la sua offerta di
acquisto della testata promettendo che il settimanale tornerà in edicola. Gli chiediamo dunque di chiarire i suoi intenti con i lavoratori della cooperativa. Ci aspettiamo che Left
riprenda le pubblicazioni con lavoratori che da sempre lo producono».
Nel frattempo redattori e poligrafici hanno deciso di tentare l’impossibile partecipando
anche loro all’asta per l’acquisto della testata, la cui scadenza è fissata per il 16 gennaio
prossimo. Per farlo però hanno bisogno dell’aiuto dei lettori, ai quali adesso chiedono di
contribuire alla raccolta dei soldi necessari. Quanto prima sulla pagina Facebook LeftAvvenimenti verranno pubblicati i dati bancari dove versare un eventuale contributo. Presto, perché i tempi sono stretti.
46
CULTURA E SCUOLA
del 08/01/14, pag. 11
Nomine Mibact, tra Tar e conflitti d’interessi
IL GIUDICE SPOSATO CON UN DIRIGENTE DEL MINISTERO DÀ L’OK
AL RICORSO, MA POI LASCIA LA DECISIONE A UN COLLEGA
di Carlo Tecce
Dario Franceschini non ha mai tradito il consueto stile da uomo democristiano, felpato,
molto accorto. E ha preparato, il ministro della Cultura, una conferenza presso la stampa
estera, in programma oggi. Perché sostiene di meritare il rimbombo mondiale per la
riforma che ha stravolto (vedremo se in bene o in male) il dicastero che governa e per
illustrare, ecco la medaglia che rivendica, il bando europeo per la selezione dei prossimi
reggenti dei musei italiani. Non ha previsto, però, che il primo inconveniente fosse
burocratico, di leggi e di carte (bollate). Giovedì 15 gennaio, per fortuna il calendario non
compromette la narrazione franceschiniana, giovane cinquantenne (classe 1958) che può
ambire al Quirinale, il Tribunale Amministrativo del Lazio ha fissato l’udienza per decidere
se sospendere o non intaccare le nomine di Franceschini per sei direzioni generali, una
tornata insidiosa terminata il 24 dicembre di vigilia.
Il ricorso l’hanno depositato gli avvocati di Francesco Prosperetti, che fu preallertato,
spiega nella memoria, dal gabinetto del ministero per l’incarico per l’Arte e l’A r c h i t e
ttura Contemporanea. I dettagli contano. Nel giro di pochi minuti, Prosperetti ha ricevuto
due telefonate dal gabinetto del Mibact (ora si chiama così): una per annunciare la lieta
novella e una per rettificare non senza imbarazzo. Imbarcato e poi espulso Prosperetti, un
dirigente di prima fascia che ha partecipato al concorso interno, viene premiata Federica
GalloDario Franceschini La Pre ss e ni, già sovrintendente a Roma. Prosperetti chiede al
Tar di bloccare la promozione di Galloni e anche di Ugo Soragni, designato per i musei.
Se la faccenda fosse noiosa, non temete, qui arriva il pezzo forte, più divertente. Il 29
dicembre, il Tar Lazio convoca un’udienza per valutare l’esposto di Prosperetti, il titolare di
sezione è assente, allora tocca a Filoreto D’Agostino, marito di Maria Vittoria Marini
Clarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e candidata, come i suoi
colleghi, a una direzione generale.
L’AVVOCATO DELLO STATO si oppone con la solita affermazione che fa infuriare e
inorgoglire i giudici: “Il Tar non è competente”. Ma per D’Agostino, che istruisce la pratica e
reclama i documenti, il Tar può esaminare le scelte del Mibact. Scoperto l’involontario
conflitto d’interessi, al ministero temono che D’Agostino possa bloccare il piano di
Franceschini; la questione sì riguarda due caselle, ma farebbe saltare l’intero impianto.
Per evitare sospetti o, peggio ancora, ricusazioni, D’Agostino consegna il fascicolo al
presidente della sezione Quater, il napoletano Eduardo Palumbo. Questo è accaduto ieri
mattina al Tar, e l’attesa al ministero era più che adrenalinica. Per buona sorte di
Franceschini, Palumbo non ha optato per la sospensiva in maniera monocratica, ma ha
stabilito che il collegio si riunirà il 15 gennaio in Camera di Consiglio. Sarà un esame
d’urgenza, i termini sono ridotti, comunque. Perché inizialmente si pensava che il Tar
potesse slittare a fine mese, mentre in questi giorni la Corte dei conti deve concedere il via
libera al Mibact sui sei indicati. Oltre ai sindacati, un gruppo di intellettuali ha firmato un
appello per Prosperetti, in cima all’elenco si notano i nomi di Achille Bonito Oliva e
Domenico De Masi. Congelato il problema, per il momento, Franceschini potrà esibirsi sul
47
bando internazionale per venti dei principali musei italiani, dalla Galleria Borghese di
Roma alla Pinacoteca di Brera di Milano, dalle Gallerie dell'Accademia di Venezia al
Palazzo Reale di Genova.
