QGL276 Quaderni Giorgiani 276

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QGL276 Quaderni Giorgiani 276
QGL276-Milano-pt7
QGL276
Quaderni Giorgiani 276
MILANO
In questa raccoltadi personali letture:
La storia di Milano, dintorni e popolazioni
Contents
1 Milano tecnica
1.1 La rete fognaria di Milano
1.2 Cenni sull'idrografia dell'area milanese
1.3 Le origini del civico acquedotto di Milano
1.4 I trasporti pubblici milanesi: dal cavallo alla metropolitana
2 Il Castello sforzesco attraverso i secoli
3 Vescovi famosi
3.1 L'area sacra di Porta Orientale
3.2 San Dionigi
3.3 Sant'Ambrogio
3.4 Ariberto d'Antimiano
3.5 Anselmo da Baggio
3.6 La basilica Concilia Sanctorum o di S. Romano, la chiesa di S. Babila, il monastero
del Gisone, l'oratorio di S. Biagio
4 Ritratti femminili
4.1 Imperatrici romane alla corte di Milano
4.2 Le regine longobarde tra storia romanzata e diritto
4.3 Bianca di Savoia (1336-1387)
4.4 Giovannola di Montebretto, Bernarda Visconti e il suo fantasma
4.5 L'harem di Bernabò
4.6 Valentina Visconti e Isabella di Baviera cugine rivali alla corte di Francia?
4.7 Caterina Visconti , Duchessa di Milano
4.8 La vera storia della Monaca di Monza
4.9 Maria Paola Litta Visconti Arese in Castiglioni
4.10 Vittoria Ottoboni Serbelloni
4.11 Antonietta Fagnani in Arese Lucini
4.12 Bianca Milesi, la maestra giardiniera dei moti del 1821
4.13 Cristina Trivulzio di Belgioioso, la donna che visse cinque volte
4.14 Laura Solera Mantegazza
4.15 Margherita Sarfatti e il "Novecento"
5 Le “imprese” Visconti-Sforza
5.1 Cos'è un'impresa
5.2 “Mit Zeit”
5.3 Galeazzo II Visconti (1355-1379)
5.4 Giangaleazzo Visconti (I Duca di Milano)
5.5 Filippo Maria Visconti (III Duca di Milano 1412-1447)
5.6 Francesco Sforza (IV Duca di Milano 1452-1467)
5.7 Memorie sforzesche in S. Sigismondo
5.8 Galeazzo Maria Sforza (V Duca di Milano 1467-1476)
5.9 Ludovico Sforza detto il Moro (VII Duca di Milano 1494-1499)
5.10 Ascanio Sforza (Cardinale, 1455-1505)
5.11 Note
6 Milanesi illustri
6.1 Lucrezia Porro ed il figlio Branda da Castiglione
6.2 Cicco Simonetta, capro espiatorio di Ludovico il Moro
6.3 Gian Giacomo Trivulzio
6.4 L’interpretazione dei sogni di Gerolamo Cardano
6.5 Gian Giacomo Mora, il barbiere della peste manzoniana
6.6 Manfredo Settala , l'Archimede milanese
6.7 Il Ritratto di Milano di Carlo Torre
6.8 Bartolomeo Arese e il Senato di Milano
6.9 I Durini
6.10 I Clerici e il loro principe Anton Giorgio
6.11 Ascesa e declino dei Serbelloni
6.12 I fratelli Lechi e Gaetano Belloni
6.13 Marco Formentini, uno storico a S. Carpoforo
6.14 Antonio Raimondi, uno dei fondatori del moderno Perù
6.15 Giuseppe Colombo
6.16 Enrico Forlanini
6.17 Marinetti e la rivista "Poesia"
6.18 L'arte di Ariberto d'Intimiano
6.19 Matteo Bandello e il ritratto della contessa di Challant (1)
6.20 Cronologia di Delio Tessa,
6.21 Giuseppe Francesco Borri (1662)
6.22 Marinetti e la rivista "Poesia"
6.23 Margherita Sarfatti e il "Novecento"
6.24 Matteo Bandello e il ritratto della contessa di Challant (1)
6.25 Cristoforo de Predis (o Preda)
6.26 I Visconti
6.27 I signori del milanese
6.28 I sindaci di Milano
7 Cronaca nera
8 Istruzioni per una corretta lettura del documento
1 Milano tecnica
Milano tecnica
a cura di Gian Luca Lapini
Il volo:
Milano in pallone. Gli esordi del volo umano
Aeroplani a Milano: pionieri, sportivi, industriali
Approfondimenti:
- Delagrange volerà??!! I primi voli a motore a Milano: giugno 1908
Taliedo, aerodromo d'Italia
Approfondimenti:
- Le Officine Caproni a Taliedo, storia e attualità
L'idroscalo
Il sistema aeroportuale milanese e la sua storia
L'aeroporto di Bresso
Il gas:
Il gas a Milano
Approfondimenti:
- Origine dell'illuminazione pubblica in alcune città europee
- Il gas illuminante in Europa
- Il gas illuminante in Italia
L'elettricità:
Origini del sistema elettrico a Milano
Approfondimenti:
- Ai primordi dell'energia elettrica
- Produzione e distribuzione dell'energia elettrica
- La Centrale elettrica di via Santa Radegonda
- La storia della Azienda Elettrica Municipale di Milano
Il telefono:
Milano al telefono
Approfondimenti:
- Chi ha inventato il telefono?
- Il telegrafo
Le fognature:
La rete fognaria di Milano
Approfondimenti:
- Cenni sull'idrografia dell'area milanese
L'acquedotto:
Le origini del civico acquedotto di Milano
Le strade:
Le strade di Milano
Approfondimenti:
- Storia dell'asfalto
- Le prime autostrade lombarde
- La regolazione del traffico stradale
I rifiuti:
La rete di raccolta dei rifiuti a Milano
Le ferrovie:
Binari e stazioni a Milano
Approfondimenti:
- Alle origini della ferrovia
- La Stazione Centrale: un monumento moderno
Quando la ferrovia circondava la zona Solari:
alla ricerca dei binari scomparsi (di Mauro Colombo)
Radio e televisione:
Milano e la radio
Milano e la televisione
1.1 La rete fognaria di Milano
La rete fognaria di Milano
di Gian Luca Lapini
Dall’antichità all’Unità d’Italia
Tra le infrastrutture tecnologiche delle città, la rete fognaria è certo la
più antica.
Roma, già nel VI secolo a.C. disponeva di una vasta rete di
fognature costruite allo scopo di drenare le zone paludose.
Lungo le vie cittadine, condotti di dimensioni modeste
raccoglievano le acque e le scaricavano in un grande collettore
fognario, la cloaca maxima, che sboccava nel Tevere.
E’ poi noto che i romani esportarono la loro raffinata tecnica idraulica
in tutte le principali città dell’impero. In effetti, diversi
ritrovamenti archeologici hanno permesso di verificare che
anche a Milano le canalizzazioni urbane hanno tradizioni molto
antiche, risalenti al periodo successivo alla conquista romana
della città, quando cominciò una vasta bonifica dell’area
milanese (si veda la ricostruzione idrografica dell’area
milanese ai tempi dell’impero romano, nella cartina fatta nel
1911 dall’ing. Felice Poggi)(vedi anche la pagina su le strade di
Milano).
In epoca imperiale, la città fu dotata di una rete di fognature[1] che
faceva capo ad un canale emissario il quale seguiva il percorso
dell’attuale via Torino, fino al Carrobbio. E’ plausibile che le
acque reflue, oltrepassato il fossato di difesa delle mura,
proseguissero incanalate fino nel Lambro Meridionale. Le
tracce di questo canale si possono individuare nei percorsi del
naviglio del Vallone, oggi scomparso, che percorreva l’attuale
via Conca del Naviglio, quindi della roggia dei Lavandai e della
roggia Boniforti, fino alla confluenza di quest’ultima con il
colatore Lambro Meridionale (significativamente anche
chiamato”Lambro Merdario”).
La caduta dell’impero romano segnò l’inizio, nel campo delle opere
idrauliche, di un lungo periodo di decadenza durante il quale
non solo non si realizzò niente di nuovo, ma vennero lasciate
andare in rovina le opere esistenti.
Solo verso la fine del Medioevo, o alle soglie dell’età rinascimentale,
si ebbe una ripresa d’attività nella costruzione di canali di
fognatura[2], ma il nuovo impegno costruttivo portò tuttavia alla
realizzazione, nel corso dei secoli, di una rete poco organica e
difettosa; le condutture, infatti, in assenza di un qualsiasi piano
generale, venivano costruite secondo le necessità contingenti
e quasi sempre in funzione delle singole strade,
indipendentemente le une dalle altre. Le acque venivano poi
convogliate negli antichi canali che avevano un tempo
costituito i fossati di difesa della Milano romana e medioevale,
cioè il Seveso e la fossa interna.
Comunque, a differenza delle fognature moderne, questi condotti
erano almeno teoricamente destinati al solo drenaggio delle
acque naturali e meteoriche, mentre lo smaltimento delle
deiezioni umane seguiva un differente percorso: la raccolta
temporanea nei pozzi neri in prossimità delle case e lo
smaltimento nelle campagne.
Su come si svolgesse nella realtà a Milano questa raccolta nel
periodo tardo medioevale e rinascimentale, è possibile ricavare
qualcosa dalla lettura degli Statuti della Sanità, cioè delle leggi
riguardanti le strade e le acque[3], che venivano emesse da un
“Ufficio di Sanità”, cui erano preposti i “Conservatori Ducali
della Sanità dello Stato di Milano”, chiamati anche, più
brevemente, deputati sanitatis e, dopo il 1534, dal “Magistrato
di Sanità” e dall’omonimo Tribunale, che rimase in vigore sino
al 1787.
Dando un breve sguardo agli "Statuti delle strade e delle acque del
contado di Milano", risalenti al 1346 (e pubblicati nel 1869 dal
conte Giulio Porro Lambertenghi, che li aveva trovati in un
codice della Biblioteca Trivulzio), è possibile farsi un’idea
piuttosto raccapricciante sulle condizioni igieniche della vita
cittadina, della quale essi forniscono un quadro che sarebbe a
malapena credibile se non fosse confermato da altre
testimonianze storiche, e soprattutto dal fatto che quelle sagge
prescrizioni furono reiterate per secoli tutte uguali o quasi, con
l’unica differenza della lingua.
Molto spazio è dedicato dagli statuti al problema dei pozzi neri. Una
prescrizione, che verrà ripetuta all’infinito, è quella che vieta lo
svuotamento dei pozzi neri, con relativo trasporto del
contenuto, nei mesi estivi. Per esempio in una grida del 1493, il
Vicario di Provvisione, dopo aver confermato la regola, ormai
secolare, che nessuno potesse svuotare i pozzi neri se non in
inverno (spazare alcun destro seu cloacha così in la cità de
Milano, como borghi, si non da mezo novembre per fin a mezo
februaio sotto pena de XXV ducati), avverte però che, anche
durante il detto periodo, se il duca e la duchessa fossero stati a
Milano, tale operazione sarebbe stata possibile soltanto di
notte.
Non bisogna dimenticare, come avvertiva il preambolo della grida,
che il Duca era "desideroso di magnificare et ornare questa
sua inclita cità di Milano, et de provedere a quelle cose che
sono in vergogna de essa cità".
Il servizio di svuotamento dei pozzi neri, era svolto da appositi
addetti, i navazzari (o cisternari), un termine che a Milano
indicava i conduttori delle cosiddette navazze, cioè i carri-botte
con i quali veniva trasportato fuori città il liquame raccolto dai
pozzi neri delle abitazioni (almeno di quelle che ne erano
fornite). Essi svolgevano un servizio di pubblica utilità
traendone il vantaggio di utilizzare il liquame in campagna
quale concime. A quanto pare, però, dalla frequenza con cui
sono nominati nelle grida e nei regolamenti, essi costituivano
un problema per l’amministrazione civica che tentava in ogni
modo di incanalare e regolamentare, probabilmente con
scarso successo, la loro iniziativa.
I navazzari erano per certi versi anche gli antenati dei moderni
spazzini, in quanto essi erano pure autorizzati a raccogliere
dalle strade il letame[4] e l’immondizia dei mercati; ed è
probabile che entrassero nei cortili e nelle cantine delle case
per portar via la poca o tanta spazzatura domestica.
Il contenuto dei pozzi neri situati nelle abitazioni non doveva essere
vuotato né nelle strade, né nelle chiaviche (quando c’erano)
sotto di esse, e neppure nei numerosi corsi d’acqua cittadini,
anche se pare che il Nirone portasse questo nome a causa dei
liquami che vi venivano versati.
Questo in teoria, per quanto riguarda il divieto di buttare liquami per
terra non si faceva che riprendere antichissime disposizioni,
ancora del libero Comune, mentre circa gli orari in cui i
navazzari potevano lavorare, bisogna probabilmente rifarsi
all’abitudine, tutta spagnola, di regolamentare ogni cosa
minuziosamente, salvo poi urtare contro le difficoltà che
comportava il fare eseguire gli ordini[5], come sembra di capire
dalle ricorrenti grida che lamentano che i cittadini ricorrono
spesso e volentieri a cloache improvvisate, cioè buttano tutto
dove capita (forse perché il servizio dei navazzari aveva un suo
costo), e che i navazzari non sembrano darsi molta
preoccupazione di osservare la fascia oraria loro concessa,
cioè dalle due di notte a un’ora prima dell’alba.
Il mestiere era evidentemente indispensabile alla cittadinanza, ma
sembra che fosse interesse sia dei cittadini sia delle autorità il
tenerlo il più possibile occultato. Se il motivo è comprensibile,
quello che è un po’ meno comprensibile è che nessuno, salvo
le Grida del Tribunale della Sanità, parli mai di chi svolgeva
quel servizio, che probabilmente ne comprendeva anche altri,
quali l’asporto dei rifiuti domestici. Ancora a fine ‘700, il poeta
Parini elenca fra i motivi principali per cui detesta la vita
cittadina, cui preferisce di gran lunga la campagna, il continuo
via vai di navazze.
Su dove poi finisse il contenuto di questi carri, non vi sono notizie
precise. La tendenza, è ovvio, sarà stata quella di trattenere il
materiale utile come concime e di gettare il resto. Dove? Forse
un indizio lo si può trovare in un’ordinanza del Podestà
austriaco: il 1 marzo 1816 fa obbligo ai cisternari di vuotare le
navazze fuori dell’abitato, in apposite fosse. Queste fosse
tornano spesso nelle ordinanze successive, ma, quali e dove
fossero, non sappiamo, se non che dovevano trovarsi a una
certa distanza dalle mura dall’abitato.
Ritornando al tema del drenaggio delle acque meteoriche, ed
avvicinandosi un po’ di più alla nostra epoca, fu solamente nel
1807 che a seguito di due decreti del Regio Governo Italico
cominciarono i lavori per una generale riforma delle strade
cittadine, nel realizzare le quali veniva costruita una nuova
tombinatura per la raccolta degli scoli stradali. Le strade di
allora erano a sezione concava (con cunetta centrale), e la
sottostante tombinatura aveva una sezione rettangolare, con il
fondo costruito in pietra (beola) e le spalle in muratura di
mattoni, mentre la copertura era ancora in lastre di pietra. La
costruzione di queste nuove canalizzazioni nelle quali, oltre
alle acque piovane, finirono ben presto anche quelle di rifiuto,
non contribuì affatto al miglioramento della rete fognaria. Infatti,
la realizzazione del nuovo sistema contribuì all’abbandono dei
vecchi condotti, anche di quelli ancora in buono stato, creando
una rete di tombini stradali superficiali, non ispezionabili, che si
potevano spurgare solo rompendo la strada e che spesso si
ostruivano provocando allagamenti.
In sostanza, nella città ancora abbastanza piccola della prima metà
dell’800, in qualche modo le aree del nucleo centrale della città,
e le aree delimitate esternamente dalla fossa interna del
naviglio, scaricavano le proprie acque in parte nel Seveso, ed
in parte nel Naviglio stesso. Entrambi i fossati avevano come
emissario comune la roggia Vettabbia le cui acque venivano
utilizzate per l’irrigazione dei terreni agricoli a sud della città,
adibiti prevalentemente a prato marcitoio. Qui si depuravano
naturalmente, in un vasta area irrigua a valle dell'abitato, che
era stata bonificata già prima del 1200 dalla tenacia dei monaci
di Chiaravalle, di Morimondo e di altre abbazie cistercensi: a
questi monaci, come è noto, viene attribuita l'invenzione delle
marcite, così caratteristiche del panorama lombardo.
Il resto del territorio cittadino, cioè le vaste zone comprese tra il
Naviglio interno e la cerchia dei Bastioni, era allora occupato
per lo più da orti e giardini, ed i pochi edifici che vi sorgevano
riversavano i loro scarichi nei numerosi canali irrigui derivati
dalla fossa interna. In sostanza, il problema delle fognature,
similmente a quello del rifornimento idrico, in qualche modo era
stato da lungo tempo affrontato, anche se in maniera precaria.
Questo forse spiega, come nel caso dell'acquedotto, perché
passò molto tempo prima che Milano iniziasse a costruire una
rete organica e moderna di fognature.
La fase moderna delle fognature a Milano
Anche quando ebbe termine il lungo periodo di sostanziale stasi
coinciso con l’amministrazione austriaca, il Comune, negli anni
subito dopo l’Unità d’Italia, si diede molto da fare per numerose
iniziative di ben maggiore “visibilità” delle fognature[6].
Ma finalmente, nel 1866, la pubblicazione sulla rivista “Il Politecnico”
di una memoria dell’ingegner Emilio Bignami sullo stato dei
canali di Milano, nella quale si sosteneva la necessità di
costruire una appropriata rete di fognature, diede la spinta
all’avvio di seri studi per la realizzazione di un sistema fognario
organico e razionale.
Si giunse così, nel 1868, al primo vero progetto di fognatura
moderna che venne presentato in consiglio comunale
dall’assessore Tatti e dagli ingegneri dell’ufficio tecnico
comunale, Cesa Bianchi e Bignami. Il progetto degli ingegneri
comunali affrontava nella sua globalità il problema della
sistemazione delle fognature solo della parte più centrale del
territorio cittadino, compresa fra gli alvei del Grande e del
Piccolo Sevese[7]. Si trattava cioè della zona del centro storico
più all'interno dei limiti della fossa dei Navigli, nella quale come
si è accennato, già esisteva una rete capillare ma disordinata
di 123 canali, in parte coperti ed in parte scoperti, con uno
sviluppo di ben 153 Km.
I progettisti adottarono nel loro piano il così detto sistema misto, nel
quale si provvedeva con un unico condotto alla raccolta delle
acque di rifiuto e di quelle piovane. I condotti previsti avevano
una sezione moderna, di tipo ovoidale studiata in modo da
mantenere una buona velocità di efflusso anche in periodi di
magra e da evitare la formazione di depositi sul fondo dei
canali, nei quali veniva comunque garantito un flusso continuo
di lavaggio con acqua derivata dal Grande Sevese. Per il loro
dimensionamento si fece riferimento alle prime osservazioni
pluviometriche sistematiche raccolte dall’Osservatorio di Brera,
pur adottando ampi coefficienti di sovradimensionamento.
Quando si passò dal progetto alla fase costruttiva questi canali
vennero realizzati usando conci di cemento oppure cemento
idraulico gettato in opera in casseforme di legno; dove
necessario, manufatti più grandi erano realizzati in mattoni.
I lavori non furono comunque molto rapidi ed occorsero circa dieci
anni per realizzare circa 3700 metri di condutture; il problema
dell'inquinamento delle acque superficiali non fu affatto risolto,
ed anzi nel frattempo si aggravò, sia per il tumultuoso aumento
della popolazione, sia perché il territorio comunale aveva
subito un forte incremento con l’aggregazione, nel giugno del
1873, del Comune dei Corpi Santi (esteso tutto attorno al
perimetro della città al di fuori dalle Mura Spagnole).
Passati così altri anni, ed iniziati nel 1884 dall'ing. Beruto gli studi per
il piano regolatore della città, si presentò una grande occasione
per affrontare in maniera organica il problema fognario, almeno
nelle nuove zone di espansione della città, dove in parallelo al
tracciamento di nuove strade ed isolati, specie al di fuori delle
mura, e fino alla cerchia dei viali della nuova circonvallazione
esterna, divenne per così dire “naturale”, prevedere la
costruzione, insieme alle nuove strade, anche di una rete
fognaria organica. Rimaneva però aperto il problema di quanto
esisteva già, e del raccordo tra il vecchio ed il nuovo. Per
questo motivo la Reale Società d'Igiene ed il Collegio degli
Ingegneri ed Architetti di Milano istituirono nel 1885 una
commissione di studio per la fognatura. Fra la fine dello stesso
anno e l'inizio del 1886 la commissione produsse un rapporto
nel quale oltre a precisi giudizi sul poco lusinghiero stato della
rete fognaria esistente, si ribadiva l'opportunità di costruire
canalizzazioni basate sul sistema misto, e si davano diverse
raccomandazioni, fra le quali quella di spostare la navigazione
dalla fossa interna a quella esterna dei navigli. Molto
positivamente
veniva
inoltre
giudicato
il
progetto
dell'acquedotto, che era anch'esso in discussione in quegli
anni: infatti, il flusso costante di acqua proveniente dai consumi
domestici avrebbe garantito di mantenere sempre sgombri i
condotti.
Una seconda commissione, di nomina municipale, insediata agli inizi
del 1886 e presieduta dall'ing. Gioacchino Tagliasacchi, arrivò
a conclusioni non troppo dissimili (anche se intanto erano
passati quasi altri due anni): si ribadiva l'opportunità del
sistema misto, si raccomandava di costruire i canali
abbastanza ampi da essere ispezionabili, si raccomandava lo
sviluppo parallelo dell'acquedotto e della fognatura, e si
puntava ancora sulla depurazione biologica naturale nelle
campagne irrigue a sud della città.
La Giunta Municipale accolse le conclusioni della Commissione
Tagliasacchi nel gennaio 1888 e istituì presso l'Ufficio Tecnico
Comunale una speciale sezione, incaricata di preparare il
progetto di un "piano generale di fognatura".
Si arrivò così, sotto la guida dell'ing. Felice Poggi (lo stesso del
progetto dell’acquedotto), al ”Progetto per la fognatura
generale della città” del 1890: esso prendeva in considerazione
tutta la zona delimitata dai nuovi viali di circonvallazione
esterna della città, ma aveva anche lo scopo di deviare gli
scarichi fognari dai canali del centro storico e di convogliarli più
a sud. Il territorio venne diviso in zone, ognuna servita da
collettori quasi paralleli, collegati trasversalmente da canali
minori, che in caso di piogge intense servivano da scolmatori
riversando le acque nei canali più periferici.
Il banco di prova per questo progetto generale fu rappresentato tra il
1888 e il 1889 dal progetto, sempre ad opera dell'ing. Poggi,
della fognatura del Nuovo Corso (l'attuale via Dante), una
nuova arteria che era in costruzione in quegli anni per
collegare direttamente il Cordusio al Foro Bonaparte.
Nel progetto venivano per la prima volta definite a Milano, come si
vede esemplificato nella bella tavola riportata, anche le
modalità per la sistemazione delle canalizzazioni domestiche,
delle acque pluviali e nere di un tipico edificio multipiano,
ovvero l’interazione tra le canalizzazioni private e la pubblica
fognatura, fissando un primo regolamento comunale in materia,
che fece poi da riferimento per molti anni a seguire.
E' interessante ricordare che in questo progetto era anche prevista
(ma non fu mai realizzata per problemi di costo) una
integrazione tra i cunicoli fognari, ed un cunicolo dei servizi,
che avrebbe dovuto scorrere lungo gli edifici e contenere le
tubazioni del gas, dell'acqua potabile, ecc.. Si trattava di
un’ottima idea (già proposta in altre città europee), che, se
attuata, avrebbe risparmiato ai cittadini molti dei disagi che nel
corso degli anni sono derivati dalla periodica escavazione dei
marciapiedi e delle strade per la posa o manutenzione della
miriade di tubi e cavi che passano nel sottosuolo.
Il progetto dell'Ufficio Tecnico Comunale giunse a compimento nel
1893; i lavori di costruzione furono condotti speditamente,
tanto che nel 1897 risultavano già costruiti 61 Km di condotti, di
cui 18 Km di collettori principali. Molti dei condotti realizzati
erano di sezione ragguardevole, come si può per esempio
vedere nella fotografia (sopra a destra) del collettore di Nosedo
in costruzione fra piazza Libia e via Cadore. Ma anche la
tecnica di costruzione dei condotti più piccoli si era
notevolmente perfezionata e procedeva per fasi di lavoro bene
definite, per ottenere un risultato finale costante.
In altri punti l’incrocio fra vari canali, o con le altre infrastrutture
esistenti, implicava la realizzazione di opere di notevole
complessità, che venivano realizzate con attrezzature assai
modeste e con notevole impiego di manodopera (la fotografia
qui sotto documenta i lavori per il sottopasso della stazione
ferroviaria di Porta Romana).
Agli inizi del '900, la effervescente espansione della città proseguiva
a grande ritmo. L‘assetto urbano era continuamente sconvolto
anche da interventi infrastrutturali molto pesanti, quali il
riassetto della rete ferroviaria che fece seguito alla
nazionalizzazione delle ferrovie del 1905.
A Milano si era verificato anche un notevole cambiamento di fronte
politico con l’elezione nel giugno 1899 del sindaco radicale
Giuseppe Mussi, ed un anno dopo, alle elezioni politiche del
giugno 1900, con la netta sconfitta dei liberali (non era stato fra
gli altri rieletto l’ing. Giuseppe Colombo, una delle figure più
influenti e prestigiose del mondo tecnico ed industriale
milanese) e l’affermazione di una coalizione di radicali e
socialisti.
In questo clima per vari versi mutevole, il progetto della rete fognaria
fu di nuovo messo in questione, in quanto non pochi temevano
che le impostazioni fino allora adottate fossero insufficienti per
le nuove mete. Due commissioni nominate nel 1901 e 1902
dall'Amministrazione Comunale, presiedute da due professori
del Politecnico, Ettore Paladini e Gaudenzio Fantoli,
confermarono però nella sostanza i precedenti progetti. In ogni
caso gli approfonditi studi della commissione diedero un
impulso più rigoroso ai metodi di dimensionamento dei condotti;
fu anche riesaminata la questione della depurazione biologica
delle acque col metodo delle marcite, e ne fu confermata la
validità dimostrando tra l'altro che non si produceva alcun
inquinamento delle acque di falda nella zona interessata.
“Il sistema adottato a Milano per la depurazione ed utilizzazione
agricola delle acque di fognatura – affermava la commissione
Paladini - è, per lo stato attuale delle nostre cognizioni, il più
efficace ed il più pratico. Dal punto di vista igienico non si
hanno finora inconvenienti di sorta.”
La commissione sottolineava però la necessità, per il futuro, di
estendere l'area irrigata in modo da poter trattare portate
maggiori.
In sostanza gli studi delle due suddette commissioni fornirono gli
elementi più moderni di previsione e di calcolo con il quale nel
1911, l'ing. Poggi impostò, in continuità col recente passato, un
nuovo piano di ampliamento, che seguiva le linee di
espansione della città e che fu gradualmente attuato fino al
1923.
Dopo questa data, che segnò l’aggregazione al territorio cittadino di
una fascia di undici comuni al suo contorno[8], (ne risultò più
che un raddoppio della superficie comunale), nuovi problemi si
presentarono per lo sviluppo della rete fognaria. Le nuove aree
erano, infatti, ancora prevalentemente rurali ed interessate da
ridotti ed isolati insediamenti, quasi del tutto prive di
canalizzazioni e fognature, ma nello stesso tempo ricche di
rogge e canali irrigui. Fu necessaria la redazione di un nuovo
piano di ampliamento; del progetto fu incaricato l'ing. Giuseppe
Codara dell’Ufficio Tecnico Comunale, che in uno studio
presentato all’inizio del 1924, definì i percorsi dei nuovi
collettori di raccolta e di recapito a valle, in modo che le acque
provenienti dalle zone esterne non andassero a gravare sui
condotti provenienti delle zone centrali: una sorta di anello
attorno al vecchio nucleo cittadino che sgravava
completamente la rete già esistente di collettori ed emissari.
Lo studio prevedeva inoltre una serie di importanti interventi di
sistemazione idraulica dei corsi d’acqua, quali la deviazione
dell’alveo dell’Olona, che allora scaricava nella darsena di
Porta Ticinese, l’adeguamento del Cavo Redefossi e il
miglioramento delle capacità di portata del Lambro
Settentrionale e Meridionale.
Ormai la rete fognaria milanese aveva assunto quella complessità e
capillarità che gli anni successivi, fino ai giorni nostri, non
avrebbero fatto altro che confermare, adeguandosi un po' per
volta all'espansione cittadina (sempre tumultuosa e difficile da
governare, nonostante il nuovo piano regolatore, approvato nel
1934, circa cinquant’anni dopo il primo piano Beruto): una rete
sempre più vasta e nascosta, via via che navigli e canali
venivano coperti, un po' per aprire nuovi sbocchi al traffico
sempre più invadente, un po' forse per togliere dalla vista e
dall'olfatto corsi d'acqua sempre più sporchi[9]. Un mondo
sotterraneo quasi speculare di quello sopraterra, con i suoi
incroci, le sue diramazioni ed i suoi punti “monumentali”.
Dopo la guerra, e la indispensabile ricostruzione di quanto da essa
distrutto, il piano delle fognature del 1953 avrebbe per quasi un
trentennio regolato la costruzione di altri 500 Km di nuovi
condotti, portando agli inizi degli anni ’80 l’estensione
complessiva della rete fognaria a circa 1230 Km.
Nel 1983, in ottemperanza ai dettati della legge nazionale sulle
acque (legge Merli), venne predisposto un nuovo piano, che, in
previsione della costruzione a valle della città di tre impianti di
depurazione, divideva il territorio comunale in tre bacini,
occidentale, centro-orientale ed orientale, e definiva una serie
di interventi necessari al completamento dell’ossatura
principale dei collettori della rete. Ma la realizzazione dei
depuratori è andata molto per le lunghe, prima per una lunga
opposizione, da parte degli abitanti dei quartieri a sud della
città, alla collocazione di un depuratore che non poteva stare
altro che lì, per come pende il terreno, poi per una vicenda
giudiziaria legata agli appalti: la città ha così rivissuto
l’incertezza dei primi tempi dell'inizio della costruzione della
rete fognaria, e Milano si è guadagnata il poco invidiabile
primato di unica grande città europea non dotata di depuratore.
Alla fine i lavori del depuratore di Nosedo sono stati finalmente
avviati e dal 2003 la città ha finalmente avuto il primo dei
depuratori progettati. Per il momento, però, il Lambro rimane
ancora il fiume più inquinato d'Italia ed i discendenti dei monaci
inventori delle marcite continuano a far finta che gli stessi prati
possano depurare le deiezioni di qualche migliaio o di un
milione e mezzo di abitanti.
Infine, vale la pena di accennare che negli ultimi decenni molta
attenzione ha suscitato il problema del riassetto generale del
bacino idraulico milanese. Le ricorrenti esondazione del
Seveso o del Redefossi, si sono periodicamente incaricate di
ricordare ai cittadini la dimenticata presenza di una vasta rete
di acque sotterranee: problemi, purtroppo, mai del tutto risolti
nonostante la costruzione di canali scolmatori, come quello del
Redefossi a San Donato, costruito nel 1976, e come quello, di
più recente costruzione, di Nord-Ovest che raccoglie le acque
di Olona, Naviglio e Seveso, deviandole nel Ticino. Questi
interventi hanno contribuito ad attenuare, ma non a risolvere
definitivamente, il problema delle esondazioni, in particolare
del Seveso, che ha continuata a creare problemi nonostante la
realizzazione di un importante manufatto di decantazione e
sgrigliatura delle acque (in via Ornato, prima dell’imbocco del
percorso coperto cittadino).
Bibliografia
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VIGARELLO G., Lo sporco e il pulito. L’igiene del corpo dal medioevo ad oggi,
Marsilio, Padova, 1987
Approfondimenti:
Cenni sull'idrografia dell'area milanese
[1] Così si può leggere nel testo di Gentile, Brown e Spadone, citato in
bibliografia:
“Importanti vestigia della rete di fognatura romana sono venute alla luce
durante l’esecuzione di diversi lavori che hanno interessato, nell’arco
dell’ultimo secolo, il sottosuolo milanese.
Tra i più significativi ci sono senz’altro i condotti affiorati durante la costruzione
della fognatura lungo la via Bassano Porrone nel giugno 1892, nelle vie
San Maurilio e Nerino nel 1906 e in piazza San Sepolcro nel 1907, e
quello rinvenuto in anni più recenti in piazza Missori durante i lavori di
costruzione della linea 3 della metropolitana milanese, del quale si
conserva un breve tronco nel mezzanino della stazione Missori”.
[2] A quest’epoca appartiene il condotto venuto alla luce durante la costruzione
della fognatura in corso San Celso.
L’ingegner Poggi menzionava in una sua pubblicazione il ritrovamento,
avvenuto durante i lavori di costruzione della fognatura in via Ponte
Vetero nel 1878 e di corso Garibaldi e piazza del Duomo del 1892, di
una canalizzazione sotterranea formata da due condotti affiancati
realizzati con tubi tronco-conici di terracotta, imboccati l’uno nell’altro,
con rinforzo in muratura e protetti nella parte superiore da tavelloni in
cotto.
[3] Anche se purtroppo gli statuti più antichi della città di Milano sono quasi tutti
scomparsi a causa di un incendio che, nel 1502, bruciò la cancelleria;
ne rimangono, però, alcune redazioni, sia in latino sia in volgare.
[4] Che i navazzari avessero pure il compito di raccogliere il letame dalle
strade cittadine, sembra indirettamente confermato dal dibattito che si
tenne nel Consiglio Comunale del 31 agosto 1844 sul tema della
concessione a un privato dell’appalto della scopatura e lavaggio delle
vie cittadine durante la notte.
Nel verbale della seduta si legge infatti che il Conte Belgiojoso afferma che "se
si permette all’Appaltatore di incominciare la Scoppatura alla mezza
notte si verrebbe a pregiudicare i letamajuoli i quali essi hanno pure il
diritto durante la notte di raccogliere le sozzure nella città". Il Conte
Podestà gli ricorda, invece, che questo non è un loro diritto, ma "una
semplice consuetudine di tolleranza".
Il problema non era del tutto ozioso, dato che i letamaioli erano certamente
cittadini privati, ma i loro vantaggi personali andavano pure verso
l’interesse dell’agricoltura, come il Belgiojoso sapeva.
[5] Un ordine dato sempre dal Presidente della Sanità, questa volta ai
sorveglianti alle porte della città, nel 1637, stabilisce invece che i
navazzari non possano assolutamente entrare prima delle ventitré: è,
comunque, un ordine interno impartito ai sorveglianti e non direttamente
ai navazzari.
Oltre a ciò i detti navazzari debbono per forza essere muniti di apposita licenza.
Da una grida del 1669 si apprende però che questa attività era svolta
anche da molti abusivi.
[6] Ad esempio, il trasferimento della sede comunale dal Broletto a Palazzo
Marino, la sistemazione di piazza del Duomo e la costruzione della
Galleria, il Macello, il Cimitero Monumentale, la sistemazione dei
Giardini Pubblici, ecc.
[7] Questi canali seguono all’incirca il percorso delle attuali vie Europa, Larga,
Maddalena, Stampa, Carrobbio, Torchio, Nirone, Magenta, San
Giovanni sul Muro, Cusani, Dell’Orso, Monte di Pietà, Montenapoleone,
fino a piazza San Babila.
[8] Si trattò di Lambrate, Crescenzago, Precotto, Greco, Niguarda, Affori,
Musocco, Trenno, Baggio, Vigentino, Chiaravalle.
[9] La fossa interna dei navigli fu coperta all’inizio degli anni ’30 e
successivamente interrata nel 1968-69 per il forte degrado delle strutture di
copertura; la Martesana, lungo il percorso della via Melchiorre Gioia, fu
coperta tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60.
1.2 Cenni sull'idrografia dell'area milanese
Cenni sull'idrografia dell'area milanese
di Gian Luca Lapini
Per meglio comprendere come fu affrontato il problema fognario a
Milano è opportuno qualche accenno all’idrografia dell’area
milanese, che è piuttosto complessa anche a causa dei
numerosi interventi effettuati nel corso dei secoli: in effetti il
problema della fognatura e quello della regolazione dei diversi
corsi d’acqua, naturali ed artificiali, che attraversano la città, si
mescolano inestricabilmente.
Il dato di fatto fondamentale che si può osservare su una qualsiasi
mappa dell’area milanese è l’andamento dei corsi d’acqua,
all’incirca paralleli fra di loro, e con direzione di scorrimento da
nord-ovest verso sud-est, corrispondentemente alla direzione di
pendenza del piano padano.
A nord-ovest entrano in città vari corsi d’acqua, il principale dei quali
è il torrente Seveso, proveniente dai rilievi morenici del comasco;
segue la via Ornato e con un percorso sotterraneo confluisce
nella Martesana in via Melchiorre Gioia. Nel Medioevo Seveso e
Nirone alimentavano le acque del fossato difensivo, a ridosso
delle mura della città.
Il naviglio della Martesana, costruito fra il 1457 ed il 1465, deriva le
sue acque dall’Adda nei pressi di Trezzo ed entra in città dalla
via Padova. Un tempo esso alimentava la fossa interna dei
navigli passando dalla conca dell’Incoronata e dal laghetto di
San Marco; dopo la confluenza col Seveso, che avviene
all’altezza con via Carissimi, dà origine, al Ponte delle Gabelle,
vicino a Porta Nuova, al Cavo Redefossi. Quest’ultimo scorre
(ora coperto) sotto i viali della cerchia orientale dei Bastioni, fino
a Porta Romana, dove devia lungo il Corso Lodi e le vie
Cassinis e Rogoredo, sbucando poi in un condotto a cielo
aperto (ora coperto) che fiancheggia la via Emilia, fino alla
confluenza nel Lambro. Il tratto del Redefossi che va da piazza
Medaglie d’Oro al Lambro venne scavato tra il 1783 ed il 1786
per rimediare alle frequenti esondazioni che interessavano le
zone di Porta Vittoria, Porta Romana e Porta Ludovica.
Il fiume Olona, che nasce nelle prealpi varesine, raggiunge Milano
nei pressi dell’attuale Quartiere Gallaratese; percorrendo in
sotterranea i viali della circonvallazione occidentale fino a San
Cristoforo, supera il Naviglio Grande e dà origine al Colatore
Lambro Meridionale. Un tempo esso si immetteva invece
direttamente nella darsena di S. Eustorgio (ora di Porta
Ticinese).
Nella zona di San Siro confluiscono nell’Olona il torrente Fugone (o
Merlata) e poco più a valle il torrente Mussa: entrambi
attraversano in sotterranea parte dell’attuale territorio cittadino.
Ad est della città scorre a cielo aperto, proveniente dal triangolo
lariano, il Lambro settentrionale, che presso Melegnano
raccoglie le acque del Cavo Redefossi e della Roggia Vettabbia,
e più a valle quelle del Colatore Lambro Meridionale.
Il Lambro Meridionale, oltre a ricevere le acque dell’Olona, funge
anche da scaricatore del Naviglio Grande. Quest’ultimo deriva le
sue acque dal Ticino, nei pressi di Tornavento, e confluisce in
città nella darsena di Porta Ticinese. Fu scavato alle origini
come canale d’irrigazione, negli anni tra il 1179 e il 1209, e fu
chiamato Grande nel 1269 quando la sua sezione fu allargata
per renderlo navigabile. Tutto il marmo usato per la costruzione
del Duomo, dalle cave dell’Ossola, scendendo lungo il fiume
Toce, il Lago Maggiore, il Ticino ed il Naviglio Grande, arrivava
in città fino al Laghetto di Santo Stefano, vicinissimo al cantiere.
Dalla Darsena prende origine il Naviglio Pavese, che collega Milano
con Pavia; la sua costruzione è assai più tarda, in quanto fu
completato nel 1819.
Per rimediare alle frequenti esondazione del Seveso e dell’Olona
esiste inoltre lo scolmatore di Nord-Ovest, che purtroppo scarica
acque molto inquinate nel Ticino, e che si è però spesso
dimostrato insufficiente ad evitare allagamenti in città,
soprattutto nella zona di Niguarda.
Notiamo infine che a nord di Milano, trasversalmente alla pianura
scorre il Canale Villoresi, che collega Ticino ed Adda, fornendo
acqua di irrigazione ad un ampio comprensorio naturalmente
meno ricco di acqua della zona a nord della città. Questo canale,
che non ha un diretto impatto sulle acque che confluiscono in
città, fu realizzato nel 1880-81, su progetto dell’ing. Eugenio
Villoresi.
1.3 Le origini del civico acquedotto di Milano
Le origini del civico acquedotto di Milano
di Gian Luca Lapini
La possibilità stessa di dar luogo a grandi agglomerati urbani degni
del nome di città, è lentamente maturata nei secoli ed è sempre
stata legata alla capacità di assicurare non solo un adeguato
rifornimento di acqua, ma anche lo smaltimento, sia delle acque
meteoriche che delle deiezioni umane. Il problema che era ben
chiaro già nell'antichità (e che era stato mirabilmente risolto dai
nostri antenati Romani), si ripresentò con forza nel secolo XIX
quando molte città europee iniziarono un veloce processo di
crescita nel corso del quale non solo l'evidente crescita dei
fabbisogni, ma anche i numerosi scoppi di epidemie costrinsero
i tecnici e le pubbliche amministrazioni ad una presa di
coscienza, e li spinsero all'azione[1].
La risposta a queste esigenze fu ricercata nella emanazione di leggi
e regolamenti che garantissero una qualità verificabile di servizi
idraulici, e nella costituzione di società, a volte pubbliche a volte
private, che si incaricarono di erogarli. Iniziò così la costruzione
di acquedotti pubblici e di fognature, che storicamente furono le
prime reti a cominciare ad invadere il sottosuolo delle città
moderne (in alcune città un po’ prima, in altre più tardi rispetto
alla rete del gas) ed a introdurre l'idea stessa di distribuire
capillarmente un servizio di prima necessità, sottraendolo
all'iniziativa del singolo (non più incaricato di scavare il suo
pozzo o di svuotare il suo pozzo nero).
Benché tali esigenze e le idee su come affrontarle non fossero
affatto nuove, il generale potenziamento di risorse a
disposizione della tecnologia ne permise un affronto più esteso
e radicale. Per esempio i progressi della metallurgia
consentirono di fabbricare grandi quantità di tubi in ferro o in
ghisa a prezzi relativamente bassi; pompe e macchine a vapore
aiutarono a distribuire l'acqua nelle tubature più facilmente di
quanto non si potesse fare negli antichi impianti a gravità.
S'imparò a costruire dighe e bacini di raccolta più ampi ed a
scavare pozzi più profondi.
Inoltre l'invenzione e la diffusione di dispositivi che oggi ci sembrano
banali, come il water closet, da una parte fecero crescere i
fabbisogni di acqua, dall'altra legarono indissolubilmente fra di
loro i problemi dell'approvvigionamento e dello smaltimento.
Verso la fine del '700 e lungo tutto l'800 si assistette nei principali
paesi europei ad un pullulare di iniziative in campo
igienico-sanitario.
Può così sembrare strano che la costruzione del primo acquedotto
pubblico di Milano sia avvenuta a partire dal 1888, piuttosto tardi
cioè rispetto ad altre grandi città europee. Ciò trova qualche
spiegazione nel fatto che, proprio per non essere stata costruita
sulle rive di nessun grande fiume, Milano aveva sentito
l'esigenza di far convergere verso di sé un'imponente rete di
canali e navigli, che per secoli ne avevano determinato e
caratterizzato l'aspetto (prima che lo strapotere dell'automobile
portasse alla sciagurata decisione di interrarli). Questi canali
derivati da fiumi un tempo puliti, come l'Adda e il Ticino,
costituivano una importante fonte di rifornimento d'acqua, sia
per le industrie, sia per le operazioni domestiche a più intenso
consumo come il lavaggio della biancheria.
Per l'acqua potabile, ed in genere per gli usi domestici, il rifornimento
avveniva tradizionalmente da una miriade di pozzi privati, che
attingevano dalla ricca e facilmente accessibile falda freatica.
Si trattava in genere di pozzi scavati, con rivestimento in mattoni,
profondi non più di 6-7 metri; molto rari erano i pozzi trivellati,
che raggiungevano i 12-13 metri dando ovviamente acque
migliori.
Questa relativa abbondanza d'acqua è probabilmente la più
semplice spiegazione del tardivo sviluppo di un acquedotto a
Milano; anche nella nostra città, comunque, l'aumento degli
abitanti (circa 321.000 al censimento del 1881), l'aumento delle
esigenze igieniche[2] e dei consumi d’acqua, portarono ad un
crescendo di richieste della "pubblica opinione" e indussero le
autorità ad affrontare il problema. Occorsero comunque quattro
anni, dal 1877 al 1881, perché l’amministrazione comunale,
guidata dal sindaco Giulio Belinzaghi, prendesse in esame ben
tredici progetti, nessuno dei quali convinse le autorità comunali,
o per la scarsità delle fonti proposte o per la loro lontananza (o
forse perché altre erano in quegli anni le priorità della Giunta,
cioè i grandi progetti edilizi e di trasformazione urbana, ai quali
anche l’acquedotto sarebbe però in breve risultato necessario).
Alla fine del 1881 un progetto della “Società Italiana Condotte
d'Acqua”, che prevedeva la costruzione di una conduttura che
doveva portare 900 litri d'acqua al secondo da alcune sorgenti
della Val Brembana, piacque alle autorità cittadine; si scatenò
però una irriducibile opposizione di tutte le autorità della
provincia di Bergamo, che non fu scalfita nemmeno da
autorevoli prese di posizione favorevoli al progetto, come quella
del più famoso geologo dell'epoca, l'abate Stoppani; furono vani
anche i tentativi del Comune di far dichiarare l'opera, dalle
autorità nazionali, di pubblica utilità.
Passarono così ben sei anni, fino al 1887, prima che il Comune
rinunciasse all'idea e bandisse un nuovo concorso. Nel
frattempo era diventato sindaco Gaetano Negri, ed era stato
approvato (nel gennaio del 1886) il primo Piano Regolatore
elaborato, dall‘ing. Beruto. Furono presentati 22 nuovi progetti,
tra i quali una apposita commissione ne selezionò sette
meritevoli di ulteriori approfondimenti. In particolare vale la pena
di menzionare quello presentato dell’ingegner Villoresi (il
progettista del grande canale che collega il Ticino all’Adda) che
propose di alimentare la città tramite una condotta forzata, cioè
una tubazione in pressione (12 atmosfere), che sarebbe partita
dai monti lecchesi, e avrebbe permesso di ricavare dall’acqua
anche forza motrice, tramite piccole turbine da installare negli
stabilimenti industriali.
I progetti furono discussi a lungo. Furono chiesti pareri ufficiali anche
a professionisti di fama internazionale, come l'ingegner Burkly[3],
capo delle acque pubbliche di Zurigo, ma alla conclusione di un
acceso dibattito in Comune tutte le proposte furono nuovamente
rigettate.
Così alla fine di questa lunga diatriba prevalsero le modeste, ma
concrete e realistiche opinioni dell'Ufficio Tecnico Comunale, in
particolare del giovane ingegnere Felice Poggi, che proponeva
di attingere alla falda freatica, la tradizionale fonte usata da
secoli dai milanesi, costruendo però pozzi profondi, in modo da
avere garanzie di purezza e salubrità dell'acqua.
In effetti, durante la costruzione dei primi due pozzi sperimentali,
intrapresa nella seconda metà del 1888 nella zona dell'Arena, si
constatò che a profondità di 20-30 metri degli strati compatti di
argilla proteggevano la falda dalle infiltrazioni superficiali, così
che alla profondità raggiunta dallo scavo (il primo pozzo fu
spinto fino a 145 metri, il secondo fino a 81m), l'acqua era ottima
ed abbondante. In questi pozzi l’acqua risaliva per pressione
naturale fino a 3-4 metri dal livello del suolo, ed era così
possibile aspirarla facilmente con delle pompe sistemate
qualche metro più in basso del livello stradale, ed azionate con
cinghie.
All'inizio del 1889 fu di conseguenza decisa la costruzione del primo
impianto di pompaggio, che fu denominato "Arena" ed entrò in
servizio prima della fine dell'anno stesso. Esso era alimentato
dai primi due pozzi sperimentali e da altri quattro scavati nel
frattempo. Il macchinario consisteva in due motrici a vapore,
alimentate da tre caldaie “tipo Cornovaglia”, che azionavano,
mediante grandi cinghie, due pompe alternative della portata
complessiva di 140 litri\secondo.
L'utilizzatore di quest'acqua fu il nuovo quartiere residenziale che
stava sorgendo fra piazza Castello, foro Bonaparte e via Dante,
mentre parte dell'acqua non ancora consumata andò a diluire le
acque della rete fognaria dello stesso quartiere[4]. Per
regolarizzare la pressione di erogazione dell’acqua, furono
costruiti due grandi serbatoi di accumulo in quota che furono
“nascosti” all'interno dei torrioni del Castello Sforzesco. Questa
strana commistione di vecchio e di nuovo poté avvenire in
quanto alla fine del ‘800 il Castello stava subendo quel radicale
processo di restauro e rifacimento che, dopo secoli di
abbandono, lo avrebbe portato alla forma attuale[5]. Per primo
fu realizzato, nel 1893, un serbatoio in ferro nel torrione Est,
progettato dal prof. Cesare Saldini del Politecnico, e realizzato
dalla ditta Schlaepfer di Torino ; dieci anni dopo, fu la volta del
torrione Sud, dove il serbatoio fu realizzato in cemento
armato[6].
Questo primo impianto ebbe una notevole importanza, perché il suo
successo determinò l'impostazione tecnica che l'acquedotto
milanese avrebbe poi conservato fino ad oggi (così come fino ad
oggi avrebbe conservato la caratteristica di essere una iniziativa
pubblica). Esso diede inizio ad un progressivo e costante
sviluppo del servizio di distribuzione dell’acqua potabile,
sostenuto dal deciso aumento dei consumi che si innescò via
via che i milanesi si accorsero della comodità dell'avere acqua
in abbondanza nelle proprie case, e che divenne "naturale"
pensare che i nuovi edifici dovessero allacciarsi all'acquedotto.
La rete dell’acqua potabile divenne una sorta di fiore all’occhiello fra
le varie attività volte a migliorare le condizioni di vita dei cittadini,
che la municipalità intraprese[7] negli anni di fine secolo, in
quanto a differenza di altri servizi tecnici a rete, quali il gas,
l’elettricità e successivamente il telefono, fu organizzata fin
dall’inizio come impresa pubblica in virtù di un carattere di
necessità che, sostenevano i suoi promotori, non poteva
“convenientemente affidarsi a chi ne voglia fare motivo di lucro”.
L’acqua rappresentava in effetti una delle acquisizioni (o
riacquisizioni) più significative della tecnica urbanistica ed
igienica, i cui cultori e specialisti avevano gradualmente
sviluppato, nel corso dell‘800, una visione della città intesa
come un organismo da nutrire e depurare, mediante un sistema
per la circolazione di sostanze vitali.
“Tanto nel corpo di un animale quanto nell’organismo di una città il
liquido vitale è condotto e distribuito da una rete completa di
canali di diramazioni e ramificazioni”, aveva non a caso scritto,
nel 1892, l’ing. Poggi.
In effetti l’abbondante disponibilità di acqua potabile permise, oltre
che la distribuzione agli edifici privati (all’inizio a quelli di un
certo pregio), anche la costruzione di bagni e servizi pubblici, e
di “stabilimenti” di grandi dimensioni, come quelli realizzati, su
progetto dell’ingegnere comunale Giuseppe Codara, al Ponte
delle Gabelle (vicino a Porta Nuova) ed in via Argelati (vicino a
Porta Ticinese), dotati di ampie piscine. Questi impianti
consentivano l’accesso, a prezzi popolari, a stabilimenti balneari
certo meno eleganti, ma funzionalmente non diversi da quelli
che la Milano ricca già da molti anni utilizzava: ad esempio il
prestigioso ed elegante Kursaal Diana, a porta Venezia, che era
stato costruito ad emulazione di simili impianti, diffusi nelle
principali città europee.
Il secondo impianto di pompaggio fu costruito nel 1898 al rondò
Cagnola (l'attuale piazza Firenze; nel 1903 si aggiunse la
centrale "Parini" (vicino all’attuale P.za della Repubblica). La
potenzialità complessiva raggiunse i 410 litri/secondo e la rete di
tubature i 134 Km.
Nel 1910 le centrali di pompaggio erano diventate 10, i pozzi 87. Le
pompe di spinta della rete erano ormai di tipo centrifugo, alcune
ancora azionate da motrici a vapore, ma la maggior parte
azionate da motori elettrici; erano anche in uso le prime
elettropompe sommerse.
Gli edifici delle centrali di quell'epoca, in genere costruiti in sobrie
architetture di mattoni a vista, sono tuttora riconoscili, con un po'
di attenzione, nel tessuto urbano: per esempio la centrale di via
Benedetto Marcello o quella di via Cenisio, in anni recenti
trasformata in Museo dell'Acquedotto. Altri di questi edifici
furono fin dall’inizio progettati in maniera tale da confondersi nel
tessuto urbano, come la centrale di corso Vercelli, allo sbocco di
piazza Piemonte, quasi completamente sotterranea e affiorante
in superficie solo a formare una sorta di terrazza con balaustra,
in mezzo al verde, o come quella al parco Sempione, realizzata
nel 1908, e completamente mimetizzata nel verde, o quella
sotterranea di Corso Indipendenza.
Il progressivo estendersi dell’acquedotto divenne col tempo una
delle
“opere
di
urbanizzazione”
fondamentali
che
caratterizzarono lo sviluppo della città, così come venne
delineato dai successivi piani regolatori. Le due tabelle seguenti
sintetizzano efficacemente, pur nell’aridità delle cifre, l’ampiezza
e la rapidità di espansione dell’acquedotto cittadino.
Centrale di pompaggio
Anno di costruzione
Portata nominale litri/sec
Numero pozzi
L’affermarsi del concetto della fornitura d’acqua attraverso
l’acquedotto segnò purtroppo (assieme ad altri eventi), anche il
destino dei tanti canali d’acqua che da secoli solcavano la città,
in particolare i navigli, preparando il terreno per quella copertura,
realizzata a partire dal 1929-30, che ne avrebbe definitivamente
sancito la trasformazione in canali di scolo, come tali in realtà da
occultare.
Col passare degli anni ed il progressivo indiscriminato sfruttamento,
pubblico e privato, la falda freatica cominciò a dar segni di
"stanchezza": i primi segni di un pur modesto abbassamento
risalgono già al 1928, e la situazione sarebbe gradualmente
peggiorata in conseguenza dell’incremento dei prelievi operati
soprattutto dalle grandi industrie (siderurgica, chimica e
meccanica) che si sviluppavano nell’area milanese. Il fenomeno
si sarebbe poi invertito, a partire dal 1990, in conseguenza della
chiusura degli stessi grandi stabilimenti (ad esempio Pirelli, Falk,
Montedison, ecc.) che ne erano stati la causa principale, fino a
procurare preoccupazioni opposte, legate all’allagamento di
sotterranei, parcheggi, metrò, ecc.
Né ciò, né i ben più seri problemi, legati all'inquinamento chimico,
che si sono manifestati a partire dagli anni '60 ed ai quali si è
rimediato aumentando la profondità dei pozzi fino a 160-180
metri, hanno comunque più mutato la struttura fondamentale
dell'acquedotto milanese ed il Servizio, con i suoi 35 impianti,
2200 Km di tubature principali e 600 addetti, fa arrivare
puntualmente nelle nostre case 300.000.000 di metri cubi
d'acqua all'anno.
Dal 30 giugno 2003, invece, la gestione del servizio idrico integrato
(comprendente i servizi di acquedotto, fognatura, collettamento
e depurazione), è passata dal Comune di Milano alla
Metropolitana Milanese S.p.A.
Bibliografia
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[1] Per esempio le epidemie di colera che scoppiarono a Londra nel 1849 e
1853-54, che causarono la morte di più di 20.000 persone.
Ancora tra il 1870 ed il 1890 scoppiarono in Europa oltre 600 epidemie più o
meno gravi, il 70% delle quali causate dall'acqua.Si tenga anche
presente che nel secolo XIX le prime fondamentali scoperte
microbiologiche diedero una ragione oggettiva al noto principio che
legava la salute pubblica alla purezza dell'acqua e allo smaltimento dei
liquami fognari.
[2] La contaminazione delle acque era causata dalla mancanza di una rete
fognaria. Le acque reflue domestiche venivano scaricate in pozzi neri o
cisterne sotterranee, che venivano periodicamente svuotate. Risulta che
nel 1862 esistesse un apposito servizio comunale di svuotamento;
esisteva inoltre un ufficio di sorveglianza, per eseguire analisi delle acque
contaminate.
[3] Nella sua corposa relazione, Burkly esprimeva più volte il suo favore
all’utilizzo di acque sotterranee, come poi fu fatto. Così scriveva:
“ Benché i progetti d’acqua di sorgente e principalmente quello della valle
Pioverna e Varone siano studiati con moltissima cura, sono però d’avviso
che le autorità di Milano dovrebbero prendere anzitutto in considerazione
le acque sotterranee... Per quanto concerne la provenienza dell’acqua da
immettere nel serbatoio di accumulo, le condizioni speciali della città
giustificano la scelta dell’acqua sotterranea...”
[4] Della disponibilità di acqua pulita nella zona del Parco Sempione avrebbe
beneficiato, qualche anno dopo, anche il Civico Acquario, che fu
realizzato in occasione della Esposizione Internazionale del 1906.
[5] Il progettista dei restauri fu l’architetto Luca Beltrami.
[6] A realizzare l’opera fu l’impresa Porcheddu di Genova, che stava in quegli
anni diffondendo in Italia l’utilizzo delle strutture in cemento armato
secondo il brevetto del belga Francoise Hennebique.
[7] Si può ricordare, fra l’altro, la realizzazione di alloggi popolari a partire da
un primo lotto approvato nel 1903 tramite la costituzione dell’apposita
azienda per la loro costruzione, e la realizzazione delle Centrale del Latte,
allora denominata “vaccheria modello”.
1.4 I trasporti pubblici milanesi: dal cavallo alla
metropolitana
I trasporti pubblici milanesi: dal cavallo
alla metropolitana
di Mauro Colombo
I primi passi del trasporto pubblico
Fino all'unità d'Italia Milano non ebbe alcun servizio di trasporto
urbano pubblico, eccezion fatta per pochi carrozzoni trainati da
cavalli, decisamente insufficienti per i crescenti bisogni dei
cittadini, che pertanto si arrangiavano, laddove le finanze lo
permettevano, con mezzi propri o con le vetture di piazza,
queste ultime decisamente costose.
La situazione era decisamente migliore, invece, sul fronte dei
collegamenti tra Milano e i comuni lombardi, grazie ad un
sistema stradale extraurbano che, nel XIX secolo, faceva
invidia al resto d'Europa. La rete viaria era infatti la migliore
d'Italia, e contava ben 21.600 chilometri di collegamenti, che
non privilegiavano solo il capoluogo.
Si pensi che già nel 1835 era stata inaugurata una linea di diligenze
che collegava velocemente, e con orari precisi, Milano con
Monza. Nel 1840 la stessa linea venne rivoluzionata con la
posa di rotaie, sulle quali presero a correre a velocità
inimmaginabili per l'epoca due nuovissime locomotive a vapore,
la "Lombardia" e la "Milano", su concessione rilasciata alla
società viennese Arnstein & Eskeles. La "Imperial regia
privilegiata Strada Ferrata Milano-Monza" ebbe presto un
successo strepitoso, con duemila passeggeri trasportati al
giorno.
Davanti a tale progresso tecnologico, l'entusiasmo per la velocità
spinse un gruppo di cittadini milanesi a chiedere a gran voce
l'istituzione di un servizio di trasporti passeggeri funzionante
all'interno della città.
Le autorità comunali approvarono quindi la proposta di creare un
sistema cittadino di trasporto pubblico che potesse collegare, a
beneficio di tutti, le varie zone della città, ormai in espansione
costante.
Se però sulla necessità del trasporto urbano si trovarono tutti
d'accordo, ciò che divideva era il mezzo meccanico da utilizzare:
tramway (su rotaia) o omnibus (liberi sul fondo stradale)? Dopo
numerosi progetti e proposte, anche alla luce di esperienze
straniere, la controversia si risolse premiando i secondi, in
considerazione della particolare situazione stradale cittadina,
caratterizzata da vie tortuose con curve strette e spesso a
gomito.
Nasce l'Omnibus
Il 28 giugno 1861, con atto redatto dal notaio Bolgeri, venne
costituita la Società Anonima degli Omnibus per la città di
Milano (S.A.O.).
Il primo gennaio dell'anno seguente, la piazza del Duomo appariva
con qualcosa di diverso dal solito andirivieni di carrozze e
carretti spinti a mano: nella nebbiolina di quella fredda mattinata
facevano bella mostra di sé i nuovissimi e modernissimi
omnibus verdi, a quattro ruote, trainati ciascuno da una coppia
di cavalli. L'interno di ogni veicolo era illuminato da una grossa
lampada ad olio, i posti a sedere erano otto, il costo del biglietto
10 centesimi e la frequenza di dieci minuti.
Direttore del servizio era il giovane Emilio Osculati (fratello di
Gaetano Osculati, celebre esploratore e pioniere), che quella
mattina, nella sala d'aspetto e deposito bagagli situata in piazza
Duomo 23, si affannava a dare le ultime disposizioni al
personale.
Il servizio incontrò subito il favore dei Milanesi, anche se col passare
degli anni il traffico privato, sempre in aumento, cominciò ad
intralciare le corse degli omnibus S.A.O.
Ben presto, quindi, sull'onda degli esempi forniti dalle grandi città
europee, si cominciò a riflettere sulla possibilità di passare al
trasporto urbano su rotaia.
I tentativi di miglioramento
Il
17 gennaio 1863 l'ing. Tettamanzi presentava, assieme
all'imprenditore Rivolta, un'istanza al sindaco Beretta per
"ottenere la concessione di una ferrovia da stabilirsi sulla strada
di circonvallazione della città di Milano".
Il progetto venne inoltrato, come voleva la legge, anche al R.
Ministero dei Lavori pubblici di Torino, sostenuto dalla
motivazione che una tale ferrovia avrebbe senz'altro alleggerito
il peso che le strade cittadine erano costrette quotidianamente a
sopportare. Una strada ferrata a cavalli, costruita tutt'attorno
alla città, avrebbe permesso di distribuire le merci in ogni punto
di Milano, senza la necessità di attraversarla e congestionarla.
Se, purtroppo, alcune difficoltà burocratiche fecero naufragare
l'interessante progetto, nello stesso periodo un altro precursore
dei tempi, il tenente colonnello Gandini, presentava alla città i
propri studi viabilistici estremamente all'avanguardia.
Questi, che a Londra aveva seguito da vicino la progettazione della
metropolitana, e in altre città d'Europa si era distinto per aver
risolto non facili problemi tecnici legati al trasporto urbano,
presentò ufficialmente il proprio progetto per convogliare il
traffico cittadino "sotto il piano di terra", e per l'esattezza
nell'alveo del naviglio, opportunamente prosciugato e coperto.
Ma i tempi forse non erano ancora maturi, e il troppo azzardato
progetto venne senz'appello bocciato: si dovrà attendere
ancora un secolo perché Milano possa avere la sua
metropolitana.
Il potenziamento degli Omnibus
Mentre i progettisti teorizzavano sull'evoluzione dei trasporti, la
S.A.O., coi piedi ben saldi a terra, continuava a potenziare il
servizio di omnibus, aggiungendo, alle precedenti già in servizio,
nuove vetture da 14 e 16 posti, mantenendo quelle da 8 posti
solo per i tragitti corti e centrali.
Nel 1864 iniziò a funzionare la Stazione centrale (attuale Piazza
della Repubblica), e tutte le linee degli omnibus vennero
modificate in funzione di tale polo ferroviario, in grado, ben
presto, di stravolgere il concetto stesso di trasporto e di
commercio.
Le vetture S.A.O. circolanti erano a tale data 35, e le linee undici,
tutte con capolinea in piazza Duomo.
Le prime ippovie extraurbane
Nel 1876 l'Osculati, ormai uno degli uomini più rispettati di Milano,
ottenne la concessione per una ippovia ferrata sulla strada
Milano-Monza, con partenza ai caselli di Porta Venezia, appena
fuori i bastioni.
L'inaugurazione
fu fissata per l'8 luglio dello stesso anno: in
servizio otto vetture a due piani di nuovo modello, la cui rimessa
si trovava in via Sirtori al numero 1, poco distante dal capolinea.
Il primo viaggio, al quale parteciparono le autorità cittadine e il
principe Umberto, non si rivelò essere dei migliori. Un piccolo
deragliamento e qualche intoppo tecnico rallentarono
notevolmente il tempo di percorrenza, che alla fine fu di circa tre
ore e mezza.
Tuttavia, incurante delle malelingue e delle battute velenose (il
servizio fu ribattezzato "el trotapian"), l'Osculati, dopo una
giornata di assestamenti tecnici, decise di aprire il servizio al
pubblico il 10 luglio.
Per l'occasione venne messo in vendita il "Giuoco del Tramway"
(una sorta di gioco dell'oca), e il liquorista Galimberti, con
un'abile manovra commerciale, elaborò il tonico corroborante
"Tramway", la cui etichetta riproduceva, naturalmente, il tram
per Monza.
Il 24 giugno 1877 entrò in servizio una seconda ferrovia ippotrainata,
la Milano-Saronno, della società belga dei tramways e ferrovie
economiche di Milano, Bologna, Roma. Il capolinea di questa
nuova tratta fu posto all'Arco del Sempione.
Poco più tardi entrambe le linee ferrate furono autorizzate ad
allungare il proprio percorso, entrando in città: la Milano-Monza
spostò il capolinea in corso Venezia, di fronte al numero 8,
quasi in San Babila, mentre la Milano-Saronno si spinse fino in
via Cusani.
L'avvento del vapore sulle linee extraurbane
A causa del preoccupante innalzamento dei costi, le due società dei
tramway extraurbani decisero di affidarsi alle nuove macchine a
vapore: le locomotive. Nulla a che fare con le grandi vaporiere
veloci in forza sulle lunghe tratte, come ad esempio per
Bergamo o Torino. Queste erano dei piccoli cassoni a due assi,
muniti di tettoia, sui quali era installata una caldaia di modeste
dimensioni.
Così, il 6 giugno 1878, venne inaugurata la prima trenovia italiana, la
Milano-Gorgonzola-Vaprio d'Adda, su progetto degli ingegneri
Radice e Manara.
L'utilizzo di queste locomotive al posto dei placidi cavalli destò nella
folla stupore e ammirazione, e il successo fu subito decretato. Il
mostro che procedeva autonomamente, al suo primo ingresso a
Saronno, fu accolto dalla popolazione festante, radunatasi per
ammirare la veloce locomotiva sistema Krauss, con caldaia
tubolare a dodici atmosfere, collocata orizzontalmente.
Tale e tanto fu il successo di questi primi esperimenti, che negli anni
seguenti vennero costruite numerose linee extraurbane a binari,
con carrozze trainate sempre e solo da piccole locomotive a
vapore, chiamate dal popolo "Gamba de legn".
Nacquero così, una dopo l'altra, la Milano-Gorgonzola-Vaprio, la
Milano-Magenta-Castano, quest'ultima con partenza da corso
Vercelli, la Milano-Cascina Gobba-Vimercate, la Milano-Pavia,
la Milano-Lodi.
Il grande decennio delle tramvie a vapore interurbane si chiuse con
numeri davvero ragguardevoli: 156 gamba de legn collegavano
Milano con la Lombardia, e ben 912 carrozze erano
regolarmente in servizio.
Dall'Omnibus al Tramway
Nonostante i collegamenti con i Comuni vicini e lontani fossero ormai
assicurati da linee ferrate a vapore, all'interno di Milano non
solo il vapore era proibito, ma neppure la posa dei binari era
ancora stata autorizzata, cosicchè per la città continuavano a
circolare i sempre più antiquati omnibus a trazione animale.
L'aria di cambiamento si fece sentire quando nella seduta della
giunta comunale del 23 settembre 1880, l'assessore Cusani,
presa la parola, si lanciò in un panegirico delle linee ferrate,
accusando la Giunta di immobilismo, barricata dietro false
paure, benchè le linee tramway in funzione non avessero
provocato incidenti o disastri di sorta. Auspicava dunque che, al
più presto, si progettasse di "avviluppare Milano in una rete di
tramvie a cavalli su rotaie ferrate".
Quando alla fine delle accese discussioni il Comune decise di
assegnare in concessione linee pubbliche su rotaia in
sostituzione degli omnibus, l'unica società partecipante alla
gara fu la S.A.O., che offrì al Comune una partecipazione del
6% sull'introito lordo per un contratto di tre anni.
La potenza economica della S.A.O. era del resto irraggiungibile per
qualsiasi altra impresa, basti pensare che dai primi pochi
omnibus di soli vent'anni prima, era ormai proprietaria di più di
cento vetture, con seicento dipendenti. Oltre alla storica
scuderia di via Sirtori, nel corso degli anni erano state
predisposte l'infermeria dei cavalli alla cascina S.Pietro di
Lambrate e un paio di rimesse per le vetture, di cui una, vicino
al cimitero di Musocco, quale ricovero per le vetture del servizio
funebre.
Aggiudicatasi dunque la concessione, e considerato che
l'Esposizione Nazionale, importante vetrina di tecnologie e
modernità, era prossima ad aprire i battenti, vennero
celermente iniziati i lavori per la posa delle rotaie, privilegiando
in questa prima fase le linee che conducevano proprio
all'Esposizione.
Il sindaco Belinzaghi, da quanto riportano le cronache dell'epoca,
era felicissimo, sia per la straordinaria riuscita dell'Esposizione,
sia perché i nuovissimi tram a cavalli conferivano alla città un
aspetto di autentica modernità.
Nonostante la complessità dei lavori stradali, nell'arco di un paio
d'anni le linee a rotaia poterono correre per tutta Milano.
Nel 1884 la S.A.O. inaugurò, all'apice della sua potenza, la linea
Milano-Corsico.
A partire da questo periodo la piazza del Duomo iniziò a
caratterizzarsi per il famoso "carosello" dei tram S.A.O.: ben
cinque linee tranviarie vi facevano capolinea, cosicchè
sostavano mediamente una decina di vetture coi relativi cavalli.
Nello stesso periodo venne completata anche la linea della
circonvallazione, mentre undici erano le linee radiali verso il
centro.
L'avvento dell'elettricità: i tram a trazione elettrica
Tuttavia la S.A.O., che appariva ormai ineguagliabile e sempre
pronta a fare di meglio, non aveva fatto i conti con una nuova
scoperta destinata a cambiare il mondo: l'elettricità.
Il professore Giuseppe Colombo, rettore del Politecnico, che da un
paio d'anni aveva iniziato a fare interessanti esperimenti con
una piccola dinamo tipo Edison acquistata a Parigi, riuscì infatti
ad illuminare con l'energia elettrica il ridotto della Scala.
La sua officina elettrica, situata in via S.Redegonda, nel 1883 mise
in funzione la prima centrale elettrica d'Europa, la seconda al
mondo dopo quella di New York.
Forte dei progressi fatti in pochi anni, il Colombo, costituita la società
Edison, ottenne dal Comune la concessione per illuminare
elettricamente l'intera Piazza del Duomo, la Galleria, la piazza
della Scala e i principali passaggi cittadini.
Il 21 novembre 1892 il Comune stipulò con la Edison, ormai
redditizia società, la convenzione annuale per l'esercizio di
pubblici tram a trazione elettrica, sul percorso piazza Duomo –
corso Sempione. L'anno successivo una seconda convenzione
affidò alla Edison ben 18 linee elettrificate, di cui 15 con
capolinea in piazza Duomo.
La S.A.O., che ormai aveva perso parecchio terreno (anche dal
punto di vista dell'immagine), per restare al passo introdusse
sulle proprie linee i nuovi tram ad accumulatori svizzeri. Dopo
aver riaffermato momentaneamente il prestigio della propria
azienda, l'Osculati, davanti all'avanzare inesorabile della
Edison, introdusse quella che all'epoca era davvero una novità:
tramway automobili con sistema Serpollet a vapore. Il
manovratore aveva a disposizione la pompa a mano per la
messa in moto, il rubinetto regolatore, leva del cambio e freni.
Tuttavia, in questa guerra al progresso, a soccombere fu la S.A.O.,
schiacciata dalle troppo efficienti linee elettrificate Edison.
Questa, sfruttando il fatto che la città era in continua
espansione territoriale, iniziò ad impiantare nuove linee che
correvano per ogni dove. Le sue vetture furono anche
equipaggiate, al loro interno, di campanelli elettrici, cosicchè i
passeggeri, suonandoli, potessero avvisare il conducente
dell'intenzione di scendere alla fermata successiva.
Il cavaliere Emilio Osculati, sessantacinquenne, ammise la propria
sconfitta, e decise di ritirarsi dedicandosi all'esercizio di vetture
private.
Da quel momento, un po' alla volta, tutte le linee urbane vennero
elettrificate, e i cavalli messi definitivamente a riposo. I giornali
titolarono: "I cavalli alati non vedranno il secolo nascente!".
Al 31 dicembre 1898 la rete tranviaria a trazione elettrica
raggiungeva la lunghezza totale di esercizio di 61.686 metri.
La S.A.O. dovette dare l'addio anche alla mitica ippovia
Milano-Monza: nel 1900 fu ceduta alla Edison per essere
elettrificata.
La sera del 5 dicembre 1901, nel largo davanti a S.Vittore, esce di
scena l'ultimo tram a cavalli della città. La mattina seguente, sul
percorso via Mercanti, Dante, S.Giovanni sul Muro, corso
Magenta, S. Agnese, piazza S.Ambrogio, via S.Vittore,
prendono servizio sette nuove motrici elettriche della Edison.
Due anni dopo anche la Milano-Corsico passa alla Edison per
essere elettrificata.
L'epoca del tram su rotaie trainato dai cavalli, vero precursore del
trasporto pubblico urbano, cessa per sempre di esistere.
La Grande Esposizione del 1906 e i nuovi mezzi di trasporto
urbano
Nel 1906, sulla scia dell'apertura del traforo del Sempione, Milano
inaugurò la Grande Esposizione, dedicata all'industria dei
trasporti, con due diverse sedi: la prima al parco, la seconda in
Piazza d'armi, collegate tra loro da una piccola ferrovia,
anch'essa oggetto di mostra. Per superare gli ostacoli che però
sorgevano lungo il suo percorso, tra i quali la stazione delle
ferrovie Nord, questa meraviglia tecnologica venne costruita
tutta in sopraelevata, naturalmente a trazione elettrica.
La linea d'alimentazione era formata da due fili di rame duro
elettrolitico, tesi in corrispondenza della mezzeria dei due binari,
ad un'altezza massima di cinque metri e mezzo.
Con quaranta corse all'ora, la modernissima sopraelevata era in
grado di trasportare circa sessantamila persone al giorno.
Essendo l'Esposizione una grande occasione per fare conoscere le
più recenti invenzioni nel campo dei trasporti terrestri,
numerose società meccaniche presentarono i propri progetti,
alcuni duraturi, altri solamente provvisori.
Così, il 10 giugno del 1906 venne attivata la linea
Stazione-Esposizione, con omnibus automobili a vapore della
Serpollet italiana. Questo omnibus mantenne per due mesi la
massima regolarità di servizio, con una percorrenza di circa
novanta chilometri al giorno.
Inoltre, nel periodo dell'esposizione, la S.I.T.A., costituitasi nel 1905
con lo scopo di dotare Milano di veloci linee di trasporto urbano
mediante omnibus automobilistici alimentati a benzina, riuscì a
gestire, con tali mezzi, addirittura quattordici linee urbane.
Anche la F.I.A.T. – Diatto iniziò a mettere in funzione delle vetture
tranviarie elettriche, ma la vera novità tra le novità fu la vettura
filoviaria della Società per la Trazione Elettrica.
La municipalizzazione del trasporto urbano
Fin dalla promulgazione della tanto discussa legge numero 103 del
1903, il Governo era stato incaricato di procurare le risorse
necessarie agli enti locali affinchè questi potessero riscattare e
conseguentemente gestire tutti i servizi pubblici locali.
Milano aveva presto iniziato questo corso economico votando di non
rinnovare alla Edison la concessione per l'illuminazione
cittadina, dando conseguentemente vita all'Azienda Elettrica
Municipale.
Pur registrandosi il successo di questa operazione, non si era
inizialmente voluto sollevare il problema dei trasporti pubblici, le
cui linee, oramai, vantavano uno sviluppo di quasi 76 chilometri,
con circa 300 vetture.
Tuttavia, dopo un decennio di tentennamenti, il 25 gennaio 1917 il
Comune, che non aveva rinnovato la concessione scaduta
l'anno prima, rilevò dalla Edison tutto il materiale rotabile e gli
impianti per l'alimentazione. Anche il personale della Edison
passò alle dipendenze del Comune.
A Giuseppe Colombo, che aveva fondato la società elettrica 33 anni
prima, rimase, momentaneamente, la concessione per le sole
linee extraurbane, poca cosa per poter permettere alla Edison
di avere ancora un vero sviluppo.
Tant'è che il 19 marzo del 1919 venne costituita la S.T.E.L., Società
trazione elettrica lombarda, che ottenne in gestione le linee
extraurbane al posto della Edison.
Il ventennio fascista
Dopo la soppressione, avvenuta nel 1926, dell'ormai caratteristico
"carosello" di piazza Duomo per motivi viabilistici, nella seconda
metà degli anni '20, dagli USA, arrivò una vera innovazione: il
tram con ruote montate su carrelli separati, cioè carrelli in grado
di ruotare separatamente rispetto al corpo della vettura.
Così anche a Milano, tra il 1927 e il 1930, entrarono in servizio le
vetture mod. "1928", denominate "Peter Witt" (moltissime
tutt'oggi in servizio), che presero il nome proprio dall'ingegnoso
presidente della compagnia di trasporti di Cleveland.
Questi tram, costruiti dalla Carminati & Toselli in 500 esemplari,
erano di color nocciola e crema (poi ridipinti negli anni quaranta
di verde), ed erano dotati di porte a soffietto anziché dei soliti
cancelletti in ferro. Inizialmente erano allestiti con un salottino
per fumatori, presto soppresso.
Dal 1932 iniziò poi la fabbricazione di tram articolati a tre casse,
sempre della Carminati & Toselli, in servizio fino ai
bombardamenti del 1943.
Tutto il periodo tra le due guerre fu in ogni caso caratterizzato, oltre
all'incremento delle linee tranviarie, anche dallo sviluppo di
autobus (alimentati a legna, date le ristrettezze imposte
dall'autarchia) e dalle più efficienti filovie, che tra il 1933 e il
1940 riscossero grande interesse, poiché funzionavano a
corrente come i tram, ma non richiedevano la costosa messo in
posa delle rotaie.
Dal dopoguerra alla metropolitana
Durante il secondo conflitto mondiale anche le linee (ben 37) e i
mezzi di trasporto urbani subirono pesantissimi danni. Furono
centinaia le vetture tranviarie distrutte sotto il peso dei
bombardamenti anglo-americani, e, come se ciò non bastasse,
l'esercito tedesco sequestrò più di 30 tram per inviarli a Monaco,
dove sostituirono le vetture andate distrutte dai bombardamenti
alleati.
Al termine della guerra la situazione tornò alla normalità, ma per una
perfetta efficienza si dovettero attendere gli anni Cinquanta,
dato che fino ad allora molte vetture tranviarie circolavano
riparate alla meglio dalla Breda, con ricambi e componenti di
fortuna, recuperati dallo smantellamento delle vetture giudicate
definitivamente compromesse.
In ogni caso fu possibile ricostruire tutte le "1928" (ad eccezione
della numero 1624), grazie al loro robusto telaio d'acciaio.
All'interno i sedili vennero ricostruiti in legno e unificati.
Sul fronte del trasporto extraurbano le cose non andavano meglio,
visto che nel 1952 le linee Milano-Magenta e
Monza-Trezzo-Bergamo erano le uniche ancora a carbone su
tutto il territorio nazionale, oltre alla Barletta-Bari.
Infatti i costi troppo alti ne sconsigliavano la ristrutturazione, e le due
linee rimasero a carbone assorbendo, fino alla loro
soppressione, locomotive e carri provenienti dalle altre linee,
che venivano mano a mano elettrificate.
Tuttavia, ben presto anche queste linee vennero soppresse, e il
famoso gamba de legn sostituito da autobus.
Gli ultimi quarant'anni di storia sono caratterizzati dal moltiplicarsi
delle linee, sia urbane che extraurbane, e dall'introduzione di
mezzi tecnologicamente sempre più avanzati, con una spiccata
prevalenza per gli autobus con motore a scoppio, giudicati più
economici e veloci.
Ma tra il 1958 e il 1959 entrarono in servizio anche 40 filovie snodate
a 4 assi Fiat 2472 CGE Viberti, cui seguirà un ulteriore fornitura
di altre 45 unità negli anni 1964/65 (veicoli che resteranno in
servizio fino agli anni '90, quando furono sostituiti con i filobus
tutt'oggi in circolazione).
Negli anni settanta si registrarono due importanti novità: il nuovo
coloro dei veicoli, l'arancione al posto del verde, e la
sostituzione, per quanto riguarda il meccanismo attraverso il
quale i tram prendono corrente, della "perteghetta" a rotella con
il più sofisticato pantografo.
Con l'avvento della metropolitana la modernizzazione dei trasporti
pubblici urbani raggiunse il suo culmine.
I lavori per quella che sarà poi la Linea Uno iniziarono nel 1957, per
concludersi nel 1964. Negli anni successivi ulteriori lavori ne
prolungarono sempre più la sua lunghezza.
Nel 1971 iniziarono i lavori per la Linea Due, mentre nel 1982 quelli
per la Linea Tre.
Bibliografia
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Bersa, M., Filovie e filobus a Milano, 1986
Cazzaniga G., Il gamba de legn, 1991
Cornolò, G. - Severi, G., Tram e Tramvie a Milano, 1987
Guida di Milano per l'anno bisestile 1872, 1871
Mantegazza, A. - Pavese, C., L'ATM di Milano 1861-1972, 1993
Ogliari, F., Dall'Omnibus alla metropolitana, 1989
Ogliari, F., El gamba de legn, 1991
Severi, G. - Vasini, R., Autobus a Milano, 1988
2 Il Castello sforzesco attraverso i secoli
Il Castello sforzesco attraverso i secoli
di Mauro Colombo
1. La Porta Giovia nel sistema difensivo urbano
Le mura romane
Mediolanum ebbe le sue prime vere mura alla fine del I secolo avanti
Cristo, sotto il principato di Ottaviano Augusto. Nel circuito di
queste mura (il cui tratto meglio conservato è custodito nelle
cantine di via S. Vito) si aprivano cinque porte sulle principali
direttrici di traffico: Porta Giovia tra via S. Giovanni sul Muro e
via Cusani, Porta Cumana tra via Cusani e via del Lauro,
Porta Orientale o Argentea al Còmpito di via S. Paolo, Porta
Romana tra via Paolo da Cannobio e lo scomparso vicolo di S.
Vittorello, Porta Ticinese all'attuale Carrobio (dopo
l'ampliamento delle mura voluto dall'imperatore Massimiano si
avranno altre due porte, la Nuova nell'attuale via Manzoni
all'altezza di via Montenapoleone e la Tonsa al Verziere).
La Porta Giovia si apriva verso l'importante strada verso il Seprio e
ospitava ai suoi lati importanti sepolture, per lo più datate a
partire dall'età augustea. Molte lapidi sottratte a questo cimitero
verranno rimpiegate nella costruzione di edifici e basiliche in età
tardo-imperiale (es. S. Simpliciano e S. Carpoforo).
Come si presentava la Porta? Le radicali trasformazioni subite da
questa zona a partire dal XIV secolo non hanno lasciato
neppure una traccia della porta romana, ma non c'è motivo di
escludere che si trattasse di una normale porta a due fornici con
torri arrotondate, come quella superstite al Carrobio di Porta
Ticinese.
Le mura comunali
La cinta costituita dalle mura romane era stata col tempo
gradualmente smantellata durante le invasioni barbariche
dell'alto medioevo, sia per scelte volontarie, nei tratti ove
bloccava l'espansione urbana, sia per incuria. A fianco della
Porta Giovia, ad esempio, rimane il toponimo di S. Giovanni al
muro rotto ad indicare la devastazione subita dalle più antiche
mura urbiche.
Un primo lavoro di ripristino si ebbe con il regno di Liutprando
(secolo VIII), e successivamente per opera dell'arcivescovo
Ansperto (secolo IX).
Una nuova, e più estesa, cerchia difensiva venne però realizzata
solo a partire dal 1155, su progetto di mastro Guintellino.
Consisteva in un cerchio irregolare, formato da un profondo
fossato, nella parte verso la campagna, affiancato, nella parte
verso la città, da un terrapieno formato dal materiale di risulta
dello scavo del fosso. La semplice, ma imponente,
realizzazione venne battezzata ben presto "cinta dei terraggi"
(proprio perché fatta di terra). Il fossato era riempito d'acqua,
proveniente dal Seveso e dal Nirone, mentre lo scarico della
stessa era garantito dalla Vettabbia.
Dopo le devastazioni compiute dal Barbarossa, sui resti di questa
cinta fortificata si iniziarono all'incirca nel 1171 i lavori per una
più efficace linea difensiva, questa volta in muratura.
Questa nuova cerchia era caratterizzata da sette porte e dodici
pusterle, le une e le altre concepite come dei piccoli fortini. Per
altro, la pace di Costanza fece in parte abbandonare i lavori di
completamento. In ogni caso la nuova cinta diede un particolare
e duraturo assetto all'impianto urbanistico, tant'è che il fossato
diventerà poi l'alveo dei Navigli (cosiddetta cerchia dei Navigli).
La nuova Porta Giovia venne leggermente avanzata verso gli orti
coltivati a nord, che sfruttavano l'abbondanza di acque risorgive
e incanalate (borgo degli ortolani). Si apriva sempre lungo la
strada verso il Seprio, all'incirca ove oggi è la Rocchetta
all'interno del Castello Sforzesco. Sul suo lato orientale si
trovava la Pusterla delle Azze (oggi zona Lanza), così detta
dalle accie, ossia le trame dei fustagni per la cui lavorazione si
sfruttavano le acque del Nirone che scendeva dal borgo degli
Ortolani (via Nicolini, piazza SS. Trinità). Tra la Porta Giovia e la
Pusterla delle Azze si svolgevano anche i mercati ortofrutticoli e
del fieno, ma si collocavano anche un gran numero di ostelli per
pellegrini e viandanti, stallazzi per i cambi dei cavalli, cappelle
ricche di leggende e tradizioni, come quella dei SS. Gervaso e
Protaso. In questa zona a ridosso della Porta Giovia si
insediarono anche i primi Carmelitani giunti a Milano.
2. Le difese viscontee a Porta Giovia
La Rocca di Galeazzo II Visconti
Nella divisione del territorio fra i nipoti Matteo II, Galeazzo II e
Bernabò voluta dall'arcivescovo e signore di Milano Giovanni
Visconti, a Galeazzo II era toccata la Porta Giovia. Tutte le
Porte vennero debitamente potenziate e fortificate, in modo da
farne delle Rocchette. La più famosa e documentata a Milano
era quella di Porta Romana utilizzata da Bernabò e
sopravissuta fino al suo atterramento voluto dal Piermarini.
La diffidenza che Galeazzo II e soprattutto sua moglie Bianca di
Savoia provavano nei confronti di Bernabò determinò lo
spostamento della coppia a Pavia, dove la coppia aveva fatto
costruire un vero castello atto all'abitazione, con un grande
parco per l'allevamento dei cavalli. La Rocca di Porta Giovia,
edificata tra il 1358 e il 1368, rimase quale presidio militare di
Galeazzo II a Milano e quale residenza per i suoi soggiorni
milanesi (mentre il palazzo visconteo accanto all'arcivescovato
- ora Palazzo Reale - non veniva usato perché troppo vicino al
temuto fratello).
Una parte del fossato comunale (c.d. fossato morto) si trova ancora
oggi all'interno del castello, così da dividerlo quasi in due: di
qua il grande cortile adibito a piazza d'armi, di là la Corte
Ducale e la Rocchetta, cuore del castello stesso.
Il castello di Filippo Maria
Fu l'ultimo dei Visconti, Filippo Maria (1412-1447) ad eleggere la
Rocca di Porta Giovia a sua residenza milanese e quindi a
trasformarla in un vero e proprio castello con pianta
quadrangolare, chiamando presso di sé architetti del calibro di
Filippo Brunelleschi, il contributo concreto del quale resta però
abbastanza oscuro.
Poiché attorno al castello fu scavato un largo fossato (alimentato
direttamente dalle acque del fossato cittadino), l'accesso era
garantito da due doppi ponti levatoi con relativi battiponte, uno
sul lato città, l'altro sul lato campagna.
All'epoca era già sicuramente esistente una cinta muraria che
proteggeva il castello nella parte esposta verso la campagna. E
proprio la campagna retrostante fu trasformata, per la gioia dei
Visconti e dei loro illustri ospiti, in un'immensa tenuta boschiva
di 3 milioni di metri quadri, che nelle epoche di maggior
splendore fu popolata con animali esotici, per rendere le battute
di caccia più prestigiose.
Alla morte di Filippo Maria (1447), il castello di Milano, con i suoi 180
metri di lato, era senz'altro il più grande fortilizio realizzato in
epoca viscontea.
3. Il periodo sforzesco
La parentesi repubblicana
Dopo Filippo Maria, che lasciava come unica erede la figlia Bianca
Maria sposata al condottiero Francesco Sforza, Milano si
organizzò autonomamente dando vita alla Repubblica
Ambrosiana (1447-1450). In questo pur breve periodo i milanesi
si accanirono con violenza contro il castello visconteo, simbolo
di oppressione e tirannide, demolendolo in parte e
smantellandone le opere difensive.
Comunque, l'architettura del castello era da considerarsi ormai
inadeguata rispetto all'evolversi delle tecniche militari, che
iniziavano ad introdurre l'uso delle artiglierie.
Francesco Sforza
Divenuto signore di Milano Francesco I Sforza nel 1450, si pose
immediatamente mano alla ricostruzione del castello, che
divenne il cardine di tutto il sistema difensivo cittadino.
In realtà, tra i numerosi patti sottoscritti tra i rappresentanti della città
e lo Sforza, vi era quello di non riedificare il castello di Porta
Giovia. Il furbo condottiero venne però meno al proprio impegno,
spingendo una delegazione di cittadini ad invitarlo alla
ricostruzione, adducendo come motivi il decoro e la sicurezza
della città.
Per rendere meno indigesta la nuova fortezza, volle che la facciata
verso la città fosse ingentilita con delle finestre, a mo' di palazzo,
che poi però, quando la sua Signoria si era ormai affermata e
nessuno più poteva metterla in discussione, fece prontamente
murare per migliorare la sicurezza dell'intera rocca. Le finestre
saranno riaperte solo coi restauri moderni del Beltrami, come
vedremo più avanti.
Le principali innovazioni architettoniche di questo periodo furono le
muraglie più spesse, atte a resistere ai colpi dei proiettili, i
torrioni più bassi e rotondi, camminamenti di ronda per la difesa
piombante e le indispensabili, moderne, aperture per le bocche
da fuoco (archibugiere, balestriere, bombardiere).
I due celebri torrioni circolari vennero edificati con uno spessore di
sette metri, abbelliti con pietre a bugnato regolare. Fu anche
aggiunto un grande stemma, che recava le iniziali FR. SF. e la
vipera viscontea, insegna adottata per dimostrare la continuità
della stirpe sforzesca da quella viscontea. All'interno, i torrioni
contenevano delle celle per i prigionieri.
Alla prima fase ricostruttiva parteciparono esperti militari dell'epoca,
quali Marcoleone da Nogarolo, Filippo d'Ancona, Giovanni
Solari, Jacopo da Cortona.
Vi lavorò anche Antonio Averulino, il Filarete, che edificò nel 1452 la
omonima torre, al centro della facciata rivolta verso la città,
anch'essa progettata per smorzare i toni eccessivamente cupi e
militareschi che il castello stava assumendo. Ispirata a quella
presente nel castello campestre di Cusago (tuttora esistente),
inizialmente doveva essere alta quanto le mura, ma essendosi
innalzati i due torrioni circolari, la torre filaretiana (che avrà vita
breve) dovette essere alzata, aggiungendovi i due sopralzi e la
cupoletta.
La sovrintendenza generale ai lavori costruttivi venne affidata a
Bartolomeo Gadio, che manterrà l'incarico per ventisei anni,
durante i quali si portò a termine anche la ghirlanda, cioè la
cortina muraria a difesa del castello (ricavata sulla preesistente
difesa viscontea) e la strada segreta, o coperta, posta nella
controscarpa del fossato.
Questa era una sorta di corridoio coperto a volta, illuminata da
finestrelle che si aprivano sul fossato, e prima che varie frane e
la costruzione della rete fognaria la interrompessero, aveva
numerose gallerie che portavano per diversi chilometri in aperta
campagna.
Galeazzo Maria e Gian Galeazzo Sforza
Se Francesco Sforza aveva pensato, nell'opera restauratrice,
prevalentemente agli aspetti difensivi, il figlio Galeazzo si
occupò delle parti residenziali e rappresentative. Proseguì così
la sistemazione della Rocchetta, e completò la Corte ducale.
Innalzò due nuove ali, la prima per ospitare la sala Verde e la
cappella ducale; la seconda con il portico detto dell'elefante.
Morto improvvisamente nel 1476, vittima della congiura di S. Stefano,
la Signoria passò al giovane Gian Galeazzo, sotto tutela della
madre Bona di Savoia e del cancelliere Cicco Simonetta (vedi
pagina).
Nel 1477 Bona fece innalzare la torre centrale che ancora porta il
suo nome, col preciso compito di sorvegliare i movimenti interni
al castello e l'accesso alla Rocchetta.
Autore ne fu il marchese Lodovico Gonzaga, Signore di Mantova. La
torre fu progettata per contenere otto celle, a cominciare da
quella sotterranea, l'una sopra l'altra.
Nel corso dei secoli tuttavia perse la parte superiore, e finì col
terminare in una sorta di terrazza protetta da una ringhiera di
ferro.
Ludovico Maria detto il Moro
Liberatosi del Simonetta e scacciata Bona di Savoia, Ludovico Maria
assunse la tutela del Ducato facendo firmare al nipote una
lettera d'assenso, divenendo di fatto il nuovo signore dal 1480
al 1499.
Il Moro volle imprimere al Castello un'immagine più residenziale e
principesca, mitigando l'impronta guerresca ancora dominante
nonostante gli sforzi dei suoi predecessori. Per questa ragione
chiamò a corte artisti di spicco, tra i quali il Bramante e
Leonardo.
Negli anni della loro permanenza a Milano, entrambi presentarono
numerosi progetti per quella che ormai era diventata la
residenza della famiglia ducale (fin dagli anni Sessanta del
Quattrocento).
Attualmente, tuttavia, individuare le tracce del loro operato risulta
difficile. Del tutto labili sono gli indizi di un'attività bramantesca.
E' noto che verso il 1495 il cortile della Rocchetta, il quadrilatero
porticato posto nel vertice occidentale del castello cui si
accedeva originariamente solo dalla grande piazza d'armi
tramite un ponte levatoio, fu dotato del terzo ed ultimo fronte ad
arcate su colonne. La datazione, confermata dalla presenza
degli emblemi prediletti dal Moro sulle targhe che decorano i
capitelli di disegno corinzio, ha suggerito un'attribuzione al
Bramante, ma nella arcate che posano direttamente su colonne
non si può individuare un suo contributo originale (contributo
che la preesistenza degli altri fronti non poteva comunque che
limitare pesantemente).
Sua deve sicuramente essere la cosiddetta "ponticella", opera
commissionata dal Moro a Bramante, secondo il suo allievo
Cesare Cesariano (1521), e identificata dal Beltrami nel piccolo
ponte coperto (databile al 1495 circa) che attraversa il fossato
esterno al lato nord est del castello, connettendo le stanze
private del duca con l'area allora a giardino compresa tra il
fosso stesso e la ghirlanda.
Tra queste stanze private, v'era la "saletta negra", che il Moro, dopo
la morte della sposa Beatrice, aveva fatto decorare da
Leonardo ed in cui amava raccogliersi.
Il contributo di Leonardo è assai meglio precisabile, ma resta
documentato sostanzialmente solo da disegni: i suggestivi
schizzi per un'altissima torre-osservatorio al centro della
facciata verso la città e singolari tempietti a cupola per le torri
angolari.
Non restano invece tracce di un padiglione a pianta centrale
realizzato nel giardino, e del famoso monumento equestre a
Francesco Sforza (il cui modello fu distrutto dai Francesi) che
doveva essere posto in una grandiosa nuova piazza rivolta
verso la città.
La creazione più famosa di Leonardo resta così il grande affresco
sulla volta a ombrello della sala "delle Asse", eseguito secondo
un suo progetto decorativo nel 1498 circa: una grande pergola
verde di rami, annodati con i famosi "vinci", che scaturivano da
un circolo di alberi.
Leonardo è comunque ricordato per aver organizzato coreografie e
macchinari per allietare feste e stupire gli ospiti di corte.
Una delle più famose fu quella organizzata nella Sala Verde della
corte ducale, e detta Festa del Paradiso. Leonardo creò sul
palcoscenico una volta raffigurante il Paradiso, con astri,
divinità, angeli e quant'altro. Sul culmine della volta l'artista
collocò un bambino tutto nudo e dorato di vernice, con grande
ammirazione dei presenti. Le cronache ci dicono anche che
quel bambino morì atrocemente poco dopo la rappresentazione,
a causa della doratura che gli provocò ustioni su tutto il corpo.
Per quanto riguarda, infine, le mura urbane, erano in pratica ancora
quelle di epoca comunale-viscontea, con sette porte e undici
pusterle. In ogni caso la saldatura delle mura cittadine al
castello risultava decisamente più complessa, per la presenza
di rivellini che, snodo tra mura cittadine e mura castellane,
smistavano i numerosi accessi al fortilizio, rendendolo ancora
più sicuro.
I due rivellini suddetti, uno chiamato di Porta Comasina e l'altro di
Porta Vercellina, si edificarono al centro del fossato, e mediante
ponticelle levatoie comunicavano con i rispettivi portoni di
ingresso.
Dei due, il rivellino tuttora superstite è quello di Porta Vercellina, ove
ora trovasi la via Minghetti.
Oggi della cinta muraria a protezione del castello, la ghirlanda, e del
suo fossato, restano solo le vestigia della porta detta del
Soccorso (verso la campagna) e i basamenti dei due piccoli
torrioni tondi ai lati (detti della Colubrina e della Vittoria).
4. Le dominazioni straniere
Il periodo francese
Nel 1499, il castellano Bernardino da Corte, tradendo il giuramento
fatto allo Sforza, si vendeva ai Francesi e al loro comandante,
Gian Giacomo Trivulzio. Milano cadde così nelle mani di Luigi
XII, che entrò in città il 6 ottobre. Nei dodici anni di dominazione
francese, la preoccupazione maggiore fu quella di isolare il
castello dalla città (le cui case col tempo si erano addossate
sempre più al fortilizio), sulla scia di una precisa volontà già
individuabile nell'opera del Moro, che aveva fatto demolire le
costruzioni private che impedivano di individuare consistenze e
direzioni degli attacchi che il castello doveva subire.
Perduta la veste di reggia principesca, il castello inizia il suo lento
ma inarrestabile declino. Il cortile centrale cominciò ad
assumere l'aspetto di un cortilone di caserma. Col tempo si
allestirono delle botteghe per gli usi delle guarnigioni: panettieri,
osterie, barbierie, fabbri ferrai ed anche un piccolo ospedale.
Un duro colpo alla magnificenza del castello venne inferto il 28
giugno 1521, quando esplose la torre del Filarete, nella cui
sommità i francesi avevano ammassato le polveri da sparo.
Anche se ora può sembrare strano, all'epoca dislocare la polveriera
in cima alle torri era considerata una cautela, poiché in caso di
esplosione si perdeva solo la parte alta della costruzione.
Tuttavia la torre filaretiana, o dell'orologio, come era detta
all'epoca, andò totalmente distrutta, e "li sassi e le pietre
grossissime delle rovine volavano con impeto incredibile
spaventosamente qua e là per l'aria… e però furono ammazzati
più di centocinquanta fanti del Castello, ed il castellano della
Roccheta e quello del Castello…e rovinato tanto spazio di muro
che al popolo se si fosse mosso sarebbe stato facile molto
l'occupare quella notte il castello".
Quando le truppe imperiali sconfiggono i Francesi nella battaglia di
Pavia (24 febbraio 1525), per il Castello inizia un assedio di ben
quattordici mesi.
Al termine, il fortilizio è abbandonato nelle mani di Francesco II
Sforza, il quale però, sospettato di tradimento, è costretto a sua
volta a barricarsi e resistere per nove mesi alle truppe
dell'imperatore.
Gli Spagnoli
Francesco II, che per poter mantenere il ducato dopo il pesante
assedio aveva pagato a Carlo V la considerevole cifra di
900.000 ducati, morì senza figli il 1° novembre del 1535.
Casa Sforza si estinguerà poco dopo, con la morte di Gian Paolo
(figlio naturale di Ludovico il Moro e di Lucrezia Crivelli), che
inutilmente aveva tentato di avanzare legittime pretese di
successione sulla Signoria del Ducato.
Così, città, territori e naturalmente castello vennero offerti, da
un'ambasceria di milanesi, all'imperatore Carlo V, il quale,
accettato il gentile dono, nominò Antonio de Leyva
luogotenente imperiale e governatore: Milano diventa un
dominio spagnolo.
I problemi difensivi vennero quanto prima affrontati dai nuovi padroni,
ma i progetti restarono il più delle volte solo sulla carta.
Si discuteva principalmente se la soluzione migliore fosse quella di
realizzare una nuova cerchia murata, oppure raddoppiare il
castello, magari edificandone uno totalmente nuovo da
sostituire al primo, sempre più obsoleto davanti ai progressi
delle tecniche militari. Questo nuovo baluardo avrebbe dovuto
vedere la luce a sud della città, verso Porta Romana. Tuttavia
l'ipotesi naufragò davanti ai preventivi di spesa, che sarebbe
stata a carico dell'imperatore e non della città.
Prevalse dunque il progetto per una nuova ed inespugnabile cinta
muraria che abbracciasse tutta la città, approvato e sollecitato
dal nuovo governatore Ferrante Gonzaga.
La prima pietra della mura spagnole (o bastioni) fu posta nel 1548
presso la chiesa di S. Dionigi, vicino al lazzaretto, su progetto di
Giovanni Maria Olgiati. In realtà altre fonti spostano l'inizio dei
lavori al 1552, come si potrebbe evincere dalla consultazione
dei Registri delle Fortificazioni, ove sono riportate ordinanze e
capitolati d'appalto relativi ai lavori e le suppliche dei cittadini
desiderosi di essere risarciti per le demolizioni e i danni subiti.