Dell’8/01/2015, pag. 11
La dignità non è nel Fiscal Compact
Intervento. L'autore dialoga con l'ultimo libro di Stefano Rodotà, edito
da Laterza, «Solidarietà, un'utopia necessaria»
Gianni Ferrara
Col suo ultimo libro (Solidarietà, un’utopia necessaria, Laterza, pp.141, euro 14) Stefano
Rodotà allarga il campo dell’impegno scientifico e politico nella lotta per i diritti che, da
decenni, ha ingaggiato con tenacia ininterrotta e con successo non solo dottrinale. Lo
amplia alle precondizioni, ai connettivi dei diritti e che ne sono forse anche i nuclei primigeni. A denominarli è un nome: principi. E, mai come a questo proposito, il nome è la
cosa. Di questi connettivi Rodotà sceglie la solidarietà, il più complesso (a questo proposito il rinvio è all’intervista rilasciata a Roberto Ciccarelli sulle pagine di questo giornale il
4 dicembre). Complesso perché ha una storia particolarmente intrecciata con quella di altri
connettivi. Complessa perché matrici diverse la hanno motivata come propria derivazione,
connotandola con le relative impronte, intanto che altri connettivi provavano ad assorbirla.
Naturalità, moralità, carità, assistenza, beneficenza, fraternità, doverosità, diritto, eguaglianza e gratuità lambiscono, investono, assumono la solidarietà e la interpretano curvandola al loro spirito ed essenza. Ognuna di esse, in verità, ha svolto un ruolo che va riconosciuto almeno come rivelazione della possibilità e della pratica di un’esigenza umana mai
del tutto sradicata. Rodotà ne fa la storia degli ultimi secoli e ne descrive le movenze e i
ruoli collaterali che ha svolto e anche le valenze strumentali che ha saputo esprimere. Ma
sa distinguere, separare, sa individuare le impronte che possono come assorbirla ed esaurirne — e anche degradarne — l’essenza. Sa, soprattutto, scegliere il fondamento sicuro
su cui costruire la solidarietà come principio. È quello del diritto, della norma giuridica. Prosegue così l’alto e nobile insegnamento di quel padre del costituzionalismo che formulava
la prima enunciazione dei diritti sociali attribuendo allo stato gli obblighi di offrire a «tutti
i cittadini la sussistenza assicurata, il nutrimento, un abbigliamento decente, e un genere
di vita che non sia dannoso alla salute», Montesquieu.
La solidarietà è così che si concretizza. Per poter essere principio giuridico, deve poi
dispiegarsi in diritti. È il modo in cui si libera dalle tante impronte che la hanno segnata. Da
quelle impresse da una incerta naturalità, dalla inerme moralità, dalla doverosità a irritante
garanzia della proprietà, dalla evanescente fraternità, a quelle, inesorabilmente mortificanti, della carità, della assistenza e della beneficenza. È il modo in cui si eleva a fonte
rivendicativa della dignità umana. Ma ha di fronte il mondo della globalizzazione. Che
è quello del mercato capitalistico, perciò della proprietà privata e del profitto, del trionfo
dell’una e dell’altra da trent’anni celebrato senza pause e senza limiti alla devastazione
delle conquiste di civiltà che l’idea e le forze della solidarietà avevano raggiunto. È il
mondo della barbarie postmoderna.
Rodotà non lo accetta, invita a riflettere sulla tortuosa storia della solidarietà, sulle politiche sociali che furono imposte dalle forze che ne avevano necessità e che ebbero ascolto
nelle dottrine giuridiche e politiche che ne reclamarono forme di riconoscimento. Forme
diversificate che andavano dal corporativo, al caritatevole, al compassionevole, al mutualismo contadino ed operaio. E che, pur nei limiti e con le torsioni che le caratterizzavano,
48
testimoniano tuttavia una possibilità di affermazione pluralistica del principio. Consentendo
in tal modo che per «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale» dell’articolo 2 della Costituzione, all’insostituibile e prevalente azione istituzionale possano aggiungersi iniziative sociali (volontariato, terzo settore) alla base della
forma-stato. A questo proposito, va riconosciuto a Rodotà il merito di proporre
un’interpretazione di quest’articolo della Costituzione che, nell’affermare che la Repubblica
«richiede» l’adempimento dei doveri della solidarietà, estende al massimo i destinatari
della norma, universalizza la sua efficacia.