Alcuni sostengono che l'ambizioso progetto fosse il medesimo già
accarezzato dall'ultimo degli Sforza. In realtà questi aveva sì
immaginato un potenziamento delle difese cittadine, ma non in
senso di maggiore estensione, bensì attraverso la costruzione
di una "tenaglia" appoggiata al vertice nord-est del castello,
verso il borgo degli Ortolani (attuale via Canonica).
Resta il fatto, comunque, che questa "tenaglia" difensiva un po'
misteriosa dovesse essere stata veramente realizzata prima
delle mura spagnole, le quali arrivarono a coprirne l'area solo
nel 1592, anno della sua presumibile demolizione. Resta un
capitolo poco chiaro, affidato solo alla memoria di una strada
parallela a via Moscova, che porta ancora il nome di via Porta
Tenaglia, proprio dove teoricamente doveva trovarsi il suo
vertice estremo.
Queste ciclopiche mura presentavano, secondo il pensiero di molti,
eccessivi difetti. Primo fra tutti, si trattava di otto chilometri di
cinta, con relativi fossati, strade di arroccamento, e altri servizi,
ma solo le porte erano adeguatamente serrate da bastioni.
Fortuna volle, comunque, che nessun esercito straniero
sottopose mai la cinta ad alcuna verifica.
La bastionatura stellata del Castello
Dopo dodici anni dalla data di inizio della nuova e grandiosa cinta,
iniziarono anche i lavori (1560) per la realizzazione della
bastionatura del castello. A tal fine, si chiese alla cittadinanza
un contributo straordinario di 60.000 ducati.
La somma fu anticipata dal banchiere Tommaso Marino (vedi
pagina), che dalla Spagna ottenne in cambio la cessione
anticipata di due annualità di dazi sul vino.
Nove anni dopo l'inizio dei lavori il primo baluardo (verso la via
Quintino Sella) vide finalmente la luce, e fu dedicato al
governatore Gabriele de Cueva, duca di Albuquerque.
Seguirono poi a ruota i baluardi S. Jago o S. Diego (via Ricasoli)
e Padilla (puntato verso largo Cairoli). La demolita "tenaglia"
lasciò il posto ai baluardi Don Pedro e Acugna. Il sesto baluardo,
sull'attuale asse di corso Sempione, prese il nome di Velasco.
Così, il castello fu totalmente isolato dalla città, e diventerà subito
qualcosa di a sé stante, slegato dal sistema difensivo urbano.
Con Filippo IV (re dal 1621 al 1665) al giro già macchinoso dei
baluardi si aggiunse quello delle mezzelune, cosicché la stella
che arrivò a circondare il castello venne ad avere ben dodici
punte. Delle spese in preventivo nessuno se ne ricordava più, e
si arrivò presto ad un consuntivo di oltre un milione di ducati. A
questi si aggiungeva una cifra imprecisata, ma senza fine, per il
mantenimento della guarnigione e delle soldatesche che il
sistema difensivo milanese, fulcro di un più vasto sistema,
attirava continuamente.
Una minuziosa e probabilmente fedele riproduzione del castello è
visibile in un affresco del Palazzo Arese Borromeo di Cesano
Maderno, databile intorno al 1655, che mostra a volo d'uccello
la complessa organizzazione difensiva che circondava il
Castello. Nell'affresco i torrioni appaiono cimati della merlatura:
abbassare le torri rientrava nella logica dettata dall'utilizzo della
polvere da sparo.
Anche da ciò si evince come ormai l'antica reggia principesca si era
ridotta a fredda macchina da guerra, ed ogni suo angolo
trasformato in depositi di materiale bellico e caserme per le
guarnigioni.
Nel periodo spagnolo anche il bellissimo bosco sforzesco verso la
campagna perse ogni pregio, dato che fu suddiviso in più
appezzamenti agricoli e affittato per le coltivazioni.
La parte verde più prossima al castello finì con l'essere utilizzata per
le adunate delle truppe e per le esercitazioni militari, cosa che la
rese un enorme spiazzo sterrato e fangoso.
Gli Austriaci e i Savoia
Nel marzo del 1707 l'ottantenne generale marchese de Florida
abbandona, con l'onore delle armi, castello e città nelle mani
dell'Austria.
Tuttavia nel 1733 la guerra di successione polacca vide l'alleanza
franco-sabauda, accordo militare che permise a Carlo
Emanuele III di Savoia di entrare in Milano. Il castellano
Annibale Visconti si arrese dopo una decina di giorni di battaglia,
che ebbe come tragica conseguenza la distruzione del borgo
degli Ortolani.
Anche il castello ne uscì malandato, e i baluardi Acugna e Velasco
dovettero essere addirittura smantellati.
Le successive manovre politiche e militari non scalfirono più il
castello, destinato sempre più a divenire una sonnolente
piazzaforte, sede di una guarnigione austriaca con 2.000 soldati
croati di guardia a 152 cannoni e 3.000 quintali di polvere pirica.
Il periodo napoleonico
Se il primo periodo napoleonico (1796-1799) non toccò la struttura
del castello, salvo la violenza del popolo che rovinò gli stemmi
sulle torri, le quali a loro volta rischiarono di essere abbattute, il
Bonaparte decise di interessarsi al fortilizio dopo la battaglia di
Marengo.
Infatti, con decreto del 23 giugno 1800, ordinò la totale demolizione
dell'inutile fortilizio. Tuttavia i lavori si accanirono solo contro le
bastionature spagnole, che dal 1802 caddero pezzo dopo
pezzo a colpi di mina.
In pochi anni si arrivò così all'abbattimento di tutta l'opera di
protezione, costata almeno un secolo di appalti e migliaia di
ducati. Fu salvato invece il castello, che però appariva come un
gigante addormentato al centro di una vastissima area
desolata.
Conseguentemente, vennero presentati alcuni progetti urbanistici
per la sua sistemazione. Tra questi, uno di Luigi Canonica, con
la sua "Città Buonaparte" e un secondo, meritevolissimo, di
Giovanni Antonio Antolini: il "Foro Buonaparte". Il progetto
Antolini, che prevedeva la costruzione di un complesso di edifici
monumentali destinati ad uso pubblico, di cui il castello,
rimaneggiato con forme classiche, doveva costituire la parte
centrale, pur inizialmente approvato e poi riveduto e corretto,
non venne mai realizzato, anche per un problema di costi
eccessivi.
Mentre all'esterno si discuteva di urbanistica, l'interno del castello
veniva impunemente vilipeso: la leonardesca sala delle Asse,
come le sale vicine, fu intonacata e adibita a scuderia
L'ultima occupazione austriaca
Rientrati gli Austriaci nel 1814, questi mantennero il castello nelle
condizioni lasciate da Napoleone, salvo i necessari restauri
(esclusivamente pratici) eseguiti dopo il brevissimo periodo di
libertà ottenuto nelle epiche giornate del 1848, durante il quale i
cittadini si erano accaniti contro castello e soprattutto contro le
torri, che da quel frangente iniziarono a misurare la metà
dell'epoca sforzesca. Furono infatti demoliti 18 giri di bugne,
sino alla metà degli stemmi, cioè sino all'altezza delle mura di
cortina.
5. La rinascita del castello
Il nuovo piano regolatore
Con l'unità d'Italia, la città iniziò una vertiginosa espansione
territoriale, favorita anche dall'annessione dei Corpi Santi
(1873), cioè i comuni e i borghi sviluppatisi al di fuori delle mura
spagnole. Queste cominciarono pertanto ad essere atterrate a
partire dal 1885, risultando ormai d'ostacolo allo sviluppo del
tessuto urbano, anche se gli ultimi tratti caddero solo nel 1946.
Sopravvive oggi un baluardo a Porta Romana (p. Medaglie
d'oro), alcuni tratti a Porta Vigentina e il sopralzo a Porta
Venezia, attualmente percorribile in automobile.
Nel 1884 l'ing. Cesare Beruto elabora, su incarico della giunta
municipale, il primo vero piano regolatore organico che, pur con
le inevitabile modifiche e varianti, rimarrà alla base del riordino
viario e dell'ampliamento di Milano.
Fu così che andò distrutto il lazzaretto (1882-1890), ormai alloggio
abusivo per decine di famiglie del sottoproletariato urbano, e al
suo posto edificato un vasto quartiere di case per il popolo. A
nulla valsero le proteste di molti nemici della speculazione, tra i
quali l'architetto Luca Beltrami.
Questi riuscì però a salvare dalla stessa tristissima fine il castello,
secondo i progetti del tempo destinato a fare posto ad un
lunghissimo corso che avrebbe dovuto congiungere il Duomo,
attraverso la neonata via Dante, all'attuale corso Sempione. Si
dice che, sapendosi in città che tale progetto nascondeva in
realtà intenti di speculazione edilizia privata, qualcuno riuscì a
farlo cadere con l'ironia: fingendo grande apprezzamento,
chiese di demolire anche il Duomo, di modo che il corso così
ideato potesse raggiungere agevolmente il corso Venezia e
continuare oltre, per lo stradone di Loreto (oggi corso Buenos
Ayres).
I restauri di Luca Beltrami
Al Beltrami furono affidati i lavori di ristrutturazione e reintegrazione
del castello, che iniziarono nel 1893. La sua paziente e
meticolosa opera fu condotta sempre sulla base di rilievi e
documenti dell'epoca sforzesca.
La prima opera di restauro riguardò il torrione a destra di chi guarda,
il quale fu sfruttato per inserire al suo interno un enorme
serbatoio d'acqua potabile, su proposta dell'assessore Saldini.
Nel 1905 fu completato il secondo torrione, anche questo
adibito a serbatoio per l'acqua.
Nel 1893-1894 si pose mano alla torre di Bona di Savoia, a spese
del Comitato Cittadino promotore delle Esposizioni Riunite, che
si tennero in quegli anni proprio al castello.
Anche la torre del Filarete fu ricostruita, ispirandosi ai graffiti presenti
a Chiaravalle (vedi) e alla Madonna Lia del pittore leonardesco
Francesco Napoletano (vedi): prima dell'opera in muratura,
tuttavia, si preferì appoggiare alla facciata una imponente
sagoma di legno a grandezza naturale, onde verificare l'impatto
visivo che una simile torre avrebbe avuto guardando il fortilizio
dalla via Dante.
Nell'inverno del 1893-1894, per iniziativa di Paul Muller-Walde si
iniziarono anche le prime indagini per scoprire le tracce originali
della decorazione della sala delle Asse, intonacata, come detto,
dai Francesi invasori.
Il 24 settembre 1904 il Beltrami restituì alla cittadinanza il castello
voluto dai Visconti, che però fu ribattezzato "Sforzesco", come
segno del recupero del tempo in cui aveva vissuto la sua
migliore stagione.
La retrostante piazza d'armi fu trasformata in parco cittadino
dall'architetto Emilio Alemagna nel 1894 (lo stesso architetto
che aveva già riqualificato i Giardini Pubblici nel 1881) (vedi la
pagina sui Giardini).
Nonostante l'ingente spesa (1.700.000 lire), solo 21 ettari vennero
veramente destinati a verde. Il restante spazio fu infatti
occupato da case e strade.
Altro spazio fu poi tolto agli alberi quando nel 1931 vide la luce il
tanto criticato Palazzo dell'Arte.
Bibliografia
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Beltrami, Luca, Il castello di Milano sotto il dominio dei Visconti e degli Sforza,
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Milano 1916
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Vallardi 1894 [rist. Milano, R.A.R.A. 1993]
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Fava, Franco, Storia di Milano, Milano 1997
Lopez, Guido, Il castello sforzesco di Milano, Milano 1986
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Milano 1983
Mirabelli Roberti, Mario, Milano Romana, Milano 1984
Monti, A. – Arrigoni, P., La vita nel castello sforzesco attraverso i tempi, Milano
1931
Sonzogno, Lorenzo, Il castello di Milano: cronaca di cinque secoli, Milano
1837
3 Vescovi famosi
I VESCOVI FAMOSI
3.1 L'area sacra di Porta Orientale
L'area sacra di Porta Orientale
La basilica Concilia Sanctorum o di S. Romano, la chiesa di S.
Babila, il monastero del Gisone, l'oratorio di S. Biagio
di Maria Grazia Tolfo
Il protovescovo Anatolio e la cappella Concilia
Sanctorum
Il catalogo dei vescovi milanesi inizia con Anatolio o Anatelone,
nome greco-orientale, la cui festa cade il 24 settembre.
Di lui sappiamo solo che morì e venne sepolto a Brescia nella chiesa
di S. Fiorano, donde venne traslato nel 1472 in Duomo con tutti
gli onori, essendo considerato anche il protovescovo di Brescia.
Una leggenda antica, attestata già nel secolo VIII, narrava che
Anatolio era discepolo di S. Pietro, da lui inviato a Milano per
evangelizzare la città. I cataloghi possono essere presi in
considerazione solo per la successione dei nomi dei vescovi,
ma quanto a durata del loro episcopato e, soprattutto, a periodo
dell'incarico, sono frutto di tarde manipolazioni, miranti a far
risalire la presenza cristiana a Milano ai tempi apostolici.
L'analisi dei nomi dei primi vescovi (Anatolio, Calimero, Mona,
Mirocle), i martirologi preambrosiani, composti da figure militari
nord-africane (Vittore, Nabore e Felice) e le più antiche
iscrizioni tombali riguardanti sacerdoti milanesi indicano
chiaramente la penetrazione a Milano del cristianesimo
dall'Oriente lungo le vie percorse dai mercanti e dall'esercito.
Secondo i calcoli di Felice Savio, Anatolio fu vescovo a Milano fra il
256 e il 259 a capo di una piccola comunità di cristiani, alla
stregua di una setta religiosa. E' ovvio che il suo operato non
facesse storia, né destasse interesse. Perché venissero
richieste le sue reliquie da Brescia - forse solo pezze di lino
venute in contatto col suo corpo - bisognò attendere
probabilmente l'inizio del V secolo. Si volle allora fondare una
piccola cappella intitolata ai Concilia Sanctorum
come a
Brescia, dove il vescovo Gaudenzio aveva consacrato una
basilica nel 400 con lo stesso titolo.
L'autore del De situ (fine X secolo) ignora il luogo di sepoltura di
Anatolio e aggiunge che la sua deposizione veniva celebrata
nella chiesa Concilia Sanctorum.
Influssi antiocheni nella basilica Concilia Sanctorum
La primitiva cappella e il vescovo Marolo
A Milano la cappella venne dotata delle reliquie di S. Anatolio, di
Pietro, patriarca d'Alessandria tra il 300 e il 311, di Lorenzo e
Giulio, due preti missionari, di Nicolao vescovo di Licia, di S.
Babila e di S. Romano, alle quali si aggiunsero più tardi altre
reliquie a giustificare il titolo di Concilia Sanctorum.
Il probabile candidato per la fondazione della cappella è il vescovo
Marolo (408-422), così descritto da Ennodio nel suo
epigramma:
Marolus, exstremae portator Tigridis undae,
Qui iubar in madidis viderat hospitiis,
Quem labor in proprio Syriae solidaverat axe,
Orditur vatem dotibus innumeris;
Pervigil intentus ieiunius providus ardens.
Quindi, Marolo era nato in una provincia di Babilonia, passato in
Siria prima del 380 e iscritto al clero di una chiesa suffraganea
di Antiochia, venne a Milano, dove fu in breve eletto vescovo.
La storia non ci dice altro, ma l'ipotesi è che recasse con sé le
reliquie dei santi antiocheni a lui cari, Babila e Romano, e che
richiedesse da Brescia le reliquie del suo predecessore e
conterraneo Anatolio per fondare una basilichetta intitolata al
Consesso dei Santi. Di questa primitiva costruzione, forse
niente più di una cella memoriae, non si sono trovate tracce.
Vediamo chi sono questi santi antiocheni.
Il diacono Romano
Romano era diacono ed esorcista di una chiesa prossima a Cesarea
di Palestina. Recatosi ad Antiochia durante la persecuzione di
Galerio, si rese conto del gran numero di apostati. S'impegnò
ad evitare il ritorno del paganesimo, motivo per cui fu arrestato.
Era già stato condannato al rogo quando Galerio ci ripensò e lo
graziò - per modo di dire - strappandogli la lingua, in modo che
non potesse predicare. Vana illusione, perché il diacono secondo la versione fornita da Giovanni Crisostomo - trovava la
forza di diffondere ugualmente il Verbo. Venne rinviato in
prigione, dove attese i vicennalia dell'imperatore (20 novembre
303 in onore di Diocleziano); in quell'occasione tutti i prigionieri
vennero liberati, ad eccezione di Romano, che fu strangolato il
18 novembre 303.
Una Passio greca (fine IV sec.) introduce un nuovo motivo per
l'arresto: per stabilire di fronte ai pagani chi fosse il vero dio,
Romano propose di rimettersi al giudizio di un bambino
(anonimo), che proclamò l'unicità di Dio e la falsità degli idoli
pagani. Romano e il bambino vennero arrestati e il bambino, in
virtù di principi pedagogici radicali, venne immediatamente
decapitato. La successiva Passio latina aggiunge altri elementi
a quella greca, informandoci che il bambino si chiamava Barala,
nome foneticamente vicino a Babila.
Il vescovo Babila
Babila, contemporaneo di Anatolio, fu il tredicesimo vescovo di
Antiochia dal 237-8 al 250, durante il regno di Filippo l'Arabo
(244-49), ritenuto cristiano. A Filippo il collega Gordiano aveva
affidato il proprio figlio durante la sua assenza per una
spedizione contro la Persia, nella quale morì. Filippo uccise il
ragazzo per eliminare un possibile rivale nell'impero. Quando
volle partecipare ai riti di Pasqua ad Antiochia, Babila gli impose
una penitenza e Filippo obbedì. Il successore Decio riaprì la
persecuzione contro i cristiani e Babila morì incatenato in
carcere.
Antiochia era una città ricca, con un quartiere, Dafne, famoso come
luogo ameno, ricco di boschi e di acque, con un prestigioso
tempio dedicato ad Apollo. Sozomeno lo dice luogo di
perdizione nella città più sfarzosa e corrotta dell'impero. Per
questo motivo il cesare Gallo, che non era uno stinco di santo,
volle ingraziarsi il potente clero cristiano locale facendovi
trasportare nel 351-54 le spoglie del vescovo Babila e
inviandone una parte a Costantinopoli.
Alla morte di Gallo il successore fu il fratello Giuliano, detto
l'Apostata, che volle ripristinare il culto pagano, per cui sfrattò S.
Babila da Dafne, dove rappresentava motivo di turbamento per
Apollo che rifiutava di esprimersi attraverso gli oracoli. Durante
la processione di accompagnamento di Babila al nuovo luogo di
sepoltura si cantarono inni antifonati, che poi vennero riproposti
anche da S. Ambrogio. Casualmente il tempio di Apollo
s'incendiò poco dopo, preludio della sconfitta del paganesimo.
L'arcivescovo di Antiochia Melezio fece innalzare prima del 381 una
grandiosa basilica in onore di S. Babila, di pianta cruciforme, di
cui resta solo un'iscrizione musiva del marzo 387. Alla fine del
IV secolo vi predicava Giovanni Crisostomo, che arricchì
l'agiografia di Babila di un nuovo elemento: gli vennero
associati tre fanciulli, Urbano, Barbado e Apollonio, che d'ora in
poi accompagneranno il santo nella sua iconografia.
Il reperto paleocristiano
Esiste un reperto paleocristiano di ignota provenienza, rimpiegato
nei muri di S. Babila, datato inizio V secolo, che è stato
interpretato come una lastra pavimentale che ricopriva la
confessio; nel caso fosse appartenuto in origine alla cappella
primitiva, sarebbe l'unico frammento rimastoci. E' una lastra di
cm 75 x 75 con un foro al centro di una croce a bracci uguali e
quattro dischi negli spazi della croce, interpretati come patene,
riproducenti in pietra le stoviglie dell'epoca. Il foro metteva in
contatto con la confessio sotto il pavimento, dove erano
conservate le reliquie dei santi, e le patene servivano a deporvi
le offerte.
La ricostruzione del vescovo Lorenzo I
Dopo il 493 il vescovo Lorenzo I ricostruì la basilica Concilia
Sanctorum, distrutta in seguito alla guerra tra Teodorico e
Odoacre. Ennodio si lamenta che l'irruzione dei nemici aveva
riempito Milano di desolazione e rovine. Gli abitanti scampati
alla prigionia avevano abbandonato la città; tra i prigionieri c'era
lo stesso vescovo Lorenzo, che aveva sofferto freddo, ingiurie e
aggravamento degli acciacchi per la sua avanzata età. La città
era deserta, le chiese diroccate e adibite a ricovero degli
animali.
Dopo la vittoria definitiva di Teodorico nel 493, il vescovo Lorenzo
poté far ritorno alla sua sede. Due anni di incuria erano stati
sufficienti a ridurre la
città a un cumulo di macerie e
immondizie imputridite dall'acqua stagnante. Fra le varie e
radicali opere di ricostruzione e risanamento intraprese dal
vescovo vi fu la rifondazione della basilichetta Concilia
Sanctorum, secondo quanto attesta, in modo sibillino, il suo
segretario Ennodio:
Item in alio loco factos in basilica SS. quia arserant
aedificia que prius ibi fuerant et sic facta est.
Vilia tecta prius facibus cessere beatis,
si splendor per damna venit, si culmina flammis
consurgunt habitura Deum, si perdita crescunt
ignibus innocuis, si dant dispendia cultum.
Qualis erit reparans crepitantibus usta ruinis?
Laurenti, tua bella gerens incendia vince.
Sordida marcenti latuisset terra recessu,
si status faciem tenuissent antra vetusti.
Sed postquam superi flammas misere secundas
Ad lumen cineres traxerunt ista colendum.
Ennodio scrive a certi vescovi africani a nome di Lorenzo,
avvertendoli che spedisce loro le reliquie dei SS. Nazaro e
Romano, come da richiesta.
Il clero siriaco di supporto ai Longobardi
Le distruzioni non dovevano risparmiare però neppure la costruzione
del vescovo Lorenzo. Nell'inverno 539 la città venne quasi rasa
al suolo dai Goti, per punirla del supporto accordato ai Bizantini.
La tradizione che vuole Milano per qualche anno cancellata
dalla faccia della terra sembra però esagerata. Il successivo
arrivo dei Longobardi provocò una nuova rivoluzione
nell'assetto politico, religioso e urbanistico della città. Al clero
milanese fuggito a Genova nel 569 si sostituì il clero siriaco
unito a quello irlandese, che formarono il clero decumano o
peregrino.
I religiosi siriaci si mostrarono particolarmente devoti al culto del
vescovo Babila: redassero un elenco di epistole a lui dedicate
da leggersi nelle diverse feste e ricostruirono dalle fondamenta
la Concilia Sanctorum che dall'inizio del VII secolo prese anche
il titolo di S. Romano. Era un semplice sacello quadrato, le cui
fondamenta sono state rinvenute negli scavi e documentate.
Il clero siriaco portò con sé probabilmente un altro culto antiocheno,
quello di S. Margherita.
La martire Margherita e il monastero del Gisone
Accanto a S. Romano sorse forse in età longobarda un monastero
femminile, detto del Gisone, in cui si onorava S. Margherita.
Impossibile stabilire l'area che occupava, perché nel 912 il
monastero si trasferì. Anche il nome di Gisone non ci fornisce
indizi per stabilire con maggiore precisione il periodo di
fondazione, che potrebbe anche slittare in età carolingia al IX
secolo.
Margherita fu una delle martiri cristiane leggendarie più venerate
nell'antichità. Il prefetto d'Antiochia voleva sposarla, ma lei lo
respinse, dichiarando di essere cristiana e votata alla castità.
Dall'amore all'odio il passo è breve: Margherita fu crudelmente
torturata e abbandonata in una segreta. Qui Satana si
materializzò con le sembianze di drago e la divorò, ma la croce
ch'ella teneva in mano (fortunata distrazione dei carcerieri!)
fece sì che la pancia del mostro si squarciasse e che
Margherita potesse uscire illesa, almeno fino alla decapitazione.
Questa rinascita vittoriosa dal Male la elesse a protettrice delle
nuove vite e quindi delle partorienti.
Margherita è una figura ovviamente più simbolica che storica e per
questo motivo fu espunta dal calendario ecclesiastico nel 1969.
Ritornando al monastero, si può anche supporre che per un certo
periodo, quindi fino al 912, la chiesa di S. Romano venisse
affidata alle monache del Gisone. Quando traslocarono nel sito
presso il Cordusio che doveva dare il nome alla via S.
Margherita, portarono con sé anche il culto di S. Babila. Scrive il
Torre: "Nella vigilia e nel giorno di S. Babila si ritrovano i
vecchioni e le vecchione, ministri ecclesiastici assistenti in S.
Margherita ai divini uffici, con accese torce in mano, ricevendo il
tributo annuo dalle monache, costume esercitato fin da quando
le monache erano a S. Babila e solevano i vecchioni offrire il
pane e il vino alla messa cantata dell'arcivescovo". Sempre
secondo la testimonianza del canonico, che scriveva alla fine
del Seicento: "Queste religiose benedettine tenevano per loro
monastero tutti i siti contigui al tempio di S. Babila fino al
naviglio, benché in quei tempi non ci fosse ancora, e si
vedevano comode ed ampie abitazioni, le quali alla loro
partenza furono acquistate dai parrocchiani e poi vendute a
famiglie con carichi livellari, riscossi ancor oggi."
Prime conclusioni
Possiamo quindi riassumere così, in via ipotetica, la genesi del primo
gruppo di edifici:
1. fondazione della basilichetta Concilia Sanctorum poco dopo il 400,
forse ad opera del vescovo Marolo, con reliquie provenienti da
Antiochia (Babila e Romano), da Brescia (Anatolio) e da altri
luoghi; questo primo nucleo andò distrutto, tranne forse la lastra
della confessio.
2. dopo il 493 il vescovo Lorenzo I ricostruì la Concilia Sanctorum
sull'area di catapecchie bruciate, quindi sembrerebbe
d'intendere che la nuova basilichetta non sussistesse su quella
primitiva; anche questo edificio venne danneggiato,
probabilmente durante la guerra goto-bizantina.
3. in assenza del clero milanese fuggito a Genova, i Longobardi si
appoggiarono a religiosi provenienti dalla Siria, occupata dagli
Arabi. Il clero siriaco ricostruì un modestissimo sacello quadrato,
aggiungendo la dedica a S. Romano, del quale erano state
acquisite le reliquie all'inizio del V secolo. Fra le reliquie che
importarono ex novo vi furono forse quelle S. Margherita.
4. presso il sacello di S. Romano si insediarono le monache
benedettine del Gisone, che si presero cura della chiesetta fino
al 912.
La riforma cluniacense e la fondazione di S. Babila
Il culto di S. Babila ricevette un imprevedibile rilancio in Italia per
merito della riforma cluniacense. Cosa vi lessero nell'agiografia
da farlo assurgere nel novero dei nuovi modelli etico-spirituali?
Fra i primi a lanciare la nuova devozione vi fu la marchesa di
Toscana, Matilde di Canossa, che fondò nel 1073 una pieve
dedicata a S. Babila nella diocesi di Fiesole, in quella che oggi
si chiama Pieve di Sambarello, che governava il vasto territorio
di S. Godenzo. Nel 1108 la marchesa avrebbe sepolto nel
villaggio di Pieve di S. Giacomo presso Cremona le reliquie dei
SS. Babila e Simpliciano, per cui Cremona divenne in un certo
senso il centro del culto del santo antiocheno.
A Milano la devozione di S. Babila fu prerogativa della pataria
milanese, ispirata alla riforma cluniacense.
L'arcivescovo Arnolfo III da Porta Orientale
Le cronache ci informano che il sorpasso del culto di S. Babila su
quello di S. Romano risale a un'azione di forza perpretata da
Nazaro Muricola nel 1096, ma non si capisce se fu egli stesso a
fondare una chiesa dedicata al vescovo antiocheno o, come
sembra più probabile, se si limitò a istituirvi una canonica per la
vita comunitaria del clero riformato.
Molti indizi fanno infatti ritenere che una chiesa intitolata a S. Babila,
forse sull'area lasciata libera dal monastero del Gisone, fosse
stata già iniziata pochi mesi prima del tempestoso intervento
del Muricola da Arnolfo III di Porta Orientale. L'arcivescovo,
eletto nel dicembre 1093, dovette attendere fino al marzo 1095
l'approvazione pontificia, standosene nel monastero di Civate
da lui fondato.
Si colloca quindi dal marzo 1095 al settembre 1096, quando vi fu
l'occupazione del Muricola, la fondazione della chiesa di S.
Babila accanto a S. Romano. Dato il breve tempo, la chiesa
doveva essere ancora in fase di costruzione, come
dimostrerebbe anche l'analisi muraria.
La canonica di S. Babila
Papa Urbano II non sapeva che vespaio avrebbe sollevato con la
sua predica infiammata dal pulpito di S. Tecla in quel tiepido
settembre 1096. Parlando ad una folla di fedeli ispirati alla
riforma del clero, sostenne che anche il più umile chierico era
superiore a un re e che per avere questo onore bisognava
dimostrare di essere dei capi spirituali scelti dai fedeli e non
prezzolati. I laici giocavano quindi un ruolo molto rilevante nella
scelta delle loro guide religiose, scalzando così la procedura
feudale della vendite delle cariche. In città si scatenò una vera
sommossa, durante la quale alcuni religiosi senza cura d'anime
si fecero scegliere dai fedeli di una vicinìa quali loro capi,
scacciando il clero di carriera. Così fece Nazaro Muricola, fino a
quel momento "disoccupato", impossessandosi della chiesa di
S. Romano col favore dei parrocchiani e fondando una
canonica dove vivere in comune coi confratelli.
Nazaro era allievo del primicerio dei decumani Andrea dal Volto e
compagno di studi di Landolfo il Giovane, nipote del prete
Liprando. La sua carriera ecclesiastica avveniva quindi
all'interno dell'ordine dei decumani, che avevano in gestione la
basilica Concilia Sanctorum o di S. Romano. L'occupazione si
attuò perciò a spese di religiosi appartenenti al suo stesso
ordine.
Così scrive Landolfo: "clericus iste Nazarius de solario suo ad
ecclesiam sancti Babylae santique Romani, quae antiquitus
dicebatur
Concilia
Sanctorum...,
novum
habitaculum
hedificavit". Da quanto riferisce il cronista, si potrebbe supporre
che esistesse già una chiesa dedicata a S. Babila, accanto alla
quale il Muricola si limitò a costruire un habitaculum, ossia una
canonica per la vita comune del clero.
Chi era Nazaro? Landolfo lo giudica uomo in ingenio acutissimus,
emulo del martire patarino Arialdo, che aveva fondato una
canonica a Porta Nuova. Non sappiamo come l'arcivescovo
Arnolfo III giudicasse l'occupazione della sua chiesa, ma il
neo-eletto arcivescovo Anselmo IV, già preposito della canonica
di S. Lorenzo, mostrò di gradire l'operato di Nazaro, al punto di
promuoverlo al presbiterato. La scelta di Anselmo come
arcivescovo era stata molto contestata, perché non aveva
ancora preso alcun ordine sacro; dovette quindi prendere in
una volta tutti gli ordini, fino al presbiterato e all'episcopato, da
vescovi stranieri. Il fatto che la marchesa Matilde gli inviasse un
pastorale lascia intendere che anche Anselmo apparteneva
all'ambito cluniacense.
Anselmo si appoggiò all'abile Nazaro Muricola, inviandolo in
missione diplomatica con Giovanni Aculeo alla vacante sede
vescovile di Savona per vigilare sull'elezione di una persona
degna. Nazaro fece di più e, strada facendo, individuò
Grossolano, il preposito della chiesa dei SS. Apostoli di
Ferrania, presso Cairo Montenotte, che venne consacrato a
Milano nell'aprile 1098. Come si vede, lo zelante presbitero
andò ben oltre l'incarico, scegliendo lui invece del clero
savonese il vescovo e facendolo consacrare subito a Milano.
L'enigmatica vicenda dell'arcivescovo Grossolano
Il 13 settembre 1100 Anselmo partiva per la Terrasanta, lasciando
suo vicario Grossolano. Alla morte del "prode Anselmo" sulla
strada per il Santo Sepolcro, si aprì la discussione sulla
successione. I candidati prescelti dal clero milanese, con
l'approvazione dello stesso Grossolano, erano il preposito di S.
Nazaro, Landolfo di Varigliate, e il preposito di S. Ambrogio,
Landolfo da Baggio. Disgraziatamente entrambi erano assenti
dal capitolo e per regola si potevano eleggere solo presenti. Fu
l'abate di S. Dionigi, Arialdo, a proporre di confermare l'attuale
vicario, Grossolano, ad arcivescovo. La proposta riscosse
abbastanza successo e Grossolano poté insediarsi
ufficialmente sulla cattedra ambrosiana, promuovendo Arialdo
ad abate del ricco monastero di Civate. Questo riconoscimento
inopportuno suscitò immediati sospetti circa la spontaneità della
proposta e la parte più integralista degli aderenti alla riforma
inviò lettere di denuncia al pontefice. Grossolano aveva però
dalla sua parte la potente marchesa Matilde di Canossa, che
provvide a far inviare il pallio - l'investitura ufficiale - a Milano
con gran pompa.
A capo degli integralisti era il prete decumano Liprando, che non si
diede per vinto. Disgraziatamente disponiamo della sola
cronaca di Landolfo il Giovane, nipote di Liprando e quindi
ovviamente partigiano. Secondo Landolfo, fu Grossolano ad
aprire le ostilità, pretendendo che Liprando gli cedesse uno
speciale ornamento, detto subcingulum, che il decumano aveva
ricevuto dal papa; Liprando rifiutò sdegnosamente. Non si
riesce a capire bene quali motivazioni vi fossero di tanta ostilità
da parte di Grossolano, certo è che vessò con alcuni
provvedimenti il decumano, al quale non restò che
sottomettersi con mala grazia.
In città si cominciò a mormorare sulla cattiva condotta
dell'arcivescovo, insinuando che forse non era così casto come
voleva sembrare. Poi Liprando si disse pronto a dimostrare che
l'elezione di Grossolano era stata simoniaca, sottomettendosi al
giudizio di Dio: il 25 marzo 1103 passò attraverso una catasta di
legna infuocata, uscendone appena un po' bruciacchiato.
L'atmosfera milanese doveva essere diventata un po' pesante
per l'arcivescovo, che pensò bene di rifugiarsi a Roma presso
papa Pasquale II. Qui lo raggiunse Liprando, che nel marzo
1105 davanti a un concilio in Laterano ribadì ufficialmente le
accuse contro Grossolano, seppure invano.
Grossolano venne riconfermato dal papa nella sua carica, ma non
poté più fare ritorno a Milano, impedito dall'opposizione
capeggiata dal primicerio Andrea dal Volto, dall'abate di S.
Ambrogio Guglielmo e da Ottone Visconti. Pasquale II dovette
dispiacersi molto della situazione imbarazzante in cui si trovava
il suo protetto e deliberò di inviarlo quale suo ambasciatore a
Costantinopoli presso l'imperatore Alessio Comneno.
Grossolano era esperto di greco e introdotto nelle controversie
teologiche fra la Chiesa latina e quella greca, quindi una figura
ben lontana da quel umile eremita che Nazaro Muricola
sembrava aver prescelto. Il vescovo Azzone di Acqui lo
descrive, ad esempio, come letterato, di acuto ingegno, di
singolare eloquenza e favorevole all'imperatore Enrico V. E fu
questa fedeltà all'imperatore a decretare la sua definitiva
disgrazia.
Il 16 febbraio 1111 scoppiò infatti il finimondo: Enrico V partì da
Roma portandosi via il papa Pasquale II in ostaggio. Nei tumulti
perse la vita Ottone Visconti, che coi filo-imperiali aveva
scortato Enrico a Roma. Alessio Comneno, presso il quale si
trovava Grossolano, colse l'occasione per proporre a Pasquale
II di disconoscere l'istituzione imperiale occidentale, di
riunificare l'impero sotto la sua corona, offrendogli in cambio la
riappacificazione delle Chiese. Una proposta sbalorditiva!
Nel settembre 1111 la fazione avversa a Grossolano fece venire a
Milano dalla Francia, dove si trovava a studiare, l'ordinario
Giordano da Clivio e propose di eleggerlo nuovo arcivescovo,
dichiarando deposto Grossolano (1° gennaio 1112). I vescovi
della diocesi si spaccarono nel sostegno ai due arcivescovi.
Ritornato Grossolano a Milano nell'agosto 1113, scoppiò
l'inevitabile guerra civile, vinta da Giordano da Clivio. Dopo
qualche tentativo di recuperare la fiducia del papa, Grossolano
si ritirò a Roma nel monastero greco di S. Saba, dove morì il 6
agosto 1117.
Nazaro Muricola primicerio
Fra i sostenitori dell'arcivescovo Grossolano vi furono i parrocchiani
di S. Babila, indignati per il voltafaccia di Nazaro, che dopo
essere sempre stato al fianco di Grossolano, lo aveva
abbandonato per Giordano da Clivio, in linea col primicerio
Andrea. Nazaro dovette fuggire dalla sua canonica; per ripiego
occupò la chiesa di S. Paolo in Còmpito, sottraendola al suo
amico Landolfo.
Eletto primicerio alla fine del 1113, ancora vivo il ricordo della guerra
civile, il Muricola lasciò S. Paolo per trasferirsi nella canonica
dei decumani del Duomo, ma non restituì la chiesa al suo
precedente preposito, bensì la consegnò ad Andrea Sugaliola,
che si dimostrerà deciso avversario del povero Landolfo.
Qest'ultimo venne accusato di infedeltà verso Giordano e
dovette discolparsi nella grande adunata tenuta nei primi mesi
del 1117 nel brolo dell'arcivescovo. Landolfo passerà tutta la
sua vita a cercare di ottenere giustizia, appellaondosi ai
pontefici, all'imperatore Lotario III, ai consoli di Milano, ma
senza successo. Non gli rimarrà che sbarcare il lunario come
lector, scriba, puerorum eruditor et consulum epistolarum
dictator.
Nel periodo in cui Nazaro ricoprì la carica di primicerio si alternarono
sulla cattedra ambrosiana l'arcivescovo Olrico (1120-26),
Anselmo V della Pusterla (1126-1133), Roboaldo (1135-1145).
Landolfo afferma che l'elezione di Olrico fu procurata dai
maneggi del primicerio Nazaro.
Nello scisma fra Innocenzo II, alleato all'imperatore Lotario, e
Anacleto II, scelto da Corrado, la maggioranza dei milanesi si
schierò per Anacleto; non così fece Muricola che scelse
Innocenzo II. Questa spaccatura netta fra i capi religiosi della
città era indizio di un grave disagio interno. Nazaro riuscì a
sollevare la popolazione e a cacciare l'arcivescovo Anselmo V
della Pusterla (1135). Poco dopo giunse a Milano il protagonista
della storia religiosa del momento, Bernardo di Chiaravalle, che
ricevette accoglienze a dir poco entusiastiche.
Nel 1146 venne eletto l'arcivescovo Oberto da Pirovano. In un atto
arcivescovile dell'ottobre di quell'anno non compare più la firma
di Nazaro. Il primicerio era ormai attempato ed è probabile che
si ritirasse a vita privata, pur mantenendo la sua carica.
Sappiamo infatti che dal 1146 tornò a vivere nella canonica di S.
Babila. Firma ancora e per l'ultima volta una carta nell'aprile
1148.
Difficile stabilire se fu grazie alla sua residenza in loco che la chiesa
di S. Babila ricevette un aggiornamento architettonico, il tiburio,
sulla chiesa già impostata e non terminata.
Nazaro morì il 30 marzo 1150, dopo essere stato protagonista di
un intenso e travagliato mezzo secolo di storia milanese.
La vicenda architettonica di S. Romano e S. Babila
S. Babila
La chiesa ha conservato ben poco della veste romanica conferitagli
a partire dagli anni 1096-1098. La parte più cospicua riguarda i
capitelli, che si sono salvati perché ricoperti di stucco.
Mostrano motivi fitomorfi, a fogliami o nastriformi, e zoomorfi
(leoni, grifi, lepri, uccelli, l'agnello mistico). Lo stile della scultura
conferma che si tratta di manufatti risalenti all'ultimo quarto del
secolo XI, vicini a quelli di S. Celso, S. Eustorgio e, soprattutto,
di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia.
Il progetto della chiesa non prevedeva inizialmente l'innalzamento
del tiburio, che venne imposto dai nuovi canoni architettonici in
un momento posteriore, uguale per tutte le chiese milanesi,
coincidente con il ritorno di Nazario Muricola presso la canonica
di S. Babila.
La storia tace fino all'età viscontea, quando la chiesa, ormai inclusa
all'interno della nuova cerchia del naviglio, ricevette un rilancio
attraverso una serie di leggende. Galvano Fiamma nel
Chronicon Majus è il primo a tirar fuori il culto del Sole a Porta
Orientale: "in loco ex opposito ecclesiae sci Babilae citra flumen
erat porta dicta dei Solis, sive Apolinis, ubi erat palatium
rotundum in cuis pyramide fuit ydolum Solis".
In virtù di questa rivalutazione venne proposto anche
l'aggiornamento nell'arredo interno. Nel 1363 fu consacrato
l'altare maggiore, sul quale venne collocata un'ancona
marmorea dorata dedicata al santo titolare; la famiglia Cotta
sovvenzionò il rifacimento dell'altare dell'abside minore destra,
intolato a S. Maria Vergine e S. Nicolao, sul quale venne posto
un dipinto rappresentante S. Erlembaldo. Anche sulla porta
Orientale venne collocata, ad opera della bottega di Giovanni di
Balduccio, la statua di S. Babila con i piccoli Urbano, Barbado e
Apollonio, oggi al museo del Castello Sforzesco.
La chiesa assunse un'importanza particolare sotto Gian Galeazzo,
che per decreto incluse fra le feste ufficiali di Milano quella di S.
Babila: il 24 gennaio il vicario di provvisione con i rappresentati
delle arti venivano in processione a fare l'offerta di un frontale di
seta per l'altare maggiore. Nel 1393 Marco Carelli,
parrocchiano, redasse un testamento che lasciava i fondi per la
costruzione della sacrestia.
Fu poi il momento del fulgore delle scuole: nel 1457 venne fondata la
Schola di S. Maria delle Grazie, amministrata da dodici laici,
che aveva la cappella nell'abside destra, mentre la Schola del
Corpus Domini costruì appositamente una cappella nel 1520,
poi rititolata a S. Francesco. Nel 1569 le due Scuole vennero
unificate per volontà di Carlo Borromeo, che impose
l'amministrazione ecclesiastica.
Intorno al 1573 l'Anonimo Fabriczy disegnò il lato sud della chiesa e
il campanile; sono l'unica documentazione del complesso prima
del crollo nel 1575 del campanile romanico. Il 27 giugno 1588
venne approvata l'istituzione di una collegiata a spese della
marchesa Girolama Mazenta; i fondi arrivavano nel momento
giusto, perché nella sua visita pastorale del 1591 l'arcivescovo
Gaspare Visconti trovò la chiesa angusta admodum et
indecens, per cui si resero necessari i restauri. Tra il 1601 e il
1613 la chiesa venne allungata di una campata, occupando
l'area del cimiterino antistante l'ingresso; il coro, insufficiente
per il capitolo, venne rifatto, causando la perdita delle absidi
medievali; Aurelio Trezzi rifece la facciata, che è quella che
vediamo nelle incisioni settecentesche.
Nel 1787 Giuseppe II soppresse la parrocchia di S. Babila; da quel
momento la chiesa subì un'inesorabile decadenza, finché nel
1826 ne venne richiesta la demolizione. Si riuscì a
procrastinare la decisione fino al 1852, quando si rinnovò la
richiesta di abbattimento. Nuovamente prevalse la decisione di
tentare un salvataggio in extremis: nel 1880 si conferì l'incarico
di restauro generale a Paolo Cesa Bianchi, allievo di Camillo
Boito, che optò per un restauro di integrazione stilistica. Venne
abbassato il pavimento, senza però rintracciare il piano di
calpestio originario, e furono liberati i pilastri dalla decorazione
barocca, recuperando così i capitelli medievali; nel 1905 fu
demolita la facciata barocca del Trezzi, sostituendola con una
facciata neo-romanica realizzata da Cesare Nava su progetto
del suocero Cesa Bianchi; con pari criterio si abbatterono le
absidi seicentesche, che vennero rifatte ex novo, sempre in
stile neo-romanico; tra il 1887 e il 1888 la chiesa aveva
riassunto un aspetto medievale, con tanto di decorazione ad
archetti in cotto; il nuovo campanile ottocentesco venne
trasformato nel 1927 dall'ing. Bruni nell'attuale stile
neo-romanico. L'interno venne tutto nuovamente arredato e
decorato secondo i canoni stilistici dell'epoca, facendo della
chiesa un esempio di stile eclettico ottocentesco (come del
resto S. Eufemia in corso Italia).
S. Romano
La chiesa si presentava come un modesto sacello quadrato, che
però era la vera parrocchia e aveva il battistero, motivo per cui
le veniva riconosciuta l'antichità di fondazione. S. Romano
perse gradualmente d'importanza a favore di S. Babila.
Nel 1567 Carlo Borromeo impose di spostare le reliquie dei santi che
erano nell'arca di pietra sotto la navata nel mezzo della chiesa
per metterle dentro l'altare maggiore.
Poco tempo dopo, nel 1592, la nobile Susanna de Colli fece dono
della casa retrostante S. Romano per ampliare il sacello
quadrato, ma solo nel 1630-34 l'ing. Giuseppe Barca poté
realizzare il progetto di ampliamento.
Il 24 giugno 1808 il Demanio acquisì l'edificio sacro e lo affittò allo
scultore Acquisti, che lavorava per il Duomo. Nel 1810 la chiesa
venne venduta per Lit. 20.633 a Ferdinando Valmagini che vi
installò un teatro meccanico; quindi fu trasformata in casa civile
(corso Monforte 7).
La cappella di S. Biagio, poi S. Marta
Sulla destra di S. Babila, a creare il terzo polo religioso, venne eretta
nel 1344 dal prete Zonfredo di Càstano una cappella dedicata a
S. Biagio, sede di una confraternita, con annesso cimitero.
Nel 1466 la cappella fu intitolata anche a S. Bernardo e, quando nel
1503 subentrò la Schola di S. Marta, la cappella fu conosciuta
con questo titolo.
Nel 1797 venne soppressa e poco dopo demolita.
Bibliografia
Visita il sito della parrocchia di S. Babila con testi molto accurati che
riguardano la biografia di S. Babila , la chiesa e l'arte .
Il protovescovo Anatolio e la cappella Concilia Sanctorum
Cattaneo, E., Il culto di S. Anatelone nella Chiesa milanese e bresciana, in
"Ambrosius", 34 (1958), pp. 247-252
Savio, Felice, I vescovi di Milano, Milano 1913
Influssi antiocheni nella basilica Concilia Sanctorum
Acta Sanctorum, voci S. Babila, S. Romano, S. Margherita
Allard, P., Storia critica delle persecuzioni, 2 voll., Firenze 1918
Borella, P., Cimelio paleocristiano a S. Babila in Milano, in “Diocesi di Milano”,
luglio 1960, pp. 18-21
Cattaneo, E., Il più antico elenco di chiese di Milano, in “Notizie dal Chiostro
del Monastero Maggiore”, 1969, pp. 25-33
Delehaye, H., Les origines du culte des martyres, Brussel 1933
Eusebio di Cesarea, I martiri palestinesi
Storia ecclesiastica
Paribeni, R., Da Diocleziano alla caduta dell'impero d'Occidente, Bologna
1941
La riforma cluniacense e la fondazione di S. Babila
Bosisio, A., Il cronista Landolfo e la storia della Chiesa milanese, in “La Scuola
cattolica”, 62 (1934), pp. 7-10
Dizionario della Chiesa ambrosiana
Rossini, R., Note alla Historia Mediolanensis di Landolfo Iuniore, in "Contributi
dell'Istituto di Storia medievale della Università Cattolica" Milano 1968,
vol. I, pp. 411-480
Zerbi, P., Tra Milano e Cluny. Momenti di vita e cultura ecclesiastica nel sec.
XII, Roma 1978, pp. 125-230
La vicenda architettonica di S. Romano e S. Babila
AA.VV., S. Babila, Milano 1952
Fiorio, M.T. (a cura di), Le chiese di Milano, Milano 1985, pp. 182-184
Gambi-Gozzoli, Milano, Laterza, Bari 1982, p. 162, fig. 67
Mezzanotte- Bascapé, Milano nell'arte e nella storia, Milano 1948, ed. 1968 pp.
486-487
Torre, Carlo, Ritratto di Milano, Milano 1714, pp. 327-331
3.2 San Dionigi
San Dionigi
di Maria Grazia Tolfo
L'esilio del vescovo Dionigi
Nel gennaio del 355 si radunò a Milano nella basilica nova,
appositamente costruita, un grande concilio indetto
dall'imperatore Costanzo e da papa Liberio, al quale
convennero più di trecento vescovi dall'Occidente. Ordine del
giorno: condannare una volta per tutte la posizione del vescovo
di Alessandria, Atanasio, il maggior avversario degli ariani. E
Costanzo era un imperatore ariano...
A Milano era stato eletto nel 349 un vescovo di origine
probabilmente greco-orientale, Dionisio, che secondo la
testimonianza del vescovo Ambrogio era in rapporti di amicizia
con Costanzo ancor prima di assumere l'alta carica. Forse per
amicizia, forse per come si presentava l'accusa rivolta ad
Atanasio - di sacrilegio, ossia di lesa maestà nei confronti
dell'imperatore - Dionigi (come viene chiamato a Milano)
sottoscrisse inizialmente la condanna.
Ma il destino era pronto a vibrare un poderoso colpo alla sua ruota
facendo giungere, seppur in ritardo, l'intransigente e forse più
accorto vescovo di Vercelli, Eusebio, che riuscì a far invalidare
per vizio di forma la condanna, pretendendo poi che i vescovi,
prima di esprimersi nuovamente, facessero una professione di
fede nicena. Il concilio si spaccò: i vescovi ariani si dissero offesi
e, per motivi di sicurezza, si trasferirono nel palazzo imperiale,
dove ribadirono la condanna di Atanasio sottoscritta
dall'imperatore.
Ai vescovi scissionisti non restava che aderire alla condanna o
incorrere loro stessi in provvedimenti disciplinari. Di fronte al loro
rifiuto, si provvide a designare le destinazioni dell'esilio: Eusebio
venne tradotto a Scitopoli in Palestina; a Lucifero di Cagliari
toccò Germanicia in Siria e al nostro Dionigi un paesetto della
Cappadocia, dove morì intorno al 360.
Storia e leggende intorno alla cappella Sanctorum Veteris
Testamenti
Problemi circa l'ubicazione di S. Dionigi
Uno dei primi atti del vescovo Ambrogio, eletto nel 374 dopo la
parentesi ariana, fu quello di recuperare la salma di Dionigi. La
lettera del vescovo di Cesarea Basilio ad Ambrogio ci informa
che il luogo dell'esilio e della sepoltura era alquanto distante da
Cesarea di Cappadocia, visto che per andarvi bisognava
intraprendere un viaggio difficoltoso. Basilio loda il suo prete
Terasio per la generosità dimostrata nell'accompagnare in quel
villaggio i preti mandati da Ambrogio per prelevare il corpo di
Dionigi, sfidando le difficoltà dell'inverno del 375-376, così rigido
che le strade rimasero chiuse fino a Pasqua (5 aprile).
A partire da questo punto le cose si complicano, innanzi tutto perché
il passo di Basilio è stato ritenuto una tarda interpolazione. Ma
anche ammettendo la veridicità delle affermazioni la chiarezza
non è maggiore. Secondo una consolidata tradizione la salma,
dopo un viaggio periglioso, sarebbe ritornata a Milano per
essere deposta in una cappelletta che aveva anche il titolo di
Sanctorum Veteris Testamenti o Santorum Omnium
Prophetarum et Confessorum. Era forse solo una di quelle
piccole cappelle cimiteriali presso le quali si potevano venerare
reliquie che non avevano accesso all'interno del pomerio, nel
nostro caso quelle dei santi Canziani di Aquileia, Canzio,
Canziano e Canzanilla, qui deposte probabilmente dal vescovo
Ambrogio dopo il concilio di Aquileia del 381. Se seguiamo la
disamina dei documenti fatta dagli storici, non sembra però che
il corpo del vescovo sia mai arrivato a Milano; forse ne giunsero
solo frammenti di reliquie. Sappiamo che comunque esisteva il
culto del vescovo Dionigi presso quella cappella perché nel 475
gli viene posto accanto il vescovo armeno Aurelio, di passaggio
per Milano, e da quel momento la cappella ebbe titolo di S.
Dionigi ed Aurelio.
E qui si apre un ulteriore problema, quello dell'ubicazione della
cappella Sanctorum Veteris Testamenti poi di S. Dionigi.
L'Itinerario salisburghese, scritto alla metà del VI sec., elenca la
tomba di S. Dionius fra le chiese del cimitero occidentale e
quindi non a Porta Orientale, come vorrebbe la tradizione. Poco
o nulla restava di questa primitiva costruzione già nei cosiddetti
secoli bui, tanto che nell'830 si "regalò" a Nottingo, vescovo di
Vercelli, il corpo di S. Aurelio, trattenendo a Milano il capo e
pochi altri resti; poco prima dell'anno 882 l'arcivescovo
Angilberto I
risolse di ricostruire la cappella, ma anche di
questa costruzione non resta traccia. E' probabile però che la
nuova chiesa, officiata dai preti decumani, si trovasse già a
Porta Orientale, associata ad una cappella più antica.
Uno scavo un po' affrettato eseguito dal prof. Mirabella Roberti ai
piedi della statua di Luciano Manara ai Giardini Pubblici aveva
posto in luce strutture in conglomerato del IV-V sec.,
confermando quindi l'esistenza di una chiesa paleocristiana
nella zona. Questa chiesa conservava anche la dedica al
Salvatore, per cui non si potrebbe escludere che a questa
chiesetta venisse accorpata più tardi quella del Sanctorum
Veteri Testamenti. La chiesetta sorgeva però troppo lontano
dalla città romana e dai cimiteri cittadini del IV secolo per essere
considerata una cella memoriae; non dimentichiamo che erano
soprattutto le donne a recarsi quotidianamente in preghiera sulle
tombe dei defunti o presso le reliquie dei santi e quindi un
tempietto così distante era di fatto irraggiungibile, soprattutto in
tempi di invasioni. Mentre la Sanctorum Veteris Testamenti con
la sua dotazione di reliquie poteva trovarsi nel maggiore cimitero
di Milano, a Porta Vercellina, la cappella del Salvatore poteva
essere un tempietto agreste per la protezione dei raccolti.
Il sarcofago di Valerio Petroniano
Fra le antichità conservate nella chiesa, ma della cui provenienza
non si sa nulla, c'è un sarcofago pagano in marmo di Musso
dell'inizio del IV secolo, scolpito a Milano. Grazie alla
descrizione fatta da Ciriaco d'Ancona nel XV secolo conosciamo
il titolare, Valerio Petroniano, il cui nome era scolpito al centro
del sarcofago, recentemente abraso.
Nell'edicola ad arco di sinistra vi è un personaggio col pallium, forse
suo padre C. Valerio Eutichiano; a destra un personaggio togato,
identificato come Valerio Petroniano. Le testate raffigurano
scene della vita del defunto, mentre studia i documenti di una
causa e mentre la difende davanti a un personaggio importante,
forse l'imperatore. Petroniano era decurione, ossia consigliere
municipale, pontifex e sacerdos della iuventus milanese,
causidicus,
quindi una persona di tutto rilievo nella scena
politica milanese. La scritta ricordava che aveva sostenuto a
Roma cinque legazioni gratuite per la città.
Leggende
La prima leggenda che si sviluppò intorno a S. Dionigi riguarda la
venuta a Milano di S. Barnaba nell'anno 46. L'apostolo,
attraversata la città col vessillo cristiano nelle mani, avrebbe
piantato la croce il 13 marzo vicino al bastione di Porta Venezia,
in una pietra con un buco al centro e tredici tacche a raggio. La
chiesetta sarebbe sorta per racchiudere questa pietra, detta del
Tredesin de mars, ricordando l'avvenimento con un'infiorata e
una lapide latina, che così recita: "In questa rotonda pietra fu
eretto il vessillo del Salvatore da S. Barnaba a postolo,
fondatore della chiesa milanese, com'è provato dall'autorità
degli scrittori e dall'antica tradizione del popolo, qui accorrente il
13 marzo". La leggenda è databile intorno alla fine del X secolo.
Secondo un'altra leggenda, già diffusa nei martirologi del 1089, il
vescovo armeno Aurelio nel V secolo aveva traslato il corpo di
Dionigi dall'Armenia in Italia. Giunto a Cassano d'Adda il feretro
si era fermato improvvisamente e non era stato possibile
procedere oltre. Ambrogio fu avvertito di questo prodigio e,
scoperchiata la bara, si commosse abbracciando il corpo del
suo predecessore. Prodigiosamente Dionigi fu risvegliato dal
sonno della morte e, levatosi, passeggiò a braccetto con
Ambrogio discutendo di questioni teologiche. Poi chiese ad
Ambrogio di essere sepolto a Cassano, dove sarebbe rimasto
fino al tempo di Ariberto, che lo trasferì a Milano nella chiesa del
Salvatore e dei Profeti.
Un'altra leggenda, sicuramente trecentesca, narra di un drago a S.
Dionigi, ucciso da Uberto Visconti. Così la racconta, col suo
solito compiacimento per il meraviglioso, il canonico Carlo Torre:
"Questo è il luogo dove fu ucciso da Uberto Visconte il drago
che coi suoi fiati apportava ai cittadini malefici danni, mentre
distoltosi da profonda tana se ne andava in giro a procacciarsi il
vitto. Generoso era Uberto, cavaliere di nascita, signore di
Angera, che prende il nome da Anglo, del ceppo d'Enea troiano,
che negli anni quattrocento dopo Cristo aveva a Milano il titolo di
visconte, poiché allora i Romani in Lombardia davano l'incarico
supremo a un meritevole eroe, che aveva il titolo di conte.
Poiché troppo gravoso era il peso per una sola persona, la
carica si divideva in due, e al compagno spettava il titolo di
visconte. Uberto entrò nell'arengo e vinse il mostro". E' quasi
superfluo aggiungere che il mostro sarebbe quello immortalato
nello stendardo visconteo.
Avvenimenti legati a S. Dionigi
Il mausoleo della Pataria
Il primo dei capi patarini ad essere sepolto in S. Dionigi fu il
campione Erlembaldo, ucciso il 28 giugno 1075 da Arnaldo da
Rho. Nel maggio 1096 papa Urbano II riconobbe la santità di
Erlembaldo e insieme al vescovo Arnolfo II di Porta Orientale
traslò le sue spoglie in un degno sarcofago in S. Dionigi. Così
recitava la lapide commemorativa, ricopiata da Galvano
Fiamma:
Urbanus summus praesul dictusque secundus
Noster et Arnulphus pastor pius atque benignus
Huius membra viri tumulant translata beati.
Con questo gesto l'arcivescovo riconosceva le istanze patarine e si
appropriava della eredità ideale dei capi della pataria per
proporre ai milanesi un episcopato centro propulsore di ogni
attività riformatrice, contro le pretese dei patarini intransigenti.
Nel 1099 il neoeletto arcivescovo Anselmo da Bovisio fece traslare
dal monastero di S. Celso, dove era stato sepolto, l'altro
campione della Pataria, Arialdo, assassinato anche lui il 28
giugno, ma del 1066, sull'isola del lago Maggiore. Le due salme
così ricongiunte nella cripta costituirono, insieme alla presenza
del sepolcro di Ariberto, una fortissima attrazione per il clero
riformatore e i fedeli patarini, che avevano una notevole
concentrazione nella zona nord-est di Milano.
L'arcivescovo compì con questa operazione un atto eminentemente
politico, perché gli avversari più intransigenti della crociata che
Anselmo stava organizzando, dietro pressione pontificia, erano
proprio i patarini. L'opposizione nasceva dal fatto che per
mettere insieme le ingenti somme della spedizione si attingeva
alle rendite delle parrocchie, destinate (nel migliore dei casi)
all'assistenza dei poveri.
L'eccidio dei ghibellini
All'inizio del 1266 Napo Torriani aveva nominato suo fratello
Paganino podestà di Vercelli. Il giovane fu assalito il 29 gennaio
da una banda di proscritti milanesi e trucidato. Per rappresaglia i
guelfi catturarono 13 milanesi e 70 pavesi ghibellini e li tennero
a disposizione per le onoranze funebri.
Il lunedì 1° febbraio la salma di Paganino fu composta nella chiesa di
S. Martino al Corpo, fuori Porta Comasina; il giorno seguente il
feretro venne spostato a S. Dionigi, dove ebbero luogo le
esequie. Prima che Paganino venisse tumulato, i 13 sventurati
ghibellini fecero omaggio forzato della loro testa. Il giorno dopo
fu la volta di altri 13 ghibellini tenuti prigionieri nella torre di Porta
Nuova ad essere decapitati al Broletto Nuovo. Il 4 febbraio
l'eccidio ebbe il suo culmine con l'esecuzione, davanti a S.
Dionigi, di altri 28 ghibellini rinchiusi nel castello di Trezzo.
La fine
La lenta decadenza
Nel 1164 i decumani di S. Dionigi, che avevano convissuto fino a
quel momento coi benedettini, si trasferirono a S. Bartolomeo a
Porta Nuova. Tuttavia solo nel 1217 i benedettini furono veram
ente soli a officiare la loro chiesa.
Intorno al 1410 subentrarono i benedettini riformati di S. Giustina,
più noti come Cassinesi, che lasciarono il monastero intorno al
1433. Una carta del 13 ottobre 1478 cita il primo abate
commendatario: Giov annantonio da Busseto.
Del complesso di S. Dionigi ci restano solo le numerose descrizioni,
tra cui una testimonianza in un processo del 1521, in base alla
quale la chiesa risulta avere una pianta simile a S. Tecla, con
cinque navate e l'abside centrale maggiore delle due laterali. Nel
Cinquecento tutto il complesso era ormai decaduto e poco era
valso l'onore derivato al luogo dall'essere Luigi XII salito a
cavallo davanti alla chiesa nel 1509, dopo la vittoria di Agnadello.
Il fatto era stato riportato sull'arco che immetteva nel sagrato e il
Torre aveva potuto ricopiarne l'iscrizione.
Nel 1528 si ha un episodio di rapimento per riscatto di reliquie: i
famigerati Lanzichenecchi devastano chiesa e monastero e
sottraggono le sante reliquie nella cripta. Riscattati questi beni
preziosi per la cura dell'anima, nel 1532
tutte le preziose
reliquie vengono trasportate in Duomo.
Nel 1533 entrano i Serviti su richiesta del fiorentino cardinal Salviati,
abate commendatario di S. Dionigi, e del governatore Antonio
de Leyva, che vuole essere sepolto presso il monastero. Per
questo nuovo ordine si progetta la nuova chiesa.
Dalla chiesa cinquecentesca alla fine
Nel 1535 si delibera l'abbattimento dell'antica chiesa, per consentire
la costruzione dei Bastioni. Pellegrino Tibaldi ne costruisce una
nuova a tre navate con otto cappelle laterali e una lapide ne
attribuisce la volontà di ricostruzione al governatore Antonio de
Leyva. Nel 1549, ultimati i lavori, si procede all'abbattimento
della chiesa di Ariberto e di parte del suo monastero, lasciando
solo il campanile. Il nuovo complesso è ricostruito più a sud.
Di questa nuova chiesa ci restano i disegni eseguiti intorno al 1573
dall'Anonimo Fabriczy. Nel Settecento nell'atrio antistante la
chiesa c'era una cappella con una vasca d'acqua che curava gli
occhi.
Nel 1770 si iniziò a sopprimere il convento e nel 1783 anche la
chiesa venne sacrificata per far posto ai Giardini. I Serviti
portarono a S. Maria del Paradiso, dove si trasferirono, le
reliquie superstiti, tra le quali la pietra del Tredesin de mars. Il
sarcofago di Ariberto venne trasferito in Duomo, dove tuttora si
trova. La croce di Ariberto, popolarmente abbinata al Carroccio,
passò alla chiesa di S. Calimero; nel 1848 fu ottenuta dal
Governo provvisorio che ne fece il simbolo della libertà civica,
per essere deposta nel 1849 nella chiesa di S. Maria del
Paradiso e, infine, passare nel 1872 in Duomo sopra l'urna di
Ariberto.
Le Carcanine
L'hospitium dei poveri voluto da Ariberto fu adibito secoli dopo a
ricevere i bambini abbandonati oltre gli otto anni, provenienti da
S. Celso, per l'avviamento al lavoro. A causa della decadenza
nell'amministrazione dei beni in cui incorse questo al pari degli
altri enti assistenziali e ospedalieri, il ricovero di S. Dionigi fu
concentrato nell'Ospedale Maggiore.
Sulle rovine di parte del monastero Giovanni Pietro Carcano costruì
il monastero delle Carcanine, dette Turchine dall'abito, con
chiesa intitolata a S. Maria dei Sette Dolori.
Il monastero fu soppresso nel 1782 e fu convertito nel Salone dei
Giardini pubblici, poi abbattuto per costruire il Museo di Storia
Naturale. (Vedi la pagina sui Giardini pubblici.)
Bibliografia
Testimonianze e leggende intorno alla cappella Sanctorum Veteris Testamenti
Brandeburg H., La scultura a Milano nel IV e V secolo, in Millennio ambrosiano,
I, fig. 94, p. 83
Calderini A., La tradizione letteraria più antica sulle basiliche milanesi, in Rend.
Ist. Lomb. Scienze e Lettere (Classe Lettere), LXXV, 1941-2
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Cattaneo E., S. Dionigi: basilica paleocristiana? in Ricerche storiche sulla
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Cattaneo E., La religione a Milano nell'età di S. Ambrogio, Milano 1974
(Archivio ambrosiano 25)
Giulini G., Memorie, I, pp. 31, 89, 297; III, pp. 247, 337, 431
Kinney D., Le chiese paleocristiane di Milano, in Millennio ambrosiano, I, p. 65
Mirabella Roberti M., Milano romana, Milano 1984, pp. 130-131, figg. 132, 194
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Romussi C., Milano attraverso i suoi monumenti, Milano 1972, p. 42
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Traversi G., Architettura paleocristiana milanese, Milano 1964, tavv. 34 e 35
Traversi G., Una nota su S. Dionigi, basilica ambrosiana sconosciuta in “Arte
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La fine del complesso religioso
Bagnoli R., Le strade di Milano, IV, p. 1363
Fiorio M.T., Le chiese di Milano, Milano 1985, pp. 146-7
Latuada S., Descrizione di Milano, Milano 1737, V, pp. 318-31
Mezzanotte-Bascapé, Milano nell'arte e nella storia, Milano 1968, pp. 507-508
Storia di Milano, III, pp. 108 n. 1, 196 n. 3; IX 596, 647
3.3 Sant'Ambrogio
Sant'Ambrogio
di Maria Grazia Tolfo
La magistratura accanto a Sesto Petronio Probo
Aurelio Ambrogio nacque a Treviri nel 339-340 ultimo di tre figli. Suo
padre ricopriva nelle Gallie la magistratura suprema dell’impero,
la prefettura del pretorio, agli ordini di Costantino II. Il prefetto
delle Gallie dal suo palazzo di Treviri controllava
l’amministrazione giudiziaria e civile di mezza Europa, dal vallo
di Antonino fino al Marocco, dal Reno all’Atlantico. Il prefetto
rappresentava l’imperatore, ne promulgava le leggi, vigilava sui
governatori delle province in cui era divisa la prefettura,
accoglieva gli appelli dei tribunali provinciali, provvedeva alla
manutenzione delle strade e al servizio delle poste imperiali,
pagava il soldo all’esercito e procurava le vettovaglie.
Non disponiamo di notizie dirette riguardanti il padre di Ambrogio,
tranne che apparteneva a una famiglia consolare,
probabilmente di origine greco-orientale, come lascerebbe
intendere il suo nomen, Uranius; il cognomen è invece ignoto:
chi lo dice Ambrosius, chi Satyrus.
La madre apparteneva alla gens Aurelia e
possedeva vasti
appezzamenti in Sicilia e nel Nord-Africa. Dalla seconda metà
del II secolo, in seguito alle invasioni barbariche e alle carestie
conseguenti le difficoltà di lavorare i campi, l’Africa
proconsolare
aveva
ricevuto
una quantità enorme
d’investimenti in tenute agricole per compensare la produzione
decimata delle province occidentali. Possedere terreni in Africa
era quindi segno di distinzione e di benessere economico.
Sembra probabile che il prefetto venisse coinvolto nelle lotte tra i figli
di Costantino per la supremazia in Occidente, morendo nel
colpo di stato tentato da Costantino II e che la sua persona sia
stata colpita dalla damnatio memoriae, dal momento che
neppure suo figlio lo ricorda mai e non compare citato negli atti
ufficiali finora noti.
Dopo la morte del padre, la famiglia da Treviri si spostò a Roma. Qui
Ambrogio fu educato ed entrò nella carriera amministrativa;
dopo essere stato a Sirmio dal 365 col fratello maggiore Satiro,
dove entrambi ricoprivano l’incarico di funzionari presso la
prefettura del pretorio Italiae, Illyrici et Africae con Vulcacio
Rufino, fu promosso nel 368 a membro del consiglio privato di
Sesto Petronio Probo, che si alternava fra Sirmio e Milano.
Sesto Anicio Petronio Probo, un veronese immensamente ricco,
discendente per parte materna dalla gens Anicia, viene dipinto
da Ammiano Marcellino con pochi ma feroci tratti, mettendo in
risalto soprattutto l’esorbitanza delle riscossioni che avevano
prostrato l’Illirico più delle razzie dei barbari, costringendo molti
patrizi al suicidio o alla fuga. Probo era un vero padrino, capo di
un forte clan di fedeli. La sua potenza era nota a tutti: una
delegazione di Persiani, venuti a Milano quando Ambrogio era
già vescovo, chiese di incontrare Ambrogio e il suo protettore;
per loro il vescovo e il prefetto riassumevano il prestigio di
Milano.
l 371 Probo tenne il consolato insieme all’imperatore Graziano e
approfittò della carica per nominare consularis il suo protetto
Ambrogio, cioè governatore della provincia Liguria et Aemilia.
La Liguria comprendeva Bergamo, Brescia, Como, Lodi, Milano,
Novara, Pavia, Vercelli, Torino; l’Aemilia Bologna, Faenza, Forlì,
Imola, Modena, Parma, Piacenza, Reggio. E così ebbe inizio la
strana avventura di Ambrogio a Milano.
Per quanto riguarda l’aspetto fisico di Ambrogio, il mosaico di S.
Vittore in Ciel d’oro ce lo mostra piccolo e gracile, con capelli
scuri e un po’ ricci, barba e baffi e una leggera asimmetria nel
volto, con un occhio leggermente più basso e chiuso dell’altro.
Un ritratto virile dipinto su vetro (al Museo di Arezzo) sembra
adattarsi perfettamente a questo identikit, anche se non è mai
stata fatta l’identificazione ufficiale con Ambrogio.
L’analisi del suo scheletro ha rivelato che Ambrogio era alto ca. 1,63
m, che soffriva di una grave forma di artrite cronica della
colonna vertebrale, uno stato di infiammazione che conduce
gradualmente a un irrigidimento della persona e alla paralisi del
tronco e del capo, con la sola mobilità degli arti. Tale affezione è
spesso accompagnata da un reuma alla faringe, che impedisce
di parlare a lungo. Sembra probabile che la morte sia avvenuta
per insufficienza cardio-respiratoria.
La malattia dovette manifestarsi in giovane età, perché già nel 378,
in occasione del discorso funebre per la morte del fratello Satiro,
Ambrogio fa riferimento a una grave malattia che l’aveva colpito
e “disgraziatamente” non l’aveva ucciso per risparmiargli lo
strazio della morte dell’inseparabile Satiro. In una lettera del
383 ai Tessalonicesi il vescovo si scusa per la grave infermità
che gli aveva impedito di andare incontro al loro vescovo in
visita a Milano. Ancora nel 390, nella lettera privata inviata a
Teodosio per la strage di Salonicco (che analizzeremo nella
prossima lezione), Ambrogio adduce come motivo ufficiale della
sua assenza da Milano una malattia fisica, per altro “realmente
grave”.
Il vescovo, lavoratore instancabile, che dettava anche di notte lettere
e prediche ai suoi segretari e stenografi, non si risparmiò mai
nonostante questa terribile infermità.
I fratelli Marcellina e Satiro
Marcellina era la sorella maggiore, nata intorno al 335 probabilmente
a Roma, luogo d’origine della famiglia materna.
Alla vigilia di Natale del 353 (o all’Epifania del 354) Marcellina prese
il velo dalle mani di papa Liberio. La preparazione a questo
evento e la cerimonia colpì il tredicenne Ambrogio, che durante
la sua vita episcopale dedicò molti studi e prediche alla
verginità e alla consacrazione femminile di vergini e vedove.
Come d’uso a quei tempi, Marcellina continuò a vivere a casa
sua, affiancata da un’amica con la quale condivideva la
preghiera, ricevendo molte visite di personalità religiose. Il
biografo Paolino racconta che da ragazzino Ambrogio voleva
farsi baciare la mano destra, come vedeva fare ai vescovi che
venivano a far visita alla famiglia, perché da grande voleva
diventare vescovo. L’aneddoto ci serve anche per farci
conoscere le alte frequentazioni cristiane
della famiglia di
Ambrogio molto prima che l’ultimogenito accedesse agli onori
ecclesiastici.
Marcellina trascorse la maggior parte della sua vita a Roma,
trasferendosi solo negli ultimi anni dell’episcopato di Ambrogio
a Milano. In una lettera a Siagrio di Verona scritta verso il 395-6
Marcellina appare accanto al fratello quale sua consigliera nella
delicata questione concernente Iudicia, una vergine veronese
accusata d’infanticidio (Ep. 56). Gli atti dei santi registrano la
morte di Marcellina al 17 luglio 397 o 398.
Ambrogio nutrì un grandissimo amore anche verso il fratello, del
quale ci ha lasciato un intrigante ritratto nella prima versione De
excessu fratris. Innanzi tutto colpisce l’identificazione tra i due
fratelli, quasi fossero gemelli (ipotesi avvalorata dall’analisi
dello scheletro di Satiro, di costituzione esile, alto 1,62 cm e
con un infossamento maggiore sotto l’osso zigomatico sinistro,
difetto identico a quello riscontrato in Ambrogio):
“Non so per quale atteggiamento dell’animo, per quale somiglianza
fisica sembravamo essere uno nell’altro. Chi ti vedeva e non
credeva di aver visto me? La nostra condizione di vita non fu
mai troppo diversa, buona salute e malattia ci furono sempre
comuni, così che quando l’uno era ammalato, cadeva
ammalato anche l’altro, e quando uno guariva, anche l’altro si
alzava dal letto.”
Per proprietà transitiva, dobbiamo allora dedurre che anche
Ambrogio si comportasse nei confronti del sesso femminile
come Satiro? “Amò a tal punto la castità, che non prese
nemmeno moglie... Con la faccia soffusa di una verecondia
verginale, se per caso incontrava sulla sua strada una parente,
si chinava quasi a toccare il suolo e di rado sollevava la faccia,
alzava gli occhi, rispondeva a ciò che gli veniva detto. E questo
faceva per un delicato pudore dell’animo, con il quale si
accordava la castità del corpo”.
Anche per quanto riguarda la severità di costumi l’identificazione
doveva essere pressoché totale: “Perché parlare della sua
parsimonia e, starei per dire, della sua castità nel possedere?
Non volle però essere defraudato del suo, perché chiamava
giustamente “avvoltoi del denaro” coloro che bramano i beni
altrui. Non amò mai banchetti troppo raffinati o troppo
abbondanti. Certamente non era povero di mezzi, ma tuttavia
povero di spirito.”
La vicinanza dell’inseparabile Satiro dovette essere di grande
conforto per il neo-eletto vescovo, quanto il vuoto per la sua
perdita incolmabile, fino a perdere l’equilibrio che l’aveva
contraddistinto nelle sue decisioni politiche: “Nel legame di
un’unica parentela, tu mi rendevi i servigi di molti parenti, tanto
che io rimpiango in te la perdita non di una sola, ma di più
persone amate. Mi eri di conforto in casa, onore in pubblico;
approvavi le mie decisioni, condividevi le mie inquietudini,
allontanavi le mie angustie. Nella costruzione delle chiese
spesso ho temuto di non avere la tua approvazione...”.
Venne sepolto accanto alle reliquie di S. Vittore nel sacello di S.
Vittore in Ciel d’oro. Ambrogio compose questo epitaffio,
copiato all’inizio del IX secolo dal monaco irlandese Dungolo:
“A Uranio Satiro il fratello accordò l’onore supremo, deponendolo
alla sinistra del martire. Questa sia ricompensa ai suoi meriti:
l’onda del sacro sangue infiltrandosi irrori le vicine spoglie”.
Il culto ufficiale di Satiro e Marcellina, come del resto quello di S.
Ambrogio, si attesta in età carolingia a partire dal IX secolo per
difendere le prerogative e le peculiarità della Chiesa
ambrosiana intesa come milanese.
L’elezione
“Io sono stato chiamato all’episcopato dal frastuono delle liti del foro
e dal temuto potere della pubblica amministrazione” (La
penitenza, II, 8, ca. 390).
...liti del foro... temuto potere... danno un’idea della vita milanese e
non solo. Il governatore Ambrogio si adoperò nel 374 per
sedare i tumulti scoppiati a Milano per la successione del
vescovo ariano Aussenzio; la sua opera fu così apprezzata che
proprio lui fu designato “a furor di popolo” quale successore del
vescovo. Il suo equilibrio, la sua equidistanza fra le due parti
avranno fatto ritenere la sua persona la più idonea - magari in
via transitoria - a ricoprire una carica al momento piuttosto
problematica, senza scontentare nessuno. Non è escluso che a
guidare la scelta popolare sia stato il prefetto dell’Illirico, Africa
e Italia Sesto Petronio Probo, che piazzava in posizione
strategica un valido alleato.
C’era però un problema: Ambrogio non solo era un laico, ma non era
neppure stato battezzato, dal momento che il battesimo lo
prendevano coloro che intendevano seguire la carriera
religiosa. Poiché nelle comunità cristiane, soprattutto nei centri
più importanti, era invalsa la tendenza a scegliere come
vescovi persone ricche o influenti (avvocati, funzionari..), la
legislazione ecclesiastica, espressa nei canoni dei concili di
Nicea (325) e di Serdica (343), sottoscritti dall’imperatore come
capo della Chiesa cristiana, vietava l’accesso agli ordini sacri
dei funzionari pubblici, con la scusa che potevano aver versato
sangue e essere stati ingiusti, ma in realtà per non trasferire il
potere acquisito nel pubblico all’interno della gestione della
Chiesa.
Ambrogio non dovette essere molto lusingato della designazione e
non stentiamo a credere che volesse sottrarsi a un tale onere:
“Cosa non feci per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero
costretto, chiesi almeno che l’ordinazione fosse ritardata. Ma
non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami”.
(Lettera fuori coll. 14 ai Vercellesi). Il tema della fuga per
indegnità nel caso che l’eletto sia un laico è un topos e lo si
ritrova nelle agiografie di Cipriano di Cartagine, di papa
Cornelio e di Martino di Tours, ma si può immaginare che
Ambrogio si sentisse come una pedina da sacrificare e quindi
fosse un po’ recalcitrante.
Per essere escluso dall’incarico Ambrogio sottopone degli accusati
alla tortura, s’incontra con delle prostitute e cita i filosofi
platonici, infine scappa due volte, ma non c’è niente da fare, la
scelta è stata fatta. Valentiniano I, che risiede a Treviri, dà il suo
assenso e il vicario imperiale, che risiede a Milano, pubblica un
editto per rintracciare e consegnare Ambrogio: un po’ forte
come sostegno imperiale neutro.
I vescovi suffraganei come reagirono all’acclamazione popolare?
Provenivano da un ventennio di gestione ariana. Il clero
milanese era diviso fra preti niceni, come Filastrio, capo del
gruppo niceno milanese, che diverrà vescovo di Brescia o
come il diacono Sabino, in relazione con Basilio di Cesarea,
presente al concilio di Roma del 370 e poi vescovo di Piacenza,
e quelli consacrati dall’ariano Aussenzio.
Anche sulla data dell’acclamazione popolare a vescovo - a
imitazione dell’esercito che acclamava l’imperatore - non ci
sono notizie. Sappiamo che Ambrogio fu battezzato domenica
30 novembre (eccezionalmente fuori dal turno della vigilia di
Pasqua) e fu consacrato il 7 dicembre 374 da un vescovo
anonimo. Secondo la tradizione della Chiesa di Vercelli, si
tratterebbe di S. Limenio, vescovo di quella città, ma Ambrogio
non lo cita mai, sembra anzi esercitare nei suoi confronti una
sorta di censura.
Come si comportò Ambrogio, almeno inizialmente, nei confronti degli
ariani? Teofilo d’Alessandria ci informa intorno al 400 che
“Ambrogio accolse quanti avevano ricevuto l’ordinazione da
Aussenzio, suo predecessore”, ovvero si fece una sorta di
sanatoria in attesa di meglio ordinare l’organico. Nei suoi
discorsi il neo vescovo si astenne da polemiche antiariane per
mantenere la precaria unità nella comunità cristiana milanese,
almeno fino alla morte del fratello Satiro (gennaio 378); già nel
febbraio 378 Ambrogio introduceva accenni antiariani nelle sue
prediche.
Appena consacrato offrì alla Chiesa milanese l’oro e l’argento che
possedeva, i poderi di sua proprietà in Sicilia e nell’Africa
proconsolare, riservandone l’usufrutto alla sorella. Questi beni
terrieri costituiranno il patrimonio della Chiesa milanese fino
all’occupazione dei Vandali in Nordafrica e degli Arabi in Sicilia.
Il neo-vescovo viene istruito da Simpliciano che, nato intorno al 325,
aveva quindi quasi 50 anni quando Ambrogio fu consacrato e
ne avrà 72 quando sarà eletto a succedere ad Ambrogio.
L’anziano diacono è autore di una Lettera con testi da
sviluppare che usa per l’educazione il metodo maieutico.
Dal dicembre 374 al febbraio 378 la vita di Ambrogio vescovo
dovette procedere con fatica, se si tiene conto che il suo
potente sostenitore, Probo, era stato licenziato da Graziano alla
fine del 375, perdendo ogni incarico politico. A macchinare
contro di lui ci si era messo il temibile Leone, magister
officiorum dal 370, un illirico che si era prefisso lo scopo
ambizioso di ottenere il posto di Probo, senza riuscirci. A
confortare Ambrogio erano rimasti Satiro e Simpliciano, poi,
con la morte del fratello, l’equilibrio si ruppe ed iniziarono i guai,
che si chiamavano Giustina...
Compagine socio-religiosa dei milanesi
Quando Ambrogio fu proposto come vescovo a Milano (120.000
abitanti) erano presenti tre fazioni rilevanti: i conservatori, gli
ariani e i cattolici. Al partito dei conservatori aderiva la
maggioranza della popolazione fedele alle tradizioni pagane
romane; non compaiono negli scritti se non per essere irrisi (i
costumi effemminati di certi adepti, la loro reazione ai riti
cattolici, ecc.). Gli ariani, sostenuti dall’esercito per lo più
barbarico e dalla corte, erano il gruppo per consistenza più
vicino a quello cattolico e in certi periodi, come durante il
ventennale episcopato di Aussenzio da cui usciva la città,
senz’altro predominante. Gli ariani contestavano il primato
pietrino, il culto delle reliquie e le gerarchie ecclesiastiche,
auspicando una chiesa di popolo con un governo affidato ai
vescovi. Venivano quindi i cattolici, che all’elezione di Ambrogio
erano all’opposizione.
Sulla sociologia della comunità cristiana i pareri erano discordi
anche fra gli osservatori contemporanei. Secondo Celso i
cristiani erano reclutati soprattutto fra gli strati inferiori della
popolazione, cioè fra schiavi e nullatenenti. Secondo altri
appartenevano al ceto medio, per cui il cristianesimo era un
movimento sociale urbano che aveva nella borghesia cittadina
la sua base sociale. In realtà il sodalizio cristiano era molto
selettivo ed escludeva i tenutari di postriboli, gli scultori (per via
degli idoli), gli attori, i maestri, gli atleti e gli aurighi, i soldati, i
magistrati, i maghi, gli astrologi e i falsari. Tutti loro potevano
diventare catecumeni purché rinunciassero al lavoro. I soldati
cristiani potevano fare obiezione di coscienza e farsi assegnare
al servizio pubblico, come i vigiles, i beneficiarii (truppe che
aiutavano il governatore ad amministrare il territorio), i
protectores e i domestici; vi erano centurioni passati alla
sorveglianza dell’imperatore, dei prigionieri, dei trasporti
pubblici e della posta, alla supervisione dei rifornimenti e anche
a compiti di segreteria militare e civile.
Al momento dell’elezione di Ambrogio sembra che il gruppo cattolico
contasse soprattutto i ceti insoddisfatti del governo: i
mercatores che dovevano pagare un forte gettito fiscale a
favore dell’apparato statale e gli apparitores, cioè i subalterni
addetti ai magistrati (littori, araldi, scrivani, ecc.), che diedero
come “martiri” locali i cosiddetti SS. Innocenti.
Giustina guida la riscossa ariana
Alla
fine del 378 la corte di Sirmio, dove risiedeva
l’imperatrice-madre Giustina col figlioletto Valentiniano II, si
sposta per motivi di sicurezza a Milano e per Ambrogio
comincia un periodo di rapporti difficili con la corte
prevalentemente ariana, controllata dal violento e corrotto
Calligonus, praepositus sacri cubiculi.
Il vescovo si era già scontrato con Giustina a Sirmio, in occasione
della consacrazione del vescovo nel 376, riuscendo ad imporre
un prelato di sua scelta nonostante l’imperatrice fosse scesa
apertamente in campo contro di lui. Possiamo immaginare
come si sentisse il vescovo alla notizia che la terribile
imperatrice era arrivata a Milano... Di origine siciliana, figlia di
un governatore del Piceno, Giustina era una donna bella ed
ambiziosa. Aveva sposato in prime nozze l’usurpatore
Magnenzio e quindi Valentiniano I, che per lei aveva ripudiato
nel 364 la prima moglie, Marina Severa.
Paolino così narra la scontro tra i due: “Giustina, trasferita la corte a
Milano nel 378, sobillava il popolo con l’offerta di doni e di onori.
Gli animi dei deboli erano accalappiati da tali promesse:
assegnava infatti tribunati e diverse dignità a coloro che
avessero rapito il vescovo dalla chiesa e condotto in esilio”.
In effetti Giustina richiese per il culto ariano l’assegnazione di una
basilica e, di fronte al netto rifiuto del vescovo, la fece occupare.
Graziano dovette intervenire ordinando ufficialmente il
sequestro della basilica per garantirne l’officiatura da parte
ariana. L’imperatrice-madre tentò di sostituire Ambrogio con
Giuliano Valente, vescovo cattolico ma con aperture verso
l’arianesimo. Negli atti del concilio di Aquileia del 381 Ambrogio
lo accusa di indossare collana e braccialetti come i Goti, cosa
doppiamente empia, e di turbare la chiesa milanese
provocando tumulti sia davanti alla sinagoga, sia nelle case
degli ariani. Questa associazione tra ebrei ed ariani, tipica nei
cristiani dell’epoca, favorirà la visione antigiudaica che il
medioevo avrà della missione ambrosiana.
La durezza dello scontro dovette non poco sconcertare il giovane
imperatore, che chiese ad Ambrogio un fidei libellus e il
vescovo compose per lui il De fide, un’amplissima confutazione
dell’arianesimo, che vedremo meglio nella terza lezione. A
sostenere Ambrogio nella sua missione antiariana fu il giovane
imperatore Graziano, che dal marzo 381 operò in materia
religiosa in pieno accordo col vescovo. Giustina, stizzita, si
spostò ad Aquileia e allora Ambrogio andò a portare guerra
anche in quella città, facendo indire con lettere di Graziano un
sinodo provinciale che inquisisse gli ariani. Come si direbbe
oggi, era un processo chiaramente politico e anche la lettura
degli asettici atti processuali ci fa piombare in un clima cupo
che prelude ai processi dell’inquisizione. Da parte sua Giustina
continuava a intralciare il vescovo a Milano grazie a Macedonio,
il magister officiorum che controllava diversi uffici del palazzo
imperiale, dalla segreteria alla scuola di agentes in rebus, che
si opponeva all’ingerenza di Ambrogio nelle questioni civili.
L’accanimento di Ambrogio contro gli ariani può considerarsi come
un tentativo di tutela dell’ordine pubblico, retaggio del suo ruolo
di governatore. Voleva probabilmente evitare che la città si
dividesse in fazioni e che, come aveva denunciato quasi due
secoli prima Tertulliano, “rancori e passioni di parte gettino
facilmente il disordine nei comizi, nelle assemblee, nelle curie,
nelle adunanze popolari e persino negli spettacoli”.
L’imperatore Graziano dovette recepire queste preoccupazioni
di Ambrogio e assecondarlo. Graziano viene descritto come un
giovane istruito, allievo di Ausonio, garbato, di una austerità e
parsimonia persino eccessive (ma non per Ambrogio), educato
alla guerra dal padre sin dalla più tenera età. Egli stesso si
definiva “infirmus et fragilis”.
La prima vittoria contro gli ariani: il concilio di Aquileia
Il 3 novembre 381 si ebbe il primo grande intervento dottrinale di
Ambrogio. Il concilio preparato da Ambrogio con l’approvazione
di Graziano voleva colpire due vescovi della Chiesa illirica,
Palladio di Ratiaria e Secondiniano di Singidunum, entrambi
filo-ariani. Ambrogio fece sì che la convocazione non
pervenisse ai vescovi orientali e procedette con piglio
inquisitorio nei loro confronti per farli espellere dalla Chiesa.
Siccome Teodosio aveva appena convocato un concilio a
Costantinopoli nel maggio di quel anno, si capisce che la
diocesi dell’Illirico era ancora sotto la tutela dell’augusto
d’occidente e quindi del vescovo che risiedeva dov’era la sede
imperiale, nel nostro caso il vescovo di Milano.
Ambrogio pretendeva che i due vescovi firmassero una condanna
nei confronti del prete alessandrino Ario, che per altro era stato
riammesso alla comunione di fede nicena in un precedente
concilio orientale. Non sussistono dubbi sul fatto che Ambrogio
in questa occasione si comportò con un’intolleranza più
consona a un inquisitore che a un pastore d’anime. Palladio lo
accusò di arroganza impudente, sfrenata ed esageratamente
empia: “Tu non hai considerato...che gli uomini religiosi non
possono essere giudicati da un malvagio, i difensori della verità
da un bestemmiatore, i confessori della fede da un rinnegato,
gli amici della pace da un sedizioso, gli uomini tranquilli da un
rivoltoso, gli innocenti da un malfattore, i fedeli da un
catecumeno ...; coloro che intentano un processo in modo
ossequiente alla legge e che sostengono una giusta causa non
possono essere giudicati dall’avversario che è allo stesso
tempo malamente implicato nel processo: poiché tutti sanno
con certezza solare che un processo fra interessi contraddittori
richiede il giudizio non della parte avversa ma di un magistrato
che faccia da arbitro”.
Palladio chiese allora che le due parti contendenti s’impegnassero a
presentare al senato romano dei trattati con le proprie
argomentazioni fondate sulle Scritture e che tali trattati per
ordine imperiale fossero fatti conoscere in città attraverso
pubblica lettura e venissero pure inviati alle Chiese
dell’ecumene, così tutti, cristiani, pagani, giudei, sarebbero
potuti intervenire nella discussione. Qui c’è tutta la visione
diversa tra ariani, più legati alla tradizione dello stato e quindi
favoriti da molti imperatori, e cattolici, che miravano invece a
crearsi un’indipendenza dai poteri secolari. Ambrogio infatti
affermava a questo proposito: “I vescovi devono giudicare i laici,
non i laici i vescovi”.
Il trionfo cattolico con Graziano
Nel 382 Ambrogio sembra comunque segnare parecchi punti a suo
vantaggio grazie alle disposizioni in materia religiosa di
Graziano. Viene abolita la nomina per il mantenimento delle
Vestali; sono confiscati i beni a tutti i collegi sacerdotali pagani
e viene rimosso l’altare della Vittoria nel senato romano, sul
quale giuravano fedeltà i senatori. Graziano dispone inoltre che
i sussidi tolti ai sacerdoti e alle vestali vadano a favore dei baiuli
(facchini), vespilliones (becchini) e tabellari (postini). La legge
era in un certo senso ingiusta, perché per la loro nomina i
sacerdoti municipali erano obbligati a versare alla cassa civica,
l’arca, le summae honorariae, una tariffa proporzionale al livello
della funzione rivestita. In cambio i sacerdoti erano autorizzati a
raccogliere fondi dai fedeli. Il cristianesimo aveva apportato una
rivoluzione, perché i seniores (presidenti della comunità
cristiana) non pagavano le summae, ma erano eletti
dall’assemblea dei fratelli. Graziano sopprime il titolo di
pontefice massimo agli imperatori, staccando la suprema
gerarchia religiosa dal potere temporale.
Da parte sua Ambrogio vieta i refrigeria, i banchetti che si
celebravano sulla tomba nell’anniversario della nascita di un
defunto. Questi attacchi alla tradizione religioso-politico romana,
nonché la lontananza dalle bellicose frontiere del nord
contribuirono a decretare la prematura fine di Graziano: il 25
agosto 383 moriva assassinato a ventiquattro anni, nel corso di
un banchetto a Lione offertogli dall’usurpatore Massimo dopo
che l’aveva catturato. Giustina è terrorizzata per la sorte del
figlio, più che per quella dell’impero; il dodicenne Valentiniano II
vive nel timore che Massimo elimini anche lui, come asserisce il
testimone Rufino d’Aquileia, per cui per un certo periodo
Ambrogio può atteggiarsi persino a protettore dell’imperatrice.
Magno Massimo è invece legato a Teodosio, ispanico come lui,
amico da antichissima data. Teodosio lo riconosce subito come
augusto, tanto più che Massimo è un fervente cattolico.
Il vescovo ariano Aussenzio II
Quando il panico si acquieta, verso la fine del 384, Giustina torna
all’attacco e fa venire a Milano Aussenzio, vescovo goto e
ariano di Durostorum (Silistra al delta del Danubio), deposto da
Teodosio. Giustina tenta di organizzare una chiesa ariana da
contrapporre a quella cattolica, aprendo le ostilità con Ambrogio
e provocando così l’isolamento del figlio sia nei confronti di
Teodosio sia di Massimo.
Di Aussenzio II Ambrogio fornisce il seguente ritratto: “Fuori è una
pecora, dentro è un lupo che non ha limiti alle sue rapine e si
aggira correndo di notte, la bava insanguinata, cercando chi
divorare. Non è mai sazio per l’indigestione di sangue umano...
ulula e coi suoi discorsi sacrileghi stride con suono di una voce
belluina...”. Comunque sia, per almeno tre anni Aussenzio è il
vescovo ariano di Milano in contrapposizione ad Ambrogio.
Valentiniano II stabilisce alla fine del 384 che vengano restituiti i
beni sottratti ai templi pagani, ma Ambrogio riesce a fermare la
pubblicazione dell’editto.
Nella primavera 385, in preparazione della Pasqua, gli uffici di corte
chiedono ad Ambrogio di mettere a disposizione la basilica
ecclesìa per la celebrazione delle feste, ossia la maior. Il
vescovo si reca subito a corte (Ep. 75A, 23): “Quando il popolo
seppe che mi ero recato a palazzo, vi fece irruzione con tale
impeto che non furono in grado di tener testa alla sua violenza;
il conte militare uscì con le truppe leggere per mettere in fuga la
folla e io fui pregato di placare il popolo promettendo che
nessuno avrebbe invaso la basilica ecclesìa”.
Il risentimento di Giustina è enorme: “L’imperatore non deve ricevere
una basilica in cui recarsi e Ambrogio vuole essere più potente
dell’imperatore?”. Valentiniano assegna allora d’ufficio agli
ariani la basilica Portiana extra muros (la cui identificazione è
rimasta un enigma irrisolto in tutti questi secoli), ma i cattolici la
occupano. Le truppe imperiali circondano allora sia la Portiana,
sia la basilica ecclesìa e la vetus, ma di fronte alla resistenza
inflessibile di Ambrogio, onde evitare spargimenti di sangue, le
truppe si ritirano. Giustina si sposta allora da luglio a dicembre
385 ad Aquileia per preparare il contrattacco.
L’occupazione delle basiliche
Il 23 gennaio 386 Valentiniano II emana da Milano una costituzione
rivolta al prefetto pretorio Eusiginio che condanna l’integralismo
di Ambrogio e in cui si concede diritto di culto pubblico agli
ariani, pena di morte a chi si opponeva. Contro Ambrogio lo
stesso imperatore lancia l’accusa di comportarsi come un
tyrannus, ossia un sovversivo che, con attenta regia, sa
mobilitare il popolo per rovesciare il trono. Ambrogio viene
invitato a lasciare Milano e a trovarsi una sede di sua scelta.
Rufino nella sua Storia della Chiesa ha immortalato Benevolo,
uno dei funzionari imperiali incaricati di redigere il decreto, che
fece obiezione di coscienza “gettando la cintura dinanzi ai piedi
di coloro che gli comandavano empie azioni”.
La reazione di Giustina, per mano del figlio, non tarda a farsi sentire:
Ambrogio deve presentarsi con giudici di sua scelta davanti al
consistoro per sostenere un contraddittorio con Aussenzio.
Ambrogio rifiuta e invita provocatoriamente il giovane
imperatore a trasferirlo pure d’ufficio se non teme la guerra
civile. L’esistenza del vescovo si fa durissima, seguito a vista
dalla polizia imperiale.
Per la Pasqua la corte chiede la basilica ecclesìa, ma i fedeli cattolici
occupano già dalle Palme le tre basiliche, nova, vetus e
Portiana. Per tenere svegli ed emotivamente eccitati i fedeli,
Ambrogio introduce a Milano i salmi antifonati e compone lui
stesso degli inni, che rimarranno nella tradizione liturgica
ambrosiana. L’occupazione comincia venerdì 27 marzo; il 29,
domenica delle Palme, nella Portiana il vescovo pronuncia il
sermone contro il rivale Aussenzio, nel quale si trova la celebre
sentenza “Imperator enim intra Ecclesiam, non supra
Ecclesiam est”; l’occupazione si protrae fino a giovedì 2 aprile,
poi Giustina demorde e decide di andare a festeggiare la
Pasqua nella più tollerante Aquileia.
A giugno è la volta di Ambrogio a sferrare un colpo basso: in maggio
aveva consacrato la basilica degli Apostoli; il mese dopo,
dovendo consacrare anche la basilica ambrosiana, deve
accontentare i fedeli trovando delle reliquie idonee. Il 17 giugno
386 inviene presso la basilica dei SS. Nabore e Felice i corpi di
due decapitati anonimi, che chiameranno Gervasio e Protasio,
e li farà seppellire accanto alla tomba che aveva predisposto
per sé sotto l’altare maggiore. La provocazione verso gli ariani
era scoperta, perché l’arianesimo negava il culto dei martiri o
dei santi o più in generale delle reliquie. In occasione delle
“invenzioni” si alzavano le grida degli invasati dai demoni, che
in questo modo attestavano l’autenticità dei corpi dei martiri.
Dopo la “confessione” demoniaca, gli invasati erano liberati
dagli spiriti immondi. Gli ariani si facevano beffe di tutto questo
trambusto: “Nella corte una moltitudine di ariani, che
attorniavano Giustina, derideva la grazia divina che il signore
Gesù mediante le reliquie dei suoi martiri s’era degnato di
conferire alla Chiesa cattolica, e andava raccontando che
Ambrogio s’era procacciato con denaro alcuni uomini che
fingessero d’essere vessati da spiriti immondi e tormentati da
Ambrogio stesso e dai martiri. E così parlavano gli Ariani con
linguaggio di giudei, certo loro consimili” (Paolino, 15, 1-2). Il
modello dell’invenzione è quello usato dall’imperatrice Elena,
madre di Costantino, nel ritrovare sul Golgota la S. Croce,
avvenimento celebrato da Ambrogio nell’orazione funebre per
Teodosio.
Giustina è esasperata: nel novembre 386 si trasferisce
temporaneamente ad Aquileia e intanto studia le modalità per il
passaggio definitivo della capitale da Milano a Roma. Il vuoto di
Milano provoca la fatale discesa di Massimo, stanco anche lui
della scomoda sede di Treviri. Giustina coi figli fugge a
Salonicco nell’estate del 387, richiedendo l’intervento armato di
Teodosio. Il prezzo preteso da Teodosio è alto: prima di tutto
Giustina e i regali rampolli devono abbracciare il cattolicesimo,
poi, quale garanzia, gli deve essere concessa Galla, appena
pubere. Giustina sarebbe passata attraverso le fiamme del
fuoco eterno pur di conservare l’impero al figlio e accetta senza
troppe riflessioni tutte le condizioni. Ricevuta una flotta per
tornare in Italia, s’imbarca sulla nave col figlio pronta a dar
battaglia, ma non rivedrà più le coste italiane perché una
provvidenziale morte le impedì di assistere anche alla rovina
dell’amato Valentiniano II.
Le accuse contro Giustina continueranno anche dopo la sua morte.
Paolino ci informa infatti che un tale Innocenzo, sottoposto a
tortura dal giudice in un processo di stregoneria, confessò che i
maggiori tormenti gli venivano inflitti dall’angelo custode di
Ambrogio, perché ai tempi di Giustina era salito di notte sul
tetto della chiesa per aizzare gli odi della gente contro il
vescovo e ivi aveva compiuto sacrifizi. Aveva anche mandato
demoni a ucciderlo, ma non erano neppure riusciti ad
avvicinarsi a lui, perché una barriera di fuoco difendeva la casa;
un altro era arrivato armato fino alla camera, ma il braccio si era
paralizzato finché non aveva confessato che il mandante era
stata Giustina (Paolino, 20).
L’apogeo della Chiesa milanese. Intromissione nelle
Chiese d’Oriente
Teodosio scese in campo contro l’ex amico Massimo,
sconfiggendolo. La prossima mossa fu di relegare Valentiniano
II a Treviri e di insediare sul trono milanese il figlio Onorio, di
cinque anni. Era una mossa diplomatica per tenere il controllo
di tutto l’impero. Gli storici ci descrivono Teodosio, nato l’11
gennaio 347 presso Segovia, come timido, collerico, malaticcio
e sedentario.