Affronta la questione del Welfare State, della sua origine e crisi. Ne ricostruisce la molteplicità dei significati, mostra come e perché il Welfare denomina una specifica forma di stato
costruendola proprio intorno alla solidarietà. Una forma di stato che, a partire dai principi
fondamentali che furono enunciati nei primi articoli della nostra Costituzione e proseguendone il disegno normativo per la forma-stato della contemporaneità, ridefinisce la persona
umana come centro di riferimento della solidarietà, sia come titolare del diritto sia come
destinatario del dovere di solidarietà. La ridefinisce in termini di cittadinanza tanto comprensiva di diritti integrati l’un l’altro da assicurare il ben-essere, l’autodeterminazione, cioè
il potere di crearsi un’esistenza dignitosa, a progettarla come credibile prospettiva,
a viverla come effettiva condizione umana.
Ma quando, dove, come? Di cos’altro è indice, in quale contesto la si può concretizzare,
con quale altro prodotto storico, per essere stata storicamente determinata, la solidarietà
può e deve convivere? Chi può assicurarla nella materialità dei rapporti umani esistenti,
chi la può sostenere alla base degli ordinamenti giuridici vigenti, insomma, di quale
e quanta forza sociale dispone la solidarietà oggi?
Rodotà non nasconde affatto che il produttore storico della solidarietà, degli istituti che la
hanno concretizzata, dei diritti che ha generato, il movimento operaio, insomma, è stato
frantumato e che non c’ è più nessuno in grado di contenere e respingere le pretese
e l’arbitrio dei costruttori del «nuovo ordinamento normativo governato da un potere
sovrano, quello delle grandi società transnazionali che davvero si pongono come il soggetto storico della fase presente». La fase cioè dell’avvento e del consolidamento del
dominio globale del capitalismo neoliberista, il nemico storico e strutturale della solidarietà.
Cosa opporgli che sia credibile e perciò consentaneo, collegabile, corrispondente anche
nella prospettiva dell’esigenza sempre più pressante dell’universalizzazione della solidarietà? Rodotà non deflette dalla più rigorosa coerenza con le premesse, e le scommesse,
da cui parte. Non credendo alla emersione di soggetti storici che possano, nel breve
periodo, riprendere con successo la lotta del movimento operaio per la solidarietà, intravede però focolai di resistenza e di contrasto al potere sovrano delle centrali transnazionali
del capitalismo neoliberista.
Al sociale frantumato, al politico servente l’economico per aver abdicato a suo favore, il
giuridico gli sembra confermarsi come credibile potenziale di produzione della solidarietà.
In una sentenza recentissima della Corte di giustizia dell’Ue scorge una sorta di rivendicazione della prevalenza dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta di Nizza
sull’interesse economico di una corporation transnazionale della forza di Google. Attribuisce a questa sentenza l’efficacia costitutiva di «una nuova gerarchia fondata sui principi…
espressi dai diritti fondamentali». Come se, per incanto, rovesciando la sua giurisprudenza
di favore al principio della concorrenza e a danno dei diritti del lavoro, la Corte di Lussemburgo avesse abrogato quella che Rodotà chiama la «contro costituzione» dell’Ue, fondata
sul Fiscal Compact e che, invece, io credo che sia la vera «costituzione» europea. Come
se, la stessa Corte, avesse anche espunto dal Trattato sul funzionamento dell’Ue le norme
che impongono come vincolo assoluto della dinamica e come fine dell’Unione «l’economia
di mercato aperta ed in libera concorrenza». Qui l’amore paterno dell’eccellente ma non
49
solitario legislatore della Carta di Nizza ha fatto aggio sull’acutissimo spirito critico del
giurista.
Ma, a riflettere, chissà: questa interpretazione-ricostruzione operata da Rodotà potrebbe
anche assumere valore preconizzante di un processo che l’astuzia della storia del diritto
futuro, grazie ad una raffinatissima ermeneutica, con tacite abrogazioni e provvide addizioni, consenta che i principi che Rodotà ha ridefinito acquistino effettività giuridica. Sicché
da «utopia necessaria» diventi esperienza vivente quella solidarietà che il movimento operaio si inventò e che Rodotà ricorda come rapporto tra eguali e perciò autentica. Affiora
così il tema dell’eguaglianza. Quello sul quale chi scrive sta aspettando il maggior defensor dei diritti del nostro tempo.