A partire da questo momento Milano diventa la vera capitale della
cristianità occidentale fino all’inizio del V secolo. Ambrogio
seppe sfruttare in maniera persino eccessiva e a volte
decisamente
inopportuna
questa
nuova
possibilità,
intervenendo più volte per dire la sua circa l’elezione dei
vescovi orientali. Sozomeno racconta un episodio curioso
occorso a Geronzio, un diacono di Ambrogio divenuto vescovo
di Nicomedia. “Costui... aveva detto a certuni di aver preso di
notte un’onoscelide, di averle rasato il capo e di averla gettata
tra le macine di un mulino”. Un’onoscelide era un essere
mostruoso nato dall’unione di un uomo e di un’asina, dal corpo
femminile con gli arti inferiori asinini, mentre l’onocentauro era
la versione maschile. “Ambrogio, giudicando indegni di un
diacono quei discorsi, gli ingiunse di rimanere un certo tempo in
solitudine e di espiare il suo peccato. Egli, però, poiché era
medico eccellente ed era pure accorto nel parlare e nel
convincere, quasi intendesse beffarsi di Ambrogio si recò a
Costantinopoli. In poco tempo si fece amici alcuni fra i
personaggi potenti del palazzo e non molto tempo dopo
ottenne l’ufficio episcopale nella sede di Nicomedia (...) Come
Ambrogio lo venne a sapere, scrisse a Nettario di
Costantinopoli di togliere a Geronzio l’ufficio episcopale, ma i
fedeli di Nicomedia si opposero in massa con tutte le loro forze
enumerando i servizi di Geronzio: i copiosi vantaggi derivanti
dalla scienza medica e la solerzia verso tutti, ricchi e poveri. E
similmente a quanto accade in occasione di terremoti o di
siccità, girando per le strade e percorrendo la loro città e la
stessa Costantinopoli, cantavano salmi e supplicavano Dio di
averlo ancora come vescovo.
Lo scontro con Teodosio: la sinagoga di Callinicum
Non meno incisivo fu il suo intervento a favore delle comunità
cristiane d’oriente che avevano problemi con altre comunità
religiose, che fossero ebrei o gnostici, al punto di pretendere
pubblicamente che l’imperatore prendesse provvedimenti ad
esclusivo vantaggio dei cristiani. Questi ultimi, infatti, forti
dell’appoggio loro garantito da un imperatore cattolicissimo, si
erano scatenati incendiando luoghi di culto delle altre
confessioni, come nel caso della sinagoga di Callinicum, un
presidio nel nord della Mesopotamia (attuale Raqqa).
L’imperatore aveva deliberato che i cristiani risarcissero i danni
agli ebrei, ricostruendo a proprie spese gli edifici distrutti, ma
ecco che insorse Ambrogio: che male avevano fatto coloro che
lottavano per eliminare le deviazioni nella fede e per imporre
quella giusta? Scrive il vescovo all’imperatore: “Il luogo che
ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della
Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione
di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli?... Questa
iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: -
Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani -... Il
popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni
festivi...”. L’imperatore però rimase fermo sulla sua posizione,
forse caricando le spese della ricostruzione sul bilancio
cittadino, ma vigilando che gli ebrei avessero la loro nuova
sinagoga.
Ambrogio non incassò la sconfitta e attese il momento in cui poteva
avere l’imperatore sotto la sua influenza per fargliela pagare.
L’occasione si presentò durante una funzione liturgica verso la
fine del 388, dove Ambrogio utilizzò tutti gli strumenti della
predicazione, dall’omelia al commento alla pericope evangelica,
per far recedere l’imperatore dal suo provvedimento. E’
Ambrogio stesso che racconta il dialogo che ne scaturì con
Teodosio alla sorella Marcellina:
Teodosio: “Hai parlato chiaramente di me”
Ambrogio: “Ho trattato un argomento che riguardasse la tua utilità”
Teodosio: “In realtà la mia decisione di far restaurare la sinagoga dal
vescovo era piuttosto severa, ma è già stata modificata”
Ma Ambrogio insiste perché venga annullata ogni inchiesta e i
cristiani siano lasciati in pace. L’imperatore, pur di farla finita
con quest’inchiesta pubblica imprevista, promette anche questo,
ma Ambrogio incalza: “Mi fido della tua parola” e solo quando
Teodosio ebbe finalmente risposto “Fidati!”, ritorna sull’altare e
riprende la funzione.
Questa era apparentemente la seconda vittoria su Teodosio dopo
che era riuscito a scacciarlo dal presbiterio e a farlo sedere al
primo posto nell’assemblea dei fedeli. Lo scopo di Ambrogio
era quello di affermare l’indipendenza della Chiesa dallo Stato
e, spingendosi un po’ oltre, di avvalorare addirittura la tesi della
superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di
una legge superiore alla quale tutti dobbiamo inchinarci.
La strage di Salonicco
Nell’agosto del 390 un fantino dei giochi circensi di Salonicco fu
imprigionato per comportamento immorale. Una legge di
Graziano dell’8 maggio 381 (Cod. Theod. XV 7,7) faceva
divieto al prefetto dell’urbe di punire gli agitatores, ossia gli
aurighi che conducevano i cavalli forniti dall’imperatore o dai
magistrati, per evitare disordini pubblici. Infatti, per liberare il
suo idolo la folla inferocita prese a sassate Bauterico, capo del
servizio d’ordine cittadino e, dopo averlo ucciso, ne trascinò il
cadavere per le vie della città. Teodosio fu molto impressionato
da tale sommossa e dall’ostilità che si era evidenziata contro le
truppe barbariche a guardia della città e accondiscese a dare
una dimostrazione di potere agli abitanti. La rappresaglia gli
sfuggì però di mano, perché le truppe pensarono di saldare il
conto accumulato in anni di intolleranza dei greci nei loro
confronti e fecero una vera strage, che neppure l’imperatore
sgomento fu più in grado di fermare.
L’evento colpì molto l’opinione pubblica per la sproporzione della
punizione e per l’assenso del pio imperatore nel compierla.
Rufino d’Aquileia ambienta la strage nel circo, dove gli
spettatori sarebbero rimasti bloccati e trucidati dalle truppe.
Teodoreto fornisce la cifra dei morti: circa settemila, saliti già a
quindicimila con Giovanni Malala.
Come ben conosciamo da episodi a noi più vicini nel tempo, è
difficile raccapezzassi nelle stragi di stato, ma la storia del circo
è poco credibile; come scrive nell’omelia funebre Ambrogio,
Teodosio aveva compiuto quella scelta “quasi a sua insaputa,
ingannato da altri”, probabilmente fidandosi del suo stato
maggiore che gli aveva proposto una rappresaglia su un
numero limitato di persone, ma poi aveva perso il controllo.
Ambrogio, che dopo l’umiliazione gratuita imposta in chiesa a
Teodosio per i fatti di Callinicum, era caduto in disgrazia agli
occhi dell’imperatore, ritenne prudente non incontrarlo di
persona e lasciargli una letterina diplomatica ed affettuosa con
cui lo esortava a una penitenza per poter essere riammesso
nella comunione coi fedeli. La lettera rimase sconosciuta ai
biografi e agli storici della Chiesa e fu divulgata nell’860 da
Icmaro di Reims.
Teodosio si sottopose (probabilmente senza fatica) alla penitenza
pubblica, depose le insegne regali e “pianse pubblicamente
nella Chiesa il suo peccato... e con lamenti e lacrime invocò il
perdono”, ci informa Ambrogio, mentre Agostino ricorda: “Fece
penitenza con tale impegno che il popolo in preghiera per lui
ebbe più dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore
che timore nel saperla sdegnata per la loro colpa” (La città di
Dio).
Teodoreto di Ciro, vescovo e storico bizantino del V secolo,
strumentalizzò questo episodio ad esclusivo vantaggio di
Ambrogio, trasformando Teodosio in un umile servitore di Dio:
“Quando l’imperatore venne a Milano e come di consueto volle
entrare nel tempio sacro, (Ambrogio) fattoglisi incontro dinanzi
all’ingresso non gli permise di accedere all’atrio del tempio...
"Vattene da qui e non voler aggiungere nuova iniquità a quella che
hai commesso, ma accetta le catene della penitenza”.
Teodosio accetta una durissima penitenza: “E con le mani si
strappava i capelli e si percuoteva il volto, e con le lacrime che
versava inzuppava la terra, supplicando di ottenere il perdono”.
Il vescovo bizantino scriveva mezzo secolo dopo questi eventi
e doveva difendersi da Teodosio II, per cui non fece che
proiettare i suoi desideri di rivalsa su personaggi del passato
coi quali s’identificava. Ma tanto bastò perché questa versione
avesse la meglio in certi periodi, nei quali l’autorità vescovile
faticava a mantenersi indipendente da quella imperiale.
L’imperatore penitente per imposizione di un vescovo fece scalpore
in tutto l’ecumene romano: era la prima volta che l’imperatore, da
capo religioso qual era sempre stato, da rappresentante di Cristo in
terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi
per ricevere il perdono.
3.4 Ariberto d'Antimiano
Ariberto d'Antimiano
di Maria Grazia Tolfo
Sommario:
Il custode di S. Vincenzo di Galliano
Arcivescovo di Milano
I provvedimenti contro il nicolaismo
La rivendicazione della supremazia ambrosiana
La traslazione di S. Giovanni Buono
Il culto di S. Satiro
Gli eretici di Monforte
La fondazione di S. Dionigi
La ribellione dei valvassori
La Constitutio de feudis
Il carroccio
Lo scontro con Lanzone da Corte
L'esilio a Monza
La morte
Il custode di S. Vincenzo di Galliano
Ariberto nacque intorno al 970-980 da Gariardo (figlio di Wipaldo) e
da Berlinda; la famiglia possedeva, oltre a beni nel territorio
bergamasco, anche numerose corti in Brianza, tra cui quella di
Antimiano (o Intimiano o Antegnano) presso Cantù, dalla quale
originava, la corte di Calco, il castello di Giovanico (Vighizzolo
di Cantù), la Curia Picta (Corbetta), un castello nella corte di
Merate (sul quale nel Settecento venne costruito palazzo
Prinetti) e numerose altre terre.
Nel 998 Ariberto era suddiacono della Chiesa milanese; il 2 luglio
1007 riconsacrava la basilica di S. Vincenzo a Galliano (Cantù),
della quale era custode, con le reliquie di
S. Adeodato,
supposto figlio di S. Agostino (in realtà un sacerdote morto nel
525 e scambiato per il santo in seguito a un'errata
interpretazione della lapide sepolcrale).
La basilica venne
rifatta per rialzare il presbiterio onde ricavare una cripta nella
quale deporre i corpi dei santi; ne conseguì l'adattamento
dell'abside, che fu decorata con affreschi, tra i quali figura lo
stesso Ariberto che dona il modello della Chiesa. Dopo il 1018
Ariberto farà costruire accanto alla basilica un battistero a due
piani, un unicum architettonico.
Arcivescovo di Milano
Quando il 29 marzo 1018 Ariberto fu consacrato arcivescovo di
Milano col placet dell'imperatore Enrico II, si era appena
consumata una tragedia nazionale che aveva visto
protagonista Arduino d'Ivrea, incoronato a Pavia nel 1002 dai
feudatari italiani e dal clero riformato cluniacense,
contrapposto ad Enrico II di Sassonia, sostenuto dai
vescovi-conti e incoronato a Pavia dall'arcivescovo di Milano
nel 1004. Arduino era il rappresentante della feudalità laica
italiana che voleva abolire la feudalità religiosa e restituire alla
nobiltà guerriera il diritto ad eleggere il proprio re. Egli stesso si
faceva chiamare re dei Longobardi. Vinse invece Enrico II, che
nel 1014 fu incoronato imperatore a Roma, mentre Arduino si
ritirava nell'abbazia di S. Benigno di Fruttuaria nel Canavese
(le sue ceneri dal castello di Aglié vennero trasferite nel XVIII
secolo nella cappella del castello di Masino).
Ariberto parteggiava ovviamente per Enrico II e approfittò dei nuovi
orientamenti politici di Pavia per assestare un colpo al suo
vescovo, il più temibile concorrente al primato dell'arcivescovo
milanese.
I provvedimenti contro il nicolaismo e il concubinato
Nell'autunno 1019 Ariberto partecipò alla dieta che i feudatari italiani
tennero a Strasburgo alla presenza di Enrico II e incontrò
nuovamente l'imperatore il 6 dicembre 1021 a Verona, insieme
al comes comitatis mediolanensis Ugo.
Nell'agosto 1022 in un concilio di Pavia, presieduto da papa
Benedetto VIII e presente l'imperatore, l'arcivescovo milanese
pretese di sottoscrivere subito dopo il papa i provvedimenti
contro i chierici sposati e concubinari, in ciò motivato non solo
da motivi religiosi: i diffusi matrimoni dei chierici, i cui figli
ereditavano i benefici ecclesiastici, contribuivano infatti a
depauperare il patrimonio della Chiesa. Eppure la storia gli
giocò un brutto tiro: Galvano Fiamma, cronista milanese
trecentesco, affermò che l'arcivescovo aveva una moglie di
nome Ussera, aprendo così presso gli ingenui storici locali un
dibattito sulla reale fede celibataria del nostro arcivescovo.
Useria, ricca matrona milanese, si era limitata a donare un suo
appezzamento fuori Porta Nuova per costruire il monastero di
S. Dionigi.
Ariberto si porrà comunque da subito come autentico sostenitore
della vita canonicale, favorendo la fondazione di canoniche e di
cripte per l'officiatura notturna del clero. Nel 1034 nel
testamento redatto prima della sua partenza per la Borgogna
concesse ampie donazioni al clero cardinale perché si
disponesse "ad reficiendum in canonica ipsius sancte Marie
sicut illorum ordo et consuetudo esse debet". Nel 1042 legava
vari beni ai canonici decumani della cattedrale, con l'obbligo
della mensa comune; dotò infine di cripte alcune chiese, tra cui
quella di S. Giovanni in conca è a Milano l'unica superstite.
La rivendicazione della supremazia ambrosiana
Alla morte di Enrico II
nel 1024 la feudalità italiana tentò
nuovamente di imporre scelte autonome per la corona italiana.
Secondo Rodolfo il Glabro c'era in Italia un partito favorevole a
Ugo, figlio di re Roberto il Pio di Francia. A Pavia, ad esempio,
in una rivolta popolare abbastanza irrazionale furono abbattuti i
resti del palazzo imperiale, cosa che mise in cattiva luce la
vecchia capitale agli occhi del nuovo imperatore. Quando
Corrado II intimò ai Pavesi di ricostruire il palazzo com'era,
perché avevano distrutto un bene imperiale, i Pavesi si dissero
disposti ad erigerne uno purché fuori dalle mura, aggravando
così la loro posizione.
Ma Ariberto non aveva dubbi e corse a Costanza a omaggiare il re di
Germania Corrado II il Salico, nipote per parte materna di
Ottone I, ottenendo in cambio l'abbazia di Nonantola e il diritto
di nominare il vescovo di Lodi.
Approfittando dell'opposizione pavese, poté guadagnare altro
terreno per il riconoscimento di Milano come nuova capitale e
invitare Corrado a farsi incoronare re d'Italia a Milano invece
che a Pavia, come già aveva fatto Ottone I. L'incoronazione
ebbe luogo in una data imprecisata ma collocabile nei primi
mesi del 1026 nella basilica di S. Ambrogio e forse una
seconda volta anche a Monza con la corona ferrea, come studi
più recenti sembrano confermare.
Sensibile ai grandi cerimoniali, Ariberto riaprì la tomba di S.
Ambrogio, che rivestì con nuovi tessuti serici orientali (Museo
della basilica), e quella di S. Satiro. L'imperatore da parte sua
donò all'arcivescovo la sua veste da cerimonia in lino ricamato,
con al centro la propria effige. Per l'occasione Ariberto aveva
fatto decorare con affreschi i sottarchi intorno al presbiterio e
forse anche qualche parete, mentre tra i doni dell'imperatore si
trovavano forse l'aquila e il Cristo in trono oggi sull'ambone.
Il fiero arcivescovo proseguì nella sua missione, accompagnando
Corrado II a Roma per l'incoronazione imperiale sua e della
moglie Gisela nel giorno di Pasqua (26.3.1027). Qui scoppiò
una lite tra Ariberto e l'arcivescovo di Ravenna per chi doveva
tenersi alla destra dell'imperatore. Con Ravenna i motivi di lite
erano ben più importanti, perché l'arcidiocesi di Milano stava
perdendo le diocesi dell'Emilia a favore di Ravenna. Corrado
confermò che il posto spettava all'arcivescovo di Milano, dal
momento che aveva il privilegio dell'incoronazione regia,
mentre a destra del papa doveva sedere il patriarca di Aquileia.
Di ritorno a Milano, Ariberto si sfogò contro la "superbia"
dell'arcivescovo di Ravenna e inoltre, per suffragare la pretesa
egemonia della Chiesa ambrosiana, produsse un falso
documento che attestava la fondazione della Chiesa milanese
da parte dell'apostolo Barnaba, quindi prima ancora della
fondazione romana da parte di Pietro. Il falso si chiama
Querimonia beati Benedicti e sarebbe il presunto discorso
pronunciato nel 711 dal vescovo di Milano Benedetto per
lamentare la sottrazione della diocesi di Pavia alla giurisdizione
metropolitica milanese. I diritti del presule milanese vengono
sostenuti in base al fatto che S. Barnaba aveva stabilito che
tutte le chiese dell'Italia settentrionale dovevano essere
soggette a quella di Milano.
Sempre nel 1027 Ariberto nominò il vescovo di Lodi, che prima era di
nomina imperiale e nella scala gerarchica era diretto vassallo
dell'imperatore, mentre ora veniva a essere vassallo
dell'arcivescovo di Milano, con tutte le conseguenze. Milano
avrebbe avuto così diretto accesso al Po e ai suoi affluenti
nella Lombardia sud-orientale, un guadagno enorme per i
mercatores protetti dall'arcivescovo. Per imporre Ambrogio di
Arluno come vescovo Ariberto non mancò di partecipare
personalmente all'assedio di Lodi. Numerose terre del
Lodigiano, soprattutto intorno a Codogno e lungo l'Adda, il
Lambro e il Sillaro confluirono sotto il possesso della Chiesa
milanese.
La traslazione di Giovanni Buono
Anche la Chiesa genovese con le pievi di Recco, Rapallo, Uscio e
Camogli, mostrava segni d'insofferenza verso quella
ambrosiana. Bisognava insistere sulla legittimità del controllo e
Ariberto fece cercare i resti del genovese Giovanni Buono,
l'ultimo vescovo milanese in esilio a Genova, al quale si
attribuiva il rientro a Milano del clero cardinale. Venne traslato
da Genova a Milano nella chiesetta di S. Michele subtus
domum accanto all'arcivescovado. Ariberto poté sottolineare
che il vescovo, la cui nascita è contesa tra Camogli e Recco,
aveva lasciato i suoi beni distribuiti nelle suddette pievi alla
Chiesa ambrosiana, che ne rivendicava legittimamente il
controllo.
Il culto di S. Satiro
In occasione dell'incoronazione in S. Ambrogio di Corrado II nel
1026 Ariberto aveva dato una sistemazione anche alla
sepoltura di S. Satiro e prelevato un frammento della sua
scapola destra. Da quando le reliquie di san Vittore erano state
trasferite nella basilica di S. Vittore al corpo, il piccolo sacello
non si era chiamato più di S. Vittore in ciel d'Oro ma era stato
intitolato al fratello del nostro patrono e posto sotto la diretta
protezione dei monaci di S. Ambrogio. Nel 1022 Pietro,
arciprete e cimiliarca di S. Maria Maggiore, aveva lasciato i
suoi beni divisi tra S. Vittore al Corpo e il sacello di S. Satiro
presso S. Ambrogio; i fondi per S. Satiro dovevano servire ai
monaci per i festeggiamenti del 17 settembre in onore del
santo, quando dovevano offrire ai canonici ordinari della
cattedrale e ai decumani di S. Ambrogio un pranzo e vari
omaggi. La disposizione aveva infuriato i monaci ed è qui che
entra in campo Ariberto. Per pareggiare i conti, si offrì di
riparare la basilica anspertiana dedicata a S. Satiro all'interno
della città e dipendente dai monaci di S. Ambrogio, non
mancando però di lasciare nel suo testamento dei fondi per il
mantenimento dei canonici di S. Ambrogio.
La consacrazione della rinnovata basilica di S. Satiro con parte delle
reliquie prelevate da Satiro avvenne il 16 ottobre 1036. Oltre
alla sistemazione della cella e al nuovo programma decorativo,
Ariberto aveva rifatto la torre campanaria, mentre lo
xenodochio di Ansperto era andato definitivamente perso.
Sempre nel rilancio del culto di S. Satiro commissionò per la
cattedrale il coperchio della custodia dell'Evangelario, oggi
nota come Pace di Ariberto, una bella opera di oreficeria nella
quale compare S. Satiro accanto al fratello S. Ambrogio, e un
Sacramentario miniato, detto anch'esso di S. Satiro.
Gli eretici di Monforte
Nel 1028, mentre Ariberto riaffermava il suo potere sulla sua
arcidiocesi, venne in contatto con il maggior gruppo eretico
italiano nel castello di Monforte vicino ad Asti. Ce ne informano
Landolfo il Vecchio e Rodolfo il Glabro. Sull'argomento la
letteratura è enorme e non mancano i siti dedicati
appositamente a queste prime vittime italiane della crociata
anti-catara. Noi ci limitiamo a considerazioni che riguardano
più da vicino il nostro arcivescovo.
Presi e trascinati a Milano gli eretici, il clero aprì un processo per
cercare di riportarli in seno alla Chiesa. Ma la loro presenza a
Milano fu sufficiente a diffondere il loro credo, come in un
potente contagio. Scrive Landolfo il Vecchio:
"Questi nefandissimi, che non si sapeva neppure da qual parte del
mondo fossero calati in Italia, ogni giorno privatamente
seminavano falsi insegnamenti derivati da fallaci interpretazioni
delle sante scritture ai contadini che in Milano erano convenuti
per vederli e conoscerli".
Per porre fine a questa pericolosa contaminazione, piantata da una
parte una croce e dall'altra un rogo, fu imposto loro di scegliere
tra l'uno e l'altro; restii ad ogni abiura, molti preferirono gettarsi
nelle fiamme. Secondo Rodolfo il Glabro pare che Ariberto non
fosse del tutto convinto di condannarli al rogo e che la
responsabilità maggiore ricadesse sui militi dell'arcivescovo,
ma dato il piglio autoritario ed assolutistico dell'arcivescovo è
difficile credergli.
Secondo Landolfo il Vecchio, questi eretici lasciarono un segno
indelebile a Milano, dove sarebbero stati posti nel sobborgo
ancora oggi detto di Monforte.
La fondazione di S. Dionigi
La sua fondazione più prestigiosa di Ariberto fu il monastero che
volle dedicare al vescovo milanese S. Dionigi. Sorto accanto a
una cappella paleocristiana con funzioni cimiteriali, il
monastero ospitava dodici monaci e disponeva di uno
xenodochio. Il terreno gli venne donato dalla nobile Useria,
immortalata nella strada Usera (oggi Isara), che la malalingua
di Galvano Fiamma fece diventare la moglie dell'arcivescovo.
Ariberto dotò il monastero coi suoi beni personali che si trovavano a
Giovenico, Cucciago, Barzago, Castegnate, Carugate e
Verzago, e con altri beni che sottrasse al monastero milanese
di S. Vincenzo in Prato.
Nel 1032 depose i corpi di Dionigi ed Aureliano nella vasca di porfido
(labrum) oggi in Duomo. Si trattava di un sarcofago ad
esclusivo uso imperiale, molto probabilmente appartenente a
Valentiniano II, quindi è indiscutibile che Ariberto lo abbia preso
dal mausoleo imperiale che venne disfatto per costruire il
monastero di S. Vittore al Corpo.
Nel monastero venivano distribuite giornalmente 8 moggia di fave e
8.000 pani, nonché abiti e denaro. Per la cottura dei legumi
l'arcivescovo aveva messo a disposizione cinque suoi cuochi,
mentre per cuocere l'enorme quantità di pane si "convenzionò"
con cinque fornai.
La ribellione dei valvassori
I guai seri cominciarono nel 1034, quando Ariberto dovette lasciare
la città, duramente provata, per adempiere ai suoi doveri di
vassallo imperiale e combattere in Borgogna per Corrado II
contro Oddone di Champagne. In questa occasione redasse
un testamento nel quale sono citate le chiese e i principali
monasteri femminili e maschili della città, uno degli elenchi più
antichi a nostra disposizione. E' in questo frangente che S.
Colombano venne donato dall'arcivescovo alla Chiesa
milanese e che vengono citati i beni di Ariberto.
La sua assenza durò solo pochi mesi, ma era da poco tornato
quando a Milano e nel resto dell'Occidente scoppiò la ribellione
dei feudatari minori o valvassori. Mentre Ariberto veniva
sostenuto dal popolo, riconoscente per le sue elargizioni
durante la carestia, la feudalità minore rivendicava gli stessi
diritti dei vassalli all'inalienabilità ed eredità dei feudi. Lo
scontro avvenne nel 1036 a Campomalo; i valvassori milanesi
erano appoggiati da una Lega con Lodi, Pavia e Cremona e
l'esito della battaglia fu pesante per entrambi gli eserciti.
Nel gennaio 1037 Corrado II era a Milano. Venne accolto da Ariberto
con gran fasto, ma il giorno dopo scoppiò un tumulto cittadino e
Corrado II si spostò a Pavia, da dove aprì un giudizio contro
l'operato di Ariberto. L'arcivescovo non ritenne di doversi
giustificare e così facendo suscitò la collera dell'imperatore,
che ne ordinò l'arresto. Ariberto, dopo l'imperatore, figurava
come la personalità forse di maggior prestigio in Italia e le
milizie italiane si rifiutarono di eseguire gli ordini. Dovettero
intervenire i tedeschi al seguito di Corrado, che trasportarono
Ariberto in una rocca nel Piacentino. Per i milanesi fu una
catastrofe e organizzarono l'evasione del loro presule.
Ascoltiamo dalla voce di Landolfo la cronaca della vicenda:
"Tutti i cittadini milanesi, maggiorenni e minorenni, i sacerdoti, i
chierici, le nobili matrone e le monache, gettati da parte tutti gli
ornamenti, aspersi di cenere e vestiti di cilicio, visitavano i corpi
dei Santi supplicando Iddio con digiuni, orazioni, litanie e
frequenti vigilie. E mentre facevano lunghi digiuni protratti fino
a notte, davano poi il cibo, che dovevano mangiare, ai poveri e
se ne stavano con triste volto e animo dolente come se fossero
loro morti dei figli e come se ogni avere fosse stato loro portato
via da uomini iniqui. I sacerdoti poi ed i monaci con profondi
sospiri e grandi lamenti, incessantemente s'affaticavano a
celebrare ogni giorno Litanie e piedi nudi e a supplicar Dio e S.
Ambrogio e tutti i Santi con grandi uffici divini".
La Constitutio de feudis
Dopo due mesi di prigionia, Ariberto riuscì a tornare in aprile a
Milano. In previsione dell'attacco imperiale si rinforzarono le
mura e forse sulla Porta Romana si pose la lapide
encomiastica di Roma secunda:
Dic homo qui transis dum portae limina tangis
Roma secunda vale Regni decus imperiale
Urbs veneranda nimis plenissima rebus opimis
Te metuunt gentes et tibi flectunt colla potentes
In bello Thebas in sensu vincis Athenas.
Landolfo il Vecchio riferisce che l'arco trionfale del IV secolo fuori
Porta Romana venne adattato a difesa e sopralzato in modo da
ospitare dei soldati.
Ariberto donò alla chiesa di S. Dionigi, appena rifatta e quindi da
riconsacrare, un Crocefisso che lo ritraeva ai piedi del Cristo
col titolo "Aribertus indignus archiep(iscopu)s", dove "indegno"
era polemicamente riferito alla scomunica che gli aveva inferto
papa Benedetto IX, un ragazzino di 18 anni (eletto a 12),
incapace perfino di rimanere a Roma.
Era la prima volta che un Crocefisso veniva posto sopra l'altare
come parte integrante della celebrazione della Messa, ma
Ariberto era un grande innovatore.
Il 19 maggio 1037 l'imperatore Corrado II sferrò l'attacco alla città. E'
ancora Landolfo che narra l'assedio:
"Come ebbe lanciato all'assalto le sue schiere di fanteria e di
cavalleria, chi per amore dell'imperatore, chi per timore, chi per
i doni e le ricompense promesse, chi per speranza di preda, chi
allettato dalle ricchezze della città, chi imbevuto d'ira e di odio
verso la città come lo comportava la natura di questa razza;
tutti insomma si scagliarono in combattimento con rumore e
grida inaudite. Da principio rimasero i cittadini alquanto atterriti
e lanciando da vicino aste, frecce e altre armi da offesa,
incautamente colpirono molti dei nostri. Ma i milanesi, come
erano stati istruiti, dalle porte e dalle serraglie, dalle antiporte
( o torri fortemente munite dette anteportali, per essere poste
davanti alle porte a chiudere l'ingresso ai nemici), dalle 310
torri murali (che nel circuito della città tanto dense erano che
tutti coloro che v'erano a guardia potevano parlarsi come
fossero vicini) e presso l'arco trionfale su cui Ariberto aveva
spiegata la bandiera e difeso con valorosi cavalieri e munito
mirabilmente d'armi, munizioni e ordigni da guerra, mossero
incontro ai nemici virilmente pugnando".
L'assedio si protrasse per dieci giorni, durante i quali Benedetto IX, a
Cremona con l'imperatore, confermava la scomunica di
Ariberto. Il 28 maggio 1037 Corrado II emanava la famosa
Constitutio de feudis ovvero l'Edictum de beneficiis Regni italici,
che stabiliva l'ereditarietà dei feudi minori e la possibilità per i
valvassori di appellarsi al potere centrale sovrano. Nessun
vassallo avrebbe più perso i suoi benefici senza colpa
accertata da un tribunale di suoi pari, ricorrendo in ultimo
appello all'imperatore. Per i valvassori era invece sufficiente
discutere la causa davanti al vicario imperiale.
Ariberto rispose inviando suoi messi ad Oddone di Champagne,
l'antico nemico di Corrado, per offrirgli la corona d'Italia.
Sfortunatamente per Ariberto, Oddone nel frattempo era morto,
ma l'imperatore venne a conoscenza del tentativo e riaprì il
fronte contro Milano. Il 26 marzo 1038 Ariberto venne deposto
e sostituito dal canonico Ambrogio, contro il quale si scatenò
l'ira dei cittadini, che devastarono i suoi beni e le case che
Ambrogio possedeva a Milano. Nell'estate 1038 Corrado II era
rientrato in Germania, ma aveva lasciato ai suoi vassalli italiani
il compito di annientare Ariberto.
Il carroccio
E' in questo contesto che, secondo la cronaca di Landolfo il Vecchio,
Ariberto fece scendere in campo il carroccio, sul cui pennone,
secondo la cronaca di Arnolfo, si trovava una croce dipinta:
"Allora fece in tal modo un segnale che doveva precedere i suoi che
stavano per combattere: una lunga trave, grande quanto un
albero di nave, si ergeva in alto fissata a un robusto carro e
portava in cima un pomo d'oro con due lembi pendenti di lino
bianchissimo; a metà dell'asta la venerando croce dipinta con
l'immagine del Salvatore dalle braccia aperte guardava dall'alto
la schiera di armati tutto intorno, affinché - qualunque fosse
l'esito della guerra - alla sua vista fossero confortati".
E' la prima volta che compare in battaglia un simbolo così forte
intorno al quale coagulare lo spirito combattivo dei milanesi.
Non sappiamo come venne usato il carroccio da Ariberto, ma
possiamo intuirlo dal contesto. Il carroccio è simbolicamente
affine all'arca dell'alleanza e doveva garantire l'invincibilità
dell'esercito che la trasportava, motivo per cui la perdita del
Carroccio era considerata una tragedia collettiva. Il suo
carattere sacrale è evidenziato anche dal fatto che si
presentava come un altare mobile sul quale svettava il
Crocefisso e che venne custodito nella cattedrale di S. Maria
Maggiore.
Le cose si risolsero diversamente: Corrado morì per un'epidemia di
peste il 4 giugno 1039, lasciando suo erede il ventiduenne figlio
Enrico III. Appena venne incoronato re di Germania, Ariberto gli
offrì la corona d'Italia, che Enrico accettò con entusiasmo, visti i
problemi che l'arcivescovo aveva creato in Italia. Si risolse così
anche la scomunica di Ariberto e l'arcivescovo sostituto
Ambrogio rinunciò alla sede milanese in cambio di quella
bergamasca, insieme all'autorità comitale nel territorio di
Bergamo.
Lo scontro con Lanzone da Corte
A Milano in realtà era scoppiata la rivolta dei mercatores, il ceto
emergente, che si opponeva sia ai capitani che ai valvassori.
La guidava il notaio e giudice di palazzo Lanzone da Corte.
Nella primavera del 1040 Ariberto dovette lasciare la sua amata città,
che si era eletta a repubblica, e rifugiarsi nell'imperiale Monza,
mentre la nobiltà maggiore e minore alleate stringevano per tre
anni d'assedio Milano. Verso la fine del 1043 Lanzone chiese
all'imperatore Enrico II il suo intervento a favore dei mercatores
e l'imperatore gli promise un presidio di 4000 cavalieri, in
attesa che arrivasse col grosso dell'esercito a rimettere ordine
in città. Nel timore che le truppe imperiali potessero creare
danni ancor maggiori alla prostrata città, Lanzone si risolse a
far rientrare i nobili in città, ponendo fine all'esperimento
repubblicano.
L'esilio di Monza
In questo ribaltamento politico, l'unico a rimanere definitivamente
escluso fu proprio l'arcivescovo Ariberto, che non poté più
rientrare a Milano. Dalla sua nuova sede Ariberto redasse un
nuovo testamento a favore della canonica a uso dei decumani
della cattedrale.
Ma fu soprattutto alla basilica di Monza che dedicò la sua attenzione,
tentando di farla assurgere a nuovo centro gravitazionale
religioso: il 6 luglio 1042 Ariberto rinvenne in una cassettina di
pietra le reliquie di S. Giovanni Battista, donate da papa
Gregorio Magno alla regina Teodolinda. Per l'occasione fece
dono di un Evangelario alla basilica, perso in età napoleonica.
La morte
Ormai la forte fibra dell'indomito arcivescovo era compromessa. Nel
dicembre 1044 Ariberto si ammalò gravemente e nel suo
testamento incaricò i canonici di Monza di cantare ogni giorno
tre messe da morto per l'anima sua, dei genitori e per
l'imperatore Enrico III, fedele oltre la morte. Spirò il 16 gennaio
1045 a Milano, dove aveva ottenuto di essere trasportato. Il
suo corpo venne sepolto, come lui desiderava, in un'arca a S.
Dionigi, fra i due santi da lui rinvenuti.
Dieci mesi dopo, i monaci di S. Dionigi, seccati per le usurpazioni dei
beni lasciati loro in eredità da Ariberto, decisero di esporre la
salma all'omaggio dei fedeli, magari confidando in qualche
miracolo che avrebbe trasformato il monastero in un santuario.
Aprendo la cassa i monaci ebbero la prima sorpresa: Ariberto
si presentava ancora intatto. Meno chiari i motivi
dell'insurrezione popolare che ne seguì, forse per timore che il
corpo di Ariberto venisse trafugato.
Il 27 marzo 1783 fu aperto il sarcofago di serizzo contenente le
spoglie dell'arcivescovo e fu traslato in Duomo, dove ancora
oggi si trova.
Bibliografia
Le gesta di Ariberto
Annoni C., Monumenti della prima metà del sec. XI spettanti all'arcivescovo di
Milano Ariberto da Intimiano, Milano 1872
Beat Brenk, La committenza di Ariberto d'Intimiano, in Millennio ambrosiano II,
pp. 124-155
L'età comunale, Catalogo della mostra, pp. 288-89
Castiglione A., Antichità della chiesa di S. Dionigi, Milano 1617
Landolfo Seniore, La cronaca milanese, traduzione italiana con note storiche
di Alessandro Visconti, Milano 1928
Romussi C., Milano attraverso i suoi monumenti, op. cit., pp. 163-164
Storia di Milano, III, pp. 24-46, 47-71, 72-92, 93-110
Gli eretici di Monforte
Landolfo Seniore, La cronaca milanese, op. cit. cap. XXVII
Manselli R., L'eresia del Male, Napoli 1980, pp. 161-165
Rodolfo il Glabro, Storie dell'anno Mille
Violante C., Studi sulla cristianità medievale, Milano 1972, pp. 98-100
Volpe G., Movimenti religiosi e sette ereticali, Firenze 1977, pp. 20, 24
3.5 Anselmo da Baggio
Anselmo da Baggio
di Maria Grazia Tolfo
Gli esordi
La casa-forte in via del Lauro
A ridosso della Porta Cumana aperta nelle mura romane, al Ponte
Vetero, si estendevano fino al XIII secolo le proprietà dei da
Baggio. I possessi di questa potente famiglia non si limitavano
all'interno della città, ma occupavano quella che veniva
chiamata la brera del Guercio, cioè l'attuale via Brera, nella
quale si sperimentò quel fenomeno di organizzazione
religiosa del lavoro dalla quale ebbe origine l'ordine degli
Umiliati. In un documento del 1036 la braida o brera risulta già
abitata dai fratres de Guercio.
Più che a una casa, dobbiamo pensare a una turrita rocca cittadina,
che occupava l'area compresa tra gli attuali numeri civici
1-5. La rocca seguì la sorte di tutte le altre fortificazioni urbane
quando venne smantellata dalle truppe imperiali dopo la
vittoria del Barbarossa.
Qui nacque da Arderico, negli anni Venti dell'XI secolo, Anselmo, il
primo dei da Baggio a entrare di prepotenza nella scena
internazionale come papa, col nome di Alessandro II.
Guerre civili a Milano per l'affermazione del Comune
L'adolescenza di Anselmo fu segnata da un endemico clima di
guerra civile.
Prima si ebbe la rivolta dei valvassori,
raggruppati nella Motta, decisi a veder riconosciuti i loro diritti
di eredità dei feudi. L'arcivescovo Ariberto d'Intimiano nel
1035 aveva reagito indicendo un eribanno contro i sovversivi
dell'ordine feudale, scontentando l'imperatore Corrado II, che
non voleva ulteriori problemi da risolvere in Italia. Nel 1039 lo
scontro era ancora aperto quando morì l'imperatore,
lasciando il figlio Enrico III di ventidue anni. La città insorse
contro l'arcivescovo, che nella primavera del 1040 fu costretto
a rifugiarsi a Monza, dove morirà nel 1045, assolutamente
refrattario alla comprensione dei tempi nuovi ed estraneo alla
repubblica che Lanzone aveva instaurato a Milano.
I rapporti tra la famiglia dei da Baggio e l'imperatore in questo
frangente furono improntati all'estrema fedeltà. Anselmo entrò
al servizio dell'imperatore in Germania e vi restò fino al 1053,
quando tornò a Milano. Suo fratello Adalardo sarà missus di
Enrico IV a Milano nel 1064.
La scuola con Lanfranco
Anselmo si considerò discepolo del famoso retore Lanfranco da
Pavia, ma non è chiaro quando e dove, perché le vicende
legate a questo personaggio sono piuttosto complicate.
Lanfranco nacque intorno al 997 a Pavia, da una famiglia di giudici
appartenenti all'ambiente del sacrum palatium. La formazione
dell'epoca si basava essenzialmente sull'oratoria, perché era
come oratore che lo studente doveva riuscire nella vita, nella
cancelleria imperiale o nella politica cittadina. L'istruzione
scolastica si basava quindi essenzialmente sulle arti
linguistiche del trivio: grammatica, logica e retorica e su solide
basi di lingua e letteratura latina.
Secondo il normanno Roberto da Mont Saint-Michel nel 1032
Lanfranco e il suo socius Guarnerio scoprirono a Bologna le
leges romanae. Lanfranco lasciò quindi l'Italia alla volta della
Francia e dopo il 1039 lo si trova come insegnante ad
Avranches, in Normandia, alle dipendenze di Mont St Michel,
dove era abate il suo concittadino Guglielmo Suppone, un
monaco proveniente dall'abbazia di S. Benigno di Fruttuaria
vicino ad Ivrea.
Nel 1042 Lanfranco decide di dedicarsi alla vita eremitica ed entra
nel monastero del Bec in Normandia, che otto anni prima il
nobile Herluin aveva fondato nelle sue terre presso Brionne. E
come Herluin aveva abbandonato la spada per dedicarsi alla
preghiera, così Lanfranco decise di farsi monaco,
accantonando l'eloquenza al servizio del potere temporale.
La regola del Bec era severissima, di pura mortificazione del corpo: i
trentacinque monaci che appartenevano alla comunità non
disponevano di entrate sicure e vivevano di pane nero e
verdure del loro orto, in regime semi-eremitico. Tre anni dopo
troviamo Lanfranco, l'ultimo arrivato, a ricoprire la carica di
priore, affiancando nella direzione del Bec l'abate Herluin.
Tutto ciò che sappiamo sulle consuetudini del Bec rimanda
alle Regole dell'abbazia di Fruttuaria, fondata da Guglielmo
da Volpiano, esportate a Fécamp dal suo discepolo prediletto
nonché nipote Giovanni di Ravenna e a Mont St Michel
dall'altro discepolo Suppone.
Nel 1059 Lanfranco aprì la scuola del Bec anche ai laici, per
ottenere fondi coi quali ricostruire il monastero. La fama del
suo insegnamento attirò allievi dall'Italia e dalla Germania, e
quando Lanfranco si spostò nel 1063 a Caen, gli affezionati lo
seguirono nella nuova sede, sebbene alla direzione della
scuola del Bec ci fosse il ben più prestigioso e moderno
Anselmo d'Aosta.
Ritorniamo ora al nostro Anselmo da Baggio. Una tradizione riporta
questa storia: quando Lanfranco si recò a Roma nel 1071,
Alessandro II si alzò per salutarlo, dicendo: "Honorem
exhibuimus, non quem archiepiscopatui tuo, sed quem
magistro cuius studio sumus in illis quae scimus imbuti,
debimus" (Tributiamo quell'onore che dobbiamo non alla tua
carica di arcivescovo, ma al maestro al cui studio siamo stati
formati). Anche la Vita Lanfranci ribadisce lo stesso concetto:
"Non ideo assurexi ei quia archiepiscopus Cantuariae est; sed
quia Becci ad scholam eius fui, et ad pedes eius cum aliis
auditor consedi" (Non mi alzai davanti a lui perché era
vescovo di Caen, ma perché fui a scuola da lui al Bec e
sedetti ai suoi piedi con altri come auditore).
Gli studiosi avanzano l'ipotesi che Anselmo possa essersi recato al
Bec tra il 1050 e il 1053, prima del suo rientro a Milano. La sua
partecipazione come auditor alle lezioni di Lanfranco può
essere considerata un privilegio, perché prima del 1059 la
scuola era riservata ai monaci interni e invece Anselmo nel
1050 era ancora laico. Fu inviato al Bec dall'imperatore? La
storia tace. Sappiamo comunque che Anselmo affiderà a
Lanfranco l'educazione di suo nipote Anselmo, che diverrà il
padre spirituale di Matilde di Canossa.
Il soggiorno in Germania
Possiamo ritenere che dal 1040 circa il giovane Anselmo si fosse
posto al servizio dell'imperatore Enrico III in Germania, dove
rimase fino al 1053 circa.
La figura di questo imperatore si presenta a dir poco come ambigua:
da una parte abbiamo il grande sostenitore della
moralizzazione della Chiesa attraverso la lotta alla simonia e
al concubinato, la repressione della nobiltà romana che
imponeva antipapi, il sostegno alla riforma promossa dai
Benedettini di Cluny contro il sistema delle nomine religiose. A
fronte di questa che sembrerebbe un'opera di sostegno al
potere spirituale, si ha la sua continua ingerenza nelle nomine
di religiosi - non sempre in linea con la riforma - e nelle
frequenti deposizioni. Il papa sembra essere un suo
dipendente.
Un caso emblematico di questa sua condotta fu quello che riguarda
l'elezione del successore di Ariberto nell'episcopato milanese.
Il clero e l'assemblea cittadina avevano selezionato quattro
candidati canonici diaconi, che andarono in Germania con
un'ambasceria. Al di là di ogni previsione, Enrico III ignora i
candidati e nomina a sorpresa il prete Guido da Velate, che
faceva parte della scorta. Guido, appartenendo alla nobiltà
minore, non avrebbe avuto diritto di accedere all'alta carica.
Secondo Landolfo, l'imperatore Enrico aveva già conosciuto
Guido che gli aveva reso dei servigi (di spionaggio) durante
l'episcopato di Ariberto.
E' difficile capire il motivo di una scelta così provocatoria per i
Milanesi, tanto più che, accantonata
la controversa
questione della liceità del matrimonio per i preti, che Guido
discusse con successo nel maggio 1050 davanti a papa
Leone IX in Laterano, resta sempre enigmatica la scelta di un
personaggio anonimo, che non aveva aderito neppure alla
riforma religiosa. A meno di non voler considerare Guido un
agente dell'imperatore, al di là della sua estrazione sociale.
Enrico intervenne a Roma nel 1046 per sanare lo scisma che
vedeva eletti contemporaneamente tre papi. Forte dei poteri
conferitigli dal Privilegio ottoniano, risolse lo spinoso problema
deponendoli tutti e tre ed eleggendo al loro posto il vescovo di
Bamberga, Clemente II, un suo amico di indubbia integrità
morale e religiosa, che provvide a conferirgli l'ambita corona
imperiale.
Altra caratteristica del governo di Enrico III è la sua alleanza coi
nuovi protagonisti dello scacchiere internazionale, i Normanni.
Per riprendere la penetrazione in Italia meridionale contro i
ducati longobardi e i presidi bizantini, Enrico legittima gli
insediamenti dei Normanni in Campania e in Puglia. Anche
qui si può notare l'ambiguità della sua politica: da un lato
l'appoggio ai Normanni, che invadevano le terre pontefice,
giungendo a far prigioniero Leone IX, dall'altro la sua pretesa
protezione del papato. O forse era lungimiranza, perché nel
1059 con papa Niccolò II si ebbe il Trattato di Melfi che
riconosceva i Normanni in Italia vassalli della Chiesa e
concedeva loro il ducato di Sicilia, ancora sotto la
dominazione araba.
Non sono chiari neppure i rapporti che l'imperatore intrattenne col
duca di Normandia, Guglielmo il Bastardo. E qui ci
riallacciamo alla vicenda della visita di Anselmo da Baggio al
Bec in un periodo in cui era al servizio della corte imperiale.
Ritorno a Milano
Anselmo torna a Milano nel 1053 come emissario imperiale. La
nobiltà milanese si sta riavvicinando all'imperatore e la città
diverrà in breve uno dei capisaldi della politica italiana di
Enrico III.
Anselmo è ancora laico e uno dei primi
avvenimenti noti al suo riguardo è nel 1054 l'occupazione,
insieme ai fratelli, della pieve di Cesano, presso Baggio, ai
danni del monastero di S. Vittore.
La chiesa di S. Ilario
Tra il 1055 e il 1056 Anselmo fonda l'oratorio di S. Ilario presso la
dimora che i da Baggio avevano nella via publica, oggi via
Lauro, quasi di rimpetto all'arco quadrifronte di Giano,
trasformato in chiesa di S. Giovanni alle Quattro facce, pure in
loro possesso.
La dedicazione a S. Ilario può essere letta in relazione ai rapporti
intrattenuti da Anselmo con l'ambiente francese. Ilario di
Poitiers fu esiliato insieme a Eusebio di Vercelli da Costantino.
La sua agiografia narra che venne sostenuto dal vescovo di
Milano Protaso e venne adottato come esempio contro
l'arianesimo da S. Ambrogio. Può essere forse indicativo che
nei possessi dei da Baggio esistesse un'altra chiesa, di
fondazione longobarda o carolingia, che forse proprio nell'XI
sec. venne intitolata al vescovo di Vercelli. La chiesa di S.
Ilario venne distrutta nel 1789.
Contemporaneamente Anselmo fece una donazione per la
costruzione della chiesa di S. Apollinare a Baggio.
La festa di S. Maria Maddalena
Nella contrada del Lauro si festeggiava solennemente sin dal 1061 S.
Maria Maddalena, la santa prediletta dai cluniacensi. Le sue
reliquie erano custodite dall'inizio dell'XI secolo a Vézelay, in
Borgogna.
Oddone di Cluny scriveva nel IX sec.: "E' a buon diritto che Maria sia
qualificata la Stella del mare. Senza dubbio questo simbolo è
particolarmente adatto alla Madre di Dio, poiché attraverso il
parto virgineo il Sole di Giustizia ha brillato sul mondo. Ma lo
si può applicare anche a Maria Maddalena, che andò al
sepolcro munita di aromi e, per prima, annunciò al mondo lo
splendore della Resurrezione". Maria Maddalena incarna la
peccatrice pentita, colei a cui molto fu perdonato perché molto
aveva amato, l'apostolo degli apostoli, il primo testimone della
Resurrezione.
Vézelay era al tempo di Anselmo uno dei luoghi più importanti della
cristianità occidentale, meta di pellegrinaggio fino al 1279,
quando il culto si sposterà a Marsiglia, e punto di raccolta dei
pellegrini per Santiago di Compostella.
Data a quest'epoca il ms C 133 inf all'Ambrosiana, elaborato forse
nello scriptorium di S. Tecla, che contiene insieme ad altri testi
anche la Vita di Maria Maddalena.
I rapporti con Guido da Velate e la Pataria
Il 13 aprile 1055 venne eletto papa Vittore II, Gebardo vescovo di
Eichstadt, lontano parente di Enrico III.
L'anno dopo, in settembre, Anselmo da Baggio fu consacrato
ordinario del Duomo da Guido da Velate. Il 15 ottobre dello
stesso anno Guido e Anselmo si recarono a Goslar per il
solenne ricevimento tributato a papa Vittore II. In
quell'occasione Anselmo venne nominato dall'imperatore
vescovo di Lucca, al fine di controllare l'importante diocesi del
marchesato di Toscana, a capo del quale era il
conte-marchese Goffredo di Lorena.
In questa frettolosa elezione si è voluto vedere una mossa strategica
dell'arcivescovo Guido da Velate per allontanare Anselmo da
Milano e distoglierlo dall'appoggio che avrebbe potuto dare ai
Patarini. Secondo la storiografia sette-ottocentesca, a Natale
del 1056 Anselmo sarebbe tornato a Milano e qui con Arialdo
da Cucciago, Landolfo Cotta, canonico ordinario, e altri
riformisti avrebbe fondato una società, i cui aderenti si
obbligavano con giuramento a combattere in tutti i modi,
anche a rischio della vita, il concubinato del clero. Su questa
versione, derivata dal cronista Landolfo senior, esprimiamo
molte riserve, anche in base alla cronologia degli avvenimenti.
Agli inizi di dicembre Anselmo e Guido erano ancora insieme a
Vittore II alla corte di Goslar. Per essersi trattenuti tutti così a
lungo, si deve dedurre che le condizioni di salute del
trentanovenne sovrano non fossero buone e infatti Enrico III
spirò all'inizio di dicembre, lasciando un bambino di sei anni,
Enrico IV, sotto la tutela della madre Agnese e del vescovo di
Colonia Annone. Agnese, che era andata sposa nel 1043, era
figlia di Guglielmo il Grande, conte di Poitiers e duca
d'Aquitania. I due milanesi restarono alla corte tedesca fino al
12 febbraio 1057 (quindi a Natale difficilmente erano a Milano)
e dal 24 marzo 1057 datano gli atti di Anselmo come vescovo
di Lucca.
La prima predicazione di Arialdo di Cucciago contro il concubinato
risale al 1057 e i primi scontri al maggio di quel anno, del tutto
imprevisti.
Un vescovo molto diplomatico
Il 1057 fu un anno particolarmente difficile per Anselmo: il nuovo
incarico a Lucca, in maggio i violenti disordini patarini a Milano
contro l'arcivescovo Guido, la morte di papa Vittore in agosto.
Venne subito eletto col nome di Stefano IX Federico di Lorena,
abate di Montecassino, ma soprattutto fratello del temuto
marchese di Toscana Goffredo.
E' ovvio che, in assenza di una salda figura a capo dell'impero, il
controllo della sede romana passasse al suo rivale politico in
Italia. Forse la scelta scontentò l'imperatrice Agnese, che
considerò traditore Anselmo per non essersi opposto: il fatto è
che a partire da questo momento il vescovo di Lucca dovette
fare i conti con l'ostilità dell'imperatrice. In effetti Anselmo
divenne, insieme a Pier Damiani, a Desiderio di Montecassino
e a Ildebrando di Soana, uno degli uomini di fiducia del papa.
In ottobre 1057 il patarino Arialdo dovette presentarsi davanti a papa
Stefano per esporre le ragioni della rivolta contro l'arcivescovo
Guido. Anselmo dovette essere presente, insieme a
Ildebrando di Soana, per ascoltare le accuse di Arialdo,
perché il papa li inviò come suoi legati in dicembre a Milano.
Qui Anselmo trovò la sua città in preda alla guerra civile; non
prese però alcuna misura disciplinare contro Guido e i due
legati procedettero per la Germania.
La situazione politica stava attraversando un periodo di forti
incertezze, quando in marzo del 1058 morì di malaria a
Firenze papa Stefano. Mentre a Roma l'aristocrazia, stanca
dei papi tedeschi, eleggeva papa il vescovo di Velletri col
nome di Benedetto X, a Milano si riaccendevano più forti gli
scontri tra i patarini e il clero tradizionale. Solo alla fine di
dicembre i cardinali, riuniti a Siena, riusciranno a eleggere e
imporre Gerardo di Borgogna, vescovo di Firenze e candidato
di Ildebrando di Soana, col nome di Niccolò II. E' la seconda
candidatura dell'ambiente del marchese di Toscana e il
disappunto dell'imperatrice Agnese aumenta, tanto più che il
concilio laterano riunitosi nel 1059 sgancia l'elezione del papa
dall'approvazione imperiale. Viene tradotta in pratica la
dottrina agostiniana della supremazia della chiesa celeste su
quella terrena. Agnese convoca una dieta a Worms, che
invalida la risoluzione conciliare e contesta l'autorità del papa
in materia.
Poi il papa affronta la questione patarina. Il 13 aprile 1059 papa
Niccolò tiene a Roma un concilio nel quale si intima ai vescovi
di rimuovere i diaconi e i sacerdoti sposati e di deporre i
simoniaci. Vi partecipa ovviamente Guido da Velate coi suoi
vescovi suffraganei, che sottoscrivono le risoluzioni. Guido
ritorna a Milano accompagnato dai legati Anselmo da Baggio
e Pier Damiani e fa solenne promessa, sottoscritta dal clero
ordinario, di rinunciare alla simonia e al matrimonio. Guido
accetta anche di andare in pellegrinaggio a Roma o a Tours o
a Santiago di Compostella, sottomettendosi alla flagellazione,
imposta da Pier Damiani, che ne dà un'elaborata
giustificazione teologica, sostenendo che è la suprema
manifestazione dell'umiltà e dell'amore di Dio, un'imitazione
perfetta delle sofferenze di Cristo stesso. La cosa sembrava
risolta.
E invece no. Nell'aprile 1060 Arialdo denuncia nuovamente Guido,
accusandolo di non rispettare gli impegni presi, e a dicembre
Anselmo e Pier Damiani ritornano a Milano come legati. Fino
a questo momento l'atteggiamento di Anselmo non sembra
particolarmente severo nei confronti del suo antico alleato
Guido, né particolarmente favorevole ai patarini.
Fondazioni religiose di patrocinio vescovile
Appena assunta la carica vescovile, Anselmo iniziò la ricostruzione
della chiesa di S. Alessandro, la più antica chiesa lucchese
pervenuta fino ai nostri giorni con poche modifiche. La chiesa
è citata in un documento del 1059 come alle dipendenze di S.
Pietro in Vaticano. E' un edificio a pianta basilicale a tre
navate, con una cripta molto interrata, rifatta interamente su
una chiesa paleocristiana, della quale vennero riutilizzati
capitelli e colonne del IV secolo. Divenuto papa nel 1061,
Anselmo vi fece traslare il corpo di papa Alessandro I
(105-115). La possibilità che Anselmo avesse riconosciuto in
questo pontefice - almeno in base ai cataloghi - quelle doti
che lo avevano indotto a prenderne il nome come successore,
ci permette di spendere due parole anche su questa figura
risalente al paleocristianesimo.
Non esistono documenti storici che lo riguardino, ma solo la
tradizione che sottolinea l'importanza del suffragio col quale
Alessandro I venne eletto. Prima di lui il vescovo di Roma era
designato dal predecessore, ora gli elettori appartengono al
clero romano. Alessandro I era ben introdotto a corte, ma
questo non lo preservò nel 115 dalla decapitazione sulla
Nomentana, dove la tradizione poneva il suo corpo.
Cosa colpì Anselmo da Baggio nella vita tessuta intorno a questo
papa da indurlo ad assumerne il nome e a dedicargli una
chiesa? Si potrebbe vedere una relazione col sinodo
lateranense del 1059, proprio l'anno di dedicazione della
chiesa lucchese, nel quale papa Niccolò II stabilì che
l'elezione del papa, che fino ad allora seguiva le regole di ogni
altra elezione vescovile, fosse riservata solo ai cardinali
vescovi e sottoposta poi all'approvazione dei cardinali, preti e
diaconi, mentre al popolo non veniva riservato che un diritto di
acclamazione dell'eletto. Le elezioni papali venivano in tal
modo sottratte alle ingerenze dell'aristocrazia romana.
Nel 1060 vennero intrapresi i lavori di rifacimento del Duomo
intitolato a S. Martino, forse per ampliarlo. La consacrazione
ebbe luogo nel 1070 alla presenza della contessa Matilde di
Canossa, di sua madre Beatrice di Lorena e di ventitre
vescovi, quando
Anselmo era già stato eletto papa. La
cattedrale aveva una pianta basilicale a cinque navate,
preceduta da un atrio e dotata di una cripta, ma non ebbe
terminata la facciata. Una targa commemorava la costruzione:
"I fastigi risplendenti di questo eccleso tempio furono innalzati
sotto papa Alessandro II, a cura sua e per gli usi propri e del
vescovo. Egli costruì le case, gli edifici adiacenti e le
abitazioni ove la terrena potestà ponendo un ospizio stabilì,
sanzionandolo con pena di scomunica, che restasse in eterno.
Gettate le fondamenta nel 1060, il tempio è portato a
compimento e consacrato alla fine del secondo lustro".
All'interno dell'atrio, sopra l'arco che guarda verso la piazza
Antelminelli, è murata una testa di personaggio mitrato
ritenuto dalla tradizione Alessandro II.
Anche la chiesa di S. Michele, rifatta nel 1070 per volere di papa
Alessandro, era più antica, risalendo all'età longobarda. La
chiesa che si vede oggi mostra ancora l'impianto dell'XI
secolo, sebbene la maggior parte dei lavori sia stata compiuta
nella prima metà del XII secolo.
Ci si potrebbe chiedere come mai Anselmo, pur da papa, continuò a
frequentare Lucca e a consacrarvi chiese. Il fatto è che non
lasciò mai la carica di vescovo di questa città, come si deduce
dal suo testamento: morendo, stabilì che il suo episcopato
passasse al nipote Anselmo. Forse papa Alessandro II era,
più che simoniaco o nepotista, un epigono del feudalesimo. Il
nipote Anselmo, monaco cluniacense educato da Lanfranco di
Pavia, rifiutò l'investitura poiché - da uomo nuovo - riteneva la
carica non ereditaria ma elettiva. Solo il 29 settembre 1074 si
ebbe la sua consacrazione a vescovo di Lucca e non fu
ugualmente un vescovo popolare.
Papa Alessandro II
Un'elezione contrastata
Il 30 settembre 1061, alla morte di Nicolò II, viene eletto
precipitosamente su pressione di Ildebrando di Soana il
vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio, che scrive subito una
lettera ai suoi concittadini, confidando nella condotta pacifica
e nella vita pura del clero. L'augurio dovette suonare come
una provocazione al clero milanese, che si schierò contro
questa elezione.
Anche questa volta l'imperatrice Agnese insorse, sollecitando un
concilio, che si aprì a Basilea il 28 ottobre 1061: i padri
convenuti
rifiutarono la scelta del papa, troppo
compromesso con i marchesi di Toscana e coi Normanni.
Contemporaneamente una delegazione di nobili romani
offriva al giovane Enrico IV le insegne del patriziato romano e
lo pregava di usare il diritto che quel titolo gli conferiva
nell'elezione del pontefice. Il concilio si concluse con
l'elezione del vescovo di Parma Cadaloo a papa, col nome di
Onorio II, riconosciuto anche dall'episcopato milanese.
Anselmo si trovò nuovamente coinvolto in una guerra. La reggente
Agnese inviò a Roma il vescovo d'Alba, Benzone, per
preparare l'ingresso di Onorio II agli inizi del 1062. In aprile si
arrivò allo scontro aperto e a fianco di Onorio scese in campo
oltre all'esercito imperiale, guidato da Agnese, anche
l'esercito bizantino, naturale nemico dei Normanni che
sostenevano Alessandro II. Ma la debolezza era proprio a
capo dell'impero, perché l'altro tutore di Enrico IV, il vescovo di
Colonia Annone, attuò un colpo di stato facendo rapire
l'imperiale famiglia e relegando la scomoda Agnese nel
monastero di Fruttuaria.
Ora che non c'era più nessuno alla guida dell'impero, il marchese di
Toscana Goffredo poteva diventare l'unico arbitro della
situazione politica italiana e avere sufficiente forza per
convincere i due papi a ritirarsi nelle rispettive diocesi di
provenienza, Cadaloo a Parma, Anselmo a Lucca, in attesa
delle deliberazioni di un nuovo concilio.
Il 22 ottobre 1062 si aprirono i lavori di un concilio ad Augusta: la
spuntò Anselmo, che era rappresentato dalla foga di Pier
Damiani, sostenuto dal marchese di Toscana e dai Normanni,
ma soprattutto perché i rapporti di potere in Germania erano
cambiati da quando Agnese era stata esautorata. Il 23 marzo
1063 Alessandro II, scortato da Goffredo di Toscana, poteva
entrare a Roma.
Il primo atto di Alessandro è quello di indire nell'aprile un concilio per
condannare Cadaloo e rinnovare i decreti antisimoniaci. Per
tutta risposta l'irriducibile antipapa occupò con un esercito
lombardo la città leonina e rinnovò ad Alessandro II l'accusa di
essere al servizio dei Normanni. Sarà solo a Pentecoste del
1064 col concilio di Mantova, città al centro del territorio degli
Atti di Canossa, che si potrà dirimere lo scisma. In una
drammatica seduta papa Alessandro II, alle accuse di simonia
e di sudditanza nei confronti dei Normanni, risponde che si
discolpa sua sponte, perché il pontefice non è tenuto a
giustificarsi davanti a nessuno se non a Dio. Dice di essere
stato eletto contro la sua volontà da chi aveva il diritto di farlo.
Comunque sia, ce la fa a relegare il rivale nella sede di
Parma, accogliendo anche il riconoscimento di Guido da
Velate dietro pressione patarinica.
Per ringraziamento del sostegno ricevuto dai patarini, Alessandro II
consegnerà il gonfalone di S. Pietro a Erlembaldo, stabilendo
così i vincoli di una sorta di vassallaggio spirituale; il campione
patarino si legava al papa col vincolo dell'obbedienza,
realizzando una trasposizione di rapporti feudali sul piano
religioso: essendo un laico, era autorizzato ad esercitare
coercizioni fisiche sui nemici della Chiesa. Nel 1065 era già a
Roma a informare il papa dell'indegna condotta di Guido da
Velate, impenitente spergiuro; tanto fece che nel 1066 riuscì a
tornare a Milano con le bolle della scomunica del papa contro
Guido, seguito dall'infausta
apparizione della luminosa
cometa di Halley.
La tragedia patarina a Milano
Alla vigilia di Pentecoste del 1066 l'arcivescovo fece avvisare i
cittadini che si trovassero adunati di buon'ora la mattina
seguente in S. Tecla. Arialdo ed Erlembaldo, i capi patarini,
non mancarono all'adunata, mettendosi ben in vista.
Guido comparve con le bolle pontefice e cominciò a inveire contro i
patarini, perché miravano a sottomettere la Chiesa
ambrosiana a Roma,
vanificando quando aveva fatto S.
Ambrogio e i suoi successori. Questo era il tasto giusto per i
Milanesi, che furoreggiarono contro i sovvertitori della
tradizione ambrosiana. Per far ancora maggiormente colpo,
l'arcivescovo si dichiarò disposto a sottomettersi alla
maggioranza, pregando quelli che amavano l'onore di S.
Ambrogio e di Milano di uscire dalla chiesa. Il biografo di
Arialdo sostiene che se ne andarono settemila persone,
mentre in chiesa ne restarono dodici. Così isolati, i patarini
erano alla mercé del vescovo: gli ecclesiastici ferirono a morte
Arialdo e i laici si scagliarono contro Erlembaldo che si difese
strenuamente, riuscendo a sottrarsi al linciaggio e a
difendere l'amico Arialdo da altri colpi.
I settemila che erano usciti dalla chiesa dovevano essersi rintanati in
casa, perché, sparsasi come il vento la notizia della morte di
Arialdo, la rivolta patarina fu cruenta e immediata:
saccheggiarono il palazzo vescovile, poi si diressero verso la
chiesa
davanti alla quale trovarono Guido che stava
montando a cavallo: lo assalirono, lo spogliarono e lo
lasciarono a terra tramortito; poi entrarono in chiesa dove
trovarono Erlembaldo accanto ad Arialdo, fortunatamente
ancora vivo. Arialdo li trattenne dal compiere ulteriori violenze,
inviandoli a pregare sulla tomba di S. Ambrogio, tanto per
dimostrare che i patarini erano fedeli alle tradizioni locali.
Guido, seppur malconcio e ferito nel suo onore, pose la città sotto
interdetto finché non fosse stato consegnato Arialdo o almeno
finché il patarino fosse rimasto in città. Cominciò la diaspora di
Arialdo finché non venne catturato dai fedeli dell'arcivescovo
e assassinato il 28 giugno 1066. La pataria perse così il suo
ideologo e il suo capo. Poco dopo Alessandro II mandò a
Milano come legati pontifici Mainardo di Silva Candida e
Giovanni Minuto, che sanarono la situazione, lasciando al suo
posto l'impunito arcivescovo Guido.
Nel 1068 Erlembaldo tornò a Roma per denunciare la solita
situazione. Questa volta Alessandro II non gli diede retta, era
occupato con la ben più grave questione inglese. Inoltre
Guido era vecchio e pieno di malanni e fu felice di rinunciare a
favore di un arcivescovo scelto dall'imperatore, l'ordinario
Goffredo di Castiglione, segretario di Guido. Alessandro II non
inviò il pallio al nuovo arcivescovo, giudicando simoniaca la
nomina. Guido tornò a Milano scortato da Erlembaldo, che lo
tenne agli arresti cautelari nel monastero di S. Celso.
L'arcivescovo morì il 23 agosto 1071 a Bergoglio
(Alessandria).
Il sostegno a Guglielmo il Conquistatore
Edoardo il Confessore governò sull'Inghilterra dal 1043 al 1066; figlio
della normanna Emma ed educato nel suo esilio in Normandia,
dimostrò il suo attaccamento alla stirpe materna nominando
suo successore - in mancanza di eredi - il figlio di suo cugino
Roberto, Guglielmo il Bastardo.
Alla sua morte, Guglielmo accampò i suoi diritti successori, ma la
dieta dei nobili inglesi gli oppose il sassone Aroldo, cognato
del defunto Edoardo. Guglielmo dovette organizzare una flotta
per sottomettere i riottosi e sconfiggere Aroldo; l'epopea della
conquista è narrata negli Arazzi di Bayeux, un rotolo di lino
ricamato lungo 70 m e alto 0,50 m. Se la conquista fu rapida,
le ribellioni durarono anni, finché i Normanni riuscirono a
impadronirsi del governo delle province, delle chiese e delle
potenti abbazie.
Come si comportò Alessandro II in questa occasione? Bisogna
innanzi tutto premettere che il papato aveva dei conti aperti
con la Chiesa inglese, soprattutto con l'arcivescovo di
Canterbury Stigand, che usurpava il seggio, sostenuto da
Aroldo. Si poteva quindi appoggiare Guglielmo se prometteva
di rimettere "ordine" nelle cariche episcopali.
Poi Ildebrando di Soana fece il resto: espose al papa tutte le
malefatte di Aroldo e della sua famiglia, la loro presunta
responsabilità nell'assassinio del principe Alfredo, fratello di
Edoardo il Confessore, la disinvoltura con cui si erano
impadroniti nel Wessex di numerosi possessi ecclesiastici, lo
spergiuro di Aroldo che si era impegnato solennemente a
rispettare la scelta ereditaria di Edoardo, ecc. Di contro si
avevano i Normanni, che avevano disseminato il loro territorio
di abbazie riformate, rette da rigorosi monaci nord-italiani,
che Anselmo conosceva personalmente e che avevano
sostenuto la sua elezione.
Messa così, la scelta era inevitabilmente a favore dei Normanni.
Alessandro II inviò a Guglielmo, per accompagnare la
spedizione in luglio contro Aroldo, lo stendardo di S. Pietro,
l'equivalente secolare del pallio, che trasformava la conquista
in una sorta di guerra santa, e una preziosa reliquia, un
capello di S. Pietro incastonato in un anello d'oro.
I doni coi quali il nuovo re d'Inghilterra compensò il papa non furono
solo spirituali. Alessandro II ricevette una gran quantità di
monete d'oro e d'argento, preziosi paramenti e un vessillo
tessuto con fili d'oro, raffigurante un guerriero, che era stato
strappato ad Aroldo sul campo di battaglia di Hastings.
Lanfranco primate di Canterbury
Inizialmente Guglielmo fu accettato dalla nobiltà anglosassone laica
ed ecclesiastica, né egli cercò di modificare lo status quo.
Nell'autunno 1067 l'unanimità dell'incoronazione era già
svanita, l'Inghilterra era tutta in rivolta e la responsabilità
venne individuata nei vescovi.
Guglielmo, detto ora il Conquistatore, si affidò diplomaticamente al
legato papale per ottenere una decisione politica basata sul
diritto canonico. Il riordino cominciò nel 1070 proprio
dall'antico punto dolente, dall'arcivescovo di Canterbury
Stigand, considerato fulcro della ribellione. Al suo posto venne
nominato il riottoso Lanfranco di Pavia, spinto da Alessandro
II che vedeva nel suo antico maestro il suo più valido
rappresentante in Inghilterra, arrivando a stabilire il primato
del vescovo di Canterbury su tutti gli altri vescovi inglesi.
Lanfranco scrisse
a papa Alessandro II : "Ho accettato, sono
venuto, ho assunto il mio ufficio, però sento, vedo, constato di
continuo in diverse persone tali agitazioni, tribolazioni,
vessazioni, durezze, avidità, immondezze, e un così grande
declino nella santa Chiesa, da aver a noia la vita e da dolermi
d'essere giunto fino a questi giorni. E temo che il futuro sarà
ancora peggiore". Donde la richiesta di essere lasciato libero
di ritornare alla vita cenobitica, poiché "da me e per mezzo
mio in questa terra non proviene alle anime vantaggio alcuno,
e, se mai c'è, è talmente ridotto da non poter essere
proporzionato al mio danno" (Ep. 1).
Ciò nonostante a Canterbury Lanfranco terrà l'episcopato per quasi
vent'anni, dimostrandosi il grande ricostruttore della cattedrale,
l'instauratore della comunità monastica della Christ Church,
con biblioteca e scriptorium. Sopraviverà al suo potente
protettore, Alessandro II, che morirà nel 1073, lasciando il
seggio pontificio a Ildebrando di Soana, Gregorio VII.
Lanfranco rimarrà a Canterbury fino al 1089.
Bibliografia
Gli esordi
Corsi M.L., Note sulla famiglia da Baggio (sec. IX-XIII), I vol., contributi
dell'Istituto di Storia Medievale, Università Cattolica di Milano
Dizionario Biografico degli Italiani, voce Baggio, di Cinzio Violante
Gibson M., Lanfranco. Da Pavia al Bec a Canterbury, Jaca Book, Milano 1989
Ritorno a Milano
Ambrosioni A., Gli arcivescovi di Milano e la nuova coscienza cittadina,
Bologna 1988
Giulini G., Memorie, I, 616; II, p. 368 (Bibl. Arte)
Lucioni A., La Pataria, in Storia Illustrata di Milano, 1993, pp. 561-580
Mongeri, Nuovi cenni sulla chiesa di Baggio, in Bull. Consulta Archeologica, II,
1875, p. 11
Savio F., Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300. La Lombardia. Parte I,
Milano, Firenze 1913, pp. 411-429 (Bibl. Arte 0 763)
Papa Alessandro II
AA.VV., La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell'XI secolo,
Novara-Milano 1984
De Bouard M., Guglielmo il Conquistatore, Salerno Editrice, Roma 1989
Rodolfo il Glabro, Storie, note 82-84, p. 331
Tabacco G., Merlo G.G., Il medioevo V/XV sec., Il Mulino, Bologna 1981, pp.
290, 293, 304, 368
Gugliemo il Conquistatore:
http://cla.calpoly.edu/~dschwart/engl513/courtly/will.htm
3.6 La basilica Concilia Sanctorum o di S.
Romano, la chiesa di S. Babila, il monastero del
Gisone, l'oratorio di S. Biagio
L'area sacra di Porta Orientale
La basilica Concilia Sanctorum o di S. Romano,
la chiesa di S. Babila, il monastero del Gisone,
l'oratorio di S. Biagio
di Maria Grazia Tolfo
Il protovescovo Anatolio e la cappella Concilia Sanctorum
Il catalogo dei vescovi milanesi inizia con Anatolio o Anatelone,
nome greco-orientale, la cui festa cade il 24 settembre.
Di lui sappiamo solo che morì e venne sepolto a Brescia nella chiesa
di S. Fiorano, donde venne traslato nel 1472 in Duomo con tutti
gli onori, essendo considerato anche il protovescovo di Brescia.
Una leggenda antica, attestata già nel secolo VIII, narrava che
Anatolio era discepolo di S. Pietro, da lui inviato a Milano per
evangelizzare la città. I cataloghi possono essere presi in
considerazione solo per la successione dei nomi dei vescovi,
ma quanto a durata del loro episcopato e, soprattutto, a periodo
dell'incarico, sono frutto di tarde manipolazioni, miranti a far
risalire la presenza cristiana a Milano ai tempi apostolici.
L'analisi dei nomi dei primi vescovi (Anatolio, Calimero, Mona,
Mirocle), i martirologi preambrosiani, composti da figure militari
nord-africane (Vittore, Nabore e Felice) e le più antiche
iscrizioni tombali riguardanti sacerdoti milanesi indicano
chiaramente la penetrazione a Milano del cristianesimo
dall'Oriente lungo le vie percorse dai mercanti e dall'esercito.
Secondo i calcoli di Felice Savio, Anatolio fu vescovo a Milano fra il
256 e il 259 a capo di una piccola comunità di cristiani, alla
stregua di una setta religiosa. E' ovvio che il suo operato non
facesse storia, né destasse interesse. Perché venissero
richieste le sue reliquie da Brescia - forse solo pezze di lino
venute in contatto col suo corpo - bisognò attendere
probabilmente l'inizio del V secolo. Si volle allora fondare una
piccola cappella intitolata ai Concilia Sanctorum
come a
Brescia, dove il vescovo Gaudenzio aveva consacrato una
basilica nel 400 con lo stesso titolo.
L'autore del De situ (fine X secolo) ignora il luogo di sepoltura di
Anatolio e aggiunge che la sua deposizione veniva celebrata
nella chiesa Concilia Sanctorum.
Influssi antiocheni nella basilica Concilia Sanctorum
La primitiva cappella e il vescovo Marolo
A Milano la cappella venne dotata delle reliquie di S. Anatolio, di
Pietro, patriarca d'Alessandria tra il 300 e il 311, di Lorenzo e
Giulio, due preti missionari, di Nicolao vescovo di Licia, di S.
Babila e di S. Romano, alle quali si aggiunsero più tardi altre
reliquie a giustificare il titolo di Concilia Sanctorum.
Il probabile candidato per la fondazione della cappella è il vescovo
Marolo (408-422), così descritto da Ennodio nel suo
epigramma:
Marolus, exstremae portator Tigridis undae,
Qui iubar in madidis viderat hospitiis,
Quem labor in proprio Syriae solidaverat axe,
Orditur vatem dotibus innumeris;
Pervigil intentus ieiunius providus ardens.
Quindi, Marolo era nato in una provincia di Babilonia, passato in
Siria prima del 380 e iscritto al clero di una chiesa suffraganea
di Antiochia, venne a Milano, dove fu in breve eletto vescovo. La
storia non ci dice altro, ma l'ipotesi è che recasse con sé le
reliquie dei santi antiocheni a lui cari, Babila e Romano, e che
richiedesse da Brescia le reliquie del suo predecessore e
conterraneo Anatolio per fondare una basilichetta intitolata al
Consesso dei Santi. Di questa primitiva costruzione, forse
niente più di una cella memoriae, non si sono trovate tracce.
Vediamo chi sono questi santi antiocheni.
Il diacono Romano
Romano era diacono ed esorcista di una chiesa prossima a Cesarea
di Palestina. Recatosi ad Antiochia durante la persecuzione di
Galerio, si rese conto del gran numero di apostati. S'impegnò
ad evitare il ritorno del paganesimo, motivo per cui fu arrestato.
Era già stato condannato al rogo quando Galerio ci ripensò e lo
graziò - per modo di dire - strappandogli la lingua, in modo che
non potesse predicare. Vana illusione, perché il diacono secondo la versione fornita da Giovanni Crisostomo - trovava la
forza di diffondere ugualmente il Verbo. Venne rinviato in
prigione, dove attese i vicennalia dell'imperatore (20 novembre
303 in onore di Diocleziano); in quell'occasione tutti i prigionieri
vennero liberati, ad eccezione di Romano, che fu strangolato il
18 novembre 303.
Una Passio greca (fine IV sec.) introduce un nuovo motivo per
l'arresto: per stabilire di fronte ai pagani chi fosse il vero dio,
Romano propose di rimettersi al giudizio di un bambino
(anonimo), che proclamò l'unicità di Dio e la falsità degli idoli
pagani. Romano e il bambino vennero arrestati e il bambino, in
virtù di principi pedagogici radicali, venne immediatamente
decapitato. La successiva Passio latina aggiunge altri elementi
a quella greca, informandoci che il bambino si chiamava Barala,
nome foneticamente vicino a Babila.
Il vescovo Babila
Babila, contemporaneo di Anatolio, fu il tredicesimo vescovo di
Antiochia dal 237-8 al 250, durante il regno di Filippo l'Arabo
(244-49), ritenuto cristiano. A Filippo il collega Gordiano aveva
affidato il proprio figlio durante la sua assenza per una
spedizione contro la Persia, nella quale morì. Filippo uccise il
ragazzo per eliminare un possibile rivale nell'impero. Quando
volle partecipare ai riti di Pasqua ad Antiochia, Babila gli impose
una penitenza e Filippo obbedì. Il successore Decio riaprì la
persecuzione contro i cristiani e Babila morì incatenato in
carcere.
Antiochia era una città ricca, con un quartiere, Dafne, famoso come
luogo ameno, ricco di boschi e di acque, con un prestigioso
tempio dedicato ad Apollo. Sozomeno lo dice luogo di
perdizione nella città più sfarzosa e corrotta dell'impero. Per
questo motivo il cesare Gallo, che non era uno stinco di santo,
volle ingraziarsi il potente clero cristiano locale facendovi
trasportare nel 351-54 le spoglie del vescovo Babila e
inviandone una parte a Costantinopoli.
Alla morte di Gallo il successore fu il fratello Giuliano, detto
l'Apostata, che volle ripristinare il culto pagano, per cui sfrattò S.
Babila da Dafne, dove rappresentava motivo di turbamento per
Apollo che rifiutava di esprimersi attraverso gli oracoli. Durante
la processione di accompagnamento di Babila al nuovo luogo di
sepoltura si cantarono inni antifonati, che poi vennero riproposti
anche da S. Ambrogio. Casualmente il tempio di Apollo
s'incendiò poco dopo, preludio della sconfitta del paganesimo.
L'arcivescovo di Antiochia Melezio fece innalzare prima del 381 una
grandiosa basilica in onore di S. Babila, di pianta cruciforme, di
cui resta solo un'iscrizione musiva del marzo 387. Alla fine del
IV secolo vi predicava Giovanni Crisostomo, che arricchì
l'agiografia di Babila di un nuovo elemento: gli vennero associati
tre fanciulli, Urbano, Barbado e Apollonio, che d'ora in poi
accompagneranno il santo nella sua iconografia.
Il reperto paleocristiano
Esiste un reperto paleocristiano di ignota provenienza, rimpiegato
nei muri di S. Babila, datato inizio V secolo, che è stato
interpretato come una lastra pavimentale che ricopriva la
confessio; nel caso fosse appartenuto in origine alla cappella
primitiva, sarebbe l'unico frammento rimastoci. E' una lastra di
cm 75 x 75 con un foro al centro di una croce a bracci uguali e
quattro dischi negli spazi della croce, interpretati come patene,
riproducenti in pietra le stoviglie dell'epoca. Il foro metteva in
contatto con la confessio sotto il pavimento, dove erano
conservate le reliquie dei santi, e le patene servivano a deporvi
le offerte.
La ricostruzione del vescovo Lorenzo I
Dopo il 493 il vescovo Lorenzo I ricostruì la basilica Concilia
Sanctorum, distrutta in seguito alla guerra tra Teodorico e
Odoacre. Ennodio si lamenta che l'irruzione dei nemici aveva
riempito Milano di desolazione e rovine. Gli abitanti scampati
alla prigionia avevano abbandonato la città; tra i prigionieri c'era
lo stesso vescovo Lorenzo, che aveva sofferto freddo, ingiurie e
aggravamento degli acciacchi per la sua avanzata età. La città
era deserta, le chiese diroccate e adibite a ricovero degli
animali.
Dopo la vittoria definitiva di Teodorico nel 493, il vescovo Lorenzo
poté far ritorno alla sua sede. Due anni di incuria erano stati
sufficienti a ridurre la
città a un cumulo di macerie e
immondizie imputridite dall'acqua stagnante. Fra le varie e
radicali opere di ricostruzione e risanamento intraprese dal
vescovo vi fu la rifondazione della basilichetta Concilia
Sanctorum, secondo quanto attesta, in modo sibillino, il suo
segretario Ennodio:
Item in alio loco factos in basilica SS. quia arserant
aedificia que prius ibi fuerant et sic facta est.
Vilia tecta prius facibus cessere beatis,
si splendor per damna venit, si culmina flammis
consurgunt habitura Deum, si perdita crescunt
ignibus innocuis, si dant dispendia cultum.
Qualis erit reparans crepitantibus usta ruinis?
Laurenti, tua bella gerens incendia vince.
Sordida marcenti latuisset terra recessu,
si status faciem tenuissent antra vetusti.
Sed postquam superi flammas misere secundas
Ad lumen cineres traxerunt ista colendum.
Ennodio scrive a certi vescovi africani a nome di Lorenzo,
avvertendoli che spedisce loro le reliquie dei SS. Nazaro e
Romano, come da richiesta.
Il clero siriaco di supporto ai Longobardi
Le distruzioni non dovevano risparmiare però neppure la costruzione
del vescovo Lorenzo. Nell'inverno 539 la città venne quasi rasa
al suolo dai Goti, per punirla del supporto accordato ai Bizantini.
La tradizione che vuole Milano per qualche anno cancellata
dalla faccia della terra sembra però esagerata. Il successivo
arrivo dei Longobardi provocò una nuova rivoluzione
nell'assetto politico, religioso e urbanistico della città. Al clero
milanese fuggito a Genova nel 569 si sostituì il clero siriaco
unito a quello irlandese, che formarono il clero decumano o
peregrino.
I religiosi siriaci si mostrarono particolarmente devoti al culto del
vescovo Babila: redassero un elenco di epistole a lui dedicate
da leggersi nelle diverse feste e ricostruirono dalle fondamenta
la Concilia Sanctorum che dall'inizio del VII secolo prese anche
il titolo di S. Romano. Era un semplice sacello quadrato, le cui
fondamenta sono state rinvenute negli scavi e documentate.
Il clero siriaco portò con sé probabilmente un altro culto antiocheno,
quello di S. Margherita.
La martire Margherita e il monastero del Gisone
Accanto a S. Romano sorse forse in età longobarda un monastero
femminile, detto del Gisone, in cui si onorava S. Margherita.
Impossibile stabilire l'area che occupava, perché nel 912 il
monastero si trasferì. Anche il nome di Gisone non ci fornisce
indizi per stabilire con maggiore precisione il periodo di
fondazione, che potrebbe anche slittare in età carolingia al IX
secolo.
Margherita fu una delle martiri cristiane leggendarie più venerate
nell'antichità. Il prefetto d'Antiochia voleva sposarla, ma lei lo
respinse, dichiarando di essere cristiana e votata alla castità.
Dall'amore all'odio il passo è breve: Margherita fu crudelmente
torturata e abbandonata in una segreta. Qui Satana si
materializzò con le sembianze di drago e la divorò, ma la croce
ch'ella teneva in mano (fortunata distrazione dei carcerieri!) fece
sì che la pancia del mostro si squarciasse e che Margherita
potesse uscire illesa, almeno fino alla decapitazione. Questa
rinascita vittoriosa dal Male la elesse a protettrice delle nuove
vite e quindi delle partorienti.
Margherita è una figura ovviamente più simbolica che storica e per
questo motivo fu espunta dal calendario ecclesiastico nel 1969.
Ritornando al monastero, si può anche supporre che per un certo
periodo, quindi fino al 912, la chiesa di S. Romano venisse
affidata alle monache del Gisone. Quando traslocarono nel sito
presso il Cordusio che doveva dare il nome alla via S.
Margherita, portarono con sé anche il culto di S. Babila. Scrive il
Torre: "Nella vigilia e nel giorno di S. Babila si ritrovano i
vecchioni e le vecchione, ministri ecclesiastici assistenti in S.
Margherita ai divini uffici, con accese torce in mano, ricevendo il
tributo annuo dalle monache, costume esercitato fin da quando
le monache erano a S. Babila e solevano i vecchioni offrire il
pane e il vino alla messa cantata dell'arcivescovo". Sempre
secondo la testimonianza del canonico, che scriveva alla fine
del Seicento: "Queste religiose benedettine tenevano per loro
monastero tutti i siti contigui al tempio di S. Babila fino al
naviglio, benché in quei tempi non ci fosse ancora, e si
vedevano comode ed ampie abitazioni, le quali alla loro
partenza furono acquistate dai parrocchiani e poi vendute a
famiglie con carichi livellari, riscossi ancor oggi."
Prime conclusioni
Possiamo quindi riassumere così, in via ipotetica, la genesi del primo
gruppo di edifici:
1. fondazione della basilichetta Concilia Sanctorum poco dopo il 400,
forse ad opera del vescovo Marolo, con reliquie provenienti da
Antiochia (Babila e Romano), da Brescia (Anatolio) e da altri
luoghi; questo primo nucleo andò distrutto, tranne forse la lastra
della confessio.
2. dopo il 493 il vescovo Lorenzo I ricostruì la Concilia Sanctorum
sull'area di catapecchie bruciate, quindi sembrerebbe
d'intendere che la nuova basilichetta non sussistesse su quella
primitiva; anche questo edificio venne danneggiato,
probabilmente durante la guerra goto-bizantina.
3. in assenza del clero milanese fuggito a Genova, i Longobardi si
appoggiarono a religiosi provenienti dalla Siria, occupata dagli
Arabi. Il clero siriaco ricostruì un modestissimo sacello quadrato,
aggiungendo la dedica a S. Romano, del quale erano state
acquisite le reliquie all'inizio del V secolo. Fra le reliquie che
importarono ex novo vi furono forse quelle S. Margherita.
4. presso il sacello di S. Romano si insediarono le monache
benedettine del Gisone, che si presero cura della chiesetta fino
al 912.
La riforma cluniacense e la fondazione di S. Babila
Il culto di S. Babila ricevette un imprevedibile rilancio in Italia per
merito della riforma cluniacense. Cosa vi lessero nell'agiografia
da farlo assurgere nel novero dei nuovi modelli etico-spirituali?
Fra i primi a lanciare la nuova devozione vi fu la marchesa di
Toscana, Matilde di Canossa, che fondò nel 1073 una pieve
dedicata a S. Babila nella diocesi di Fiesole, in quella che oggi
si chiama Pieve di Sambarello, che governava il vasto territorio
di S. Godenzo. Nel 1108 la marchesa avrebbe sepolto nel
villaggio di Pieve di S. Giacomo presso Cremona le reliquie dei
SS. Babila e Simpliciano, per cui Cremona divenne in un certo
senso il centro del culto del santo antiocheno.
A Milano la devozione di S. Babila fu prerogativa della pataria
milanese, ispirata alla riforma cluniacense.
L'arcivescovo Arnolfo III da Porta Orientale
Le cronache ci informano che il sorpasso del culto di S. Babila su
quello di S. Romano risale a un'azione di forza perpretata da
Nazaro Muricola nel 1096, ma non si capisce se fu egli stesso a
fondare una chiesa dedicata al vescovo antiocheno o, come
sembra più probabile, se si limitò a istituirvi una canonica per la
vita comunitaria del clero riformato.
Molti indizi fanno infatti ritenere che una chiesa intitolata a S. Babila,
forse sull'area lasciata libera dal monastero del Gisone, fosse
stata già iniziata pochi mesi prima del tempestoso intervento del
Muricola da Arnolfo III di Porta Orientale. L'arcivescovo, eletto
nel dicembre 1093, dovette attendere fino al marzo 1095
l'approvazione pontificia, standosene nel monastero di Civate
da lui fondato.
Si colloca quindi dal marzo 1095 al settembre 1096, quando vi fu
l'occupazione del Muricola, la fondazione della chiesa di S.
Babila accanto a S. Romano. Dato il breve tempo, la chiesa
doveva essere ancora in fase di costruzione, come
dimostrerebbe anche l'analisi muraria.
La canonica di S. Babila
Papa Urbano II non sapeva che vespaio avrebbe sollevato con la
sua predica infiammata dal pulpito di S. Tecla in quel tiepido
settembre 1096. Parlando ad una folla di fedeli ispirati alla
riforma del clero, sostenne che anche il più umile chierico era
superiore a un re e che per avere questo onore bisognava
dimostrare di essere dei capi spirituali scelti dai fedeli e non
prezzolati. I laici giocavano quindi un ruolo molto rilevante nella
scelta delle loro guide religiose, scalzando così la procedura
feudale della vendite delle cariche. In città si scatenò una vera
sommossa, durante la quale alcuni religiosi senza cura d'anime
si fecero scegliere dai fedeli di una vicinìa quali loro capi,
scacciando il clero di carriera. Così fece Nazaro Muricola, fino a
quel momento "disoccupato", impossessandosi della chiesa di
S. Romano col favore dei parrocchiani e fondando una
canonica dove vivere in comune coi confratelli.
Nazaro era allievo del primicerio dei decumani Andrea dal Volto e
compagno di studi di Landolfo il Giovane, nipote del prete
Liprando. La sua carriera ecclesiastica avveniva quindi
all'interno dell'ordine dei decumani, che avevano in gestione la
basilica Concilia Sanctorum o di S. Romano. L'occupazione si
attuò perciò a spese di religiosi appartenenti al suo stesso
ordine.
Così scrive Landolfo: "clericus iste Nazarius de solario suo ad
ecclesiam sancti Babylae santique Romani, quae antiquitus
dicebatur Concilia Sanctorum..., novum habitaculum hedificavit".
Da quanto riferisce il cronista, si potrebbe supporre che
esistesse già una chiesa dedicata a S. Babila, accanto alla
quale il Muricola si limitò a costruire un habitaculum, ossia una
canonica per la vita comune del clero.
Chi era Nazaro? Landolfo lo giudica uomo in ingenio acutissimus,
emulo del martire patarino Arialdo, che aveva fondato una
canonica a Porta Nuova. Non sappiamo come l'arcivescovo
Arnolfo III giudicasse l'occupazione della sua chiesa, ma il
neo-eletto arcivescovo Anselmo IV, già preposito della canonica
di S. Lorenzo, mostrò di gradire l'operato di Nazaro, al punto di
promuoverlo al presbiterato. La scelta di Anselmo come
arcivescovo era stata molto contestata, perché non aveva
ancora preso alcun ordine sacro; dovette quindi prendere in una
volta tutti gli ordini, fino al presbiterato e all'episcopato, da
vescovi stranieri. Il fatto che la marchesa Matilde gli inviasse un
pastorale lascia intendere che anche Anselmo apparteneva
all'ambito cluniacense.
Anselmo si appoggiò all'abile Nazaro Muricola, inviandolo in
missione diplomatica con Giovanni Aculeo alla vacante sede
vescovile di Savona per vigilare sull'elezione di una persona
degna. Nazaro fece di più e, strada facendo, individuò
Grossolano, il preposito della chiesa dei SS. Apostoli di Ferrania,
presso Cairo Montenotte, che venne consacrato a Milano
nell'aprile 1098. Come si vede, lo zelante presbitero andò ben
oltre l'incarico, scegliendo lui invece del clero savonese il
vescovo e facendolo consacrare subito a Milano.
L'enigmatica vicenda dell'arcivescovo Grossolano
Il 13 settembre 1100 Anselmo partiva per la Terrasanta, lasciando
suo vicario Grossolano. Alla morte del "prode Anselmo" sulla
strada per il Santo Sepolcro, si aprì la discussione sulla
successione. I candidati prescelti dal clero milanese, con
l'approvazione dello stesso Grossolano, erano il preposito di S.
Nazaro, Landolfo di Varigliate, e il preposito di S. Ambrogio,
Landolfo da Baggio. Disgraziatamente entrambi erano assenti
dal capitolo e per regola si potevano eleggere solo presenti. Fu
l'abate di S. Dionigi, Arialdo, a proporre di confermare l'attuale
vicario, Grossolano, ad arcivescovo. La proposta riscosse
abbastanza successo e Grossolano poté insediarsi
ufficialmente sulla cattedra ambrosiana, promuovendo Arialdo
ad abate del ricco monastero di Civate. Questo riconoscimento
inopportuno suscitò immediati sospetti circa la spontaneità della
proposta e la parte più integralista degli aderenti alla riforma
inviò lettere di denuncia al pontefice. Grossolano aveva però
dalla sua parte la potente marchesa Matilde di Canossa, che
provvide a far inviare il pallio - l'investitura ufficiale - a Milano
con gran pompa.
A capo degli integralisti era il prete decumano Liprando, che non si
diede per vinto. Disgraziatamente disponiamo della sola
cronaca di Landolfo il Giovane, nipote di Liprando e quindi
ovviamente partigiano. Secondo Landolfo, fu Grossolano ad
aprire le ostilità, pretendendo che Liprando gli cedesse uno
speciale ornamento, detto subcingulum, che il decumano aveva
ricevuto dal papa; Liprando rifiutò sdegnosamente. Non si
riesce a capire bene quali motivazioni vi fossero di tanta ostilità
da parte di Grossolano, certo è che vessò con alcuni
provvedimenti il decumano, al quale non restò che sottomettersi
con mala grazia.
In città si cominciò a mormorare sulla cattiva condotta
dell'arcivescovo, insinuando che forse non era così casto come
voleva sembrare. Poi Liprando si disse pronto a dimostrare che
l'elezione di Grossolano era stata simoniaca, sottomettendosi al
giudizio di Dio: il 25 marzo 1103 passò attraverso una catasta di
legna infuocata, uscendone appena un po' bruciacchiato.
L'atmosfera milanese doveva essere diventata un po' pesante
per l'arcivescovo, che pensò bene di rifugiarsi a Roma presso
papa Pasquale II. Qui lo raggiunse Liprando, che nel marzo
1105 davanti a un concilio in Laterano ribadì ufficialmente le
accuse contro Grossolano, seppure invano.
Grossolano venne riconfermato dal papa nella sua carica, ma non
poté più fare ritorno a Milano, impedito dall'opposizione
capeggiata dal primicerio Andrea dal Volto, dall'abate di S.
Ambrogio Guglielmo e da Ottone Visconti. Pasquale II dovette
dispiacersi molto della situazione imbarazzante in cui si trovava
il suo protetto e deliberò di inviarlo quale suo ambasciatore a
Costantinopoli presso l'imperatore Alessio Comneno.
Grossolano era esperto di greco e introdotto nelle controversie
teologiche fra la Chiesa latina e quella greca, quindi una figura
ben lontana da quel umile eremita che Nazaro Muricola
sembrava aver prescelto. Il vescovo Azzone di Acqui lo descrive,
ad esempio, come letterato, di acuto ingegno, di singolare
eloquenza e favorevole all'imperatore Enrico V. E fu questa
fedeltà all'imperatore a decretare la sua definitiva disgrazia.
Il 16 febbraio 1111 scoppiò infatti il finimondo: Enrico V partì da
Roma portandosi via il papa Pasquale II in ostaggio. Nei tumulti
perse la vita Ottone Visconti, che coi filo-imperiali aveva
scortato Enrico a Roma. Alessio Comneno, presso il quale si
trovava Grossolano, colse l'occasione per proporre a Pasquale
II di disconoscere l'istituzione imperiale occidentale, di
riunificare l'impero sotto la sua corona, offrendogli in cambio la
riappacificazione delle Chiese. Una proposta sbalorditiva!
Nel settembre 1111 la fazione avversa a Grossolano fece venire a
Milano dalla Francia, dove si trovava a studiare, l'ordinario
Giordano da Clivio e propose di eleggerlo nuovo arcivescovo,
dichiarando deposto Grossolano (1° gennaio 1112). I vescovi
della diocesi si spaccarono nel sostegno ai due arcivescovi.
Ritornato Grossolano a Milano nell'agosto 1113, scoppiò
l'inevitabile guerra civile, vinta da Giordano da Clivio. Dopo
qualche tentativo di recuperare la fiducia del papa, Grossolano
si ritirò a Roma nel monastero greco di S. Saba, dove morì il 6
agosto 1117.
Nazaro Muricola primicerio
Fra i sostenitori dell'arcivescovo Grossolano vi furono i parrocchiani
di S. Babila, indignati per il voltafaccia di Nazaro, che dopo
essere sempre stato al fianco di Grossolano, lo aveva
abbandonato per Giordano da Clivio, in linea col primicerio
Andrea. Nazaro dovette fuggire dalla sua canonica; per ripiego
occupò la chiesa di S. Paolo in Còmpito, sottraendola al suo
amico Landolfo.
Eletto primicerio alla fine del 1113, ancora vivo il ricordo della guerra
civile, il Muricola lasciò S. Paolo per trasferirsi nella canonica
dei decumani del Duomo, ma non restituì la chiesa al suo
precedente preposito, bensì la consegnò ad Andrea Sugaliola,
che si dimostrerà deciso avversario del povero Landolfo.
Qest'ultimo venne accusato di infedeltà verso Giordano e
dovette discolparsi nella grande adunata tenuta nei primi mesi
del 1117 nel brolo dell'arcivescovo. Landolfo passerà tutta la
sua vita a cercare di ottenere giustizia, appellaondosi ai
pontefici, all'imperatore Lotario III, ai consoli di Milano, ma
senza successo. Non gli rimarrà che sbarcare il lunario come
lector, scriba, puerorum eruditor et consulum epistolarum
dictator.
Nel periodo in cui Nazaro ricoprì la carica di primicerio si alternarono
sulla cattedra ambrosiana l'arcivescovo Olrico (1120-26),
Anselmo V della Pusterla (1126-1133), Roboaldo (1135-1145).
Landolfo afferma che l'elezione di Olrico fu procurata dai
maneggi del primicerio Nazaro.
Nello scisma fra Innocenzo II, alleato all'imperatore Lotario, e
Anacleto II, scelto da Corrado, la maggioranza dei milanesi si
schierò per Anacleto; non così fece Muricola che scelse
Innocenzo II. Questa spaccatura netta fra i capi religiosi della
città era indizio di un grave disagio interno. Nazaro riuscì a
sollevare la popolazione e a cacciare l'arcivescovo Anselmo V
della Pusterla (1135). Poco dopo giunse a Milano il protagonista
della storia religiosa del momento, Bernardo di Chiaravalle, che
ricevette accoglienze a dir poco entusiastiche.
Nel 1146 venne eletto l'arcivescovo Oberto da Pirovano. In un atto
arcivescovile dell'ottobre di quell'anno non compare più la firma
di Nazaro. Il primicerio era ormai attempato ed è probabile che
si ritirasse a vita privata, pur mantenendo la sua carica.
Sappiamo infatti che dal 1146 tornò a vivere nella canonica di S.
Babila. Firma ancora e per l'ultima volta una carta nell'aprile
1148.
Difficile stabilire se fu grazie alla sua residenza in loco che la chiesa
di S. Babila ricevette un aggiornamento architettonico, il tiburio,
sulla chiesa già impostata e non terminata.
Nazaro morì il 30 marzo 1150, dopo essere stato protagonista di
un intenso e travagliato mezzo secolo di storia milanese.
La vicenda architettonica di S. Romano e S. Babila
S. Babila
La chiesa ha conservato ben poco della veste romanica conferitagli
a partire dagli anni 1096-1098. La parte più cospicua riguarda i
capitelli, che si sono salvati perché ricoperti di stucco.
Mostrano motivi fitomorfi, a fogliami o nastriformi, e zoomorfi
(leoni, grifi, lepri, uccelli, l'agnello mistico). Lo stile della scultura
conferma che si tratta di manufatti risalenti all'ultimo quarto del
secolo XI, vicini a quelli di S. Celso, S. Eustorgio e, soprattutto,
di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia.
Il progetto della chiesa non prevedeva inizialmente l'innalzamento
del tiburio, che venne imposto dai nuovi canoni architettonici in
un momento posteriore, uguale per tutte le chiese milanesi,
coincidente con il ritorno di Nazario Muricola presso la canonica
di S. Babila.
La storia tace fino all'età viscontea, quando la chiesa, ormai inclusa
all'interno della nuova cerchia del naviglio, ricevette un rilancio
attraverso una serie di leggende. Galvano Fiamma nel
Chronicon Majus è il primo a tirar fuori il culto del Sole a Porta
Orientale: "in loco ex opposito ecclesiae sci Babilae citra flumen
erat porta dicta dei Solis, sive Apolinis, ubi erat palatium
rotundum in cuis pyramide fuit ydolum Solis".
In virtù di questa rivalutazione venne proposto anche
l'aggiornamento nell'arredo interno. Nel 1363 fu consacrato
l'altare maggiore, sul quale venne collocata un'ancona
marmorea dorata dedicata al santo titolare; la famiglia Cotta
sovvenzionò il rifacimento dell'altare dell'abside minore destra,
intolato a S. Maria Vergine e S. Nicolao, sul quale venne posto
un dipinto rappresentante S. Erlembaldo. Anche sulla porta
Orientale venne collocata, ad opera della bottega di Giovanni di
Balduccio, la statua di S. Babila con i piccoli Urbano, Barbado e
Apollonio, oggi al museo del Castello Sforzesco.
La chiesa assunse un'importanza particolare sotto Gian Galeazzo,
che per decreto incluse fra le feste ufficiali di Milano quella di S.
Babila: il 24 gennaio il vicario di provvisione con i rappresentati
delle arti venivano in processione a fare l'offerta di un frontale di
seta per l'altare maggiore. Nel 1393 Marco Carelli, parrocchiano,
redasse un testamento che lasciava i fondi per la costruzione
della sacrestia.
Fu poi il momento del fulgore delle scuole: nel 1457 venne fondata la
Schola di S. Maria delle Grazie, amministrata da dodici laici,
che aveva la cappella nell'abside destra, mentre la Schola del
Corpus Domini costruì appositamente una cappella nel 1520,
poi rititolata a S. Francesco. Nel 1569 le due Scuole vennero
unificate per volontà di Carlo Borromeo, che impose
l'amministrazione ecclesiastica.
Intorno al 1573 l'Anonimo Fabriczy disegnò il lato sud della chiesa e
il campanile; sono l'unica documentazione del complesso prima
del crollo nel 1575 del campanile romanico. Il 27 giugno 1588
venne approvata l'istituzione di una collegiata a spese della
marchesa Girolama Mazenta; i fondi arrivavano nel momento
giusto, perché nella sua visita pastorale del 1591 l'arcivescovo
Gaspare Visconti trovò la chiesa angusta admodum et indecens,
per cui si resero necessari i restauri. Tra il 1601 e il 1613 la
chiesa venne allungata di una campata, occupando l'area del
cimiterino antistante l'ingresso; il coro, insufficiente per il
capitolo, venne rifatto, causando la perdita delle absidi
medievali; Aurelio Trezzi rifece la facciata, che è quella che
vediamo nelle incisioni settecentesche.
Nel 1787 Giuseppe II soppresse la parrocchia di S. Babila; da quel
momento la chiesa subì un'inesorabile decadenza, finché nel
1826 ne venne richiesta la demolizione. Si riuscì a procrastinare
la decisione fino al 1852, quando si rinnovò la richiesta di
abbattimento. Nuovamente prevalse la decisione di tentare un
salvataggio in extremis: nel 1880 si conferì l'incarico di restauro
generale a Paolo Cesa Bianchi, allievo di Camillo Boito, che
optò per un restauro di integrazione stilistica. Venne abbassato
il pavimento, senza però rintracciare il piano di calpestio
originario, e furono liberati i pilastri dalla decorazione barocca,
recuperando così i capitelli medievali; nel 1905 fu demolita la
facciata barocca del Trezzi, sostituendola con una facciata
neo-romanica realizzata da Cesare Nava su progetto del
suocero Cesa Bianchi;
con pari criterio si abbatterono le
absidi seicentesche, che vennero rifatte ex novo, sempre in stile
neo-romanico; tra il 1887 e il 1888 la chiesa aveva riassunto un
aspetto medievale, con tanto di decorazione ad archetti in cotto;
il nuovo campanile ottocentesco venne trasformato nel 1927
dall'ing. Bruni nell'attuale stile neo-romanico. L'interno venne
tutto nuovamente arredato e decorato secondo i canoni stilistici
dell'epoca, facendo della chiesa un esempio di stile eclettico
ottocentesco (come del resto S. Eufemia in corso Italia).
S. Romano
La chiesa si presentava come un modesto sacello quadrato, che
però era la vera parrocchia e aveva il battistero, motivo per cui
le veniva riconosciuta l'antichità di fondazione. S. Romano
perse gradualmente d'importanza a favore di S. Babila.
Nel 1567 Carlo Borromeo impose di spostare le reliquie dei santi che
erano nell'arca di pietra sotto la navata nel mezzo della chiesa
per metterle dentro l'altare maggiore.
Poco tempo dopo, nel 1592, la nobile Susanna de Colli fece dono
della casa retrostante S. Romano per ampliare il sacello
quadrato, ma solo nel 1630-34 l'ing. Giuseppe Barca poté
realizzare il progetto di ampliamento.
Il 24 giugno 1808 il Demanio acquisì l'edificio sacro e lo affittò allo
scultore Acquisti, che lavorava per il Duomo. Nel 1810 la chiesa
venne venduta per Lit. 20.633 a Ferdinando Valmagini che vi
installò un teatro meccanico; quindi fu trasformata in casa civile
(corso Monforte 7).
La cappella di S. Biagio, poi S. Marta
Sulla destra di S. Babila, a creare il terzo polo religioso, venne eretta
nel 1344 dal prete Zonfredo di Càstano una cappella dedicata a
S. Biagio, sede di una confraternita, con annesso cimitero.
Nel 1466 la cappella fu intitolata anche a S. Bernardo e, quando nel
1503 subentrò la Schola di S. Marta, la cappella fu conosciuta
con questo titolo.
Nel 1797 venne soppressa e poco dopo demolita.
Bibliografia
Visita il sito della parrocchia di S. Babila con testi molto accurati che
riguardano la biografia di S. Babila , la chiesa e l'arte .
Il protovescovo Anatolio e la cappella Concilia Sanctorum
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Influssi antiocheni nella basilica Concilia Sanctorum
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Storia ecclesiastica
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Zerbi, P., Tra Milano e Cluny. Momenti di vita e cultura ecclesiastica nel sec.
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La vicenda architettonica di S. Romano e S. Babila
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Fiorio, M.T. (a cura di), Le chiese di Milano, Milano 1985, pp. 182-184
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Mezzanotte- Bascapé, Milano nell'arte e nella storia, Milano 1948, ed. 1968 pp.
486-487
Torre, Carlo, Ritratto di Milano, Milano 1714, pp. 327-331
4 Ritratti femminili
Ritratti femminili
Imperatrici romane alla corte di Mediolanum
Le regine longobarde tra storia romanzata e diritto
Bianca di Savoia
Giovannola di Montebretto, Bernarda Visconti e il suo fantasma
L'harem di Bernabò
Valentina Visconti e Isabella di Baviera
Caterina Visconti
La vera storia della Monaca di Monza
Paola Litta Castiglioni
Vittoria Ottoboni Serbelloni
Antonietta Fagnani Arese
Bianca Milesi, la maestra giardiniera dei moti del 1821
Cristina Trivulzio di Belgioioso, la donna che visse cinque volte
Laura Solera Mantegazza
Margherita Sarfatti e il Novecento
4.1 Imperatrici romane alla corte di Milano
Imperatrici romane alla corte di Milano
di Maria Grazia Tolfo
Sommario
Prologo - Eusebia - Elena - Faustina e Costanza Postuma - Giustina
Galla - Grata e Giusta - Serena - Epilogo - Bibliografia
Prologo
I destini di Eusebia e Giustina s'incrociarono per breve tempo alla
metà del IV secolo, quando entrambe le protagoniste della
nostra storia si unirono in matrimonio a due imperatori rivali.
Di Eusebia non possediamo la data di nascita. Proveniva da una
famiglia di Salonicco di recente elevazione senatoria. Il padre
Flavio Eusebio fu magister equitum et peditum prima del 347 e
console subito dopo tale data e aveva almeno altri due figli di
cui si conoscono i nomi: Flavius Hypotius e Flavius Eusebius.
Quest'ultimo, omonimo del padre, diverrà governatore
dell'Ellesponto nel 355, governatore della Bitinia nel 355/356,
console nel 359.
Gli storici all'unanimità attribuiscono ad Eusebia bellezza e
intelligenza, ma questi erano forse gli attributi comuni a tutte le
auguste. Eusebia infatti sposò il più maturo e già vedovo
Costanzo II nel dicembre 352 a Milano.
Anche Giustina viene definita bella e intelligente, ma aveva solo
dodici anni quando il padre Giusto, governatore del Piceno, la
consegnò in quello stesso anno al cinquantenne Magno
Magnenzio, già vedovo di sua sorella maggiore e con una figlia
sua coetanea. Magnenzio era stato acclamato imperatore nel
350 dopo una rivolta nelle Gallie conclusasi con la morte di
Costante, fratello di Costanzo. In un primo tempo questo
generale franco aveva tentato di farsi accettare dal Senato
romano e dall'imperatore come collega, offrendo in moglie a
Costanzo la propria figlia e chiedendo per sé Costantina,
sorella vedova dell'imperatore. Ma la sua origine germanica
escludeva che potesse in qualche modo raccogliere
legittimamente l'eredità del grande Costantino, imparentandosi
coi suoi figli.
Costanzo scese in campo nel 353, sconfisse il rivale e per
l'occasione riaprì la zecca a Milano con l'emissione di una
moneta commemorativa, in cui veniva effigiato quale debellator
orbis. Magnenzio si suicidò il 10 agosto a Lione; la sua testa
venne spiccata e portata in giro per le province; chiunque
l'avesse sostenuto, anche solo con un gesto di compassione
umana, venne torturato, condannato a morte o all'esilio e i suoi
beni confiscati (Amm. Marc., XIV 5, 1-9). Questa sorte toccò al
padre di Giustina e a Graziano il Vecchio, il cui figlio
Valentiniano diventerà imperatore e secondo marito di Giustina.
Ammiano Marcellino ha così tratteggiato il carattere fisico e
psicologico di Costanzo: bruno, con uno sguardo luminoso e
penetrante, morbidi capelli, guance sempre ben rasate,
brevilineo. Sobrio e parco, moderato nel cibo e nelle bevande,
dormiva pochissimo. La sua massima abilità era nel cavalcare,
nel lanciare giavellotti e nel saettare con precisione. Era così
compreso della sua ieratica maestà che, in presenza del
pubblico, rimaneva immobile come una statua, senza pulirsi
nemmeno il naso. Poiché era scarso d’ingegno, era prudente
fino alla paranoia, che lo spinse a commettere parecchi omicidi
anche di consanguinei, ma soprattutto di persone che temeva.
Per questo motivo non presenziò mai a processi. L’unica
persona della quale si fidò ciecamente fu la moglie, che gli fece
da filtro alle voci sottili degli eunuchi e a quelle insinuanti dei
cortigiani.
Eusebia, signora della fabbrica degli intrighi di
corte?
Costanzo ed Eusebia posero la loro sede a Milano nel palatium
presso S. Giorgio al Carrobio di Porta Ticinese, adattato per un
fastoso soggiorno. Il clima che si respirava a corte era tutt'altro
che sereno: adulazione cortigiana, lusinghe artificiose, trame di
calunnie tessute instancabilmente dagli avidi eunuchi di
palazzo, segreti sussurri che materializzavano cavalletti di
tortura, catene, pianti di supplici inascoltati. "La fabbrica degli
intrighi di corte batteva giorno e notte sulla stessa incudine
secondo la volontà degli eunuchi, che con la loro esile voce
sempre infantile e accattivante, con una pesante odiosità,
rovinavano, sussurrando alle orecchie troppo accoglienti
dell'imperatore, la reputazione anche di un eroe." (Ammiano
Marcellino, XVIII 4, 2-4).
Tutta la letteratura nera che siamo abituati ad associare a Bisanzio si
potrebbe benissimo trasferire alla corte milanese. Ammiano
Marcellino ci consegna due impareggiabili ritratti di cortigiani:
Paolo, spagnolo, cameriere della sala da pranzo
"soprannominato Catena perché era invincibile nell'intrecciare
complicate calunnie" e Mercurio, persiano, detto "conte dei
sogni", perché "insinuandosi spesso in molti banchetti e riunioni,
come un cane nascostamente pronto a mordere, che dissimula
l'intera crudeltà scodinzolando umilmente, se qualcuno narrava
ad un amico un sogno, lo riferiva con velenosi artifici,
deformandolo, alle orecchie avide dell'imperatore".
Ad alimentare questo inferno di turpitudini c'era Costanzo, spietato
assassino dei suoi consanguinei nel 337 e timoroso di ricevere
lo stesso trattamento. Dopo aver eliminato nel 354 suo cugino
Gallo, che aveva fatto sposare con sua sorella Costantina,
Costanzo assaporò per un attimo il delirio del potere e cominciò
a definire se stesso "la mia Eternità" e a firmarsi "Signore di
tutto il mondo". Restava però in vita un ultimo rivale, che aveva
tutte le carte in regola per contestargli il dominio assoluto: suo
cugino Giuliano, fratellastro di Gallo. E su di lui si concentrò la
fabbrica degli intrighi.
Giuliano, nato a Costantinopoli nel 331 e scampato alla strage del
337, era vissuto in rigoroso e forzato isolamento a Macellum in
Cappadocia, in quella che lui chiamava "la torre del silenzio",
ossia l'edificio funebre dove i persiani esponevano i cadaveri al
pasto degli uccelli. Nel 355 venne prelevato e condotto nei
pressi di Milano, dove attese in angosciosa incertezza sei
lunghi mesi prima che Costanzo trovasse il coraggio di
guardarlo negli occhi. La regìa dell'incontro spettò a Eusebia.
Secondo Ammiano Marcellino sarebbe stato schiacciato dalla
nefanda cospirazione dei cortigiani se non lo avesse
appoggiato per ispirazione divina l'imperatrice, che gli procurò
l'autorizzazione a trasferirsi all'università di Atene.
E' difficile cogliere le reali intenzioni di Eusebia: Giuliano le dimostrò,
almeno nei suoi scritti, una sincera gratitudine per averlo
mandato nella sua amata Atene; ma il bel gesto dell'imperatrice
sembra una manovra diversiva in attesa di sferrare l'attacco
decisivo. Pochi mesi dopo Giuliano fu richiamato a Milano
perché il 6 novembre si celebrava la sua elezione a cesare e
contemporaneamente gli si offriva in moglie Elena, la sorella
minore di Costanzo. Tutta l'operazione fu architettata da
Eusebia. La corte di Milano era propensa ad abolire la carica di
cesare e a mantenere tutto l'impero sotto un solo augusto, ma
"a questi sforzi si opponeva ostinatamente solo l'imperatrice,
non si sa bene se perché temesse un trasferimento in regioni
remote (le Gallie), o per provvedere al bene pubblico secondo
la sua naturale saggezza." (Amm. Marc. XV 8,2). Il
trasferimento nelle Gallie, regione oltremodo turbolenta e
palcoscenico degli assassinii di quasi tutti i prossimi imperatori,
equivaleva in realtà alla condanna a morte.
Quando Giuliano arrivò a Milano, l'imperatore convocò l'esercito,
prese posto su una tribuna eretta su un rialzo di terra,
circondato da aquile e insegne e, tenendo la mano destra di
Giuliano, lo associò come cesare al comando, rivestendolo
della porpora imperiale. Con questo gesto l’imperatore si
costituiva quale garante (auctor) del candidato. Tutti i soldati,
battendo gli scudi contro le ginocchia con spaventoso fragore,
mostrarono la loro approvazione. Giuliano era cosciente del
significato dell'elezione, perché mentre sedeva sul cocchio
imperiale per entrare alla reggia mormorò, citando l'adorato
Omero: "La purpurea morte e un possente destino mi hanno
afferrato". Il neo-cesare ricordava ancora, dopo tanti anni, il
massacro dei suoi parenti ordinato proprio da chi ora gli sedeva
al fianco; come lui stesso scrisse nelle sue memorie, sentiva
ancora il sapore del fumo denso nella sua gola e l'odore
dolciastro del sangue di cui era imbrattato prima che una mano
pietosa lo sottraesse alla carneficina. Aveva meno di sei anni
quando questa tragedia segnò per sempre la sua breve
esistenza.
Dopo aver celebrato il matrimonio con Elena, nubile e vicina ai
trent'anni, il 1° dicembre la coppia fu spedita in fretta e furia
nelle Gallie. C'è troppa insistenza da parte di tutti gli storici e in
Giuliano stesso nel definire Eusebia "donna estremamente
intelligente" e Costanzo succube delle sue decisioni per non
riconoscerla come la principale stratega di questa operazione.
Giuliano era l'ultimo discendente dei figli che il capostipite
Costanzo Cloro ebbe da Teodora, mentre dei figli avuti da
Elena rimanevano Costanzo II ed Elena, tutti senza figli: in
attesa di rimanere incinta, Eusebia doveva eliminare i due
diretti rivali. L'imperatrice, colpita dalla temibile sterilità, contava
sulla professione di castità fatta da Giuliano e sulla precaria
salute della cognata Elena. Purtroppo per lei le cose presero
una piega completamente diversa.
Elena
Eusebia non aveva calcolato che per un filosofo come Giuliano era
ammesso il sacrificio di se stessi in nome dello Stato: Elena
rimase incinta poco dopo il matrimonio. Ammiano Marcellino,
che pure loda la bontà, la cultura e la bellezza di Eusebia, non
tralascia di riportare i sospetti che caddero sull'imperatrice
allorché Elena perse il primo figlio a Lutetia (Parigi) per un
taglio eccessivo del cordone ombelicale. In occasione di una
seconda gravidanza, si mormorò che Eusebia avesse propinato
alla cognata una pozione abortiva durante il viaggio ufficiale a
Roma nell'aprile 357 per la celebrazione del ventennale di
governo di Costanzo II. Giuliano non nominò quasi mai sua
moglie, non le dedicò il minimo pensiero affettuoso e non ebbe
mai parole di dolore per i figli che morivano. Elena, relegata a
Lutetia, semplicemente non esisteva.
Difficile farsi un ritratto di questa donna, che ha subìto una sorta di
censura anche presso i contemporanei. Elena visse come
un'invisibile. Già il fatto che a trent'anni fosse nubile costituisce
un'eccezione anche nel panorama del primo cristianesimo. Non
si era ancora fatta strada la possibilità per una donna di stirpe
imperiale di consacrarsi alla Chiesa in piena castità, scelta
ammessa invece per le patrizie. Tutto lascia intendere che
soffrisse di disturbi che consigliavano per lei una vita ritirata.
Non bisogna dimenticare che sua madre Fausta era stata
giustiziata da suo padre Costantino, nel dubbio ingiustificato di
un adulterio consumato con Crispo, figlio maggiore
dell'imperatore e anche lui eliminato. Elena non aveva che un
anno quando la tragedia si compì e fu condannata a vivere
senza madre, col solo conforto della sorella Costantina di dieci
anni maggiore.
Eusebia era astuta: quando Elena seguì il fratello con la sua corte a
Milano dovette conquistare la sua fiducia con affettuosa
premura. Le insinuò gradualmente l'idea del matrimonio col
cugino cercando di non urtare la sua suscettibilità. Ma è difficile
credere in un affetto sincero e disinteressato quando uno
storico contemporaneo si permette di riportare voci che
lasciano trapelare, se non intenti omicidi, una palese rivalità.
Quando nel 356 nacque il primo figlio - un maschio! -, la levatrice
tagliò il cordone ombelicale in modo da procurare un'emorragia
al neonato. Secondo la normale procedura, il cordone
ombelicale veniva reciso quattro dita sopra l'ombelico solo
quando la levatrice si era accertata dell'integrità fisica del
neonato, altrimenti, con l'approvazione del medico, sopprimeva
l'infelice creaturina. In caso di errata valutazione, i due sanitari
rispondevano con la propria vita. Le accuse contro la levatrice
dovettero essere avanzate dai nemici di Eusebia, ma nessuno
storico ci informa di misure punitive contro la levatrice e il
medico e neppure Giuliano ne accenna nei suoi scritti.
Il secondo aborto si verificò in occasione del viaggio da Parigi a
Roma; Elena era rimasta subito nuovamente incinta e le sue
precarie condizioni di salute avrebbero dovuto sconsigliare un
viaggio così impegnativo. Chi pretese la presenza di Elena alla
cerimonia del fratello a Roma? La conseguenza fu ovviamente
catastrofica e nuovamente si puntò l'indice accusatore contro
Eusebia. L'ultima gravidanza fu fatale a Elena, che morì senza
che venisse registrato neppure il giorno esatto del decesso,
fissato tra la fine del 360 e l'inizio del 361. Anche questa volta si
favoleggiò di un intervento criminoso di Eusebia, che moriva
negli stessi giorni.
La bella Eusebia era colpita dalla più terribile delle malattie per
un'imperatrice, la sterilità. Per curarsi doveva utilizzare potenti e
pericolose pozioni, preparate sotto stretto controllo medico, che
avevano effetti emorragici. Fu così che morì. Il fatto che
disponesse di tali filtri indusse i suoi detrattori ad accusarla di
averli fatti assumere anche alla cognata, che non ne aveva
certo bisogno. Mai Giuliano dà segno di raccogliere queste
accuse.
Il montaggio delle trame contro Eusebia potrebbe essere opera del
partito cattolico. L'imperatrice, come suo marito, era cristiana
ariana, mentre Elena era cattolica e Giuliano notoriamente
pagano. Elena si prestava ad assumere le caratteristiche di una
novella martire e la sua storia utilizzata nella propaganda contro
gli ariani. L'imperatrice venne tumulata in un sarcofago di
porfido, il marmo rosso degli imperatori, nel mausoleo vicino a
S. Agnese sulla Nomentana. Il mosaico che una volta ricopriva
le pareti della cupoletta sopra il sarcofago raffigurava la
Gerusalemme celeste con due figurette, che ritraevano Elena e
sua sorella Costantina.
Eusebia si era indelebilmente macchiata di fronte ai cattolici dopo il
grandioso concilio svoltosi da gennaio a maggio 355 nella
basilica ecclesìa nova (S. Tecla), fatta appositamente costruire
dall'imperatore. L'esito del concilio fu drammatico: il vescovo
cattolico Dionigi fu esiliato e al suo posto la corte impose il
cappadocio Aussenzio, di lingua greca e credo ariano. La sua
ignoranza del latino suscitò l'ostilità dei milanesi e il suo
insediamento dovette avvenire sotto scorta armata. Le
gerarchie cattoliche lo definirono lapidariamente "faccendiere"
per i suoi stretti rapporti con la corte e addossarono la colpa
dell'esilio di Dionigi alla perfida Eusebia. Perché non attribuirle
anche gli attentati contro Elena?
Faustina e Costanza Postuma
Costanzo II aveva subìto il fascino e il potere di Eusebia, ma questo
non gli impedì di risposarsi subito per garantirsi la discendenza,
e la prescelta fu Faustina. Era il terzo matrimonio e fu celebrato
ad Antiochia. A Costanzo non fu però concesso di conoscere
chi lo avrebbe rappresentato fra i posteri, perché morì prima
che la moglie desse alla luce all'inizio del 362 Flavia Costanza,
detta quindi Postuma.
La sorte di questa piccina pare essere segnata sin dall'infanzia.
Orfana di tanto padre, venne strumentalizzata dall'usurpatore
Procopio nel 365 per garantirsi il favore dei soldati fedeli alla
memoria di Costanzo. Procopio era parente di Basilina, moglie
di Giulio Costanzo e madre di Giuliano, e questa parentela con
la famiglia regnante lo autorizzava a proclamarsi difensore della
discendente imperiale: portava in giro per gli accampamenti su
una lettiga la vedova Faustina e la piccina come degli ostaggi.
Procopio venne ucciso dall'imperatore Valente, fratello di
Valentiniano I, e di Faustina non abbiamo altre notizie; la figlia
Costanza venne giocata come pedina dinastica per sancire la
continuità tra la discendenza di Costantino e quella del nuovo
imperatore Valentiniano I, che nel 374 le imporrà il mite figlio
Graziano.
Ma neppure il viaggio per raggiungere lo sposo a Treviri fu senza
incidenti: “mentre pranzava in una pubblica villa chiamata
Pristensis, poco mancò che fosse fatta prigioniera dai Quadi, se
per la protezione di una divinità propizia non si fosse trovato sul
luogo il governatore della provincia pannonica Messalla, che la
fece salire su una carrozza del servizio postale e la ricondusse
di gran carriera a Sirmio, lontana da lì ventisei miglia. Così per
questo caso fortunato fu sottratta al rischio di una miseranda
schiavitù la regale fanciulla, la cui cattura, se non se ne fosse
ottenuto il riscatto, avrebbe inferto una grave iattura allo stato
romano”.
La vita risparmiatale in questa occasione non fu per altro né lunga
né felice. Dopo aver messo al mondo nel 379 un maschietto,
del quale si ignora persino il nome, Costanza morì nel 383 e il
12 settembre dello stesso anno la sua salma fu trasferita nel
mausoleo imperiale di Costantinopoli.
Giustina
Da concubina a imperatrice
Giustina ricompare come signora dei palazzi imperiali di Treviri nel
369, quando diventa la legittima consorte dell'imperatore
Valentiniano I. E' la seconda volta che assurge al vertice del
potere sposando un generale estraneo alle dinastie imperiali.
Alla morte di Costanzo l'impero era passato al cugino Giuliano,
trafitto a morte nel 363 da una lancia, non si seppe mai di quale
esercito. Gioviano, il protector domesticus (ufficiale delle
guardie palatine) che aveva accompagnato la salma di
Costanzo II a Costantinopoli, assunse le redini dello Stato. Suo
suocero Lucilliano, ritiratosi dalla carriera militare a Sirmio,
venne inviato a Milano come magister equitum et peditum
(comandante supremo della cavalleria e fanteria) per porre
rimedio alla situazione incerta creatasi dopo la morte di
Giuliano. Lucilliano doveva portare con sé persone fidate e la
scelta cadde su Seniauco e Valentiniano. La reazione milanese
alla notizia della morte di Giuliano fu talmente violenta che il
solo Valentiniano scampò all'eccidio. Poi, per un improvviso
giro di fortuna, colui che poco prima aveva temuto per la vita si
vide innalzare al comando dello Stato quando Gioviano morì il
17 febbraio 364.
Valentiniano aveva allora quarantatré anni, con un fisico atletico,
splendido colore di capelli, occhi azzurri dallo sguardo obliquo e
inquietante, statura elevata e tratti armoniosi. Era originario
della Pannonia, pagano appena convertito al cristianesimo
(indifferente alla distinzione fra cattolici e ariani); Ammiano lo
descrive come scrittore dignitoso, di eloquio vivace ed incisivo,
pittore e scultore piacevole, inventore di nuove armi, amante
dell'eleganza; per controparte aveva un pessimo carattere:
autoritario fino alla crudeltà per esigere disciplina e obbedienza,
con eccessi di collera incomprensibili per l'educazione classica
romana, implacabile e sommario nell'emettere sentenze e
affrettare giudizi.
Come sede della sua corte aveva inizialmente scelto Milano, dove
soggiornò dal novembre 364 alla fine del 365, poi si spostò a
Lutetia per dirigere le campagne contro gli Alamanni. I frequenti
e micidiali attacchi di febbre cui andava soggetto gli
consigliarono di associare già dal 367 il figlio Graziano, di soli
otto anni, onde garantire la continuità dinastica in caso di
peggioramento delle sue condizioni. Nel discorso che
Valentiniano pronuncia nella cerimonia c'è già il ritratto del
futuro sfortunato imperatore: "Non è stato educato come noi sin
dalla culla a un'inflessibile disciplina, né è maturato nel
sostenere le difficoltà... (ma) poiché è stato educato negli studi
letterari e nelle discipline che allenano l'intelligenza, esaminerà
con retto giudizio il valore delle azioni buone e malvagie; farà in
modo che gli onesti sappiano di essere compresi..." (Am. Mar.
XXVII 6, 8-9).
Poi la corte di spostò a Treviri, e qui entra in scena Giustina.
L'unione aveva fatto scandalo, perché Valentiniano era ancora
sposato con Marina Severa, che ripudiò in favore di questa
avvenente ventenne, tradizionalmente legata al suo stesso
partito politico. La storia della Chiesa non ha potuto accettare
che il padre del mite e cattolico Graziano fosse stato bigamo ed
ha quindi elaborato la leggenda che Giustina, essendo rimasta
orfana e vedova a tredici anni, avesse fatto l'ancella di Marina
Severa. L'imperatrice, colpita dalla perfezione del suo corpo, ne
avrebbe parlato in maniera entusiasta al marito, che avrebbe
promulgato una legge per ammettere il concubinato per gli
imperatori (Paredi, p. 147). Secondo alcune fonti Giustina
divenne la concubina di Valentiniano I nel 363 e ne suggestionò
le decisioni a favore del vescovo ariano Aussenzio nel 364.
Secondo altri l'unione ebbe luogo nel 369 a Treviri.
Giustina era però destinata a recitare il ruolo di vedova. Valentiniano
I morì il 17 novembre 375 in Pannonia, suo paese natale, per
un attacco apoplettico durante la campagna contro Quadi e
Sarmati, lasciando la moglie con quattro figli: Valentiniano nato
nel 371, Grata, Giusta e Galla. In questa occasione vediamo
ricomparire Flavia Massima Costanza, la pustuma figlia
dodicenne di Costanzo II (m. 361), che da Costantinopoli
transitava per la Pannonia per andare sposa a Graziano.
Ammiano Marcellino racconta che per poco non veniva fatta
prigioniera dai barbari, se non fosse
sopraggiunto un
governatore romano a trarla in salvo nella fortezza di Sirmio.
Quando Valentiniano moriva, Graziano era a Treviri, in attesa
dell'arrivo della sposa, mentre Giustina coi figli aveva seguito il
marito in Pannonia e si trovava a cento miglia
dall'accampamento. Appresa la notizia, il generale franco
Merobaude prese in mano le redini della situazione. Venne
nominato magister peditum e, in tale veste, promosse
l'immediata elezione ad augusto di Valentiniano II, sostenuto
anche dallo zio Cereale e dal generale pannonico Equizio.
Graziano cominciava a sperimentare il potere della matrigna
Giustina.
L'imperatrice reggente
Giustina non si muove da Sirmio, dove esercita il ruolo
di imperatrice reggente in nome del piccolo
Valentiniano II, di soli quattro anni.
Pochi mesi dopo la sua presa di potere si verifica il primo dei grandi
scontri che segneranno la storia di Milano: Giustina si misura
con Aurelio Ambrogio, vescovo di Milano dal 374. Alla morte
del vescovo di Sirmio Germinio, di credo ariano, la comunità
cattolica chiama il vescovo di Milano Ambrogio, quale
metropolita della grande diocesi, per sostenere la candidatura
di un vescovo cattolico. Ambrogio era noto alla popolazione di
Sirmio per aver lavorato cinque anni nella prefettura, al servizio
di Sesto Petronio Probo, prima di essere nominato governatore
di Milano. Il biografo di Ambrogio, Paolino, ci offre un vivace
spaccato dello scontro (Vita Ambrosii, 11): "Era sul punto di
essere scacciato dalla chiesa da una moltitudine radunata dalla
potenza dell'imperatrice Giustina, affinché fosse ordinato un
vescovo ariano non da lui ma dagli eretici. Quando era nel
presbiterio, senza curarsi per nulla della sommossa aizzata da
quella donna, una delle vergini ariane, più impudente di tutte le
altre, salendo nel presbiterio afferrò la veste del vescovo con
l'intenzione di trascinarlo nella parte occupata dalle donne,
perché fosse battuto da loro e scacciato". Per inciso questo
episodio ci informa sull'esistenza di vergini consacrate anche al
credo ariano e sulla divisione delle navate, al di sotto del
presbiterio, a seconda dei sessi.
Vince comunque Ambrogio, che riesce a far eleggere un vescovo
cattolico, Anemio. A parte questo smacco, la vita a Sirmio
doveva essersi fatta pesante per l'incalzare dei Goti, soprattutto
dopo il disastro di Adrianopoli del 9 agosto 378, in cui era morto
bruciato l'imperatore d'Oriente Valente, cognato di Giustina.
Graziano si trasferisce a Sirmio per essere più vicino al teatro
delle battaglie, ma alla fine dell'anno si consiglia un
trasferimento di Giustina e figli a Milano, per il momento al
sicuro da qualsiasi attacco.
Giustina guida la riscossa ariana contro Ambrogio
Il trasferimento non piacque a nessuno: non al vescovo che temeva,
a buona ragione, l'invasione delle truppe ariane al servizio di
Giustina e Valentiniano II; neppure a Graziano, che con il
vescovo stava intessendo un rapporto di amore filiale; tanto
meno alla stessa Giustina, che non tollerava rivali a corte.
Paolino continua così la narrazione (Vita Ambr., 12): "Giustina,
trasferita la corte a Milano nel 378, sobillava il popolo con
l'offerta di doni e di onori. Gli animi dei deboli erano accalappiati
da tali promesse: assegnava infatti tribunati e diverse dignità a
coloro che avessero rapito il vescovo dalla chiesa e condotto in
esilio". In effetti Giustina richiese per il culto ariano
l'assegnazione di una basilica e, di fronte al netto rifiuto del
vescovo, la fece occupare. Graziano dovette intervenire
ordinando ufficialmente il sequestro della basilica per garantirne
l'officiatura da parte ariana. L'imperatrice-madre tentò di
sostituire Ambrogio con Giuliano Valente, vescovo cattolico ma
con aperture verso l'arianesimo. Negli atti del concilio di
Aquileia del 381 Ambrogio lo accusa di indossare collana e
braccialetti come i Goti, cosa doppiamente empia, e di turbare
la chiesa milanese provocando tumulti sia davanti alla sinagoga,
sia nelle case degli ariani.
La durezza dello scontro dovette non poco sconcertare il giovane
imperatore, che chiese ad Ambrogio un fidei libellus e il
vescovo compose per lui il De fide, un'amplissima confutazione
dell'arianesimo.
Il 19 gennaio 379 Graziano si associa nell'impero quale augusto
d'Oriente il cattolicissimo generale Teodosio, il cui padre aveva
fatto giustiziare a Cartagine solo tre anni prima. Chi suggerì una
così fatale scelta? Graziano è a Treviri da fine agosto 379 a
primavera 380, accompagnato da Manlio Teodoro, l'influente
comes rerum privatorum a capo della fazione cattolica milanese.
Quali argomenti abbia usato l'amico di Ambrogio per convertire
alla propria fazione il duttile imperatore non sappiamo, ma
quando Graziano ritorna a Milano il 22 aprile 380 emana un
editto che impone la confisca di tutti i luoghi di culto a vantaggio
dei cattolici e impone che sia restituita ai cattolici una basilica
sequestrata dagli ariani non per sua iniziativa (Ambr., De spiritu
I, 8, 19-21).
Il 30 settembre 380 a Sirmio Graziano e Teodosio sottoscrivono un
accordo per una nuova sistemazione dell'impero: Valentiniano II,
di soli nove anni, controlla la prefettura d'Italia, Illirico e Africa
con sede a Milano; Graziano viene spedito a Treviri a
controllare le bellicose Gallie e Teodosio si tiene il meglio,
l'Oriente con sede a Costantinopoli. La frontiera occidentale
era l'inferno per i romani. Graziano lo capisce immediatamente
e il 29 marzo 381 è già di ritorno a Milano con tutto il suo
seguito.
Ambrogio non può che esultare per aver riottenuto il suo docile
alleato, che per la Pasqua gli fa riconsegnare la solita basilica
occupata dagli ariani. Giustina è stizzita e si sposta ad Aquileia
e allora Ambrogio va a portare guerra anche in quella città,
facendo indire con lettere di Graziano un sinodo provinciale che
inquisisca gli ariani. Come si direbbe oggi, era un processo
chiaramente politico e anche la lettura degli asettici atti
processuali ci fanno piombare in un clima cupo che prelude ai
processi medievali.
A Milano la lotta contro Ambrogio è portata avanti con zelo da
Macedonio, il magister officiorum fedele a Giustina, che
controllava diversi uffici del palazzo imperiale, dalla segreteria
alla schola di agentes in rebus, opponendosi all'ingerenza di
Ambrogio nelle questioni civili.
Nell'autunno 382 le legioni di stanza nelle Gallie, preoccupate dalla
mancanza di un comandante supremo che fronteggi
l'inesauribile impeto delle invasioni barbariche, acclamano
imperatore Magno Massimo, un generale ispanico, cattolico,
grande amico di Teodosio; contemporaneamente da Milano
Graziano promulga una serie di editti che minano alle radici la
tradizione religioso-politico romana: viene abolita la nomina per
il mantenimento delle Vestali; vengono confiscati i beni a tutti i
collegi sacerdotali pagani e viene rimosso l'altare della Vittoria
nel senato romano, sul quale giuravano fedeltà i senatori.
Graziano dispone che i sussidi tolti a sacerdoti e vestali vadano
a favore dei baiuli (facchini), vespillones (becchini) e tabellari
(postini). Dal canto suo Ambrogio vieta i refrigeria, i banchetti
che si celebravano sulla tomba nell'anniversario della nascita di
un defunto. Ci resta un'interessante descrizione del rito e della
fatica alla rinuncia nelle Confessioni di S. Agostino (6, 2),
relativamente alle abitudini di sua mamma Monica, a Milano dal
385.
Come monumenti imperituri di tanto fervore cattolico, Graziano e
Ambrogio promuovono la costruzione di due basiliche
extra-murane ma non cimiteriali, una a sud, oggi nota come S.
Nazaro e SS. Apostoli, l'altra a nord, S. Simpliciano.
Nel 25 agosto 383 viene assassinato il ventiquattrenne Graziano nel
corso di un banchetto organizzato in suo onore a Lugdunum
(Lione). Anche in questo caso le fonti storiche sono discordanti:
secondo alcuni nel banchetto fu assassinata tutta la famiglia
imperiale, cioè anche Costanza e il bambino che era nato nel
379. Secondo altri Costanza era già morta e Graziano si era
risposato con Leta. Ambrogio non ne fa menzione. Se
l'eliminazione dell'intera famiglia risponde a verità, prenderebbe
corpo l'ipotesi della lotta dinastica piuttosto del problema del
controllo militare.
Giustina teme che l'alleanza Teodosio-Massimo sia fatale anche al
figlio e rinforza l'esercito goto, ma il giovane Valentiniano II è
schiacciato fra la pressione materna, quella del generale franco
Bautone che vuole governare a suo nome e quella psicologica
del vescovo. Non fa in tempo a sottoscrivere il ripristino dell'ara
della Vittoria in senato, che Ambrogio gli scrive in maniera così
sottilmente minacciosa da fargli annullare il decreto. E così
anche quando ordina la restituzione dei fondi ai collegi
sacerdotali, Ambrogio riesce a bloccare l'esecuzione del
decreto.
Alla fine del 384 Giustina fa venire a Milano Mercurino, vescovo
ariano di Durostorum (Silistra, sul Danubio in Romania),
deposto da Teodosio. Doveva essere un goto, discepolo di
Ulfila. Giustina tenta di organizzare una chiesa ariana da
contrapporre a quella cattolica, ed è guerra aperta tra lei e il
vescovo. Nella primavera 385, in preparazione della Pasqua, gli
uffici di corte chiedono ad Ambrogio di mettere a disposizione la
basilica ecclesìa per la celebrazione delle feste. Il vescovo si
reca subito a corte (Ep. 75A, 23): "Quando il popolo seppe che
mi ero recato a palazzo, vi fece irruzione con tale impeto che
non furono in grado di tener testa alla sua violenza; il conte
militare uscì con le truppe leggere per mettere in fuga la folla e
io fui pregato di placare il popolo promettendo che nessuno
avrebbe invaso la basilica ecclesìa". Una ben orchestrata
sommossa?
Il risentimento di Giustina è enorme: "L'imperatore non deve ricevere
una basilica in cui recarsi e Ambrogio vuole essere più potente
dell'imperatore?". Valentiniano assegna allora d'ufficio agli
ariani la basilica Porziana extra muros, la cui identificazione è
rimasta un enigma irrisolto in tutti questi secoli, ma i cattolici la
occupano. Le truppe imperiali circondano allora sia la Porziana,
sia la basilica ecclesìa e la Vetus, ma di fronte alla resistenza
inflessibile di Ambrogio, onde evitare spargimenti di sangue, le
truppe si ritirano.
Giustina si sposta allora da luglio a dicembre 385 ad Aquileia per
preparare il contrattacco ad Ambrogio. Il 23 gennaio 386
Valentiniano II emana da Milano una costituzione rivolta al
prefetto pretorio Eusiginio che condanna l'integralismo di
Ambrogio e in cui si concede diritto di culto pubblico agli ariani,
pena di morte a chi si opponeva (Cod. Theod. XVI 1.4).
Ambrogio viene invitato a lasciare Milano e a trovarsi una sede
di sua scelta. La replica di Ambrogio è nel sermone che
pronunciò nel marzo contro il suo rivale ariano Mercurino
Aussenzio: "Imperator enim intra Ecclesiam, non supra
Ecclesiam est" (Ep. XXI), frase che valse ad Ambrogio la scelta
a patrono della città. La reazione di Giustina, per mano del figlio,
non tarda a farsi sentire: Ambrogio deve presentarsi con giudici
di sua scelta davanti al consistoro per sostenere un
contraddittorio con Mercurino Aussenzio. Ambrogio rifiuta e
invita provocatoriamente il giovane imperatore a trasferirlo pure
d'ufficio se non teme la guerra civile. L'esistenza del vescovo si
fa durissima ed è seguito a vista dalla polizia imperiale.
Per la Pasqua la corte chiede la basilica ecclesìa nova, ma i fedeli
cattolici occupano già dalle Palme le tre basiliche, nova, vetus e
Porziana. Per tenere svegli ed emotivamente eccitati i fedeli,
Ambrogio introduce a Milano i canti antifonati, che rimarranno
nella
tradizione
liturgica
ambrosiana.
L'occupazione,
cominciata venerdì 27 marzo, si protrae fino a giovedì 2 aprile,
poi Giustina demorde e decide di andare a festeggiare la
Pasqua nella più tollerante Aquileia.
A giugno è la volta di Ambrogio a sferrare un colpo basso: in maggio
aveva consacrato la basilica degli Apostoli;
il mese dopo,
dovendo consacrare anche la basilica che da lui prese il nome
e avendo predisposto la sua sepoltura sotto l'altare maggiore,
la reazione ariana e imperiale è immediata: forse che il vescovo
aveva avuto la presunzione di costruirsi un mausoleo per sé?
Allora Ambrogio il 17 giugno 386 inviene presso la basilica dei
SS. Nabore e Felice i corpi di due decapitati anonimi, che
chiameranno Gervasio e Protasio, e li farà seppellire presso di
sé: "Poiché non ho meritato personalmente di essere martire,
ho almeno ottenuto questi martiri per voi" (Ep. XXII, 12).
La provocazione verso gli ariani era scoperta, perché l'arianesimo
negava il culto dei martiri o dei santi o più in generale delle
reliquie. In occasione delle "invenzioni" si alzavano le grida
degli invasati dai demoni, che in questo modo attestavano
l'autenticità dei corpi dei martiri. Dopo la "confessione"
demoniaca, gli invasati erano liberati dagli spiriti immondi. Gli
ariani si facevano beffe di tutto questo trambusto: "Nella corte
una moltitudine di Ariani, che attorniavano Giustina, derideva la
grazia divina che il signore Gesù mediante le reliquie dei suoi
martiri s'era degnato di conferire alla Chiesa cattolica, e andava
raccontando che Ambrogio s'era procacciato con denaro alcuni
uomini che fingessero d'essere vessati da spiriti immondi e
tormentati da Ambrogio stesso e dai martiri. E così parlavano gli
Ariani con linguaggio di giudei, certo loro consimili" (Paolino, 15,
1-2). Il modello dell'invenzione è quello usato dall'imperatrice
Elena, madre di Costantino, nel ritrovare sul Golgota la S.
Croce, avvenimento celebrato da Ambrogio nell'orazione
funebre per Teodosio.
Giustina è esasperata: nel novembre 386 si trasferisce
temporaneamente ad Aquileia e intanto studia le modalità per il
passaggio definitivo della capitale da Milano a Roma. Il vuoto di
Milano provoca la fatale discesa di Massimo, stanco anche lui
della scomoda sede di Treviri. Giustina coi figli fugge a
Salonicco nell'estate del 387, richiedendo l'intervento armato di
Teodosio. Il prezzo preteso da Teodosio è alto: prima di tutto
Giustina e i regali rampolli devono abbracciare il cattolicesimo,
poi, quale garanzia, gli deve essere concessa Galla, appena
pubere. Giustina sarebbe passata attraverso le fiamme del
fuoco eterno pur di conservare l'impero al figlio Valentiniano e
accetta senza troppe riflessioni tutte le condizioni. Ricevuta una
flotta per tornare in Italia, s'imbarca sulla nave col figlio pronta a
dar battaglia, ma non rivedrà più le coste italiane perché una
provvidenziale morte le impedì di assistere anche alla rovina
dell'amato Valentiniano II.
Le accuse contro Giustina continueranno anche dopo la sua morte.
Paolino ci informa infatti che un tale Innocenzo, sottoposto a
tortura dal giudice in un processo di stregoneria, confessò che i
maggiori tormenti gli venivano inflitti dall'angelo custode di
Ambrogio, perché ai tempi di Giustina era salito di notte sul tetto
della chiesa per aizzare gli odi della gente contro il vescovo e ivi
aveva compiuto sacrifici. Aveva anche mandato demoni a
ucciderlo, ma non erano neppure riusciti ad avvicinarsi a lui,
perché una barriera di fuoco difendeva la casa; un altro era
arrivato armato fino alla camera, ma il braccio si era paralizzato
finché non aveva confessato che il mandante era stata Giustina
(Vita Ambr. § 20).
Galla, la condanna all'oblio
Durante l'esilio a Salonicco nell'autunno del 387 Galla viene data
precipitosamente in moglie a Teodosio, vedovo da due anni e
quarantenne, che ha già due figli, Arcadio e Onorio. Galla ha
circa tredici anni. Il matrimonio serve a sancire la legittimità
della presenza di Teodosio sul trono d'Oriente, mentre per
l'Occidente si tenta di recuperare il trono a Valentiniano II.
La manovra fu così plateale che bisognò subito ammantarla di
romanticismo. Zosimo, storico bizantino vissuto alla metà del V
sec., racconta che Teodosio stava esponendo al consistoro la
possibilità di un accordo col suo antico amico Magno Massimo,
quando entrò Giustina con Galla, e fu coup de foudre. Giustina
acconsentì a concedere la figlia in matrimonio solo a condizione
che Teodosio vendicasse la morte di Graziano, dichiarando
guerra a Massimo. Alcuni vollero vedere in Galla doti che
difficilmente oggidì potremmo attribuire a una tredicenne: Galla,
grazie alla sua avvenenza e al grande fascino personale,
avrebbe esercitato un grande ascendente sul marito, che solo
per lei avrebbe combattuto contro il suo amico Massimo.
Come età Galla è molto più vicina ai figli di Teodosio che non al
marito: ha solo tre anni più di Arcadio e la loro convivenza nel
palazzo di Costantinopoli si dimostra subito problematica.
Verso la fine del 390, anzi, i rapporti tra i due si erano fatti
talmente gravi da rendere necessario il richiamo di Teodosio da
Milano per placare gli animi. Galla doveva essere convinta della
superiorità dinastica che vantava rispetto ad Arcadio e Onorio,
sebbene lei stessa non fosse che la figlia di un ex generale
pannonico e di una infaticabile arrampicatrice sociale. La
soluzione fu che lei si trasferisse con la piccola Placidia in un
palazzo che da lei prese il nome, la domus Placidiana
(Marcellinus Comes, Chronicon).
Le gravidanze di Galla si susseguono, ma con esito infelice. Il primo
figlio nasce nell'estate 388 e si chiama Graziano, poco
opportunamente potremmo dire, visto che era stato Teodosio a
relegare l'omonimo fratellastro di Galla a Treviri e a provocarne
la morte. Il piccolo seguì presto la sorte dello zio.
Nel 389 vede la luce Placidia. Claudiano, panegirista di Stilicone,
descrive la bambina vestita d'oro e incoronata a fianco dei
fratellastri in occasione della cerimonia d'incoronazione ad
augusto del piccolo Onorio il 10 gennaio 393 a Costantinopoli:
dovevano sembrare poco più di sontuose mascherine di
carnevale, lui a nove anni con la corona raggiata in testa e i
simboli del comando, lei una pupattola di quattro anni rifulgente
d'oro. Sul cocchio che dal circo li ricondusse al palazzo
mancava mamma Galla, forse impedita dalla gravidanza che
doveva concludersi con la prematura morte di Giovanni.
Era una ben strana sorte la sua: lei, la legittima erede dell'impero
esiliata dal palazzo, dove stava invece la nipote di Teodosio,
Serena, e condannata a veder morire i suoi figli maschi come
un tempo l'infelice Elena. Certo ci sarà stato qualcuno che avrà
parlato di stregonerie e forse ci saranno state vittime innocenti
per compensare queste morti premature.
L'ultima immagine che abbiamo di Galla la dipinge Zosimo al
momento in cui le fu comunicata la morte del fratello
Valentiniano II nel 392: "Galla riempì la reggia delle sue grida".
Nella sua laconicità la nota di Zosimo è piena di pathos come
l'Urlo di Munch, vi si sente la disperazione, la rabbia, il rancore
verso il marito che aveva causato - direttamente o
indirettamente - per la seconda volta la morte di un suo fratello.
Cosa fece poi Galla per meritare la censura degli storici, come
visse? Sappiamo solo che morì nella primavera 394 in
occasione di un altro parto. Ma neppure il pio vescovo
Ambrogio trovò una parola di conforto per lei, che non compare
fra le anime del paradiso, né per il neonato. Forse, come
un'eroina di una tragedia greca, Galla aveva preferito togliere la
vita al bambino che aveva in grembo, sacrificando anche se
stessa, pur di privare il marito della discendenza e punirlo per la
morte di Valentiniano. Forse era uscita di senno, che per la
mentalità dell'epoca equivaleva ad essere posseduta dal
demonio. Il silenzio con cui l'hanno avvolta gli storici lascia
penetrare solo l'eco delle sue urla dai recessi della reggia.
Grata e Giusta, le sorelle inconsolabili
Alla morte di Valentiniano II il 15 maggio 392, anche le sorelle
rimaste a vivere nel palazzo di Milano appaiono straziate dal
dolore. Il giovane imperatore era stato trovato impiccato, ma si
sospettò immediatamente che l'apparente suicidio servisse a
mascherare l'assassinio per strangolamento (Paolo, Historia).
Una morte in battaglia sarebbe stata più comprensibile, ma due
fratelli assassinati lasciavano le sorelle attonite, soprattutto se il
mandante prendeva nei loro incubi le sembianze del cognato
Teodosio. Lui aveva assegnato entrambi i fratelli alla pericolosa
sede delle Gallie, lui forse aveva soffiato sulle illusioni di potere
di avidi barbari e funzionari corrotti. La scomparsa di una
personalità dominante come quella di Giustina aveva lasciato i
figli privi di guida. Giusta e Grata si erano unite saldamente al
fratello, sperando di formare una coalizione invincibile.
Nell'orazione funebre che Ambrogio pronuncia per il funerale del
giovane imperatore si accenna a questo vincolo affettivo
fortissimo: (36) "Quale affetto Valentiniano ha nutrito per le
sorelle. In loro trovava riparo, in loro consolazione, in loro
rilassava l'animo suo e ristorava il suo cuore oppresso dalle
preoccupazioni. Baciava alle sorelle mani e capo, dimentico
della sua dignità imperiale e tanto più sovrastava gli altri in virtù
del suo potere, tanto più si mostrava umile con le sorelle. (38)
Nel beneficio della vostra presenza poneva ogni suo conforto,
così che non sentiva troppo la mancanza di una sposa. Perciò
differiva le nozze, poiché lo saziava il tenero affetto della vostra
gentilezza."
Valentiniano si sposò, ma non compare mai citata la moglie. Le
sorelle, a due mesi dalla morte, erano così inconsolabili da
meritare un affettuoso ma risoluto rimprovero da Ambrogio: (42)
"Voi desiderate abbracciare il suo corpo, vi stringete con le
vostre persone al suo tumulo. Quel tumulo sia per voi la dimora
di vostro fratello, sia esso il palazzo imperiale dove riposano
quelle membra a voi care. (48) Non avete motivo di affliggervi
oltre misura per vostro fratello: era nato uomo, era soggetto alla
fragilità umana. Ma ammettiamo pure che fosse doveroso
manifestare con gemiti il proprio dolore. Fino a quando si
dovrebbe prolungare il tempo del lutto? Per due mesi interi vi
siete strette ogni giorno intorno alla spoglia di vostro fratello..."
ora basta, impone Ambrogio.
E così, con l'immagine del lutto e del dolore, anche Grata e Giusta
svaniscono dalla storia non lasciando altra traccia che le loro
lacrime.
Un'imperatrice mancata: Serena
Serena era figlia di Onorio, fratello di Teodosio, e quindi di origine
ispanica. Viene descritta da Claudiano come bionda, bellissima,
ma anche ambiziosa, autoritaria, senza scrupoli. Alla morte dei
genitori venne adottata come figlia da Teodosio, che l'adorava:
era l'unica capace di arrestare le sue collere esplosive, di
allietare le sue depressioni, di lenire le sue febbri.
La giovane donna crebbe consapevole del suo fascino e del suo
potere, che esercitò a Costantinopoli dando parecchio filo da
torcere alla pia Flaccilla, la prima moglie di Teodosio, e poi forse
a Galla. Nel 384 venne data in moglie a un abile generale
semi-barbaro, Stilicone. Sua madre si dice fosse
un'aristocratica romana - eventualità contraria alla legge - suo
padre un capo vandalo. Aveva seguito a Costantinopoli la
carriera dei militari palatini: tribunus, comes stabuli sacri,
comes domesticorum e infine generale in capo di tutto
l'esercito.
A Costantinopoli nasce la prima figlia, Maria, nel 385; poi, quando
nell'ottobre 388 Teodosio assegna la sede di Milano al piccolo
figlio Onorio che, avendo solo cinque anni, resta a
Costantinopoli, a Milano viene Serena. Avrà considerato il
cambio di sede un male indispensabile per tenere sotto
controllo Grata e Giusta, facili prede di qualunque
arrampicatore privo di scrupoli. Nel 389, in occasione di una
visita a Roma di Teodosio, nasce Eucherio: l'evento fu
considerato di buon auspicio e, essendo Serena sua figlia
adottiva, Teodosio assaporò la gioia di essere nonno.
Dopo la morte di Galla nella primavera 394, Teodosio decide di
affidare alle cure di Serena a Milano sia Onorio che la piccola
Placidia e quando alla fine dell'anno l'imperatore si ammala
gravemente a Roma, sentendo approssimarsi la fine manda a
chiamare Serena col piccolo Onorio. La nipote viene investita in
questa occasione di un ruolo non contemplato giuridicamente
ma affidatole di fatto: è la tutrice di Onorio, come un tempo
Giustina lo era stata di Valentiniano II. Ma
Giustina era
l'imperatrice-madre, mentre Serena è solo una cugina destinata
a reggere col marito semibarbaro la parte occidentale
dell'impero invece di Onorio.
Il 17 gennaio 395 Teodosio spira a Milano, affidando l'educazione
spirituale di Onorio e Placidia ad Ambrogio. La storia sembra
ripetersi per il vescovo di Milano che, misogino qual era, deve
confrontarsi per la seconda volta con un'imperatrice. Rispetto a
Giustina i rapporti potevano essere migliori almeno dal punto di
vista confessionale, perché Serena era cattolica. Ma fra
Stilicone e Ambrogio sembra aleggiare un'ostilità espressa più
dai fatti che dalle parole, al punto che neppure le basiliche
cristiane vengono ritenute luoghi sacri e possono essere invase
da soldataglie.
Gli anni che seguirono la morte di Teodosio furono segnati da una
profonda instabilità politica, dovuta allo scoppio di quella che
con linguaggio attuale possiamo chiamare la questione
balcanica, argomento che si trascina sotto varie forme fino ai
nostri giorni e troppo complesso per essere trattato in questo
contesto. Serena si sentì sfuggire di mano la situazione e alla
fine del 397 sacrificò la prima figlia Maria sull'altare dinastico,
dandola in moglie a Onorio. La cerimonia fu a dir poco sontuosa:
Maria ricevette in dono i gioielli della corona, con i quali fu
sepolta già nel 404. I gioielli furono ritrovati nel XVI sec.,
quando aprirono il mausoleo di fianco a S. Pietro; le pietre
preziose furono immesse sul mercato e l'oro fuso per la zecca
papale. L'assenza di figli, nonostante le tendenze di Onorio
fossero risaputamente omosessuali, fu imputata a sortilegi
operati da Serena per assicurare l'eredità al figlio Eucherio.
L'accusa ci suggerisce che l'immagine popolare di Serena
fosse piuttosto offuscata e che di lei si vedesse solo la grande
ambizione personale.
Epilogo
Con la morte di Maria dovrebbe terminare il capitolo sulle auguste
signore di Milano, perché Onorio volle trasferire la corte a
Ravenna, e allora ci limitiamo ad accennare a come si concluse
la vita dei personaggi.
Serena temporeggiò facendo sposare nel 407 a Onorio l'altra figlia,
Termanzia, in attesa che Eucherio potesse sposare Placidia.
Onorio allora accusò Stilicone di volersi costruire un regno
barbarico in Gallia con a capo Eucherio. Si scatenò una
crudelissima rivolta romana contro la presenza di barbari
nell'esercito e nell'agosto 408 Onorio fece arrestare e
giustiziare il suocero Stilicone; Eucherio, Serena e Termanzia
fuggirono a Roma, ma l'antipatia del Senato romano verso
Serena e il figlio ne decretò la morte. Serena aveva sfidato le
antiche divinità romane sottraendo una collana alla statua di
Giunone per adornarsene: era una sacrilega e non poteva
essere aiutata. Termanzia si ritirò in un monastero, mentre sua
madre e suo fratello venivano decapitati.
A orchestrare la regìa delle accuse fu Placidia, che finalmente
poteva vendicarsi di essere stata segregata e strumentalizzata
per diciannove anni da Serena (Zosimo, V, 38). Contro Placidia
si sono schierati gli storici a noi contemporanei, bollandola del
titolo di delatrice. Certo era una donna che aveva meditato e
accarezzato la sua vendetta nelle interminabili giornate passate
alla corte di Milano, in un'adolescenza priva di gioie e di affetti.
La Nemesi a volte assume questo aspetto.
Bibliografia
Fonti
Ambrogio, Epistole, Atti del sinodo di Aquileia e Orazioni funebri
Ammiano Marcellino, Storie
Claudiano, De IV Consulatu Honorii e Laus Serenae
Marcellinus Comes, Chronicon, P.L. LII 919
Paolo, Storia, M.G.H.A.A. II
Paolo Diacono, Vita di S. Ambrogio
Sozomeno, Storia ecclesiastica
Zosimo, Storia nuova
Testi storici e critici
Alzati C., Ambrosiana ecclesia, Milano 1993
Athanassiadi-Fowden P., L'imperatore Giuliano, Milano 1984
Cantarella E., L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna
nell'antichità greca e romana, Roma 1981 (Sormani H COLL 439-A-38)
CHAUSSON F., La genéalogie de l'imperatrice Justine, in "Archeologia
cristiana", c.s.
Duby G.-Perrot M., Storia delle donne. L'antichità, Bari 1990, p. 342
Fortina Marcello, L’imperatore Graziano, SEI 1953 (Sormani N 1680)
Mazzarino S., Stilicone, Milano 1990
Momigliano A., a cura, Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo, Torino 1968
(Sormani A COLL 18-98)
Nardi E., Procurato aborto nel mondo antico, Milano 1971
Paredi A., Vita di S. Ambrogio, Milano 1985
Rousselle A., Sesso e società alle origini dell'età cristiana, Bari 1985 (Sormani,
L COLL 592-140)
Storia di Milano, vol. I, pp. 315-318, 326-338, 348-356, 362, 382, 609, 655,
678, 693.
4.2 Le regine longobarde tra storia romanzata e
diritto
Le regine longobarde tra storia romanzata e
diritto
di Maria Grazia Tolfo
Sommario
Una misconosciuta matrilinearità nella discendenza dinastica
Paolo, Diacono e narrator cortese
Teodolinda
Gundeberga, una vita in ostaggio dei mariti
Wigelinda: un monastero, due potenziali fondatrici
Il monastero di Aurona, rifugio delle mutilate dinastiche
Bibliografia
Una misconosciuta matrilinearità nella discendenza
dinastica
Dallo studio del diritto longobardo si possono trarre interessanti
spunti per considerazioni storiche, ma irrilevanti per
comprendere la logica delle successioni, perché la posizione
occupata dalla donna all'interno delle dinastie esula interamente
dal quadro legislativo. Nonostante alla donna spettasse un ruolo
giuridicamente marginale, essendo sottoposta alla tutela
maschile, dall'analisi dell'albero genealogico dei regnanti
longobardi in Italia si ottiene la conferma di un regime di
assoluta parità ereditaria tra fratelli, a prescindere dal sesso.
Quando l'erede è una donna, sarà suo marito a governare per
lei, poi alla sua morte il diritto al trono passerà a suo fratello e
così via, fino a esaurimento della prima successione.
Sottostanno a questo regime misto dinastico - linea sia maschile che
femminile - i Goti e i Longobardi ma non i Franchi, per i quali
vige la successione esclusivamente maschile e la divisione
immediata della terra fra tutti i figli. Per quanto riguarda ad
esempio i Goti discendenti da Teodorico, è sua figlia
Amalassunta a ereditare il potere, diviso poi con il cugino
Teodato, figlio di Amalafrida, sorella di Teodorico. La sorella di
Teodato, Amalaberga, sarà la nonna di Alboino e la bisnonna di
Agilulfo. E' in linea femminile quindi che la dinastia gota degli
Amali e quella longobarda dei Lethingi si uniscono. Alboino a
sua volta, figlio di una Amala e di un longobardo dei Gausi,
sposerà Rosmunda, che discendeva sì dal re dei Gepidi
Cunemondo, ma anche da una principessa lethinga, figlia di re
Ildechido. Quando Alboino entra in Italia porta con sé grazie alla
moglie il carisma dei Lethingi e grazie alla madre l'eredità
ostrogota.
Le alleanze matrimoniali, prima della discesa di Alboino in Italia,
erano state programmate in modo da unire saldamente con
vincoli di parentela tutte le tribù germaniche di Franchi, Eruli,
Gépidi, Turingi, Bàvari, Burgundi. Ma con l'occupazione italiana
e la ribellione aperta all'impero bizantino si rompono anche i
legami di solidarietà germanica: come i Franchi controllavano la
Gallia e tutto il territorio transalpino tramite gli alleati, così i
Longobardi intendono crearsi il loro stato autonomo. Turingi e
Bàvari, legati alla dinastia dei Lethingi, entrano nell'orbita
longobarda abbandonando i Franchi; questo tradimento innesca
una serie di regicidi orchestrati da congiure franco-bizantine.
Eliminate le alleanze con le altre tribù germaniche, acquisterà
sempre maggior importanza per i regnanti italiani la
discendenza dai Lethingi, rappresentata dalla madre di
Teodolinda, Waldrada. Il trono italiano sarà quindi retto dai mariti
prima di Teodolinda, poi della sua primogenita Gundeberga.
Estintasi questa discendenza, passerà ai discendenti di
Gundoaldo, fratello di Teodolinda, fino all'estinzione del ramo
italiano di Lethingi nel 712 con re Ariberto II.
Paolo, diacono e narrator cortese
In confronto col disinteresse dimostrato dagli storici romani riguardo
alle biografie femminili, lo storico longobardo Paolo Warnefrido
abbonda di ritratti di sovrane che abbellisce con elementi
romanzati. L'attenzione che rivolge alle donne è notevole ed è, a
mio parere, indizio del loro ruolo di comprimarie, più che di
subalterne, contrariamente a quanto la legge vorrebbe indicare.
E' anche vero che i regnanti di ogni tempo sono sopra la legge
con la quale governano i loro sudditi e che quindi le regine
possono, secondo le caratteristiche femminili germaniche, agire
in modo altrettanto volitivo dei loro mariti.
Paolo Diacono compone la storia del suo popolo nel silenzio
dell'abbazia di Montecassino, quando nel 787 Adelchi, l'ultimo re
dei Longobardi e fratello dell'infelice Ermengarda, torna in Italia
con l'esercito bizantino per scacciarne i Franchi.
La base
storica per la narrazione delle origini dei Longobardi e del loro
arrivo in Italia fu la Cronaca compilata da Secondo di Non, abate
del monastero di S. Giorgio presso Trento e consigliere
spirituale della regina Teodolinda. La sua storia ci è pervenuta
molto frammentaria, ma sappiamo che fu utilizzata dal diacono
Paolo Warnefrido due secoli dopo per la sua Storia dei
Longobardi. L'altra fonte è l'Origo gentis Langobardorum,
composta sulla scorta della tradizione orale durante il regno di
Grimoaldo (662-671), marito di Wigelinda, una delle nostre
protagoniste, quale premessa all'Editto di Rotari (643). Per
l'intersezione con le vicende dei Franchi, Paolo utilizzò la
Historia Francorum di Gregorio vescovo di Tours, che narra la
saga dei Merovingi fino al 590 circa.
Paolo è sì longobardo, nato a Cividale intorno al 720, ma è
strettamente legato a Carlomagno, presso la cui corte ha
insegnato grammatica dal 782 al 786, anno in cui viene
sostituito dal monaco erudito Alcuino di York, che organizzerà la
scuola palatina carolingia. In tutta la sua storia si avverte la
presenza dei Franchi dietro le quinte, colti a manovrare come
invisibili burattinai gli eventi nella penisola italiana, ma la
preoccupazione costante di Paolo Warnefrido è quella di trovare
spiegazioni da romanzo rosa, quasi un feuilleton, riversando sul
fascino
femminile
le
conseguenze
delle
manovre
franco-bizantine. Meno preoccupato di salvare l'immagine delle
regine longobarde, esaltando apertamente il ruolo svolto dai
Franchi, è lo storico Fredegario, che offre quindi una sorta di
contraddittorio con Paolo.
Già la vicenda di Rosmunda, la principessa dei Gépidi sposata da
Alboino, il primo re dei Longobardi stanziato in Italia, sarebbe
emblematica per illustrare l'artificiosa trama romanzesca
sottostante la vicenda politica, ma dovendo limitarci alle
longobarde che vissero o lasciarono loro testimonianze a Milano
analizzeremo solo le storie di Teodolinda, di sua figlia
Gundeperga, di Wigelinda e di Aurona.
Teodolinda
Scene da un matrimonio
(Anno 588) " Il re Autari mandò i suoi messaggeri in Baviera a
chiedere in sposa la figlia del re Garibaldo. Questi li accolse con
favore e promise loro sua figlia Teodolinda. Appena Autari
conobbe la risposta di Garibaldo, volle vedere di persona la sua
sposa e partì subito per la Baviera, portando con sé pochi
uomini e un vecchio di fiducia, d'aspetto piuttosto autorevole.
Quando furono ammessi alla presenza di Garibaldo, Autari, di
cui nessuno conosceva la vera identità, si avvicinò a Garibaldo e
gli disse: - Il mio signore Autari mi ha mandato qui apposta per
vedere la vostra figliola, sua sposa e nostra futura regina, onde
io possa poi descrivergli con precisione che aspetto ha.
Garibaldo fece subito venire la figlia e Autari restò a guardarla in
silenzio, poiché era molto graziosa. Infine, soddisfatto per la sua
scelta, disse al re: -Vostra figlia è davvero bella e merita di
essere la nostra regina. Ora, se non avete nulla in contrario,
vorremmo ricevere dalle sue mani una tazza di vino, come ella
dovrà fare spesso in avvenire con noi. - Garibaldo acconsentì e
la principessa, presa una tazza di vino, la porse prima a colui
che sembrava il più autorevole, poi la offrì ad Autari, senza
immaginare neanche lontanamente che fosse il suo sposo: e
Autari, dopo aver bevuto, nel restituire la tazza, sfiorò
furtivamente con un dito la mano e si fece scorrere la destra
dalla fronte lungo il naso e il viso. La principessa riferì
arrossendo la cosa alla nutrice e questa le rispose: - Se costui
non fosse il re che deve essere tuo sposo, certo non avrebbe
osato neppure toccarti. Ma adesso facciamo finta di niente: è
meglio che tuo padre non ne sappia nulla. Secondo me, però,
quell'uomo è un vero re e un marito ideale.- In effetti Autari era
allora nel fiore della giovinezza, ben proporzionato di statura,
biondo di capelli e assai bello d'aspetto. Finalmente i Longobardi
si accomiatarono dal re e in breve tempo furono fuori del
territorio dei Norici. Ma non appena giunsero in vista dell'Italia,
quando i Bavari che li scortavano erano ancora con loro, Autari
si sollevò il più possibile sul cavallo e con tutte le forze scagliò la
piccola scure contro l'albero più vicino, dicendo: - Tali colpi suol
dare Autari!- (Anno 589) Successivamente, essendo diventata
precaria la situazione di Garibaldo in seguito all'invasione dei
Franchi, Teodolinda si rifugiò
in Italia con suo fratello
Gundoaldo e fece avvertire Autari del suo arrivo. Subito egli le
andò incontro con gran pompa per celebrare le nozze nel campo
di Sardi, presso Verona e la sposò il 15 maggio tra l'esultanza
generale." (Paolo Diacono, III, 30)
Autari è figlio di Clefi, duca di Torino e poi re dei Longobardi dal 572
al 574, quando viene assassinato. Gregorio di Tours, ripreso da
Paolo Diacono (III.28), ci informa che la sorella del re dei
Franchi Childeperto era stata promessa ad Autari, che aveva già
versato i doni. Ma poi il re franco rompe la promessa e fidanza la
sorella con un re visigoto di Spagna, con la scusa che
quest'ultimo è cattolico. Quindi, consapevole di aver acceso una
miccia, nel 583 Childeperto informa l'imperatore di Bisanzio
Maurizio di essere disposto ad allearsi con lui contro i
Longobardi. Primo casus belli: la rottura di un contratto
matrimoniale. I Longobardi scendono in guerra e vincono.
Questa versione, che dovrebbe spiegare la rottura della promessa
matrimoniale con la diversa appartenenza religiosa, non regge.
Nel 583 re Childeberto, quando chiama in soccorso i Bizantini
dopo aver mandato a monte il matrimonio della sorella, ha solo
undici anni e governa in sua vece la madre visigota Brunechilde,
che probabilmente ritiene di poter contravvenire agli accordi
presi da suo marito Sigeberto (morto nel 576), cognato di
Alboino. Brunechilde preferisce evidentemente rinsaldare i
legami dinastici con la sua gente e promettere la figlia a un
visigoto di Spagna.
Ora tocca ad Autari passare al contrattacco. Teodolinda, figlia del re
dei Bàvari Garibaldo, è promessa sposa di Childeperto (dal che
si potrebbe dedurre che Teodolinda è coetanea o un po' minore
del promesso sposo, nato nel 572). In questo caso è il re
bavarese a venir meno al contratto matrimoniale e a saltare sul
carro dell'alleanza longobarda. La conseguenza è ovvia:
Childeperto col suo esercito reclama il mantenimento della
promessa invadendo la Baviera, mentre i figli di Garibaldo
fuggono in Italia. Il re bavarese è costretto a diventare vassallo
franco.
Paolo Diacono nella sua narrazione è rapito dalla descrizione della
bellezza fisica dei protagonisti, dalla gestualità legata alla
seduzione, dal rito della coppa di vino, simbolo della regalità.
Si sofferma più sui comprimari che neanche sul re bavaro e
mentre riusciamo a visualizzare l'anziano autorevole e l'intuitiva
nutrice, Garibaldo resta solo un'etichetta sociale, è il re.
Il giorno delle nozze di Autari e Teodolinda, celebrate nei pressi di
Verona, si annunciò gravido di funesti presagi, perché venne
assassinato Ansulo, cognato di Autari,
e Agilulfo, l'altro
cognato, fu fatto segno di questo prodigio:
"Il giorno del matrimonio tra Autari e Teodolinda scoppiò
improvvisamente un temporale e un pezzo di legno, forse un
albero, che si trovava nel recinto regale, fu colpito da un fulmine
con gran fragore di tuoni. Ora, alle nozze era presente anche
Agilulfo, duca di Torino, il quale aveva tra i suoi servi un indovino
che, per arte diabolica, conosceva il significato dei fulmini.
Costui disse al padrone: - La donna che ora ha sposato il nostro
re, tra non molto sarà tua moglie. - Udendo questo Agilulfo
minacciò di tagliargli la testa se avesse osato dire ancora una
parola; ma il servo aggiunse: - Puoi anche uccidermi, ma questo
non cambia il destino: quella donna è venuta qui per unirsi in
matrimonio con te. - E così infatti avvenne più tardi." (III, 30).
Come si vede, lo storico longobardo liquida i fatti principali con
poche parole. Un presagio annuncia ad Agilulfo non solo che
Autari sarebbe morto, ma anche che lui ne avrebbe sposato la
vedova, e il solo commento è: "e così infatti avvenne più tardi",
come se Autari non fosse stato assassinato e fosse più
importante dimostrare la correttezza di un presagio che non
investigare sull'accaduto.
Paolo Diacono accenna appena ai retroscena dell'assassinio di
Autari e si estasia nel racconto di questo secondo matrimonio:
"Mentre gli ambasciatori longobardi si trovavano in Francia (in
missione di pace), re Autari morì avvelenato a Ticinum in 5
settembre (590). Sùbito fu inviata un'altra ambasceria da
Childeperto, re dei Franchi, per annunciargli la morte di Autari e
sollecitare la pace. Il re accolse i messaggeri, e di fronte alla
grave notizia promise che per il futuro avrebbe concesso loro la
pace, e pochi giorni dopo li licenziò con una promessa generica.
Morto Autari, i Longobardi, che si erano affezionati alla regina
Teodolinda, non solo le permisero di conservare la dignità regale
ma la invitarono anche a scegliersi come marito l'uomo più
indicato per fare il re. Teodolinda si consigliò con i saggi e scelse
Agilulfo, duca di Torino: egli era un uomo valoroso e bellicoso,
idoneo sia fisicamente che moralmente ad assumere il potere.
La regina lo invitò subito a recarsi da lei e andò ad aspettarlo di
persona a Lomello. Durante questo incontro, dopo le solite
parole di saluto, Teodolinda si fece versare un po' di vino e dopo
aver bevuto per prima offrì ad Agilulfo quello che restava.
Agilulfo prese la tazza e le baciò delicatamente la mano; ella
allora, sorridendo e diventando tutta rossa in volto, gli disse che
non era il caso di sciupare un bacio sulla sua mano, visto che
poteva baciarla sulla bocca. E avvicinandosi per baciarlo, gli
annunciò che lo aveva scelto come marito e re del suo popolo.
Così si celebrarono le nozze in mezzo alla generale allegria:
Agilulfo, che era già cognato di Autari, assunse il titolo di re
all'inizio del mese di novembre; poi, durante un'assemblea
generale tenuta in Milano nel mese di maggio (591), fu
confermato re all'unanimità." (III, 35).
Paolo Diacono accende il riflettore su Teodolinda e la trasforma in
eroina di un romanzo cortese: lei è la vera regina, amata dai
Longobardi, che la invitano a scegliersi un marito. Non mancano
baci, coppe di vino rituale, l'allegria del banchetto. Nonostante la
legge longobarda prevedesse che la vedova potesse scegliersi il
secondo marito, l'eventualità dell'applicazione della legge al
caso di Teodolinda è remota. Il nuovo marito fu scelto dai "saggi"
che vedevano in Agilulfo (Ago), oltre che un valido guerriero,
l'erede di Alboino e di Teodorico il Grande e quindi un nuovo
baluardo contro l'ingerenza dei Franco-Bizantini. Occorsero sei
mesi prima che Agilulfo riuscisse a sgominare i duchi che
appoggiavano i Franchi e solo allora poté essere eletto re, non
certo per scelta di Teodolinda.
Oltre al rapporto coi Franchi, ci sono altri due aspetti taciuti da Paolo
Diacono: quello dinastico e quello religioso. Teodolinda era
incinta di pochi mesi al momento dell'assassinio del marito e,
nonostante i Longobardi fossero in definitiva più sensibili al
valore personale che alla nobiltà della stirpe, per uno stato in
formazione il coltivarsi una discendenza dai mitici Lethingi
poteva rivestire qualche vantaggio agli occhi dei
duchi
tradizionalisti, anche se ciò doveva avvenire il linea femminile.
La questione religiosa è anche importante: Teodolinda era cattolica e
forse anche Agilulfo, discendente dalla sorella di Teodorico e
quindi ariano, si era fatto cattolico. Fra i consiglieri della regina
vedova vediamo agire il monaco Secondo di Non e sappiamo
che al suo fianco vi fu il ministro cattolico romano Paolo: c'erano
tutte le premesse perché la popolazione goto-romana
appoggiasse Teodolinda per le garanzie d'integrazione che
offriva e per le possibilità di creazione di un nuovo stato
romano-barbarico, emancipato da Bisanzio.
Una leggendaria convertitrice
"Durante questo periodo il sapientissmo e santissimo Gregorio, papa
della città di Roma, compose un'opera in quattro libri sulla vita
dei santi e la intitolò Dialogo e poi inviò questi libri alla regina
Teodolinda, ben sapendo che ella credeva in Cristo e si
segnalava per le sue buone opere. Proprio per mezzo di questa
regina la Chiesa di Dio conseguì grandi vantaggi. Infatti se in un
primo tempo i Longobardi, ancora pagani, si erano impadroniti di
quasi tutti i beni delle chiese, in seguito il loro re, grazie alle
salutari preghiere di Teodolinda, non solo abbracciò il
cristianesimo, ma fece anche dono alla Chiesa di Cristo di vasti
territori e restituì l'antico onore a tutti i vescovi che erano stati
offesi e umiliati. Agilulfo, dietro suggerimento di sua moglie
Teodolinda che era stata tante volte esortata per lettera da papa
Gregorio a intervenire presso il marito, stipulò una pace
saldissima con il pontefice e con i Romani" (IV. 5, 6, 8)
Questo passo di Paolo Diacono, più le lettere che Gregorio Magno
scrisse a Teodolinda e ad Agilulfo, riportate dallo stesso storico,
furono determinanti per creare della regina dei Longobardi
l'immagine di una pia convertitrice. La realtà fu un po' diversa,
perché la maggioranza dei duchi rimaneva pagana o tutt'al più
ariana, come ariana fu la corte di Pavia. Il vescovo di Milano se
ne stava rifugiato in territorio bizantino a Genova, da dove
brigava contro i re longobardi, e la diocesi milanese dovette
essere officiata da un clero in parte siriaco e in parte celtico
irlandese, al séguito di S. Colombano.
La corte di Monza
"La regina Teodolinda dedicò ufficialmente a S. Giovanni Battista la
basilica che aveva fatto costruire a Modicia (anno 594), a dodici
miglia da Milano, la decorò con molti ornamenti d'oro e d'argento
e le assegnò una modesta ma sufficiente rendita. Anche
Teodorico, re dei Goti, aveva fatto erigere un palazzo da quelle
parti perché d'estate la zona gode di un clima temperato e
salubre grazie alla vicinanza delle Alpi."
Appunto a Modicia la regina si costruì un palazzo e vi fece dipingere
alcune imprese dei Longobardi. Da questi dipinti si rileva
chiaramente come in quei tempi i Longobardi si tagliassero i
capelli e che tipi di vestiti portassero: si radevano fino alla nuca,
in modo che dietro erano completamente pelati e davanti
lasciavano cadere i capelli, spartendoli da una parte e dall'altra
in mezzo alla fronte, sulle guance, fino all'altezza della bocca. I
loro vestiti erano larghi e per lo più di lino, sul tipo di quelli usati
ancora oggi dagli Anglosassoni, e ornati di larghe liste di vario
colore. Portavano calzari aperti quasi fino all'estremità del
pollice, che si allacciavano con stringhe di cuoio incrociate. In
seguito, dopo che vennero a contatto con i Romani,
cominciarono a indossare veri e propri stivali, sopra i quali
quando andavano a cavallo infilavano delle bende di lana.
Nel palazzo di Modicia la regina Teodolinda diede allora ad Agilulfo
un figlio, che fu chiamato Adaloaldo. Il 7 aprile (603), giorno di
Pasqua, a Modicia nella basilica di S. Giovanni, il servo di Cristo
Secondo di Trento battezzò il figlio di Agilulfo, Adaloaldo.
Durante l'estate, in luglio (anno 604), Adaloaldo fu proclamato re
dei Longobardi nel circo di Milano, alla presenza di suo padre
Agilulfo e dei messi del re franco Teudiperto, la cui figlia fu
promessa in sposa al fanciullo appena fosse stato eletto re, in
pegno della pace perpetua stipulata tra i due popoli" (IV. 21, 22,
25, 27, 30).
Le reliquie e gli oggetti votivi donati da Agilulfo e Teodolinda, anche
se Paolo Diacono cita solo la regina, costituiscono ancora oggi
uno dei tesori di età longobarda più completi e interessanti nel
territorio milanese. Agilulfo, quale re e discendente di Teodorico,
poteva occupare legittimamente i possessi lasciati dal suo avo
goto. Non si è potuto appurare né dove fosse collocato il più
antico palazzo teodoriciano, né dove i regnanti longobardi
costruirono il loro. I palazzi detti di Teodorico, il cui ricordo si è
tramandato fino ai nostri giorni a Ravenna, Verona, Pavia e
Monza, non designano tanto un suo possesso personale quanto
la sede degli uffici governativi goti. A Milano non conosciamo
nessun palazzo di Teodorico perché o vennero usati gli uffici
romani o i Goti preferirono amministrare da Monza, essendo
Milano troppo ostile.
Anche rispetto al nucleo originario del S. Giovanni Battista non vi
sono evidenze archeologiche, ma solo ipotesi che
individuerebbero la basilica longobarda nell'area dell'attuale
sacrestia. Il tesoro, purtroppo mutilato dalla trafugazione
napoleonica, è indicativo della sensibilità religiosa dell'epoca: la
preoccupazione dei reali fondatori fu di proteggere la chiesa con
il maggior numero di reliquie, provenienti dall'oriente greco e da
Roma. Agilulfo e Teodolinda offrirono ciascuno una corona
votiva con croce pendente, da collocare sopra gli altari (persa
sia la corona di Agilulfo che la croce di Teodolinda), una preziosa
copertina di evangelario e un reliquiario a forma di croce donato
da Gregorio Magno. Dalla dotazione erano esclusi gli oggetti
rinvenuti nella tomba di Teodolinda, ossia il ventaglio e la
chioccia coi pulcini; la corona detta ferrea pervenne alla basilica
un paio di secoli dopo con Berengario.
Quando nel 602 nasce Adaloaldo, Agilulfo sembra convinto di aver
guadagnato il diritto al trono per la sua discendenza, ignorando
volutamente i diritti di precedenza del cognato Gundoaldo e
della figliastra Gundeperga. Si poteva mettere in questione
quale dinastia doveva avere la precedenza, quella amala o
quella lithinga? Nel 604 il piccino è incoronato re nel circo
presso il palatium e da quel momento a Milano fervono i lavori
per riportare la città alla dignità di capitale. Si restaura S.
Simpliciano, si costruisce S. Giovanni in Conca, si riassestano le
strade principali, si organizza la struttura amministrativa e
giudiziaria intorno alla curia romana al Cordusio. Il
consolidamento del potere di Agilulfo dovette suscitare l'allarme
presso gli altri duchi fedeli alla dinastia dei Lethingi, non escluso
il fratello di Teodolinda: prima che il pericolo si materializzasse,
Gundoaldo fu assassinato.
Da pia regina a fratricida
"Nel 612 morì, trafitto da una freccia, Gundoaldo, fratello della regina
Teodolinda e duca di Asti e mai si seppe il nome dell'assassino."
(IV. 40).
La Cronaca di Fredegario, c. 49, afferma che Gundoaldo fu fatto
uccidere da Teodolinda, gelosa della fama del fratello presso i
Longobardi.
Nel 612 morirono sia l'abate Secondo di Non sia Gundoaldo, non
sappiamo in quale ordine, ma conosciamo la modalità del
trapasso del duca di Asti: trafitto da una freccia. Fredegario non
cela la sua antipatia verso Teodolinda, incolpandola
dell'assassinio del fratello. Perché riconoscere in lei la
mandante e non in Agilulfo? Sarebbe stato più logico per il re,
ultimo erede degli Amali, proteggere la sua discendenza, magari
con drastiche misure preventive, che non per la regina sotto
tutela del marito dimostrare un cinismo da lady Mackbeth.
Fredegario era cattolico: perché infangare una regina che
godeva fama di pia donna?
I nodi della questione dinastica stavano venendo al pettine: forse nel
612 le condizioni di salute di Agilulfo si erano fatte precarie (la
morte lo colse tre anni dopo) e Gundoaldo vantava la priorità di
successione rispetto ai figli di Teodolinda. L'immagine che
Fredegario ci trasmette è fosca: una regina che scavalca il
marito per uccidere il suo unico fratello in modo da favorire il
figlioletto decenne. Forse è grazie a questa icona che per
Teodolinda non fu mai avanzata la candidatura a santa.
La tutela di Adaloaldo, minore o minorato?
"Dopo 25 anni di regno Agilulfo morì (anno 615), lasciando il potere a
suo figlio Adaloaldo, ancora fanciullo sotto la tutela della madre
Teodolinda. Sotto di loro si restaurarono parecchie chiese e si
fecero molte donazioni a luoghi sacri. Dopo aver regnato dieci
anni insieme con la madre, Adaloaldo impazzì: i Longobardi
allora lo deposero e gli sostituirono Arioaldo, ma su questo
nuovo re non ci è pervenuta alcun notizia." (IV. 41)
Teodolinda resta vedova. Secondo la legge longobarda non è
autorizzata a governare da sola. Si aprono tre alternative: a) può
risposarsi; b) il trono passa al marito di Gundeperga; c) eredita il
figlio che ha tredici anni ed è maggiorenne. Invece Paolo ci
informa che lei governò per dieci anni per conto del figlio, finché
non venne spodestata dal genero Arioaldo. Paolo ce la descrive
intenta a restaurare chiese e a dotarle di reliquie e beni, ma non
essendo una papessa si spera che la sua cura sia andata anche
allo Stato che governava. Purtroppo non esiste traccia presso
nessuno storico del suo comportamento in questo decennio, la
regina sembra avvolta dalle fitte nebbie padane.
Non meno problematico è il comportamento di Adaloaldo.
Fredegario, che avversava il figlio quanto la madre, ci informa
dell'intenzione di Adaloaldo di consegnare il regno ai bizantini.
Scrive che Adaloaldo fu vittima di un sortilegio operato da un
ambasciatore greco, cioè subì un plagio. Paolo trasforma il
plagio in pazzia. Se ci atteniamo alla storia, Adaloaldo decise nel
624, vivente la madre, di uscire dallo scisma dei Tre capitoli (cfr.
appendice), probabilmente adoperandosi per far ritornare a
Milano il vescovo in esilio a Genova.
Altra considerazione curiosa: nonostante la sua devozione alla
regina, lo storico longobardo non ne cita neppure la morte, che
sappiamo essere avvenuta nel 627 a Monza, dove venne
sepolta, ma contribuisce in maniera rilevante a trasformare
Teodolinda in una leggenda vivente a Monza grazie a questo
passo:
"Nel 663 l'imperatore Costantino III sbarcò a Taranto con l'intenzione
di strappare l'Italia ai Longobardi (regno di Grimoaldo). Prima di
iniziare la guerra si recò da un eremita, che si diceva avesse il
dono della profezia, che così gli rispose: -Nessuno può
sconfiggere i Longobardi da quando una regina straniera ha
costruito in una loro città una chiesa in onore di S. Giovanni
Battista, poiché questo santo in persona intercede per loro di
continuo. Ma verrà un giorno in cui quella chiesa cadrà in rovina
e allora tutti i Longobardi periranno.- E noi sappiamo che ciò è
veramente avvenuto perché abbiamo visto con i nostri occhi che
prima della disfatta dei Longobardi la chiesa di S. Giovanni
Battista a Modicia era amministrata da persone corrotte, anzi da
veri e propri briganti." (V, 6).
E così il fedele Warnefrido può assolvere il suo Carlomagno dalle
conseguenze della conquista dell'Italia.
Gundeberga, una vita in ostaggio dei mariti
Anche se gli storici tacciono sulla modalità di successione e il nome
di Arioaldo che depone Adaloaldo compare quasi casualmente,
la priorità accampata da Gundeperga rispetto al fratellastro
minore è evidente. L'Origo Gentis Langobardorum, ad esempio,
nomina come figlia di Agilulfo e Teodolinda solo Gundeperga e
salta la successione di Adaloaldo. Né Paolo Diacono né l'Origo
attribuiscono ad Arioaldo e poi a Rotari il matrimonio con
Gundeperga, come invece fa Fredegario. Non sappiamo
neppure in quale occasione Gundeperga
aveva sposato
Arioaldo: quando venne deposta Teodolinda aveva trentatré
anni e doveva già essersi maritata con Arioaldo, che altrimenti
non avrebbe osato scatenare una lotta per la successione. La
confusione di Paolo Diacono su questo periodo è totale: fa
sposare Gundeperga con Rodoaldo, che invece era suo figlio:
"Rodoaldo assunse il potere dopo la morte del padre e sposò
Gundeperga, figlia di Agilulfo e Teodolinda. La regina
Gundeperga, sull'esempio di quello che aveva fatto sua madre a
Modicia, costruì a Ticinum una chiesa in onore di S. Giovanni
Battista, la ornò in modo meraviglioso d'oro e d'argento e la fornì
di ricche rendite: là ora riposa il suo corpo. Ella inoltre fu
accusata presso il marito di adulterio; ma un suo servo, che si
chiamava Carello, chiese al re di poter sfidare a duello colui che
aveva accusato la sua signora, per difenderne l'onore. Nel corso
di un regolare duello sconfisse davanti a tutto il popolo colui che
l'aveva calunniata, e dopo questa sua impresa la regina riebbe
l'antico rispetto." (IV. 47).
La versione di Fredegario, così come è riportata dal padre Fumagalli
in Antichità longobardico-milanesi (I, pp. 31-32), attribuisce
l'episodio raccontato da Paolo Diacono all'età di Arioaldo:
"Un cortigiano chiamato Adalulfo, che godeva del favore del re
Arioaldo e della regina Gundeberga, avendo in un famigliar
colloquio inteso dirsegli da lei per ischerzo che era uomo di bella
statura, ne prese occasione di farle una vituperevole domanda,
della quale sdegnata la regina, collo sputargli sul viso, ne lo
discacciò dalla sua presenza. Ben prevedeva Adalulfo che
Gundeberga avrebbe reso consapevole il re del suo eccesso, e
che riportato ne avrebbe gastigo; onde pensò di prevenirla. Di
reo perciò si fece accusatore, traducendola presso di lui come
complice col duca della Toscana Tasone d'un nero attentato
contro la sua persona. Troppo credulo Arioaldo all'infame
calunniatore, senz'altra disamina, la fa rinchiudere in una torre,
ove stette per tre anni continui. Arrivatane infine la notizia a
Clotario II (613-629) re dei Franchi, a cui per parentela era
congiunta Gundeberga, spedì suoi ambasciatori al re dei
Longobardi per risaperne il motivo: ed avendolo essi inteso
proposero il così detto giudizio di Dio, ossia il singolar
combattimento fra l'accusatore Adalulfo e un altro campione,
difensor dell'accusata regina. A quest'esperimento pronto
esibissi certo Pittone, che ai primi colpi morto distese al suolo
Adalulfo: per la qual cosa innocente fu giudicata Gundeberga e
ristabilita nella primiera libertà e grandezza. Essendo poi per
morte di Arioaldo rimasta vedova e senza prole la regina
Gundeberga, fu pure a lei, come a sua madre Teodolinda,
lasciata la scelta del marito. Rotari, duca di Brescia, è stato da
lei preferito a tutti gli altri, ma sotto la condizione di dover
abbandonare la sua moglie. Invece ben presto dimenticossi
l'ingrato del giuramento e ordina che Gundeberga sia rinchiusa
in una stanza del palazzo. Dopo alquanti anni, essendo capitato
alla corte certo Aubedo, ambasciatore di Clodoveo II ( 639-657)
re dei Franchi e intesa la disgrazia della principessa, se ne sia
mosso a compassione e tanto siasi adoperato presso il re, che
gli riuscì d'indurlo non solo a rimetterla in libertà, ma sul trono
ancora."
L'episodio della prima prigionia di Gundeberga è avvenuto prima del
629, anno della morte di re Clotario II, e si potrebbe anche
supporre che Gundeberga fosse tenuta prigioniera dal marito,
duca di Torino, dal 624 al 627 con la mamma Teodolinda, e
liberata dietro minaccia dei Franchi. Non è neppure chiaro di
quale parentela coi Franchi parli Fredegario, visto che né
Teodolinda né Agilulfo vantavano ascendenze franche, a meno
che non si riferisse ad Autari, che mai viene citato come padre di
Gundeperga dagli storici del secolo VIII. E' interessante notare il
ruolo cavalleresco che Fredegario assegna ai re merovingi,
salvatori di donzelle rinchiuse nelle torri dei manieri.
La seconda prigionia si verificò a opera del secondo marito Rotari
pochi anni dopo la sua ascesa al trono. E' inspiegabile come mai,
fra tanti nobili disponibili, Gundeperga avrebbe dovuto
sceglierne uno sposato e che dimostrava un aperto disprezzo
per lei. Anche questa volta, secondo lo storico Fredegario,
intervenne un franco a salvarla. Cosa successe veramente non
lo sapremo mai. La calunnia infamante, la regina che langue
ingiustamente nella torre, il giudizio di Dio, il singolar tenzone, il
bigamo spergiuro, il lieto fine, tutti elementi per una ballata da
trovatore. La regina muore senza eredi: forse fu questa la
ragione del duplice ripudio, la sterilità, una delle poche cause
valide per disfarsi di una moglie sgradita.
Wigelinda: un monastero, due potenziali fondatrici
La storia dipende sì da interpretazioni, purché si basino su
documenti, ma in mancanza di dati certi può capitare di esporre
congetture verosimili, plausibili seppur non vere. Un esempio
calzante ci viene fornito dal nome primitivo del monastero di S.
Radegonda, fondato col titolo di “S. Maria di Wigelinda”.
Le candidate alla nobile fondazione di questo monastero sono due,
zia e nipote. Nel caso della prima Wigelinda, la fondazione
sarebbe avvenuta almeno un anno dopo la sua vedovanza,
quindi dopo il 672; per la seconda nel 702, in concomitanza con
le velazioni obbligate di Cuniperta a S. Agata al Monte di Pavia e
Teodorata con Aurona nel monastero che da quest'ultima prese
il nome. In entrambi i casi non possediamo alcun documento e
allora entriamo nella palude delle congetture.
La prima Wigelinda potrebbe essere stata estromessa dal potere nel
671, alla morte del marito Grimoaldo - quello dell'Origo -, che si
era intromesso nella lite fra i figli di Ariberto, Bertarido e
Godeperto, per la successione al comando dei Longobardi.
Fuggito Bertarido, ne aveva preso in ostaggio a Benevento la
moglie e la figlia e aveva finto di allearsi con Godeperto per poi
eliminarlo ed avere la meglio su tutti. Per legittimare la sua
presa di potere, aveva sposato la figlia di Ariberto, Teodora
Wigelinda, che si vide così imposta dalle circostanze l’assassino
di suo fratello Godeperto e l’aguzzino della famiglia dell’altro.
Bertarido, sfuggito più volte a tentativi di eliminazione, ritorna
dall'esilio, recupera il regno che era passato a sua sorella
Teodora Wigelinda come tutrice del figlioletto Garibaldo e per
recuperare il trono le offre la possibilità di entrare in un
monastero di sua fondazione. A vantaggio di questa ipotesi c'è
che Bertarido aveva possessi a Milano e quindi poteva
assegnare un terreno alla sorella.
Nel secondo caso Wigelinda, anche lei vedova e zia del piccolo
erede Liutperto, ne assume la tutela nel 700 tramite il genero
Ansprando. Il cugino Ariberto II, per accedere al trono, soffoca
nel bagno Liutperto, relega nel monastero di S. Agata al Monte
Cuniperta, sorella dell'ucciso, toglie di mezzo la cugina
Wigelinda e infierisce su sua figlia Teodorata e sui nipoti,
mutilandoli al viso. A favore di questa seconda ipotesi c'è la
concomitanza di fondazioni monastiche nobili a Milano, contro il
fatto che Paolo Diacono non includa Wigelinda nell'elenco dei
perseguitati. Sono due storie possibili, verosimili e parimenti
crudeli. Forse adottando il primo caso risparmieremmo a
Wigelinda le orribili mutilazioni che nel secondo non sembrano
evitabili.
Il monastero di Aurona, rifugio delle "mutilate
dinastiche"
Anche di Aurona non disponiamo di molte notizie. Sappiamo che
apparteneva ad un’antica famiglia assai potente a Milano, figlia
di Ansprando, duca d’Asti, e di Teodorata e sorella del vescovo
di Milano Teodoro e di re Liutprando.
Fu coinvolta suo malgrado nelle lotte che opposero il padre, tutore di
Liutperto, ad Ariberto duca di Torino. Dopo l’assassinio di
Liutperto nel 701, Ansprando con la famiglia si rifugiò sull’isola
Comacina, dove rimase asserragliato fino al 704. In seguito alla
sconfitta del padre, a Teodorata e ad Aurona furono mozzate le
orecchie e il naso, mentre il fratello Sigiprando veniva accecato.
Ansprando riuscì a fuggire in Baviera col figlio Liutprando, che
nel 712 poté far ritorno ed ottenere il trono. Se la mutilazione
aveva lo scopo di sfregiare la persona nel suo aspetto esteriore
e di impedirle di proseguire la sua vita sociale, non sortì l’effetto
desiderato, perché fu dopo questa terribile vendetta che Aurona
sposò il duca di Benevento Romualdo, dal quale ebbe due figli,
Anfuso e Gundeperga, che nel 729 sposò il duca di Benevento
Romualdo VII.
Il monastero che Aurona fondò a Milano sorgeva a ridosso delle
mura di Massimiano in via Monte di Pietà, delle quali aveva
inglobato una torre civica, trasformandola in torre campanaria.
Negli scavi sull'area del monastero sono venuti alla luce due
capitelli conservati al Museo del Castello Sforzesco: un capitello
porta inciso nell'abaco Juliano me fecit sic pulchrum, l'altro Hic
jacet Theodorus Archiepiscopus qui injuste fuit damnatus. Una
volta tanto lasciamo da parte i guai maschili - perché fu
condannato ingiustamente Teodoro e chi era? - per occuparci di
quelli femminili. Il racconto di Paolo Diacono così prosegue:
"Ariberto, dopo essersi rinsaldato al potere (anno 701), fece cavare
gli occhi al figlio di Ansprando, Sigiprando, e perseguitò in un
modo o nell'altro tutti coloro che gli erano parenti. Fece arrestare
la moglie di Ansprando, Teodorata, che con la fatuità tipica delle
donne diceva che sarebbe diventata regina, e le fece tagliare il
naso e le orecchie, comportandosi allo stesso modo nei
confronti della figlia Aurona." (VI.22).
E' la prima volta che viene menzionata la mutilazione del viso,
adottata recentemente dai bizantini. Nel 681 l'imperatore
Costantino IV aveva fatto tagliare il naso ai suoi fratelli Eraclio e
Tiberio per impedir loro di usurpargli il trono; quando una rivolta
depose l'imperatore Giustiniano II, gli venne tagliato il naso per
escluderlo per sempre dal trono. L'indifferenza di Paolo
Warnefrido verso una così sfortunata nobildonna è totale. Forse
più gli avvenimenti si avvicinano al suo periodo, meno appaiono
meravigliosi, affascinanti.
Su Aurona, già terribilmente provata dalle disgrazie, se ne abbatté
un'altra ancor più crudele: suo fratello Liutprando, divenuto re,
uccise in un "incidente" di caccia suo figlio Anfuso. L'incubo della
lotta dinastica non finiva mai.
Il quadro legislativo. Il matrimonio
Dopo aver fatto conoscenza con alcune regali figure femminili,
vediamo ora cosa ci prospetta la legge, partendo dal
matrimonio.
L'editto di Rotari fissa l'età minima per il matrimonio a dodici anni.
Liutprando nel 717 prende in esame il caso di ragazze fatte
sposare sotto i dodici anni: la legge puniva questo reato come
ratto a carico di chi l'aveva sposata, punibile con 900 solidi da
pagare metà al re e metà alla bambina, che doveva tornare a
casa. Se era stato il mundoaldo (tutore) a cederla, perdeva il
suo mundio (tutela) e la ragazza andava sotto la tutela del re.
La procedura del contratto matrimoniale era quella in vigore fino al
secolo scorso in Italia: si contraevano gli sponsali - il
fidanzamento - e si sottoscriveva l'accordo, quindi si fissavano le
nozze, con il corteo nuziale che accompagnava la sposa alla
sua nuova dimora. Lo sposo doveva dare una meta al padre
della sposa o a chi deteneva il suo mundio. La meta, o prezzo
del mundio, veniva stabilita per convenientiam all'atto degli
sponsali e la disponibilità della meta rimaneva alla donna in
caso di vedovanza. Se lo sposo non procedeva alle nozze entro
due anni, il mundoaldo tratteneva la meta ed era libero di dare la
donna a un altro. La meta restava comunque come dote della
ragazza.
A volte, forse per sottrarsi all'impegno, il fidanzato accusava la
donna di tradimento; la famiglia di lei doveva scagionarla
attraverso il giuramento di dodici sacramentali. Se la ragazza
veniva scagionata, il fidanzato o procedeva alle nozze o pagava
il doppio della meta; ma se la donna aveva effettivamente
commesso tradimento, allora veniva uccisa.
Nelle leggi promulgate da re Astolfo nel 755, una riguarda un'usanza
decisamente sgradevole, della quale non c'è traccia nella
legislazione precedente: "Ci è giunta notizia che, quando gli
uomini vanno a prendere la promessa sposa con damigelle
d'onore e paraninfi, alcuni uomini malvagi gettano su di loro
acqua lurida ed escrementi. Poiché sappiamo che questa
malefatta accade in diversi luoghi, decretiamo, perché non si
verifichino tumulti od omicidi per questo motivo, che si paghino
900 solidi."
Nessuno poteva costringere una donna a sposarsi contro la sua
volontà. In caso di costrizione il matrimonio veniva sciolto, il
marito condannato a una multa di 900 solidi e la donna poteva
scegliere a chi dare il suo mundio. La donna poteva sposarsi
senza il consenso dei genitori, purché suo marito fosse disposto
a pagare una multa.
Erano banditi i rapporti sessuali liberi. Sulla donna che aveva
rapporti consensuali clandestini con un uomo libero ricadeva la
vendetta della famiglia, che era obbligata a eseguirla per non
fare intervenire il re. L'uomo poteva sposarla oppure pagare
cento solidi. Esisteva anche una tradizione di rapimento, nel
qual caso la risoluzione era solo economica: se la ragazza era
già stata promessa, il fidanzato si considerava infamato, ma la
legge gli impediva il ricorso alla faida.
Si dava anche il caso che il mundoaldo fosse tentato di usare una
ragazza come specchietto per le allodole e la promettesse più
volte in sposa. La punizione in questo caso era solo pecuniaria.
Nell'editto di Rotari non era ammesso il divorzio o il ripudio,
contemplato presso i Franchi. Per liberarsi di una moglie
sgradita un uomo poteva allora essere indotto a ucciderla o a
commissionarne l'assassinio, ma in questo caso iniziava una
faida con la famiglia della moglie. Il marito che sopprimeva la
moglie non andava incontro a morte; anche se l'uccideva senza
ragione, si limitava a pagare 1200 solidi, una cifra molto elevata,
metà ai parenti di lei, metà al re. Il patrimonio materno andava ai
figli o, in assenza di prole, ai parenti di lei. Un altro stratagemma
usato per liberarsi di una scomoda compagna era l'accusa di
adulterio, che abbiamo visto accampare dai mariti di
Gundeperga: la donna metteva in campo la sua famiglia, che
doveva giurare sulla sua fedeltà, e in questo caso il marito che
aveva infamato la moglie perdeva il suo mundio. Ma se una
donna tramava per uccidere il marito e veniva scoperta, il marito
era libero di regolarsi con lei come credeva. Se la donna negava,
poteva essere scagionata da un giuramento o da un duello, ma
se lo uccideva, perdeva lei stessa la vita e i beni passavano ai
parenti del marito.