del 08/01/15, pag. 40
Lo scrittore, imputato per istigazione per aver detto “la Tav va
sabotata”, contrattacca in un libro “Se l’opinione è reato, continuerò a
commetterlo”
“Le mie parole alla sbarra” Il j’accuse di Erri
De Luca
SIMONETTA FIORI
di Erri De Luca (Feltrinelli, pagg. 64 euro 4). In libreria dal 15 gennaio
ALLA fine lo dice anche Erri De Luca: essere processati è come vincere un premio
letterario. Non importa che l’assegnazione avvenga in un’aula di tribunale anziché nel
salone delle feste. E non importa che sia l’unico candidato. Anzi, la ribalta può essere
ancora più illuminata, un’occasione non per chiudersi in difesa ma per partire al
contrattacco. Da imputato lo scrittore diventa accusatore. Da sabotatore, vittima di
sabotaggio. Del «sabotaggio del diritto di manifestazione verbale, soprattutto quando la
parola non è ossequiosa ma contraria». In attesa dell’udienza, fissata il 28 gennaio, la
controffensiva è affidata a un pamphlet, già pronto anche in edizione francese: La parole
contraire esce oggi da Gallimard , La parola contraria tra una settimana da Feltrinelli. «La
parola contraria è stata messa su un piedistallo di valore », scrive De Luca. «Penale per i
giudici, costituzionale per me».
La procura di Torino l’ha rinviato a giudizio ritenendo che vi sia una relazione tra una sua
improvvida dichiarazione rilasciata nel settembre del 2013 all’ Huffington Post — «la Tav
va sabotata» — e la miriade di attentati successivi a quell’intervista. Post hoc, ergo propter
hoc, secondo l’accusa. «Una relazione indimostrabile », secondo l’imputato che riconduce
il verbo “sabotare” al suo significato di “ostacolare” e “impedire”, «cosa ben diversa dal
danneggiamento materiale». «Un’invocazione di malaugurio», aggiunge lo scrittore
alludendo alle sue radici napoletane. «E il malaugurio non è perseguibilento, le
penalmente».
Dopo svariati decenni uno scrittore torna dietro la sbarra. L’elenco dei romanzieri finiti in
procura è fin troppo lungo in Italia, con vittime illustri come Pasolini e Moravia, Testori e
Bianciardi, Tondelli e Busi. Ma, attenzione, quasi sempre l’accusa è di oscenità, reato
tuttora in vigore. Mentre nel caso di De Luca non si tratta di offesa al pudore, retaggio di
un’Italia contadina che non c’è più, ma di istigazione a delinquere e istigazione alla
violenza, eredità di un passato che non passa. Una sua condanna porterebbe l’Italia al
Medioevo, perché le opinioni pur scriteriate non si condannano se non ne è dimostrata
50
una connessione con l’azione violenta. E appare difficile immaginare questo signore dal
volto scavato e dal fisico ascetico, biblista autodidatta e scrittore visionario, affannarsi
intorno a candelotti di dinamite e bombe molotov.
I suoi avversari si ostinano a ricordarne i trascorsi nel servizio d’ordine di Lotta Continua
come una sorta di male irredimibile. Lui si schermisce: «Non sono incriminato per aver
fatto ma per aver detto». Preferisce rispondere con i suoi libri: «In quale di essi ho istigato
a commettere dei reati? ». In fondo il martirio non gli rincrescerebbe, «ma i giudici questo
piacere non te lo fanno », lo provocano gli amici alludendo alla vanità dell’ex combattente.
Ecco, la vanità dell’ex combattente. È la stessa che traspare anche dal suo j’accuse
bilingue, l’autoincensamento di una generazione che è tuttora orfana di un passato viospesso riproposto in modo narcisistico e irresponsabile come l’età dell’oro di un’Italia
assetata di giustizia. Una schiera di reduci di una guerra mitizzata, dichiarata soltanto da
loro, e verso la quale non sono capaci di una sola «parola contraria».
Anche i riferimenti culturali, esibiti nel libro con impudente ingenuità, documentano un
tempo interiore seppellito dal tempo della storia. L’autore confessa che vorrebbe essere
per i giovani di oggi quel che fu per la sua generazione l’Orwell dell’ Omaggio alla
Catalogna , ossia un intellettuale che nel 1936 aveva partecipato alla guerra civile
spagnola. E ancora, rimpiange la mobilitazione dei maîtres a penser contro il colpo di
Stato cileno, l’11 settembre del 1973. E ricorda che anche nella Marsigliese, l’inno della
rivoluzione francese, c’è il richiamo alle armi. Ora la Tav è una discutibilissima opera
pubblica contro la quale valgono molti argomenti, ma non siamo in guerra contro Franco
né contro Pinochet, tanto meno contro Luigi XVI. La lucidità è necessaria in un paese che
sotto Natale si ferma per un attentato ai treni rivendicato con sigle “No Tav”. Un danno
enorme per i tanti che si oppongono all’alta velocità con metodi democratici. E anche su
questi attentati sarebbe necessaria «una parola contraria», che però De Luca nel suo
pamphlet si astiene dal pronunciare.
Lo scrittore al momento rilancia, trasformando il suo dibattimento in un processo ai giudici
che l’hanno rinviato a giudizio. «Sul banco degli imputati mi piazzano da solo, ma solo lì
potranno. Nell’aula e fuori isolata è l’accusa». Mentre i suoi avvocati si mettono le mani nei
capelli, annuncia che «se condannato non inseguirò altri gradi di giudizio in cerca di più
favorevoli sentenze». E «se dichiarato colpevole delle mie parole, ripeterò lo stesso reato
da criminale incallito e recidivo». In sostanza, «se l’opinione è un reato, continuerò a
ripeterlo», conclude sconsolato in attesa di quel «riconoscimento letterario» che in Italia —
lamenta nel suo libro — non ha mai ricevuto.
51
INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Avvenire del 08/01/14, pag. 12
Reggio Calabria. Ricorso delle sale slot sugli
orari
DOMENICO MARINO
Arriva dinanzi al Consiglio di Stato la diatriba tra la gestione commissariale del Comune di
Reggio Calabria e i titolari di alcune sale slot operanti in città.
Dopo la decisione dei giudici del Tar, che nei mesi passati hanno rigettato la richiesta di
sospensiva dell'ordinanza che disciplina gli orari d'apertura dei locali, gli imprenditori
hanno infatti deciso di presentare un ricorso al massimo organo della giustizia
amministrativa, contestando proprio la decisione del Tar e chiedendo sia dichiarato
illegittimo il provvedimento assunto dai commissari che reggono le sortì del municipio dello
Stretto dopo lo scioglimento del consiglio comunale per presunte contiguità con la
criminalità organizzata.
In base a quanto trapelato, i titolari delle sale slot che hanno deciso l'istanza al Consiglio
di Stato hanno mosso in passo anche in virtù di decisioni diverse rispetto ai giudici
amministrativi reggini assunte dai Tar di altre regioni. Ad esempio in Lombardia i ricorrenti
sono riusciti a ottenere la sospensione dei limiti orari. L'ordinanza commissariale
contestata risale allo scorso settembre e disciplina l'attività delle sale gioco e l'utilizzo delle
apparecchiature di intrattenimento e svago con vincite in denaro collocate in qualsiasi
tipologia di esercizio {commerciali, locali o punti di offerta del gioco).
In particolare il provvedimento fissa l'orario di apertura sul territorio comunale dalle 9 alle
23 di tutti i giorni, compresi i festivi. La decisione è stata assunta dai commissari anche in
accoglimento delle richieste di diverse associazioni che in città si battono contro il
dilagante fenomeno del gioco d'azzardo, con tutte le conseguenze e i problemi che si
porta dietro.
52
ECONOMIA E LAVORO
Dell’8/01/2015, pag. 7
Disoccupati, il flop di Renzi
Istat. Senza lavoro record in novembre: al 13,4%, i giovani al 43.9%. Il premier,
Padoan e Poletti cercano di rassicurare: "Aspettate gli effetti delle nuove misure: li
vedremo nei prossimi mesi". Intanto in Germania l'indice scende: al 6,5%, meno
della metà del nostro
Antonio Sciotto
Gli effetti delle nuove misure «si vedranno nel tempo», dicono di concerto il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. «Li vedremo solo nei prossimi
mesi», conferma il titolare del Lavoro, Giuliano Poletti. E meno male: perché i dati diffusi
ieri dall’Istat mostrano un fatto piuttosto evidente: che i mezzi messi in campo finora dal
governo — vedi il Jobs Act 1, meglio noto come “decreto Poletti” sui contratti a termine —
ha miseramente fallito. Eccoli, i numeri dell’istituto di statistica: la disoccupazione generale
in Italia è cresciuta anche in novembre, raggiungendo il dato record del 13,4%. In aumento
anche quella giovanile, al 43,9%. E attenzione, il decreto Poletti è del marzo 2014, convertito in legge due mesi dopo. Ha lavorato così bene in tutto questo tempo? E dire che
doveva essere il fiore all’occhiello del governo Renzi, una delle prime misure adottate: per
sbloccare le assunzioni, non più frenate dalle “odiose“causali e dalla paura degli imprenditori di beccarsi una causa. Infatti. Come con la “ripresa”, quanto mai fantomatica, anche in
questo caso il premier e i ministri rimandano il “miracolo” ai mesi venturi, spingendo
a forza la luce in fondo a un tunnel sempre più lungo. Sperando che le misure contenute
nel Jobs Act e nella legge di stabilità — approvati entrambi in dicembre — diano quel salto
di qualità finora non pervenuto. Dati tutti in salita: quel 13,4% è frutto di un incremento di
0,2 punti rispetto a ottobre, raggiungendo il valore più alto sia dall’inizio delle serie mensili
(gennaio 2004), sia di quelle trimestrali (dal 1977). Il numero di disoccupati tocca così
quota 3 milioni 457 mila, con un aumento dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40 mila)
e dell’8,3% su base annua (+264 mila). Il tasso di disoccupazione giovanile (15–24 anni),
che come abbiamo detto a novembre è salito fino al 43,9%, è in rialzo di 0,6 punti rispetto
a ottobre. E anche qui si tratta del valore più alto mai registrato. Sono in cerca di un lavoro
729 mila under 25. E così mentre da noi la disoccupazione sale, altrove — tanto per fare
un esempio “a caso”, in Germania — invece scende. Il paese guidato da Angela Merkel
può adesso vantare un lusinghiero 6,5%, quindi più basso della metà rispetto al nostro
macroscopico dato. E alla cancelliera è andata meglio del previsto: il numero dei senza
lavoro è calato di 27 mila unità contro le 5 mila attese dagli economisti.