Forse per rimediare a questa situazione, nel 668 re Grimoaldo,
marito di Wigelinda, contempla la possibilità del ripudio della
moglie, stabilendo che se uno fa venire in casa un'altra moglie,
trascurando senza motivo la prima, debba pagare 500 solidi
metà al re e metà ai parenti della prima moglie, perdendo il
mundio e facendo tornare la donna dai suoi parenti. Nel caso
però che la prima moglie si rifiutasse di tornare a casa sua negando il divorzio -, la seconda donna era considerata
concubina, perdeva metà dei suoi beni e doveva andarsene,
senza risarcimenti o senza che fosse ammessa una faida.
La vedova godeva della prerogativa di scegliersi un altro marito,
purché libero, come abbiamo visto nei casi di Teodolinda e di
Gundeperga. Il secondo marito pagava una meta dimezzata
all'erede del primo marito per acquistare il mundio della donna.
Questo poteva negare però l'autorizzazione al matrimonio, nel
qual caso la famiglia del defunto doveva restituire il morgingab,
o dono del mattino, e il faderfio, la dote della donna, e la vedova
tornava sotto il mundio del padre o del fratello.
Se un uomo libero voleva sposare una sua serva, doveva prima
renderla libera, ma non poteva accoppiarsi con la serva di un
altro, perché era considerata merce che veniva danneggiata. La
multa variava a seconda che la serva fosse di proprietà di un
longobardo (20 solidi) o di un romano (12 solidi). Nessun servo
poteva sposare una donna libera, a rischio di vita per entrambi.
La condizione femminile
Era assolutamente escluso che una longobarda vivesse libera dal
mundio (selpmundia) e se non aveva parenti il suo mundio
ricadeva sotto la potestà del re. Nessuno, eccetto il padre o il
fratello, poteva attentare alla sua vita, anche se deteneva il suo
mundio, oppure poteva costringerla ad atti contrari alla sua
volontà. La violenza provata perpetrata dal marito sulla moglie
comportava la perdita immediata del mundio e la donna era
libera di tornare dai suoi parenti coi suoi beni.
Come già detto, si poteva uccidere intenzionalmente una donna
senza incorrere nella pena di morte e senza neppure essere
obbligati a ricorrere a un duello: l'assassino si limitava a pagare
l'ingente somma di 1200 solidi, metà al re e metà alla famiglia di
lei. Era ritenuto un reato infamante insultare una donna
chiamandola strega o prostituta: doveva giurare con dodici
sacramentali che l'aveva accusata spinto dall'ira, senza motivo,
poi doveva pagare una multa di 20 solidi ma, se insisteva, si
scendeva in duello e se il giudizio di Dio era favorevole alla
donna, l'accusatore doveva pagare il suo wergild, se gli era
favorevole, moriva la donna.
La donna che veniva colta in flagrante adulterio dal marito poteva
essere uccisa subito insieme all'amante, senza che il marito
incorresse in alcuna sanzione. Liutprando, nel 731, cita il caso in
cui un uomo sia incontestabilmente trovato con le mani sul seno
o "in altro posto disonorevole" di una donna altrui: se la donna
era consenziente, era flagrante delitto, il marito aveva diritto di
punirla o venderla, ma non più di ucciderla o di mutilarla.
Le pene erano decisamente minori se veniva fatta violenza a
un'aldia, a una liberta o a una serva, a meno che non si rapisse
e sposasse la moglie di un altro, nel qual caso vigeva - come per
i liberi - la pena di morte per entrambi. Che la serva fosse
considerata poco più di un animale lo si deduce da un articolo
che prevedeva un risarcimento di 3 solidi in caso di percosse a
una serva incinta che abortiva. Per contro si pagano 6 solidi se
si tagliava proditoriamente la coda di un cavallo! Sembrerebbe
che le serve o le aldie venissero a volte uccise perché
accusate di essere streghe (masche); l'editto rifiuta questa
giustizia sommaria perché "nessuna donna può divorare
internamente un uomo vivo" (art. 376).
Rotari considera alcune volte il caso in cui le donne partecipano a
sedizioni o entrano con le armi in una corte; la legge trova
assurdo questo comportamento, perché "una donna non è un
uomo" e non poteva portare armi, ma se moriva, veniva risarcita
come se si trattasse del fratello.
Riguardo alle donne armate Liutprando, nelle leggi del 734, descrive
questo caso: "Ci è stato riferito che alcuni uomini perfidi e dotati
di un'astuzia malvagia, non osando di per sé entrare a mano
armata in un villaggio, fecero radunare le loro donne, libere e
serve, e le mandarono contro uomini che avevano una forza
inferiore; quelle, presi gli uomini di quel luogo, inflissero loro con
violenza ferite ed altri mali, con maggior crudeltà di quanto
facciano gli uomini. Poiché queste cose sono giunte a noi e
quegli uomini più deboli hanno mosso un’accusa per quella
violenza, abbiamo provveduto ad aggiungere a questo editto
che se in futuro delle donne osano fare una cosa del genere, se
restano ferite non possano chiedere risarcimento alcuno.
L'autorità preposta prenda quelle donne e le faccia scotennare e
frustare per i villaggi vicini; i mariti paghino i danni commessi".
La punizione per una donna è quindi sempre molto più drastica
che per un uomo.
Nel 721 Liutprando interviene a tutelare le donne che vengono
costrette a vendere i loro beni: chi vuole comprare da una donna
deve comunicarlo a due o tre parenti di lei, che devono ricevere
la conferma di non costrizione. Nel 731 ribadisce che chi tratta
male una donna libera perde il suo mundio e specifica in cosa
consiste il maltrattamento: lasciarla morire di fame, non darle
abiti o calzature adeguate al suo stato, darla in moglie a un aldio
o a un servo altrui, picchiarla (tranne se è una bambina, per
impartirle un'onesta educazione riguardo i lavori femminili, o per
correggerla dai cattivi vizi), costringerla a qualche lavoro
indicibile o commettere adulterio con lei, darla in moglie a un
libero senza il suo consenso.
Sempre nel 731 Liutprando elenca alcuni casi "piccanti": "Se
qualcuno (come abbiamo appena saputo che è stato fatto) con
malizia e arroganza osa pungere o picchiare una donna libera
che se ne sta seduta per le sue necessità corporali o in qualche
altro posto dove se ne stia nuda per una sua necessità, paghi
come composizione 80 solidi" (60 se era un servo). Tra i casi
delle leggi del 733: "Ci è stato riferito che un uomo perverso,
mentre una donna si lavava nel fiume, le ha preso tutti gli abiti e
lei è rimasta nuda e chi andava e veniva vedeva in modo
peccaminoso la sua vergogna. Pertanto stabiliamo che chi ha
commesso questa illecita impudenza paghi il suo wergild,
perché i parenti della donna potevano innescare una faida e
provocare morti". Un altro caso è un po' più enigmatico: "E'
comparsa di questi tempi una perversa convinzione, assai vana,
superstiziosa e avida, perché a noi e a tutti i nostri giudici pare
un'unione illecita, e cioè che delle donne adulte, già in età
matura, si uniscono con dei bambini piccoli sotto l'età legittima e
dicono che sia il loro uomo, sebbene non sia in grado di
congiungersi con loro. Pertanto provvediamo a stabilire che in
futuro nessuna donna osi fare ciò prima che il ragazzo abbia
compiuto il tredicesimo anno". Più che di un matrimonio o di
pedofilia sembrerebbe trattarsi di una forma di adozione non
prevista dalla legge, tanto più che lo stesso Liutprando stabilisce
che i bambini abbiano la facoltà di vendere i propri beni per non
morire di fame durante la carestia.
La legislazione di Liutprando tratta anche il caso di incitamento alla
prostituzione: "Se qualcuno dice a sua moglie, dandole cattiva
licenza: "Vai, giaci con quell'uomo", o dice a un uomo: "Vieni e
congiungiti carnalmente con mia moglie", e tale azione malvagia
viene compiuta, stabiliamo che la donna che ha commesso
quest'azione e vi ha consentito sia messa a morte, mentre il
marito paghi ai parenti di sua moglie una composizione come se
fosse stata uccisa in un tumulto".
Nel 723 Liutprando considera un altro caso interessante: donne che
prendono il velo - novizie -, ma che non vengono consacrate e
che nella condizione di novizia hanno rapporti sessuali. La
mentalità corrente le scagionava dicendo: "Dal momento che
non sono consacrate, se fornicano non hanno colpa".
Liutprando invece sancisce che la novizia non possa ritornare
all'abito secolare, dal momento che l'impegno con la Chiesa
equivale a un matrimonio. Ribadisce questa legge nel 726 e nel
727 si occupa di chi fa prendere il velo a una serva per farle
portare offerte e oblazioni dai luoghi santi. Nel 728 proibisce di
far prendere il velo a una vedova prima che sia trascorso un
anno dalla morte del marito. La vedova che si consacrava in un
monastero portava con sé un terzo dei suoi beni se aveva figli,
la metà se non ne aveva e il patrimonio restava al monastero.
Nel 774, ormai caduto il regno longobardo, il principe di Benevento
Arechi descrive nell'art. 12 "una consuetudine infame e illecita,
per cui alcune donnine, morti i mariti, liberate dall'autorità
maritale, godono sfrenatamente della libertà secondo il proprio
arbitrio. Ricevono nel segreto della casa l'abito della santità, per
non sopportare il vincolo delle nozze. Così, sotto il pretesto della
religione, abbandonata ogni paura, conseguono senza freni
tutto ciò che alletta il loro animo. E difatti inseguono i piaceri,
ricercano i banchetti, tracannano bicchieri di vino, frequentano i
bagni e, quanto più possono ottenere, tanto più fanno cattivo
uso di quell'abito nella rilassatezza e nel lusso delle vesti.
Dunque, quando compaiono in piazza si truccano il volto, si
incipriano le mani, accendono il desiderio in modo da suscitare
l'ardore in chi le vede; spesso desiderano anche osservare
sfacciatamente uno di bel aspetto ed essere osservate e, per
dirla in breve, sciolgono i freni dell'animo verso ogni
dissolutezza e desiderio. Pertanto, senza dubbio, una volta
infiammate le esche di una vita lussuriosa, gli stimoli della carne
le ardono a tal punto che sono soggetti di nascosto non ad una
sola, ma (cosa che è nefanda a dirsi) a molte prostituzioni; e se
il ventre non si gonfia, non è facile a provarsi. Per contrastare in
tutti i modi una simile peste abominevole, disponiamo che
chiunque sia legato da parentela a una nubile o a una vedova
che prende il velo e non entra in monastero paghi il suo wergild
al palazzo; il principe la faccia entrare in monastero con il
wergild e i suoi beni personali".
Bibliografia
Fonti
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Gregorio Magno, Epistole, MGH, Epistolae I-II, 1891-99
Gregorio di Tours, Storia di Franchi
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cura di Claudio Azzara e Stefano Gasparri, ed. La Storia, Milano 1992
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Studi storici e critici
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Bognetti G.P., L'età longobarda, 4 voll., Milano 1966-68 (Sormani N CONS
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Brandileone F., Saggi sulla storia della celebrazione del matrimonio in Italia,
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Criscuolo F., La donna nella storia del diritto italiano, Palermo 1885
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Fumagalli A., Antichità longobardiche-milanesi, 4 voll., Milano 1792-3
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Storia di Milano, vol. II, pp. 92, 100-176, 249-253, 268-270, 289, 294, 308,
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Vannucci M., Teodolinda. Regina del settentrione, Firenze 1994 (Sormani
GEN M 8636)
4.3 Bianca di Savoia (1336-1387)
Bianca di Savoia (1336-1387)
di Maria Grazia Tolfo
Sommario
L'infanzia a Bourget
Il fidanzamento con Galeazzo Visconti
In Savoia sulle orme del corteo nuziale
Una cerimonia cavalleresca
La prima residenza in S. Pietro all'Orto
Il nuovo palazzo al Broletto Vecchio
La parentela coi re di Francia
La vita nel castello di Pavia
Una penitenza da "Quaresima"
Il tragico 1372
L'abile diplomatica
La registra del colpo di stato
Bibliografia
L'infanzia a Bourget
Bianca era nata nel 1336 a Chambéry, secondogenita del
quarantacinquenne Aimone di Savoia e della ventenne Violante
(Yolanda) del Monferrato. Sua mamma era figlia di Teodoro
Paleologo, uno dei figli minori dell'imperatore di Bisanzio, che
nel 1306 era arrivato da Costantinopoli a prendere possesso
dei beni materni nel Monferrato, portandovi una ventata di
cultura bizantina, nel bene e nel male.
Suo padre Aimone era detto "il Pacifico", ma avrebbero fatto meglio
a soprannominarlo "il Prolifico", perché oltre ai cinque figli
legittimi, ne aveva avuti almeno altri sette da varie dame, tutti
allevati a corte (1).
L'infanzia della piccola Bianca si svolse tra i castelli di Chambéry,
Thonen, Bourg, Evian, Chillon e Morges, situati sulle rive dei
laghi di Ginevra, Annecy e Bourget, ma la spensieratezza fu di
breve durata perché la mamma Violante morì presto, dando
alla luce il 23 dicembre 1342 Ludovico, che non le sopravvisse.
Venne sepolta nell'abbazia di Hautecombe, che Aimone aveva
recentemente dotato di una cappella privata, riccamente ornata.
Pochi mesi dopo, il 22 giugno 1343, sarebbe morto anche il
padre, dopo aver designato come tutori dei figli legittimi e
naturali Amedeo III conte di Ginevra e Ludovico II di
Savoia-Vaud. Nel testamento veniva esplicitato che, in caso di
morte dei figli maschi legittimi, la contea sarebbe stata
ereditata da Amedeo di Ginevra, mentre a Bianca sarebbe
rimasta la baronia del Bauges. I piccoli orfani avevano
rispettivamente nove anni Amedeo, sette anni Bianca e cinque
anni Giovanni.
Nella sua corte personale Bianca viveva come una principessina: la
nutrice Eleonora di Chignin, una coppia di camerieri, un sarto,
servitori di cucina, di cantina, scudieri, chierici di cappella, tutti
erano esclusivamente al suo servizio. Bianca non mancava di
eseguire i suoi esercizi quotidiani di equitazione e si dilettava a
curare i fiori del giardino nel palazzo di Bourget. Nelle feste
pubbliche partecipava alla messa nella chiesa parrocchiale e
allora s'incantava a guardare le sculture sul pontile, realizzate
un secolo prima, che animavano davanti ai suoi occhi la vita e
la passione di Cristo.
La vita in una corte di minor importanza come quella sabauda non
deve farci trarre la conclusione che una cultura provinciale
venisse impartita alla piccola Bianca. Suo nonno Teodoro
proveniva da Costantinopoli, l'altro nonno Amedeo V aveva
sposato in seconde nozze Maria di Brabante e la loro figlia
Giovanna era l'imperatrice di Bisanzio! La stessa Maria di
Brabante aveva portato in Savoia una ventata di cultura dalle
corti del nord e anche dopo il matrimonio continuava a
frequentare le Fiandre, dove comprava selle e tessuti, e Parigi,
dove viveva sua zia Maria, vedova di re Filippo III. Da Parigi
Maria di Brabante portò alla biblioteca dei Savoia alcuni codici
cavallereschi, miniati dai suoi connazionali fiamminghi e da
artisti normanni. Il gusto contagiò il marito, che si riforniva a
Parigi per le tapezzerie e per le vetrate dei suoi castelli e nelle
Fiandre per l'acquisto di testi profani.
Bianca e i suoi fratelli giocavano a scacchi (puntando soldi), e si
divertivano a leggere e a recitare i romanzi del Sacro Graal.
Nella primavera del 1345 i giovani Savoia hanno il sommo
onore di assistere a un torneo che dura otto giorni, organizzato
fuori dalle mura di Chambéry in onore di Amedeo VI, che ha
assunto il titolo di conte. Neanche a dirlo, vince la squadra
dell'Ordine della Tavola Rotonda.
Nel 1348 la vita protetta di Bianca venne turbata da due eventi
terribili: la morte del fratello Giovanni, che da anni soffriva di
una forma di congiuntivite virale e la Peste Nera, "che era stata
diffusa dagli Ebrei che avevano inquinato le fonti d'acqua". Per
quanto assurde ci possano sembrare oggi queste accuse di
guerra batteriologica ante litteram, nello sconcerto generale per
quella pestilenza improvvisa che mieteva tante vittime anche
Bianca dovette crederle plausibili. Suo fratello Amedeo ebbe
una crisi mistica e fece voto perpetuo di digiunare interamente
il venerdì e il sabato e di mangiar di magro il mercoledì (in
un'epoca di anoressici e vegetariani come la nostra, potrebbe
sembrare una bazzecola!); prese l'abitudine di frequentare i
monaci di S. Antonio nel Viennese che curavano il fuoco di S.
Antonio, e di fare donazioni cospicue ai più importanti santuari
della sua contea.
Il fidanzamento con Galeazzo Visconti
Nel 1346 Bianca aveva conosciuto di sfuggita, come fanno i bambini
quando c'è una visita di estranei importanti, Galeazzo e
Bernabò Visconti, cacciati da Milano dal loro zio Luchino per
motivi a lei ignoti. Chissà se provò almeno curiosità nei
confronti di questi milanesi coi quali a breve si sarebbe trovata
fatalmente imparentata. Infatti per tenere a freno la politica
espansionista del marchese del Monferrato, Visconti e Savoia
sottoscrissero una Lega il 22 ottobre 1349, nella quale entrò
anche il matrimonio tra Bianca e Galeazzo. Lo sposo, ormai
ventinovenne, aveva già due figli naturali, Cesare e Beatrice;
Bianca aveva solo tredici anni e non era mai uscita dalla sua
contea.
Indubbiamente Galeazzo dovette affascinarla come un principe delle
favole cavalleresche, se è vera anche una minima parte della
descrizione tracciata da Paolo Giovio in Le vite di dicianove
huomini illustri, 1561:
"Avanzando di dignità di corpo e di leggiadria di bellezza i più delicati
giovani, riusciva anco allora molto più grande e più bello di se
stesso quando, con una nuova foggia, si lasciava crescere i
capegli di color d'oro, e spesse volte acconciandogli in treccie,
e tallora lasciandogli andar giù per le spalle, gli assettava in
una cuffia di rete o con una ghirlanda di fiori; perché ciò si gli
aveniva molto essendo egli bianco e riguardevole del color di
latte e con una barba bionda, come si può vedere per molte
imagini di lui, e massimamente in una armata a cavallo, la
quale si vede nella rocca di Pavia alla sinistra loggia".
Mentre Bianca era proiettata nel suo futuro di moglie, suo fratello
Amedeo, appena quindicenne, diventava padre di un bel
maschietto, Antonio, nato da una sua avventura precoce.
In Savoia sulle orme del corteo nuziale
Il contratto nuziale si stipulò il 26 maggio 1350 nella Sala delle
Udienze della Curia dell'arcivescovo di Milano Giovanni
Visconti: Galeazzo donava a Bianca 50.000 fiorini d'oro da
impegnare nell'acquisto di terre in Savoia e il 21 agosto
iniziavano i preparativi per le nozze.
Il corredo che Bianca portava con sé a Milano doveva essere
all'altezza del suo prestigio: ricchi panni, sete pregiate, pellicce
rare e calde, acconciature, calzature, selle ricoperte da fini
gualdrappe, tutti questi oggetti vennero ricercati nei migliori
centri europei. Verso la metà di settembre Galeazzo muoveva
verso Rivoli, dove era stata predisposta la cerimonia.
Il 18 settembre 1350 nel palazzo di Bourget Amedeo VI e gli
ambasciatori viscontei Oberto Turchi e Ughetto Aprile
sottoscrivevano il contratto di matrimonio per cui si
depositavano 40.000 fiorini nel vicino monastero di
Hautecombe. Bianca portava in dote Yenne sul Rodano, poco
lontano da Bourget. Il 21 settembre la contessina lasciava
l'amato palazzo del Bourget per la natia Chambéry, dove
visitava le chiese e il convento dei Francescani per raccogliere
le benedizioni; il mattino del 22 settembre il corteo nuziale si
metteva in marcia per Rivoli, salutato dalla popolazione in festa:
Bianca cavalcava tra il fratello Amedeo e il conte Amedeo III di
Ginevra, seguivano Giovanna di Borgogna, la contessa di
Ginevra Mahaut de Boulogne con le figlie Maria e Bianca e un
corteo di damigelle, venivano infine tutti gli ufficiali di corte, i
frati minori e il clero al seguito del vescovo di Ivrea; gli scudieri
splendidamente adornati con gli stemmi dei loro cavalieri
custodivano gli animali da soma carichi delle casse col corredo.
Il corteo passò per Montmélian, attraversò la Maurienne e risalì la
tortuosa valle dell'Arc. Ad Aiguebelle-sur-Arc si fermarono nel
castello allestito per la cena e il pernottamento. Il 23 settembre
si diressero a Epierre e a la Chambre, il 24 raggiunsero St Jean,
St Michel de Maurienne e Lanslebourg; a mezzogiorno del 25
superarono il Moncenisio e raggiunsero in serata Susa, accolti
dal balivo Aimone di Challant. Toccando Avigliana domenica 26
settembre, nel pomeriggio giungevano a Rivoli, una cittadina
dominata dal suo castello sulla collina. Qui, ospite del
castellano Rodolfo di Moutiers, attendeva Galeazzo.
Una cerimonia cavalleresca
Il 27 settembre nella casa di Bartolomeo Dro si compivano i
preliminari delle nozze: Galeazzo ratificava i contratti stipulati
dai suoi procuratori in Savoia, Bianca metteva le sue mani in
quelle dello sposo che, col bacio di rito, le giurava amore ed
assistenza. Infine, con la consegna di una penna, il fratello
Amedeo dava a Galeazzo la solenne investitura della contea di
Yenne.
Il matrimonio religioso fu celebrato il 28 settembre nella cappella del
castello dal vescovo di Ivrea, che dava l'avvio alle grandi feste
con giostre e spettacoli per tutto il resto della settimana. A
vincere furono i quattordici cavalieri del Cigno Nero,
ovviamente sabaudi, che si strinsero nell'ordine omonimo e si
giurarono eterna alleanza. I cavalieri sfoggiavano sulle armi e
sugli abiti un cigno nero con le zampe e il becco rosso.
Il 2 ottobre i due sposi raggiungevano Torino, ospiti del principe
Giacomo di Acaia, cugino in seconda di Bianca, presso il quale
si trattennero fino al 3, domenica, accolti sontuosamente dalla
moglie Sibille des Beaux
nel castello di Porta Fibelliona
(palazzo Madama); quindi si avviarono verso Milano, scortati
da 52 cavalieri agli ordini di Amedeo de Beauvoir, onde evitare
brutte sorprese da parte di Giovanni II del Monferrato.
Il solenne ingresso nella capitale viscontea ebbe luogo il 7 ottobre e i
festeggiamenti per la nuova coppia durarono più giorni,
includendo anche il matrimonio di Ambrogio, figlio di Lodrisio
Visconti.
La prima residenza in S. Pietro all'Orto
Inizialmente la coppia andò a vivere nel palazzo di S. Pietro all'orto,
del quale sfortunatamente non possediamo alcuna descrizione
(si trovava sul luogo della prima sede della Banca Popolare di
Milano). Per ragioni di stato la giovane sposa restò subito sola
a sbrigarsela nel suo nuovo mondo, perché il 23 ottobre
Galeazzo fu spedito dallo zio Giovanni a prendere possesso di
Bologna. La salute di Galeazzo era già compromessa. Si dice
che soffrisse di gotta, ma viene il dubbio che la sua malattia,
sempre più deformante e devastante, fosse l'artrite reumatoide.
Già nel dicembre di quell'anno, a soli 29 anni, Galeazzo
dovette essere sostituito a Bologna dal fratello Bernabò a
causa dei suoi impedimenti fisici. Fu in grado di tornare a casa
solo nel gennaio successivo e da quel momento iniziò la vera
vita coniugale di Bianca.
Il primogenito vide la luce il 15 ottobre 1351. Amedeo di Savoia
giunse a spron battuto a rendere omaggio all'erede,
regalandogli una nutrice per non indebolire la giovane madre.
Lo vollero chiamare Giovanni Galeazzo.
La seconda figlia, Maria, nacque alla fine del 1352 e nel 1354 fu la
volta di Violante, che ebbe il nome della sua rimpianta madre ...
e la stessa vita sfortunata.
Nel 1355 suo fratello Amedeo sposava Bona di Borbone, sorella
minore di Giovanna, moglie del re di Francia. Era l'inizio
dell'alleanza, mediata da suo fratello, tra la sua famiglia e la
corte parigina. Amedeo, dal 1353, aveva scelto di vestirsi
sempre di verde. E' vero che era il colore consigliato dai medici
per preservare malattie agli occhi (forse la morte del fratello
Giovanni aveva lasciato un segno indelebile), ma per Amedeo
divenne il suo portafortuna e volle che tutto intorno a lui,
dall'arredamento alle divise dei suoi soldati fosse verde,
un'ossessione che gli valse l'appellativo di "conte Verde".
La corte milanese non brillava però né per cultura, né per
mecenatismo artistico e fu quindi un conforto per Bianca l'arrivo
a Milano di un personaggio che le si affiancherà come un
angelo custode, rallegrandone i giorni e confortandola con la
sua cultura: Francesco Petrarca.
Il nuovo palazzo al Broletto Vecchio
Quando Giovanni Visconti morì il 5 ottobre 1354 ci fu un gran
trambusto alla corte milanese, perché i tre fratelli Visconti
dovevano spartirsi il territorio e la città di Milano. Petrarca
pronunciò in quell'occasione il discorso introduttivo della
cerimonia, svoltasi l'11 ottobre 1354, sotto gli auspici di una
calcolata configurazione astrale positiva - ma non sufficiente a
impedire la morte di Matteo esattamente un anno dopo.
Come si sentiva Bianca all'interno di questi pericolosi sommovimenti
interni? Persino la terribile suocera Valentina Doria aveva
alzato il dito accusatore contro i figli accusandoli di fratricidio.
Poiché Bianca riteneva suo marito innocente, prese a temere
anche la sola vicinanza di Bernabò e da quel momento
insistette presso il marito per rinforzare le difese del palazzo di
Azzone al Broletto Vecchio, dove erano traslocati. Dal 1358
Galeazzo iniziò a costruire una possente recinzione, ma per
Bianca era ancora troppo poco, tanto più che dal palazzo di
Bernabò in S. Giovanni in Conca al palazzo di Azzone c'era un
passaggio sopraelevato...
Pietro Azario, cronista e testimone piuttosto infastidito dalla
confusione che portarono alla città i continui cantieri edilizi, ci
ha lasciato questa vivida descrizione:
Fece demolire dalle fondamenta quelle case e molte altre vicine,
senza lasciare in piedi una sola pietra, eccetto la cappella di S.
Gottardo, costruita dal signor Azzone, ed eccetto l'antico
torrione e l'altro nuovamente costruito al tempo del signor
Luchino. Queste case, coi loro ornamenti, dipinti, fontane, oggi
varrebbero più di 300.000 fiorini. Fece la casa di propria
abitazione dalle fondamenta a modo suo, e così di presente si
trova, con infinite spese e fastidi per i suoi cittadini, dai quali
volle avere, per poco o per nulla, d'ogni parte e in qualunque
modo, maestri, operai, legnami. Ciò che fu peggio, dopo aver
eretto un muro con enormi spese e fatiche, lo faceva
distruggere dalle fondamenta e ne faceva costruire lì accanto
un altro simile. Stancò tutti per fastidi. Né d'inverno, al tempo
delle piogge, né in altra stagione, anche d'estate, mai
interruppe la costruzione dei muri, volte, palazzi e simili
d'immensa lunghezza e larghezza, come aveva decretato.
Poiché per la troppa fretta e confusione i muri furono eretti per
la maggior parte con mattoni mutilati e rotti, mostrarono
moltissime fessure e alcuni poco dopo caddero. Si può dunque
dire che fece fare due case insieme, accostate e separate l'una
dall'altra, bellissime e con grandi spese (P. Azario, Cronache,
cap. XIV).
La parentela coi re di Francia
Tanto disturbo e tanto lavoro per costruirsi una dimora sicura fu
vanificato da un fatto nuovo: nel 1360 fra' Jacopo Bussolari
cedette Pavia a Galeazzo Visconti e da quel momento Bianca e
il marito decisero di spostare la loro sede nell'antica capitale
lombarda, abbastanza lontana e difesa dalle manovre di
Bernabò.
In quel fatidico 1360 anche un altro avvenimento stava per cambiare
il destino di tutta la famiglia di Bianca. Nelle trattative aperte a
Brétigny tra Giovanni II di Francia e Edoardo III d'Inghilterra
all'interno della guerra dei Cento Anni, il re francese doveva
versare entro ottobre al re inglese l'ingente somma di tre milioni
di scudi in cambio della rinuncia inglese alla successione sul
trono francese.
Amedeo di Savoia, cognato del principe reggente Carlo V, si
propose come mediatore per raccogliere i fondi e nel giugno
1360 aprì le trattative per il matrimonio di Gian Galeazzo con
Isabella di Valois, che avrebbe dovuto fruttare ai reali francesi
ben 600.000 scudi. Nella delegazione inviata a Parigi per
definire gli accordi c'era anche l'immancabile Petrarca. Stabilita
la solvibilità di Galeazzo, Giovanni II accondiscese al
matrimonio della figlia e in settembre Isabella, praticamente
svenduta, arrivò a Milano, portando in dote la contea di Vertus.
Il 7 ottobre 1360 si celebrò il matrimonio: Petrarca coniò per i
due sposi il motto A bon droyt e come emblema fu scelta la
colombina raggiata. Bianca gongolava: suo figlio, conte di
Veertus, era imparentato con i re di Francia, di Navarra e con
l'imperatore Carlo IV, che poteva chiamare zio!
Quello di Isabella fu però un sacrificio inutile, perché alla ratifica
degli accordi il 24 ottobre la somma per il riscatto del re era
insufficiente e Giovanni II fu costretto a lasciare in ostaggio di
Edoardo III due figli. Bianca dovette accogliere la giovane e
provata Isabella come una madre e rassicurarla circa le tristi
notizie che arrivavano dalla Francia, con le compagnie di
ventura - i Tard-venus - che rifiutavano lo scioglimento e
devastavano il già martoriato paese.
Nel 1361 Petrarca abbandonava Pavia divenuta pericolosa per il
contagio della peste e si rifugiava ad Arquà, riservandosi di
tornare ogni estate a visitare la sua amica. I consigli letterari e
culturali del Petrarca erano stati preziosi per fondare nel 1361
l'Università di Pavia e costituire la biblioteca, che nel giro di
alcuni anni raggiungerà il migliaio di codici. Il modello era quello
che Carlo V stava assemblando a Parigi - dal 1367 trasferito
nel vecchio torrione dei Falconi al Louvre - per rispondere al
progetto politico di formare un'élite amministrativa colta, motivo
per cui i testi latini venivano tradotti in francese.
Petrarca aveva anche infuso in Bianca l'amore per S. Agostino, il
Padre della Chiesa sepolto in S. Pietro in ciel d'oro a Pavia. Per
rendergli omaggio i Visconti commissionarono nel 1362 agli
scultori campionesi un'arca di grande effetto, che ancora oggi
si può ammirare nella basilica pavese.
Quale dolore fu per Bianca perdere nell'aprile del 1362 la figlioletta
Maria di 10 anni e non poter godere del conforto dell'abate
Francesco. Per suo marito invece la morte della figlia era solo
un intoppo nella risoluzione della questione spinosa di Asti, che
i Visconti rivendicavano da quando nel 1348 l'aveva occupata
Luchino Visconti. Maria era stata destinata a sposare Ottone II
del Monferrato, portando in dote Asti, e invece ora tutto era da
rifare.
Le notizie dalla Francia continuavano ad angustiare Isabella: suo
padre era stato costretto a presentarsi davanti alla corte
inglese perché uno dei suoi figli era evaso da Calais, dove era
tenuto in ostaggio. Le condizioni di salute di Giovanni II non
erano delle migliori e il sovrano francese morì l'8 aprile 1364 a
Londra, nuovamente prigioniero degli Inglesi, per lavare l'onta
causata dal figlio.
La vita nel castello di Pavia
Dal 1362 le condizioni di salute di Galeazzo erano andate
peggiorando (e dato lo stress emotivo cui era sottoposto,
l'ipotesi che si trattasse di un'artrite reumatoide di matrice
psico-somatica resta molto valida); Bianca, per motivi di
sicurezza, insistette per spostare tutta la famiglia nel nuovo
castello che Galeazzo aveva fatto costruire in una Pavia
appena conquistata, che era diventata a sua volta una città
superdifesa.
Il primo lieto evento celebrato nell'erigendo castello di Pavia fu la
nascita di Gian Galeazzo il 4 marzo 1366. Si organizzò una
grande giostra in onore dell'erede, alla quale partecipò anche
Amedeo di Savoia, che in quell'occasione promosse la
partecipazione viscontea alla crociata contro i Turchi.
Per decorare la nuova sontuosa residenza, Galeazzo mandò a
chiedere artisti alla corte dei Gonzaga, la più raffinata e
aggiornata delle corti del Nord-Italia (lettera a Guido Gonzaga
del 23 maggio 1366).
A Pavia Bianca rinacque: coccolava i nipotini Gian Galeazzo e
Azzone (nato nel 1368), si prendeva cura di Isabella, impartiva
ordini agli artisti per le decorazioni e gli arredi, dava feste e
ricevimenti, insomma le sembrava di essere finalmente tornata
ai tempi d'oro della vita in Savoia, quando essere Signora di
una contea dava prestigio e privilegi, non solo paure. Suo
fratello Amedeo era intimo della corte parigina del cognato
Carlo V ed era invaghito come lui dei romanzi cavallereschi e
dei poemi. Nel 1368 compra da Guillaume de Machaut un suo
romanzo per la favolosa cifra di 310 franchi d'oro. Guillaume
(1300-1371) era all'apice della sua fama come poeta, musicista
e romanziere. Alcuni dei titoli più famosi? La Fontaine
amoureuse, Le Jugement du Roy de Navarre, La Prise
d'Alexadrie, Le Remède de Fortune. Alcuni di questi favolosi
codici miniati verranno prestati a Bianca e Isabella per il loro
diletto.
Nel 1368 Bianca fece arrivare da Parigi per lei e per la nuora Isabella
due Libri d'Ore, uno dei quali apparteneva a Bona di
Lussemburgo, la mamma di Isabella morta nel 1349, miniato
da Jean le Noir intorno al 1340. Bianca possedeva una piccola
biblioteca personale costituita tra l'altro da l'Exposition de
l'Evangile (BNF ms fr. 187), il Mirroir de l'ame e il Trésor di
Brunetto Latini (BNF fr 1110), regalo del figlio Gian Galeazzo. E
probabile che in questi anni entrasse al servizio dei Visconti a
Pavia anche il famoso Jean d'Arbois, consigliato forse da
Amedeo, per rimanervi fino al 1373.
Un'altra fonte di ispirazione artistica per Bianca era
stata la corte inglese.
Nel 1366 era arrivata a Pavia la delegazione guidata da Humphry de
Bohun, conte di Hereford, per trattare il matrimonio tra sua figlia
Violante e Leonello di Clarence, uno dei numerosi figli di
Edoardo III e Philippa di Hainault. Il conte aveva recato in
omaggio un calendario miniato che piacque moltissimo a Bona.
Volle copiarlo per farne un Libro d'Ore per le preghiere sue e di
Galeazzo e passò la commissione al miniatore Jean d'Arbois.
Il matrimonio di Violante, celebrato a Milano il 15 giugno 1368, fu di
uno sfarzo così eccessivo da sollevare più critiche che
ammirazione. Non per altro suo marito era costantemente
assillato dai soldi, non pensava che a spremere i sudditi e a
mangiare, terrorizzato che qualcuno cacciasse o pescasse
sulle sue terre. Facciamo parlare ancora l'Azario:
Ha ordinato che nessuno peschi i temoli, soprattutto nel fiume Ticino,
e se qualcuno li pescasse per caso, che li porti
immediatamente alla cucina del signore. Quei pesci infatti gli
piacciono più di tutti gli altri. Così fa per la frutta, soprattutto le
amarene dolci di Zotego e Mosezzo, del distretto di Novara, per
avere tutte le quali il Comune di Novara ha sofferto e soffre
molte spese. Allo stesso modo si prende cura delle cavalle;
dove sa che c'è qualche cavalla buona per figliare, vuole di
necessità averla" (P. Azario, Cronache, cap. XIV).
La ricerca di animali rari o da caccia si spinse anche in Inghilterra,
dove Galeazzo aveva per interlocutore re Edoardo III, anche se
il povero Leonello era morto subito dopo il matrimonio. Al'ex
consuocero Galeazzo si rivolse anche per chiedere aiuto nella
guarigione della sua terribile malattia.
Una penitenza da "Quaresima"
Petrarca, in una lettera a Tommaso del Garbo, descrive le sofferenze
di Galeazzo, colpito alle articolazioni dei piedi, delle mani e
delle giunture, che "aveva per guisa intorpidite, anzi rattratte e
fatte immobili le estremità inferiori che non solamente il mutare
anche un passo, ma pur lo stare ritto gli era impossibile".
E' ancora il Petrarca, veramente familiare ai Visconti a Pavia, che
narra come un Vallese, Guglielmo de Luzia, che aveva fama di
gran dottore, fosse venuto intorno al 1365 alla corte di Pavia
dietro lauto compenso. Ma la guarigione promessa ritardava e,
anzi, Galeazzo era peggiorato a tal punto che il medico suggerì
"doversi ricorrere a certi libri di magia, che diceva sacri, dai
quali soltanto si può apprendere a tanto male il rimedio, ond'è
che ha prescritto di farne ricerca, ma in quale parte del mondo
né io so, né sallo egli stesso" (F. Petrarca, Epistole senili, I).
Cinque anni dopo l'inizio della cura la malattia era progredita, per cui
Galeazzo raccontava ad Edoardo d'Inghilterra come Guglielmo
da Luzia gli avesse confermato che la sua malattia non
dipendeva dalla gotta, bensì da un maleficio, che si sarebbe
potuto togliere recitando le formule di un libro sacro.
Sfortunatamente non conosciamo la risposta di re Edoardo.
Quindi, nonostante la fede nella magia, non si ricava il quadro
di una corte così imbevuta di testi e rituali magici, come verrà
descritta a Parigi per incolpare la povera Valentina qualche
decennio più tardi.
E' possibile che una modalità di tortura escogitata da Galeazzo,
detta "la Quaresima" per la sua durata di 40 giorni, gli fosse
stata suggerita dai suoi lancinanti e inestinguibili dolori.
L'Azario così la riassume (e tanto ci deve bastare):
li faceva mutilare a poco a poco tutte le membra (soprattutto se si
trattava di un prete) e li faceva incarcerare finché sopravveniva
la morte (P. Azario, cap. XIV).
L'avvio di questa atrocità è il 1362, quando appunto ci fu la
recrudescenza della malattia. Come si comportava Bianca di
fronte a questo aspetto del marito? Che considerazione aveva
di lui?
Pavia viscontea riprodotta in un affresco in S. Teodoro, con S.
Antonio abate in primo piano (attribuito a Bernardino Lanzani,
1522)
Il tragico 1372
Alla morte di Giovanni Paleologo, marchese del Monferrato, si riaprì
la solita spinosa questione della successione. A giugno
l'esercito visconteo, al comando di Francesco d'Este, Jacopo
dal Verme, Ambrogio Visconti, Ruggero Ranieri detto Cane,
Ugolino da Saluzzo e John Hawkhood detto Giovanni Acuto,
pose l'assedio ad Asti. Era presente alla sua prima uscita in
campo anche Gian Galeazzo. Poiché anche Amedeo di Savoia
aspirava alla conquista della città, per Bianca si prospettava la
triste scena che vedeva fronteggiarsi come nemici suo fratello
e suo figlio.
Mentre Bianca si aspettava che tutto sarebbe stato sistemato per via
diplomatica, non credendo capace suo fratello di mettersi
contro di lei, Amedeo firmò il 17 luglio ad Avignone l'adesione
alla Lega anti-viscontea e si fece nominare da Ottone di
Brunswick custode del marchesato finché i giovani eredi non
avessero raggiunto la maggior età. Era la guerra!
Bianca spedì come guardia-spalle del figlio Cavallino de' Cavalli e
Stefano Porri, ma questo non evitò che il ventunenne conte di
Vertus, per dimostrare la sua valentia come capitano, inviasse
allo zio Amedeo il guanto di sfida a singolar tenzone. Come
erano ormai lontani i tempi dell'Ordine del Cigno nero! Non se
ne fece niente, forse dietro le suppliche di Bianca. Il giovane
Gian Galeazzo si dovette sentire più volte in conflitto: da una
parte i capitani che lo incitavano a dare ordini di attacco,
dall'altra la madre che gli mandava in continuazione
ambasciate di attendere mentre lei trattava col fratello. Il
risultato fu che le truppe prestate da Bernabò si ritirarono e
l'Acuto confluì addirittura nelle truppe avversarie.
In agosto l'imperatore Carlo IV tolse il vicariato imperiale per l'Italia ai
Visconti e lo assegnò ad Amedeo VI, mentre papa Gregorio IX
da parte sua scioglieva i sudditi viscontei dal giuramento di
fedeltà, con l'ordine d'infrangere i trattati stipulati coi Visconti; li
privò della dignità cavalleresca e diede ordine di confiscare i
loro beni ovunque si trovassero. Non per sua volontà, ma
Bianca si trovava a difendere gli interessi degli odiati Visconti
contro la sua gente, i Savoia e i Paleologo.
Se è vero che le disgrazie non vengono mai sole, bisogna
ammettere che quell'anno 1372 per Bianca fu ben triste: a
settembre moriva sua nuora Isabella partorendo un maschietto,
Carlo, che morì a sua volta entro l'anno. A Bianca non restava
che farsi carico del dolore del figlio e della cura dei tre piccoli
orfani Gian Galeazzo, Azzone e Valentina.
Nella primavera successiva si aspettava l'attacco delle truppe di
Amedeo: Bianca vide con orrore quei terribili mercenari che
scorazzavano per il suo bel parco davanti alle finestre del
castello di Pavia, montando per spregio le preziose giumente
del marito. Erano più da temere le soldataglie che non il fratello,
col quale il marito si era accordato per fare una "piccola guerra",
sufficiente sì ad indebolire i Visconti, ma non decisamente
vantaggiosa per il papa. Il 7 maggio 1373 l'esercito visconteo
venne sconfitto a Montichiari e i rapporti tra Bianca e il fratello
subirono una brusca interruzione, ma il legame che univa
almeno Bianca ad Amedeo era troppo forte per spezzarsi.
L'abile diplomatica
Nel 1374 Galeazzo era ormai totalmente paralizzato; stese un
elenco delle elemosine da fare tutto l'anno in una specie di
calendario a metà fra i Fasti romani e il menologio cristiano:
previde i giorni di digiuno, quelli in cui gli erano apparsi in
sonno i defunti, le commemorazioni dei suoi antenati ... un inno
alla morte, ispirato dal dolore della malattia.
Il 6 giugno 1374 Bianca accompagnò Gian Galeazzo a Casale
Monferrato per trattare la pace con Amedeo e cercare di
ristabilire l'alleanza interrotta. Fu in realtà lei a gestire l'incontro,
perché il figlio mostrava un certo fastidio a rapportarsi con lo
zio, un idolo infranto.
Per risolvere la questione di Asti, Bianca e suo fratello pensarono di
far sposare nell'agosto 1377 la vedova Violante a Ottone II del
Monferrato, detto Secondotto. Non ancora soddisfatto, nel
febbraio 1378 Gian Galeazzo occupa Asti - con la scusa di
aiutare il cognato - e la considera sua contea, suscitando le ire
dell'ormai ostile zio Amedeo. Bianca ne era al corrente o il suo
amato Gian Galeazzo era diventato maestro nella
dissimulazione anche con lei?
Quello che Bianca non aveva messo in conto era il prematuro
decesso del marito: il 4 agosto 1378 Galeazzo si spegneva a
Pavia dopo lunghi periodi di strazio e la sua scomparsa creava
uno squilibrio nello Stato visconteo a vantaggio di Bernabò. Il
lutto non distolse Bianca dagli affari quotidiani: si fece
confermare dal figlio la signoria su S. Colombano, Graffignana
e Binasco e le proprietà di Coazzano, Gentilino e Corte Nova di
Pavia (quelle di Monza e Abbiategrasso nel 1380 andranno alla
nuova nuora Caterina, figlia di Bernabò, in cambio di
Vigevano).
Libero dal controllo paterno, Gian Galeazzo manovrò per eliminare
definitivamente il cognato marchese del Monferrato, lasciando
così un vuoto di potere ad occidente. Anche in questo caso non
è credibile che la madre ne fosse al corrente, come pure la
sorella Violante, che alla fine di dicembre 1378 fece ritorno a
Pavia nuovamente in gramaglie. Nel frattempo procedevano i
piani di Gian Galeazzo per acquisire la corona di Sicilia
sposando Maria d'Aragona, un modo per scavalcare le
ambizioni espansionistiche dello zio Bernabò e tenersi però
lontano da lui.
Bernabò accondiscese che il nipote sposasse Maria d'Aragona, a
patto che gli lasciasse l'intera Sigoria viscontea. I figli di Gian
Galeazzo avrebbero dovuto quindi sposare i figli di Bernabò e
la loro dote entrare nel patrimonio comune. Il 14 settembre
1378 Gian Galeazzo accondiscese a fidanzare il giovane
Azzone con
Elisabetta, ma tutte queste prime manovre
matrimoniali vennero sospese, perché nell'attesa che i Visconti
si accordassero Maria d'Aragona venne rapita da un suo
cugino e costretta a sposarlo.
Bianca si sentì veramente con le spalle al muro, alla mercé dei
raggiri di Bernabò, che pensava di avere ormai in pugno Gian
Galeazzo. Anche se l'allontanamento del nipote dai territori
viscontei era sfumato, Bernabò era intenzionato a proseguire
nella politica dei matrimoni forzati tra cugini. Questo delirio
ebbe inizio nel 1380: il 15 novembre Gian Galeazzo fu fatto
sposare a Caterina, lui che era stato sposato a una Valois ed
era conte di Vertus! L'ambiziosa Bianca visse molto male
questa imposizione, aggravata dal lutto che funestò le nozze:
Azzone, l'ultimo figlio maschio superstite di Isabella di Valois,
moriva proprio il giorno delle nozze, facendo sembrare le feste
uno sberleffo alla sua memoria. Le condoglianze che la nonna
e il padre affranti ricevettero da Bernabò furono volutamente
così superficiali, da imprimersi a fuoco nella loro memoria. Fu
proprio da questa data che Bianca e il figlio iniziarono a tessere
la trama del colpo di stato che avrebbe assicurato loro il
dominio assoluto sullo Stato visconteo. Ciò non impedì
all'invadente Bernabò di pretendere il fidanzamento fra suo
figlio Carlo e la giovane Valentina, figlia di Gian Galeazzo ed
erede dei beni già del fratello Azzone, in qualità di ultima
discendente in Lombardia del re di Francia.
Bianca dissimulava i suoi piani e si occupava dei suoi domini. Ad
esempio il 4 febbraio 1381 raccomandava ai reggitori del
Comune di Vigevano, città da lei recentemente acquisita, di
riparare il castello che il figlio premuroso le aveva regalato col
borgo. Si preoccupò anche di raccogliere gli Statuti di Vigevano
in un unico Corpus, di istituire una scuola pubblica, di aprire un
mercato e fare il primo censimento. Ma Bernabò incalzava e il
18 aprile 1381 anche la vedova Violante doveva sposare un
altro figlio del nemico, Ludovico, mentre Valentina veniva
risparmiata perché Bernabò disponeva diversamente per suo
figlio Carlo.
La regista del colpo di Stato
A dare un'accelerata ai piani di Bianca furono due eventi: l'imminente
matrimonio tra Lucia Visconti e Luigi II d'Angiò, che avrebbe
portato Bernabò ad avere una figlia sul pur traballante trono di
Napoli, e la morte di suo fratello Amedeo il 1° marzo 1383 a
causa di un'epidemia di peste. Vedova e senza il fratello con
cui consigliarsi, Bianca decise di giocare il tutto e per tutto.
Doveva impedire a Bernabò di concretizzare la sua alleanza
angioina, che avrebbe definitivamente emarginato il figlio Gian
Galeazzo, ridotto ormai a un precario ruolo da comprimario.
Prima di tutto invia nel 1383 il consigliere Pasquino Capelli a
Parigi per saggiare la disponibilità della corte francese a
sostenere i suoi piani, apparentemente per fare nuova incetta
di codici. Non conosciamo la risposta della corte francese.
La regia del colpo di stato del 6 maggio 1385 venne ascritta da tutti
senza dubbio a lei. In un poemetto composto per le imminenti
le feste di nozze di Lucia viene inserito come personaggio
proprio Bianca, che avrebbe sognato un drago in atto
d'inghiottire il suo amato Gian Galeazzo. Gian Galeazzo non fu
meno abile della mamma: da bravo dissimulatore riuscì ad
ingannare con la sua mansuetudine fino alla fine lo zio Bernabò,
tenendo allo scuro di tutto sua moglie Caterina. Sarà questa
una dote di carattere che trasmetterà a suo figlio Filippo Maria.
Che ruolo giocò Bianca dopo il colpo di stato per tenere a bada la
prole di Bernabò? A parte i maschi imprigionati o esiliati, a corte
restavano numerose figlie ancora giovani, tutte sorelle di sua
nuora, non dimentichiamolo. E soprattutto come si comportò
con Caterina? Bianca la terrorizzava, in qualche modo la
colpevolizzava di non riuscire a dare un erede maschio a suo
figlio, ignorando i problemi di eugenetica fra cugini di primo
grado. Quando Caterina abortiva o quando nacque una
bambina morta subito dopo, Bianca ne incolpava Bernabò, che
avrebbe brigato per non lasciare eredi a Gian Galeazzo.
Liberata dall'incubo di Bernabò, Bianca tornò a mirare in alto per
sistemare la sua famiglia. Poiché Valentina era rimasta nubile,
venne proposto un matrimonio con Giovanni di Goerlitz, fratello
dell'imperatore Venceslao di Boemia - casata alla quale
Valentina apparteneva per parte di nonna materna. C'era
anche la possibilità di farla diventare regina di Napoli al posto di
Lucia, che quale perdente poteva essere tranquillamente
accantonata. Oppure si poteva fidanzarla col cugino Luigi di
Turenna, fratello del re di Francia. Insomma, Bianca e Gian
Galeazzo si fecero prendere da un tourbillon di sogni e
trattative sulla pelle della povera ragazza. Alla fine rimase
quest'ultima possibilità, meno prestigiosa delle altre due e con
problema della consanguineità.
La dispensa arrivò alla fine del 1386 e Bianca ebbe tutto il tempo di
presiedere ai preparativi per il corredo, che doveva essere
fantastico. Una nonna vittoriosa ma stanca presenziò al
matrimonio per procura celebrato l'8 aprile 1387 a Milano. Ma
la nipotina non la lascerà, rimarrà a Pavia in tempo per
assistere ai suoi funerali. Bianca infatti morì il 31 dicembre
1387, a soli 51 anni. Volle essere sepolta nel monastero di S.
Chiara detto dell'Annunziata, che aveva fondato nel 1380 a
Pavia. Il monastero verrà soppresso nel 1782 e venduto nel
1803 (Pavia, Archivio di Stato, cart. 15377).
Note
(1) Aimone era nato il 15.12.1291. Oltre ai figli legittimi, ebbe Umberto (m.
1374), Oggero (m. luglio 1372), Amedeo, Giovanni, canonico di Losanna
(m. 1349 ca.), Maria che sposerà Andrea Buoncristiani e vivrà a
Chambéry, Donata, monaca in Provenza e un'altra figlia della quale
manca il nome (G. Oliva, I Savoia, p. 93)
Bibliografia
C. Dell'Acqua, Il palazzo ducale Visconti in Pavia e Francesco Petrarca, Pavia
1874
C. Dell'Acqua, Bianca Visconti di Savoia in Pavia e l'insigne monastero di S.
Chiara. La reale sua fondazione, Pavia 1893
R. Farina (a cura di), Dizionario biografico delle donne lombarde, Milano 1995
D. Muratore, Bianca di Savoia e le sue nozze con Galeazzo II Visconti, in
"Archivio Storico Italiano", 1907, pp. 5-104
G. Oliva, I Savoia, Oscar Mondadori, 1998
4.4 Giovannola di Montebretto,
Visconti e il suo fantasma
Bernarda
Giovannola di Montebretto, Bernarda Visconti e
il suo fantasma
di Maria Grazia Tolfo
Giovannola di Montebretto e Bernabò Visconti
Giovannola, piccola e rubiconda, era una delle giovani che, forse per
motivi di parentela con il personale a servizio alla corte di S.
Giovanni in Conca, era entrata fatalmente in contatto visivo col
superbo Bernabò. La ragazza appariva allegra, disinvolta, per
nulla intimorita dalla fama sinistra del nero Signore, quasi
volesse sfidarlo alla sua conquista come una lepre marzolina
sfida e gioca col cane che vuole azzannarla. Ma Giovannola
era semplicemente una sventata, incapace di riflettere sulle
conseguenze dei suoi comportamenti e totalmente priva del
sentimento della paura, dono prezioso agli umani quando è
dato in misura sufficiente a provocare la prudenza.
Abitava a Milano in una casa presso la Torre dei Moriggi, nella
parrocchia di S. Pietro in Vigna. Dopo che ebbe conosciuto
Bernabò, si trasferì in una casa all'attuale Crocetta di Porta
Romana, nella quale più tardi andò ad abitare Sagramoro
Visconti.
Servadeo Bustigalli, familiare intimo e confidente di Bernabò, aveva
il delicato incarico di trattare la questione economica con le
donne prescelte dal suo signore, lavoro veramente impegnativo
e senza noia, data la mole di relazioni amorose extra-coniugali
di Bernabò. Cresciuto in un appartamento nella contrada alla
Torre dei Moriggi, vicino a quello di Giovannola, Servadeo
aveva avuto occasione di conoscerla giovanissima. E' lo stesso
Servadeo a raccontarci che Bernabò fece chiudere con assi
una scala della casa di Giovannola per evitare di essere visto
dagli inquilini quando andava a trovarla, prima di regalarle la
casa appena fuori la sua Rocca di Porta Romana. Come
messaggero d'amore veniva utilizzato Giovanni Rampazzi,
detto fra' Giovanni dai Cani, una losca figura di ruffiano che
incontreremo ancora in più tristi circostanze.
Da Bernabò le nacque nel 1353 una bimba rosea e coi capelli
biondo-rossicci come lei. Le misero nome Bernarda. Bernabò
ne era così deliziato che decise il trasloco di mamma e figlia
nella Rocca di Porta Romana, dove lui svolgeva le sue
mansioni amministrative quotidiane, in modo da poterle avere
sempre con lui. Questo non toglie che al Visconti in quello
stesso anno nascesse Marco, il terzo figlio legittimo.
Fu per uno stupido scherzo mal riuscito e per il solito amore del
rischio che Giovannola mise fine alla sua vita di concubina?
Durante i festeggiamenti seguenti alla vittoria di Casorate,
ottenuta dalle truppe viscontee l'11 novembre 1356 contro
quelle imperiali di Carlo IV, Giovannola civettò con il capitano
generale di Galeazzo, Pandolfo Malatesta, e come premio per
la vittoria a un torneo lo omaggiò di un anello...che le era stato
regalato da Bernabò. Pandolfo non era un rozzo condottiero,
era figlio di Galeotto, signore di Fano, e faceva parte della
dinastia dei Malatesta di Verrucchio che per due secoli riuscirà
a tenere il dominio sulla Marca anconetana e su parte della
Romagna. Aveva fama di gran seduttore, ma era anche colto e
fra le sue sincere amicizie vantava Francesco Petrarca. Come
poteva una sciocchina come Giovannola pensare di giocare
impunemente a provocare una rissa tra Bernabò e Pandolfo
per il suo amore? Forse riteneva di poter spiegare tutto a
Bernabò, ignorando che le sue collere erano incontrollabili.
Forse Pandolfo le era in realtà antipatico perché troppo
compassato e voleva vederlo in difficoltà. Nessuno lo seppe
allora né si saprà mai.
E' Pietro Azzario che ci informa delle conseguenze di un così incauto
gesto. Pandolfo, ignaro del retroscena, si presentò a corte da
Bernabò sfoggiando al dito l'anello di Giovannola (nelle regole
cavalleresche sarebbe stato un affronto alla dama il non farlo).
Peccato che Bernabò avesse buona vista e buona memoria:
colpito dal bagliore dell'anello mentre Pandolfo gli faceva
l'inchino di rito, sfoderò fulmineamente la spada e si avventò
contro l'ignaro capitano che, perso l'equilibrio, inciampò
provvidenzialmente nel fodero della sua spada e finì lungo e
disteso per terra. Il colpo di Bernabò fese l'aria e non poté
ripetersi, perché i suoi ufficiali si affrettarono a bloccare
l'impetuoso signore: Pandolfo guidava un esercito e non era il
caso di farsi scoppiare una guerra in casa!
L'ira di Bernabò era terribile, gli toglieva il ben dell'intelletto, e solo la
moglie Regina riusciva ad arginarla e a smorzarla. Quando il
marito ordinò che il Malatesta venisse decapitato senza
processo, perché l'anello urlava come prova il suo delitto,
Regina mandò d'urgenza a chiamare il cognato Galeazzo, che
abitava nei pressi.
Galeazzo riuscì a sottrarre a Bernabò il suo comandante, con
l'assicurazione che avrebbe fatto eseguire lui stesso la
sentenza di morte, invece lo fece fuggire. Pandolfo, scanso
equivoci, si eclissò per un certo periodo in Terra Santa,
seguendo l'Itinerarium Syriacum, una guida per la Palestina
scritta dal suo amico Petrarca. Al suo ritorno passerà a militare
al servizio del papa, nemico dei Visconti e saprà vendicarsi di
quello spavento. Nel 1361, in occasione della guerra per
Bologna, il Malatesta prometterà il doppio della paga di un
mese alle sue truppe se sapranno disperdere le truppe di
Bernabò. Per il Visconti sarà una batosta indimenticabile: più di
mille morti e mille e trecento prigionieri.
Cosa ne fu di Giovannola? Poiché Bernabò non perdonava mai i
tradimenti, dovette essere convinto che si era trattato di uno
scherzo e, anche dietro pressione di Regina, dovette limitarsi
ad espellere Giovannola dalla Rocca trattenendo la figlia
Bernarda.
Giovannola, privata per sempre dalla figlia, ebbe la disgrazia di
sopravviverle e di seguirne la tragica fine. Il suo amico
d'infanzia Servadeo Bustigalli andava a consolarla durante quei
giorni terribili e la trovava sempre in lacrime. Difficilmente uno
scherzo potrebbe dirsi così mal riuscito.
Bernarda Visconti
Il matrimonio con Giovanni Suardo
Anche dopo il fattaccio occorso alla madre nel 1356, Bernarda
continuò a vivere nella Rocca di Porta Romana, come
testimonia Isabella de Cola, una sua coetanea che crebbe
insieme a lei come compagna di giochi; venne allevata come
un'orfana e vi rimase finché si sposò, viziata e coccolata dal
padre.
Di lei si sa che era piccola di statura, rotondetta, con una faccina
resa impertinente dal nasino aquilino, ma addolcita da una
massa di capelli biondo miele. A 14 anni venne sposata con
una dote di 7000 zecchini d'oro il 16 gennaio 1367 a Giovanni
di Baldino Suardo, grande ghibellino e alleato visconteo nel
dominio della città di Bergamo, dove la coppia andò a vivere in
un palazzo presso la chiesa di S. Agata.
In occasione del matrimonio il castello di Bianzano ricevette una
decorazione all'ingresso con gli affreschi delle Virtù cardinali e
una serie di putti festanti, intercalati dagli stemmi dei Suardo e
dei Visconti. Nella minuscola corte interna compaiono ancora le
caratteristiche
losanghe
bianco-nere
(nel
WEB:
www.cortedeisuardo.com/atrio.htm per gli affreschi).
La relazione con Antoniolo Zotta
La convivenza tra i due si era rivelata presto difficile e Bernarda, con
l'assenso del padre, soggiornava spesso a Milano, nella Rocca
di Porta Romana. Qui Bernarda strinse una relazione con un
cortigiano, Antoniolo Zotta, ragazzotto sportivo, prestante e
imprudente. Forse il castellano Giovannolo da Vedano, che non
voleva avere problemi con il suo signore, li aveva pregati di
essere più circospetti per non metterlo nei guai. Forse la
risposta dei due giovani fu arrogante e ferì l'orgoglio del
castellano, che aspettò il momento giusto per vendicarsi e
mettersi nel contempo al riparo da punizioni.
Nella notte del 17 gennaio 1376 il Vedano fece irruzione con
testimoni nella camera da letto di Bernarda e colse i due amanti
in atteggiamenti inequivocabili. Lo zelante castellano denunciò
la scoperta a Bernabò, che si trovava a caccia a Cusago.
Accecato da una delle sue proverbiali ire, il Visconti ordinò che
Antoniolo venisse consegnato al podestà per l'immediata
esecuzione.
La punizione era veramente eccessiva, perché il reato commesso da
Antoniolo - intrattenere una relazione con una donna sposata prevedeva in realtà solo una multa di 100 terzioli, visto che non
c'era stata violenza. Poiché Bernabò era laureato in
giurisprudenza e amministrava da solo la giustizia nel suo
territorio, pensò di giustificare la pena inflitta con un'accusa di
tentato furto con scasso. Sotto tortura Antoniolo confessò di
aver cercato di forzare la serratura di un cassone di Bernabò
contenente preziosi. Tanto bastò perché il povero Zotta venisse
tradotto su un asino al Vigentino e impiccato.
L'accanimento dimostrato da Bernabò suscitò sospetti. Si mormorò
che era invidioso di Antoniolo in quanto era un giostratore più
abile di lui; altri insinuarono che l'interesse di Bernabò per la
figlia era incestuoso ed era soltanto perché Bernarda era una
sua preferita che l'aveva ospitata a corte. Altri ancora ritennero
che Bernabò non volesse perdere la faccia nei confronti di un
suo prezioso alleato, il Suardo, che per altro non voleva vedere
Bernarda neppure dipinta.
Le interpretazioni del gesto si complicano anche per via della
parentela che legava Antoniolo a Bernabò. Luchina Visconti,
l'unica figlia avuta dal grande Azzone, aveva sposato Lucolo
Zotta: è probabile che lo sventurato giovane non fosse
estraneo alla famiglia Visconti.
La prigionia a Porta Nuova
Ancora più insolito è il comportamento che Bernabò tenne con la
figlia. Come primo provvedimento spedì fra' Giovanni dai Cani,
il suo fedelissimo ruffiano, a gettarle acqua gelata sul capo e su
tutta la persona - si era a gennaio! -, intendendo con ciò
"spegnere il fuoco che la stessa aveva nelle natiche", secondo
la dichiarazione dello stesso fra' Giovanni. Durante questa
sadica procedura, Bernarda implorava urlando che facessero di
lei quello che volevano, ma che lasciassero stare il suo amato
Antoniolo. Questa supplica, riferita al padre, non fece che
aumentare la sua ira: ordinò che Bernarda venisse scuriata con
forza e solo l'intervento di Regina riuscì ad evitare che il marito
infierisse con maggior accanimento.
La punizione per un'adultera colta sul fatto era la morte, ma siccome
Bernabò non voleva che una sua figlia fosse sottoposta all'onta
della pubblica esecuzione, preferì che Bernarda si consumasse
naturalmente per inedia. La testimone Bianca Lampugnani,
nipote del castellano di Porta Nuova Ambrogio Solaro, vide
arrivare Bernarda scortata da Bianco Limoni e Filippo Casati,
ufficiali di Bernabò. La sventurata venne chiusa in una camera
e poco dopo fu raggiunta dalla cugina Andreola.
Per espresso ordine di Bernabò, le due donne potevano alimentarsi
solo a pane ed acqua. In anticamera, per sorvegliare che gli
ordini venissero eseguiti, dormivano i due suddetti ufficiali in
attesa del decesso, che tardava però a venire. Alla fine di
maggio (erano già trascorsi cinque mesi) ci fu un'emergenza: le
truppe bretoni erano calate in Lombardia per la questione di
Bologna e i due ufficiali abbandonarono il loro comodo servizio
di guardiani per raggiungere le truppe viscontee. Le prigioniere
furono separate per motivi di sicurezza e da quel momento non
ebbero neppure il conforto reciproco, ma solo il buio dei loro
pensieri.
Bianca Lampugnani serviva loro la miserrima cena, ma Bianco
Limoni confidò al figlio Luigi un particolare sulla detenzione:
nella cella di Bernarda c'era una lampada ad olio che
conteneva in uno spazio segreto del vino! Si scoprì che la
carcerata beveva il vino con una cannuccia e mangiava il pane
intinto nell'olio. Bernabò, per nulla intenerito da tanta vitalità,
ordinò che le portassero solo candele, difficilmente
commestibili.
Questo accanimento si spiega o con uno schema d'incesto o con
l'identificazione fatta da Bernabò tra Bernarda e Giovannola,
alla quale non aveva evidentemente perdonato la terribile figura
fatta con il Malatesta e i conseguenti morti di Bologna del 1361.
Bisogna ammettere che a Bernarda in ogni caso non fece buon
gioco la somiglianza fisica con la madre!
Le due sventurate resistettero ben sette mesi a pane ed acqua, poi
morirono. E' sempre Bianca Lampugnani che ci fornisce i dati
sulla morte: Bernarda spirò nella notte di S. Francesco, il 4
ottobre 1376, mentre Andreola le sopravvisse solo di qualche
giorno. Fra' Giacomo de Lapalada della chiesa di S. Francesco
Grande e padre spirituale alla corte viscontea, chiamato in
punto di morte a raccogliere le confessioni di quelle due donne,
si allontanò sconvolto dal loro stato fisico e dall'intollerabile
fetore delle celle.
Informato del decesso, Bernabò chiese ad Antonio de Medici, nipote
del castellano Solaro, se ci fosse qualche chiesa campestre
fuori Porta Nuova dove seppellire in gran segreto le nipoti. La
scelta cadde sulla chiesa di S. Giacomo fuori Porta Nuova.
Qui finisce la storia di Bernarda e inizia quella del suo "fantasma",
una vicenda che non ha niente da invidiare a quella a noi
contemporanea di Anastasia, la presunta figlia dello zar.
Il fantasma di Bernarda
La ricomparsa a Bologna
La prima volta che Bernarda ricomparve fu a Bologna, ma non è
detto da dove provenisse. Secondo Andreino Lamairola si
trattava di una donna alta una spanna più della figlia di Bernabò
e molto magra, che di mestiere faceva la prostituta. Ma chi era
veramente e cosa fece scattare nella sua mente
l'identificazione con la figlia di Bernabò?
La morte di Bernarda era stata tragica, soprattutto perché ad
ucciderla era stato il padre e non certo solo a causa del suo
adulterio. E' probabile che la nostra sosia dovette sperimentare
vicende analoghe, probabilmente abusi sessuali da parte del
padre, che in uno stato alterato di coscienza la portarono a
identificarsi in pieno con la defunta, come se dovesse
riscattarla e quindi salvare se stessa.
Chi la conobbe la considerò bachata, ossia con qualche rotella in
meno, ma lei da quel momento si ritenne Bernarda Visconti.
Le voci della presenza di sua figlia a Bologna allarmarono Bernabò,
non tanto perché non fosse sicuro del fatto suo, ma perché
temeva che il Suardo - suo ottimo alleato - si sentisse preso in
giro, tanto più che si era risposato. Don Giacomo Bossi,
prevosto di S. Maria Nuova alle Case Rotte, che all'epoca dei
fatti aveva solo 17 anni, doveva prestare servizio presso
Bernabò perché rilasciò questa testimonianza molto intima.
All'arrivo della lettera da Bologna, Bernabò gettò con stizza la
missiva sul suo letto e fece chiamare Bianco Limoni, che aveva
scortato Bernarda alla Rocchetta e ne era stato per cinque
lunghi mesi il custode. "Bianco, prendi questa lettera e leggila".
Bianco, che poteva vedere i fulmini dell'imminente tempesta
concentrati pericolosamente sul capo del suo signore e non
desiderava che si scaricassero su di lui, sostenne con tranquilla
fermezza che Bernarda era morta e sepolta a S. Giacomo, per
cui la missiva conteneva un mucchio di sciocchezze.
Fu la volta di Antoniolo de Medici ad avvertire il fuoco sotto i piedi
quando venne prelevato dalla guardia di Bernabò per tradurlo
al suo cospetto: "Tu mi hai detto che Bernarda era morta e che
l'avevi fatta seppellire; ora dimmi, com'è che ho notizia che
essa vive a Bologna?" Antoniolo sostenne coraggiosamente lo
sguardo alterato del signore, passando al contrattacco: "Ditemi
chi sono quelli che vogliono farvi credere il contrario di quanto
vi ho dichiarato; non mancano testimoni che possono dire la
verità e che furono presenti alla morte e alla sepoltura".
Superarono tutti la prova senza un'incrinatura nella voce.
Eppure Bernabò non si dava pace, dimostrando che ben altri
fantasmi lo ossessionavano già prima della dura sentenza
contro la figlia: accusò il castellano di Porta Nova di averla fatta
fuggire e lo incarcerò con la famiglia in attesa della
riesumazione. Bianco de' Limoni, parente di Giovannola di
Montebretto per parte di madre, poté constatare che il
cadavere non si era mosso dalla tomba e che "habeat ipsa
Bernarda labia oris a parte superiori tota marcita e guasta"
(Canetta, ASL 1883, p. 41). Lo sciagurato padre si acquietò,
mandò la conferma della morte al Suardo e la cosa sembrò
finita lì, almeno per lui.
Il fantasma si sposa
La stessa Bernarda fu segnalata - forse dopo la morte di Bernabò
nel 1385 - a Firenze, dove la sua "sorellastra" Donnina Visconti
la riconobbe, suscitando l'ironia del molto più anziano e
disincantato marito John Hakwood (Giovanni Acuto). Per
accontentare la moglie, il capitano accasò la presunta cognata
con un suo arciere di nome Vilichoch.
Bernarda seguì il marito a Lucca, dove un giorno incontrò Andreino
Lamairola - poi teste al suo processo di riconoscimento del
1424 - che descrisse così l'incontro: "Era già morto il signor
Bernabò quando un giorno, passando per Lucca per certi miei
affari, fui chiamato da una donna che era sposata a un inglese
di nome Vilichoch, stipendiato a Lucca, che mi disse di essere
Bernarda, figlia di Bernabò" (Mazzi, ASL 1906). Perché mai
quest'ansia di farsi riconoscere?
Di passaggio a Milano nel 1400, Bernarda venne fatta incontrare con
Isabella de Cola, che sarebbe stata la sua amica dalla nascita.
Isabella si trovava nel monastero di S. Radegonda e non
riconobbe quella che non era neppure una sosia, visto che era
più vecchia, scura e col viso lungo. Ma anche questo
misconoscimento non sortì alcun effetto rilevante.
Il cerchio si chiude
Troviamo infine Bernarda a Bergamo, dove era iniziata la tragedia.
Cosa la portò sin lì?
Giovanni Suardo si era risposato con Rizzarda Beccaria di Pavia,
dimostrando così che almeno lui alla morte della prima moglie
ci credeva. Dopo il colpo di stato del 1385 ai danni di Bernabò,
era passato senza problemi dalla parte di Gian Galeazzo. Il 1°
dicembre 1391, in occasione della morte di Amedeo VII, aveva
fatto parte della delegazione viscontea in Savoia con Franchino
Rusca, ritornando il 17 gennaio 1392. Nella primavera 1395
aveva fatto sposare la figlia Lucia, avuta da Rizzarda, a
Giovanni figlio del milanese Milano Malabarba.
Giovanni Suardo era infine deceduto il 19 ottobre 1402 in seguito a
un incidente occorsogli a Gorgonzola, mentre si recava ai
funerali di Gian Galeazzo. Il ponte su cui stava transitando
cedette per la gran quantità di acqua e pioggia e Giovanni si
fratturò la tibia. Fu trasportato a Vaprio per la medicazione, ma
dopo dieci giorni morì di cancrena. Poiché non aveva fatto in
tempo a redigere un testamento, la figlia Lucia per legge non
poteva ereditare, essendo donna e per di più sposata. I beni
dovevano essere divisi tra i parenti del Suardo.
Il 14 gennaio 1407 a Dalmine, alla presenza del notaio Bartolomeo
di Vianova, di un console della città di Bergamo e di sette
testimoni appartenenti a famiglie nobili bergamasche, Bernarda,
figlia di Bernabò, cedette ai fratelli Pietro e Giovanni, figli di
Guglielmo (cugino primo di Giovanni), tutti i suoi diritti sulle
terre avute in pegno per la sua dote e i gioielli coi vestiti pregiati
in cambio del corrispondente valore di 8000 fiorini. Il prezzo
convenuto fu sborsato all'atto della cessione e Bernarda firmò
la quietanza, rinunciando a qualsiasi futura rivendicazione. Con
questo atto i fratelli Pietro e Giovanni Suardo si accaparravano i
fondi di Sforzatica, Albegno, Sabio, Dalmine e Colognola che
Bernabò aveva ottenuto come dote per la figlia in cambio dei
soldi. Questi fondi erano vincolati alla questione della dote degli
eredi di Bernabò, messa in discussione da Gian Galeazzo.
Cosa ne fu di Bernarda dopo che le ebbero consegnato gli ottomila
fiorini? La vendita venne considerata solo fittizzia o la povera
esaltata firmò in buona fede e quindi volle tenersi il malloppo?
Oppure si accontentò di un risarcimento per il suo disturbo, ma
in questo caso avrebbe dovuto ammettere con se stessa di non
essere la vera Bernarda? Oppure fu vittima di una rapina e morì
per la seconda volta? Come un vero fantasma, avuto il suo
risarcimento morale, Bernarda si è dissolta.
Quello che colpisce in questa vicenda è che alla fine fu proprio la
legge, con tanto di notai e consoli, a stabilire che quella era
Bernarda e che a procurarle il riconoscimento fu proprio la
famiglia Suardo. Dal punto di vista legale, una vera truffa, dal
punto di vista della Nemesi, giustizia.
Questa farsa dovette sembrare eccessiva anche ai contemporanei,
perché nel gennaio 1424 si aprì un processo che durò due anni
per stabilire la verità dei fatti. Grazie agli atti del processo
abbiamo potuto ricostruire la storia. Ma al popolino il risultato
del processo non interessò minimamente, perché ormai tutti
erano certi che a combinare tutti questi scherzi era stato il
fantasma di Bernarda e questa volta erano proprio riusciti bene!
Note a margine
Il castello di Bianzano con i suoi affreschi trecenteschi eseguiti per le
nozze di Bernarda è restaurato e visitabile. E' studiato per
essere stato sede dei Templari ed avere un orientamento
particolarmente interessante per l'archeo-astronomia.
La Rocca di Porta Romana dove si svolse la tragedia di Bernarda
venne incendiata e saccheggiata nel 1385, durante il colpo di
stato che travolse Bernabò e la sua famiglia. Sui suoi resti
Francesco Sforza volle edificare la Ca' Granda.
La Rocca di Porta Nuova fu abbattuta e se ne sono perse anche le
tracce.
La chiesa di S. Giacomo fuori Porta Nuova venne demolita per far
spazio a piazza Cavour. Peccato, perché era stata una delle
prime scuole popolari di Milano, gestite da Castellino da
Castello a partire dal 1539.
Ancora oggidì qualcuno cerca il fantasma di Bernarda, anche solo
per scriverci una storia...
Bibliografia essenziale
Canetta P., Bernarda, figlia naturale di Bernabò Visconti, ASL
(Archivio Storico Lombardo) 1883, pp. 9-53, relativo al
processo aperto nel 1424 e con i documenti.
Mazzi A., Bernarda, figlia naturale di Bernabò Visconti, ASL 1906
4.5 L'harem di Bernabò
L'harem di Bernabò
a cura di Maria Grazia Tolfo
Sommario
Beltramola de Grassi
Montanina de Lazzari
Caterina Freganeschi
Giovannola di Montebretto
Donnina de Porri
Beltramola de Grassi
Fu forse una delle prime amanti di Bernabò, senza dubbio
appartenenti a un periodo precedente il suo matrimonio con
Regina della Scala nel 1350.
Ebbe da Bernabò quattro figli, due maschi e due femmine, nati
probabilmente dal 1343 al 1346. Il primogenito fu Ambrogio,
che rimarrà accanto al padre come capitano di ventura.
Seguirono le due femmine Enrica e Margherita e l'ultimogenito
fu "il prode" Estorre. Le viene di solito attribuita, ma
inesattamente, la maternità di Isotta.
Non si hanno altre notizie di Beltramola.
Montanina de Lazzari
Dopo il matrimonio con Regina della Scala, Bernabò ebbe una
relazione abbastanza fugace con Montanina. Gli diede il figlio
Sagramoro, dai quali discendono i Visconti di Brignano, e molto
probabilmente la figlia Donnina. I dati su Montanina finiscono
qui.
Caterina Freganeschi
Caterina apparteneva a una famiglia cremonese che a Milano
gestiva l'Osteria del Saraceno; forse era figlia di Pietro e sorella
di Gabriele, abitanti nella parrocchia di S. Pietro all'Orto. Entrò
nelle grazie di Bernabò negli anni Sessanta del Trecento. Da lui
ebbe due figli: Galeotto e Riccarda.
Donnina de Porri
Donnina, dalla fine degli anni Sessanta, occupò una posizione quasi
paritaria con Regina della Scala, tanto che si sarebbe potuto
ritenere bigamo Bernabò. Era figlia del giureconsulto Leone de
Porri o Porro di Copreno e di Franceschina de Varubiis,
originaria forse di Meda. Da Bernabò ebbe almeno quattro figli:
Palamede, Lancillotto, Soprana, Ginevra, elencati senza ordine
cronologico.
E' detta la Dea amoris negli Annales Medionalenses e Bernabò la
chiamava affettuosamente col cognome "la Porrina". Ma
sarebbe sbagliato giudicarla come una frivola cortigiana con
una straordinaria propensione a figliare. Donnina si occupava
principalmente di operazioni finanziarie. Nel testamento che
Bernabò redasse nel marzo 1379 a Donnina e al figlio
Lancillotto assegnò il feudo di Pagazzano alla Ghiara d'Adda.
Nel 1381 Donnina fu impegnata in una serie di traffici di granaglie
per conto di Bernabò. Portò a buon fine alcune forniture di
grano a Venezia, depositando la somma di 20.000 ducati d'oro
presso la Camera dei frumenti della stessa città, con l'interesse
annuo del 4%. I grossi introiti procurati ai Visconti fecero sì che
nel 1384 Bernabò concedesse l'usufrutto a lei e alla madre
Franceschina dei beni di Niguarda (G. Barbieri, Donne e affari a
sostegno della Signoria viscontea. Il caso di Donnina de Porris,
in "Economia e Storia", XX, n. 4, 1973). Nel 1382 era stata lei a
recarsi con Bernabò a rendere omaggio al duca d'Angiò che
stava andando alla conquista di Napoli. Mentre Regina era
assente (forse già malata), Donnina regalava ad Amedeo VI
che accompagnava l'Angiò un cappello di paglia per ripararsi
dal sole, impreziosito da perle.
Resta da chiarire se contrasse o meno un matrimonio con Bernabò,
del quale non resta traccia nei documenti, ma solo nelle
smentite di Gian Galeazzo, che dopo aver eliminato dalle
pretese dinastiche i figli di Regina non voleva certo trovarsi fra i
piedi quelli di Donnina. Sarà solo Filippo Maria che sanerà il
contenzioso aperto da questi altri discendenti di Bernabò,
riconoscendo loro l'eredità ricevuta.
Bernabò venne catturato nel maggio del 1385, quando nasceva la
loro ultima figlia, che Donnina volle chiamare Ginevra, la regina
delle storie arturiane. Donnina seguì poi Bernabò in prigione nel
castello di Trezzo, dove lui morì avvelenato il 18 dicembre
1385.
Non sappiamo cosa ne fu di lei, ma sappiamo che le sue figlie minori
Soprana e Ginevra vennero affidate alla nonna Francescina e a
Guglielmo da Farinate, quindi dobbiamo dedurre che Donnina
"sparì" insieme al suo signore.
4.6 Valentina Visconti e Isabella di Baviera
cugine rivali alla corte di Francia?
Valentina Visconti e Isabella di Baviera cugine
rivali alla corte di Francia?
di Maria Grazia Tolfo
Sommario
Valentina e Luigi di Turenna
Isabella di Baviera, regina di Francia
Una politica schizofrenica
La pazzia di Carlo VI...e non solo
Valentina, la strega lombarda
sabella o piuttosto Messalina?
L'assassinio di Luigi d'Orléans
Un tragico epilogo
La disfatta di Isabella
Bibliografia
Valentina e Luigi di Turenna
Dei figli di Gian Galeazzo nati da Isabella di Valois l'unica superstite
era lei, Valentina, che aveva perso la mamma a 18 mesi. Era
cresciuta alla corte di Pavia con le balie, la zia Violante e la
nonna Bianca di Savoia, che le raccontava le belle storie della
corte di Francia. Forse la piccina immaginava che sua mamma,
figlia e sorella di re, fosse vissuta come le principesse di quelle
favole. Il destino doveva dimostrarle ben presto la crudeltà della
vita di corte francese.
Inizialmente anche Valentina entrò nel delirio dei matrimoni fra
consanguinei che colpì i Visconti nel 1380: venne promessa a
suo cugino Carlo ed effettivamente arrivò anche la dispensa
papale, ma poi Bernabò ci ripensò e nel 1382 fece sposare
Carlo con Beatrice d'Armagnac, appartenente a una famiglia
che s'ingrandiva mestando nel torbido della Guerra dei
Cent'Anni.
- Forse è un bene che Valentina sia rimasta nubile - avrà concluso
Gian Galeazzo, perché alla morte dello zio nel 1385, rimasto
finalmente unico arbitro dei domini viscontei, poté giocare la
figlia come pedina di una partita più impegnativa. Aprì
contemporaneamente le trattative con l'imperatore Venceslao
del Lussemburgo, per sposarla al di lui fratello Giovanni di
Goerliz, e con Luigi d'Angiò, promesso a Lucia Visconti (figlia di
Bernabò). Maria d'Angiò rifiutò la sostituzione e allora Gian
Galeazzo dirottò le sue attenzioni sul comune nipote Luigi di
Turenna, figlio di suo cognato Carlo V e fratello del re in carica
Carlo VI. L'imperatore, venuto a conoscenza del doppio gioco di
Gian Galeazzo, ruppe le trattative con una lettera piena di
vituperi, per cui Luigi restò l'unico pretendente di Valentina.
Il 25 novembre 1386 arrivò una nuova dispensa di papa Clemente
VII e il 27 gennaio 1387 venne firmato il contratto nuziale.
Valentina portava in dote la contea di Vertus della madre, la città
di Asti, 450.000 fiorini, gioielli per 75.000 fiorini e la clausola
della successione per i suoi figli se Gian Galeazzo non avesse
più avuto eredi. Il fidanzamento venne annunciato alla corte
francese nello stesso giorno, senza che la notizia turbasse
minimamente il diretto interessato, Luigi, che stava vivendo il
momento d'oro della sua spensierata adolescenza. Aveva una
"compagna di giochi", Mariette d'Enghien, per la quale
comprerà il castello di Beauté non lontano dalla sua residenza
di Vincennes.
L'8 aprile 1387 venne celebrato a Milano il matrimonio per procura:
Valentina aveva "solo" sedici anni e il padre ricorse a motivi di
protezione per spiegare la dilazione della sua partenza per la
Francia. In effetti Gian Galeazzo prima non aveva liquidità, poi
voleva correggere il contratto e, in attesa che la moglie Caterina
restasse incinta, tratteneva la figlia. Il 7 settembre 1388 nacque
finalmente Giovanni Maria e Gian Galeazzo riprese in mano il
contratto matrimoniale di Valentina. Sulle ambiguità di
formulazione di questi contratti si appelleranno alla fine del
Quattrocento gli Orléans discendenti da Valentina per
impossessarsi del Ducato di Milano.
Il 23 giugno 1389, sistemate le questioni burocratiche, Valentina
poté partire per la Francia scortata dal cugino paterno Amedeo
VII, il conte Rosso, e da un seguito di 300 cavalieri, messi più a
guardia della sua dote che della sua persona. Valentina
trasportava oltre all'anticipo di 200.000 fiorini d'oro, stoffe di
lusso, vasellame prezioso con pezzi artistici di oro, argento,
avorio, ambra, corallo, cristalli di rocca, il tutto ornato da pietre
preziose, smalti e cammei. Tra le pietre furono contati 150
diamanti, 28 smeraldi, 310 zaffiri, 85 rubini e 7000 perle.
Valentina portava inoltre con sé Offizioli preziosamente rilegati,
un Salterio, la Vita di S. Cipriano, un libretto di versetti tedeschi
(Minne) e un moderno libro d'avventure, i Viaggi di sir John
Mandeville, uno zibaldone di diverse relazioni di viaggi in
Oriente composto intorno al 1360 in anglo-francese. I
Il corteo passò per Alessandria, ospitato da Bertrando Guasco,
governatore della contea di Vertus. Il Guasco possedeva un
palazzo in quella città e ancora all'inizio del XVII secolo vi erano
i busti di Luigi e Valentina sul portale d'ingresso, realizzato
come un arco di trionfo per l'occasione. Altro anfitrione fu
Andreino Trotti, uno dei condottieri più fidati e stimati di Gian
Galeazzo.
Dal 25 al 30 giugno il corteo fu ad Asti, quindi a Chieri. Oltrepassato
il Moncenisio Amedeo di Savoia affidò infine la cugina agli
inviati di Luigi.
Il matrimonio si celebrò a Melun il 17 agosto 1389. Cosa avrà
pensato l'emozionatissima Valentina del suo novello sposo?
Luigi era nato il 13 marzo 1370 ed era quindi quasi coetaneo di
Valentina. Viene descritto come piacente, abile conversatore
ma con tendenza a prevaricare, abbastanza colto al contrario
del fratello, col quale invece condivideva una inesauribile
energia sessuale. Gli si rimproverava di agire d'impulso e di
essere smaccatamente narcisista; portava pesantissime catene
d'oro su vestiti che faceva ricamare con le sue imprese: lupi,
balestre, ortiche, porcospini, bastoni nodosi.
Come accolse la sposa? Intanto era sua cugina, ossia una
semi-francese che tornava a casa, ma era pur sempre un
elemento che poteva dimostrasi di disturbo nella sua vita di
assoluto libertinaggio. Sarebbe stata al gioco? Valentina era
un'ottima cavallerizza e sapeva suonare l'arpa, ma si sarebbe
adeguata al ritmo "brillante" della corte parigina?
Isabella di Baviera, regina di Francia
Mentre Galeazzo II era occupato a intrecciare legami dinastici con
Savoia e Valois, ossia con l'Europa occidentale, suo fratello
Bernabò guardava all'Austria e alla Baviera, e fu così che nel
1367 Taddea Visconti aveva sposato Stefano II di Wittelsbach.
Isabella (Elisabeth per i Bavaresi) era nata all'inizio del 1370. Dalla
descrizione fisica che abbiamo sembra somigliare al padre; il
suo biografo Marcel Thibault traccia questo suo ritratto: di
statura piccola, fronte alta, occhi grandi in un viso largo, dai
tratti marcati, naso pronunciato con narici molto aperte, bocca
grande con labbra carnose ed espressive, capelli neri. Jean
Froissart, che s'incanta a descrivere i ritratti delle belle dame
che conosceva, tace sulla regina Isabella, eppure era stato
invitato alle sue nozze ad Amiens. Bella o insignificante? Gli
storici bavaresi la descrivono bellissima e crediamo che non si
tratti solo di una diversa opinione estetica...
Isabella e il fratello Ludovico, maggiore di due anni, erano cresciuti
con l'amore del lusso estremo e con esempi di superficialità di
comportamento che si riveleranno esiziali. Isabella era rimasta
orfana della madre Taddea a soli undici anni ed era stata
allevata tra Monaco e Ingolstadt insieme al fratello, che imitò in
tutto e per tutto. Forse per questo crebbe come un maschiaccio
insolente, facile a trascendere con parole e comportamenti,
rancorosa e vendicativa. Il nonno Bernabò aveva lasciato
qualche traccia nel suo codice genetico, più che in quello del
fratello.
I Wittelsbach erano divisi in due rami: quello bavarese e quello
dell'Hainault, imparentato
con il duca di Borgogna Filippo
l'Ardito, zio del giovane re Carlo VI. Fu in virtù di questa
alleanza familiare che Isabella entrò nel gioco politico che
l'avrebbe condotta sul trono di Francia.
Nel 1383 lo zio Federico di Wittelsbach, sposato a sua zia materna
Maddalena Visconti, aveva trattato con Filippo l'Ardito il suo
matrimonio con Carlo VI nell'ottica della riconquista dei territori
fiamminghi occupati dagli Inglesi. Suo padre Stefano non
sembra che fosse molto propenso a imbarcarsi in questa
avventura, ma lo zio insistette: anticipò lui i soldi della dote e si
occupò lui del contratto matrimoniale. Non aveva visto male: il
duca di Borgogna nel gennaio 1384 si incamerò le Fiandre e si
trovò in una posizione molto forte. Fu ancora Federico ad
accompagnare ad Amiens l'ignara Isabella con la scusa di un
pellegrinaggio alla reliquia della testa di S. Giovanni Battista. Si
può immaginare lo stupore di Isabella quando venne a
conoscenza della vera ragione del suo viaggio: non sarebbe più
tornata in Baviera!
Il 17 luglio 1385 si celebrò il matrimonio ad Amiens, assente Stefano
di Baviera tutto preso a coordinare per finta la lega per il
salvataggio del suocero Bernabò... La concomitanza del
matrimonio di Isabella e della cattura del nonno fece sì che da
questo momento alcuni storici interpretassero le sue azioni
come dirette a soccorrere prima il nonno e poi a fare giustizia
degli zii in esilio. A parte il fatto che Isabella aveva 15 anni e che
si trovava in un paese straniero e in una nuova condizione
sociale, il carattere egoista ed estremamente ambizioso della
giovane porta a escludere che si interessasse di qualcun altro
se non per calcolo personale; anche se fino a quel momento
fosse stata preoccupata per la salute del nonno - che non aveva
mai conosciuto - i nuovi avvenimenti erano sufficienti a
distogliere la sua mente dalle disgrazie della sua famiglia
materna.
Si dice anche che quando all'inizio del 1386 Gian Galeazzo aprì coi
duchi di Borgogna le trattative per far sposare Valentina a Luigi,
Isabella espresse il suo disappunto, ma la notizia sarà data a
corte solo nel gennaio 1387 e fino a quel momento gli unici a
saperlo erano i duchi di Borgogna, a caccia di liquidità. Non è
però difficile immaginare che, rancorosa com'era, non tentasse
neanche minimamente di nascondere l'antipatia che provava
per l'assassino di suo nonno appena seppe che Valentina
sarebbe stata sua cognata. Ma nel gennaio di quell'anno il suo
umore era giustificatamente nerissimo.
Isabella aveva ereditato dalla nonna Regina della Scala la fertilità e
quindi era rimasta subito incinta. Il 25 settembre 1386 a
Vincennes era nato Carlo, il delfino!
Per il parto la
giovanissima mamma aveva fatto ricorso alla "pietra del parto o
pietra santa", un gioiello che comprendeva sei smeraldi con
perle e brillanti, ma la nascita era stata accompagnata da un
funesto presagio: un fulmine si era abbattuto vicino al castello. Il
piccolo erede era morto tre mesi dopo, il 27 dicembre.
La giovane coppia fu molto afflitta dalla morte del piccino, soprattutto
Carlo, incapace di affrontare situazioni difficili.
Isabella non ci mise molto a rimanere nuovamente incinta e per
rinforzare la positività dell'attesa fece tappezzare di verde la
cameretta del nascituro. Il 14 giugno 1388 fu però Giovanna a
vedere la luce, l'erede si faceva attendere.
Nel frattempo Isabella aveva preso possesso dell'ambiente di corte e
delle prerogative del suo ruolo, manifestando il suo carattere
volitivo e in competizione col marito. Le gravidanze si fecero più
difficili, perché Isabella non voleva rinunciare ad alcun
divertimento, suscitando la riprovazione dei cortigiani e del
popolo. In occasione di una festa data nel maggio 1389
iniziarono le prime maldicenze - sparse ad hoc dall'anonimo
Religioso di Saint Denis - circa una relazione amorosa tra
Isabella e il cognato Luigi. In realtà Isabella, incinta di tre mesi,
si era sentita male ed era stata soccorsa da Luigi. Sembra che
fosse oltre modo preoccupata di far nascere un maschio e di
tacitare così le ansie del marito e della corte. A tale scopo si
fece portare la Cintura della Vergine, una preziosa reliquia
rubata dai Crociati a Costantinopoli nel 1205 e conservata a
Chartres.
Il 17 agosto 1389 la temuta Valentina arrivò in Francia: che strategia
di comportamento decisero i tre scapestrati reali ragazzi? Forse
Luigi la rassicurò che l'unica dote interessante di Valentina
erano i fiorini d'oro, forse Carlo la pregò di tenere a freno la
lingua e di accogliere la cognata almeno con educazione se
mancava l'entusiasmo. Il 22 agosto Isabella e Valentina
entrarono in pompa magna a Parigi: Isabella era diretta alla sua
incoronazione, narrata e illustrata con belle miniature da Jean
Froissart nel IV libro delle sue Cronache, mentre Valentina si
limitava a coprire il ruolo di comprimaria. Quando il corteo
arrivò alla strada che conduceva a Notre Dame, sfilò sotto un
telone azzurro dipinto con i fiordalisi d'oro e i pali che reggevano
questo cielo erano mimetizzati dagli scudi e dalle armi della
nobiltà francese: Isabella era al massimo della sua gloria,
Valentina ebbe la conferma che i suoi sogni di bambina si
avveravano.
Una politica schizofrenica
Le due cugine abitarono prima nello stesso castello di Vincennes e
poi si trasferirono a Parigi, nel palazzo di Saint Pol in rue Saint
Antoine aux Célestins. Non era propriamente un palazzo, ma un
insieme di alloggi comprati, abbelliti o costruiti in diversi tempi.
Carlo V aveva iniziato i lavori acquistando il palazzo
d'Estampes posto di fronte alla chiesa di Saint Pol, poi l'edificio
dell'abbazia di Saint Maur e altri. Tutto il complesso era
circondato da parchi e giardini, con gli immancabili recinti per gli
animali, ma le condizioni igieniche delle stanze erano
spaventose e un odore di fogna a cielo aperto impregnava ogni
angolo del palazzo. Isabella fece tappezzare le pareti delle sue
stanze con stoffe impregnate di acqua di rose importata dalla
Bulgaria, ma era un provvedimento più olfattivo che igienico e
comunque molto effimero.
Qui nacque il 9 novembre 1389 (l'infelice) Isabella, alla cui gioia per
la nascita seguì il lutto per la morte della piccola Giovanna nel
febbraio successivo. Carlo era assente per un giro nel Midi,
organizzato a fini propagandistici viste le pericolose condizioni
economiche e politiche in cui si trascinava da anni il suo regno.
Quando tornò ebbe un nuovo shock, appena attutito dalla gioia
per la presenza della piccola Isabella. Si convinse di avere una
maledizione sulla sua discendenza e che tutti i suoi figli erano
destinati a morire. I primi sintomi della psicosi
maniaco-depressiva cominciavano a manifestarsi, ma Isabella
non era certo tipo da accorgersene e risparmiare stress al
giovane marito. Quando il 24 gennaio 1391 nacque un'altra
bambina le parve doveroso chiamarla Giovanna e con ciò
l'argomento era chiuso, non c'erano né maledizioni né tragedie
incombenti.
Anche i primi parti di Valentina non avevano sortito alcun successo,
un po' per motivi di consanguineità della coppia, un po' per le
spaventose condizioni igieniche del palazzo di Saint Pol. Il 26
maggio 1391 nacque Carlo, così chiamato in onore del nonno e
dello zio e alla coppia reale questa usurpazione del nome reale
suonò come un cattivo presagio. Ma anche lui non visse a
lungo.
Dopo due anni di frequentazione assidua, come si erano evoluti i
rapporti tra le due cognate-cugine?
"Erano di natura ben diversa: dolce, morbida era Valentina, aspra la
regina e dell'una e dell'altra doveva presto aversi la rivelazione
del vero carattere" (F. Cognasso, I Visconti, p. 307). Così si
esprime lo storico sabaudo Francesco Cognasso ai nostri giorni.
Valentina era veramente dolce? O aveva semplicemente
imparato dal padre l'arte della dissimulazione? Il compito di
Valentina era più difficile di quello di Isabella, perché suo padre
non la smetteva di brigare per trasformare la signoria milanese
in un ducato e quindi in un regno e coinvolgeva chiunque
potesse servire a realizzare i suoi disegni.
La corte francese a sua volta faceva leva sull'ambizione di Gian
Galeazzo per spillargli più soldi che si poteva, ma non certo per
facilitargli l'ascesa politica. A nessuno interessava un regno in
Italia che poteva ostacolare la politica angioina. E' evidente che
la presenza di Valentina a corte era vissuta con circospezione e
che le andavano nascoste le vere decisioni. La Visconti
disponeva di corrieri pagati dal padre perché lo tenesse sempre
al corrente delle novità di corte, ma la polizia dei Valois non si
perdeva un solo messaggio.
Quando Carlo VI decise di riportare il papa a Roma con la forza,
ricorse agli aiuti finanziari di Gian Galeazzo che doveva
contribuire al sostegno del previsto esercito di 60.000 uomini.
Per organizzare la complessa operazione bellica vennero inviati
alla corte di Pavia nel febbraio 1391 Luigi di Turenna, che
rivendicava i 150.000 fiorini mancanti delle dote di Valentina, e
lo zio Filippo l'Ardito. In marzo il progetto era già abortito. Gian
Galeazzo non aveva scucito i soldi, ma era rimasto affascinato
dall'idea di creare un regno con i territori appartenenti allo stato
pontificio sul quale poteva governare suo genero Luigi, il Re di
Adria! L'ambasciatore visconteo Niccolò Spinelli arrivò a Parigi
l'anno successivo, proprio mentre Carlo era stato colpito dalla
sua malattia mentale, e trovò il progetto superato dai nuovi
avvenimenti.
Mentre la corte escogitava stratagemmi per rinsanguare le casse
dello Stato, Carlo d'Armagnac, cognato di Carlo Visconti in
esilio, stava organizzando contro il parere di Carlo VI e con
l'aiuto di Firenze un attacco contro Gian Galeazzo. Sulla scia
paterna, anche Ludovico di Baviera aveva deciso di aggregarsi
alla spedizione. Valentina a sua volta spediva regolari dispacci
al padre per informarlo dei preparativi, mentre suo marito Luigi
riusciva a corrompere uno dei capitani dell'Armagnac,
Bernardon de la Salle, marito di Riccarda Visconti, e a farlo
passare al servizio di Gian Galeazzo con 1500 lance. Isabella in
questa partita rimase proprio isolata e con le armi spuntate: non
era riuscita a capire che, se impoverivano il Visconti, non
avrebbero più ricevuto finanziamenti. La sua debolezza era
rimasta la sua fedeltà alla Baviera: non aveva realizzato e non
avrebbe mai capito che doveva ragionare nell'interesse della
casa francese e non dei Wittelsbach.
Il 6 febbraio 1392 nacque Carlo, l'ultimo figlio prima della tragica
follia di re Carlo VI. Il re non stava bene da qualche mese, tanto
che il 4 giugno aveva nominato il fratello Luigi duca d'Orléans,
decretandone così la successione. Ma era abituato all'azione e
non voleva sentirsi dire di riposarsi. Così in agosto decise di
partire per andare a catturare suo cugino Pierre de Craon,
fuggito in Bretagna dopo aver tentato di assassinare uno dei
suoi "Marmousets", il più importante e potente, il connestabile
Olivero de Clisson.
La pazzia di Carlo VI ... e non solo
Durante la cavalcata verso la Bretagna Carlo era come una corda
troppo tesa, affaticato, indisposto verso tutti, mangiava e
beveva pochissimo e, con la calura agostana, la febbre si alzò
pericolosamente. Mentre percorrevano la foresta del Mans sotto
il sole torrido del 5 agosto la testa del re, rinchiusa nel cimiero,
implose, scatenando una vera furia omicida contro tutti
indistintamente, perché nel suo delirio Carlo era convinto di
trovarsi nel mezzo di una battaglia. Restarono uccisi quattro
cavalieri del suo seguito, mentre Luigi se la cavò col solo
spavento.
A parte l'estrema vivacità, il re aveva di solito un carattere buono,
senza alcuna manifestazione tirannica, per cui il fatto che si
avventasse anche contro il fratello portò gli storici a fraintendere
che avesse scoperto una sua tresca con Isabella. In realtà era
solamente alterato e non era in grado di riconoscere nessuno.
Si disse anche che, prima di mettersi in viaggio, il re fosse stato
avvelenato e stregato. Gli psichiatri moderni sostengono invece
che Carlo fosse schizofrenico e che la rivalità nei confronti del
fratello minore, verso il quale nutriva un sentimento di
amore-odio, portò a spezzarsi il debole filo con cui era
trattenuto alla realtà. Descrivendo il suo male, diceva di sentirsi
improvvisamente trafitto da migliaia di punte, che gli
provocavano una furia inconsulta, dopo di che cadeva
incosciente per alcuni giorni.
Il re fu nascosto in gran segreto nel castello di Creil in Picardia; si
cercarono immediatamente medici in grado di attutirne la furia.
Guillaume de Harselly, uno dei primi consultati, sostenne che
era una malattia ereditata dalla madre Giovanna di Borbone,
che aveva già curato, il che fa propendere per l'epilessia come
prima diagnosi. Giovanna aveva sofferto sì di una crisi epilettica
ma solo in concomitanza col primo parto. L'anziano dottore
riuscì comunque a far recuperare la Carlo lucidità e memoria,
ma raccomandò ai "Marmousets"
di risparmiargli qualsiasi
emozione, perché la coscienza del re era legata a un filo. La
notizia era tragica: come si doveva procedere? Carlo VI doveva
abdicare a favore del delfino? Chi sarebbe stato il reggente?
Per tenere meglio sotto controllo gli eventi, gli zii duchi di
Borgogna e di Berry liquidarono i "Marmousets" , nominarono
reggente Luigi d'Orléans e ripresero in mano le redini del regno.
Ai primi giorni di gennaio 1393 a Isabella fu permesso di
ricongiungersi col marito, portando con sé i figlioletti. Carlo era
oltremodo prostrato ma sembrava rinsavito e Isabella tirò un
sospiro di sollievo, perché non osava neppure ipotizzare
l'abdicazione del marito. Nonostante le proteste del medico,
che raccomandava una vita molto soft per Carlo, la sventata
Isabella manifestò la sua gioia organizzando il 28 gennaio una
festa per la sua amica e damigella Caterina di Hainceville che si
risposava.
Secondo l'usanza, quando una donna passava al suo secondo
matrimonio si organizzava un charivari, ossia una festa con una
serie di giochi stravaganti. Un paggio suggerì al re una
coreografia di uomini selvaggi, vestiti di fili di lino attaccati con la
pece a una veste aderente, in modo da fare i "selvatichi". I
costumi erano belli, ma altamente infiammabili e il re, che non
vedeva l'ora di mostrarsi guarito e giocoso come sempre, si
volle travestire lui stesso in gran segreto; diede ordine ai
partecipanti di tenere le torce ai bordi del salone perché ci
sarebbe stata una bella sorpresa. Mentre la festa era al
massimo del divertimento e i selvaggi stavano facendo il loro
ingresso danzando al buio, sopraggiunse l'ignaro Luigi con le
sue torce e provocò la temuta tragedia. Il re si salvò grazie alla
prontezza di spirito della zia duchessa di Berry, ma gli altri
selvaggi arsero come torce umane. Lo spavento fu enorme e il
re dovette cavalcare il giorno successivo fra il popolo per
dimostrare il suo stato di salute; dai sudditi gli arrivarono
sollecitazioni e mettere finalmente la testa a posto e a
comportarsi più responsabilmente. Per farsi perdonare Luigi
andò in processione a piedi nudi dalla porta di Montmartre a
Notre-Dame. Era sconvolto per l'accaduto e si assunse tutta la
responsabilità, sperando così di non complicare la delicatezza
della posizione fraterna.
Il 15 giugno 1393, in occasione delle trattative con l'Inghilterra ad
Abbeville, Carlo non resse alla tensione del gioco diplomatico
ed ebbe una nuova tremenda ricaduta seguita da coma.
Quando si riprese, diceva di chiamarsi Giorgio, di essere celibe
e di avere come arma un leone trafitto da una freccia. Rifiutava
sgarbatamente di vedere la moglie, ma si calmava in presenza
di Valentina, con la quale giocava volentieri a carte, e la cosa
non fece bene alla povera Visconti. Isabella non sapeva più a
che santo votarsi, preoccupata per la salute del marito e per la
perdita del trono, che l'avrebbe privata del suo prestigioso
status per vivere accanto a un pazzo. Quando il 22 agosto
nacque prematuramente Maria, a causa degli spaventi sofferti,
la offrì alla Vergine in cambio della guarigione del marito.
Maria finirà ugualmente in monastero, ma il tanto atteso miracolo
non si verificò. Essendo morto il vecchio medico, si fece venire
un mago, Arnaud Guillaume. Era un uomo rozzo e ignorante,
dotato però di un libro che, a suo dire, gli conferiva un potere
assoluto sulle cose e sugli uomini. Secondo il solito "Religioso
di Saint Denis" si trattava di un testo di astrologia: "Pretendeva,
con l'aiuto del suo libro, di avere una conoscenza perfetta dei
pianeti. Se ce n'era uno la cui influenza nefasta doveva causare
effetti mortali, assicurava che ne avrebbe fatto apparire un altro,
ignorato dagli astrologi, la cui influenza contraria avrebbe
neutralizzato, almeno in parte, gli effetti nefasti del primo". Il
mago chiamava questo libro "Smaragd", nome molto vicino al
testo ermetico della Tavola Smaragdina. La cosa più pericolosa
fu che Arnaud sosteneva, senza alcuna ombra di dubbio, che il
re era stato stregato.
Valentina, la strega lombarda
Se il re soffriva a causa della magia nera, chi meglio di Valentina
avrebbe potuto attuare il sortilegio per avvantaggiare il marito
nella successione al trono di Francia? Circolava ad arte la voce
che Gian Galeazzo fosse un esperto di magia nera e che sua
figlia era stata istruita al riguardo. La magia nera più comune
era quella delle statuette di cera e pare effettivamente che
Milano ne fosse il maggior centro di produzione ed esportazione.
Si sapeva che Gerardo d'Armagnac si era fatto fare nella città
viscontea tre statuette che dovevano essere poi battezzate
regolarmente con il nome dei fatturandi. Conficcando spilloni
nelle parti anatomiche da colpire, si otteneva la malattia o la
morte della persona.
Tra la prima crisi del 1393 e l'anno della sua morte nel 1422 il re
ebbe 44 eccessi della durata da tre a sei mesi, che si
riproponevano nei momenti più impensati, tanto da escludere il
veleno ma non la magia nera.
Cosa ne pensavano a corte di questa accusa? M.V. Clin, l'ultima
biografa di Isabella, sostiene che la regina rifiutò le accuse di
magia nera e di veneficio rivolte a Valentina. Anche il duca di
Berry dovette ribadire a più riprese che Carlo non era stato né
avvelenato né stregato e che si trattava di una malattia
ereditaria. Di diverso avviso è F. Cognasso: "Le voci contro di lei
(Valentina) o partirono o trovarono buona accoglienza
nell'ambiente dominato dalla regina Isabella. Questa si fece
strumento degli odii che la corte di Baviera nutriva contro la
figlia di Gian Galeazzo" (I Visconti, p. 313). Ma la corte di
Baviera non dava più segni di odio, anzi, continuava la serie
delle alleanze matrimoniali coi Visconti. Quando nel settembre
1395 morirà Luigi, figlio di 4 anni di Valentina, si arriverà perfino
ad insinuare che era stata lei stessa a causarne
involontariamente la morte con una mela avvelenata riservata al
delfino! Questo era un tipo di favole nelle quali Valentina non
aveva certo immaginato di essere imprigionata.
E' probabile che i principali burattinai di questo triste teatrino contro
Valentina fossero i duchi di Borgogna Filippo l'Ardito e la moglie
Margherita di Fiandra: fuori causa per pazzia Carlo, colpivano
l'altro nipote Luigi tramite la moglie Valentina. Ma Cognasso,
pur non escludendo il duca Filippo, rinforza le accuse contro
Isabella: "Il duca d'Orléans come fratello del re poteva
pretendere di essere il reggente: in questo caso Valentina
Visconti avrebbe dominato a corte e nel regno. La regina
Isabella e il duca di Borgogna furono quindi concordi nella
guerra contro l'italiana" (I Visconti, p. 313). Jean Froissart,
troppo disincantato per credere alla storia della magia, dimostrò
non di meno una profonda avversione verso Valentina, che
accusava di ambizione. Tutti concordavano nell'affermare che la
Visconti era pronta ad approfittare della malattia del cognato per
vedere suo marito sul trono: tutte calunnie? Non crediamo,
Valentina era figlia di Gian Galeazzo e non si sarebbe sentita a
disagio su un trono, ma da qui a tramare contro suo cognato c'è
un abisso. Isabella poteva non credere ai sortilegi di Valentina,
ma stava all'erta per evitare di trovarsi estromessa insieme ai
figli dal governo. Forse che Gian Galeazzo non aveva fatto lo
stesso con suo nonno Bernabò?
Il duca d'Orléans aveva però imparato l'arte di barcamenarsi senza
scontentare nessuno: era affettuoso con la moglie, ma non le
confidava alcun progetto politico; era affascinante con il suocero
Gian Galeazzo che sapeva raggirare con abilità; si mostrava
premuroso col fratello nei momenti di lucidità, agendo in suo
nome ed era amico di Isabella, con la quale continuava a
condividere i divertimenti. Luigi e Isabella erano anfitrioni di
feste che duravano tutta la notte e che finivano in sbornie
colossali.
Il 24 novembre 1394 Luigi aveva festeggiato la nascita del quarto
figlio, ancora Carlo, e la conquista di Savona: Gian Galeazzo,
che era stato preso alla sprovvista, volle che due suoi
rappresentanti partecipassero alla cerimonia di dedizione della
città. Nel febbraio 1395 anche Genova era in mano francese e il
24 marzo 1396 Luigi ne faceva dono a suo fratello Carlo,
lasciando il neo-duca Gian Galeazzo come un allocco: tutta la
sua smania di grandezza e la sottile strategia avevano finito
solo col privarlo dello sbocco di Milano sul mare.
Per tenere lontana Valentina da questa politica anti-viscontea ed
impedirle di avvisare il padre, nell'aprile 1396, con la scusa della
crescente ostilità del popolo, la si trasferì in pompa magna ad
Asnières. Non vi fu mai un ordine esplicito del re per il suo
allontanamento, anzi, secondo lo storico contemporaneo
Juvénal des Ursins la Visconti era l'une des plus dolentes et
courroucées qui y fust e si esiliò spontaneamente per mettere a
tacere le voci dei malefici.
Valentina aveva la sua corte personale ed i figli con sé, ma il marito
andava a visitarla solo quando era libero dagli impegni parigini.
In tutta questa vicenda non si percepisce da parte di Luigi una
grande ansia di difenderla, ma non l'abbandonerà mai.
L'allontanamento di Valentina coincise con l'abbandono
dell'alleanza con Gian Galeazzo Visconti in cambio di quella
franco-fiorentina del 29 settembre 1396: re Carlo VI avrebbe
aiutato Firenze in caso di attacco; le terre viscontee sarebbero
passate sotto la corona francese, tranne le terre che Gian
Galeazzo aveva tolto ai vicini. Di questo accordo, sostiene
Cognasso, se ne era occupata attivamente la regina Isabella,
ma dimentica Luigi, che agiva di concerto con lei. Lo spionaggio
visconteo funzionò fulmineamente e Gian Galeazzo intercettò i
messi, sequestrandoli per due settimane, poi aprì a sua volta
trattative con Firenze.
La solitudine di Valentina era alleviata dalle maternità: alla fine di
luglio 1396 nacque Filippo, conte di Vertus. Da Asnières
Valentina passò a Blois dopo che nel 1400 il marito aveva
acquistato la contea di Coucy, una delle chiavi strategiche del
regno. Luigi trasformò il castello in una vera fortezza, perché la
contea era situata tra due gruppi di province appartenenti al
duca di Borgogna. Quindi il duca d'Orléans proseguì la sua
politica d'alleanza coi feudatari locali per indebolire lo zio Filippo
l'Ardito. A questo punto la guerra tra Luigi e gli zii duchi di
Borgogna era ormai aperta. A chi sarà venuto in mente di
spedire a Milano da Gian Galeazzo il maresciallo Boucicaut per
negoziare il matrimonio tra Giovanni Maria Visconti e una delle
figlie di Carlo VI? Era una manovra diversiva per tenere
tranquilla Valentina? E' comunque documentato che la corte
francese a più riprese tentò di organizzare questa nuova
alleanza matrimoniale.
Nel castello di Blois nell'aprile 1401 nacque Maria, che visse
pochissimo. Nel 1402 arrivò a Valentina la notizia della morte
del padre a causa della peste e dei conseguenti torbidi politici
nel ducato milanese, che vedevano la reggente Caterina
combinarne una peggio dell'altra.
Nel 1406 vide la luce Margherita, quindi il marito continuava a
frequentarla e a provvedere alla sua legittima discendenza.
Come passava il tempo Valentina? Fra le altre cose giocava a
carte, ma in questo contesto una notizia è interessante per noi.
Valentina aveva un mazzo di carte saracene e un mazzo di
carte di Lombardia: è possibile che esistessero già allora delle
carte simili ai Trionfi che avranno un così grande successo
vent'anni dopo per merito di suo fratello Filippo Maria.
Isabella o piuttosto Messalina?
Se Valentina si consumava di tristezza nel suo isolamento, non è
detto che Isabella se la passasse meglio. Terrorizzata dal marito,
che a volte si avventava contro di lei, si sentì se non esiliata
fisicamente, almeno sola psicologicamente. Non era mai stata
né saggia né popolare e il fatto che si appoggiasse sempre al
fratello Ludovico, ormai detto il Barbuto, peggiorava
ulteriormente la sua posizione. Le sue maternità si erano
ripetute con regolarità: l'11 gennaio 1395 era nata Michela, il 22
gennaio 1397 Ludovico, il 31 agosto 1398 Giovanni, il 27
ottobre 1401 Caterina, il 22 febbraio 1403 Carlo (il futuro re
Carlo VII) e infine Filippo nel 1407, ma su questo torneremo a
tempo debito. Date le condizioni di salute del marito, tutti questi
figli verranno ritenuti dal popolo niente di meglio che "bastardi".
A Isabella non restò che richiedere la presenza fissa di suo fratello,
legato politicamente a quel volpone di Filippo l'Ardito. Il 27
ottobre 1396 suo marito - in una fase di lucidità? - incontrò ad
Ardre il re Riccardo II per sottoscrivere una tregua, nella quale
rientrava anche il matrimonio con sua figlia Isabella di sette anni.
Quando il 4 novembre 1396 venne celebrato il matrimonio a
Calais fra quella piccola principessina e il vedovo e
autodistruttivo Riccardo, era presente Carlo VI ma non Isabella,
incinta di Ludovico.
Chissà se Isabella pensò mai che, se le cose peggioravano
ulteriormente, sarebbe potuta tornare in Baviera? Il marito non
guariva e i medici non le lasciavano più speranze. Smise
perfino di fare donazioni ai santuari, voti, pellegrinaggi e quanto
altro...uno spreco di soldi ed energia. Per rincarare la dose,
qualcuno sparse la voce che Isabella, novella Messalina,
frequentasse in incognito i bordelli di Parigi!
Sarebbe forse meglio interrogarsi su come si destreggiasse Isabella
tra il marito folle e con un amante fissa insieme a lui (Odette de
Champdivers della Borgogna, guarda caso!), lo zio che la
osservava come un gatto guarda un topo e un cognato giovane
e rampante pronto a sostituire il marito sul trono. Non
dimentichiamo il suo carattere volitivo, irascibile, scontroso,
amante del lusso, e la personalità decisamente antipatica ai
cortigiani e al popolo. Nella disperazione e con simili qualità è
ovvio che Isabella infilasse una sciocchezza dietro l'altra e che
solo la presenza del fratello riuscisse a tranquillizzarla.
L'assassinio di Luigi d'Orléans
Le relazioni tra il duca d'Orléans e suo fratello Carlo, negli intervalli
della malattia, si dimostravano normali. Anche se, quando nel
1401 morì consunto il delfino Carlo, si parlò ancora di veneficio,
Carlo VI dimostrò di voler rinsaldare - in totale spregio delle
leggi della eugenetica- l'alleanza col fratello fidanzando sua
figlia Isabella, la vedova di Riccardo II appena rilasciata
dall'Inghilterra, a Carlo di Angouleme. La casa di Baviera
insorse come al solito. Roberto di Baviera, ora re dei Romani,
proponeva il suo secondogenito Giovanni per Isabella, ma
quando Roberto scese in Italia per farsi incoronare imperatore e
venne sconfitto da Gian Galeazzo, anche le trattative
matrimoniali fallirono.
Dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402 e nonostante i
torbidi che ne seguirono, gli ambasciatori di Isabella e di Filippo
l'Ardito tornarono a Milano per aprire trattative con la duchessa
Caterina (zia materna di Isabella) e nel febbraio 1403 seguì la
proposta viscontea
a Parigi, in occasione della nascita di
Carlo, il figlio di Isabella nato il 22 febbraio. Giovanni Maria
Visconti avrebbe sposato una figlia di Isabella e Filippo Maria
una figlia di Filippo l'Ardito. Non se ne fece niente.
Giocare a combinare i matrimoni era la specialità e una delle
prerogative di Isabella. Nel settembre 1403 volle sistemare suo
fratello Ludovico con Anna di Borbone, ricca vedova di Giovanni
di Montpensier, figlio del duca di Berry. Nel contratto l'affettuosa
sorella riuscì a garantire allo sposo una rendita di 12.000 franchi
e il titolo per diventare connestabile di Francia. Questo
smaccato nepotismo e fece insorgere Luigi , anche perché la
carica di connestabile era la più importante che ci fosse ed era
impensabile che andasse a un bavarese. Luigi fece in modo
che a Isabella venissero tolti molti poteri decisionali, ma così
incorse nell'ira della cognata, rapidissima a mutare i suoi
sentimenti. Si aprì una lotta all'ultima ordinanza tra Luigi e
Isabella, spalleggiata dallo zio Filippo, per decidere chi dovesse
reggere il regno. Le cose precipitarono quando il 27 aprile 1404
morì di peste Filippo l'Ardito e gli successe il figlio Giovanni
senza Paura.
Giovanni era nato a Digione nel 1371, quindi era coetaneo delle due
coppie reali. Era tutt'altro che avvenente e, apparentemente,
era di carattere dolce e di modi quasi effemminati, ma le sue
azioni lo qualificano come uno dei protagonisti più crudeli del
momento. Il 31 agosto 1404 Giovanni comincia a tirare la sua
rete: si celebra il matrimonio tra il delfino Luigi di Guyenne di 7
anni e sua figlia Margherita di Borgogna. In qualità di suocero
del futuro re, Giovanni rivendica la reggenza in caso di
emergenza negli affari di stato.
Il nuovo duca di Borgogna non perde occasione per attaccare al
Consiglio Luigi, facendosi promotore di misure economiche
palesemente demagogiche. Arriverà a mostrare in pubblico il re
durante una delle sue crisi di demenza, coperto ad hoc di sterco
e divorato dalle pulci, per accusare il fratello di incuria
intenzionale. Poi diede corpo alle voci della tresca tra Luigi e la
regina: il 28 maggio (Ascensione), davanti alla folla di fedeli
convenuti per la messa, il monaco Jacques Legrand rimproverò
alla regina, in una predica passata alla storia, la sua relazione
con il cognato Luigi.
Il servizio di propaganda organizzato da Giovanni e costituito da
intellettuali, era sufficientemente abile da servirsi di mezze
verità che venivano adeguatamente rielaborate. Quando
diffusero la notizia di sei carri pieni d'oro intercettati a Metz, per
sostenere che la regina affamava la Francia e arricchiva la
Baviera, era una di queste mezze verità: si trattava di 57.000
franchi che la regina rimetteva a suo fratello Ludovico per il
pagamento di cinque terreni acquistati in Baviera. Ma perché la
regina di Francia doveva comprarsi terreni in Baviera? Giovanni
si premurò di far sapere che in occasione delle nozze di
Ludovico, re Carlo gli aveva regalato 100.000 franchi in gioielli
della corona, una somma spropositata, viste le drammatiche
condizioni del disavanzo statale, e Isabella ne aveva aggiunti
25.000 dei suoi.
Nel luglio 1405 Giovanni senza Paura sferrò l'attacco a Parigi, per
cui Isabella e Luigi abbandonarono la capitale per Melun, dove
insediarono un governo provvisorio. Il povero delfino
febbricitante tentò di raggiungerli, ma venne intercettato e preso
in ostaggio dal suocero Giovanni. Dopo due mesi di assenza,
Isabella e Luigi rientrarono a Parigi, ma senza alcun potere
effettivo perché il 26 gennaio 1406 il duca di Borgogna si fece
confermare dal re come reggente per il delfino.
Il 29 giugno 1406 a Compiègne si celebrò un doppio matrimonio:
Giovanni di Turenna sposava Jacoba di Baviera e Isabella
sposava Carlo di Angouleme. La povera ex regina d'Inghilterra
era disperata: dopo essere stata la moglie bambina di un re
anziano e destituito dopo tre anni di matrimonio, ora che era
una vedova diciasettenne le toccava un cuginetto di cinque
anni più giovane e senza alcun futuro politico. Isabella pianse
per tutto il matrimonio e si rassegnò a vivere come una
prigioniera a Blois con la suocera Valentina (morirà di parto nel
1409).
Il 23 novembre 1407 la regina partorì l'ultimo suo bambino che morì
poche ore dopo, quando a Parigi era ormai sceso il buio.
Appresa la notizia, Luigi si recò in visita alla cognata al palazzo
della Barbette per consolarla, ignaro che tra le ombre della
notte in rue Vieille-du-Temple, a due passi dalla porta Barbette,
l'attendevano i sicari mandati da Giovanni senza Paura ad
assassinarlo sfrontatamente di fronte a testimoni terrorizzati.
Un tragico epilogo
Quando le giunse la notizia dell'assassinio del marito, Valentina era
con i suoi figli e con Isabella di Francia, la giovane nuora.
L'inverno del 1407 fu uno dei più rigidi, non c'era mezzo di
riscaldarsi nemmeno nelle case. Ma non era il freddo che
preoccupava la povera duchessa. Il 10 dicembre Valentina uscì
dal suo esilio e andò a Parigi ben scortata
per chiedere
giustizia al re, senza rendersi conto che l'intelligenza di suo
cognato era ormai pura apparenza.
Carlo non riusciva in effetti nemmeno a capire il senso della richiesta
di Valentina, non si rendeva conto che suo fratello era stato
assassinato. Abbracciò la cognata, la consolò con frasi di
genere e le disse di tornare in pace a Blois. Isabella che
assisteva all'incontro consigliò a Valentina di trattenersi a corte
in attesa che Carlo ritrovasse uno sprazzo di lucidità. Ma
quando Valentina si presentò nuovamente a Carlo chiedendo
l'arresto di Giovanni senza Paura, il re era ancora più assente e
le speranze di ottenere giustizia erano praticamente nulle.
Il duca di Borgogna, come una volta aveva fatto suo padre Gian
Galeazzo contro lo zio-suocero Bernabò, volle che si aprisse l'8
marzo 1408 un processo contro Luigi. Il suo "avvocato", il
teologo Jean Petit, sostenne che si era reso necessario
eliminare Luigi in quanto rappresentava una minaccia per il
regno. I capi di accusa erano: lesa maestà per aver praticato
stregoneria sul re (quindi le accuse a Valentina erano ricadute
su Luigi), aver sostenuto lo scisma cattolico; aver tradito la
Francia favorendo l'invasione di Enrico IV di Lancaster.
Quella notte Isabella aveva dormito con Carlo VI, che il mattino
successivo aveva avuto una delle peggiori crisi degli ultimi dieci
anni, motivo per cui Giovanni riprese la dimostrazione che la
regina era complice di Luigi nello stregare il re e nel volerlo
eliminare. Isabella per motivi di sicurezza lasciò Parigi.
Giovanni doveva ammettere però che, senza la presenza della
regina sulla quale far ricadere la responsabilità di decisioni
impopolari, non sarebbe riuscito a governare. Isabella fu quindi
fatta ritornare a Parigi col delfino il 26 agosto 1408, ma era
piena d'odio e pronta a colpire Giovanni senza Paura in uno
scontro frontale tra serpenti. Incontrò nuovamente l'esausta
Valentina e insieme studiarono una lettera aperta per Giovanni.
La regina gli scrisse a Liegi invitandolo a confessare
pubblicamente il suo assassinio e a ritirare le accuse contro
Luigi. Questa sua uscita allo scoperto le costò in novembre
un'altra fuga con tutta la famiglia a Tours.
Ammalata e vistasi persa, Valentina coniò per sé il motto "Plus ne
m'est rien, rien ne m'est plus" con una clessidra rovesciata. Si
spense a Blois il 4 dicembre 1408 a 38 anni, lasciando i figli
Carlo di 14 anni, Filippo di 12, Giovanni di 8 e Margherita di 2
anni. C'era poi il figlio naturale Dunois, che Luigi aveva avuto da
Marietta d'Enghien (diverrà il compagno d'armi di Giovanna
d'Arco). Per essere stata considerata un'ambiziosa intrigante,
bisogna ammettere che la sua vita alla corte di Francia si era
rivelata un assoluto fallimento.
La disfatta di Isabella
Da questo momento furono Bernardo d'Armagnac e il suocero duca
di Berry a sostenere i diritti dei figli di Valentina e Luigi contro il
duca di Borgogna. Giovanni senza Paura era riuscito ad
ottenere da Carlo VI un bando che dichiarava quei bambini
ribelli e pericolosi! Solo quando ebbe tutto sotto controllo, il
duca di Borgogna si dichiarò disposto a riconciliarsi con gli eredi
del duca d'Orléans in una cerimonia solenne e molto armata
che si svolse il 9 marzo 1409 nella cattedrale di Chartres alla
presenza del re, tutto contento perché tornava la pace in
famiglia.
Poiché il giovane Carlo era rimasto vedovo di Isabella, il duca di
Berry ne approfittò per fargli sposare nell'aprile 1410 Bona,
figlia di Bernardo d'Armagnac e di sua figlia Bona. In questo
modo si rinsaldò la Lega di Gien contro Giovanni senza Paura
composta dai fedeli degli Orléans, dagli Armagnac e dal duca di
Berry.
Ma Giovanni senza Paura era convinto di aver finalmente
conquistato il trono di Francia, anche se era formalmente
occupato da Carlo VI. A Parigi si appoggiò alla corporazione dei
macellai, non foss'altro perché erano uomini rozzi forniti di armi
da taglio. A un segnale del duca di Borgogna la corporazione
seminò il terrore a Parigi: era una mossa strategica per
dimostrare che il re era ormai incapace di mantenere l'ordine
nel suo stato.
Chi ne approfittò fu invece il re d'Inghilterra Enrico IV, che reclamò i
possessi inglesi stabiliti con la pace di Bretigny e sottratti
parzialmente dalle conquiste di Carlo V. Enrico offrì abilmente il
suo aiuto a Giovanni in cambio della nuova ratifica degli accordi
di Bretigny.
Isabella si trovava in questa situazione: Enrico IV le aveva ucciso il
genero Riccardo II, Giovanni voleva scippare il trono al marito,
Bernardo d'Armagnac si era autonominato difensore degli
Orléans, suo marito viveva in un'altra dimensione, le figlie
sposate erano infelici, il suo delfino era in ostaggio del suocero
Giovanni e suo fratello Ludovico per motivi di sicurezza era
fuggito nell'Hainault. Le rimaneva solo lo zio duca di Berry, ben
poca consolazione quando nel maggio 1413 la crisi sociale e
politica esplose e ci fu un attacco al palazzo di Saint Pol.
Isabella ne uscì salva e fissata nella sua occupazione preferita,
organizzare matrimoni.
Il 1° ottobre 1413 fece risposare suo fratello Ludovico con Caterina
d'Alençon e il 18 dicembre fidanzò suo figlio Carlo, di 10 anni,
con Maria d'Angiò, figlia di Luigi II. Ma a breve si sarebbe
occupata di un matrimonio ben più interessante. Enrico IV era
morto e aveva lasciato il trono al figlio Enrico V, intenzionato a
riprendersi i territori francesi e a legittimarne le pretese
sposando Caterina di Francia. Ambasciatori inglesi arrivarono
con queste proposte dal duca di Berry, che ne fu sconcertato.
Anticipando la regola del silenzio assenso, il 14 agosto 1415
Enrico V, alla testa di un ben organizzato esercito, sbarcò in
Francia e pose l'assedio a Honfleur. Il 25 ottobre ci fu la disfatta
francese ad Azincourt: Carlo d'Orléans e Giovanni di Borbone
furono catturati e trasferiti in Inghilterra (Carlo vi resterà
prigioniero per 25 anni, incanalando la sua malinconia nella
vena poetica che lo renderà famoso).
Isabella accusò il colpo, si ammalò e appresso a lei il delfino, che
morirà il 18 dicembre 1415 di tubercolosi. Il 29 dicembre
seguente Bernardo d'Armagnac assunse la carica di
connestabile e l'opposizione del duca di Borgogna risorse più
violenta, senza gli interventi moderati dello zio duca di Berry,
morto nel giugno 1416. Il 5 aprile 1417 morì l'altro figlio,
Giovanni, di una mastoidite di Bezold. Dei dodici figli partoriti,
solo cinque erano ancora in vita.
La sconsolata Isabella si rinchiuse a Vincennes e da lì osservava
con trepidazione l'ascesa del suo ultimo maschio Carlo, di 14
anni. Nonostante i suoi 46 anni oggi ci sembrino molto pochi per
essere messa fuori gioco, Isabella viene descritta dai
contemporanei obesa, gottosa e semiparalitica, perché si
poteva spostare solo su una sedia a rotelle o a cavallo. Ma sarà
proprio l'accusa di tradimento con il gran maggiordomo del
palazzo Luigi de Boidsredon a metterla fuori gioco: l'Armagnac
aveva trovato il modo di eliminarla una volta per tutte. Mentre il
maggiordomo veniva giustiziato, Isabella fu imprigionata a
Tours, da dove verrà fatta fuggire il 2 novembre per trasferirla in
Borgogna. Bernardo trasse la conclusione a voce alta di una
nuova tresca tra lei e il suo antico nemico Giovanni senza
Paura.
Isabella costituì un governo provvisorio a Chartres nel novembre
1417 con l'appoggio di Giovanni senza Paura che nella notte
del 29 maggio 1418 sferrò un attacco a Parigi, facendo uno
sterminio di Armagnacchi. Il 12 giugno Bernardo d'Armagnac fu
giustiziato e il 14 luglio Isabella poté rientrare col titolo di
reggente a Parigi, dove il re suo marito l'accolse con grandi
onori, come se fosse tornata da un viaggio e ignaro di aver
firmato lui il suo esilio.
L'assassinio di Giovanni senza Paura nel 1419 sotto gli occhi del
delfino Carlo portò la Borgogna definitivamente sotto il controllo
inglese. Isabella si adoperò affinché Carlo VI firmasse il Trattato
di Troyes l'8 maggio 1420 nel quale diseredava suo figlio e
nominava suo erede Enrico V d'Inghilterra, al quale dava in
moglie la figlia Caterina. Per l'occasione venne eseguito uno
stendardo di m 1,45 x 1,90 con la Madonna della Misericordia
che protegge sotto il suo manto la corte di Francia con Carlo VI,
Isabella, i duchi di Berry, Angiò e Orléans. Lo stendardo si trova
al Museo Crozatier di La Puy en Velay ed è un'interessante
fonte iconografica della casa reale. Il Trattato di Troyes fu
l'ultimo atto politico di Carlo VI che morì il 21 ottobre 1422.
Poiché era stato diseredato per volontà dei genitori, al povero
successore Carlo VII non restò che ritirarsi a Mehun in un
governo legittimista riconosciuto da buona parte della Francia.
Carlo era però debole di corpo e di mente ed era sotto il
controllo di uomini della sua corte. Nei territori inglesi in Francia
si ebbe la reggenza del duca di Bedford per conto del piccolo
Enrico VI, figlio di Caterina di Francia. E' in questo contesto
che si colloca la vicenda di Giovanna d'Arco, che permise
l'incoronazione a Reims di Carlo VII. La nonna Isabella dovette
rassegnarsi ad assistere da lontano e in assoluto isolamento a
Parigi a questi avvenimenti, ai quali aveva contribuito in modo
rilevante. Si spense nel 1435, a 64 anni. Per il resto, è un'altra
storia.
Bibliografia
Fonti
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Thibault M., Isabeau de Bavière, reine de France, Paris 1903
4.7 Caterina Visconti , Duchessa di Milano
Caterina Visconti , Duchessa di Milano
di Maria Grazia Tolfo
Un matrimonio fatale
La data di nascita di Caterina non è nota, ma viene solitamente
collocata verso la fine del 1360. Nei dati che la riguardano c'è
sempre un ché di taciuto (non si capisce fino a che punto ad
arte), che rende molto difficile tracciare una sua biografia.
Prendiamo ad esempio la questione matrimoniale. La prima richiesta
che la riguardi (almeno a quanto risulta dalle fonti) risale al 1378,
quando lei avrebbe avuto già 18 anni. Sempre che la sua data
di nascita sia corretta, è un'età piuttosto tarda, perché Bernabò in questo non discostandosi dalle tradizioni - fidanzava le figlie
appena raggiunta la pubertà. Problemi anagrafici a parte, la
domanda di matrimonio riguardava nientemeno che il re
d'Inghilterra Riccardo II. A trattare il matrimonio venne a Milano
Geoffrey Chaucer e si avvalse dell'assistenza del suo
connazionale John Hawkwood, recente genero e capitano di
Bernabò. Tutto andava per il meglio, Chaucer aveva già
composto The House of Fame per festeggiare il matrimonio,
quando nel 1379 Bernabò rinunciò. A Caterina, che si era già
immaginata seduta sul trono, dovettero cadere tutti i castelli in
testa, anche perché venne dirottata verso un marito che ben
conosceva e che non era certo un suo spasimante: il cugino
Gian Galeazzo.
Se il buon giorno si vede dal mattino, quello di Caterina fu davvero
funesto. Il 15 novembre 1380, giorno fissato per le indesiderate
nozze, morì Azzone, l'unico figlio maschio superstite di Gian
Galeazzo. La corte pavese chiese a Bernabò una proroga della
cerimonia per il lutto, ma il rude signore rispose con un tono
oltremodo insensibile e le nozze in S. Giovanni in Conca
unirono un affranto ma furibondo Gian Galeazzo e una delusa e
rassegnata Caterina . Quale dono di nozze, Gian Galeazzo
consegnò alla moglie le chiavi del castello di Monza, tolto alla
madre Bianca di Savoia. Mai dono fu meno propizio.
Caterina andò a vivere a Pavia, ma nelle cronache non c'è traccia di
lei. Si può dedurre che intrattenesse buoni rapporti con la
figliastra Valentina, perché nel momento del bisogno sarà a lei
che Caterina si rivolgerà per ricevere aiuto. Ma con il marito e
con la suocera che rapporti aveva? Certamente i due non
l'avranno fatta partecipe delle loro trame per annientare
Bernabò e la sua dinastia.
Il complotto
Quante volte Caterina avrà sentito suo padre sbeffeggiare l'imbelle
nipote, che lui pensava di mangiarsi in un boccone alla prima
occasione. Ma Gian Galeazzo era un buon simulatore e
attendeva il momento propizio per presentare il conto allo
zio-suocero. Nel settembre 1383 iniziò a manifestare la sua
vera natura. Il casus belli fu uno sparviero che il podestà di
Monza non aveva reso a Bernabò. Incapace di farselo restituire
con le minacce, perché Monza era estranea alla sua
giurisdizione, Bernabò tempestava di lettere il genero, senza
rivolgersi alla figlia, che era signora di Monza.
La risposta di Gian Galeazzo allo zio-suocero ci è pervenuta e vale
la pena di notarne la fermezza:
"Già altra volta vi abbiamo detto la nostra opinione, che lo sparviero
non aveva nessun vostro segno e che fu dato al nostro capitano
di Monza da un vostro suddito alla presenza di Rodolfo; ora
chiedete giustizia da noi, dicendo che altrimenti farete giustizia
da voi, anche se doveste venire personalmente a Monza,
mentre lui siede nel suo banco. Ora, noi non ci occupiamo dei
vostri ufficiali e sudditi, e non vogliamo che voi vi occupiate dei
nostri. Perciò vi preghiamo e ripreghiamo di smettere di inviarci
tali lettere."
Bernabò dovette essere stupito dal coraggio improvviso del nipote e
allora rincarò la dose a modo suo. Gli scrisse confidandogli che
quando era giovane aveva assassinato un medico e che
sarebbe stato pronto ad uccidere anche lo zio Luchino se non
fosse morto prima. E continua:
"Invero queste mie asserzioni non mi fanno onore, tuttavia ve le
ricordo affinché vi rendiate conto che non siamo disposti a
tollerare villania senza trarne vendetta, dal momento che voi
non volete né mai avete voluto punire alcuno dei vostri che ci
abbia recato offesa. A questo proposito voi dite che non volete
che noi ci intromettiamo negli affari vostri ma, per la Madonna,
non ci sarà nessuno a voi così caro che, se ci avrà offeso, noi
non lo puniamo; e in questa faccenda non vi lasceremo più
l'iniziativa. Peraltro siamo d'accordo che voi agiate nello stesso
modo nei confronti dei nostri" (D. Pizzagalli, pp. 148-150).
Gian Galeazzo giocava con lo zio come un gatto col topo. Il suo
ambasciatore Capelli era già andato alla corte francese per
saggiare l'appoggio che avrebbe potuto ricevere in un eventuale
colpo di mano ai danni dello zio.
Caterina fu messa al corrente di questo deteriorarsi di relazioni o,
abituata com'era agli sfoghi paterni, non vi diede importanza?
Era preoccupata per la mancanza di eredi e per le accuse che
sua suocera Bianca rivolgeva ai suoi genitori di fare sortilegi per
impedire che rimanesse incinta, ma riuscì mai a subodorare le
intenzioni di Gian Galeazzo nei confronti di suo padre?
La tragedia familiare
Cosa pensò Caterina quando seppe che il marito progettava di
recarsi a maggio al santuario di Velate per implorare l'aiuto della
Vergine a dargli un altro erede? Non era strano che la
escludesse da un pellegrinaggio che in fondo riguardava più lei,
visto che la capacità di procreare del marito non era in
discussione. Il santuario sopra Varese era un luogo
antichissimo di culto legato alla fertilità e sarebbe stato normale
che anche lei partecipasse a quel viaggio il 4 maggio 1385.
Invece Gian Galeazzo la lasciò a Pavia e partì con un esercito di 500
lance al comando di Jacopo dal Verme, Ottone di Mandello e
Giovanni Malaspina. Passò la notte nel castello di Binasco e si
rimise in cammino il mattino successivo molto per tempo. A due
miglia dalle mura di Milano Ludovico e Rodolfo, fratelli di
Caterina, gli andarono incontro e vennero fagocitati con il solito
cameratismo dalle truppe del capitano dal Verme.
Sopraggiunse a dorso della sua mula Bernabò, che voleva
approfittare dell'occasione per parlare a quattr'occhi col genero
ribelle. Nonostante gli fossero arrivati consigli di prudenza sotto
forma di pronostici astrologici, Bernabò fu veramente stupito
quando il genero in men che non si dica lo arrestò e lo tradusse
in gran furia nel castello di Porta Giovia insieme ai figli.
Forse i milanesi non aspettavano altro, fatto è che non solo non ci fu
una rivolta in difesa di Bernabò, ma le case dei Visconti vennero
prontamente saccheggiate e il 7 maggio si arresero anche le
rocche di Porta Nuova e Porta Romana, dove si trovava la
riserva aurea di Bernabò. Gian Galeazzo confiscò 700.000
fiorini d'oro e vasellame d'oro e d'argento da riempire sei carri. Il
fortificato palazzo di Bernabò a S. Giovanni in conca divenne
una prigione per le sorelle di Caterina che ancora vi abitavano.
Cosa fece Caterina quando venne a conoscenza di questa
catastrofe che si era abbattuta su suo padre e sulla sua intera
famiglia? Dal suo isolamento non ci è giunta l'eco della sua
voce. Dallo sgomento iniziale, che immaginiamo colmo d'ansia
per la sua incolumità personale, sarà passata a una sorta di
egoistico sollievo nel pensare che almeno lei era salva. La
scure del marito si batteva solo sui fratelli maschi legittimi o
naturali, per assicurarsi la sola discendenza viscontea, mentre
le sorelle venivano lasciate incolumi.
La farsa del processo
L'8 maggio successivo Caterina vide il marito spedire una lettera
circolare alle più importanti città italiane per giustificare il suo
operato con la legittima difesa: Bernabò stava meditando il suo
assassinio, quindi Gian Galeazzo si era cautelato arrestandolo.
Conoscendo il padre, a Caterina questa difesa poteva anche
sembrare plausibile, ma come reagì in occasione del processo
che Gian Galeazzo volle intentare contro suo padre, rinchiuso
nella fortezza di Trezzo? Tra i capi d'accusa entrava anche il
loro matrimonio, che Gian Galeazzo avrebbe forzatamente
subito. Nell'arco di tre giorni la poveretta aveva perso la famiglia
e, di fronte al mondo, diventava una moglie sgradita.
Gli altri capi d'accusa riguardavano i tentativi reiterati di omicidio ai
danni di Bianca e Gian Galeazzo, offese e violenze al podestà
di Milano Domenico Ardizzone, al referendario di Gian
Galeazzo Stefano di Montecorvaro, violenze contro la comunità
del Seprio e contro i Monzesi, tentato assalto al castello di Porta
Giovia, matrimoni imposti anche a sua sorella Violante e al figlio
Azzone.
Il funerale
Bisogna proprio ammettere che gli storici sono poco sensibili agli
affetti. Così viene registrata una notizia riguardante il funerale di
Bernabò: "Gian Galeazzo non presenziò alle esequie, perché
già dal 10 dicembre, cioè pochi giorni prima della morte, si era
opportunamente trasferito con la famiglia a Piacenza dove restò
fin dopo Natale" (D. Pizzagalli, p. 167). Questo convalida
l'ipotesi che Bernabò sia stato avvelenato e che Caterina sia
stata tenuta lontana, impedendole addirittura di partecipare ai
funerali del padre, fatti in pompa magna a Milano. Come le
avranno comunicato il decesso? Come avranno giustificato la
necessità di non prendere parte alle esequie? Per evitare
ulteriori disordini a Milano?
Finalmente madre
Dopo l'iniziale spavento, Caterina dovette rassicurarsi circa le
intenzioni del marito nei confronti suoi e delle sue sorelle,
mentre i fratelli sfuggiti agli arresti erano tutti riparati all'estero.
La nascita di un erede diventava per Caterina ora più che mai
una questione di sopravvivenza.
Una prima gravidanza era finita male, Caterina rischiò la vita e fece
appello a tutta la sua fede per salvarsi. La coppia fece voto alla
Madonna di offrirle i loro figli e di chiamarli tutti Maria.
Le cose migliorarono dopo la morte di Bianca, avvenuta il 31
dicembre 1387. Libera forse dal controllo opprimente della
suocera, nel gennaio 1388 Caterina restò nuovamente incinta e
il 7 settembre mise al mondo l'agognato erede Giovanni Maria
nel castello di Abbiategrasso, dove si trovava per ripararsi da
un'epidemia di peste. Per festeggiare l'evento Gian Galeazzo
commissionò a Giovannino de Grassi la prosecuzione di un
Uffiziolo iniziato nel 1378 in previsione del suo matrimonio con
Maria d'Aragona. Neppure questa volta l'Uffiziolo verrà
terminato, ma resta ugualmente uno dei capolavori di
Giovannino.
Il 22 ottobre 1388 Caterina veniva ufficialmente investita dal marito
del titolo di Signora di Vicenza come erede di sua madre Regina
della Scala. Per lei era il segno che era entrata da protagonista
nelle strategie politiche del marito, che in realtà mirava solo ad
aggirare gli accordi presi con i Carrara per la conquista e
spartizione del Veneto. Gian Galeazzo a suo comodo tirava
fuori questioni di legittimità nella successione ereditaria, proprio
lui che aveva privato dei diritti tutti i figli di Bernabò.
Gian Galeazzo aveva un'amante fissa, Agnese Mantegazza, che gli
diede nel 1389 Gabriele Maria. Per Caterina questo non dovette
suonare come un affronto, perché era normale che i signori
avessero più donne e suo padre ne era stato un fulgido
esempio. D'altro canto lei continuava ad avere gravidanze a
rischio e l'8 gennaio 1390, all'approssimarsi di un nuovo parto,
fece voto di costruire una Certosa presso Pavia se fosse
sopravvissuta alla nuova per lei terribile esperienza. Il bambino
morì, ma Caterina si salvò e mantenne il voto. Suo consigliere
era il certosino Stefano Macone, chiamato a Milano nel 1389
per sovrintendere ai lavori della Certosa di Garegnano. Stefano
era il diffusore nel Milanese della devozione alla Madonna delle
Grazie, importata dall'Oriente nel 1378 e sostenuta da papa
Urbano VI per impetrare l'aiuto della Vergine nella risoluzione
dello scisma della Chiesa occidentale.
Nel 1392 nacque Filippo Maria e fu veramente l'ultimo, sebbene
Caterina avesse solo 32 anni. Non bisogna escludere i problemi
di eugenetica derivati dalla consanguineità dei due sposi, che
evidentemente non favorivano la procreazione.
La duchessa invisibile
Per adempiere al voto fatto da Caterina nel 1390, Gian Galeazzo
fece costruire la Certosa nel parco del castello di Pavia, sul
modello di quella che stava costruendo a Champmol il suo
ex-cognato Filippo l'Ardito. Il duca di Borgogna fu presente a
Pavia nel 1391 insieme al genero di Gian Galeazzo, Luigi
d'Orléans, allora ancora conte di Turenna. Bene, in tutte le
cronache che riguardano la corte e la costruzione della Certosa,
Caterina è assente.
Dei progetti della Certosa venne interessato anche Giovannino de
Grassi, già responsabile dei progetti del Duomo. Caterina lo
pregò di miniare per lei un Salterio, ma sembra un capriccio:
come non capire che l'attività di miniatore per l'occupatissimo
maestro era ormai marginale? Per accontentare la sua Signora,
Giovannino doveva assentarsi dalla Fabbrica e tralasciare i
progetti della Certosa. Viene quasi il dubbio che Caterina lo
facesse apposta, visto che Giovannino sovrintendeva la
decorazione della Rocchetta di Campomorto presso Siziano,
dove Gian Galeazzo s'incontrava con Agnese Mantegazza e il
piccolo Gabriele Maria, da lui molto amato.
Comunque Giovannino fece in tempo a decorare una parte del
Salterio, con una preghiera nell'ufficio della Madonna copiato da
fra' Amedeo: "Omnipotens sempiterne Deus miserere famulo
nostro domino Galeaz Comiti virtutum et dirige eum secundum
tuam clementiam in viam vitae aeternae" (riprenderà il lavoro
dal 1399 per un anno il figlio Salomone de Grassi, ma resterà
incompiuto fino all'epoca di Filippo Maria).
A parte questo, non risulta che Caterina fosse una committente di
codici o che amasse particolarmente qualche lettura. Il marito
invece si arricchiva di opere d'arte e di libri. Senza contare i
codici miniati prestati dal suo ex cognato Carlo V, alla nuova
biblioteca pavese confluirono la biblioteca di Bernabò, coi bei
codici di storie cavalleresche, e nel 1388 quella di Francesco
Carrara di Padova che includeva i libri a lui donati da Francesco
Petrarca. Nel 1398 ingloberà anche quella di Pasquino Capelli,
il suo anziano segretario, giustiziato con l'accusa di tradimento.
Pasquino era uno dei maggiori collezionisti privati di codici
miniati antichi ed altri ne aveva commissionati alla bottega di fra'
Pietro a Pavia.
La Duchessa di Milano
L'11 maggio 1395 Gian Galeazzo ottenne dall'imperatore Venceslao
l'investitura a Duca e Caterina di riflesso fu Duchessa di terre
considerate tra le più fertili d'Europa: bastava questo a farle
dimenticare che avrebbe potuto essere regina d'Inghilterra?
Gian Galeazzo fece miniare per l'occasione ad Anovelo da
Imbonate un Messale da donare alla basilica di S. Ambrogio,
dove si era svolta la fastosa cerimonia (Milano, Biblioteca
Ambrosiana, ms 6). Al f. 176r compare l'unico ritratto coevo
conosciuto di Caterina: insieme a Gian Galeazzo e ad altri
personaggi della corte è inginocchiata sotto il manto della
Madonna della Misericordia. Ma nelle miniature che riprendono
la cerimonia d'investitura lei non c'è.
Vediamo comparire Caterina come committente il 4 giugno 1396 di
un paliotto per l'altare maggiore del Duomo, commissionato al
solito Giovannino de Grassi. Caterina è pronta a donare alcuni
suoi gioielli per realizzare un'opera che la ricordi, ma non se ne
farà niente. Altri progetti ben più importanti distoglievano
Giovannino dalle sue committenze.
Il 27 agosto 1396 venne posta la prima pietra della Certosa di Pavia.
Il Duca era accompagnato da Giovanni Maria e da Gabriele
Maria, non c'è alcun cenno nelle cronache alla duchessa e al
piccolo Filippo Maria, sempre malato. Il disinteresse di Gian
Galeazzo nei confronti della moglie è palese: oltre alla
Mantegazza, ha amanti occasionali come una certa Luciotta,
detta amasia domini, e una contadina che gli darà nel 1402 un
altro maschio, Antonio, futuro signore di Novara.
Insomma, l'immagine che si ricava da questi scarni dati è quella di
una donna emarginata dal marito e dalla politica, desiderosa di
lasciare senza successo un segno di sé e preoccupata dei figli,
la sua assicurazione, che le davano non pochi problemi,
soprattutto il piccolo Filippo Maria, che sembrava sempre in
punto di andarsene.
Il marito intanto stava dissanguando le casse dello stato con la sua
politica aggressiva e dispendiosa, sullo stile di quella del Duca
di Borgogna. Già dal 1397 era ricorso al provvedimento del
condono, poi aveva adottato l'una tantum: nel luglio 1401 una
tassa di 25.000 fiorini sul clero, a settembre 40.000 fiorini di
tassa civica a Milano; a novembre una tassa sul reddito dei più
ricchi milanesi; nel 1402 ridusse gli stipendi ai dipendenti,
prendere o lasciare..la vita. Più che il capo di uno stato, Gian
Galeazzo sembra il boss di una società mafiosa, con tanto di
energumeni
specializzati
nel recupero
crediti.
Non
dimentichiamo che c'erano peste e carestia endemiche (anni da
tralasciare in un fantascientifico viaggio nel tempo).
Quando il 3 settembre 1402 Gian Galeazzo cadde vittima dei
pestiferi strali, in cassa non c'erano più nemmeno i soldi per i
funerali. Caterina, che non aveva neppure vagamente la tempra
di sua suocera o di sua madre, si vide persa (ammesso che
riuscisse a vedersi). Dopo una vita di emarginazione, Caterina
si vedeva sbalzata sul palcoscenico di quella che ormai si
palesava come la tragedia della sua vita.
I funerali ebbero luogo il 20 ottobre in S. Tecla a Milano, dopo una
settimana di nubifragi e allagamenti in tutta la Lombardia.
Secondo la volontà del marito, il cuore del duca andò a S.
Michele a Pavia, i visceri a S. Antonio di Vienne, il corpo alla
Certosa di Pavia, in attesa che si realizzasse il mausoleo
progettato da Salomone de Grassi nel 1400. Aprì il corteo
funebre Gabriele Maria e Caterina non viene nuovamente
citata.
La reggenza
Nel testamento che fece il marito, oltre ad assegnarle la sua dote e
un legato di 100.000 fiorini, la nominò tutrice dei due figli
legittimi, a meno che non si fosse risposata. Non le affidò
ovviamente il governo, che veniva lasciato al Consiglio segreto
fino alla maggiore età di Giovanni Maria. A lei spettava solo la
firma degli atti ufficiali o il diritto propositivo. Giovanni Maria
sarebbe rimasto sotto la tutela fino a 20 anni, in attesa che
diventasse maggiorenne anche Filippo Maria, onde evitare
tentazioni di sopraffazione del minore.
Il Consiglio era composto da diciassette membri: quattro vescovi (di
Pavia, Novara, Pisa e Feltre), Carlo e Pandolfo Malatesta,
Francesco Gonzaga, Antonio da Montefeltro, Giovanni Colonna,
Paolo Savelli, Jacopo dal Verme, Baldassarre Spinola,
Leonardo Doria, Francesco Barbavara come camerario, il
cancelliere Giovanni da Carnago, Pietro da Corte e Filippo de
Migli. Ovviamente solo pochi fra questi consiglieri risiedevano a
Milano: erano persone alle quali Caterina poteva rivolgersi per
farsi aiutare in caso di necessità, ma sopra tutti vi era
Francesco Barbavara, conte di Valsesia e capo del partito
guelfo. Dietro suo consiglio, Caterina si rivolse prima di tutti alla
Francia, dove la situazione politica era già complicatissima. A
dicembre gli ambasciatori di Carlo VI vennero a Milano e nel
febbraio 1403 gli ambasciatori viscontei andarono a Parigi.
Come risultato delle trattative, Giovanni Maria avrebbe dovuto
sposare una figlia di Isabella e Filippo Maria una figlia di Filippo
l'Ardito (non se ne farà niente).
Le prime preoccupazioni di Caterina furono di natura fiscale: le
servivano occhio e croce 150.000 fiorini per saldare i debiti del
funerale e per pagare le compagnie. Nel marzo 1403 firmò un
condono della metà dei debiti a chi versasse gli arretrati, ma il
provvedimento venne reiterato un paio di volte senza esito: o i
soldi non c'erano o lei non era credibile o tutte e due le ipotesi
insieme. I suoi "commercialisti" dovettero impegnare delle terre,
infeudarle, venderle e infine fabbricare moneta falsa. Caterina
cominciava ad odorare come un animale moribondo attorno al
quale si radunano di soppiatto iene, sciacalli e avvoltoi in attesa
di spartirsi la carcassa. Due di questi terribili esseri erano
Antonio e Francesco Visconti, appartenenti a un ramo
collaterale ma non per questo meno pericoloso. I due fratelli,
con la scusa di difendere le pure tradizioni ghibelline,
accusarono Caterina di appoggiarsi a un guelfo come il
Barbavara e si proposero come i veri tutori del Ducato
visconteo.
Cosa poteva fare Caterina? Il marito le aveva lasciato uno stato
economicamente esausto, le aveva imposto un Consiglio
segreto irrevocabile ma contestato. A chi doveva dar retta? La
sua mente era incapace di cogliere la portata della situazione,
era sempre stata tenuta all'oscuro delle faccende di governo e
ora tutti si aspettavano che facesse la cosa giusta.
La secessione nel Ducato
Mentre lei era paralizzata dall'indecisione, "ovunque nelle città
viscontee attraverso le notizie che arrivavano da Milano si ebbe
la sensazione che vi fosse un cedimento nel governo centrale.
Dovunque i rappresentanti del governo, i referendari, i podestà
rimanevano incerti sul modo di eseguire gli ordini, sentendo che
alle spalle non vi era più persona che fortemente volesse" (F.
Cognasso, I Visconti, p. 363).
Antonio Visconti riuscì a coagulare intorno a sé nell'inverno 1403 la
dissidenza: nobili che si vedevano alla deriva su una nave
senza capitano e non domandavano altro che di scendere. Per
non colpire direttamente Caterina - fatica sprecata -, diressero
le loro energie contro il Barbavara, ministro delle finanze e già
per questo impopolare. Il 23 giugno 1403 Antonio Visconti di
fronte a Caterina accusò il suo ministro di complottare per
impadronirsi dello Stato. Esiste il resoconto dell'accaduto fatto
da un anonimo testimone oculare:
"Madonna la Duchessa licentia el dicto Antonio el quale siando
venuto in lo cortile fu advisato per messer Balzarino da Pusterla
che per Dio ello non cavalcasse quello die perché Francesco
avea zurà de farlo tagliare per pezzo". Antonio rispose di non
temere nulla e baldanzoso montò a cavallo ostentando
sicurezza.
Domenica 24 giugno, festa di S. Giovanni, Antonio Visconti raccolse
trecento uomini per sistemare a modo suo il contenzioso col
Barbavara. "Sentendo questo, la Duchessa chiamò mess.
Giovanni da Chasale el quale era del suo consiglio e comandolli
che elli andasse per Antonio Bisconte, che venisse a lei. Giunto
a chasa del detto Antonio si fecioni innanzi certi de quelli armati
e tagliarlo a pezzi con certi de suoi compagni, e romoregiaro la
terra gridando - Viva il ducha e muoiano i Barbavari - e con
questo gridare se serarono le boteghe e tutto il popolo prfese
l'arme e andarono a corte per uccidere Francesco Barbavara
ma non si lasciò trovare, corsono a chasa del fratello carnale el
quale era abate de Santo Ambrogio e lui tagliarono a pezzi..."
Mentre il da Casale veniva trafitto dagli spiedi ghibellini, la Duchessa
passava su una carretta come una buona madre fra il popolo,
sforzandosi di distribuire stirati sorrisi rassicuranti e benedizioni,
seguita dai figli a cavallo. I mestatori avevano ottenuto il torbido
che speravano: il popolo era ricorso alle armi che trovava, la
città sconvolta da due giorni di tumulti, le case dei Barbavara
saccheggiate e bruciate.
Ad Antonio si affiancò Antonio Porro conte di Pollenzo, nemico
giurato del Barbavara. Fu lui a sequestrare il duchino Giovanni
Maria, giovane già scellerato di suo, per metterlo
simbolicamente a capo dei ribelli, che si divertirono a
massacrare l'abate di S. Ambrogio, con Giovanni Maria che
sembrava la reincarnazione di un imperatore romano al
Colosseo.
Davanti alla cattedrale, intanto, Caterina ormai fuori di sé dal panico
domandava reiteratamente a quelli che la circondavano: "Sono
io segura?", poi a scanso di equivoci si rinserrò nel castello di
Porta Giovia, lasciando che almeno Francesco Barbavara e suo
fratello Manfredi si mettessero al riparo con la fuga. Come
avrebbe voluto seguirli! Lei che era sempre stata in disparte nei
momenti di gloria, ora rischiava di morire per la ragione di stato.
Il governo ribelle
Mentre tutte le città assoggettate ai Visconti si ribellavano, il governo
passò nelle mani di un altro consiglio che supportava Giovanni
Maria; ne facevano parte Antonio Visconti e suo fratello
Francesco, Antonio Porro, Jacopo dal Verme, Ambrogio di
Lodrisio Visconti, Cesare figlio di Galeazzo II, gli Aliprandi, i
Pusterla. Tutto si concluse entro il 5 agosto 1403 a Milano, ma
innescò la miccia per la secessione a catena di tutte le città
infeudate ai Visconti, tranne Pavia, dove Caterina volle che
s'insediasse l'undicenne Filippo Maria sotto tutela di Castellino
Beccaria.
A lei restarono fedeli Jacopo dal Verme (che faceva il doppio gioco?),
Pandolfo Malatesta e Facino Cane. Dietro loro suggerimento il 6
gennaio 1404 Caterina fece arrestare il nuovo consiglio di
reggenza e quella stessa sera caddero le teste di Antonio e
Galeazzo Porro e di Galeazzo Aliprandi, che vennero esposte al
Broletto.
Il 14 gennaio si decise il rientro del Barbavara, che però mise piede
in pompa magna a Milano solo il 31 gennaio. Si recarono a
riceverlo tra gli altri l'arcivescovo di Milano e Francesco
Gonzaga, che nel frattempo aveva sposato Anna, la nipote di
Caterina figlia di suo fratello Marco.
I congiurati non si arresero: si rifugiarono a Pavia, dove pretesero da
Filippo Maria l'arresto di Manfredi Barbavara, che era stato
messo lì ad aiutarlo. Il giovane conte non solo accondiscese,
ma firmò un atto di accusa contro Francesco Barbavara che,
saputa la cosa, abbandonò Milano il 15 marzo 1404.
Non allo stesso modo la pensavano Giovanni Maria e sua madre. Il
19 marzo 1404 il Duca e Caterina quale ricompensa dei grandi
servigi resi dal conte Barbavara, loro camerario e governatore,
concedevano a lui e ai suoi successori in allodio le terre di
Yenne, Chamaz e Monthey, che costituivano i beni dotali di
Bianca di Savoia. In sua assenza incaricarono Ludovico
Scarampi di Asti - dove si era rifugiato - di dargli l'investitura e
riceverne l'omaggio. Era una concessione arbitraria, che aprirà
un contenzioso con Amedeo VIII di Savoia, vincitore della
contesa, ma dimostra la dissennatezza della duchessa.
Il cerchio si chiude
Caterina pregava, ma non le bastava per sentirsi al sicuro. Giovanni
Maria era una marionetta nelle mani senza scrupoli di Antonio e
Francesco Visconti. Il 21 maggio ci fu una nuova sommossa
cittadina tra guelfi e ghibellini e si può affermare che tutti erano
ormai preda del panico. I monaci di S. Simpliciano, armati come
lanzichenecchi, al grido di "W i guelfi!" menavano botte da orbi
sugli avversari, tra i quali vi era anche Giovanni Maria. Vinsero i
ghibellini e il giovane duca considererà il 23 maggio suo giorno
fausto e quindi festa pubblica.
Caterina non si era mossa dal castello di Porta Giovia e ai primi di
giugno riuscì a organizzare la sua "evasione" verso il castello di
Monza, il maledetto dono di nozze del marito. La duchessa,
ormai preda della paranoia più cupa, non era però al sicuro
neppure lì, perché infatti le comparve dinnanzi il temuto
Francesco Visconti, venuto ad arrestarla il 18 agosto. Caterina
mandò reiterate richieste di aiuto ai suoi fratelli all'estero e alla
corte di Francia, ma nei due mesi in cui rimase prigioniera a
Monza non successe niente.
Non sappiamo come venisse trattata, nessuno come al solito pare
essersi preoccupato di lei, tranne il suo piccolo Filippo Maria,
assolutamente impotente nel soccorrerla. Caterina morì a
Monza, si disse per veleno, ma probabilmente contagiata dalla
peste, una delle peggiori epidemie che imperversò in tutta
Europa. I funerali furono di Stato, ma il suo corpo - contagiato venne lasciato a Monza e presto dimenticato.
Agli inizi del Cinquecento qualcuno ritenne di poterla considerare
beata e di immortalarla in una cappella nel Santuario di S. Maria
delle Grazie a Monza, fondato nel 1473. Un piccolo risarcimento
per una vita così sfortunata.
Bibliografia
Cognasso Francesco, I Visconti, Dall'Oglio, 1966
Maiocchi R., Francesco Barbavara durante la reggenza di Caterina Visconti,
Miscellanea di Storia Italiana, t. XXXV, 1898, pp. 272-278
Muratore Dino, "Archivio Storico Lombardo" 1907
Novati F., Per la cattura di Bernabò Visconti, A.S.L. 1906, pp. 129-139
Pizzagalli Daniela, Bernabò Visconti, Rusconi, M lano 1994
4.8 La vera storia della Monaca di Monza
La vera storia della Monaca di Monza
di Paolo Colussi
La prima infanzia
I nonni paterni di Marianna erano Luigi de Leyva e Marianna de la
Cueva, principi d’Ascoli. Luigi apparteneva a un’illustre famiglia
spagnola salita a grande fama grazie a suo padre Antonio de
Leyva, grande comandante militare al seguito di Carlo V e primo
governatore di Milano dopo la morte del duca Francesco II
Sforza nel 1535.
Il padre di Marianna, Martino de Leyva, secondogenito di Luigi, era
nato nel 1548 o 49. Come figlio cadetto aveva dedicato la sua
vita alla carriera militare. Lo troviamo a combattere a Granada, a
Lepanto e alla Goletta. A poco più di vent’anni è nominato
comandante di una compagnia di lance a Milano. Nel 1574 è ad
Alessandria con le sue truppe. E’ ora ormai di puntare a nomine
di prestigio, ma per questo ci vogliono parecchi soldi e così, il 15
dicembre 1574, a 26 anni, sposa Virginia Marino, la figlia ed
erede dell’uomo più ricco di Milano, il banchiere Tommaso
Marino, per una dote (promessa) di 50.000 scudi. Virginia era
vedova del primo marito dal 1572, data di morte anche del
padre. Alla morte del marito era tornata a Milano a curare
l’eredità lasciando i suoi cinque figli a Sassuolo in cura ad uno
zio.
Marianna, la prima ed unica figlia della coppia, nasce dopo circa un
anno. Non esistono documenti che certifichino il giorno esatto
della nascita, ma solo elementi indiretti. In particolare,
nell’interrogatorio del processo avvenuto il giorno 22 dicembre
1607 lei dice: “Io havrò 32 anni.” Da ciò si è desunta una data
approssimativa che va dalla fine del 1575 all’inizio del 1576. La
bambina prende il nome dalla nonna o più probabilmente dalla
madrina Marianna, sorella di Martino, che aveva sposato
Massimiliano Stampa, marchese di Soncino.
La coppia con la bambina abita in Palazzo Marino. L’atto del 2
settembre 1592 del notaio Pietro Cicereio dice che abitavano
“quella cantonata verso S. Fedele pigliando da detta cantonata
sino a tutto il netto dell’andito della porta che resguarda S.
Simplicianino nel quale apartamento interviene esso andito, una
saletta et tre camere et un porteghetto con due vasi necessari et
un poco di giardino in larghezza di braccia cinque onze tre e
mezza in larghezza braccia 27 e mezza in circa, con un pozzo et
due torriole, le quali vanno a servire ad
uno apartamento
superiore simile a questo et sotto le sue cantine con il
medesimo riparto, il tutto è in volta.” (Archivio di Stato - Palazzo
Marino)
Dopo la morte del banchiere infatti il palazzo era stato diviso in
quartieri e Virginia aveva avuto in uso quello all’angolo tra
piazza san Fedele e via Caserotte. Il 29 agosto 1576 Martino de
Leyva riceve l’appartamento al posto della dote non ancora
versata. A questa data la moglie sta ancora bene, ma un mese
dopo, il 1 ottobre 1576, quando fa testamento, la malattia probabilmente la peste che infuriava a Milano in quell’anno - è
già allo stadio finale.
Il testamento di Virginia è all’origine di una lunga vicenda giudiziaria
che si risolverà a danno di Marianna. Le volontà della madre
erano quelle di lasciare eredi la figlia Marianna e il primogenito
del suo primo matrimonio Marco Pio, ciascuno dei due al 50%. Il
marito doveva ricevere “l’usufrutto della dote e un anello con
gemma di valore” (forse l’anello nuziale). Il testamento viene
subito impugnato dalle sorelle di Marco Pio escluse che
chiedono immediatamente un inventario dei beni.
Da questo inventario, eseguito dal notaio Giovanni Mazza il 10
ottobre 1576, sappiamo che nell’appartamento di palazzo
Marino c’era una culla con “copertura di grogran goernito di un
pasaman di setta biancha foderata di sandal biancho”. Il corredo
della bambina comprendeva anche “tre patelli di panno rosso,
tre lanzoletti, tre orletti, sei patelli, e più doi lanzoletti di cambraja
goerniti di un lavor di refo fatto a osso”. E’ la prova del soggiorno
di Marianna nel palazzo, che, dopo la morte della madre, viene
lasciato quasi subito anche dal padre che nell’agosto-settembre
del 1577 va a combattere nelle Fiandre dove rimane per tre anni,
fino al 1580. Marianna vive con la zia paterna Marianna Stampa
o con la zia materna Clara Torniello che stava nell’appartamento
adiacente di Palazzo Marino. Chi l’assiste è la balia Vittoria alla
quale Virginia ha lasciato un legato di 25 scudi d’oro forse
perché continui a curare la bambina.
La causa intanto va avanti. Nel 1580 Martino de Leyva torna apposta
a Milano per siglare un compromesso con le sorelle che snatura
il testamento di Virginia: di 12 parti dell’eredità, 5 vanno a
Martino e alla figlia, 7 ai figli di primo letto. E’ chiaramente un
furto nei confronti della bambina. Lo storico Ripamonti, fonte
primaria di tutta la storia della Monaca di Monza, dice che
Martino agiva “sotto gli stimoli dell’avarizia”. Il compromesso in
perdita era dovuto probabilmente anche alla fretta che questi
aveva di lasciare Milano per seguire altre campagne militari.
La famiglia de Leyva comunque non era certo in ristrettezze. Il
bilancio delle entrate milanesi di Martino (e figlia) quale risulta
da un documento del 25 luglio 1580 ammontava a L. 9.382
l’anno corrispondenti alle rendite milanesi derivanti dalla dogana
e dalla mercanzia. C’erano poi le tenute di Mirabello e della
Torrazza, le rendite della contea di Monza, il dazio dell’imbottato.
La contea di Monza era un’entrata dei de Leyva che turnavano
tra loro fratelli ogni due anni.
Secondo il racconto del Manzoni, Marianna appare destinata al
chiostro fin dalla nascita, ma ciò non sembra corrisponda alla
verità storica. In una lettera del padre del 26 giugno 1586 si
parla delle prospettive matrimoniali di Marianna e di una dote di
7000 ducati. La svolta in questo senso deve essersi verificata
poco dopo, e precisamente nel carnevale 1588 quando il padre
si risposa a Valenza in Spagna con donna Anna Viquez de
Moncada allontanandosi così definitivamente da Milano. Grazie
a questo importante matrimonio Martino ottiene la carica di
Maestro di Campo generale della cavalleria e della gente d’armi
del regno di Napoli. Avrà inoltre dalla seconda moglie i suoi veri
figli: Luigi, Antonio e Gerolamo, che lo seguiranno nella carriera
militare. La tendenza a monacare le figlie viene attuata
comunque anche nei confronti dell’unica figlia spagnola Adriana.
Le altre due figlie nate dalla seconda moglie, Maddalena e
Giovanna, muoiono all’età di 11 e 8 anni.
Marianna diventa suor Virginia
Nello stesso anno 1588 Marianna, che fino a quel momento era
vissuta sotto la tutela delle zie, entra nel monastero di Santa
Margherita a Monza e compie la Vestizione. Aveva 13 anni e tre
mesi, un’età sufficiente per quest’atto che secondo le norme
doveva essere compiuto dopo i 12 anni. Il monastero di Santa
Margherita si allungava lungo lo Spalto di Porta de’ Grandi (oggi
via Azzone Visconti) che costeggia il Lambretto e vi si accedeva
da un vicolo che oggi si chiama appunto “Via della Signora”. Era
stato un tempo delle Umiliate per passare poi all’ordine
benedettino. A quest’epoca ospitava 20 monache.
Il 15 marzo 1589 don Martino de Leyva compare per l’ultima volta
accanto alla figlia. Lo troviamo a Monza per promettere la dote
di Marianna consistente in un deposito di 6.000 lire imperiali che
fruttavano una rendita annua di L. 300. Secondo l’atto la somma
doveva essere depositata subito a Giuseppe Limiato, che infatti
dice di averla ricevuta, il quale poi l’avrebbe versata al
monastero all’atto della professione. In realtà vedremo poi che
Giuseppe Limiato non ha ricevuto proprio niente. Sono presenti
come testimoni l’agente Giuseppe Molteno e il farmacista
Rainerio Roncino (che ritroveremo in seguito tra le vittime
dall’Osio), e un certo Giuseppe Panzulio. Secondo i calcoli di
Luigi Zerbi, lo studioso che per primo ha compiuto una seria
analisi dei documenti riguardanti la monaca di Monza, con
quest’atto in realtà il padre rubava alla figlia 27.860 lire delle
39.861 che le spettavano.
Il 26 agosto 1591, trascorso il giusto periodo di noviziato,
l’arcivescovo autorizza la richiesta delle novizie di ricevere la
professione. Le tre novizie sono suor Virginia Maria, suor
Benedetta Felice [Homata], suor Teodora [da Seveso] e suor
Ottavia [Caterina Ricci].
Il 12 settembre 1591 Marianna compie la Professione e diventa Suor
Virginia Maria. Sappiamo che a questa data le suore non
avevano ancora visto il deposito di 6.000 lire promesso due anni
prima. Durante un incontro avvenuto due giorni prima con il
Limiato avevano concesso due anni di dilazione. In realtà da
una causa del 1626 (!) sappiamo che a quell’epoca non era
ancora stato versato. Vengono invece versate regolarmente le
rendite annue.
Ma com’era a sedici anni questo strano personaggio, reso
indimenticabile dal Manzoni anche grazie al suo inquietante
ritratto? Il Ripamonti così ce la descrive a sedici anni: “era la de
Leyva modesta, circospetta, affabilissima, soffusa di un
invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie
istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben
educata, obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno
sociale perfetto.”
Tutta Monza sembra essere concorde nel lodarla. Il 20 maggio 1594
il letterato monzese Bartolomeo Zucchi le invia una lettera molto
ampollosa nella quale si loda la sua scelta di farsi monaca. A
vent’anni suor Virginia diventa “La Signora” perché esercita per
mandato del padre il biennio di sovranità a Monza, consistente
nell’emettere gride, ordinare arresti, rimettere le pene, ecc.
Esiste un’ordinanza del 26 dicembre 1596 riguardante la pesca
sul Lambro a sua firma. In questo periodo riscuote
l’ammirazione di tutti per il suo contegno.
L’amante segreto: Giovan Paolo Osio
Nel 1597 Marianna è maestra delle educande (circa 20 ragazze) tra
cui Isabella degli Hostesi. Dal Ripamonti conosciamo il primo
episodio della tragedia. Giovanni Paolo Osio, la cui casa
confinava con il monastero, sale su un albero del suo orto e
scambia saluti con Isabella, che viene sgridata da Marianna,
tolta dal collegio e maritata. L’episodio è raccontato anche da
suor Virginia durante il processo in questi termini:
“Detto Gio. Paolo Osio faceva l’amore con la signorina Isabella
Ortensia secolare la quale era nel monastero in dezena et
havendo io trovato che stavano guardandosi l’uno e l’altro alla
cortina delle galline gli feci un gran rebuffo che portasse così
poco rispetto al monastero massime che detta giovane era data
in mia custodia [...], et esso se n’andò via bassando la testa
senza dire altro”.
Poco tempo dopo, nell’ottobre 1597, viene ucciso l’ex soprastante a
Monza dei de Leyva, il Molteno, che aveva circa 60 anni.
L’uccisione è addebitata all’Osio. Le cause non sono chiare:
forse una vendetta contro suor Virginia per lo sgarbo ricevuto
oppure poteva anche essere un omicidio concordato con il
Limiato per questioni di interesse. Entrambi i soprastanti erano
dei furfanti che cercavano in tutti i modi di arricchirsi a spese dei
signori assenti. La seconda ipotesi sembra più probabile tanto è
vero che poco dopo - il 24 novembre 1597 - i De Leyva da
Napoli sostituiscono il Limiato con Luigi Trezzo detto
Perruccone.
Suor Virginia comunque è in questo periodo la Signora di Monza ed
amministra la giustizia. Il giovane Osio da una finestra che
guardava nel monastero cerca di contattare suor Virginia e le fa
cenno di volerle mandare una lettera, forse per giustificarsi, ma
la Signora, in collera con lui per l’omicidio, ne ordina l’arresto.
L’Osio allora fugge da Monza e resta bandito per un anno. Poi,
per intercessione di molti e su pressioni della superiora, ottiene
la grazia.
L’Osio a quell’epoca, secondo alcuni indizi, doveva avere circa 25
anni. Il Ripamonti lo definisce “ricco e ozioso”. Il padre Giovan
Paolo e il fratello Cesare erano molto noti a Monza per le loro
ribalderie e i numerosi ferimenti. Anche il fratello Teodoro
ucciderà lo zio per affrettare l’eredità. Fino a quest’anno non c’è
traccia invece di reati di Giovan Paolo, che frequenta
personaggi altolocati come i de Leyva, Francesco D’Adda,
Giovanni Borromeo, Ludovico Taverna ed Ermes Visconti. Non
è del tutto ignorante: conosce il latino e utilizza un manuale per
comporre le lettere. Secondo il prete Arrigone possedeva
“qualche libro”. E’ amico del convento e della superiora suor
Francesca Imbresaga.
In un’epoca imprecisata del 1598, l’Osio fa ritorno nella sua casa di
Monza. L’ira di suor Virginia è ormai spenta, anzi la giovane
monaca scopre improvvisamente di sentire una grande
attrazione per lui e lo spia non vista ogni volta che scende in
giardino. La suora Ottavia Ricci racconterà in seguito della frase
famosa - “si potria mai vedere la più bella cosa?” - pronunciata
da suor Virginia in sua presenza alla vista del giovane.
L’Osio, forse per ringraziarla della grazia ricevuta o perché si era
accorto di queste attenzioni, si avvicina a Marianna. Inizia uno
scambio di lettere, recapitate in giardino tramite un filo calato dal
finestrino, seguito poi da alcuni regali. L’Osio però all’inizio
sbaglia strategia scrivendo una lettera molto audace; viene
subito corretto dal prete Arrigone che scrive lui stesso le altre
lettere ispirate ad un’ipocrita devozione. Ad un certo punto lo
squallido “Cirano” confessa addirittura alla monaca l’equivoco,
professandole il suo amore, ma viene scacciato in malo modo.
Nell’agosto del 1599, forse liberata dagli scrupoli in seguito alla
morte del padre, la suora accetta di avere un primo incontro con
l’Osio sulla porta del convento. L’emozione è talmente forte da
provocare nella giovane una forte malattia. A Natale l’Osio entra
per la prima volta nel monastero ed ha un rapporto sessuale con
Virginia. Nel processo, che si svolgerà al termine della vicenda,
suor Virginia sosterrà di aver ceduto perché era stata stregata
d’amore dall’Osio da quando aveva baciato una calamita nera
legata in oro, che era stata battezzata dal prete Arrigone
complice dell’Osio. L’episodio della calamita è raccontato da
suor Candida Colomba Brancolina (p. 343) in questi termini:
“... una volta cavandosi dal seno calamita battezzata che havea
legata in oro dicendo che era una reliquia la basciò toccandola
con la lengua, et poi la volse dare a basciare a suor Virginia
Maria, ma lei stava renitente et esso gli soggiunse che lo faceva
perché havea schivio di lui, et fece tanto che gli la fece toccare
con la lingua ...”
Gli incontri tra i due, organizzati con la complicità di altre quattro
suore amiche e succubi della Signora, si susseguono
frequentemente. I vicini di casa avvertono la superiora di questo
andirivieni, ma all’inizio senza creare troppo allarme perché si
sparge la voce che l’Osio aveva una relazione spirituale con
suor Virginia e che voleva farsi cappuccino.
Nel 1602 Marianna partorisce il “putto morto” che le complici
Benedetta e Ottavia consegnano all’Osio. Dopo il primo
“incidente” però suor Virginia è molto turbata. Nel vano tentativo
di dimenticare l’Osio getta nel pozzo più di 50 chiavi che l’Osio
continua a far rifare dal fabbro; è tentata di gettarsi per
disperazione nel pozzo del monastero ma è trattenuta da
un’immagine della Madonna che si trovava nel giardino; fa voti
alla Madonna di Loreto inviandole ricchi doni. E’ sempre più
convinta che si tratti di “mal d’amore” provocato da malefici.
Infatti dice che si trovavano nel suo letto “osse dei morti ratti
morti corde di ferro uncini...”. Ricorre allora anche lei a sortilegi
per combattere la magia. Le consigliano di diventare
“coprofaga” dell’amante, un rimedio considerato molto efficace
contro il mal d’amore. Procuratasi gli escrementi dell’amante, li
fa seccare e li beve per tre volte alla mattina dentro un brodo
fatto con fegato e cipolle.
Malgrado tutti questi tentativi, i rapporti riprendono, anche se più
saltuariamente anche perché per alcuni mesi l’Osio è a Roma e
a Loreto, e nell’autunno del 1603 suor Virginia resta
nuovamente incinta di una bambina che verrà partorita l’8
agosto 1604. Questa figlia che sarà chiamata Alma Francesca
Margherita vive con l’Osio che la legittimerà il 17 aprile 1606
dicendo di averla avuta da una certa Isabella da Meda. Nel suo
primo anno di vita viene allattata da diverse balie, una di queste
è la figlia di Susanna, la serva del monastero. In corrispondenza
a queste due gravidanze, Marianna chiede alla matrigna una
rendita maggiorata di 20 ducati, forse per pagare chi la
assisteva. Complici dei due parti sono suor Benedetta e suor
Ottavia. Nel secondo parto anche suor Silvia Casati e suor
Candida Colomba. Dopo il secondo parto, suor Virginia esce
varie volte dal convento per vedere la bambina in casa dell’Osio.
Altre volte invece gliela portano dentro il convento. Suor Virginia
la accarezza e prepara dei vestiti per lei anche se la giudica
brutta e non le sembra la bambina che lei ha partorito. Durante
la gravidanza, per giustificare l’ingrossamento, si dice che è
ammalata alla milza e che è idropica.
In questo periodo, poco dopo il secondo parto, qualcosa si fa per
tappare la falla: vengono murate le finestre che guardano verso
la casa dell’Osio e suor Virginia viene trasportata con tutto il
letto (era spesso ammalata) in un’altra parte del monastero.
Il 6 giugno 1605 l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo visita il
monastero senza avere alcun sospetto delle gravi irregolarità
che turbavano quella comunità religiosa. Assegna diverse
penitenze a suor Virginia: i digiuni e le flagellazioni sembra che
abbiano fatto cessare la relazione dimostrandosi più efficaci
della ripugnante pozione magica.
Due anni terribili
Nell’estate del 1606 la situazione, che sino ad allora era rimasta
miracolosamente in equilibrio, inizia a precipitare. La conversa
Caterina da Meda, in occasione della visita al convento di Mons.
Pietro Barca, canonico di S. Ambrogio, vuole rivelare la
relazione di suor Virginia. Caterina non era professa e era
considerata inadatta a diventare monaca per il suo cattivo
carattere e forse anche perché rubava nel monastero. Il 23
luglio, pochi giorni prima della temuta visita, Caterina viene
chiusa per punizione nella legnaia su istanza di suor Virginia
perché aveva sporcato il letto di suor Degnamerita che piaceva
molto a suor Virginia perché suonava bene l’organo e cantava.
La sera prima suor Virginia e le sue complici (suor Benedetta,
suor Candida Colomba, suor Ottavia e suor Silvia) vanno da lei
per imporle di non parlare ma lei non accetta. L’Osio allora è
costretto ad ucciderla con tre colpi in testa. Viene nascosta nel
pollaio mentre si apre un buco nel muro per far credere a una
sua fuga. Il giorno dopo si svolgono le elezioni che vedono la
vittoria del partito avverso alla Signora guidato da suor Angela
Sacchi e dall’Imbersaga. L’Imbersaga sostituisce suor Virginia
nella carica di vicaria, suor Angela sostituisce la precedente
superiora Bianca Caterina Homati in carica dal 1603. Il giorno
dopo l’Osio seppellisce il corpo di suor Caterina nella sua
“neviera” mentre la testa è gettata più tardi nel pozzo di Velate.
Suor Virginia minaccia le monache complici (“mi bravò su la
vita”) di fare la stessa fine se avessero parlato.
Questo omicidio resta segreto perché tutti sono convinti che la
conversa sia fuggita. Nell’autunno del 1606 però le voci sulle
irregolarità del convento si fanno più frequenti anche se
pronunciate con “trepidazione, esitazione e perplessità”, ma
anche con un tono “più franco” e “più afflitto”, come racconta il
Ripamonti. Sempre dal Ripamonti sappiamo che il fabbro che
aveva contraffatto le chiavi (forse un certo Cesare Ferrari), parla
in giro dei fatti del convento e viene ucciso dall’Osio, che tenta
anche di uccidere Rainerio Roncino, il farmacista, ma
quest’ultimo si salva perché il colpo di archibugio non va a
segno. L’Osio avrebbe voluto uccidere anche il prete Arrigoni
per far smettere tutte le chiacchiere con il terrore, ma suor
Virginia glielo impedisce.
Tutto questo trambusto arriva alle orecchie del governatore di Milano.
Nel carnevale del 1607 l’Osio è arrestato dal Fuentes e
incarcerato a Pavia. L’operazione è condotta con discrezione
per non sollevare scandalo, e non si sa se si riferisce agli
omicidi o alla relazione con la monaca. Il 4 luglio l’Osio
commette comunque un grave errore: scrive una supplica
all’arcivescovo proclamandosi innocente di tutto e allega una
dichiarazione medica del 5 maggio dove si afferma falsamente
che il soggiorno in carcere avrebbe potuto aggravare la malattia
del recluso mettendo in pericolo la sua vita.
Anche suor Virginia si muove spedendo al Fuentes una lettera
sottoscritta da altre monache per dire che tra l’Osio e il
monastero i rapporti sono corretti.
Il Borromeo, che non sapeva nulla, si mette in allarme e inizia ad
informarsi sull’Osio e su eventuali suoi reati legati alla vita
religiosa di Monza. Lo mettono quindi al corrente delle voci che
circolavano sul monastero di S. Margherita e perciò, tra fine
luglio e inizio agosto 1607, eccolo a Monza dove finge di
compiere una normale visita pastorale mentre in realtà esplora
la situazione. Nel monastero conversa con le monache
invitando a sistemarsi i capelli quelle che le avevano in disordine
(così narra il Ripamonti fornendo lo spunto al Manzoni per la
ciocca ribelle di Gertrude). Finalmente si arriva al colloquio
riservato con la Signora così descritto dal Ripamonti:
“[si avvicina] con calma al problema che doveva trattare, sonda
l’animo della donna, lo rigira da ogni parte più per ottenere la
confessione di una colpa - qualora ce ne sia qualcuna - che per
biasimarla e accusarla. La ammonisce a ricordarsi della casata
e dei propri natali e anche dei doni che le sono stati dati per
grazia di Dio, come pure a comportarsi veramente come si
addice a che è primo quanto a pietà, modestia e modello di ogni
virtù; le ricorda che non solo le suore e le vergini che risiedono
nel suo stesso monastero, ma anche tutto il popolo della città è
attento, tiene gli occhi rivolti al luogo ove essa vive, osserva ed
esamina quanto si può non per malignità o livore, ma perché in
realtà è la condizione di ogni principe a comportare simile
attenzione. Egli è abbastanza convinto che fino a quel giorno
tutte le sue azioni sono state innocenti, pure e senza colpa; del
resto, se per caso fossero sorte in seguito delle chiacchiere e
delle voci meno convenienti, sarebbe stata la santità della sua
vita a confutarle. Disse questo e altre cose. L’esito del colloquio
fu il seguente: che da un lato la donna rimase più sospettosa di
quanto fosse in precedenza; dall’altro il Cardinale se ne partì più
inquieto e preoccupato di quanto fosse prima di giungervi”.
Durante questo colloquio, suor Virginia dice al cardinale che la
prigionia dell’Osio potrebbe mettere a rischio il suo onore, ma
capisce che le cose si stanno mettendo male e fa avvertire la
famiglia dell’Osio che se Giovan Paolo fosse tornato a
infastidirla sarebbe “stata sforzata farlo sapere alle mie genti
acciò gli facessero una burla”.
Il 28 settembre il fratellastro Luys de Leyva risponde
affermativamente al cardinale che aveva chiesto di alzare il
muro del convento.
Nello stesso mese l’Osio fugge (?) dal castello di Pavia e torna
segretamente a Monza e il 6 ottobre Camillo il Rosso, uno dei
suoi bravi, uccide Rainerio Roncino che aveva parlato in giro di
strane porcherie che avvenivano nel convento e che era
scampato al precedente attentato. Mettendo una pistola a casa
sua, viene fatto incolpare dell’omicidio il prete Paolo Arrigone,
che è tradotto nell’arcivescovado di Milano. Inizia così il famoso
processo, i cui Atti sono stati recentemente pubblicati dopo molti
decenni di titubanze da parte della Curia milanese.
(Suor Virginia vuol sapere dal fratello Teodoro se è stato l’Osio ad
uccidere il Rainerio, ma questi giura che il fratello in quel
momento era con lui.)
I processi
Il processo contro l’Osio e i suoi complici
Al processo contro il prete Arrigone il portinaio del monastero,
Domenico Ferrari, testimonia a metà ottobre che il vero omicida
è il Rosso su mandato dell’Osio, furioso perché il Roncino
aveva detto in giro che la bambina che viveva con lui era figlia di
suor Virginia. Subito dopo il portinaio e la moglie vengono
licenziati dal monastero per averlo diffamato.
Venuto a conoscenza di queste accuse, l’Osio prima si nasconde di
notte nella vicina chiesa di S. Maurizio, poi dal 1° novembre si
nasconde in convento, prima nella stanza di suor Ottavia e poi
in quella di suor Benedetta. A metà novembre manda fuori dallo
Stato (a Verona o a Bergamo) il suo fedele servitore e “bravo”
Giuseppe Pesseno perché non venisse preso e costretto a
confessare.
Le altre suore, vedendo le due complici girare per il convento con il
cibo, si accorgono dell’”ospite” e avvisano subito il cardinale che
il 25 novembre 1607 manda a prendere suor Virginia con la
forza trasportandola di notte a Milano, nel monastero di S.
Ulderico al Bocchetto. La cosa non risultò molto semplice
perché, come racconta il Ripamonti, suor Virginia rompe i
legami, elude la sorveglianza e afferrata una spada la brandisce
minacciosa e furibonda e tenta di fuggire. Ripresa, “sbatté il
capo contro la parete e, se non fosse stata disarmata e
trattenuta da alcune mani, si sarebbe colpita da sè”.
E’ forse in questa occasione che si verifica il drammatico incontro col
cardinale narrato dal Ripamonti che forse ha registrato queste
parole dagli appunti del Borromeo e che deve aver
profondamente colpito il Manzoni. Dice infatti il Ripamonti:
“E’ facile comprendere come da quel corpo, da quella bocca e da
quell’animo, insieme alla verginità, se ne fosse andato anche
ogni pudore, e come essa, non più vergine, non fosse degna di
stare più a lungo nel novero delle vergini; e infatti osò dire di
essere stata iniziata agli ordini sacri in modo non conforme alle
regole e alle disposizioni; di essere stata chiusa in un monastero
dai suoi contro la propria volontà; di non aver avuta l’età
prescritta quando vi entrò; di non avere avuto gli anni richiesti
per la cerimonia della professione; e quindi che non poteva
pronunciare i voti. E sospinta dalla propria audacia e da una
grande arroganza pronunciò in particolare queste parole: che lei
si doveva sposare, e che dovevano darle colui che essa aveva
già prescelto”
Il giorno seguente l’Osio scappa del convento e si rifugia nei dintorni
di Monza. Il 27 novembre iniziano gli interrogatori con quello
della superiora. Il 28 parla il portinaio, la moglie e la vicaria suor
Francesca Imbersaga, nemica di suor Virginia. Il 29 novembre,
suor Benedetta riceve la visita in parlatorio di un certo fattore
Damiano (da parte dell’Osio) che chiede notizie di Virginia.
Spaventata dagli interrogatori delle suore avviati nel monastero,
suor Benedetta fa chiedere all’Osio di farla fuggire dal convento
assieme a suor Ottavia. Escono la sera stessa da un buco
aperto nel muro, incontrano l’Osio e si avviano fuori città. Arrivati
al ponte sul Lambro l’Osio tenta di uccidere suor Ottavia
buttandola nel fiume e colpendola ripetutamente con
l’archibugio sulla testa. La suora tuttavia riesce a salvarsi, viene
soccorsa e trasportata nel monastero di S. Orsola in Monza
dove però morirà per le ferite il 26 dicembre dopo aver
confessato i delitti commessi. La sera del giorno dopo l’Osio
tenta di uccidere anche suor Benedetta Felice Homata
buttandola nel pozzone di Velate presso Vimercate dove si
rompe due costole e il femore. Anche lei viene soccorsa e
trasportata al monastero dove inizia a confessare. Questo
duplice tentato omicidio, travisato dal tempo, si è trasformato in
una leggenda secondo la quale l’Osio avrebbe gettato la
monaca o addirittura la Signora nel cosiddetto “pozzo della
Spagnola” che oggi è murato nella cinta del Regio Parco, presso
al ponte sul Lambro, nella via per andare dalla città al convento
delle Grazie.
Il 9 dicembre un’ispezione del pozzo di Velate fa saltare fuori la testa
di Caterina da Meda. L’11 dicembre suor Ottavia confessa il
delitto. Il 13 dicembre si scoprono nella neviera dell’Osio gli altri
resti di Caterina, che vengono sepolti a Milano a S. Stefano in
Brolo. Lo stesso giorno vengono carcerate nel monastero anche
le altre due complici: suor Candida Colomba e suor Silvia Casati.
L’Osio si rifugia nei territori di Venezia per sfuggire all’ira del
governatore Fuentes che vuole a tutti i costi la sua testa. Su
sentenza del Senato del 19 dicembre la sua casa a Monza
viene prima devastata e poi demolita.
Il 20 dicembre l’Osio scrive una seconda lettera al cardinale
Borromeo, lo ringrazia per l’aiuto prestato quand’era prigioniero
a Pavia, dice che lui e suor Virginia sono innocenti e che la
colpa di tutto è delle due “bestie” - suor Ottavia e suor Benedetta
- che lui ha provveduto a “castigare” per conto di Dio, ma dalle
deposizioni raccolte nel processo contro le suore emerge una
verità ben diversa. Il 22 dicembre a conclusione della prima fase
dell’inchiesta è interrogata a Milano suor Virginia che ammette
la relazione e l’omicidio incolpando di tutto l’Osio e il prete
Arrigone. Il 2 gennaio 1608 Gian Paolo Osio è citato per i due
tentati omicidi e l’omicidio di Caterina e anche per aver tentato
di incolpare il prete Arrigoni dell’omicidio Roncino. Il 25 febbraio
è condannato in contumacia alla forca e alla confisca dei beni.
Camillo il Rosso, Nicolò Pessina detto Panzulio e Aloisio Panzulio,
servi dell’Osio, sono condannati alla decapitazione e alla
confisca dei beni per l’uccisione di Rainerio Roncino. Già
scappati oltre il confine, questi figurano ancora tra i ricercati nel
1614. Una grida del 5 aprile 1608 promette 1000 scudi e la
liberazione di quattro banditi se l’Osio è preso vivo, la metà se è
preso morto.
La sentenza prevede inoltre che al posto della casa sia innalzata
una Colonna infame, con base e capitello e sopra una statua
della Giustizia in ceppo gentile. La statua verrà danneggiata da
ignoti pochi mesi dopo sollevando le ire del Fuentes (grida del
23 maggio 1609).
Il 20 giugno 1608 la madre dell’Osio, Sofia Bernareggi, di 84 anni,
chiede al Senato di ricevere una sovvenzione pari agli interessi
sui beni confiscati. Le danno invece una fideiussione per 50
scudi.
Secondo il Ripamonti, l’Osio sarebbe stato ucciso a tradimento nei
sotterranei del palazzo del suo amico Taverna che lo aveva
ospitato, oggi palazzo Isimbardi. Secondo un altro racconto
sarebbe stato decapitato a Monza. Il messaggero che portava la
testa a Milano si sarebbe imbattuto nel Fuentes che l’avrebbe
buttata a terra e calpestata. In base a questo episodio (se è
vero!) sarebbe morto nel 1609. Sappiamo dai documenti che
nella primavera del 1609 era ancora vivo mentre nel 1613 è
ricordato come defunto.
La Colonna venne tolta il 13 maggio 1613. Il campo era diventato un
ritrovo di giocatori di “ballone, palla e pallamaglio” che
infastidivano le monache scavalcando spesso il muro per
recuperare palle e palloni.
Il processo contro suor Virginia, le suore complici e
prete Arrigone
Il processo di Suor Virginia inizia il 27 novembre 1607 con
l’interrogatorio della superiora Angela Sacchi da parte del vicario
criminale Gerolamo Saracino. E’ il primo atto del processo In
Causa violationis clausurae deflorationis et homicidii Monialis in
Monasterio Sanctae Margaritae Modoetiae patratorum a Io.
Paulo Osio.
Il 22 dicembre suor Virginia compare davanti a Gerolamo Saracino
per il primo dei suoi due “costituti”. Marianna si difende con la
tesi della nullità dei voti e sostenendo che forze diaboliche
avevano esercitato su di lei una forza irresistibile.
Una lettera del 23 febbraio 1608 annuncia che arriverà a Milano un
valente giurista: Marmurio Lancillotti da Spoleto. Era stato
richiesto dal Borromeo forse per poter avere la sentenza da una
persona non influenzabile dalle famiglie milanesi coinvolte nel
processo. Più probabilmente viene chiamato perché era emerso
un sospetto di eresia da parte del prete Arrigone per la storia
della calamita e ciò comportava un intervento del Sant’Uffizio. Il
nuovo giudice poteva cumulare sia il processo ordinario di
competenza
vescovile
sia
quello
di
competenza
dell’inquisizione.
Dal 19 febbraio al 27 marzo 1608 si svolgono gli interrogatori del
prete Paolo Arrigone dal parte di Gerolamo Saracino che poi
passa l’incarico al Lancillotto che riprende gli interrogatori il 22
maggio con suor Candida Colomba che conferma le accuse
anche sotto la tortura dei sibilli (per 15 minuti). Il 31 maggio
chiede di interrogare suor Virginia al Bocchetto ed
eventualmente di sottoporla per un periodo di due Miserere alla
tortura dei sibilli, legnetti sistemati tra le dita delle mani giunte.
L’interrogatorio è del 14 giugno. L’imputata in questo caso deve
solo confermare sotto tortura le dichiarazioni già rese contro il
prete. Interroga nuovamente e ripetutamente Paolo Arrigone,
sottoponendo alla tortura anche il portinaio (12 giugno, tortura
della corda) e la moglie (23 giugno, sibilli per tre Miserere e più)
che devono soltanto confermare anch’essi le accuse già
pronunciate contro il prete.
La sentenza viene ponderata da luglio fino al 18 ottobre 1608. Il 18
ottobre, letta la sentenza, Virginia è condotta nel ricovero delle
convertite di S. Valeria per essere murata in una cella. Nella
sentenza le colpe di Virginia non sono esplicitate, ma vengono
sintetizzate come “plurima gravia, et enormia, et atrocissima
delicta, de quibus omnibus in processu contra eam.” Il
Ripamonti dice che suor Virginia accoglie questa decisione
“come un graditissimo dono”.
Il 18 ottobre 1608 è emessa la condanna di Paolo Arrigone a tre anni
di triremi (“e che remi effettivamente!”) condanna mite per via
della prigione già scontata dall’imputato. Al suo ritorno dovrà
risiedere almeno 15 miglia lontano da Monza. La sentenza
viene notificata il 27 gennaio 1609.
Il 27 luglio 1609, a conclusione del processo è emessa la sentenza
contro le altre suore (Benedetta, Candida e Silvia) condannate
ad essere murate vive a vita nel convento di S. Margherita. Nei
giorni precedenti (23 e 24 luglio) erano state interrogate altre
suore alla ricerca di eventuali complici.
La liberazione
Il 25 settembre 1622, dopo 14 anni di segregazione, suor Virginia
esprime il suo pentimento e può uscire dalla cella dov’era stata
murata. Probabilmente anche le sue compagne prigioniere nel
monastero di Monza sono liberate in questo stesso periodo.
Appena uscita, resta muta e solitaria. Chiede solo di parlare con il
Borromeo, che dopo molte insistenze da parte delle suore di S.
Valeria, acconsente a vederla e incontrandola la apostrofa con
queste durissime parole:
“E così dunque, femmina spudorata, non ti vergogni di presentarti al
tuo pastore? E così dunque tu, infame, osi anche stare davanti
ad un presule? Tu, del tutto indegna di stare sulla terra, degna
piuttosto di ogni supplizio, degna di essere rinchiusa tra due
pareti, finché sei viva, come pure di essere sepolta all’inferno,
una volta morta. Di’ sù, di’ chiaramente una buona volta se sei
proprio quella stessa che in passato era tanto potente! Non sei
stata abbastanza punita sino ad ora? Desideri ancora che si
faccia ricorso a carceri più strette, che ti siano comminati
supplizi più severi? Che vuoi, femmina miserabile? E stai
attenta a non alzare gli occhi impudichi, indegni di fruire e di
godere la luce”. (Carlo Marcora, La biografia del cardinal
Federico Borromeo scritta dal suo medico personale G.B.
Mongilardi, Memorie storiche della Diocesi di Milano, vol. XV,
Milano 1968, pp. 190-191)
Il racconto di Giovanni Battista Mongilardi, medico biografo del
Borromeo, dice che suor Virginia pronunciò poche parole di
pentimento, il Borromeo la stava scacciando quando vide le sue
vesti lacere e allora cambiò tono e la consolò.
Il Ripamonti si dilunga molto su questo incontro. E’ interessante di
questo racconto ciò che Virginia dice al cardinale sulle sue
esperienze spirituali:
“... avvertiva di essere sospinta dalla grazia divina e vedeva alcune
cose divine, ed era indubbiamente preda di quei moti e delle
agitazioni che sono soliti verificarsi quando l’anima si è sciolta
dalla comunanza col corpo e si innalza al cielo in atto
contemplativo. Diceva di aver visto le specie celesti, di aver
spesso udito voci superiori alle umane e aggiungeva altre cose
simili, certamente vere, ma che egli [il Borromeo] sospettava
trattarsi di scherni, arti e inganni dei demoni.” [Dandolo, pp.
154-55]
Il Borromeo, prima molto sospettoso, dopo frequenti visite a suor
irginia, le commissiona lettere edificanti ad alcune suore
pericolanti. Ci restano due di queste lettere assieme ad un certo
numero di biglietti spediti dalla penitente al cardinale. Nella
lettera del 9 dicembre 1625 che si dice fosse indirizzata a una
suora del Lentasio, suor Virginia ci parla della sua prigionia
come “la caritativa et santa medicina delle mie piaghe” e così la
descrive “io sono delle maggiori peccatrici del mondo, cloaca
veramente puzzolente alle nari de Iddio, et per li miei peccati ha
voluto la giustizia del Signore che sia stata posta in un carcere
di braccia tre larga, et di lunghezza de cinque et murata la porta
et finestra in tale modo che non vedeva se non tanto spiracolo
bastante appena per dire l’offitio. Priva di ogni conforto humano
colma di calamità, et disagi et anco infirmità insieme, de quali
anche in quel stato, senza alcun mezzo de homini, la bontà
d’Iddio incomprensibile mi ha de molto risanata, che se potessi
narrarle a viva voce il tutto, si stupirebbe et farebbe grandissimo
cuore in Dio. In questo carcere sono vissuta anni tredici.”
I tredici, anzi quattordici, durissimi anni di segregazione la resero
soggetta a forti emicranie delle quali così si lamenta nella chiusa
dell’altra lettera del 19 dicembre 1626: “Prego V.S.
raccomandarmi al Signore in particolare per il gran male che
patischo nel cervello, che in estremo mi afflige.”
La conversione della penitente alla fine viene ritenuta autentica dal
cardinale che pensa di scrivere la sua biografia. Achille Ratti nel
1912 ha pubblicato un inedito appunto del Borromeo che
delinea con queste poche parole la sua esistenza tormentata:
Per il libro philagios [da inserire in una riedizione del libro del
Borromeo intitolato Philagios - Amore della virtù]
Di suor Virginia penitente
Vitae progressus et malitiae
Casus sed moderati
Tentamenta divina
Inter caetera perpetuus stimulus numquam amissus
Poena, confessio et illuminatio
Carcer
Vita et experta divina
Diaboli tentamenta
Lachrymae non a natura
Gradus humilitatis
Dilectio et obedientia superiorum
Cessatio tentationum
Epistolae scriptae et exemplaria epistolarum
Paupertas summa
Egritudines diuturnae et cum periculo magno
Omnia dona celestia credit superiorum merito habere
Esiste anche una lettera del Borromeo del 21 giugno 1627 nella
quale si accenna a suor Virginia definendola “uno specchio di
penitenza”.
Nel 1640, data di composizione della sua Storia, il Ripamonti
descrive così la penitente: “vecchia ricurva, emaciata, magra,
veneranda; al vederla si crederebbe a malapena che un tempo
abbia potuto essere bella e spudorata”.
Negli ultimi anni della sua vita - l’8 novembre 1646 -, durante le
trattative da parte della città di riscattare la contea di Monza in
vista dell’estinzione della famiglia de Leyva, Marianna scrive su
richiesta questa nota sui membri della sua famiglia:
“Don Antonio de Leyva fu governatore di questa città ebbe un figliolo
chiamato don Luis che sucese principe d’Ascolli il quale ebbe
cinque figli maschi don Antonio don Martino mio padre don
Giovanni don Francesco e don Filipo con una figlia maritata nel
marchese Masimiliano di Soncino che si fece poi capucino.