Su una media più bassa e comunque stabile, seppure problematica, l’intera Eurozona:
11,5%. Dato che noi sfondiamo, come è evidente, di ben due punti.
Molto duro il commento della Cgil: «La politica economica del governo non è in grado di
rilanciare la crescita perché non punta sulla creazione di lavoro — dice la segretaria confederale Serena Sorrentino — L’esecutivo dovrebbe fare una riflessione sul fallimento del
programma Garanzia giovani». Per Guglielmo Loy (Uil), si tratta di un «prevedibile effetto
annuncio», per «l’attesa della maggiore convenienza offerta alle imprese da strumenti
quali il contratto a tutele crescenti». Chiede un «patto sociale per il lavoro» la Cisl, con il
segretario Gigi Petteni. E pur vedendo ovviamente come non rosei i dati Istat, la Cisl
matura però un giudizio positivo, a differenza della Cgil, rispetto a garanzia giovani: «Una
buona quota di questi dati negativi è figlia di una parte della popolazione italiana che è tor53
nata a cercare lavoro, uno dei pochi aspetti dinamico-positivi sin qui innescati dalla Youth
guarantee, e quindi viene calcolata come nuova ulteriore disoccupazione».
Una lettura diversa, che conferma quella data dal governo, è quella di Italia Lavoro,
secondo cui le imprese non hanno assunto per il momento perché attendono l’operatività
del Jobs Act: «I dati Istat, pur nella loro gravità, riflettono l’attesa da parte delle imprese
della piena operatività del Jobs Act e della legge di stabilità — afferma il presidente di Italia Lavoro, Paolo Reboani — Occorre accelerarne l’attuazione, per dare uno shock al mercato del lavoro. I numeri registrano inoltre un recupero al mercato del lavoro dei giovani
inattivi, i cosiddetti Neet, grazie al programma Garanzia giovani».
Ma se anche questa lettura fosse quella giusta, non confermerebbe ad esempio quanto
osservato da tanti rispetto alla legge Poletti sui contratti a termine, ovvero che se non dannosa, è stata perlomeno inutile a rilanciare il mercato del lavoro, e insieme contraddittoria
rispetto a quanto contenuto nel Jobs Act di recente approvato dal Parlamento?
del 08/01/15, pag. 20
Europa in deflazione in Italia record storico
della disoccupazione
Eurostat certifica un calo dello 0,2% a dicembre Un giovane sotto i 25
anni su due è senza lavoro
LUISA GRION
ROMA .
L’Europa è in deflazione; in Italia i prezzi sono stagnanti, ma la disoccupazione raggiunge
livelli da record. I senza lavoro - secondo i dati Istat di novembre - hanno raggiunto quota
3 milioni 457 mila, con un tasso che non si vedeva dai trimestri del 1977 (il 13,4 per cento)
e che ha raggiunto, fra i più giovani, l’imbarazzante tetto del 43,9 per cento. Nell’area
dell’euro lo scorso dicembre, secondo le stime preliminari di Eurostat, i prezzi sono scesi
dello 0,2 per cento rispetto allo stesso mese del 2013 (a novembre era più 0,3). Non
succedeva dal 2009, ma la Commissione europea non vuole ancora parlare di deflazione
(quel calo generalizzato dei prezzi che si autoalimenta perché si rimandano gli acquisti in
attesa di listini ancora più bassi). Preferisce vedere in questa tendenza un «dato
temporaneamente negativo» che proseguirà nel breve periodo, ma invertirà la rotta con la
ripresa. A determinare la caduta dei prezzi europei è stato il crollo del costo dell’energia
(meno 6,3 per cento) e del petrolio particolare. Voce che ha causato anche la variazione
zero dell’Italia e il suo tasso medio annuo d’inflazione per il 2014: 0,2 per cento contro l’1,2
del 2013. Un livello così basso non si vedeva dal 1959, cinquantacinque anni fa. «Ora è
più probabile che le conseguenze positive della caduta del greggio per i redditi dei Paesi
importatori di petrolio, come l’Italia, siano contrastate, se non del tutto annullate, da quelle
negative indotte dalla deflazione», commenta Sergio De Nardis di Nomisma. Ferma sui
prezzi, l’Italia peggiora ancora i suoi dati sul fronte del lavoro. Fra gli under 25 in cerca di
occupazione il 43,9 per cento non lo trova: lo 0,6 per cento in più sul mese precedente, il
2,4 rispetto ad un anno fa. Un esercito di 729 mila ragazzi a spasso. Calano anche gli
occupati totali: 22 milioni e 310 mila, ovvero 42 mila in meno rispetto al novembre 2013.