Don Antonio sudetto come magiore sucese principe et ebbe un sol
figlio che fu nominato per nome d’ Luiso il quale è statto padre
dil Principe se pur vive chiamato il dilatando e Don Pietro e don
Luis mio fratello [non è citato l’altro fratello Antonio, morto nel
1611]. Don Luis, Conte di Mora [Monza?] è castellano de Lovo
in Napoli già sta in ciello l’altro fratello Don Hieronimo dicono
esser Vicere in Sicilia se pur vive.”
L’operazione della città tuttavia non va in porto e così nel 1648 la
contea di Monza viene acquistata dai Durini che la terranno fino
all’epoca napoleonica.
L’epilogo di tutta la vicenda è davvero gelido. Nel libro mastro di S.
Valeria si trova scritto: “1650, adì 7 genaro, devono le sudette
per alimenti douti alla sudetta sor Verginia Maria Leva sino adì
sudetto che è pasata a megliora vita = in credito al entrata a fo.
380 l. 39.”
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(studio psicanalitico)
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4.9 Maria
Castiglioni
Paola
Litta
Visconti
Arese
in
Maria Paola Litta Visconti Arese in Castiglioni
di Paolo Colussi e Maria Grazia Tolfo
L'amicizia con Francesco Melzi d'Eril
Donna Paola nasce a Milano l'8 settembre 1751 dal marchese Giulio
Pompeo Litta e da Elisabetta Visconti. Aveva una salute debole,
tanto che le venne prognosticata una vita breve: invece scampò
in barba ai medici fino a 95 anni. Fra le sue preghiere vi era
questa: "Signore, non mandatemi la morte in tempo di
carnevale!", il che ci lascia intendere che tipo allegro fosse.
Fu fatta sposare nel 1769 al marchese Giuseppe Castiglioni Stampa,
che seguiva la moda del cicisbeismo. Durante il grand tour a
Parigi, dove donna Paola fu ammessa alla corte di Luigi XV, e a
Londra fu accompagnata al giovanissimo Francesco Melzi
d'Eril.
Il conte Francesco, soprannominato "il contino", era nato a Milano il
6 ottobre 1753 e a Parigi abitò presso donna Paola, nella casa
dei Castiglioni che era divenuta il punto di riferimento dei colti
lombardi in Francia. L'esperienza alla corte di Versaille fu per
entrambi molto importante: il governo del "bein-aimé" Luigi XV
era ormai nella sua china discendente. Intelligente, ma debole
di carattere, cinico e gaudente come richiedeva la società
dell'epoca, il re fu un vero maestro dell'etichetta di corte. Dopo
cinquant'anni di regno (era re dall'età di 5 anni!), nel 1766 era
iniziato il suo declino politico, senza che per altro il cerchio
magico della vita di corte ne risentisse. Donna Paola ne fu
talmente colpita, che quando nella sua vecchiaia la demenza
devastò la mente un tempo brillante, visse immersa nella corte
di Luigi XV, fingendo le brillanti conversazioni che, come un'eco,
rimbalzavano fra i suoi pensieri.
Decurione dal 1775, Francesco Melzi si distinse nel 1792 per
condurre in consiglio una battaglia per la libertà di parola. Ma
aveva un carattere ombroso e piuttosto schivo, che gli faceva
prediligere la solitudine e l'indipendenza. Mantenne un rapporto
d'amicizia con Paola Litta anche durante la sua vicepresidenza
della Repubblica italiana nel 1802 e dopo che venne destituito
nel 1805.
Donna Paola si mostrò infatti schierata a fianco del Melzi contro
Gioachino Murat e, soprattutto, contro sua moglie, Carolina
Bonaparte. Si narra infatti che, avendo Carolina cercato di
attirare con una festa da ballo le dame milanesi che evitavano
di frequentarla, si sentì rispondere da donna Paola, da lei
incaricata di fare l'invito, che avendo dovuto le dame milanesi
"privarsi delle gioie onde pagare le contribuzioni imposte dai
francesi, non se ne prendeva l'impegno, dato che ben poche
avrebbero accettato di venire alla festa". L'episodio si colloca
all'incirca nel 1802.
Il cicisbeismo, un fenomeno tutto italiano
Giuseppe Castiglioni era un cicisbeo: questa affermazione oggidì
suona come un'indiscrezione da Novella 2000. Allora era una
moda alla quale pochi uomini - ovviamente i preti e i militari potevano sottrarsi. Sulle origini di questo curioso fenomeno
settecentesco che fu il cicisbeismo si sono avanzate molte
ipotesi: la galanteria seicentesca, l'Arcadia e la protezione
cavalleresca verso la donna, oppure la reazione suscitata alle
restrizioni imposte ai costumi dopo il Concilio di Trento e per
tutta l'età della dominazione spagnola. Stendhal fu molto colpito
dal fenomeno - esclusivamente italiano - e ritenne che l'uso dei
cavalieri serventi fosse stato importato in Italia dagli Spagnoli.
Verso il 1540, leggendo il Bandello, si scopre che ogni donna
ricca doveva avere un braccere per porgerle il braccio in
pubblico se il marito era assente. Le famiglie ricche pagavano il
braccere, i piccoli borghesi si promettevano di essere
reciprocamente i bracceri delle loro mogli. Da questo uso
sarebbe derivato col tempo il cicisbeismo. Il cicisbeo (o più
d'uno) viene scelto per contratto matrimoniale; deve aiutare la
sua dama a vestirsi, accompagnarla ovunque. Altri sinonimi
erano adone, narciso, zerbino, galante, patito, cavalier
servente.
Donna Paola raccontava con grande umorismo episodi di vita
coniugale poco edificanti, trovandovi il lato comico, come
quando il marito cercò di rifilarle un paio di stivaletti che
l'amante aveva rifiutato; in un'altra occasione, avendo
predisposto un pranzo di gran gala, il Castiglioni s'era
dimenticato di spedire gli inviti e aveva raccattato all'ultimo
momento dei passanti. Donna Paola si era divertita moltissimo
a questo finto pranzo di gala, stando al gioco del marito e
riverendo gli anonimi passanti come grandi personalità. Il Parini,
che conosceva molto bene questo modo eufemisticamente
leggero di vivere, aveva immortalato queste figure maschili nel
giovin signore del Giorno.
La marchesa era nota per le sue battute. Un suo conoscente, forse
timido, tutte le volte che la incontrava per strada tirava fuori
l'orologio per distrarre la vista da lei. E donna Paola: "Mi avete
forse presa per la vostra meridiana?".
Un salotto illuminato
In palazzo Castiglioni (ora noto come Fontana-Silvestri) si
svolgevano gli incontri della Gran loggia nazionale lombarda
ossia de "La Concordia", aderente all'Oriente di Milano, la sola
loggia massonica ammessa da Giuseppe II con editto datato 11
dicembre 1785.
Era una loggia ispirata a quella degli Illuminati, fondata a Ingolstadt
nel 1776 con lo scopo di "restituire agli uomini i loro diritti
naturali da conseguire attraverso la ragione".
Il palazzo e la villa di Pessano (vicino a Gorgonzola, passata al
conte Giannino Negroni Prato) vantavano anche un salotto
letterario tra i più apprezzati e ambiti dall'intelligenza
riformatrice cittadina. Tra i più assidui frequentatori vi era
Giuseppe Parini, legato da amicizia alla padrona di casa, della
quale ammirava l'intelligenza, il brio e il notevole senso
dell'umorismo. Le dedicò La recita dei versi (1783) (vedi testo
on line), un gentile rifiuto a donna Paola che lo invitava a
comporre versi da recitare nei banchetti; Parini descrive un
convitto rumoroso, dove si parla di politica o di attualità fra il
rumore dei piatti, situazione non idonea all'ascolto della poesia.
Il dono (1790) (vedi testo on line) è un'ode scritta in occasione
dell'omaggio fatto al poeta da donna Paola dell'edizione Didot
(1787-89) delle tragedie dell'Alfieri. Secondo quanto dichiarato
dallo stesso vate, Parini usava sottoporre al suo giudizio le sue
opere prima della pubblicazione. Nella villa di Pessano si
conservava uno sgabello sul quale il Parini soleva sedersi; il
poeta adorava la villa perché era maestosa ed immersa nel
verde.
A Masnago, nel castello di proprietà del marchese Giuseppe
Castiglioni Stampa, nipote di donna Paola, si conservavano i
suoi ritratti. Non era né formosa né bella, ma "illuminata da
quella fine, spirituale intelligenza che è una seconda bellezza".
Anche la scrittrice veronese Silvia Curtoni Verza, amata dal
Parini, la elogiò in uno dei suoi ritratti.
Durante la Restaurazione donna Paola affittò il palazzo sul corso al
Consolato d'Inghilterra, tenendo per sé probabilmente la parte
sul giardino, che lei stessa aveva fatto riedificare ed aggiornare
nella decorazione e negli arredi. Ricordiamo che i saloni erano
stati fatti affrescare dall'Appiani e dal Traballesi, ai quali si era
aggiunto il Bossi con alcuni quadri.
Un sereno epilogo
Dal marchese Giuseppe Castiglioni (morto 1805) donna Paola ebbe
quattro maschi, tutti morti prima di lei. A parte l'amicizia col
Parini, non si conoscono suoi amori. Si sa che un suo grande
amico era il colonnello irlandese Gerald, protestante, forse
membro del Consolato, che lei voleva assolutamente
convertire,
Dopo i 70 anni iniziò a soffrire di allucinazioni acustiche e visive:
sentiva musiche bellissime e si vedeva alla corte di Luigi XV,
immersa in amenissime conversazioni. Cominciò a non alzarsi
più dal letto e a ricevere visite nella sua camera. Si spense
dolcemente il 15 luglio 1846 e venne sepolta nel foppone di S.
Gregorio.
Bibliografia
Amari, R., Calendario di donne illustri italiane, Firenze 1837, p. 17
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Storia di Milano, Enciclopedia Treccani degli Alfieri, volumi XII, XII, XIV
Verga, E., Storia della vita milanese, Milano 1931, p. 382
4.10 Vittoria Ottoboni Serbelloni
Vittoria Ottoboni Serbelloni
di Paolo Colussi e Maria Grazia Tolfo
Maria Vittoria nasce a Roma nel 1721 da Marco Ottoboni,
appartenente a una famiglia della nobiltà veneta, i duchi di
Fiano, trasferitasi a Roma al seguito di Alessandro VIII
(1689-1691), uno dei papi più nepotisti della storia pontificia.
Vittoria sposa a vent'anni il duca Gabrio Serbelloni, nato nel
1693(vedi la pagina in questo sito ), dal quale, dopo i primi anni
di matrimonio, vivrà separata.
Una vera commediante
Vittoria fu amata e ammirata da Pietro Verri (1728-1797), che su di
lei espresse giudizi encomiastici. Dichiarava di doverle la
conoscenza della "bella letteratura francese" e apprezzava la
sua grande cultura: "La storia sacra, la romana, la mitologia,
queste tre classi le possedeva a rendeva buon conto di tutte le
produzioni teatrali e di romanzi".
La Serbelloni fu innanzi tutto però una profonda conoscitrice della
letteratura francese; tradusse il teatro comico a sfondo
moraleggiante e didascalico di Destouches e lo pubblicò a
Milano dal 1754 al 1773, con un proemio del Verri celato sotto lo
pseudonimo di Modonte Priamideo. Era lei stessa una grande
attrice, che si avvaleva di drammi, commedie e cantate
composte tra gli altri da Pietro Verri e da Giorgio Giulini, da
recitare nel suo teatro privato. Il Verri tradusse per esempio in
italiano L'Oracolo del Saint-Foix e il Giulini lo musicò.
Carlo Goldoni la onorò della dedica della Sposa persiana (vedi testo
on line). Il poeta e librettista Giovanni De Gamerra (1743-1803)
la esaltò nel poema eroicomico del 1773, Corneide (c. LXXI, st.
86), perché "faceva di virtù pompa e non di nobiltà" e le dedicò I
solitari.
I Milanesi avevano una vera passione per gli spettacoli teatrali.
All'epoca in cui donna Vittoria recitava, era ancora in funzione il
teatro nel Palazzo ducale, distrutto da un'incendio nel 1776 e
sostituito provvisoriamente dal Teatro interinale nella Ca' di Can
(area Hotel Cavalieri in piazza Missori). Funzionava anche il
teatrino del Collegio dei Nobili (poi Collegio Longoni in
Fatebenefratelli, ora Questura). Alla Scala, inaugurata nel 1778,
si davano anche commedie di fantasia e si recitava alla
Cannobiana, aperta nel 1779.
Il salotto di donna Vittoria
Il De Brosses, in visita a Milano, trovava che la società milanese
fosse "più amabile e francese che in ogni altra parte d'Italia". La
tradizione salottiera milanese era già attestata da parecchio
tempo e, fra le promotrici dei salotti culturali, si trova Donna
Serbelloni, il cui salotto nel palazzo in corsia dei Servi o nelle
ville di Gorgonzola (ora Sola Busca) e Bellagio fu eterogeneo e
vivacissimo.
Rovani, con licenza poetica nel capitolo VII del suo romanzo
Cent'anni, (vedi testo on line) colloca il salotto nel nuovo
palazzo di corso Venezia e così ne immagina l'atmosfera:
"V'erano l'abate Parini, Pietro Verri, Paolo Frisi, Cesare
Beccaria, il segretario Cesare Larghi, la sorella di Gaetana
Agnesi, la non meno rinomata Maria Agnesi, la sola
compositrice di musica drammatica ricca di fantasia e di dottrina;
il pittore Londonio, il tormento dei preti, dei frati, dei vecchi.
Parini e Verri si stimavano vicendevolmente, ma si temevano
forse più di quello che si amassero. Mentre Parini tuonava, il
conte Verri era impegnato in un discorso con la marchesa
Ottoboni, alla quale proponeva, essendo essa letteratissima, di
tradurre il teatro francese applaudito, ovvero le ottime
commedie di Molière, per tentare di purgare anche il teatro
comico a Milano dalla scipita laidezza ond'era contaminato. In
altra parte Cesare Beccaria, seduto solo, anzi sdraiato su d'un
canapé, già annoiato dal peso della sua precoce corpulenza e
dalla gloria che non aveva cercato, dissimulava, sotto l'aspetto
d'una indolenza invincibile."
Il salotto di donna Vittoria faceva da cassa di risonanza a quello
aperto dal Verri nella sua casa di via Montenapoleone, che
aveva dato origine alla Società dei Pugni. Vi partecipavano,
oltre ovviamente al fratello Alessandro, il conte Luigi
Lambertenghi, il marchese Alfonso Longo, il conte Luigi Visconti
di Saliceto e altri, collaboratori anche del giornale "Il Caffè", che
si proponeva di denunciare i vizi e i pregiudizi della letteratura,
della morale, della legislazione e dell'economia. La
pubblicazione ebbe vita breve, dal 1764 al 1766, ma lasciò un
ricordo indelebile.
Gli ospiti di casa Serbelloni erano poi gli stessi confluiti nella Società
patriottica voluta da Maria Teresa per lo sviluppo dell'agricoltura,
dell'artigianato e dell'industria. Vi partecipavano infatti i Verri,
Beccaria, Frisi, Parini, Moscati; il discorso d'inaugurazione nel
1778 fu tenuto da Pietro Verri.
Il precettore Parini
Per l'educazione dei suoi figlioli, soprattutto del primogenito Gian
Galeazzo di dieci anni, donna Vittoria assunse nel 1754 un
giovane abatino, Giuseppe Parini, ordinato sacerdote in quello
stesso anno per poter usufruire di un'eredità lasciata da una
prozia. Il rapporto fra la volitiva padrona di casa e il giovane
precettore fu improntato alla maggior bonomia: la signora
incoraggiava le doti di scrittore del Parini e, c'è da supporre, lo
trattava come un figliolo.
Dovette essere per lei una grande sorpresa la ribellione che il
giovane precettore dimostrò ai suoi ordini durante il soggiorno a
Gorgonzola nel 1762. L'episodio è famosissimo e si riferisce a
uno schiaffo che Maria Vittoria diede alla giovane Sammartini,
cantante e figlia del maestro di musica Giambattista, che si era
impuntata di voler ritornare a Milano. Parini, amico del padre,
giunto a Milano nel 1760, si sentì di agire come un vero
cavaliere e si offrì di accompagnarla, scontrandosi apertamente
con la sua datrice di lavoro e abbandonando per sempre i
Serbelloni. Donna Vittoria scrive al figlio, giustificandosi per il
cambio di precettore: "J'ai du me défaire de l'Abbé Parini à
cause qu'à Gorgonzola il m'a fait une tracasserie bien
grande...".
Francesco Reina, amico e biografo di Giuseppe Parini, scrive che il
precettore si era in realtà stancato dell'ambiente di casa
Serbelloni, perché la padrona di casa invitava anche scioperati
e ignoranti, che "stuzzicavano la bile" del poeta fino a ispirargli
l'intelaiatura del Giorno.
A conoscenza di un tumore che l'aveva colpita al seno, Vittoria
Serbelloni si fece trasportare nella sua villa "La Quiete" di
Tremezzo (CO) e qui si spense, senza voler più vedere alcuno,
nel 1790.
Bibliografia
Amari, R., Calendario di donne illustri italiane, Firenze 1837, p. 17
Bandini Buti, M., Poetesse e scrittrici, Roma 1941-2 (Braid. CONS B
103/11/1-2)
Barbiera, R., Immortali e dimenticati, Milano 1901, pp. 103-114 (Braid.
13.66.B.3)
Cittolini, A., Pietro Verri e i suoi tempi, Palermo 1921
Dizionario Biografico degli Italiani, voci Arese, Castiglioni, Fagnani
Dizionario Biografico delle donne lombarde, Milano 1995, p. 633, voci Ottoboni
Vittoria
Ferri, P.L., Biblioteca femminile italiana, Padova 1842
Giulini, A., Curiosità di storia milanese, Milano 1933 (COLL Ital P2/23)
Giulini, A., Un curioso elenco di dame milanesi del Settecento (Misc 5627)
Natali, G., Il Settecento, Milano 1928, p. 136 (Braid. K 406/8/1-2)
Storia di Milano, Enciclopedia Treccani degli Alfieri, volumi XII, XII, XIV
Verga, E., Storia della vita milanese, Milano 1931, p. 382
4.11 Antonietta Fagnani in Arese Lucini
Antonietta Fagnani in Arese Lucini
di Paolo Colussi e Maria Grazia Tolfo
Una famiglia stravagante
Antonia Barbara Giulia Faustina Angiola Lucia nasce a Milano il 19
novembre 1778 nella parrocchia di S. Babila, ultimogenita del
conte Giacomo Fagnani, marchese di Gerenzano e di Costanza
Brusati dei marchesi di Settala (vedi on line i discendenti di
Costanza Brusati).
I genitori passeranno nella storia di Milano per essere due
personaggi dissoluti ed eccentrici. Appena sposati nel 1767,
intrapresero come di consueto il grand tour a Firenze, Roma e
Napoli. Ritornati a Milano nel 1769 attirarono l'attenzione
pubblica lui per la frenesia che mostrava nel dilapidare le
cospicue fortune paterne come giocatore d'azzardo; lei per le
sue civetterie e stravaganze nel vestire all'ultima moda, con
acconciature monumentali. Alcune pettinature si alzavano quasi
di un metro e avevano alla sommità fiori e frutta e tortore
svolazzanti, come nel caso del famoso puff di sentimento. Era
un tale personaggio che Laurence Sterne la citò nel cap. XXXV
del suo Viaggio sentimentale (1768).
Nel 1770 i due ripresero il grand tour per Parigi e Londra. Qui, il 25
agosto 1771 Costanza partorì una bimba, figlia pare di W.
Douglas conte di March, anch'egli famoso libertino. La bimba,
Mie-Mie, rimarrà a Londra e sposerà nel 1798 il conte di
Yarmouth, morendo nel 1856 ricchissima e pure lei votata al
libertinaggio a Parigi.
Giacomo Fagnani assunse nel gennaio 1776 con altri due
gentiluomini la gestione del ridotto della erigenda Scala,
relativamente al gioco d'azzardo che vi si teneva, ma il 1° giugno
1781 dovette essere interdetto per l'avanzato degrado fisico a
causa della sifilide. Costanza si mostrò in questo frangente una
moglie "comprensiva e devota". C'è una sua ironica descrizione
in un "Avviso" di Milano, una sorta di Gazzettino del tempo:
"Trovasi alla campagna il cieco mentecatto Fagnani. L'amorosa
sua moglie vi si porta a visitarlo regolarmente una volta alla
settimana in compagnia del professor antiprolifico (Pietro)
Moscati. Vanno ambi vestiti a "la Levite" color carne con fasce
celesti, cappelli e scarpe bianche, in un magnifico carrettino con
livree e postiglioni che non volgonsi indietro, infine un
equipaggio che tutta spira asiatica galanteria". Il Fagnani morì
cieco e demente il 7 giugno 1785, a 45 anni. Costanza,
convertitasi dopo una vita sregolata, morì a Milano il 24 gennaio
1805, a 58 anni.
Un cuore di cervello
Antonietta sposa il 20 febbraio 1798 in S. Maria alla Porta il
marchese Marco Arese Lucini, nato a Milano il 9 febbraio 1770 e,
ancora giovanissimo, entrato a far parte del collegio milanese di
giureconsulti. All'arrivo dei Francesi era stato chiamato da
Napoleone a partecipare all'amministrazione centrale del
Dipartimento dell'Olona (22 luglio 1797) e in novembre era stato
eletto a far parte del Consiglio degli Juniori per il dipartimento
della Montagna. Un austero magistrato, quindi, sposa la frivola
Antonietta.
Dopo il grand tour d'obbligo, Marco Arese viene nominato nella
Consulta di Lione deputato dei notabili per il Dipartimento
dell'Olona al posto dell'anziano padre. L'Arese è deciso a
battersi per la proporzionalità dei tributi, l'abolizione della libertà
di stampa e la restaurazione della religione, interpretando i
sentimenti della nuova politica napoleonica. E' un vero
conservatore. Viene inviato con incarichi speciali presso
Napoleone a Parigi nel 1805 e nel 1811 e nel 1812 è creato
barone del Regno.
La moglie Antonietta è considerata una delle figure di maggior
spicco della brillante società milanese del Consolato e
dell'Impero, venendo ammessa alla corte del vicerè Eugenio e
legandosi con un caldo rapporto d'amicizia alla regina d'Olanda
Ortensia Beauharnais.
La Fagnani conosceva il francese, l'inglese e il tedesco, tanto che
aiutò il Foscolo nella revisione della prima stesura del 1798 delle
Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), traducendogli
letterariamente I dolori del giovane Werther di Goethe. La sua
passione per Ugo Foscolo fu breve ma intensa e si snodò sullo
sfondo del palco della Scala F n° 14 del 1° ordine. Ci è noto
attraverso le sole lettere del Foscolo e sembra aver avuto inizio
nel torrido luglio 1801. A lei l'esuberante poeta dedicò All'amica
risanata (vedi testo on line). "La contessa in sul principio sentì
l'orgoglio di avere nel proprio dominio quella fiera generosa e
indomita", ma si stancò ben presto, suscitando la gelosia del
poeta che arrivò a somministrarle una scudisciata quando la
colse in atteggiamento inequivocabile con un giovane graduato.
Il 4 marzo 1803 l'avventura amorosa era già conclusa, con uno
strascico di malattie veneree di cui i due si palleggiavano la
responsabilità del contagio. Foscolo scrisse al Pecchio che
Antonietta "aveva il cuore fatto di cervello" e come tale la
Fagnani passò alla storia. Ma la sua immagine è in ogni caso
molto controversa: Stendhal la definì "femme de génie", Monti la
stimava moltissimo, Rovani la immortalò nel cap. XV del suo
libro Cent'anni (vedi testo on line):
" La contessa A..., bellissima fra le belle, aveva molto spirito, molto
ingegno, molta coltura (parlava quattro lingue); era buona,
generosa e affabile; costituiva insomma il complesso rarissimo
di egrege qualità; ma tutte parevano sfasciarsi sotto l'uragano di
un difetto solo. Ella faceva dell'amore l'unico passatempo; ma
un passatempo tumultuoso, fremebondo, irrequieto; né occorre
il dire che quell'amore era parente di quello rimasto nudo in
Grecia, come disse Foscolo. Ma lo stesso Foscolo si trovò un
bel giorno avvolto e impigliato nell'ampia rete che la contessa
teneva sempre immersa nella grande peschiera della capitale
lombarda.
Il lettore non può immaginarsi quanti belli e cari giovinetti si
trovarono a sbatter le pinne convulse in quella rete ognora
protesa: giovani cari e belli, e, ciò che fu il danno, senza punto
d'esperienza, che pigliando fieramente in sul serio le care
lusinghe di quella sirena, ebbero poi a subire disinganni orridi.
Ma non solo i giovinetti di prima cottura, non solo i paperi
innocenti del ruscelletto, ma frolli don Giovanni e grossi topi
veterani del Seveso, dovettero sovente parer novizi al contatto
maliardo di quella donna. Colei, lo ripetiamo, non era cattiva, ma
nel suo intelletto e nel suo cuore non era mai penetrata l'idea
della costanza in amore. Né è a credere che non amasse;
amava assai, amava ardentemente; e nei primi istanti che le
entrava nel sangue la scintilla incendiaria, ella non aveva pace e
si struggeva finché non avesse potuto accostare l'oggetto dei
suoi desideri. Ma un amante nelle sue mani non era né più né
meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiotto. In pochi
momenti non rimanevano che le ossa, e la fame chiedeva tosto
altro cibo. Ella era tanto bella e cara e seducente, e nel periodo
acuto del suo innamoramento faceva provare tali estasi a chi ne
era il passeggero oggetto, che questi subiva tosto quella
passione acuta che non soffre commensali alla medesima tavola.
Ognuno voleva essere il solo possessore di quel caro bene. Ma
il caro bene non volendo vincoli di sorta, e dando accademia
d'amore, metteva tosto alla porta i pretendenti che ambivano un
trono assoluto, ed erano avversissimi alla monarchia mista."
Più psicologico il giudizio di Giuseppe Pecchio, che disse di lei "si fa
gioco degli uomini perché li crede nati come i galli per amare,
ingelosirsi e azzuffarsi".
Una madre invadente
Marco Arese finse di non accorgersi di questo trambusto
sentimentale della moglie. Ebbero cinque figli, dei quali solo tre
sopravvissero: Margherita (1798-1828), sposata a C.E. Cotti;
Costanza Maria (1803-1822) e Francesco (12.8.1805-1881).
Alla caduta di Napoleone, Marco Arese si ritirò a vita privata. Il
Comune di Milano lo mandò quale inviato speciale presso
Francesco I d'Austria, ma non entrò mai a far parte del governo
cittadino, preferendo appartarsi. Non così fecero, con suo
grande disappunto, suo fratello Francesco Teodoro e suo figlio
Francesco.
Francesco Teodoro aveva legami d'amicizia con G. Pecchio e F.
Confalonieri per cui appoggiò i moti carbonari, pur senza aderire
alla società segreta dei Federati. Falliti i moti del 1822, l'Arese
venne arrestato e, per seguire il suo personale codice d'onore,
preferì confessare la verità piuttosto che negare o mentire,
compromettendo ulteriormente il Confalonieri. Passò così tre
anni di reclusione allo Spielberg.
Antonietta, anche se era stata ben inserita presso la corte del Regno
d'Italia, non si perse d'animo con la Restaurazione, stringendo
nuovamente buoni rapporti con la corte austriaca. Suo figlio
Francesco rimase inizialmente filo-bonapartista, nonostante
l'ostilità della madre, più che determinata a farlo sposare con
una damigella austriacante. Antonientta aveva brigato per
ottenere un'amnistia per il figlio, concessa a patto che fosse lui
stesso a chiederla all'imperatore. Francesco rifiutò con sdegno e
Antonietta, "abituata a dirigere tutto e imperiosa" gli tolse i viveri.
Francesco aderì nell'autunno 1831 alla Giovane Italia di Mazzini,
promossa a Milano da Luigi Tinelli, l'industriale ceramista di S.
Cristoforo sul Naviglio. Alla fine del 1833 si ebbero già i primi
arresti per i cospiratori, fra cui Cesare Cantù e nel settembre
1834, quando si riaprirono inchieste e processi, Francesco si
arruolò per tre anni nella Legione straniera.
Riparò presso la regina Ortensia, amica della mamma, nel castello di
Arenenberg (CH) e qui rinsaldò i legami d'amicizia con Luigi
Carlo Napoleone (nato nel 1808), figlio dell'ex re di Olanda, che
aveva partecipato nel febbraio 1831 all'insurrezione della
Romagna contro lo Stato pontificio. Luigi Carlo si era sentito
investito della missione di rappresentare l'idea bona partista
dopo la morte del cugino, figlio di Napoleone, nel 1832. Quando
Francesco Arese lo raggiunse in Svizzera, Luigi Carlo aveva
appena pubblicato le sue Fantasticherie politiche (1833), che
esponevano la sua idea di nazionalità e l'obiettivo del
miglioramento delle condizioni di vita del popolo, realizzabili con
la restaurazione dell'impero.
Francesco Arese seguì Luigi Carlo nel 1836 a New York, dove dal
marzo 1835 si trovava F. Confalonieri, graziato in seguito
all'incoronazione di Ferdinando I. Non è escluso che Francesco
partecipasse al tentativo di rovesciare Luigi Filippo, fatto a
Strasburgo il 30 ottobre 1836 e fallito miseramente. Rientrato in
Italia dopo l'amnistia concessa il 6 settembre 1838 per
l'incoronazione a re del Lombardo-Veneto dell'imperatore
Ferdinando, Francesco si piegò finalmente alla ferrea volontà
materna e accondiscese a sposare nel 1839 Carolina Fontanelli,
figlia del generale Achille, già ministro della guerra nel regime
napoleonico, rientrato nell'esercito austriaco.
Gravemente malata, nell'ottobre 1847 Antonietta fu spostata a
Genova, dove si spense l'11 dicembre 1847. A suo ricordo
rimase il balconcino di casa Arese in corso Venezia e la
leggenda del suo fantasma, che si affacciava con in testa il
cappello di paglia forse a scrutare i bei giovanotti che si
attardavano lungo il corso nelle notti di luna piena.
Marco Arese la seguì il 16 gennaio 1852, Francesco Arese
continuerà la sua carriera politica nel governo del Regno
dell'Italia unita.
Bibliografia
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Bandini Buti, M., Poetesse e scrittrici, Roma 1941-2 (Braid. CONS B
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Mestica, G., Lettere amorose di Antonietta Fagnani, Firenze 1887
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Storia di Milano, Enciclopedia Treccani degli Alfieri, volumi XII, XII, XIV
Verga, E., Storia della vita milanese, Milano 1931, p. 382
4.12 Bianca Milesi, la maestra giardiniera dei
moti del 1821
Bianca Milesi, la maestra giardiniera dei moti
del 1821
di Maria Grazia Tolfo
In via Lauro n° 6 (ex 1845) si nota una casa con andamento a
sghimbescio. E' una casa nobile, con un elegante portale e
cortile con due tratti di portico. Nell'Ottocento ne era
proprietaria la famiglia Milesi, di origine bergamasca, venuta a
Milano intorno alla metà del Settecento per commerciare in
ferro, legname e bestiame e quindi investendo nell'agricoltura
della Bassa.
Giovan Battista Milesi ed Elena Marliani di Mantova avevano avuto
cinque figlie - Antonietta, Francesca, Agostina, Luisa, Bianca e un maschio, Carlo, che sposerà Elena Viscontini, sorella di
Matilde Demboski. I Viscontini e i Milesi erano cugini germani
per parte materna.
Bianca, la più giovane delle sorelle Milesi, nacque il 22 maggio 1790.
Studiò in un convento a Firenze, poi in S. Sofia a Milano e
infine in S. Spirito. Il padre morì già nel 1804. Infervorata dalle
idee sansimoniane di uguaglianza, Bianca, con buona pace di
sua madre, si tagliò le trecce, sfoggiando una corta zazzera, si
vestì di abiti di lana scura e indossò grosse scarpe, che le
conferivano un'andatura mascolina, giurando di dedicare la vita
allo studio e alla pittura..
La madre era in amicizia con Gaetano Cattaneo, che fondava allora
il Gabinetto numismatico a Brera, e riceveva nel suo salotto
Andrea Appiani, Giuseppe Bossi e il Longhi, dei quali Bianca fu
entusiasta allieva. La signora Viscontini apparteneva al gruppo
di milanesi insofferenti alle soperchierie del governo del Regno
d'Italia, per cui nella sua casa trovavano ospitalità nel 1813 le
riunioni con Federico Confalonieri, Benigno Bossi e il generale
Pino che, in contrasto col vicerè Eugenio, si illudeva di arrivare
molto in alto in caso di autonomia del governo lombardo.
Sembra però che la signora fosse estranea all'assassinio del
ministro Prina.
Bianca nel frattempo faceva il suo viaggio di formazione in Italia. A
Roma strinse amicizia con Sofia Reinhard, un'inglese colta che
"si procacciava con modi virilmente austeri la virile libertà rara a
quei tempi" (Alessi), ossia un'altra seguace di Saint Simon. Il
fatto che Bianca scrivesse poi una biografia della poetessa
Saffo suggerì che dovesse condividerne le tendenze
omosessuali, ma su questo aspetto i biografi glissano. Saputo
del
definitivo
crollo
napoleonico,
la
Milesi
tornò
avventurosamente via mare a Milano, dove decise di dedicarsi
attivamente alla vita politica cittadina. Nel 1817 a Zurigo
conobbe Pestalozzi, a Heidelberg ritrovò Sofia Reinhard.
Nel 1814 era apparsa in Piemonte la Società dei Federati, introdotta
a Milano nel 1820, il cui scopo era di far scoppiare una rivolta
nel capoluogo lombardo. Bianca si affiliò come Maestra
giardiniera con Teresa Confalonieri, la cugina Matilde
Dembowski, Giulia Caffarelli, moglie dell'ex ministro della
guerra del Regno italico, Camilla Besana Fé, Cristina
Belgioioso e le sorelle Cobianchi. Avevano una parola d'ordine
per riconoscersi: Onore, virtù e probità per le giardiniere di 2°
grado, Costanza e perseveranza per quelle del 1° grado; il
segnale di riconoscimento era di passare la mano destra dalla
spalla sinistra alla destra, poi di portarla al cuore, battendo tre
volte. Si mormorava che le giardiniere portassero per ogni
evenienza il pugnale nelle giarrettiere!
Insieme al conte Federico Confalonieri e al conte Giuseppe Pecchio
Bianca fondò le Scuole di Mutuo Insegnamento, uno degli
aspetti più interessanti dell'azione dei Federati, con lo scopo di
far prendere coscienza agli abitanti della penisola della lingua e
della storia comune. Giuseppe Pecchio (1785-1835), studioso
di economia e collaboratore del “Conciliatore”, era secondo
Stendhal "un uomo di infinita intelligenza e di una intelligenza
molto rara in Italia". Le Scuole erano appoggiate infatti al
circolo del “Conciliatore”, che sosteneva la necessità di
un'istruzione professionale delle classi inferiori. Nella visione
pedagogica del Confalonieri, aristocratico-progressista,
l'accostamento del popolo allo studio doveva essere funzionale
a un maggior rendimento del lavoro manuale. Secondo le sue
parole: "Quella istruzione che serve a perfezionare e migliorare
l'individuo nella sfera di attività che deve occupare è utile e
vantaggiosa; quella che tende a dargli i bisogni e l'attitudine di
quella sfera di cui gliene è intercluso l'esercizio può
considerarsi dannosa".
L'Austria ordinò la chiusura delle scuole all'inizio d'agosto 1820,
anche dietro pressione della Chiesa che vedeva nelle scuole
delle concorrenti temibili. Anche se le era ormai precluso
l'insegnamento, Bianca non si fece da parte: nel 1821 i
rivoluzionari piemontesi incitavano gli studenti di Pavia ad
arruolarsi nel battaglione Minerva per combattere gli Austriaci.
Bianca disegnò l'emblema per la bandiera del battaglione e la
polizia austriaca la schedò come "rivoluzionaria, caldeggiante
in casa Confalonieri il pensiero di aiutare gli insorti e votata alla
causa liberale" (ASM, Atti segreti, Cartella XXIII).
La polizia fu informata dei progetti rivoluzionari dei Federati da una
lettera anonima di Carlo de Castilla, affiliato alla Società. Dopo
una perquisizione in casa del fratello del delatore, Gaetano de
Castilla, furono trovate alcune lettere che compromettevano
Bianca Milesi. Gaetano aveva dichiarato che una lettera
contenente un foglio di carta bianco con intagli orizzontali - la
famosa carta stratagliata -, era di mano di Bianca. La carta era
detta anche cartolina à jour o crittografico della grata; si
conserva quella sequestrata al de Castilla all'Archivio di Stato
(Atti della Presidenza di Governo, busta LXII, n° 116). La Milesi
venne interrogata a casa sua, ma negò di aver mai spedito a
Gaetano una simile lettera, non riconoscendo la sua scrittura.
Volle che fosse perquisita l'intera abitazione e non si trovò
niente di compromettente.
Ormai Bianca non era più al sicuro: dopo il luglio 1822 fuggì a
Ginevra, dove presso lo storico Sismondi si erano riuniti Filippo
Buonarroti e Pellegrino Rossi; poi si mise a viaggiare attraverso
Svizzera, Francia, Belgio, Olanda e Inghilterra. Dopo quattro
anni di peregrinazioni, esauriti i processi politici, tornò in Italia e,
dopo il matrimonio nel gennaio 1825 con il dottor Mojon,
genovese, si stabilì nel capoluogo ligure, dove Stendhal la
incontrò nel luglio 1827. Qui la Milesi fungeva da smistamento
per i patrioti lombardi, ospitando nel 1829 anche Cristina
Trivulzio di Belgioioso e frequentando Giuseppe Mazzini. Dal
1833 visse a Parigi, dove morì di colera col marito nel 1849.
Nel 1832 abitava in un appartamento di casa Milesi Carlo Demboski,
figlio di Matilde Viscontini. Il solo ritratto di Carlo è un
acquarello di Luigi Ferraro (cm 12,9) realizzato su disegno di
Bianca Milesi, donato inizialmente al Museo del Risorgimento
da Gennaro Viscontini, nipote di Ercole e ultimo discendente di
questa famiglia.
Carlo venne coinvolto nel 1833 in un duello alla sciabola, nel quale
perse la vita il conte Pompeo Grisoni, un ussaro. Poiché Carlo
faceva parte della Giovane Italia, fuggì prima presso gli
Arconati-Viscontini a Romagnano Sesia, poi presso i D'Adda a
Varallo e quindi a Lugano. Queste fughe continue
accentuarono le sue psicosi e Carlo non si riprese più: fuori e
dentro case di cura, assistito dal fratello minore Ercole,
continuava a ferirsi gravemente, tentando di mutilarsi. Dopo
vent'anni di sofferenze e cure inefficaci, morì suicida nel 1853.
Bibliografia
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Pillepich Alain, Stendhal à Milan, in “Stendhal Club”, 129 (1990); 131
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Pincherle, In compagnia di Stendhal, Milano 1967 (Sormani L COLL
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Stendhal, Vita di Henry Brullard, Bompiani, Milano 1944
Souvestre E., Blanche Milesi Mojon. Notes biographiques, Parigi
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Trompeo P.P., Nell'Italia romantica sulle orme di Stendhal, Roma
1924 (Sormani M CONS 976)
4.13 Cristina Trivulzio di Belgioioso, la donna
che visse cinque volte
Cristina Trivulzio di Belgioioso, la donna che
visse cinque volte
di Paolo Colussi
Nata a Milano nel palazzo di piazza sant'Alessandro il 28 giugno
1808 e battezzata nella chiesa omonima con ben dodici nomi,
Cristina Trivulzio era destinata ad avere, se non dodici,
certamente almeno cinque vite diverse, tutte avvincenti come
un romanzo.
E' difficile, tra tanta abbondanza di fatti, atteggiamenti ed idee,
trovare gli aggettivi capaci di dirci in sintesi chi fu questo
personaggio, troppo noto in vita ed oggi relegato in un angolino
della memoria collettiva. (La via Cristina Belgioioso a Milano si
trova a Roserio, dopo lo svincolo autostradale, e porta a Pero.)
Di lei si è detto tutto il bene e tutto il male possibile, quand'era in vita
e anche dopo la sua morte per molti anni. In seguito, dopo un
silenzio durato molti decenni, è iniziato a riaffiorare un
personaggio sempre più positivo, sempre più forte, ed oggi
esistono numerose sue biografie che la dipingono come
un'eroina lombarda, inflessibile e tenace: la "madre di tutti i
femminismi".
La Princesse ruinée
Questo è il primo personaggio che incontriamo. La piccola Cristina
cresce gracile e malaticcia in una famiglia scombinata. Il padre,
tutto preso dalle memoria degli antenati, muore a 32 anni
quando Cristina ne ha solo quattro, lasciandola unica erede del
suo ramo. La madre, una donna di buon carattere e incline a
godersi la vita più allegramente possibile, si risposa subito con
Alessandro Visconti d'Aragona, dal quale avrà tre figlie e un
figlio. Cristina passa l'infanzia a studiare e a trastullare i
fratellastri, si trova bene con il patrigno finché questi, coinvolto
negli arresti dei Carbonari, pur scampando allo Spielberg, resta
profondamente scosso dalla disavventura trasformandosi in
una larva abulica e piagnucolosa. La madre, dal canto suo, si
consola subito con un conte napoletano, allegro e buon
suonatore di flauto.
A sedici anni, destinata ad un triste cugino, figlio del tutore, si ribella
e sposa (24 settembre 1824) invece Emilio di Belgioioso, bello,
giovane e grande conquistatore di cuori femminili. L'enorme
dote di una delle più ricche ereditiere d'Italia convince subito il
giovanotto, che aveva già intaccato seriamente il proprio
patrimonio.
Cristina si accorge presto dello sbaglio, l'unico veramente grave
della sua vita. Già soffriva di crisi epilettiche, un male che la
tormenterà a fasi alterne per tutta la sua esistenza, ora si
aggiunge la sifilide contratta dal marito (1826). Quando
quest'ultimo, che andava in giro con la carrozza di Lord Byron un'enorme vettura arredata con due letti - , le propone con
convivere con la sua nuova amante, Cristina si ribella, lascia
Milano e inizia a vivere davvero la propria vita (dicembre 1828).
Da principio tutto sembra bello: lasciati alle spalle i pettegolezzi
ostili dei nobili milanesi viaggia per l'Italia incontrando persone
interessanti e interessate alla sua persona. E' bella, una
bellezza strana che affascina e incuriosisce. I capelli neri
circondano un viso ovale pallidissimo dominato da due grandi
occhi che guardano fisso, senza mai battere le palpebre.
Soggiorna a Genova, Roma (aprile-maggio 1829), Napoli e Firenze
(1830). In maggio è a Ginevra. In queste città, però, frequenta
anche personaggi sospetti alla ultrasospettosa polizia austriaca
di Milano. Le spie austriache si interessano a lei, già "colpevole"
per la bigotta burocrazia asburgica di avere abbandonato il
marito. Alla fine, durante un soggiorno a Lugano (giugno-luglio
1830), manifesta aperta simpatia nei confronti del partito
repubblicano vincitore delle elezioni in quella città (settembre
1830) ed è la goccia che fa traboccare il vaso. Le viene ingiunto
di rientrare a Milano. Forse non ci sarebbero state sanzioni
contro di lei, ma Cristina teme di venire rinchiusa in convento e
scappa in Francia. Quel giorno, il 19 novembre 1830, una
giovane principessa amante dei balli e delle brillanti
conversazioni viene così trasformata in una eroina
rivoluzionaria. Confiscati i beni, Cristina si ritrova a ricamare la
bandiera per l'infelice spedizione nella Savoia organizzata dai
patrioti esuli, infervorati dagli avvenimenti del marzo 1831. In
Provenza conosce Augustin Thierry.
Fallita la spedizione, Cristina, che ha speso i pochi soldi che aveva
portato con sè (ed ha anche firmato due pesanti cambiali) arriva
in aprile a Parigi con una lettera di Thierry per François Mignet.
Il soggiorno a Parigi, dal 1831 al 1840, è un romanzo. Corteggiata
da tutti, adorata dal vecchio generale Lafayette, Cristina vive
una stagione eccezionale, ancora ben presente nella storia
della letteratura francese. Abita da principio in rue Vignon 7
accanto alla Madeleine, scrive articoli sul “Constitutionel” e dà
lezioni di disegno e pittura. Appena riesce a recuperare parte
delle sue rendite, apre un salotto famoso in rue d’Anjou, una
traversa del Foubourg St. Honoré. De Musset, Balzac, Listz,
Heine, Bellini sono innamorati di lei, ciascuno a suo modo. Tutti
vengono respinti con garbo e civetteria. Le simpatie si rivolgono
piuttosto a personaggi più austeri, agli intellettuali e ai politici
che dominano la scena del nuovo regno orleanista di Luigi
Filippo, l'ultimo discendente di Valentina Visconti a sedere sul
trono di Francia. Tra questi vi sono: lo storico Augustin Thierry, il
politico e futuro presidente delle Repubblica francese Adolphe
Thiers e infine François Mignet.
François Mignet era un giovane bellissimo, grande oratore e insigne
storico. Era stato uno dei principali artefici della rivoluzione
orleanista, ma aveva rinunciato subito a trarre vantaggi politici
dalla sua popolarità accontentandosi del posto di direttore degli
Archivi degli Affari Esteri dove poteva continuare i suoi diletti
studi.
Quest'uomo molto schivo e riservato, tanto schivo verso il gentil
sesso da sollevare voci su una sua presunta impotenza
sessuale, diventerà prima l'amico più fedele e poi il marito
segreto di Cristina. Da questo rapporto molto riservato tra i due,
dopo una gravidanza semiclandestina a Versailles, il 23
dicembre 1838 nascerà una bambina: Maria.
La paternità di Mignet non sarà mai rivelata apertamente, nemmeno
nel loro carteggio, resta un'ipotesi, fondata su numerosi e solidi
indizi, che oggi è accettata da tutti. Ufficialmente, per ragioni
dinastiche più che economiche, Maria sarà sempre figlia di
Emilio di Belgioioso, che proprio in quel periodo era ospite di
Cristina a Parigi.
La riformatrice sociale
La nascita di Maria segna l'inizio della seconda vita di Cristina. Il
clima persecutorio della polizia austriaca si è molto attenuato
dopo l'incoronazione del nuovo imperatore ed è quindi possibile
il ritorno a Milano, che avviene nel luglio 1840. Cristina, però, a
causa della bambina, teme ancora più di prima le maldicenze.
Lo stesso Manzoni la farà mettere alla porta quando Cristina
vorrà dare l'ultimo saluto alla madre morente del grande
romanziere. Si stabilisce quindi a Locate, a sud di Milano, feudo
dei Trivulzio da quando il grande Gian Giacomo lo aveva
"comperato" dall'abbazia di Chiaravalle.
La povertà, l'ignoranza, le malattie dei contadini di Locate mettono
davanti agli occhi di Cristina una realtà molto diversa da quella
dei salotti parigini. Pensava di chiudersi nella sua grande casa
a studiare e a crescere la sua bambina, invece si lascia
prendere interamente dai problemi dell'ambiente che la
circonda e così, con l'aiuto di alcune teorie utopistiche ascoltate
in Francia - saintsimoniane e fourieriste - si improvvisa
riformatrice sociale.
La principessa dal fascino misterioso, civetta e "commediante" per le
molte rivali francesi, diventa di colpo una lombarda dai modi
pratici e decisi. Prima di tutto vanno sistemati i bambini, ed ecco
un asilo che verrà giudicato in termini entusiastici da Ferrante
Aporti, poi vengono le scuole, maschili e femminili, con grande
scandalo dei nobili lombardi e del buon Manzoni che non
capisce perché si debbano istruire i contadini. Il paese si
trasforma, dapprima è diffidente, poi accoglie le innovazioni con
gioia, anche perché la Signora segue attentamente ogni
iniziativa e ne garantisce il buon esito.
Nel frattempo, in sintonia con i nuovi panni indossati a Locate,
Cristina studia e pubblica le sue prime opere: il Saggio sulla
formazione del dogma cattolico e la traduzione in francese della
Opere di Gian Battista Vico, con un'ampia introduzione. Scritti
entrambi in francese e pubblicati in Francia, questi libri rendono
ancora più ostile nei suoi confronti l'ambiente milanese e non
solo milanese. E' il colmo! Non solo questa donna dà lezioni di
economia agraria e di buona amministrazione ai proprietari
terrieri lombardi, ma invade addirittura il campo della filosofia e apriti cielo! - della teologia. Nel 1843 Lehman le fa il celebre
ritratto.
La rivoluzionaria
I tempi intanto stanno cambiando in fretta. L'intera Europa inizia dal
1845 a dare segni di turbolenza, e Cristina non si fa trovare
impreparata. Nel febbraio del '45 rileva una rivista patriottica, la
"Gazzetta italiana", in gravi difficoltà economiche e la trasforma
l'anno dopo in una rivista, l'"Ausonio", sul modello della celebre
"Revue des Deux Mondes". Nel 1846 scrive sotto falso nome la
Storia della Lombardia con le critiche al Confalonieri che
faranno molto arrabbiare i patrioti milanesi.
I patrioti italiani, negli anni che preparano il '48, sono intenti a litigare
tra loro furiosamente e non fanno quindi fatica ad accanirsi
anche contro una rivista diretta da una donna. Cristina tira
diritto orientandosi sempre più verso una soluzione unitaria e
monarchica sotto l'egida dei Savoia. Nel '47 viaggia in tutta
l'Italia allacciando rapporti con i maggiori esponenti del
Risorgimento: Cavour, Cesare Balbo, Nicolò Tommaseo,
Giuseppe Montanelli e molti altri. Fa visita anche a Carlo
Alberto.
I disordini a Milano del 2 gennaio 1848 in occasione dello sciopero
del tabacco la trovano a Roma. Si parla di un mandato di
arresto contro di lei. Da questo momento da giornalista diventa
rivoluzionaria. Gli avvenimenti del '48 e del '49 la trovano
sempre in prima linea. Dopo le Cinque Giornate arriva a Milano
guidando la "Divisione Belgioioso", un gruppo di circa 200
volontari da lei reclutati e trasportati in piroscafo a Genova e da
lì a Milano. Nel pieno della battaglia politica muore l’amato
segretario Stelzi, che verrà il seguito sepolto a Locate nello
stesso cimitero dove riposerà la salma di Cristina. Le vicende
del cadavere “imbalsamato” dello Stelzi, raccontate
romanzescamente dal Barbiera, alimenteranno dopo la sua
morte la leggenda della sua necrofilia.
La delusione per il "tradimento" di Carlo Alberto a Milano la fa
avvicinare ai repubblicani ed eccola a Parigi con Carlo Cattaneo
a difendere la condotta dei milanesi durante le Cinque Giornate,
diffamata dagli emissari austriaci e piemontesi. Delusa
dall'atteggiamento del governo francese, si unisce ai patrioti
della Repubblica Romana, adoperandosi giorno e notte negli
ospedali durante l'assedio della città. Ed ecco un colpo di genio:
di fronte all'emergenza ed al caos degli ospedali romani,
Cristina inventa le "infermiere". Fino a quel momento negli
ospedali ad aiutare i medici c'erano solo i "facchini" per il
trasporto dei malati, gli attuali portantini. Da buona milanese,
memore delle "dame della crociera" della Ca' Granda, Cristina
pensa ad un corpo di volontarie laiche dedite ad aiutare i malati,
ad assisterli e a confortarli. Assolda così uno stuolo di dame, di
borghesi e ... di prostitute. La presenza di queste ultime, negata
da Cristina in una lettera al papa, ma da lei ammessa nel
carteggio privato con l'amica Caroline Jaubert, creerà un grave
scandalo quando questo carteggio verrà pubblicato a Parigi
dall'amica con il permesso, più o meno tacito, dell'autrice.
L'avventura romana finisce, come è noto, molto male. Dopo essersi
battuta in tutti i modi per salvaguardare i feriti e i prigionieri,
Cristina deve riparare in fretta a Civitavecchia e fuggire a Malta.
Da Malta, poi da Atene, e infine da Costantinopoli vengono
scritte le lettere sopra ricordate che saranno in seguito
pubblicate nel volume Ricordi nell'esilio, un’opera recentemente
ristampata in Italia, anche se già irreperibile.
L'Oriente
Odiata dai milanesi, odiata dai patrioti per i suoi Ricordi, furibonda
contro gli amici francesi colpevoli di aver appoggiato la
spedizione del generale Oudinot contro la Repubblica Romana,
Cristina, con la figlia e l'istitutrice inglese, lascia l'Europa.
E' amareggiata e delusa, ma tutt'altro che vinta. Inizia una nuova vita
di pioniere, di reporter, di principessa. Acquista una piccola valle
in Cappadocia e vi fonda una colonia agricola aperta ai profughi
italiani. L'esperienza di Locate le serve per avviare programmi
di riqualificazione agricola dei terreni, senza dimenticare la
popolazione turca che viene assistita e curata come se fossero i
suoi contadini. La vita da Signora feudale con un gruppo di
profughi sbandati non troppo volonterosi si rivela però difficile e
avara di soddisfazioni. Il colpo di stato del 2 dicembre 1851 che
dà a Luigi Napoleone il potere assoluto in Francia la amareggia
ancora di più, e così, nel gennaio 1852, inizia il viaggio in Terra
Santa, un'avventura nell'avventura che nel giro di un anno
condurrà la strana comitiva, mista di turchi ed europei, a visitare
i posti più sperduti e selvaggi del Vicino Oriente.
Del soggiorno in Turchia e del suo viaggio attraverso l'Anatolia, la
Siria, il Libano e la Palestina, Cristina parlerà in molti articoli,
interessanti soprattutto per lo sguardo acuto e dissacrante con il
quale vengono smontati i miti dell'Oriente esotico, fastoso ed
opulento. Vengono invece messe spietatamente a nudo le
miserie di una società dove mancano gli affetti famigliari, dove
la sporcizia regna ovunque, dove le donne sono abbandonate
all'ignoranza, alla pigrizia, alla stupidità. In questi resoconti si
coglie meglio che in ogni altra pagina il suo vero credo, che era
riformista e cristiano. E' ormai una donna matura quella che
scrive dalla Turchia, ma ancora molto energica e coraggiosa. La
prova più difficile viene subito dopo il ritorno da Gerusalemme.
Un profugo bergamasco al quale era stata data una casa e un
lavoro, rimproverato perché aveva malmenato l'istitutrice
inglese con la quale aveva stretto una relazione, accecato
dall'odio colpisce Cristina con cinque coltellate nel luglio 1853.
Le ferite non sono mortali, nella confusione generale è lei
stessa a dirigere i suoi soccorritori e ad istruirli su come
prestarle le prime cure, ma da questa disavventura ne uscirà
piuttosto male. Invecchiata, storta nella figura, debilitata, ritorna
in Italia tre anni dopo, non appena il governo austriaco, di nuovo
"paterno" verso i fuorusciti, le dissequestra i beni.
La madre nobile
Nel novembre 1855 è a Parigi nella casa di rue di Montparnasse 28
che aveva fatto costruire negli anni ‘40. Nel gennaio del 1856 è
di nuovo a Locate (tiene un appartementino a Milano). Nel giro
di pochi mesi muoiono molti dei suoi vecchi amici: Heine,
Thierry, De Musset. Il rapporto con Mignet si è del tutto
raffreddato. Nel novembre 1860 vende la casa di Parigi.
Muore anche Emilio di Belgioioso, sfigurato e privo di ragione per via
della sifilide. Fino all'ultimo Cristina cerca di ottenere dal marito
il riconoscimento della figlia, senza riuscirci. E' questa l'ultima
delle sue battaglie. Maria ha ormai vent'anni, non ha ancora un
nome e se non verrà riconosciuta dai Belgioioso non potrà
essere riconosciuta nemmeno dalla madre. Finalmente, alla
fine del 1860, il riconoscimento arriva, e Maria, appena giunta
ad essere una Barbiano di Belgioioso, diventa marchesa Trotti
sposando a Locate (24 gennaio 1861) un vedovo, onesto e
gentile, con l'assenso pieno di Cristina che conclude così la sua
difficile missione di madre. Non del tutto, però. Il primo e difficile
parto di Maria farà soffrire la neo-nonna più di qualsiasi altra
sua avventura. E' questa l'unica volta che, leggendo le sue
lettere, la troviamo sopraffatta dal panico e dallo smarrimento.
La bambina viene chiamata Cristina. Trascorrerà l’estate nella
villa di Blevio.
Gli ultimi dieci anni, morirà il 5 luglio 1871 nella casa della figlia a
Milano, non li trascorre a fare la calza. Fonda un giornale,
l'"Italie", destinato a pubblicizzare in Europa la politica italiana,
scrive saggi politici e, nel primo numero della rivista "Nuova
Antologia", su richiesta del vecchio amico Terenzio Mamiani
pubblica il saggio "Della presente condizione delle donne e del
loro avvenire" che si conclude con queste parole:
"Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere
tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne
che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche
gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la
via alla non mai prima goduta, forse appena sognata felicità!"
Opere di Cristina di Belgioioso reperibili nella biblioteche lombarde
Biografie di Cristina di Belgioioso
Archer Brombert, Brett, Cristina Belgiojoso, Milano, Dall'Oglio 1981
Barbiera, Raffaello, La principessa di Belgioioso, Milano, Treves
1894
Barbiera, Raffaello, Passioni del Risorgimento. Nuove pagine sulla
Principessa Belgiojoso e il suo tempo, Milano, Treves 1903
Cazzulani, Elena, Cristina di Belgiojoso, Lodi, Lodigraf, 1982 (Brera
T 82 D 230)
Gattey, Charles Neilson, Cristina di Belgiojoso [A bird of curious
plumage], Firenze, Vallardi 1974 (Brera T 74 D 196)
Guicciardi, Emilio, Cristina di Belgiojoso Trivulzio cento anni dopo,
Milano, "La Martinella di Milano", 1973 (Brera T 73 C 541)
Incisa, Ludovico e Trivulzio, Alberica, Cristina di Belgioioso, Milano,
Rusconi 1984 (Brera Coll. It. O 519/48)
Malvezzi, Aldobrandino, La principessa Cristina di Belgioioso, Milano,
Treves 1936
Petacco, Arrigo, La principessa del Nord, Milano, Rizzoli 1992 (Brera
T 93 C 1426)
Santonastaso, Giuseppe, Il socialismo fourierista e Cristina di
Belgiojoso, Genova-Brescia, Paideia 1963, pp. 126-137 (Brera
Nuova Misc. C 121)
Severgnini, Luigi, La principessa di Belgioioso. Vita e opere, Milano,
Virgilio 1972 (Brera T 72 D 121)
Molto utile da consultare
www.cristinabelgiojoso.it
e
ricco
di
informazioni
il
sito
4.14 Laura Solera Mantegazza
Laura Solera Mantegazza
di Paolo Colussi
Una tranquilla famiglia borghese
Laura Solera nasce a Milano il 15 gennaio 1813 da Cristoforo Solera
e Giuseppina Landriani. Appartiene ad una famiglia borghese di
agiate condizioni economiche. Lo zio Francesco Solera è un
ufficiale napoleonico che partecipa alle battaglie di Ulm e di
Austerlitz e alla campagna di Russia, per poi passare al servizio
degli Austriaci.
Nel periodo della restaurazione è però un altro parente di Laura Antonio Solera - a salire alla ribalta della cronaca. Arrestato nel
1820 assieme a Silvio Pellico ed altri carbonari per associazione
segreta, il povero Antonio - che non era una carbonaro, ma
soltanto un
benpensante neoguelfo - viene condannato a
morte. La condanna verrà poi commutata nel carcere a vita da
scontarsi, assieme agli altri patrioti, nella fortezza dello
Spielberg.
Anche il padre di Laura scappa in Svizzera e, a dire il vero, di lui
sappiamo ben poco. Laura cresce con la madre, studia al
Collegio femminile Coudert dove impara francese, inglese e
tedesco. Educa nel suo tempo libero i figli analfabeti dei
domestici dimostrando molto precocemente una grande
passione pedagogica. Il suo carattere è semplice e ingenuo, i
compagni la chiamano "cilappa" perché crede a qualsiasi cosa
le si racconti.
A quindici anni, nel 1828, muore la madre e Laura viene accolta in
casa dell'amico di famiglia il medico Paolo Acerbi dove resta
due anni, fino al matrimonio combinato che avrà luogo nel 1830.
Lo sposo, Giovan Battista Mantegazza, è figlio del podestà di
Monza per cui la coppia si trasferisce in questa città (al n. 21
dell'odierna via Bartolomeo Zucchi) dove trascorre alcuni anni
piacevoli e ricchi di occasioni mondane accanto ai suoceri.
Il 31 ottobre 1831 nasce a Monza il figlio primogenito Paolo, che
negli anni a venire acquisterà grande fama in tutta Italia per i
suoi studi e le sue pubblicazioni. Un anno dopo nasce Costanza
e Laura inizia a soffrire di forti dolori, un tormento che
l'accompagnerà fino alla morte.
Intorno al 1837, quando Paolo deve iniziare gli studi, la famiglia
torna a Milano per assicurare ai figli scuole più adeguate e si
stabilisce in contrada di San Giovanni in Conca, una via oggi
scomparsa che si trovava tra l'attuale piazza Missori e via
Albricci. Paolo studia nel vicinissimo Collegio di Sant'Alessandro.
A Milano nasce il terzo ed ultimo figlio Emilio.
Nel frattempo i patrioti prigionieri nello Spielberg vengono graziati e
rimessi in libertà, ma i guai per il povero Antonio Solera non
sono finiti: accusato da un altro detenuto, l'Andryane, di aver
collaborato con gli Austriaci, è scansato da tutti. Laura,
dimostrando per la prima volta il suo carattere fiero e risoluto, si
adopera attivamente a favore del parente, intentando causa
all'Andryane per ristabilire il buon nome della famiglia.
Lo strano cugino
Gli anni '40, fino al '48, trascorrono tranquilli con Laura molto
affaccendata ad allevare i figli ed a seguirli nei loro studi. E' un
altro Solera a mettersi in luce nel frattempo sulla scena
milanese: Temistocle, il figlio di quell'Antonio che abbiamo visto
coinvolto suo malgrado nelle disavventure dei carbonari. Dopo
un infanzia travagliata di orfanello ospitato coattivamente in
collegio e qualche volta fuggiasco, Temistocle a 24 anni (nel
1839) è a Milano dove incontra un musicista alle prime armi,
Giuseppe Verdi, di due anni più grande di lui. Temistocle
completa il libretto dell'Oberto conte di San Bonifacio la prima
opera di Verdi, rappresentata con scarso successo alla Scala il
17 novembre 1839. Dopo il fiasco della successiva opera - Un
giorno di regno - Verdi sta per abbandonare la carriera di
operista quando, secondo la leggenda, incontra in Galleria
l'impresario Bartolomeo Merelli che gli mette nelle mani un
nuovo libretto d'opera, il Nabucco, che gli darà fama immortale
soprattutto grazie al coro "Va' pensiero". Autore di quel libretto e
di altri analoghi che seguiranno (I Lombardi alla prima crociata,
Giovanna d'Arco, Attila) è il nostro Temistocle che si guadagna
così di riflesso un posto nelle enciclopedie. La sua biografia
però non resta affatto limitata a queste prime esperienze di
modesto librettista. Diventato operista egli stesso, dopo il '48
farà il direttore d'orchestra alla corte di Spagna stringendo una
relazione sospetta con la regina Isabella. L'invidia della Corte lo
costringerà a fuggire in Francia dove lo troviamo assoldato da
Napoleone III come agente segreto in vista della guerra con
l'Austria del 1859. Temistocle si appassiona alla nuova attività
poliziesca, diventa questore in varie città italiane e presta
persino la sua opera ad Alessandria d'Egitto come
riorganizzatore della polizia di quel paese. Sarà poi antiquario a
Parigi e a Milano, dove morirà povero a 63 anni il 21 aprile 1878.
Le Cinque Giornate e Garibaldi
Le Cinque Giornate sorprendono Laura a letto malata. Il mattino del
18 marzo il piccolo Emilio è a scuola, Paolo, sedicenne, è a
casa che spia con curiosità gli strani movimenti che si svolgono
sotto le sue finestre. Avvisata del pericolo, Laura spedisce la
balia a riprendere Emilio e attende con ansia il suo ritorno. Per
fortuna il recupero del bambino sarà abbastanza semplice e
quindi la mamma dovrà limitarsi in quei giorni di lotta soltanto a
vigilare perché l'inquieto Paolo non scappi sulle strade per unirsi
ai molti suoi coetanei che stanno combattendo.
Nella Milano liberata, la famiglia si adopera per la causa italiana ed è
probabile (ma non certo) che nei quattro mesi seguenti Laura
abbia conosciuto e frequentato Giuseppe Mazzini con il quale
dall'anno seguente sarà spesso in rapporto epistolare.
Il 6 agosto, con il ritorno degli Austriaci a Milano, Laura e Paolo
abbandonano la città per raggiungere gli altri figli a Cannero,
sulla sponda piemontese del lago Maggiore, dove aveva una
villa, la Sabbioncella, soggiorno estivo della famiglia. Pochi
giorni dopo, il 15 agosto, a Luino, sulla sponda opposta del lago,
c'è uno scontro cruento tra i soldati austriaci e un gruppo di
patrioti che cercavano di raggiungere la Svizzera, capitanati da
Giuseppe Garibaldi. Restano feriti 32 soldati, parte austriaci e
parte italiani. Dal futuro Eroe dei Due Mondi arriva decisa una
signora - Laura - che gli propone di trasportare i feriti a Cannero
a casa sua dove avrebbero trovato cure adeguate. Nasce subito
tra i due una robusta simpatia che non verrà mai a cessare in
futuro. Laura, esule in Piemonte, è ormai una patriota a tempo
pieno.
Del marito non sappiamo nulla, l'anno seguente combatterà a Roma
con la Repubblica romana, a Cannero non c'è. In ottobre Laura
salva un disertore trasportandolo clandestinamente da Luino a
Cannero a rischio della propria vita. Il 3 novembre, sempre a
Luino, ottiene dal comandante la liberazione di un altro disertore
pretendendo la dovuta riconoscenza per le cure prestate ai
soldati austriaci in agosto. Alla fine dello stesso mese riceve una
sgradita visita di soldati austriaci che pretendono di perquisire la
villa benché questa fosse in Piemonte. La pretesa viene
fermamente respinta.
L'inverno tra il '48 e il '49 viene trascorso all'"estero" in attesa degli
eventi. Dopo la battaglia di Novara (23 marzo 1849) e la caduta
della Repubblica romana (4 luglio 1849), la situazione è
definitivamente compromessa. Inutile anche la resistenza di
Venezia guidata dal vecchio zio di Laura, Francesco Solera, che
avevamo lasciato all'inizio di questa storia come giovane
ufficiale napoleonico e poi austriaco. In ottobre accade un fatto
spiacevole e poco chiaro. Nessuna biografia ne parla, ma da
alcune lettere di Laura sappiamo che la famiglia Mantegazza,
per salvare il posto al figlio Giovan Battista reduce da Roma,
dichiara alle autorità austriache che "la moglie l'obbligò alla
condotta da lui tenuta nello scorso anno, ed a seguire il
Generale...". Sembra che sia stata addirittura imposta una
separazione dei coniugi. In realtà, da questo momento la figura
del marito non ha più alcun ruolo nella vita di Laura, che,
amareggiata, verso la fine dell'anno torna a Milano con i figli e si
trasferisce al primo piano di Borgo di Porta Comasina n. 2138
corrispondente all'attuale Corso Garibaldi 73 all'angolo con la
contrada di Santa Cristina. La casa, ereditata in seguito dai figli,
è stata bombardata nel corso dell'ultima guerra ed è stata
sostituita da un mediocre edificio moderno rientrante dal filo del
corso che svolta verso via Mantegazza.
I ricoveri dei lattanti o "presepi"
Nello sconforto del momento, Laura pensa di emigrare in America,
poi è attirata da un grave problema, particolarmente evidente
nel rione dov'era la sua nuova abitazione. La diffusione dei
laboratori e delle fabbriche che iniziava allora a manifestarsi
nella città obbligava molte giovani madri ad abbandonare i figli
più piccoli che nessuno poteva nutrire e sorvegliare. Il numero
degli esposti a Santa Caterina alla Ruota cresceva sempre più
con grande sofferenza delle madri e disagi per le autorità. Laura,
anche per superare le delusioni politiche (e famigliari?), pensa
di adottare alcuni di questi bambini, ma poi riceve un insperato
aiuto da uno studioso milanese - Giuseppe Sacchi - interessato
già da molti anni ai problemi pedagogici e del pauperismo.
Tre anni prima, nel 1846, c'era stato a Genova il congresso degli
scienziati. In quell'occasione Giuseppe Sacchi aveva sentito
parlare di un asilo per lattanti aperto a Parigi l'anno prima da
alcune donne protestanti di indirizzo sansimoniano. La Società
di Incoraggiamento delle Arti e Mestieri aveva inoltre aperto
un'inchiesta sul problema per impulso di Enrico Mylius. Laura si
appassiona subito all'idea e, con l'aiuto del Sacchi, ne
approfondisce gli aspetti tecnici.
All'inizio del nuovo anno cerca aiuti per realizzare l'impresa, la
chiesa è piuttosto ostile a questo "agglomerato di donne" che
allattano e sconsiglia la Municipalità dal parteciparvi. Laura
comunque si rivolge egualmente alle autorità austriache per
ottenere la necessaria autorizzazione, autorizzazione che l' I. R.
Luogotenenza della Lombardia accorda già il 23 maggio. Il 17
giugno 1850 può quindi essere inaugurato il primo Pio Ricovero
per bambini lattanti e slattati. Vengono utilizzati alcuni locali al
piano terreno della stessa casa di Laura, con l'ingresso dalla
contrada di Santa Cristina 2136 (poi via Mantegazza 7).
Collaborano all'iniziativa, oltre al Sacchi, i dottori Rizzi e
Castiglioni, il parroco di San Simpliciano, Enrico Mylius e
Ismenia Sormani Castelli, che diventerà da questo momento
un'inseparabile amica e collaboratrice di Laura.
Al ricovero erano ammessi bambini da 15 giorni a due anni e mezzo,
divisi tra lattanti e slattati. C'era una veranda sul giardino, due
camerate con un grande letto e una serie di culle, cucina e bagni.
L'iniziativa prevedeva anche elargizioni per le madri che
lavoravano a domicilio e quindi potevano tenere i bambini con
sé, ma limitatamente alle famiglie che abitavano nelle
parrocchie di San Simpliciano, San Marco e del Carmine. Il
contatto diretto con tante madri povere del quartiere spinge
Laura ad interessarsi anche della loro formazione e ben presto
vengono organizzati negli stessi locali dei corsi di
alfabetizzazione e di taglio e cucito. Il grande successo
dell'iniziativa spinge Laura ad aprire l'anno dopo (1851) un
secondo asilo a Porta Ticinese (prima in borgo S. Croce, poi in
Molino delle Armi, dal 1880 in via Sambuco). In totale i bambini
assistiti sono ormai 200. I fondi provengono da donatori
"perseguitati" con instancabile energia da Laura, che inventa
per l'occasione la Fiera di Natale, un'asta di oggetti donati alla
quale vengono invitate ogni anno le principali famiglie milanesi.
Queste lettere di invito, raccolte e pubblicate nella biografia
postuma di Laura scritta dal figlio Paolo, ci danno un saggio
molto interessante dell'eloquenza e della passione della
Mantegazza.
Ritorno alla politica: la prima Associazione femminile
La guerra del 1859 risveglia l'interesse patriottico di tutta Milano.
Laura, Ismenia Sormani Castelli, Adelaide Bono Cairoli e molte
altre signore si occupano dei feriti e della raccolta di fondi,
attività quest'ultima nella quale ormai Laura è maestra. Il figlio
Paolo, più portato agli studi che alle armi, dopo un lungo
soggiorno in Argentina (1854-58) durante in quale ha potuto
studiare alcune comunità indigene, insegna medicina a Pavia.
Emilio invece combatte con i piemontesi.
Alla conclusione della guerra, la delusione per l'abbandono delle
Venezie fa crescere in tutti le aspettative verso un altro tipo di
azione patriottica da porre nelle mani di Garibaldi, che aveva
dimostrato il suo valore nelle battaglie di Varese e San Fermo.
La spedizione dei Mille vede perciò tutto il gruppo delle patriote
milanesi all'opera per raccogliere fondi. Laura e Ismenia
inventano le "Coccarde patriottiche", un nastro tricolore con
l'immagine di Garibaldi, che vengono prodotte dalle operaie
degli asili e vendute per una lira. Vengono raccolte in questo
modo 24.442 lire, meno di quanto si era sperato, anche perché
girano voci maligne che sostengono che una parte dei soldi
sarebbero stati dirottati a favore di Mazzini, inviso alla borghesia
milanese. Laura smentisce fermamente, ma il danno ormai era
fatto.
Emilio vorrebbe seguire Garibaldi in Sicilia, ma è seriamente
ammalato e si riprenderà soltanto l'anno seguente. Laura segue
con trepidazione la lunga malattia, ma non trascura del tutto la
politica. Mantegazza consiglia il Castellini, che sarà poi il
superiore di Emilio nelle successive campagne di Aspromonte e
nel Trentino, di portare sempre la maglia di lana e di “portar seco
due o tre oncie di coca (Farmacia di Brera) ben chiuse in una
scattola di latta ...”(Castellini, cit., p. 21).
L'atmosfera nel nuovo Regno d'Italia è molto cambiata. Finito lo
stato di polizia si può pensare a nuove iniziative a sostegno
delle operaie che formano già di fatto un sodalizio attorno a
Laura ed Ismenia. Le due amiche pensano quindi di fondare
un'Associazione Generale di Mutuo Soccorso per le operaie
milanesi, che nascerà il 17 febbraio 1862 con sede provvisoria
presso i due ricoveri. La quota associativa è di una lira al mese,
possono iscriversi come socie onorarie (senza diritto di voto)
anche signore benestanti che intendono sostenere
l'associazione.
L'associazione assume tra i propri compiti anche quello
dell'organizzazione dei corsi di alfabetizzazione già operanti da
anni. I prodotti realizzati durante i corsi di taglio e cucito e di
decorazione costituiscono un'ulteriore entrata della Società.
Garibaldi incoraggia queste attività e le sostiene. Durante
l'estate è ospite della Bono Cairoli a Belgirate e si incontra
spesso con Laura. La visita del generale alla Sabbioncella in
giugno verrà più tardi immortalata da una lapide e da un
affresco.
Il 29 agosto 1862 accade l'impensabile. L'Eroe dei Due Mondi,
osannato solo l'anno prima come l'artefice dell'unità d'Italia,
viene ferito ad una gamba sull'Aspromonte da soldati italiani
mentre stava avanzando per liberare Roma. L'episodio
scandalizza tutta l'Europa e sconvolge Laura, che giunge per
prima (4 settembre) in soccorso del grande ferito nella fortezza
di Varignano presso La Spezia, dove era stato subito trasportato
(2 settembre). Nei mesi che seguono attorno al generale ferito si
affolla un grande numero di ammiratrici tenute a bada da Laura
e Adelaide Bono Cairoli prima a Varignano e poi (dal 8
novembre) a Pisa dove il generale viene trasferito. Quando
arriva però Jessie White, la moglie di Alberto Mario che aveva
partecipato direttamente alla liberazione del Mezzogiorno,
iniziano le tensioni e i pettegolezzi. Il 17 novembre, Laura
decide di far cessare le chiacchiere e si allontana da Pisa per
tornare a Milano (28 novembre) dopo un breve periodo di riposo
a San Remo. Garibaldi tornerà a Caprera il 20 dicembre.
I quattro anni successivi, fino alla terza guerra d'indipendenza,
vedono Milano e tutta l'Italia in preda ad una grande euforia. Si
avviano ovunque grandi opere che devono far dimenticare la
"conquista" piemontese e le delusioni per la momentanea
assenza di Venezia e di Roma. A Milano si avviano i lavori della
nuova piazza del Duomo e della Galleria Vittorio Emanuele. A
Garibaldi vengono intitolati il corso e la porta comasina, molte
altre strade vengono dedicate ai recenti avvenimenti politici e
militari e ai Savoia (via Carlo Alberto, via Torino, corso e porta
Magenta, Vittoria, Venezia, via Solferino, San Martino, Palermo,
Marsala, Milazzo, Montebello, Varese, Goito, ecc.) specialmente
nel quartiere Garibaldi.
I ricoveri e l'associazione operaia funzionano. Il 26 aprile 1866 viene
approvato un decreto che istituisce in ente morale il "Pio istituto
di Maternità e di Ricovero per bambini lattanti e slattati". Nello
stesso anno, Ismenia Sormani Castelli presenta al Ministero un
progetto di Scuola professionale femminile, un'idea che
diventerà realtà quattro anni dopo grazie anche ai finanziamenti
della Massoneria. Va molto bene anche la carriera del figlio
Paolo. Nel 1864 pubblica gli Elementi di igiene, un manuale
semplice e chiaro per le famiglie che avrà un numero enorme di
ristampe e riedizioni, contribuendo in modo sensibilissimo alla
trasformazione dell'Italia in un paese moderno. Anche grazie a
questo successo, nel 1865 Paolo è eletto alla Camera dove
resterà fino al 1876 per poi diventare senatore del Regno.
Garibaldi rende felici le operaie inviando un proprio ritratto per
decorare la sede dell'Associazione.
Gli ultimi anni
Nell'estate del 1866 si consuma brevemente e disastrosamente la
terza guerra d'Indipendenza. Emilio Mantegazza è al fianco di
Garibaldi nell'unico scontro vittorioso, quello di Bezzecca,
durante la marcia su Trento prontamente arrestata dal celebre
"Obbedisco!". Nel 1867 muore a Cannero il marito di Laura;
svanisce una figura evanescente che non sembra aver parte
alcuna nella storia. L'anno seguente viene aperto il terzo
ricovero per i figli delle sigaraie, probabilmente in via della
Signora (le indicazioni che abbiamo sulle sedi sono sempre
piuttosto confuse). Nello stesso anno viene abolito la ruota
dell'Ospedale di Santa Caterina e si dà il via al brefotrofio. Il
clima culturale sta cambiando: Gualberta Adelaide Beccari
fonda a Venezia il periodico "La donna" che rappresenta la
prima voce autorevole a livello nazionale delle rivendicazioni
"femminili": parità di salario e diritto di voto. A Milano Anna Maria
Mozzoni si batte per le nuove idee con un piglio molto più
radicale di quello assunto fino ad allora dalla Mantegazza e
dalla Sormani Castelli, che vengono considerate piuttosto
antiquate. Nella Lega femminile della Mozzoni, fondata nel 1870,
erano ad esempio escluse le socie onorarie, espressione di un
paternalismo borghese divenuto intollerabile. Per molti altri
aspetti, invece, la nuova Lega ricalca il modello della
Mantegazza. Anche il problema dell'emancipazione attraverso
lo studio e la formazione professionale delle donne ritorna alla
ribalta. Molte nuove leghe tentano questa strada fondando
scuole professionali femminili. Laura e Ismenia rispolverano il
progetto del '66 e fondano la loro scuola, il cui regolamento
viene approvato il 14 settembre 1870. Il 21 novembre dello
stesso anno la scuola viene aperta in un piccolo locale a Porta
Magenta grazie a un contributo di 500 lire del Comune e all'aiuto
di alcune patronesse come Paolina Magni Castiglioni e la
contessa Praga Marogna. Laura insiste quindi sul modello
"paternalistico", e così vince la scommessa. Tutte le altre scuole
sono costrette a chiudere quasi subito, mentre la sua esiste
ancora nella sede costruita molti anni dopo in via Ariberto 11.
L'Istituto Mantegazza com'è oggi (2012) in via Ariberto
La scuola professionale rappresenta l'ultimo sforzo sostenuto da
Laura per consentire alla donna priva di risorse economiche di
essere madre e di raggiungere un minimo decoroso di capacità
professionali. Stupisce che una personalità come quella di
Laura, così vicina alle istanze democratiche di Mazzini e di
Garibaldi, non abbia accolto l'invito di altre donne come la
Mozzoni ad accentuare nella sua opera la promozione civile e
politica della donna. Questo compito verrà lasciato alla sua
erede spirituale, Alessandrina Ravizza, che sarà la vera artefice
dello sviluppo futuro della Scuola professionale.
Nel 1872, mentre il figlio Paolo al culmine della carriera fonda a
Firenze la prima cattedra di Antropologia e il Museo, Laura
ormai molto malata si ritira nella villa di Cannero dove morirà il
15 settembre dell'anno successivo, assistita dai figli. Le sue
operaie, al funerale, decidono di aprire un quarto ricovero, che
verrà inaugurato a Ripa di Porta Ticinese il 15 settembre 1874.
La fedele Ismenia e l'ormai vecchio Giuseppe Sacchi
continuano ad occuparsi dei ricoveri che sono ormai considerati
un servizio necessario alla collettività. Nel 1884, quando si
deciderà di aprire in corso di Porta Vigentina il quinto ricovero,
verrà finalmente costruito un edificio studiato appositamente allo
scopo, ma la struttura non sarà in sostanza molto diversa dalla
prima sistemazione realizzata in contrada di Santa Cristina più
di trent'anni prima.
Sparita la ventata garibaldina, anche la fama di Laura tenderà ad
attenuarsi, offuscata in parte da quella del figlio Paolo, raggiunta
presso un largo pubblico soprattutto dalla sua opera più
conosciuta, la Fisiologia dell'amore (1873), un best seller
presente (ben nascosto) in ogni biblioteca borghese della bella
époque.
Anche Giuseppe Sacchi, scrivendo in un volume della raccolta
Mediolanum del 1881, quando parla della maggiori figure
milanesi del suo tempo cita Paolo Mantegazza ma dimentica la
sua mamma con la quale aveva condiviso per tanti anni
speranze e problemi. La stessa biografia di Laura, scritta da
Paolo nel 1876, è più il ricordo commosso della madre
scomparsa che un'analisi approfondita di una forte e complessa
personalità. E' quasi più illuminante nella sua concisione il testo
dell'epigrafe che venne posta nel 1889 sulla casa di Corso
Garibaldi quando venne intitolata a Laura la vecchia contrada di
Santa Cristina:
"In questa casa abitò molti anni e istituì
il primo ricovero dei bambini lattanti
LAURA SOLERA MANTEGAZZA,
vera madre del povero".
Soltanto nel 1906, grazie agli sforzi incessanti di Ersilia Majno, il suo
corpo verrà trasportato nel Famedio, evento molto raro per una
donna.
Link: Paolo Mantegazza esperto di droghe
Bibliografia
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trasporto delle sue ceneri al Famedio, Milano 1906
AA.VV., Milano tecnica, Milano 1885, p. 243
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Mantegazza e la Scuola Femminile di Milano. (Brera Per P 366)
Barbiera, Raffaello, Figure e figurine, Milano, Treves 1908 (Brera
7.17.C.10)
Barbiera, Raffaello, Una vita che pare un romanzo in Arte ed amori
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[Temistocle Solera]
Bertarelli-Monti, Tre secoli di vita milanese, Milano 1927 (p. 730, foto
del ricovero per lattanti)
Castellini, Gualtiero, Pagine garibaldine, Milano, Bocca 1909 (Brera
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Mantegazza, Paolo, La mia mamma Laura Solera Mantegazza,
Milano, Tip. F.lli Richiedei, 1876 (Sormani J 7717)
Mantegazza, Paolo, Il secolo nevrosico, Edizioni Studio Tesi,
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Morandi, Felicita, Tipi di donne illustri milanesi, in AA.VV.,
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Pieroni Bortolotti, Franca, Alle origini del movimento femminile in
Italia 1848-1892, Torino, Einaudi, 1963 [reprint 1975]
Redaelli, Sergio - Teruzzi, Rosa, Laura Mantegazza la garibaldina
senza fucile, Verbania-Intra, Alberti Libraio Editore, 1992
Vitali, Luigi, Beneficenza e previdenza, in AA.VV., Mediolanum,
Milano 1881, vol. I, pp. 342-400 (Sormani M CONS 15)
Zambelli, Pietro, Laura Solera Mantegazza, Novara 1873
4.15 Margherita Sarfatti e il "Novecento"
Margherita Sarfatti e il "Novecento"
di Paolo Colussi
La vita di Margherita Sarfatti può essere disegnata come un'ampia
parabola che sale lentamente verso l'alto, sempre più in alto,
fino a quando comincia a scendere, prima in modo incerto, ma
poi rapidamente e bruscamente fino all'umiliazione e
all'isolamento quasi assoluto.
Oggi quasi completamente dimenticata, la Sarfatti raggiunse negli
anni '20 di questo secolo una notorietà enorme in tutto il mondo
grazie alla sua biografia di Mussolini, data alle stampe nel
momento dell'ascesa al potere del fascismo. Poi, stordita dal
potere e dalla fama inaspettata, cominciò ad essere combattuta
da potenti nemici interni al regime, e infine, umiliata per le sue
origini ebraiche, dovette fuggire all’estero e trascorrere
oscuramente gli ultimi anni della sua vita.
Nata a Venezia l'8 aprile 1880 da una ricca famiglia ebrea,
Margherita Grassini (questo era il suo nome da nubile)
trascorre un'adolescenza dorata. A 14 anni inizia la sua
istruzione superiore con l'aiuto di alcuni dei più noti studiosi
della città. Si appassiona alla storia dell'arte e alla poesia del
Carducci. L'anno seguente un quarantenne professore
socialista, conosciuto al mare, la corteggia e la spinge a
leggere le opere di Marx e di altri teorici socialisti, con grande
scandalo della famiglia. Nello stesso anno conosce l'avvocato
ebreo Cesare Sarfatti, allora quasi trentenne, anch'egli
socialista. La simpatia tra i due, osteggiata dalla famiglia, si
trasforma presto in amore e non appena Margherita compie 18
anni hanno luogo le nozze.
Durante il viaggio di nozze a Parigi, la competenza artistica di lei si
dimostra già molto matura. Compera una serie di litografie di
Toulouse-Lautrec, un artista ancora sconosciuto in Italia e
appena comparso sulla scena parigina.
Dal 1898, anno del matrimonio, al 1902, quando i coniugi si
trasferiranno a Milano, si delineano già chiaramente i due
grandi interessi della Sarfatti: l'arte e la politica. Scrive infatti
sulla stampa socialista locale articoli sul femminismo e sugli
artisti moderni che espongono alla Biennale. Conosce inoltre
Gabriele D'Annunzio, vecchio amico del marito, e mette al
mondo i due primi figli, Roberto e Amedeo.
A Milano
Il 15 ottobre 1902, Margherita e Cesare, oppressi dall'ambiente
culturalmente ristretto di Venezia, arrivano a Milano e prendono
casa in un piccolo appartamento in via Brera 19. Frequentano
assiduamente la casa di Turati e della Kuliscioff che si
affacciava sulla Galleria e diventano amici di Luigi ed Ersilia
Majno. Quest'ultima era presidente della Lega femminista
milanese.
In questi anni la formazione politica socialista dei due diventa
sempre più ampia, anche se molti criticano l'eccessiva
eleganza di Margherita che non fa nulla per nascondere la
propria ricchezza. Il tenore di vita dei coniugi diventa ancora più
elevato dopo il 1908, quando arriva la cospicua eredità del
padre di Margherita. E' in quest'anno che si trasferiscono nel
lussuoso appartamento di Corso Venezia 95, aprendo agli
amici il salotto che diventerà presto noto a tutti gli artisti italiani.
Sempre in quest'anno viene acquistato il "Soldo", la casa di
campagna di Cavallasca, sul lago di Como, (già appartenuta a
Carlo Imbonati) dove i Sarfatti trascorreranno le loro vacanze e
dove Margherita vivrà gli ultimi anni della sua vita.
L'interesse per l'arte moderna, intanto, si sta trasformando in
professione. Compaiono regolarmente articoli di Margherita
sull'"Avanti della Domenica". Nel 1909 conosce Boccioni e
nasce subito una grande simpatia e probabilmente anche
qualcosa di più. Boccioni è assiduo al Soldo dove dipinge molte
opere ancora oggi di proprietà dei Sarfatti. Quando, l'anno dopo,
esplode il Futurismo, il salotto di Corso Venezia diventa il
centro dell'avanguardia artistica: Marinetti, Carrà, Boccioni e
Russolo alternano le loro riunioni tra casa Sarfatti e casa
Marinetti, anch'essa in Corso Venezia. Dai Sarfatti, però, in
quegli anni eccitanti e movimentati, si possono trovare anche
altri personaggi, giovani per lo più, interessati a tutto il nuovo
che la Milano di inizio secolo sembra proporre. Tra gli artisti ci
sono gli scultori Adolfo Wildt e Arturo Martini, i pittori Tallone,
Sironi, Funi, Tosi, il giovane architetto Sant'Elia; Palazzeschi,
Panzini, Sem Benelli, Mario Missiroli e Ada Negri completano il
quadro. Ada Negri, la "zia Ada", diventa subito amica
inseparabile di Margherita e non ci sarà soggiorno al Soldo che
non la veda presente come un membro della famiglia.
L'impegno politico non è comunque trascurato. Quando Anna
Kuliscioff fonda nel 1912 "La difesa delle lavoratrici", Margherita
si impegna con scritti e con denaro alla riuscita dell'iniziativa.
L'anno 1912 è l'"anno fatale". Il 1 dicembre Mussolini assume la
direzione dell'“Avanti!” e si trasferisce a Milano. Margherita,
turatiana e quindi avversa alla vincente corrente rivoluzionaria
di Mussolini, si presenta per dare le dimissioni da collaboratrice
del giornale. Nasce subito una simpatia reciproca che si
trasforma presto in relazione amorosa. Scoppiano però anche
furiose liti di gelosia perché Mussolini, ultramaschilista
dichiarato, non intende interrompere le altre sue relazioni
amorose. I rapporti tra i due restano così su un piano di "libertà
socialista" per alcuni anni.
Quando scoppia la guerra Mussolini, divenuto interventista ed
espulso dal partito socialista, si arruola e combatte in prima
linea restando gravemente ferito durante un'esercitazione.
Margherita segue invece a Milano l'evoluzione dei "suoi" artisti
che prendono direzioni opposte, chi verso un'arte astratta
influenzata dai cubisti, che verso un maggiore realismo
neoclassico.
L'evento più importante nella vita dei Sarfatti è però di ben altra
natura e tocca tragicamente la loro vita familiare. Il primogenito
Roberto, dopo molte insistenze e tentativi, riesce ad arruolarsi e
nel luglio 1917 parte per il fronte. Muore in battaglia sul Monte
Baldo il 28 gennaio 1918, a 18 anni. Per Margherita e per
Cesare è la prova più dura dell'intera loro vita.
Alla fine della guerra, Margherita, espulsa anche lei dal partito
socialista per interventismo, collabora attivamente al “Popolo
d'Italia”. Il legame con Mussolini si fa sempre più stretto, in
politica e in amore. Nella riunione del 25 marzo in piazza San
Sepolcro, Margherita è al suo fianco. Affronta con Mussolini le
delusioni dei primi anni, i successi del '21 e '22, e la terribile
prova del '24 in seguito al delitto Matteotti.
Durante tutti questi anni la loro relazione resta però ufficialmente
segreta. Sposati entrambi, anche se nessuno dei due
nasconde al rispettivo coniuge la relazione, ritengono tuttavia
opportuno non ostentarla. A Milano, escono separatamente
dalla redazione del “Popolo d'Italia” in via Paolo da Canobbio
per ritrovarsi in Corso Venezia e da lì raggiungono un rifugio
segreto.
Nasce intanto il gruppo “Novecento”. E' composto inizialmente dai
pittori Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba,
Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi.
I motivi per cui viene scelta questa denominazione del gruppo sono
stati spiegati dalla stessa Sarfatti nel suo libro Storia della
pittura moderna, alle pagg. 123-126.
“Ora accadde che un gruppo di artisti amici discutesse un giorno, in
Milano, dell’arte italiana e delle sue tradizioni.
Fra questi artisti, uno - Anselmo Bucci - che per essere più vissuto
all’estero più aveva dei fatti di casa nostra una visione larga e
panoramica, si attardò a spiegare lungamente il carattere
inconfondibile (come oggi si dice) dell’arte plastica italiana nei
secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento. Nomi
intraducibili, come la fisionomia dei nostri più intimi e cari. Non
sono cifre soltanto aritmetiche, non sono termini vaghi, che
designino soltanto un’epoca composta di 100 anni, ma
concretano una realtà tangibile nel tempo e nello spazio. Non vi
è ascoltatore distratto, che all’udirle non evochi una visione
storica sfolgorante e completa, per quanto riguarda la vita dello
spirito e del pensiero, ancor più che le vicende politiche. E,
nella vita spirituale, la evocazione contempla specialmente la
vita dell’arte, e, in modo particolare, la creazione plastica.
...
“Quattrocento” e “Cinquecento” designano periodi dell’egemonia
italiana nel mondo del pensiero.
Disse allora qualcuno, a questo proposito, a Milano, nel 1920, in
quel cerchio di amici: “Il nostro secolo sento che vedrà ancora il
primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel
mondo e nel tempo: Novecento italiano”.
Per questo, più piacque ai giovani artisti di avanguardia, molti dei
quali erano stati soldati e continuavano ad esserlo nel
Fascismo militi di punta dell’Italia.
Così sorse in Milano il gruppo del Novecento italiano, con quel nome
come parola d’ordine. Gli si rimproverò persino di aver voluto
ipotecare tutto per sè un secolo nuovo, appena cominciato. In
realtà, quegli artisti volevano soltanto proclamarsi italiani,
tradizionalisti, moderni. Affermavano fieramente di voler
fermare nel tempo qualche aspetto nuovo della tradizione.”
Nel 1920 la prima idea, nel 1922 la vera e propria fondazione del
gruppo. Il 26 marzo 1923, il gruppo apre la sua prima
esposizione alla galleria Pesaro. Mussolini visita la mostra, ma
il suo discorso rivela una scarsa convinzione e un certo
sconcerto per i soggetti poco “impegnati” delle opere esposte,
ma la Sarfatti insiste e propaganda l'iniziativa come modello di
"arte fascista". Questo slogan procura le prime defezioni da
parte di alcuni artisti che non accettano di essere
strumentalizzati. Quando però si calmerà la bufera seguita al
delitto Matteotti e Mussolini prenderà saldamente il potere in
Italia saranno in molti ad aggregarsi al gruppo attirati dai
vantaggi offerti dal regime. La grande mostra del '26 alla
Permanente vede la partecipazione di tutti i maggiori artisti
italiani. Dei primi sette restavano legati a Margherita solo Funi,
Marussig e Sironi, ma tra i nuovi arrivati troviamo De Chirico,
Campigli, Casorati, Guidi, Licini, Morandi, Severini. Alla mostra
sono presenti anche i futuristi Balla, Depero, Prampolini e
Russo. L'unico gruppo dissidente è quello toscano di Strapaese
guidato da Soffici e Rosai, ma in questa mostra alcuni di loro
sono egualmente presenti.
La terza Biennale di Monza del 1927 è dedicata a "Il Novecento e il
Neoclassicismo nella decorazione e nell'arredamento". Questa
mostra, che si teneva nella Villa Reale di Monza dal 1923, è
fortemente sostenuta dalla Sarfatti che riesce in quest'anno a
farne una vetrina per i suoi protetti che ormai vogliono
influenzare ogni tipo di produzione artistica, dai vetri alle
ceramiche, dalla fotografia ai merletti. La forza di questa
iniziativa porterà nel 1931 alla costruzione a Milano del nuovo
Palazzo dell'Arte destinato ad ospitare quella che ormai è
diventata la Triennale, regno incontrastato dei novecentisti fino
alla caduta del fascismo.
Anche in campo architettonico accadono fatti nuovi. Nel 1925,
all'Esposizione internazionale di Parigi, l'Italia è presente con il
modesto padiglione dell'architetto romano Arnaldo Brasini.
Margherita, vicepresidente dell'Esposizione, scontenta del
padiglione italiano, resta affascinata dai nuovi architetti
razionalisti, soprattutto dai primi lavori di Le Corbusier.
Incoraggia perciò i giovani che a Milano intendono seguire
questa strada tra i quali emergono subito Figini, Pollini e
soprattutto Giuseppe Terragni. A Parigi frequenta l'amica
Colette, ma stringe anche ottimi rapporti con Josephine Baker,
che sarà sua ospite al Soldo.
Dux
Negli anni ‘20 Margherita raggiunge il massimo della sua fama.
Morto il marito Cesare nel 1924, inizia a scrivere la biografia di
Mussolini. L'idea era stata di Prezzolini che aveva pensato a un
lavoro in inglese capace di illustrare al mondo le caratteristiche
del nuovo Primo Ministro italiano. Il libro esce infatti in
Inghilterra nel settembre 1925 come The Life of Benito
Mussolini. L'anno dopo la Mondadori lo stampa in italiano col
titolo Dux. Seguiranno ben 17 ristampe in Italia mentre
all'estero verrà tradotto subito in 18 lingue comprese il turco e il
giapponese. In Giappone ne verranno vendute più di 300.000
copie.
I rapporti con Mussolini sono sempre molto stretti. Margherita è
ormai per tutti "la donna del Duce". Alla fine del 1926 si
trasferisce a Roma dove incontra sistematicamente Mussolini
nella sua prima abitazione di via Rasella. Nel 1928, quando
Mussolini va ad abitare nella Villa Torlonia, Margherita lascia
definitivamente la casa di Milano e trasloca con la figlia
Fiammetta nelle vicinanze della Villa. I tempi però stanno
cambiando. Le trattative per il Concordato con la Chiesa
consigliano Mussolini di sposare in chiesa Rachele e poi di far
arrivare a Roma questa famiglia "dimenticata". Nel '29, quando
Rachele e i figli arrivano a Villa Torlonia, assistiamo alla buffa
commedia delle due "mogli" che entrano ed escono
alternativamente da porte diverse, guidate dall'abile regia del
maggiordomo che deve impedire che si incontrino. Ormai però
Margherita ha 50 anni, è ingrassata, ha un carattere dispotico.
Dopo la morte di Arnaldo Mussolini, consigliere ascoltato di
moderazione, il clima cambia e si involgarisce. Emergono gli
Starace e i Farinacci che impongono al regime tutta la retorica
"imperiale" che Margherita e altri avevano cercato di
combattere. Toscanini, seguace di Mussolini dai tempi di San
Sepolcro, lascia l'Italia. Margherita viaggia negli Stati Uniti
tentando di allontanare Mussolini dalle seduzioni hitleriane per
avvicinarlo a Roosevelt. Le cose però precipitano e, con
l'entrata in famiglia di Galeazzo Ciano, la freddezza di
Mussolini nei suoi confronti diventa ostilità, mentre si avvicina il
momento delle leggi razziali.
Ritratti di Margherita e Cesare Sarfatti di Adolfo Wildt
L'esilio
L'anno 1938 è dedicato alla fuga dall'Italia. Il figlio Amedeo, con
l'aiuto di Raffaele Mattioli, trova una sistemazione in Uruguay.
Margherita, dopo aver portato al sicuro in Svizzera le lettere di
Mussolini, si trasferisce in novembre a Parigi e l'anno seguente
raggiunge il figlio a Montevideo. Evita così, nella disgrazia, la
ben più grave sventura che colpirà la giovane Claretta Petacci,
entrata al suo posto nella vita del Duce a partire dal 1936.
Rientrata a Roma nel 1947, morirà al Soldo il 30 ottobre 1961
lasciando nel suo ultimo libro Acqua passata le memorie della
sua vita e dei suoi amici. La parola "fascismo" compare nel libro
una sola volta.
I maggiori esponenti del "Novecento"
Achille Funi
Virgilio Socrate Funi (in arte Achille) nasce a Ferrara nel 1890 (clicca
qui per una biografia) e si trasferisce a Milano nel 1906 per
studiare a Brera. Frequenta presto i Futuristi con i quali si
arruola tra i volontari ciclisti nel 1915. Nel 1919 è uno dei più
attivi seguaci di Mussolini ed uno dei pochi, con Marinetti, a
partecipare allo storico raduno di Piazza San Sepolcro. I
rapporti con la Sarfatti, che risalivano a prima del 1920, si fanno
sempre più stretti dopo la fondazione del gruppo Novecento, al
quale Funi aderisce pienamente eliminando gli ultimi residui di
Futurismo dalla sua pittura, che si rifà in quest’epoca a Ingres,
Tiziano e Leonardo, rivisti però alla luce di quello che allora fu
definito “realismo magico”. Negli anni Trenta sottoscrive con
Campigli e Carrà il Manifesto della pittura murale di Sironi
(1933) dedicandosi ad opere di pittura monumentale,
soprattutto affreschi. Le più importanti tra queste grandi
decorazioni murali sono quelle realizzata nelle sale della
Guerra e della Vittoria alla Mostra della Rivoluzione Fascista a
Roma (1932), nel Palazzo Comunale di Ferrara (1934), nella
chiesa di San Giorgio in Palazzo a Milano (coro e cupola) e
nella chiesa di San Francesco a Tripoli (1936-39). Dal 1939
insegna affresco a Brera e dal 1945 pittura a Bergamo. Muore
nel 1972 ad Appiano Gentile.
Piero Marussig
Piero Marussig nasce nel 1879 a Trieste, studia a Vienna e a
Monaco aderendo al movimento artistico della Secessione. Dal
1903 al 1905 è a Roma, poi, dopo un soggiorno a Parigi, torna
a Trieste dove rimane fino al 1920, quando si trasferisce a
Milano aderendo al nuovo movimento della Sarfatti, del quale
divenne uno dei membri più importanti anche dopo la defezione
di Dudreville e Bucci. Dipinge in questi anni soprattutto bambini,
nature morte, strumenti musicali, ritratti di donna. Nel 1930
fonda con Funi e lo scultore Bortolotti in via Vivaio 10 una
Scuola d’arte aperta a tutti che cercava di recuperare l’idea
della bottega artistica quattrocentesca. Muore a Pavia nel
1937.
Mario Sironi
Mario Sironi (clicca qui per una biografia) nasce a Sassari nel 1885
da una famiglia comasca, che si trasferisce subito dopo a
Roma. Qui Sironi compie gli studi e si lega d’amicizia con Balla
attraverso il quale conosce Boccioni e Severini. Dopo qualche
anno di esitazione, nel 1914 si trasferisce a Milano e aderisce
al movimento futurista. La parentesi futurista è però piuttosto
breve e nel 1917 esegue il celebre quadro - Il camion giallo che segna l’avvio del nuovo e personale genere di pittura che
l’artista poi seguirà in tutti gli anni a venire. Nel frattempo inizia
una nuova carriera di illustratore che proseguirà con grande
successo per tutta la vita collaborando soprattutto con “Il
Popolo d’Italia” al quale fornisce ben 969 illustrazioni. Negli
anni Venti è uno dei più attivi partecipanti al gruppo Novecento
della Sarfatti, pur mantenendo sempre un proprio distinto e
inconfondibile tratto pittorico, scarsamente influenzato dal
Realismo magico presente in tutti gli altri pittori del gruppo.