Ed è a questo tasso di disoccupazione, arrivato ormai al 13,4 per cento (11,5
nell’Eurozona con una Germania al 6,5 per cento) che dovrà rivolgersi il Jobs Act del
governo Renzi. «Vedremo i suoi effetti solo nei prossimi mesi», assicura il ministro del
Lavoro Giuliano Poletti. «Sono dati drammatici commenta però Cesare Damiano, sempre
54
del Pd pensare di rendere i licenziamenti più facili è cosa abnorme: ci batteremo per
cambiare ulteriormente i decreti sul Jobs Act e cancellare la norma sui licenziamenti
collettivi».
Dell’8/01/2015, pag. 7
ECONOMIA
Eurozona in deflazione. Tocca sperare in
Draghi? Mica tanto
Crisi e Austerità. Eurostat: è la prima volta dal 2009. In Italia i consumi
sono tornati indietro di 33 anni
Mario Pierro
A dicembre l’Europa è entrata in deflazione. La conferma ufficiale è giunta ieri dall’indice
dei prezzi al consumo calcolato da Eurostat per i 19 paesi dell’euro. Il mese scorso
è sceso dello 0,2% rispertto a un anno fa, con un calo dello 0,3% rispetto a novembre. Per
trovare un’inflazione così depressa bisogna scorrere la serie storica della Banca Centrale
Europea e risalire a cinque anni fa. Era dal 2009 che non succedeva. Il dato è peggiore
della attese visto che tutti attendevano un calo dello 0,1%. La deflazione colpisce tutti:
prezzi in picchiata in Grecia e Spagna mentre in Italia è a zero e in Germania si attesta
a malapena su un +0,1%, il minimo dal 2009. Secondo l’Eurostat la contrazione è dovuta
alla flessione dell’energia (-6,3% rispetto a +2,6% di novembre), mentre sono rimasti
sostanzialmente stabili cibo, alcol e tabacco (+0% rispetto a +0,5%) e i beni industriali non
energetici (0% rispetto a –0,1% del mese precedente). L’unico incremento dei prezzi
è attesto nei servizi, stabili a +1,2%. Per l’Italia si parla al momento di stagnazione: l’Istat
mostra una variazione nulla sia rispetto al mese precedente sia nei confronti di dicembre
2013 (il tasso tendenziale era +0,2% a novembre).
Dati che confermano il fallimento della Bce, fino ad oggi incapace di far rispettare uno dei
comandamenti imposti dalla sua austera missione: tenere l’inflazione vicina all’obiettivo del
2 per cento. E infatti ieri, mercati, agenzie di stampa, voci di «esperti» sono tornati alla
carica su Draghi. Il 22 gennaio, a tre giorni dalle elezioni politiche ad Atene che vedono
favoritissima la Syriza di Tsipras, si riunirà il board di Francoforte. In agenda il tanto sospirato «quantitative easing», cioè l’immissione nelle esauste vene dei circuiti bancari di
nuova droga monetaria. Ipotesi che Draghi affronta da un anno almeno con molta prudenza, anche perchè deve scontare l’opposizione della Bundesbank di Weidmann, contrario all’acquisto di titoli di Stato al quale Draghi ha più volte fatto riferimento.
Non è scontato che Draghi dia il fuoco alle polveri il 22. Lo si è visto dalla pronta reazione
della Commissione europea che ha subito escluso la deflazione. «Si tratta di un segno
negativo provvisorio» sul dato dell’andamento dei prezzi europei. Questioni di decimali,
anche perché la realtà è più che chiara in tutta Europa. Solo per fare due esempi in Italia:
a Firenze l’inflazione registra il segno meno da sei mesi: nei servizi ricettivi e di ristorazione (-1,7%) nei prodotti alimentari e bevande analcoliche (-1,4%), alberghi e ristorazione
–7,2% rispetto a novembre 2014 ma +1,1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Situazione analoga a Terni con –0,6%.
Per Coldiretti i consumi sono tornati indietro di oltre 33 anni, sui livelli minimi del 1981.
A spingere il tasso d’inflazione medio annuo per il 2014 al minimo dal 1959 è stato il calo
dei prezzi dei prodotti alimentari non lavorati come frutta, verdura, carne e pesce fresco
che fanno registrare una riduzione dello 0,8% e sono di fatto in deflazione. A mantenere
55
sostanzialmente fermi i prezzi negli ultimi due anni è stata essenzialmente la perdurante
crisi della domanda. Il rischio di una deflazione è, pertanto, ancora presente, sostiene
invece l’ufficio studi della Confcommercio. Confesercenti vede all’orizzonte un rischio
«giapponese»: il mix di deflazione e stagnazione è un problema strutturale della crisi e c’è
il rischio che la Ue sprofondi in una fase di avvitamento economico.
Allora tocca sperare nel «quantitative easing» di Draghi? Mica tanto. Il fiume di denari
potrebbe fare la fine di quelli erogati dalla Bce tra il 2011–2012: sono rimasti alle banche
e poco o nulla è arrivato a famiglie e imprese. Aggravando la crisi, la povertà e distruggendo la domanda. Questo blocco del credito tecnicamente lo chiamano «credit crunch».
In compenso la Bce potrebbe reggere il boom del mercato dei titoli di Stato che sono in
gran forma. Magra consolazione.
del 08/01/15, pag. 19
Ttip. Trasparenza contro le critiche
Negoziati con gli Usa, la Commissione Ue
«svela» i documenti
La Commissione europea ha pubblicato ieri la documentazione tecnica utilizzata dalle
autorità comunitarie nei delicati negoziati in vista di un accordo di libero scambio con gli
Stati Uniti. La scelta ha come obiettivo di mostrare massima trasparenza in un momento in
cui le trattative sono criticate da più parti in Europa. Sempre ieri, il governo lettone, che dal
1° gennaio è presidente dell’Unione, ha confermato che intende fare tutto il possibile per
chiudere le difficili discussioni entro fine anno.
«Circolano molti miti e idee sbagliate su quello che vogliamo ottenere e su quello che
conterrà l’accordo», ha detto la commissaria al commercio, Cecilia Malmström a Bruxelles
durante una conferenza stampa. Tra i documenti pubblicati vi sono testi tematici che
illustrano la posizione dell’Unione europea su temi quali le regole sanitarie o le norme sugli
investimenti.
È la prima volta che Bruxelles pubblica documenti di questo tipo mentre con un Paese sta
negoziando un accordo commerciale. La signora Malmström ha promesso di continuare a
pubblicare documentazione anche nei prossimi mesi. Il tentativo è di calmare le tensioni
provocate dall’intesa, oggetto di trattative difficili (proprio ieri qui a Riga, in occasione
dell’inaugurazione della presidenza lettone della Ue, il premier Laimdota Straujuma ha
detto di «sperare progressi» nel prossimo semestre).
In molti Paesi, l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti (ormai noto con l’acronimo
inglese Ttip: Transatlantic trade and investment partnership) ha scatenato la reazione
preoccupata di chi teme un annacquamento delle regole sanitarie europee, delle leggi
ambientali o delle norme alimentari. In particolare, c’è il timore che consentire arbitraggi
nel caso di dissensi tra le parti, una volta l’accordo entrato in vigore, possa imporre nei fatti
la legge del più forte o del più ricco.
È da notare che per ora la Commissione non ha voluto pubblicare informazioni relative,
per esempio, ai dazi doganali o al settore energetico. La signora Malmström ha spiegato
che «una certa segretezza è necessaria». Peraltro, non tutto il contenuto pubblicato ieri
dall’esecutivo comunitario necessariamente verrà ripreso nell’intesa finale. La
commissaria europea ha ammesso che l’obiettivo della Commissione è di avere solo
“l’ossatura” dell’accordo pronta entro la fine dell’anno.
56
«Gli americani stanno inviando il segnale per cui vorrebbero chiudere la partita entro la
fine del mandato del presidente Barack Obama» prevista nel gennaio 2017, ha spiegato la
commissaria. I negoziati, iniziati nel luglio 2013, sono delicati. In entrambi i blocchi vi sono
spinte protezionistiche anche se molti osservatori notano che un accordo euro-americano
potrebbe consentire al mondo occidentale di imporre al mondo i propri standard normativi
ancora per qualche anno, prima di subire la concorrenza asiatica.
57