Sono di questi anni i celebri Paesaggi urbani, dove le periferie
milanesi mal si conciliano con l’incipiente trionfalismo
militaresco del Fascismo, al quale tuttavia Sironi aderisce con
convinzione. Più vicini allo spirito del Novecento sono in
quest’epoca i quadri L’architetto (1922), L’allieva (1924) e la
Solitudine (1925) dove si evidenziano numerosi richiami
classici, addirittura raffaelleschi. Nel 1932, in occasione della
grande mostra sulla Rivoluzione fascista alla Quadriennale di
Roma, si converte ad un’arte collettiva, non più privatistica, che
viene teorizzata nel Manifesto della pittura murale al quale
aderiscono anche Campigli, Carrà e Funi. Nel 1931 aveva già
disegnato i cartoni per l’enorme vetrata del Ministero delle
Corporazioni (ora dell’Industria) progettato da Piacentini. Nel
1935 esegue l’affresco con L’Italia fra le arti e le scienze
nell’aula magna dell’Università di Roma e nel 1936 disegna per
la Triennale il grande mosaico L’Italia corporativa attualmente
nel salone all'ultimo piano del Palazzo dei Giornali in piazza
Cavour a Milano. In questi ultimi anni del regime fascista
esegue molte altre opere di grande impegno in edifici pubblici in
diverse città italiane. A Milano esegue ancora il mosaico La
giustizia tra la legge e la forza nel nuovo Palazzo di Giustizia.
Nel dopoguerra, messo in disparte per i suoi trascorsi fascisti, ritorna
ai temi più intimi delle sue opere degli anni Venti, dipinti spesso
con toni cupi e angosciosi. Muore a Milano nel 1961.
Bibliografia
AA. VV., L’idea del classico 1916-1932. Temi classici nell’arte italiana
degli anni Venti, Milano, Fabbri 1992 (catalogo della mostra)
AA. VV., Da Boccioni a Sironi. Il mondo di Margherita Sarfatti, Milano,
Skira 1997 (catalogo della mostra)
Bossaglia, Rosanna, Il "Novecento italiano". Storia, documenti,
iconografia, Milano, Feltrinelli 1979 (Brera Coll. It. M 170/328)
Bossaglia, Rosanna, Sironi e il Novecento, "Art e Dossier", Inserto
redazionale allegato al n. 53. Firenze, Giunti 1991
Burg, Annegret, Novecento milanese, I novecentisti e il
rinnovamento dell'architettura a Milano fra il 1920 e il 1940,
Milano, Motta 1991
Cannistraro, Philip V. - Sullivan, Brian R., Margherita Sarfatti. L'altra
donna del Duce, Milano, Mondadori 1993
Capone, Goffredo, Tre circoli milanesi. Clara Maffei - Anna Kuliscioff
- Margherita Sarfatti, Milano 1998 (stampato in proprio). Per
l'acquisto rivolgersi a: [email protected]
Sullivan, Brian - Lyttelton, Adrian, The 'Other Woman' (discussione
sul libro di Cannistraro nella "New York Review of Books", in
inglese)
Marchesoni, Dario, La Triennale di Milano e il Palazzo dell'Arte,
Milano, Electa 1985
Marzorati, Sergio, Margherita Sarfatti: saggio biografico, Como,
Nodo libri 1990 (Sormani GEN G 695)
Passerini, Luisa, Mussolini immaginario: storia di una biografia
1915-1939, Bari 1991 (Brera Coll. It. P 424/164)
Pica, Agnoldomenico, Mario Sironi, Milano, Il Milione 1962 (Brera
Misc S 2357)
Pica, Agnoldomenico, Storia della Triennale 1918-1957, Milano, Il
Milione 1957
Saggio, Antonino, Sarfatti versus Marinetti
Sarfatti, Margherita, Deità lungamente profughe
Sarfatti, Margherita, Dux, Milano, Mondadori 1926 (Brera 31 N 9)
Sarfatti, Margherita, Storia della pittura moderna, Roma, Cremonese
ed. 1930 (Brera N S R 1027)
Sarfatti, Margherita, Scritti vari on-line a cura di Benedetto Brugia
Urso, Simona, La formazione di Margherita Sarfatti e l'adesione al
fascismo, in "Studi storici", 1994, 1, p. 153
Link: Biografia di Margherita Sarfatti
Biografia con foto
Uno
scritto sul movimento artistico "Novecento" (in inglese)
Fotografia Ritratto di Margherita con la figlia Fiammetta del
pittore Carlo Socrate
Susan Sarandon nella parte della
Sarfatti nel film Cradle Will Rock di Tim Robbins del 1999
Opere di Margherita Sarfatti reperibili nella biblioteche lombarde
5 Le “imprese” Visconti-Sforza
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi personali dei suoi
membri
a cura di Adriano Bernareggi
Nota del curatore
Da dieci anni ormai l’autrice di queste pagine vive solo nella memoria di chi
l’ha amata. Essendole stato marito, collega, interlocutore culturale, compagno
di viaggio e di avventure, ricordo la sua curiosità gioiosa, la voglia di
conoscere e di far conoscere che la spingeva a esplorare campi della storia e
dell’arte poco battuti dai canoni tradizionali. Fra tali campi c’era il mondo dei
segni e dei simboli come espressione di un linguaggio nascosto, rivelazione di
aspetti della realtà che sfuggono magari al soggetto stesso che lo produce.
Nasceva così il suo libro sul linguaggio dei simboli, “Dal caos al cosmo”, di cui
questa piccola opera è una sorta di corollario, in quanto si applica a una
categoria particolare di simboli, le “imprese” nobiliari, cercando in queste un
approccio inedito a fatti storici di per sé molto noti. Un tempo gli emblemi
nobiliari erano oggetto di un vero culto e di una disciplina raffinata, l’araldica.
Oggi l’araldica è nota solo a una ristretta élite, così i molteplici messaggi
veicolati da quegli emblemi passano per lo più inosservati.
Mentre svolgevamo i nostri studi, seguivamo presso il Centro di Educazione
Permanente del Comune di Milano i corsi di storia milanese tenuti dai proff.
Colussi e Tolfo, con cui ci sentivamo in particolare sintonia per la concretezza
e l’originalità degli aspetti considerati, unite a un estremo rigore scientifico.
Venuta a mancare Franca, riordinavo il materiale e cercavo di pubblicarlo:
invano, fino a quando non ho scoperto nella rete il sito in cui i citati professori
continuano il loro lavoro e mi hanno offerto graditissima ospitalità.
Oltre a loro, ringrazio il mio amico Roberto Schwerdtfeger per l’aiuto che mi ha
dato nel rifacimento del corredo fotografico e l’associazione Dioda di Cusago
per avermi concesso di fotografare l’interno della ex-chiesa di Santa Maria
Rossa.
Indice
1. Cos’è un’impresa
2. “Mit Zeit”
3. Galeazzo II Visconti
4. Giangaleazzo Visconti
5. Filippo Maria Visconti
6. Francesco Sforza
7. Memorie sforzesche in San Sigismondo
8. Galeazzo Maria Sforza
9. Ludovico Sforza detto il Moro
10. Ascanio Sforza
Note e Bibliografia
5.1 Cos'è un'impresa
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Ahi valorosa vipera gentile,
per tua forza oltra mar già navigasti,
ogni onda grossa a te parea sottile
e per vento mai vela non calasti
Or ti convien, se mai virtù mostrasti
ch’or la mostri, e che stanca
non ti trovi, ma franca,
chè al punto se’ d’Italia dominare.
Canzone di anonimo
Capitolo I
Cos'è un'impresa
Nel misterioso e complesso mondo dei simboli, l’impresa occupa un
posto tutto particolare. Il simbolo, dice Jung, traduce in modo
visibile ciò che il linguaggio umano non sa esprimere, ed è
questo il caso degli emblemi araldici, che racchiudono nelle loro
immagini la storia e i sentimenti collettivi di intere generazioni.
Tra i vari tipi di emblema, l’impresa si colloca però con un suo
carattere peculiare, perché non si riferisce alla famiglia nel suo
insieme, ma a un singolo personag-gio, e spesso a un singolo
fatto della sua vita. Non prescinde dall’universale, ma risponde
nello stesso tempo all’insopprimibile necessità umana di
sentirsi definiti nella propria identità, codifi-cando attraverso un
segno gli impegni e il senso di tutta un’esistenza.
Con queste caratteristiche, le imprese compaiono nel XII secolo,
all’epoca dei tornei, quando fu necessario individuare
attraverso un codice il cavaliere prode e generoso nella mischia;
prima di questo periodo esistevano solo insegne militari, atte a
individuare gli schieramenti in battaglia e l’appartenenza ad una
determinata nazione oppure la sudditanza ad un signore e ad
un sovrano.
L’impresa consiste di un “corpo” e di un’ “anima”. Il corpo raffigura
animali o piante scelti in un universo più o meno fantastico,
strumenti musicali, oppure i quattro elementi fondamentali
(acqua, aria, terra, fuoco), a dimostrazione di un contenuto
esoterico ed alchemico. Il corpo, per vivacità di colore, è
sempre assai gratificante alla vista. L’anima consiste nel motto,
conciso ed efficace, spesso forgiato appositamente in una
lingua straniera per essere comprensibile a pochi eletti. Nel
caso di imprese amorose, il motto risulta addirittura oscuro,
dovendo essere inteso solo dalla dama del cuore, la cui identità
si voleva celata all’indiscrezione altrui. Il successo delle
imprese non conosce declino: chi va in guerra o si cimenta in
un torneo attraverso il loro linguaggio può, in caso di sorte
nefasta, affidare ai posteri la propria memoria storica e sperare
in un’onorevole collocazione nell’universo mitico. I Francesi
fecero grandissimo uso di imprese, adornandone abiti e berretti
oltre che regolamentari vessilli; in Italia durante il periodo delle
Signorie, quindi in un clima acceso dalle rivalità politiche,
pullularono imprese spesso concorrenziali, per pubblicizzare le
qualità di questo o quel Signore. Per chi ama la storia
costituiscono materiale insostituibile, proprio perché, essendo
legate a momenti particolari di un’esistenza, ci permettono di
scoprire l’umanità di personaggi storici spesso lontanissimi da
noi nel tempo.
Le imprese Visconti-Sforza costituiscono un caso notevole, perché,
pur essendo state ideate in circostanze e tempi diversi nel
corso di quasi due secoli, appaiono spesso coordinate in un
unico ciclo, come a voler marcare la continuità della famiglia
ducale in luoghi fortemente segnati dalla sua presenza; tali
sono ad esempio, il cortile della Rocchetta e numerose sale del
castello di Milano; L’abside di S. Maria delle Grazie; la Piazza
ducale a Vigevano; il coro e la porta del chiostro di S.
Sigismondo a Cremona. Proprio per questa loro intima
coerenza nel presentarsi ad un pubblico ormai lontano nel
tempo e disabituato a cogliere il loro messaggio segreto, ci
sono sembrate degne di considerazione e di studio.
5.2 “Mit Zeit”
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo II
“Mit Zeit”
“Mit Zeit”, col tempo; “Ich hof”, io spero; “Merito et tempore”…, oggi
si direbbe “il tempo è galantuomo”. Nell’elaborare un progetto di
regno italico, unici in questo tra le famiglie potenti della loro
epoca, i Visconti-Sforza s’appellarono alla “giustizia” del tempo,
giustizia che come vedremo non venne loro riconosciuta. Fu un
cammino, il loro, tormentato dall’ansia di legittimazione da parte
dell’autorità imperiale e dal desiderio di apparire ai sudditi delle
terre conquistate come inviati dalla Provvidenza per compiere
dei disegni divini. I risultati furono effimeri. Le loro imprese
araldiche rappresentano delle vere tappe che esprimono di
volta in volta le speranze di ritorno dall’esilio, il riscatto da un
passato umiliante, l’orgoglio per aver costituito un regno a
carattere ereditario in cui esisteranno solo pace e prosperità.
Sullo scenario drammatico di una Milano in piena crisi comunale, le
famiglie Torriani e Visconti si affrontano per ottenere il controllo
della città. La via Case Rotte ricorda ancor oggi uno dei tanti
episodi violenti di questa guerra che vede in un primo tempo i
Torriani affermarsi in qualità di Anziani o Podestà perpetui del
popolo. Dovremo aspettare il 21 gennaio 1277 per vedere, dopo
la battaglia di Desio, questi ultimi in ginocchio, battuti
dall’arcivescovo Ottone Visconti. In ginocchio è infatti raffigurato,
nel ciclo di affreschi che commemorano il fatto nella rocca di
Angera, Napo Torriani mentre chiede pietà per sé e per la sua
gente al grande nemico che, nominato arcivescovo di Milano
nel 1262 dal papa Urbano IV, proprio a causa dell’ostilità dei
Torriani aveva dovuto aspettare quindici anni per occupare la
propria sede.
Signore in sordina Ottone, Signore pubblicamente riconosciuto il
nipote Matteo che lo sostituì nel governo della città. Fu grazie
all’esborso di 75.000 fiorini oro versati a spese della comunità
che nel 1311 Matteo venne nominato dal “grande Arrigo”,
l’imperatore di dantesca memoria, Vicario imperiale. L’aquila
nera dalle ali patenti, simbolo dell’impero, proteggerà d’ora in
poi il biscione, “la vipera ch’el Milanese accampa”, come dice
Dante nel Purgatorio. Da insegna militare il biscione è diventato
stemma di famiglia. Secondo la leggenda ricordata anche dal
Tasso (“Gerusalemme liberata”, canto I), questa vipera o
biscione era raffigurata sullo scudo di un feroce saraceno, vinto
e ucciso durante la prima crociata da un “forte Otton”, omonimo
antenato dell’arcivescovo. Portato in terra lombarda, fece la sua
prima apparizione a Legnano, sulla facciata di un palazzo
proprietà dei Visconti. Lo scultore Lombardi, nel realizzare una
delle porte del duomo di Milano, dà credito a questa leggenda e
raffigura l’episodio del saraceno ucciso mentre imbraccia lo
scudo “su cui dall’angue esce un fanciullo ignudo”
(“Gerusalemme…” ibidem).
Tavola 1 - “Il forte Otton che conquistò lo scudo su cui dall’angue
esce il fanciullo ignudo” (Tasso) abbatte il saraceno cui toglierà
l’impresa, mentre Giovanni da Rho entra in Gerusalemme
(Milano, Duomo, porta Lombardi)
La “parlera” (balcone) da cui venivano annunciate, fra l’altro, le
condanne a morte. Le immagini simmetriche del biscione
inquadrano l’Aquila della giustizia. La chiusura a cerchio della
seconda spira indica che ci troviamo in presenza del ramo
principale della casata.
Una versione moderna del Biscione, col motto di Galeazzo II, “Ic[h]
hof”, “Io spero”. Castello sforzesco, torre “del Filarete” (in realtà
del Beltrami, 1905)
Il Biscione utilizzato in due noti marchi commerciali. In quello di
Canale 5 l’uomo nelle fauci del rettile si è trasformato in un più
rassicurante fiore.
La vera impresa di Matteo non consiste tanto nell’aver ottenuto che
l’aquila imperiale si inquar-tasse col biscione, quanto nell’aver
commissionato ad un pittore rimasto per noi ignoto il ciclo
pitto-rico della rocca di Angera, un tempo proprietà della diocesi
ambrosiana ma incamerata dall’arcive-scovo tra i beni della
famiglia, non senza l’autorità di un documento redatto
appositamente per dimostrarne l’antica appartenenza viscontea.
Quanto meno limpide sono le origini di un potere politico, tanto
più sono necessarie giustificazioni dedotte dal corso del destino.
La propaganda viscontea, che aveva già individuato ai tempi
della prima crociata la missione dei Visconti come vincitori delle
forze del male, ora li vede in questo ciclo restauratori dell’ordine
cosmico.
Nella sala della Giustizia della rocca (e la scelta della sala non è
certo casuale) Matteo sco-moda addirittura la Provvidenza,
raffigurata mentre aziona la ruota della Fortuna, affinchè in
armonia coi cicli cosmici, il 21 gennaio 1277, avvenisse la
disfatta dei Torriani. In realtà di provvidenziale in questa
battaglia ci fu solo la soffiata di un traditore che permise di
sorprendere i nemici nel sonno, dando luogo ad un eccidio
notturno. Non sarà un problema per Ottone, incontrastato
vincitore, risparmiare per il momento Napo Torriani. La Fortuna,
sempre al servizio della Provvidenza, farà sì che il Visconti si
“dimentichi” di lui nella gabbia appesa davanti al Palazzo
Pubblico, sinchè fame, intemperie e uccelli rapaci compiranno
la loro giustizia.
Rocca di Angera, sala della Giustizia. Il Biscio-ne, ormai divenuto
stemma di famiglia, suggella i fasti di casa Visconti raffigurati
sulle pareti. Tra questi, fondamentale la vittoria di Desio sui
Torriani, qui ricordata con l’immagine dello sconfitto Napo che
implora pietà per sé e per la sua parte.
Rafforzò Matteo il suo potere non solo territorialmente, creando una
cintura di città satelliti controllate dai figli attorno a Milano
(Alessandria, Novara, Monza, Bergamo, Como, Piacenza e
Tortona), ma lo temprò soprattutto nella lotta con Giovanni XXII.
Il Papa non tollerava nella prestigiosa sede di Milano un Vicario
imperiale che limitasse la sua influenza. Dalla sede di Avignone
lanciò delle terribili accuse contro Matteo ed i suoi figli: eretici,
detentori di libri magici, vessatori della Chiesa (avevano
confiscato i beni ecclesiastici ritenuti improduttivi), di condotta
impudica (i giovani Visconti andavano dicendo in giro che
giacere con donne non è peccato).
Da Signore desideroso di verificare la solidità del suo operato,
Matteo abdicò a favore del più anziano dei suoi figli, Galeazzo,
sposo di Beatrice d’Este, vedova di quel Nino “gentil” giudice di
Gallura, che in Purgatorio si era lamentato con Dante della
volubilità dell’animo femminile. Vedova non proprio
inconsolabile, Beatrice era convolata a nuove nozze col
Visconti prima che fosse trascorso il periodo di lutto. Il frutto
della nuova unione era stato Azzone, succeduto al padre nel
1329. L’impegno politico di Azzone fu quello di vanificare le
restanti libertà comunali e non solo per i Milanesi. Lo fece in
modo non traumatico, da quel Signore raffinato che era, e lo
giustificò col successo delle sue azioni, decise “colà dove si
puote ciò che si vuole”. Fu infatti l’intervento miracoloso di
sant’Ambrogio a volgere a favore di Azzone la battaglia di
Parabiago contro il rivale cugino Lodrisio: l’evento straordinario
è ricordato nella cappella Grifi di San Pietro in Gessate, nella
Crotta-Caimi in S. Eustorgio e in una formella della porta del
Castiglioni sulla facciata del Duomo.
Lo giustificò ancora con l’apparato iconografico del proprio
monumento funebre ancor oggi visibile, seppur mutilo, nella
chiesa che Azzone volle dedicata a san Gottardo, protettore dei
gottosi, perché gli lenisse i tormenti del male. Sul sarcofago,
confortate dai rispettivi santi protettori, piangono assieme alla
vedova Caterina di Savoja, le città assoggettate al potere
visconteo. Piangono un tiranno liberticida? No, piangono chi
aveva garantito loro sicurezza e pace, e proprio per questo
aveva ottenuto dall’imperatore Venceslao, presente fra i dolenti,
il rinnovo del Vicariato imperiale.
Non dovettero dispiacersi più di tanto i Milanesi per le libertà perdute,
impegnati com’erano a trarre profitto dai commerci,
particolarmente fiorenti grazie alla sicurezza che le milizie
mercenarie, impiegate per la prima volta in modo sistematico da
Azzone, garantivano. Senza dubbio furono anche gratificati d
una Milano che si faceva bella, pervasa com’era da un soffio di
gusto toscano: Giovanni di Balduccio aveva ingentilito con
Madonne e santi protettori le porte cittadine, aveva eretto in
Sant’Eustorgio un’arca a Pietro Martire, opera senza eguali per
eleganza e spiritualità.
Nel 1339, alla morte di Azzone, dei cinque figli di Matteo (Galeazzo,
Marco, Luchino, Ste-fano, Giovanni) erano rimasto solo Luchino
e l’arcivescovo Giovanni. Prode soldato il primo, porta impressi
sul corpo i segni di animose battaglie; il secondo dissimula
interessi politici con la cura di studi umanistici nella sua sede
dell’Incoronata. Luchino mira ad una conservazione personale
del potere. La congiura dei Pusterla, vera o presunta, gli dà
modo di sbarazzarsi di una famiglia nobile, potente e pericolosa.
Si dice che i congiurati facessero sotto tortura i nomi dei suoi
stessi nipoti, Ga-leazzo, Matteo e Bernabò, i figli di Stefano
Visconti e Valentina Doria. Fu un buon motivo per le-varseli di
torno, condannandoli all’esilio. L’orgoglio ferito di Galeazzo,
esule in terra di Francia, lo spingerà a creare la sospirosa
impresa del leone galeato con motto di speranza sul proprio
ritorno in patria, cosa che avvenne alla morte di Luchino.
Tornato e riacquistata la propria dignità di Signo-re, Galeazzo
condivise il governo di Milano col fratello Bernabò. Sparì presto
dalla scena e al figlio Giangaleazzo, enigmatico adolescente,
lasciò campo libero perché dispiegasse tutta la sua abilità
politica.
Con Giangaleazzo la politica viscontea toccò il vertice del successo
e, nello stesso tempo, mostrò tutta la sua fragilità. Le imprese di
questo Visconti rappresentano la coerente espressione dei suoi
progetti e delle tappe percorse per realizzarli, sottolineandone
sempre l’ispirazione divina. Ottenne il titolo ducale, la morte
improvvisa gli impedì di consacrare un regno già
territorialmente conquistato. Delle sue ambizioni rimasero una
cattedrale, quella che aveva legato in voto per la nascita di un
erede tardo a venire, una cappella funeraria degna di un re, un
testamento che tormentò gli eredi.
Dei quali eredi il cielo, tanto invocato a giustificazione di una politica
aggressiva, si compiacque poco: il primogenito fu eliminato da
una congiura; il secondogenito, divenuto terzo duca, dovette
destreggiarsi fra l’espansionismo dei Veneziani, l’arroganza dei
capitani di ventura ormai veri arbitri della situazione, e la
mancanza di un erede maschio. Fu proprio con uno di questi
capitani, il saggio e maturo Francesco Sforza, che pensò di
risolvere i problemi di continuità dinastica e stabilità del ducato,
dandogli in moglie Bianca Maria, figlia naturale ma legittimata.
Valse a poco la propaganda raffinata messa in atto da Filippo
Maria per rassicurare i sudditi sulle capacità politiche del suo
successore e sulla legittimità della propria discendenza: alla
morte del duca Francesco e Bianca Maria si trovarono a dover
rifondare una stato che di solido non aveva altro se non il loro
legame coniugale. La chiesa di san Sigismondo a Cremona, in
cui fu celebrato il matrimonio il 25 ottobre 1441, assunse un
significato particolare. Fu trasformata in un tempio votivo a
gloria del nuovo stato, dell’aspirante duca e della sua futura
prole. Le nozze di Francesco e Bianca Maria sono immortalate
nell pala di Giulio Campi, posta sull’alter maggiore: a
proteggerle, in quanto atto di fondazione di un nuovo stato,
sono presenti i santi venerati il 25 ottobre dal calendario
romano, Sigismondo, Gerolamo, Crisante, Daria; ad approvarle
e quindi a legittimarle appare la Vergine in una gloria di angeli.
La sorte volle che il tanto contestato Francesco e la sua
discendenza fossero riconosciuti legittimi dalle dominazioni
straniere: tanto il re di Francia Luigi XII quanto l’imperatore
Carlo V e il suo successore Filippo II non si sottrassero al
rispetto dei tanti benefici concessi da Bianca Maria alla chiesa
di san Sigismondo, il cui ricordo permane nell’unica impresa
raffigurante un forziere con mano divina radiata che porge la
chiave, visibile ancor oggi in uno stallo del coro.
Il problema della legittimità del potere non angosciò il figlio di
Francesco, succeduto al padre e noto fra i contemporanei come
“testa bucata”, tutto preso com’era a godere dei vantaggi della
sua posizione. Preoccupò invece, e parecchio, Ludovico il Moro,
reggente in nome del giovanissimo nipote, figlio del defunto
Galeazzo Maria. Intravide la possibilità di un regno tutto per sé,
sia pur al prezzo di dover attraversare mari procellosi, come
indica una sua raffinata impresa. I tempi non gli furono
favorevoli: l’impresa dell’arcobaleno, propria del fratello Ascanio
a lui vicino in tragiche circostanze, gli profetizzò un regno
sereno non certo su questa terra.
5.3 Galeazzo II Visconti (1355-1379)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Galeazzo II Visconti (1355-1379)
Imprese:
Tizzoni ardenti con funi e secchi. Motto: “Humentia siccis”
Leone galeato con tizzoni e secchi. Motto: “Ich hof”
“Ich hof”…. “Perch’io no spero di tornar giammai…” avrebbe potuto
tradurre un altro esule famoso, Guido Cavalcanti, per questo
figlio di Stefano Visconti e Valentina Doria. Dieci anni di esilio
trascorsi in terra straniera non lasciavano molte speranze di
tornare, c’era di che ringraziare lo zio Luchino. Ma la triste
esperienza fu davvero una grande scuola di vita per il giovane
Galeazzo. Vinto in duello il Conestabile di Borbone – stando a
quanto dice il codice Cremosano [1] – s’impossessò della sua
impresa composta da tizzoni ardenti con funi e secchi e la
trasferì tra le zampe di un leone accosciato e “galeato”. Gàlea
in latino significa elmo, “galeatus” è colui che porta l’elmo: sotto
le sembianza di questo superbo animale si cela quindi
Galeazzo che, umiliato dal dover far dipendere il proprio
destino dall’altrui voglia, ha imparato a controllare l’ardore del
proprio temperamento con la freddezza della ragione (l’acqua
contenuta nei secchi). In una parola, ha imparato la
temperanza, dote fondamentale per un politico.
Tavola 6 - Tizzoni ardenti con funi e secchi (a sinistra). Impresa
conquistata in occasione del duello con il Connestabile di
Borbone e in seguito trasferita tra le zampe del Leone galeato
(a destra). Milano, Castello Sforzesco, cortile della Rocchetta.
Buon politico si mostrò al suo ritorno in patria, una volta scomparso
Luchino. Obbedì allo zio, l’abile arcivescovo Giovanni, che
suggerì per Galeazzo e Bernabò il matrimonio rispettivamente
con Bona di Savoja e Beatrice “Regina” della Scala. Assicurata
la pace con i due potenti vicini del Piemonte e di Verona, potè
dedicarsi alla costruzione del castello di Porta Giovia,
frapponendo una prudente distanza fra sé e l’esuberanza
crudele di Bernabò, col quale, morto l’altro fratello Matteo, era
costretto a dividere il potere. Preferì custodire moglie e figli nel
bel castello di Pavia. Su consiglio del Petrarca, vecchio ospite
ed amico dell’arcivescovo Giovanni, fondò in questa città
un’università ben presto famosa. Avviò una politica di
matrimoni regali che introdussero i Visconti nello scacchiere
internazionale: il giovane Giangaleazzo sposò Isabella di Valois,
figlia del re di Francia e signora della contea di Vertus; Violante
convolò a nozze con Lionello duca di Clarence, figlio del re
d’Inghilterra.
Una dolorosa artrite tormentò gli ultimi anni di Galeazzo,
accentuando nei suoi atti quanto di torbido e malfido ci fosse
nel carattere dei Visconti e facendogli tradire l’impegno
palesato nella sua impresa. Oltre alle membra, gli si rattrappì
l’animo in una insolita avarizia: adducendo a pretesto la paura
delle congiure, non tenne corte, mal pagò il personale e le
milizie; pur di rastrellar denaro, nell’esercizio della giustizia
privilegiò le pene pecuniarie. Compensò tale avarizia
profondendo somme enormi, non sempre tutte sue, nel gioco
dei tasselli e, a dar retta all’Azario [2], in interminabili opere
edilizie che faceva distruggere al solo scopo di costruirne di
nuove, recuperando, ben s’intende, i materiali di quelle
demolite… Lasciò il potere nelle mani di un giovane che stupirà
per l’abilità del calcolo politico.
5.4 Giangaleazzo Visconti (I Duca di Milano)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo IV
Giangaleazzo Visconti (I Duca di Milano)
Imprese:
Sole raggiante
Colombina. Motto: “A bon droit”
Capitergium
Morso. Motto: “Ich vergies nicht”
Sotto forma di sole raggiante, l’impresa di Giangaleazzo troneggia
nella vetrata absidale del nostro Duomo. Il Duca è come il sole,
fonte di vita per i suoi sudditi ed emblema di giustizia. Come il
sole separa la luce dalle tenebre, così il Signore di Milano
esercita la giustizia, separando il bene dal male. Ma c’è di più:
legittimato il suo potere nel 1395 grazie ai 100.000 fiorini d’oro
sborsati
all’imperatore
Venceslao
(l’aquila
imperiale
s’inquarterà d’ora in poi stabilmente con il biscione), divenuto
un monarca a tutti gli effetti, Giangaleazzo ha trasceso la
condizione umana per assumere quella divina, propria dei
sovrani e dell’imperatore stesso. La sua immagine ora può
fondersi con quella del Cristo-Re, sole di giustizia che, al suo
sorgere, illumina il Duomo. L’impresa sottolinea lo splendore
raggiunto da questo Visconti, che ha trasformato la signoria in
un vero e proprio regno con tanto di diritto ereditario.
Tavola 7 - L’impresa del sole raggiante (“razza”) troneggia nella
vetrata absidale del duomo. Qui la vediamo sia dall’interno che
dall’esterno.
Questo grande successo è ricordato anche dal “capitergium”: un
velo avviluppato intorno a un cercine, annodato oppure a
cocche pendenti. Il termine mediolatino, derivato da “caput
tergere”, indicava forse, in origine, una fascia usata per
proteggere il volto dal sudore. In milanese è comu-nemen-te
chiamato “gassa”. Si tratta del serto o infula degli antichi
dominatori; conferito nelle investiture regali ed episcopali, è una
conferma dei poteri sovrani, della loro valenza sacerdotale e
della loro universalità. Nel giorno dell’incoronazione, il
luogotenente imperiale pose sul braccio di Gianga-leazzo, che
già aveva indossato il mantello di vajo e calzata la berretta
ducale, un capiter-gium co-sparso di gemme del valore di
200.000 fiorini d’oro.
Tavola 8 - Capitergium
Capitergium decorato a
conservata a Lucerna
“onde
montanti”.
Rotella
sforzesca
Capitergium arricchito dai “piumai”. Cortile della Rocchetta
L’impresa del sole raggiante appare spesso ingentilita da una
colombina bianca recante nel becco un cartiglio con il motto “A
bon droit”. Bona di Savoja, la moglie di Galeazzo Maria Sforza,
volle per sé decorata con questa bella immagine un’intera
stanza, ancor oggi visibile nel Castello Sforzesco. La colombina
col sole raggiante orna il messale miniato da Annovello da
Imbonate che Giangaleazzo aveva donato alla basilica
ambrosiana a ricordo della propria incoronazione; fra i gioielli
portati in dote da Valentina Visconti, figlia del primo duca di
Milano, a Luigi d’Orléans, secondo il racconto del Corio,
spiccava per preziosità una collana “fatta a brievi con lettere a
Bon Droyt con tortorelle diciotto d’oro e una bianca in un raggio
con rubino al petto”: l’impresa del padre.
Tavola 9 - Colombina nel sole raggiante col motto “A bon droyt”. A
sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a destra, capitello del
cortile della Rocchetta.
L’origine di questa impresa, già appartenente a Isabella di Valois, e
del motto che la anima ci viene spiegata dal poeta di corte
Francesco di Vannozzo e dal Decembrio, precettore di Filippo
Maria Visconti. Entrambi li attribuiscono all’ingegno del
Petrarca. In una Canzone appositamente composta per
Giangaleazzo, Francesco di Vannozzo narra di aver avuto una
visione durante la quale il Petrarca gli era apparso e gli aveva
confidato di essere l’autore dell’impresa:
Il sole e l’azur fino che tengon in sua brancha quella uccelletta
bianca qual “A bon droyt” in dolce becco tene che la sentenza
mia tutta contiene.
Cos’era successo? Ai tempi della sua adolescenza, quando aveva
dovuto subire le intempe-ranze dello zio Barnabò,
Giangaleazzo aveva mostrato una mitezza che gli eventi storici
di cui fu protagonista in seguito ci fanno pensare sia stata
simulata. Comunque sia, aveva espresso al Petrarca, a lui
familiare perché ospite della corte viscontea e dell’Università di
Pavia, il sogno di un paese unito, in pace e non devastato dalle
milizie mercenarie. La mitezza d’animo e le buone intenzioni
espresse dal giovane Visconti gli accattivarono le simpatie e la
fiducia del poeta, ben sensibile, come sappiamo, al problema
delle “peregrine spade”. Col cuore aperto alla speranza di una
pace duratura, il poeta si era accomiatato dal Visconti
donandogli questo emblema augurale, che attraverso il motto
sanciva la legalità delle azioni del futuro duca. Nel 1385
Giangaleazzo strinse un’alleanza con Pisani, Lucchesi, Senesi
e Perugini per eliminare dall’Italia le milizie mercenarie. “Pax”
garrivano i vessilli della confederazione! Ma il sogno di pace del
Petrarca non si avverò e il buon diritto attribuito al duca si
realizzò in una politica tirannica.
La capacità di simulazione del primo duca di Milano è confermata
dall’impresa del “Morso” accompagnata dal motto “Ich vergies
nicht”, io non dimentico. Questa impresa decora una lettiera e
un carro che Luigi d’Orléans fece costruire per la moglie
Valentina Visconti. Il morso è un invito a frenare l’impulsività del
carattere e richiama alla riflessione e alla necessità
d’adattamento. Alla morte di suo padre, Giangaleazzo per
sopravvivere aveva dovuto adattarsi al clima di corte dominato
dalla prepotenza di Bernabò e dall’arroganza di tutta la sua
cerchia: si era fatto piccolo piccolo, si era finto inetto al governo,
timido ed irresoluto; aveva sopportato senza batter ciglio lo zio
che lo svillaneggiava pubblicamente e ne derideva la capacità
di beneficare e perdonare. Vedovo di Isabella, aveva accettato
il matrimonio con una figlia di Bernabò, Caterina, rinunciando a
quello ben più prestigioso con Maria regina di Sicilia. Ricorderà
tutto al momento opportuno.
Tavola 10 - Il Morso col motto “Ich vergies nicht”. Clipeo di S. Maria
delle Grazie.
L’atto di accusa compilato da Giangaleazzo nei confronti dello zio è
assai duro: “Ipse dominus Barnabos diebus suis scientificos,
laicos, chiericos e prelatos ac quoslibet virtuosos viros odio
habuit et idiotas, crudeles et abiectos viros, infames (…)
sempre sublimavit”. Fu ordita una congiura il 5 maggio 1385:
catturato a tradimento, Bernabò fu rinchiuso nelle segrete del
castello di Trezzo; vi morì non molto tempo dopo, non si sa se
di veleno o per orgoglio ferito.
L’eco di una congiura fatta ai danni di un parente stretto suscitò
grande emozione e scalpore. Come succede davanti a una
vittima, ci si ricordò delle sue buone qualità: aveva senso della
giustizia, magari ferino (la novellistica in proposito è copiosa); si
circondava a corte di buffoni e poeti di non eccelsa levatura, ma
aveva dimostrato sensibilità artistica, facendo edificare, con
l’aiuto della moglie Regina della Scala, la chiesa omonima e
disseminando di costruzioni il territorio lombardo. In suo ricordo
ci restano la chiesa di Santa Maria Rossa in Monzoro e il
castello di Pandino.
Tavola 11 - A sinistra, ciò che rimane oggi della chiesa di San
Giovanni in Conca. A destra, la facciata reim-piegata per la
chiesa valde-se di via F. Sforza.
Tavola 12 - Bonino da Campione: monumento funebre di Bernabò
Visconti proveniente dalla distrutta chiesa di S. Giovanni in
Conca, ora nei Musei del Castello Sforzesco di Milano. Scene
sacre (sono visibili gli evangelisti e una Pietà) decorano il
sepolcro, mentre Sapienza e Fortezza affiancano (anche in
funzione statica) la cavalcatura dell’eroe.
Tavola 13 - Il Castello di Pandino.
Tavola 14 - In alto, esterno e interno della chiesa di S. Maria Rossa
in Monzoro. Nel corni-cione dipinto sotto il tetto si alternano il
Biscione e la scala degli Scaligeri, a ri-cordo del matrimonio di
Bernabò con Regina della Scala.
Memore dei benefici ricevuti, il poeta di corte Braccio Bracci trovò il
modo di ricordare le doti del suo protettore:
Bernabò … Non perde mai tempo visita sue castella e sua città giusti
decreti fa …
Egli è signor prudente oltre misura e ante vede con occhi mortali …
C’è poi chi, come Marchionne Arrighi, altro poeta cortigiano, dà voce
al lamento del tradito:
O figliol mio da me tanto amato più che la luce mia certamente
perché ha’ così mal consiglio pigliato?
Conte di Virtù, nievo e parente, marito di mia figlia incoronato
intrinseco in un corpo veramente ricierche la tua mente
ch’abbia misericordia di me in tal forma che il nostro sangue
indietro non ritorna.
Esequie degne del rango (Per Lombardia fecie risuonare città e
castella e tutta chiericìa quando alla sepoltura il fe’ portare da
cavalier e nobil baronia e le bandiere in terra fe’ tirare) con
campane “a mortorio” non dovettero certo ripagare Bernabò del
danno e della vergogna di aver subito un simile affronto da uno
che gli pareva un inetto. Alla memoria dei posteri lo affidò
Bonino da Campione con un monumento progettato quando il
Visconti era ancora potente: rispecchia la descrizione fattane
da Braccio Bracci in un sonetto di garbo cortigiano:
Elli ha le membra ben proporzionate e sua statura è dritta come un
strale e d’un leon pare il suo largo petto.
Elli è sì bello in ogni uman cospetto ch’ogni altro bello presso a lui
par nulla.
Trasferito dalla cappella di famiglia di San Giovanni in Conca al
museo del Castello, dall’alto della sua cavalcatura Bernabò
ricorda ancor oggi a visitatori ignari il suo dramma.
Rimasto solo al potere, Giangaleazzo non ha più bisogno di simulare.
Riprende la politica espansionistica dei Visconti col preciso
progetto di un regno d’Italia. Dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia
alla Toscana, il Biscione inghiotte una miriade di città opulente,
strategicamente importanti, attirandosi rinnovate invettive come
quella famosissima che il Sacchetti [3] aveva coniato per le
mire espansionistiche di Bernabò:
Biscia, nemica di ogni ragione umana ch’el verno, quando l’altre stan
sotterra, tu vai mordendo e facendo guerra (…)
Credi tu sempre, maledetto serpe, regnar vivendo pur dell’altrui
sangue essendo a tutti velenoso tarlo?
Nel 1387, rispettivamente l’8 e il 22 ottobre, erano cadute in mano
viscontea Verona e Vicenza. E’ un’occasione d’oro per i poeti
cortigiani di celebrare l’uomo mandato da Dio “per pace dare
all’italica gente”: così Francesco di Vannozzo definisce il conte
di Virtù in una “Cantilena” a lui dedicata. Il Biscione è divenuto
Una bissa vertudiosa che tuttora se ingegna de non donar
veneno a chi nol brama (buoni infatti sono i rapporti tra i Signori
spodestati e il Visconti: Guido Novello continua a risiede-re a
Padova e a tenervi corte fastosa nonostante si sia arreso a
Giovanni Dal Verme, capitano delle truppe viscontee). Sempre
nella suddetta Cantilena il fantasma del Petrarca sollecita
l’autore perché ricordi al suo Signore la responsabilità che gli
viene data dal grande destino prescrittogli da Dio:
Il bel destin che dal cielo t’è dato re nostro sacrosanto illustre prince
a questo punto tutta Italia vince facendo ciascun popol
consolato.
Tutte le città del nord – dice il poeta al di là di ogni credibilità – sono
pronte ad accogliere il nuovo Signore. Venezia offre il suo porto
perché vi si radunino le truppe viscontee e partano per una
crociata di liberazione del Santo Sepolcro; Padova, pur
riconoscendone la saggezza, ha già rinnegato la signoria dei
Carrara e attende l’uo o del destino:
Io son quella città che fui fondata
per mano d’Antenor anticamente, e ben che il mio rettor sagio e
potente m’abbia tra l’altre con onor trattata, la desiata tua
dolce sembianza nel cor m’ha rifermato ardire e posa (…) per
medicare ogni tarmata scorza che l’aer, il fuoco e la terra ti
chiama e l’ampio mar la tua venuta brama.
S’aggiunge al coro una città emiliana, Bologna, felice di essersi
liberata dalla schiavitù pontificia. La voce solenne di Roma
riassume quelle di tutte le altre città:
Io son la negra Roma che l’aspetto per farmi bella con pulita lena; e
non dubbiar che zò che a te lui mena è il priego mio che al cielo
ogni dì zetto (…) Italia ride ed è zunto il Messia Alla voce di
Francesco di Vannozzo si unisce anche quella di un poeta per
noi rimasto anonimo:
Stan le città lombarde con le chiave in man per darle a voi, sir di
Virtute, per risanar le loro aspre ferute, che son tanto cocienti e
così prave (…) Roma vi chiama: Cieser mio novelo i’son ignuda
e l’anima pur vive, or mi coprite col vostro mantelo po’
francherem colei che Dante scrive “non donna di provincie ma
bordelo”, che piane troverem tutte sue rive.
Nel cerimoniale dell’incoronazione il luogotenente imperiale
riconobbe tre volte beata la Lombardia in quanto, dopo tanto
soffrire, aveva finalmente trovato un figlio e un duca.
A coronamento del suo destino, Giangaleazzo volle una cattedrale
degna di un regno, la più grande d’Europa. Una statua di san
Giorgio con le sue fattezze avrebbe dovuto svettare sulla guglia
maggiore a sottolinearne la funzione d’intermediario fra cielo e
terra. San Giorgio è un santo sauroctono, di quelli che
sconfiggono le forze del male a vantaggio della comunità. Con
questo simbolo Giangaleazzo intendeva continuare la
tradizione dei Visconti, che avevano sconfitto successivamente
i Saraceni, i Torriani e tutti coloro che si opponevano alla loro
“giustizia”. Destino volle che questa statua finisse invece su di
una guglia minore, la prima completata, quella detta Carelli dal
nome del mercante veneziano di schiave che, sentendo
avvicinarsi la morte, pensò di alleggerirsi la coscienza con un
sostanzioso lascito alla Veneranda Fabbrica.
Tavola 15 - Giangaleazzo ritratto giovane dall’Amadeo (a destra) e
trasfigurato (a sinistra) nell’effigie di S. Giorgio destinata a
coronare la guglia maggiore ma poi trasferita alla guglia Carelli.
Museo del Duomo.
Tavola 16 - Duomo di Milano, porta Minguzzi. L’arciverscovo Antonio
da Saluzzo approva il modello del Duomo (sopra) e ne
benedice la prima pietra (sotto).
Profuse la dote della moglie Caterina in un mausoleo degno di una
famiglia reale, la Certosa di Pavia. Morì all’improvviso nel 1402,
colto da una febbre misteriosa a un soffio dalla realizzazione
del suo sogno di conquista. Firenze, pronta a sostenere
l’assedio delle sue truppe, dovette trarre un sospiro di sollievo.
Tavola 17 - Immagini di Giangaleazzo nella certosa di Pavia.
Il duca offre il modello della chiesa alla Madonna, affresco del
Bergognone. Nella veste appare l’impresa dalla colombina
nella”razza”.
Sculture del portale: Corteo funebre del duca (a sinistra). Posa della
prima pietra (a destra).
Tomba del duca e particolare.
5.5 Filippo Maria Visconti (III Duca di Milano
1412-1447)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo V
Filippo Maria Visconti (III Duca di Milano 1412-1447)
Impresa: “Piumai”
Filippo Maria era nato dalle seconde nozze di Giangaleazzo con
Caterina, figlia di Bernabò. Successe al fratello Giovanni Maria,
il principe ricordato dai cronisti dell’epoca come “imbecille e
crudele” e pertanto assassinato sulla soglia della chiesa di san
Gottardo. Malaticcio, goffo nella persona, superstizioso e
malfido, si sbarazzò della prima moglie Beatrice di Tenda, la
matura vedova del suo primo capitano Facino Cane, facendola
decapitare con l’accusa di adulterio; lasciò languire la seconda,
Maria di Savoja, dimenticandola in un’ala del castello. Preferiva
i giovanetti, purchè di bell’aspetto, il che non gli impedì una
relazione con Agnese del Majno, dalla quale nacque Bianca
Maria, ultima dei Visconti. Tetro e ombroso il duca, splendente
invece la sua impresa, i famosi “piumai”. Si tratta di una corona
nobiliare tempestata di pietre preziose, attraversata da due rami
intrecciati di palma e d’ulivo. L’ulivo è da sempre simbolo di
pace, la palma indica umiltà e capacità di adattamento. I
ramoscelli intrecciati nella corona ducale erano apparsi in uso
già ai tempi di Giangaleazzo, quando il ducato di Milano aveva
ormai “inghiottito” Liguria, Emilia, buona parte della Toscana,
tutte terre assai diverse tra loro e che mal tolleravano il giogo
visconteo. Giangaleazzo si proponeva come garante di pace e
di prosperità, i frutti dell’ulivo erano una promessa, a patto che i
sudditi, come i ramoscelli della palma, si fossero piegati al suo
governo. L’impresa di Filippo ha avuto un’altra origine. E’ un
pegno di amicizia, nato in dolorose circostanze, quelle che
videro Alfonso I d’Aragona in guerra con Renato d’Angiò,
pretendente il regno di Napoli. Catturato con i suoi fratelli a
Ponza dall’ammiraglio genovese Biagio Assereto, Alfonso fu
portato prigioniero a Milano. La sua magnanimità e la sua
cultura affascinarono l’ombroso Visconti, il quale nutrì nei suoi
confronti se non proprio sentimenti di amicizia, poco probabili in
una natura ambigua e sospettosa come la sua, almeno un
grande rispetto. Ne ordinò l’immediata scarcerazione, mutò
rotta alla sua politica e lo aiutò nella conquista del Napoletano.
L’avvenimento fu solennizzato col dono al duca milanese
dell’impresa personale di Alfonso. Questa notizia ci viene fornita
da Francesco Castello nel “Compendium vitae principum et
ducum Mediolani”. L’emblema piacque moltissimo a Galeazzo
Maria Sforza, che lo volle affrescato su una volta luminosa
d’azzurro in una sala del castello sforzesco.
Tavola 18 - L’impresa dei Piumai, dono di Alfonso d’Aragona. A
destra nel cortile della Rocchetta, a sinistra in S. Maria delle
Grazie.
Tavola 19 - Filippo Maria Visconti. Sulla veste , il Capitergium
contenente la Colombina col cartiglio e sormontato da corona
nobiliare. Certosa di Pavia, porta della sacrestia.
Pur amando molto le imprese e pur bandendo concorsi a corte
perché se ne inventassero, Filippo non ne creò di nuove.
L’impresa è più adatta a segnare le tappe di una politica di
conquista; nel suo caso era invece necessaria una propaganda
atta a consolidare i criteri di successione del ducato. Il problema
era grave: niente discendenza maschile, i re di Francia sempre
pronti ad impugnare il testamento di Giangaleazzo, grazie al
quale, mancando eredi maschi, il ducato sarebbe passato alla
corona francese. A buon conto la figlia naturale Bianca Maria
era stata, giovanissima, promessa in sposa al capitano delle
truppe Francesco Sforza, senz’altro un’ottima garanzia di difesa
per il ducato. Ma per ottenere il suo scopo, anziché alle imprese,
Filippo ricorse all’effetto psicologico che potevano esercitare un
ciclo pittorico e un raffinato gioco di corte come quello dei
Tarocchi, di cui il duca assai si dilettava. Nel 1444 gli Zavattari
affrescarono, su commissione del duca, la cappella del duomo
di Monza dove si pensava fosse sepolta la regina longobarda
Teodolinda. E’ il precedente storico cui Filippo Maria intende
rifarsi: vedova di Autari, passata a seconde nozze con Agilulfo,
Teodolinda conserva la dignità regia, il marito funge solo da
braccio armato. Perché non può accadere lo stesso per Bianca
Maria?
Tavola 20 - Bottega Zavattari: Teodolinda incoronata regina. Duomo
di Monza, cappella di Teodolinda.
Il discorso propagandistico prosegue con le carte dei Tarocchi. Il
gioco non si svolgeva con le regole che ci sono familiari nei
giochi di carte, non ci sono l’azzardo o la divinazione. Accanto
alle carte numeriche antenate delle attuali, il mazzo
comprendeva figure alludenti a realtà universali (Papa,
Imperatore, Mondo), a entità morali (amore, castità, fama,
tempo, eternità) o a personaggi enigmatici come il Matto,
l’Eremita, il Saggio… Sono dette trionfi in quanto lo scopo del
gioco sta nel dimostrare, in base ad argomentazioni
filosofico-morali tipiche della cultura “cortese”, che la propria
carta “trionfa” su quelle dell’avversario. Importante nel gioco è
individuare il “taro” (termine pseudo-orientale da cui si faceva
derivare la parola “tarocco”), cioè la “Via Regia” attraverso la
quale si arriva al compimento del proprio destino.
Tavola 21 - Il gioco dei Tarocchi. Affresco nel Palazzo Borromeo di
Milano.
Per Bianca Maria il compimento del proprio destino è il governo del
ducato. Come la Papessa, ha tutte le doti morali e politiche per
governare il ducato. Non farà come il Matto, che grida e usa la
forza bruta simboleggiata dalla clava; procederà invece come il
Saggio, che tasta prudentemente il terreno e padroneggia il
tempo (la clessidra).
Tavola 22 - La Papessa Il Saggio Il Matto. (Bottega di Bonifacio
Bembo: Tarocchi Visconti)
Certo non ignora l’alternarsi della Fortuna, ma, come la Dama di
Coppe, è garante di ricchezza.
Tavola 23 - La Fortuna La Dama di Coppe. (Bottega di Bonifacio
Bembo: Tarocchi Visconti)
Bianca Maria è unita a Francesco Sforza da un legame amoroso che
sempre si rinnova (le due lance dell’Amore bendato negli
Amanti) ed esercita la giustizia coll’aiuto del consorte, suo
braccio armato (la Giustizia). Ha dunque scoperto la Via Regia,
il compimento del suo destino. Ed eccola sul cocchio della
Fama: fama essa stessa, percorrerà i confini del ducato
raggiungendo il traguardo della sua vita terrena
Tavola 24 - Gli Amanti La Giustizia Il Carro. (Bottega di Bonifacio
Bembo: Tarocchi Visconti)
5.6 Francesco Sforza (IV Duca di Milano
1452-1467)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo VI
Francesco Sforza (IV Duca di Milano 1452-1467)
Imprese:
Mano divina decussante tronco d’albero. Motto: “Tuto el zoco el va in
tape” (oppure “Tuto el tort el va in tache”)
Tre anelli intrecciati con diamante.
Onde grosse montanti dette crescenti o cielo nuvoloso.
Scopetta. Motto: “merito et tempore”
Veltro tenuto al guinzaglio da mano divina, accosciato sotto pino o
sorbo o nespolo. Motto: “Quietum nemo impune lacesset”
“Monticelli”. Motto: “Mit Zeit”
Mela cotogna. Motto “Fragrantia durat”
Francesco Sforza, grazie al matrimonio con Bianca Maria, figlia
naturale di Filippo Maria, ha garantito la continuità del potere,
fondando una nuova dinastia con sangue visconteo nelle vene.
Francesco era di umili origini: queste dovevano dolergli, e a
ragione, se persino il papa Pio II Piccolomini, riferendosi a lui,
poteva dire: “Ai nostri giorni anche i servi diventan padroni” o
Filippo Maria, il futuro suocero, poteva rinfacciargli di essere di
quegli uomini o capitani dei quali “non sappiamo ancora che sia
stato suo padre”. Una volta sposata Bianca Maria si sentì più
volte definire “bastardo marito di bastarda”. Se gli dolevano, non
lo mascherava, contando, da uomo del rinascimento, sul suo
genio, sulla sua creatività personale e su certi inconfutabili segni
del destino evidenziati con mani divine in alcune imprese che
segnano tappe importanti della sua famiglia o della sua vita
politica.
Tavola 25 - Le nozze tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti,
avvenute nella chiesa di S. Sigismondo a Cremona il 24 ottobre
1441. Miniatura coeva, Cremona, archivio diocesano.
L’impresa a lui più cara è legata al ricordo della vita dell’antenato
Giacomo Attendolo. Rappresenta una mano divina che colpisce
con un’ascia un tronco d’albero. Accompagna l’impresa il motto
“Tuto el zoco el va in tape”, tutto il ciocco va in scaglie… Stanco
di fare il contadino, Giacomo aveva progettato di cambiare vita.
Per questo aveva chiesto lumi al cielo: se l’ascia, scagliata
contro un albero sacro a Marte, vi fosse rimasta conficcata,
avrebbe intrapreso la via delle armi, in caso contrario si sarebbe
ancora dedicato malinconicamente alla vita dei campi. L’ascia
restò conficcata nel tronco e cominciarono così le fortune del
casato.
Tavola 26 - La Mano decussante. A sinistra, clipeo di S. Maria delle
Grazie, a destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Ancora una volta la propaganda di famiglia ci vuol convincere che il
destino degli Sforza, successori dei Visconti, è stato deciso
molto in alto e in modo irreversibile. Muzio Attendolo, padre di
Francesco ed erede della tradizione militare di Giacomo,
ottenne il soprannome di Sforza dal suo capitano Alberico da
Barbiano. Nel 1401, lo stesso anno in cui nacque Francesco, si
guadagnò da Roberto di Baviera lo stemma raffigurante un
leone d’oro con un ramo di cotogne fra le zampe (gli Sforza
sono originali di Cotignola); divenuto gran conestabile nel regno
di Napoli, si assicurò numerosi feudi. Francesco punta grosso,
addirittura alla successione del ducato di Milano. Marchese di
Ancona e Signore di alcune terre circostanti, duca di Calabria
come erede della prima moglie Polissena da Montalto, si rende
conto di quanto precari siano questi possedimenti, eternamente
contesi da vicini agguerriti come Sigismondo Malatesta, familiari
infidi (come suo fratello Alessandro, vice marchese di Ancona e
Signore di Pesaro) ed il papa, sempre pronto ad elargire o
revocare vicariati.
Nel nord d’Italia l’inizio del suo potere è da individuarsi nel possesso
della città di Cremona. Porto fluviale di grande importanza
strategica, la città era già entrata nell’orbita viscontea ai tempi di
Galeazzo I e di suo figlio Azzone. Stremata dal peso fiscale
impostole da Giangaleazzo, si era ribellata al successore
Giovanni Maria ed aveva sperimentato alcune signorie locali
con i Ponzone, con Ugolino Cavalcabò, e con il capitano delle
sue truppe Cabrino Fondulo. Nel gennaio del 1414 il Fondulo
ospitò in città con grandi onori l’imperatore Sigismondo e il papa
Giovanni XXIII, diretti sulla via di Mantova al concilio di
Costanza. Sterminati i Cavalcabò nel castello della Maccastorna,
era indispensabile per il Fondulo, rimasto unico signore, la
legalizzazione del suo potere da parte delle massime autorità.
L’impresa dei tre anelli con diamante intrecciati, incisa su di una
moneta d’argento appartenente al Fondulo, e conservata nel
medagliere della Gherardesca di Pisa, molto probabilmente
allude al triplice incontro e alla legalizzazione di questa dinastia
dal destino non felice. Fiaccato dagli attacchi di Filippo Maria, il
Fondulo, per 40.000 scudi oro, vendette al terzo duca di Milano
la città, che d’ora in poi andò a far parte della dote personale di
Bianca Maria insieme a Pontremoli, la porta della Toscana.
Inaffidabile, e diffidando a sua volta di chi si era impadronito del
potere con un bagno di sangue, Filippo Maria si sbarazzò del
Fondulo, sospettato di tramare dal suo feudo di Castelleone coi
Veneziani, facendolo decapitare sulla pubblica piazza. Per
matrimonio con Bianca Maria, quindi, Francesco divenne
Signore di Cremona. Testimone di questa ascesa sociale è
l’impresa dei tre anelli: assunta dallo Sforza è visibile in una
formella della porta del chiostro di San Sigismondo a Cremona,
la chiesa delle nozze, e su di una bella lastra della fontana
situata nella corte ducale del castello di Milano.
Tavola 27 - La fontana del Castello Sforzesco di Milano (sopra).
Oltre ai Tre anelli, vi si nota un’altra impresa di Francesco, il
Veltro. Le altre invece (la “Razza”, la Colombina e il Morso) sono
imprese tradizionali dei Visconti e testimoniano la continuità che
lo Sforza voleva affermare rispetto alla vecchia dinastia. Nel
portale della Certosa di Pavia (sotto) la continuità dinastica è
stabilita invece dai ritratti: a incorniciare la Pietà troviamo infatti
Gian Galeazzo (in alto), Filippo Maria (a sinistra) e lo stesso
Francesco Sforza.
Il diamante, freddo, luminoso e tagliente, si presta bene come
allusione alle doti di un politico o di un condottiero. Lo troviamo
anche nell’impresa di Cosimo il Vecchio, fondatore delle fortune
di casa Medici, e sugli stendardi di Muzio Attendolo Sforza come
gentile concessione del marchese di Ferrara per servigi militari
resi. Assumendo questa impresa, lo Sforza non si impegnava
certo a continuare la politica di Cabrino Fondulo, subdola e
sanguinaria: voleva probabilmente rassicurare la città sulla
legalità del passaggio di potere, da un legittimo proprietario ad
un altro.
Il consolidamento del potere politico sforzesco avviene attraverso
vicende tempestose, ben raffigurate dall’impresa ad “onde
grosse montanti”. In eterno subbuglio le Marche; in più, alla
morte di Filippo Maria era sorta a Milano l’Aurea Repubblica
Ambrosiana, animata dall’anacronistica speranza di tornare alle
libertà comunali, ora che l’odiata stirpe dei tiranni si era estinta.
La presa di Milano avviene con un colpo di stato che il nuovo
Signore tenterà di farsi perdonare con l’edificazione del
grandioso ospedale per i poveri, meglio noto col nome di Ca’
Granda. Significativo che sulla pietra di fondazione dell’edificio
sia scolpita l’impresa della “Scopetta” col motto “Merito et
tempore”.
Tavola 28 - La Scopetta. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a
destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Quello che era accaduto era giusto lo fosse, il passato andava
cancellato, stava per iniziare una nuova era in cui alla politica
espansionistica dei Visconti sarebbe stata opposta una politica
di pace. Ne faceva fede il progetto della Sforzinda, la mirabile
città ideale partorita dalla fervida fantasia del Filarete. Il
riconoscimento legale del potere sforzesco avverrà nel 1454 ad
opera delle maggiori potenze italiane riunitesi per stipulare la
pace di Lodi. Nessun riconoscimento però venne a Francesco
dall’imperatore, che avrebbe accordato il titolo ducale solo a suo
figlio Ludovico, e solo perché costretto da impellenti necessità.
Tavola 29 - L’ospedale maggiore di Sforzinda e l’ala filaretiana della
Ca’ Granda.
Dopo tanto navigare per procellosi mari, finalmente un po’ di quiete:
ecco, accucciato sotto il pino, un veltro tenuto da mano divina.
L’impresa compare anche sulla lastra della fontana del castello
sforzesco, sul portale del Banco mediceo e a Cremona, nella
chiesa di san Sigismondo, sia sugli stalli del coro che, alternato
alle “onde montanti”, sulla cotta del duca nella bella pala di
Giulio Campi collocata sull’altar maggiore.
Tavola 30 - Il Veltro in un capitello del cortile della rocchetta e sulla
veste di Francesco Sforza nella pala di S. Sigismondo in
Cremona.
Istintivamente l’impresa ci fa pensare a Bernabò Visconti e alla sua
passione per i cani. Pare che ne allevasse cinquemila, custoditi
nella cosiddetta Ca’ d’i can, dietro alla reggia viscontea, affidati
alla cura di rustici e famigli che venivano puniti ogniqualvolta i
cani risultassero, alle periodiche ispezioni, troppo in carne o
troppo magri, e privati addirittura dei loro beni in caso si morte
degli animali. “Quietum nemo impune lacesset”, nessuno
turberà impunemente la pace conquistata in modo tanto faticoso,
minaccia il motto di accompagnamento. La mano divina che
regge il guinzaglio del veltro è pronta a giustificare ogni atto di
difesa. Nella pala del Campi la mano divina ha legato il
guinzaglio al tronco dell’albero: poiché questa pala risale al
1540, quando lo Sforza era morto da un pezzo, ci piace pensare
che il pittore abbia voluto sottolineare come nessuno avrebbe
potuto turbare la pace ormai eterna del Signore.
Tavola 31 - La chiesa di S. Gio-vanni in Conca in un’inci-sione di M.A.
Dal Re. Sulla destra è ancora in piedi la “Ca’ d’i can”, dove
Berna-bò allevava i suoi amatissi-mi cani da caccia.
Alle antiche imprese viscontee, recuperate in blocco per rassicurare
i sudditi sulle capacità di buon governo e sulla legittimità del
potere politico (la porta del chiostro di San Sigismondo a
Cremona è un vero trattato) se ne aggiungono, con Francesco,
due inconsuete: La Mela Cotogna e i “Monticelli”, detti anche
“Carciofi”. La mela cotogna, già comparsa fra le zampe del
leone sforzesco, doveva essere un gentile omaggio a Cotignola,
la città originaria di tutta la dinastia. Il frutto è di buon auspicio,
anticamente veniva regalato agli sposi e decorava i talami
nuziali con l’augurio che l’amore durasse fresco e a lungo come
la fragranza della cotogna. “Fragrantia durat” auspica infatti
anche il motto sforzesco, ma le energie fisiche ed intellettuali del
duca sappiamo che non dovevano durare ancora per molto.
Tavola 32 - La Mela Cotogna in un clipeo di S. Maria delle Grazie e
sulla fontana del Castello Sforzesco.
Anche i “Monticelli” si appellano al tempo. Si tratta di un basamento
con tre monticelli sui quali spuntano tre carciofi in fiore, i
semprevivi, come li chiama Bianca Maria nel privilegio donato a
San Sigismondo, con chiara allusione alla nuova dinastia e alla
sua capacità di generazione continua. Li troviamo ricamati sulla
verde veste della duchessa nella pala del Campi. “Mit Zeit”, col
tempo - ammonisce il motto – sarà possibile vedere quali frutti
darà l’operato di Francesco ed esprimere un giudizio.
Tavola 33 - A sinistra: nel clipeo di S. Maria delle Grazie un
“Carciofo” è spuntato sull’elmo del Leone Galeato. Si notano anche
la corona ducale, una sorta di doppia gassa e lo scudo partito col
Biscione e le aquile impe-riali: una sintesi d’imprese delle famiglia
all’apice della sua potenza. A destra: i “Monticelli” sulla “parlera” di
Piazza Mercanti.
5.7 Memorie sforzesche in S. Sigismondo
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo VII
Memorie sforzesche in S. Sigismondo
La chiesa di S. Sigismondo in Cremona, dove Francesco e Bianca
Maria si sposarono nel 1441, conserva molti ricordi della coppia
ducale e quindi – dato il continuismo di Francesco – dell’intera
dinastia Visconti-Sforza.
Tanta fedeltà alla casata può dipendere dalla generosità sempre
mostrata da Bianca Maria, originariamente Signora di Cremona,
verso i monaci gerolamini, da lei stessa preposti alla chiesa. Ma
è comunque notevole che le opere d’arte in cui quella fedeltà si
esprime siano state eseguite quando il dominio sforzesco era
definitivamente tramontato: la pala del Campi che correda
l’altar maggiore, è del 1540, il coro ligneo fu completato dalla
bottega dei Capra addirittura ai primi del ‘600.
Nella decorazione della chiesa ricorrono quasi tutte le imprese
visconteo-sforzesche, segno che i gerolamini avevano un vero
culto per gli antichi signori. E le autorità spagnole lasciavano
fare, non trovando evidentemente nulla da temere in quelle
provinciali nostalgie di un regime estinto.
La serie presenta delle anomalie. Mentre alcune imprese si trovano
sia sulla porta del chiostro che nel coro, altre mancano del tutto,
come il Capitergium di Gian Galeazzo, il Caduceo del Moro ed
entrambe quelle di Galeazzo Maria, il Buratto e il Cuore
afferrato. Il nome di Buratto viene invece assegnato al Forziere,
emblema che non appare tra le imprese visconteo-sforzesche
[4]. In compenso il Pino, oltre che col cane di Francesco,
appare anche isolato, nell’atto di essere sradicato da una mano
divina: altro emblema inedito nella famiglia.
Tavola 34 - In alto, la chiesa di San Sigismondo a Cremona. In
basso,le due ali del coro di S. Sigismondo, coi medaglioni in cui
a immagini di santi si alternano imprese visconteo-sforzesche.
Tavola 35 - Medaglioni del coro: Scopetta e Piumai.
Tavola 36 - Medaglioni del coro: Monticelli e Leone galeato coi
Tizzoni.
Tavola 37 - Medaglioni del coro: Leone con ramo di Cotogna e
Morso col motto “Ich vergies nicht”.
Tavola 38 - Medaglioni del coro: il Forziere e il Veltro sotto il Pino.
Tavola 39 - Medaglioni del coro: i Fanali e il Pino sradicato.
Tavola 40 - Medaglioni del coro: la Colombina e la Scure coi rispettivi
motti.
Tavola 41 - Ridotti a manichini secenteschi, Francesco e Bianca
Maria, coi rispettivi stemmi, fanno da “pendant” dall’ala opposta
del coro, nientemeno che ai sovrani spagnoli dell’epoca, Filippo
III e Margherita d’Austria.
Tavola 42 - Vincenzo Campi: Francesco Sforza e Bianca Maria in
adorazione della Vergine. Pala dell’altar maggiore di S.
Sigismondo, 1540. Sulla cotta del duca sono ben evidenti
l’impresa del Veltro e quella delle onde. Meno visibili sono i
Monticelli sulla veste di Bianca Maria..
Tavola 43 - La porta del chiostro di S. Sigismondo, opera della
bottega Sacca, 1536-37. Nel pannello so-pra l’architrave vi è uno
scudo inquartato col biscione e l’aquila imperiale, fiancheg-giato dai
Tizzoni con secchi. Sui battenti si vedono il Veltro, i Monticelli, il
Morso, la Colombina nel sole, la Scopetta e i Tre anelli.
5.8 Galeazzo Maria Sforza (V Duca di Milano
1467-1476)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo VIII
Galeazzo Maria Sforza (V Duca di Milano 1467-1476)
Imprese:
Il Buratto. Motto: “Tale a ti quale a mi”
Mani divine che stringono un cuore.
Galeazzo Maria, primo e legittimo erede di Francesco Sforza e
Bianca Maria Visconti, è passato alla storia come indegno di
cotanti genitori, i quali non videro svilupparsi in lui quelle doti di
prudenza e di saggezza che li avevano resi famosi presso tutte
le Corti italiane ed europee. Galeazzo doveva essere di
un’impulsività infantile se il padre lo incitava spesso a smetterla
di occuparsi di “cose da puti e non da homini” e lo aveva
rimproverato, in occasione di una sua spedizione giovanile in
Francia, d’essersi sottratto alla più elementari norme
cavalleresche non offrendogli il suo primo bottino, com’era
tradizione, ma spartendolo coi suoi soldati. Alla raffinata corte di
Borso d’Este, dov’era stato inviato per completare i suoi studi
umanistici, aveva imparato solo il lusso e il gusto dell’esibizione.
Ammetteva egli stesso di essere “pomposo un pocho”, ma non
gli pareva gran male per uno nella sua posizione. Ebbe un
narcisistico culto di sé, fece grande uso di imprese che volle
affrescate nelle sale del castello, insieme a ritratti di sé e dei suoi
familiari andati purtroppo perduti.
Galeazzo fu protagonista di una vicenda che mandò in fumo una
preziosa alleanza e si trasformò in un crudele dramma personale.
Necessaria per arginare la temibile potenza della Repubblica di
Venezia, i cui eserciti comandati dal Colleoni minacciavano i
confini dello stato di Milano, era parsa a Francesco Sforza
l’alleanza col marchese Gonzaga di Mantova. Tale alleanza
sarebbe stata consolidata dal matrimonio tra Galeazzo e
Dorotea, figlia di Lodovico Gonzaga. Ma, passati i primi
entusiasmi fatti da scambi di cortesie fra i due giovani e le
rispettive famiglie, Galeazzo si sottrasse agli impegni assunti,
adducendo a pretesto il timore che la deformazione della spina
dorsale, purtroppo molto diffusa fra i membri della famiglia
Gonzaga, potesse perpetuarsi, deturpando la sua progenie.
Feriti nel loro orgoglio, i Gonzaga non vollero umiliare la figlia
con i controlli medici richiesti dal duca. Si chiusero in un grande
riserbo:
Non vogliamo più sentir parlare della gobba di casa nostra –
scriveva risentito a Francesco il marchese Lodovico – la quale, o
dritti o gobbi che siamo, non è mai stata così torta che non abbia
fatto qualche favore a drizzare gli altri a mantener lo stato suo.
Dorotea, tradita nelle sue aspettative, scivolò in una depressione
che la portò velocemente alla tomba. In verità Galeazzo, amante
del lusso e quindi sensibilissimo al denaro, aveva rivolto le sue
attenzioni a Bona di Savoja, la cognata del re di Francia, la cui
cospicua dote l’aveva resa ai suoi occhi irresistibile. Stentiamo
noi oggi ad immaginarne i vezzi, quando osserviamo fra i ritratti
sforzeschi quella dama corpulenta, dal collo taurino, dallo
sguardo ottuso e vagamente minaccioso. Francesco finì per
assecondare il figlio, inviò rinforzi, guidati da Galeazzo stesso, a
Luigi XI per aiutarlo nella guerra contro i suoi Baroni. Il
matrimonio con Bona divenne presto una realtà, nonostante
l’avversione malcelata di Bianca Maria, che diffidava di questa
donna di scarso ingegno e dall’intollerabile arroganza. Siglò
l’evento un’impresa recante “Due mani divine che stringono un
cuore”. Ogni commento ci pare superfluo: ancora una volta il
destino aveva indicato la strada da seguire, spingendo il giovane
duca a scegliere una moglie economicamente così ben notata.
Tavola 44 - In alto. A sinistra, l’impresa delle Mani stringenti il cuore
nel cortile della Rocchetta; a destra Bona di Savoja in un ritratto
coevo. Sotto, la torre di Bona al castello sforzesco di Milano.
Legata al giovane Sforza è l’impresa del “Burato”, accompagnata dal
motto “Tale a ti quale a mi”. Consiste in due mani divine che
reggono le cocche di un telo, il buratto o setaccio che serve a
separare la farina dalla crusca. Quest’impresa compare sui
capitelli del cortile della Rocchetta e sull’abside di S. Maria delle
Grazie. La sua origine ci viene spiegata dal codice Cremosano e
da Gaspare Bugatti [5] nella sua “Storia Universale” (pag. 620).
Nel 1470 l’isola di Negroponte cadde in mano ai Turchi: questo
fatto addolorò tutti, in particolare Galeazzo Maria, che per
consolarsi si diede a “novelli femminili amori”, con ovvio
disappunto della duchessa Bona; ma a rialzare il morale di
costei fu l’astuzia di Pandolfo Albigato, noto alla corte per le sue
facezie. Le consigliò di adottare come impresa il “burato” col
motto “tale a ti quale a mi”. Infatti il buratto “or da un pugno or
dall’altro è percosso per assottigliar la farina”… in pratica, un
pugno vendica l’altro.
Tavola 45 - Il Buratto in un clipeo di S. Maria delle Grazie.
L’arguto consiglio suscitò l’ilarità generale ma impensierì il duca, al
quale non sfuggì l’idea che la moglie avrebbe potuto ripagarlo di
uguale moneta. Tranquillizzatosi perché conosceva bene
l’onestà della consorte, “osò tal arma [= impresa] volgendo il
motto in senso di giustizia” Di quale giustizia si trattasse poi, la
dice lunga il carattere del duca, avvezzo a vagliare le azioni dei
suoi sudditi e a rendere “pane per focaccia”: le città ribelli furono
minacciate di esser rese irriconoscibili e altrettanto fu ordinato
per chi aveva commesso azioni sgradite: “Volemo che subito alla
ricevuta di questa [lettera], facciate tagliare la mano dritta e così
il naso…” La stessa impresa, racchiusa da un anello con
diamante, si ritrova sul vestito di Beatrice d’Este in un busto di
Gian Cristoforo Romano conservato al Louvre.
I meriti di Galeazzo (la diffusione della coltivazione del riso e
l’introduzione dell’allevamento del baco da seta, che trasformarono
l’economia milanese; l’imponente diffusione della stampa,
un’invidiabile cappella di musici) non impedirono che si tramasse
alle sue spalle. Il duca fu spazzato via da una congiura.
5.9 Ludovico Sforza detto il Moro (VII Duca di
Milano 1494-1499)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo IX
Ludovico Sforza detto il Moro (VII Duca di Milano 1494-1499)
Imprese:
Caduceo con draghi e pileo alato. Motto: “Ut iungar”
I Fanali. Motto: “Tal trabalio mes places por tal thesaurus non
perder”
A Milano, la mattina del 26 dicembre nell’anno 1476, nella chiesa di
Santo Stefano, tre cospiratori infiammati dalle idee
propagandate dall’umanista Cola Montano pugnalavano
Galeazzo Maria a morte. Il duca lasciava un erede bambino,
per il quale assunse la reggenza la madre Bona di Savoja,
coadiuvata da Cicco Simonetta. Per Ludovico il Moro, fratello
dell’assassinato, si presentava la grande occasione di uscire
dall’anonimato cui erano condannati i figli dello Sforza,
oscurati dalla fama paterna e dalle bizzarrie del primogenito,
nelle mani del quale era passato il ducato. Qualche velleità di
potere il Moro doveva averla già manifestata, dato che il
fratello per levarselo di torno lo aveva mandato in missione a
Tours. Tornato a precipizio dopo la tragica morte di Galeazzo,
non dovette essergli difficile carpire la buona fede della
cognata e mandare al patibolo il troppo onesto Simonetta per
sgombrarsi il campo.
Sul perché del soprannome “Moro” sono state fatte numerose
congetture. L’ipotesi che il ramo del gelso moro costituisse una
sua impresa, legata al grande incremento che la coltivazione
di questa pianta aveva avuto sotto il suo governo, sembra
inesatta, infatti il gelso era già stato introdotto da Filippo Maria
e aveva raggiunto sin da allora una tal produttività da
permettere la costituzione di paratici dei setaioli. Un frondoso
gelso moro compare in una miniatura della “Storia di
Francesco Sforza” di Giovanni Simonetta [6] fra le figure di
Ludovico e di Galeazzo Maria, ma ciò non basta a farcelo
considerare un’impresa. In una lettera dell’8 agosto 1452,
pochi giorni dopo la nascita di Ludovico, Bianca Maria descrive
all’illustre consorte il figlio come sano, robusto e “sozo”, cioè
scuro di carnagione, in altre parole “moro”. In un’altra lettera,
indirizzata alla basilica del Santo a Padova, la duchessa
promette ricchi doni per l’ottenuta guarigione del figlio
“Ludovico Mauro”. La questione resta quindi aperta.
Il Moro aspirava al potere assoluto e non doveva poi tanto
dissimularlo se Bona, temendo per la propria vita e per quella
dei figli, riteneva rifugio sicuro in castello solo la torre che porta
ancor oggi il suo nome. Per Lodovico la situazione era
comunque difficile. I Francesi premevano alle porte, e se è
vero che la spedizione di Carlo VIII finirà in una bolla di sapone,
Luigi XII non esiterà a prepararne una nuova, impugnando il
famoso testamento di Giangaleazzo Visconti. All’interno del
paese il vero erede, Giangaleazzo Maria, debole e malaticcio,
inteneriva i sudditi e costituiva un ostacolo all’assolutismo
dello zio. Nonostante i marosi (l’impresa delle onde grosse
montanti conosce un momento di grande successo), la meta,
cioè la presa del potere ed il suo riconoscimento legale,
doveva apparire a Ludovico chiara e raggiungibile, se egli potè
adottare l’impresa de “I Fanali”. E’ un’impresa raffinata:
rappresenta due fari posti su scogli separati da onde in
tempesta. Sono probabilmente i fari del porto di Genova, la
città conquistata ai tempi dell’arcivescovo Giovanni, dalla
quale erano giunte a Milano due antenate celebri: Isabella
Fieschi, una delle tre mogli di Luchino, e Valentina Doria, la
moglie di Stefano. Nel motto, che potremmo tradurre “Non mi
dispiace faticare per non perdere un simile tesoro”, leggiamo
parole di lucido ottimismo per un navigatore in angustie sì ma
non disorientato. La stessa impresa compare sul basamento
esterno dell’abside di S. Maria delle Grazie, destinata da
Ludovico a divenire il mausoleo di famiglia. Qui il tesoro al
quale si allude è di sicuro più alto e vale certo tutti i travagli
della vita terrena.
Tavola 46 - I Fanali. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a
destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Per il Moro, il problema più grave restava quello di convincere i
sudditi della legittimità, almeno morale, del suo potere. Nelle
absidi del transetto della Certosa di Pavia i Visconti Sforza
appaiono idealmente uniti nel culto della Vergine: da un lato
Giangaleazzo ecc., dall’altro Francesco Sforza e Ludovico il
Moro assistono alla sua incoronazione, chiara allusione
celeste a quella cerimonia terrena che tardava ad arrivare.
Tavola 47 - Gli affreschi absidali dei transetti della Certosa di Pavia.
Sopra: Giangaleazzo Visconti, accompagnato dai figli, offre
alla vergine il modello della Certosa (transetto sud). Sotto:
Francesco Sforza e Ludovico il Moro assistono
all’incoronazione della Vergine (transetto nord). Come e più
del padre, il Moro è ansioso di apparire legittimo erede di casa
Visconti; per questo nei dipinti da lui commissionati pone sé
stesso e Francesco in armonica simmetria e in atto di comune
fervore religioso con gli esponenti di quella famiglia, cui
riconosce il ruolo di fondatori del tempio.
L’impresa del caduceo fu adottata per indicare da parte del Moro una
chiara volontà di pace e di benessere per tutti. Il caduceo è
infatti un attributo di Mercurio: il dio aveva scagliato la sua
verga tra due serpi in lotta, ristabilendo un equilibrio, quindi la
pace. Con questo nume tutelare alla spalle, genio precoce,
lestofante protettore di traffici e invenzioni, non c’è da
meravigliarsi del successo delle scelte politiche ed
economiche di Ludovico. Il 1480 fu per lui un anno importante:
si decisero due matrimoni, quello fra il vero erede,
Giangaleazzo Maria e Isabella d’Aragona nipote del re di
Napoli (nel 1488 Ludovico fu insignito dallo stesso re
dell’insegna dell’ordine dell’Armellino) e quello fra Ludovico e
Beatrice d’Este, contratti poi negli anni ’90-91, a pochi mesi di
distanza l’uno dall’altro.
Tavola 48 - Il Caduceo. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a
destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Tavola 49 - A sinistra: Gian Cristoforo Romano, Beatrice d’Este.
Parigi, Louvre. Sul corpetto si vede l’impresa del Buratto
inserita in un anello con diamante. A destra: Francesco
Laurana, Isabella d’Aragona. Vienna, Kunsthistorisches
Museum.
Il matrimonio estense lo strappò dalle braccia di Cecilia Gallerani, la
giovanissima favorita. Una dote adeguata, un bel palazzo
poco distante dal castello, un matrimonio conveniente
dovettero ripagare la ripudiata dall’affronto. Forse lo stesso
Leonardo o qualcuno della sua cerchia la salvò dall’oblio cui
sono destinate le favorite celebri una volta abbandonate e la
riscattò dal ruolo di cortigiana, restituendole la dignità di chi
aveva saputo vivere con coraggio una storia d’amore: la
immortalò ritraendola in diafane sembianze mentre stringe al
cuore un ermellino. Celebrò il ritratto Bernardo Bellincioni,
poeta della corte del Moro e amico di Leonardo, in un sonetto
che ci piace qui ricordare:
- Di chi ti adiri, a chi invidia hai, natura?
- Al Vinci che ha ritratto una tua stella,
Cecilia sì belissima hoggi è quella
Che a’ suoi begli ochi el sol par ombra oscura.
- L’honor è tuo, se ben con sua pictura
La fa che par che ascolti e non favella…
La bestiola che la giovane stringe al petto, con quella mano così
adunca e sepolcrale da far sorgere qualche dubbio sull’autore
del quadro, può essere un’allusione, più che alla purezza di
costumi, al carattere giocoso, imprevedibile e sensuale
dell’animaletto e quindi della donna, caratteri che, assieme alla
capacità di ascoltare in silenzio (cosa rara nel genere
femminile), dovevano renderla agli occhi del maturo Signore
un’amante insostituibile. Tale dovette apparire anche quando
divenne la contessa Bergamini. “Tutto il dì – ricorda Matteo
Bandello – i più elevati e begli ingegni di Milano e di stranieri
che in Milano si ritrovano, sono in sua compagnia; quivi gli
uomini militari dell’arte del soldo ragionano, i musici cantano,
gli architetti e i pittori disegnano”. La riconoscenza reciproca
non venne mai meno fra i due ex amanti: il loro figlio Cesare fu
ritratto insieme a Ludovico e al legittimo erede Massimiliano
nella Pala Sforzesca conservata a Brera; dal canto suo Cecilia
per la nascita dello stesso Massimiliano offrì un memorabile
ricevimento in onore di Ludovico e di Beatrice, non
dimenticando però d’invitarvi anche i legittimi duchi Gian
Galeazzo e Isabella d’Aragona.
Tavola 50 - La dama con l’ermellino, ritratto leonardesco di Cecilia
Gallerani. Cracovia, Museo Czartoryski.
Tavola 51 - Pala Sforzesca (Milano, Brera). Assistiti dai Padri della
Chiesa (da sinistra Ambrogio Gregorio Magno, Agostino e
Gerolamo), Ludovico e sua moglie adorano la Vergine. Ma il
figlio che sta di fianco al Moro è quello della Gallerani.
Come protettore d’ingegni il Moro fu certamente più fortunato che
come garante di pace. Commissionò al Bramante la
ristrutturazione del vecchio santuario di Santa Maria delle
Grazie, dall’architettura ormai “fuori moda”, perché lo
trasformasse in un mausoleo per la propria famiglia, più
consono al gusto dei tempi; assunse Leonardo come musico e
coreografo, affascinato da una sua invenzione, una lira
d’argento a forma di testa di cavallo… Non è la lira una
vecchia trovata di Mercurio? In verità da una lettera di
presentazione di Leonardo al Moro possiamo dedurre quanto
le doti di ingegnere militare del neo assunto premessero al
Signore assai più delle sue doti musicali.
Sempre protette dall’insegna di Mercurio ebbero grande incremento
le industrie tessili e quelle collegate della passamaneria e del
ricamo. Il Boltraffio ha immortalato lo sfarzo dei manufatti
milanesi in un famoso ritratto in cui Ludovico indossa un abito
interamente decorato con le imprese sforzesche. Di preziose
stoffe fu generoso anche con la cognata Isabella d’Este, cui
regalò un prezioso broccato con la divisa dei Fanali. Vennero
incrementati sotto di lui i commerci fluviali e terrestri, fu istituito
un servizio di posta di Stato; furono conclusi vantaggiosi
contratti per lo sfruttamento delle miniere di ferro,
indispensabili alla fiorente industria armiera milanese e fonte
principale di profitto per il ducato. Le officine dei Missaglia
raggiunsero tale reputazione che Ludovico accompagnava a
visitarle gli ospiti più illustri. Non solo, ma quando dei Missaglia
s’incendiò la casa, il Moro fu tra i più solleciti ad accorrere in
aiuto. Il fatto è ricordato da una vecchia impresa rispolverata
per l’occasione: si tratta del Leone Galeato con tizzoni e
secchi d’acqua di Galeazzo II, ma questa volta l’animale si
erge su di una base di fiamme e i secchi alludono ad un vero e
proprio intervento di pronto soccorso.
Tavola 52 - A sinistra: Giovanni Antonio Boltraffio, Ritratto di
Ludovico il Moro. Milano, collezione privata. Tra le imprese di
cui è cosparsa la veste si riconoscono il Morso, la Colombina e
la Scopetta. A destra: il Leone Galeato coi secchi emergente
dalle fiamme in una lapide esposta al Castello Sforzesco.
In mezzo a queste frenetiche attività manageriali (non ultime quelle
edilizie grazie alla quali rase al suolo Porta Vercellina per
portare a termine il piano urbanistico del padre), Ludovico non
trascurò di ricordare a tutti l’aspetto morale della sua politica.
Nel castello fu eseguito un curioso dipinto di cui esiste una
corrispondente miniatura nel codice trivulziano. Vi era
raffigurata una dama in abbigliamento regale, con veste
ricamata ad emblemi delle città italiane. Accanto stava uno
scudiero moro in atto di ripulirla con la famosa Scopetta. A chi
chiedeva lumi, Ludovico rispondeva: “La donna è l’Italia, io
sono lo scudiero, la scopetta è per nettar l’Italia d’ogni
bruttura”.
Tavola 53 - Vignetta satirica con Ludovico il Moro intento a ripulire
l’Italia con la Scopetta già usata da Francesco Sforza.
Al Moro continuava a dare serie preoccupazioni il nipote
Giangaleazzo Maria, che nonostante i nefasti pronostici medici
sulle sue condizioni di salute e le premure dello zio per
infiacchirne fisico e morale, era riuscito, dopo molte incertezze,
ad assicurare alla dinastia un erede. Quando finalmente nel
1494 l’ingombrante nipote morì, Ludovico non potè permettersi
di attendere oltre: per denaro sonante fu investito del titolo
ducale tanto sospirato da parte dell’imperatore Massimiliano.
Ricordano il memorabile avvenimento una formella della
tomba imperiale di Innsbruck e una miniatura del codice
Arcimboldi. Le trattative per l’incoronazione furono suggellate
dal matrimonio dell’Asburgo con Bianca Maria Sforza, figlia di
Galeazzo e Bona.
Tavola 54 - In alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo con la
seconda moglie Bianca Maria Sforza, figlia di Galeazzo Maria,
legittimo erede del ducato. La prima moglie era stata Maria di
Borgogna.
In basso: il complesso funerario di Massimiliano I nella Hofkirche di
Innsbruck. A vegliare il catafalco, sormontato dal defunto
orante e decorato con le sue gesta, sta un corteo di statue
bronzee raffiguranti predecessori e congiunti dell’imperatore.
Rimpinguò le casse dell’imperatore una dote di 300.000 ducati,
escluse le
spese di rappresentanza.
Un
simile
dissanguamento segnò la rovina del Moro. Non gli servì
chiedere denari al suocero Ercole duca d’Este, noto per la sua
parsimonia, o impegnare i gioielli della moglie Beatrice; i
nemici erano rimasti tali, degli amici e dei vecchi alleati…
nessuna traccia. La ruota della Fortuna, come avevano
previsto i Tarocchi viscontei, non lascia nessuno allo stesso
posto. Nel 1497 morì Beatrice per un parto prematuro; non
dovette consolarlo più di tanto il figlio natogli poco dopo la
morte della moglie da Lucrezia Crivelli, forse la sua ultima
passione, generosa anche di figli. Nel ’99 Luigi XII e il suo
esercito, scortati da Gian Giacomo Trivulzio, vecchio amico
dello Sforza caduto in disgrazia e passato al nemico, furono
accolti in città come liberatori nei confronti di un insaziabile
tiranno. Al Moro non restava che fuggire in Germania presso
l’imperatore.
Tornato in una Lombardia già occupata dai Francesi, sostenuto dalle
truppe imperiali e con accanto il fratello Ascanio, il 4 aprile del
1500 fu catturato a Novara e trasferito, seppur con i riguardi
dovuti al suo rango, in Francia nel castello di Loches. Non
dovette lasciar rimpianti: l’aristocrazia si adattò senza traumi ai
nuovi Signori e i più bei nomi della nobiltà francese fecero a
gara per ospitare e festeggiare il re Luigi XII e la sua corte nei
propri palazzi. Il Trivulzio, risorto coi nuovi Signori dalle ceneri
come la Fenice della sua impresa, commissionò una serie di
arazzi inneggianti a una novella età dell’oro protetta dai gigli di
Francia. Il Bramantino ne fece i disegni, la manifattura fu opera
di Benedetto da Milano nell’officina di Vigevano. Esposti nel
suo palazzo in via Rugabella, avrebbero inaugurato un
“grande anno” col tempio di Giano serrato e i serti di quercia
per il generale vincitore e liberatore. Leonardo prese a
lavorare per i Francesi.
Tavola 55 - Gli arazzi Trivulzio.
In tutti la parte alta rap-presenta il Sole (a sini-stra) e il segno
zodiacale relativo al mese (a de-stra). Al centro c’è un
medaglione con le inizia-li del Trivulzio, la sua qualifica di
Marchese di Vigevano e Maresciallo di Francia e l’impresa di
una sirena che spezza una lima col diamante, corredata dal
motto “Ne t’esmai” (= non perderti d’animo).
Gennaio ha due facce co-me il dio Giano che gli dà il nome. Col
bastone indica il sole, che si tro-va nell’Aquario, nell’al-tra
mano tiene una chia-ve con cui “apre” l’anno. La scritta sul suo
podio allude ai lavori del mese; e poiché questi non sono molto
impegnativi (si a-guzzano i pali per le viti, le galli-ne covano, i
buoi si ac-coppiano) la gente è di-stesa e riposata; alcuni sono
mascherati per un carnevale precoce (ricor-do dei Saturnali?).
Il tempio sullo sfondo, vi-si-bilmente chiuso, è for-se quello che
i Romani ave-vano dedicato a Gia-no e stava chiuso in tem-po
di pace.
A Settembre il sole è tra Scorpione e Bilancia, mentre il medaglione
cen-trale è circondato da ghirlande verdeggianti. Il
personaggio allegori-co, nudo e sensuale, ri-corda il dio Bacco,
e in-fatti il mese è dedicato soprattutto alla vendem-mia, come
dmostra il grande torchio che domi-na la composizione.
Dopo la battaglia di Ravenna nel 1512, con l’aiuto degli Svizzeri il
papa mise sul trono milanese il primogenito del Moro,
Massimiliano. A parte un bel Carnevale al quale invitò anche
sua zia Isabella d’Este e le esequie fastose per la morte di un
nano di corte, il nuovo Signore non diede prove di genialità
politica. Governò di fatto per lui Gerolamo Morone, al quale
dobbiamo anche la salita al trono dell’altro figlio del Moro,
Francesco II, sicuramente più saggio. Con la morte di
quest’ultimo, nel 1535, missioni e sogni di gloria della dinastia
sforzesca andarono definitivamente in fumo.
Tavola 56 - Cristoforo Solari: Monumento funebre di Ludovico il Moro
e Beatrice d’Este. Certosa di Pavia.
5.10 Ascanio Sforza (Cardinale, 1455-1505)
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Capitolo X
Ascanio Sforza (Cardinale, 1455-1505)
Imprese:
Cresta con raggi, altrimenti detta iride. Motto (non sempre presente):
“Buon tempo”
Dei sette figli che Bianca Maria diede a Francesco Sforza, Ascanio
seppe brillare di luce propria per intelligenza, abilità politica,
liberalità, mecenatismo. Trovò in fretta la propria strada fra le
nomine a cardinale protonotario apostolico conferitogli da Sisto
IV e l’accumula di privilegi concessigli dal fratello Ludovico, di
cui divenne l’“alter ego”. Più atto a maneggiare armi che a
snocciolar rosari, come dimostra la sua superba armatura
conservata nell’armeria reale di Torino, seppe intervenire in
aiuto del fratello quando le sorti di casa Sforza erano
compromesse. Vescovo di Pavia, amministrò anche i vescovati
di Pesaro, Novara e Cremona, la città in cui era nato. Fu abate
di Chiaravalle e di Sant’Ambrogio e utilizzò le rendite di questa
abbazia per far costruire dal Bramante i chiostri e la canonica,
rimasti incompiuti a causa delle tragiche vicende della sua
famiglia. Tenne a Roma corte principesca, godendo della
considerazione del Sacro Collegio e dell’aristocrazia romana,
partecipe assidua delle sue feste e delle sue cacce. Ebbe una
parte importante nell’elezione al soglio pontificio di Rodrigo
Borgia, il futuro Alessandro VI. Gli mostrò la sua gratitudine il
Borgia, donandogli un palazzo di sua proprietà, oggi noto col
nome di palazzo Sforza Cesarini. Liberale coi poveri, alla sua
morte una folla di popolani corse a baciargli le mani. Di lui il
Giovio ricorda:
Usò il detto monsignore Ascanio, innanzi il tempo delle sue rovine,
certe nuvole illuminate dal sole, quasi in forma di far
l’arcobaleno, come si vede sopra la porta di Santa Maria della
Consolazione in Roma, ma perché ella è senz’anima [= senza
motto], ognuno la interpreta a modo suo per dritto o per
rovescio.
Tavola 57 - La Nube Raggiante. A sinistra, clipeo di S. Maria delle
Grazie, a destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Uomo d’arme e di Chiesa, costretto ad appartenere a due mondi
opposti, è significativo abbia scelto per impresa l’arcobaleno, il
ponte fra la terra e il cielo, lo spettacolo più bello che la natura
possa offrirci. E’ simbolo di conciliazione, quindi di pace. I
Greci l’avevano personificato con Iride, messaggera degli dèi;
gli sciamani lo dipingono sui loro tamburi, per loro è il ponte
grazie al quale si accede al mondo ultraterreno; Jahvè se ne
servì per rassicurare Noè sulla pace fatta tra Dio e l’uomo.
Elisabetta I, la grande regina d’Inghilterra, in un famoso ritratto
del Gheeraerts tiene in mano un arcobaleno accompagnato
dal motto “non sine sole Iris”. Anche Elisabetta dopo
sanguinose lotte aveva conciliato i partiti avversi nella sua
terra. Proprio perché è un segno di pacificazione e promessa
di un’altra vita, quella vera, viene rappresentato sui monumenti
funebri. A Milano dei colori dell’iride è affrescata la cupola della
cappella Portinari nella basilica di sant’Eustorgio; un grande
arcobaleno è affrescato nell’atrio della Certosa di Pavia,
cappella funebre della famiglia Visconti; un arcobaleno che
spunta dietro una nube grandinifera si trova nella cappella dei
marchesi di Saluzzo, imparentati coi Visconti: Violante di
Saluzzo era stata una delle tre mogli di Luchino; il vescovo
Antonio da Saluzzo si era fatto promotore con Giangaleazzo
della costruzione del Duomo di Milano. Lo ricorda fra i
personaggi celebri la porta Minguzzi sulla facciata del Duomo.
Tavola 58 - Sopra, la cupola iridata della cappella Portinari. Sotto,
Marcus Gheeraerts il Giovane: ritratto di Elisabetta I con
l’arcobaleno.
Date le vicende conclusive del ducato di Milano, la cresta iridata con
raggi può apparire di buon augurio al cardinale. Ascanio
intervenne a favore di Ludovico, ne portò in salvo i figlioletti
con quanto restava del dissanguato tesoro ducale, tornò con le
truppe tedesche per difendere Milano dai Francesi. Insieme al
Moro, travestito da soldato tedesco, tentò di mettersi in salvo.
Furono entrambi catturati, ma mentre il duca veniva trascinato
prigioniero in Francia (con soddisfazione delle sue truppe
mercenarie alle quali doveva da mesi il soldo), Ascanio, grazie
alle sue amicizie curiali, fu nel giro di un paio d’anni liberato.
Bartolomeo Cavalleri, ambasciatore estense alla corte di
Francia, ricorda come Ludovico si raccomandasse al fratello
Ascanio “che l’era più savio di luy” e lo pregava “gli volesse
mostrare la via de uscire de presone como haveva facto luy”.
In mezzo alla rovina della sua famiglia, si schiuse davvero per
il cardinale il cielo, mostrando l’arcobaleno, quello scolpito sul
monumento funebre che il papa Giulio II volle per lui eseguito
dal Sansovino nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma
e che reca il motto “Buon tempo”.
Tavola 59 - Jacopo Sansovino: Monumento funebre del cardinale
Ascanio Sforza. Roma, S. Maria del Popolo. L’impresa della
Nube è ripetuta quattro volte nel basamento in corrispondenza
delle colonne.
Tavola 60 - Uno stemma di Milano all’epoca di Filippo II (Milano,
Castello Sforzesco). Il Biscione è stato cacciato dai Gigli di Francia,
dalle Torri di Castiglia, dai Pali di Aragona e dai Leopardi d’Inghilterra
(Filippo a quel tempo era sposato con Maria Tudor, la “Sanguinaria”).
Unico ricordo sforzesco, in un angolino, la Mela Cotogna.
5.11 Note
Le “imprese” Visconti-Sforza
di Franca Guerreri
La storia di una famiglia regnante vista attraverso gli stemmi
personali dei suoi membri
a cura di Adriano Bernareggi
Note
[1] Si tratta della “Galleria d’imprese arme ed insegne de varii Ducati,
Provincie, Città e terre dello stato di Milano ecc.” dello storico milanese
Marco Cremosano, 1611-1704
[2] Pietro Azario, notaio e storico novarese del sec. XIV, autore di un
“Chronicon” in cui narra le vicende dei primi Visconti fino al 1364
[3] Franco Sacchetti, poeta e novelliere fiorentino del sec. XIV
[4] Sulla questione si veda Maria Luisa Corsi ne “Il coro di S. Sigismondo in
Cremona”, ed. Banca di Credito Cooperativo del Cremonese, 1998,
pag. 121. L’autrice, che considera l’impresa “alquanto misteriosa” e ne
riconosce l’assenza di precedenti figurativi, attribuisce il nome a “fonti
letterarie” che però non cita, e la paragona a quella di un sacco chiuso
presente nel codice Cremosano.
[5] Storico e teologo domenicano del sec. XVI
[6] Fratello di Cicco, anch’egli stimato da Francesco Sforza, di cui fu segretario,
e anch’egli vittima del Moro, che lo esiliò.
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cura di G.A. Dell'Acqua, Milano 1984, pp. 93-125
Decembrio, Pier Candido, Vita di Filippo Maria Visconti, Adelphi 1983
Giovio, Paolo, Vita dei dodici Visconti, Signori di Milano, Milano, Antonioli 1945
Novati, Francesco, Il Petrarca ed i Visconti, Società Storica Lombarda, Roma,
Unione Tip. Coop. va. 1904
Boll-Bezold-Gundel, Storia dell’astrologia, Bari, Laterza 1987
Berti-Marsili-Vitali, Tarocchi, le carte del destino [Tarocchi: Arte e Magia]
(Catalogo della mostra), Faenza, Le Tarot 1994
Mandel, Gabriele, I Tarocchi dei Visconti, Bergamo 1974
Mulazzani, Germano, I Tarocchi viscontei e Bonifacio Bembo. Il mazzo di Yale,
Milano, Amilcare Pizzi Editore 1981
Sono stati inoltre consultati i testi di storia milanese del Corio, del Giulini e del
Verri e le edizioni disponibili riguardanti i carteggi tra Francesco Sforza e
Bianca Maria Visconti e tra gli Sforza e i Gonzaga per la promessa di
matrimonio fra Galeazzo e Dorotea.
6 Milanesi illustri
Milanesi illustri
22.1 Lucrezia Porro ed il figlio Branda da Castiglione
Cicco Simonetta
Gian Giacomo Trivulzio
L’interpretazione dei sogni di Gerolamo Cardano
Gian Giacomo Mora, il barbiere della peste manzoniana
Manfredo Settala
Il Ritratto di Milano di Carlo Torre
Bartolomeo Arese e il Senato di Milano
I Durini
I Clerici e il loro principe Anton Giorgio
Serbelloni
I fratelli Lechi e Gaetano Belloni
Marco Formentini
Antonio Raimondi, uno dei fondatori del moderno Perù
Giuseppe Colombo
Enrico Forlanini
Marinetti
6.1 Lucrezia Porro ed il figlio Branda da
Castiglione
Lucrezia Porro ed il figlio Branda da Castiglione
di Matteo Turconi Sormani
Stefano Porro e la sua famiglia nell'affresco di Lentate
La nobildonna Lucrezia Porro di Lentate nasce probabilmente verso
il 1330: è una dei sei figli del conte Stefano e di Caterina de
Capitanei. Il conte Stefano morto in età avanzata nel 1391,
aveva fatto edificare ed affrescare l’oratorio di santo Stefano
Protomartire a Lentate, rinomatissimo per le vicende artistiche
dell’arte gotica lombarda, come l’oratorio di Mocchirolo, fatto
costruire dal cugino di Stefano, il funzionario visconteo
Lanfranco Porro. In Lentate vi era anche un terzo edificio gotico
voluto nella prima metà del Trecento dal sacerdote Princivallo
Porro, ma fu demolito in tempi relativamente recenti, per far
posto all’ampliamento della chiesa di san Vito.
Prima del 1350, Lucrezia che appare affrescata con il resto della
famiglia Porro nell’oratorio di Lentate, sposò Maffiolo da
Castiglione, un aristocratico milanese originario del Seprio; dal
matrimonio, il 4 febbraio del 1350 nacque Branda.
La famiglia destinò Branda alla carriera religiosa: per questo motivo
il futuro cardinale si laureerà in diritto civile e canonico. Docente
a Pavia di diritto negli anni 1388-89, subì l’influenza di Konrad
Waldhauser (1325-’69), difensore di quella “devotio” moderna
indirizzata alla diffusione della dottrina evangelica, all’esercizio
della carità, alla riforma del clero e alla vita religiosa. Nel 1389
Branda fu inviato dai Visconti quale ambasciatore presso il
Pontefice Bonifacio IX. Nominato Vescovo di Piacenza nel 1404,
fu trasferito in Ungheria come legato del Pontefice Giovanni
XXII e nel 1411 era già cardinale con il titolo di san Clemente.
Vescovo e Conte di Veszprèm nel 1412, ebbe parte di rilievo nei
Concili di Pisa, di Costanza e di Basilea. Nel 1417 ottiene
l’agognato titolo palatino già goduto dal nonno materno. Il titolo
è concesso con privilegio dell’Imperatore Sigismondo in favore
di tutti i membri maschi del casato Castiglioni.
Per iniziativa del cardinale furono costruiti molti nuovi edifici in
Castiglione Olona, dove fu presente soprattutto come mecenate;
in particolare ricordiamo la collegiata, opera di Masolino da
Panicale (all’anagrafe Tommaso di Cristoforo Fini) frescante tra i
maggiori del tempo che Branda presumibilmente incontrò a
Firenze.
Affreschi di Masolino nella Collegiata di Castiglione
Olona
Della lunga vita del cardinal da Castiglione e della sua discendenza
dall’altrettanto longevo Stefano Porro si hanno molte preziose
notizie perché trasmesseci da una cronaca pergamenacea
redatta dal moravo Giovanni da Olmutz, segretario del prelato.
Nel febbraio del 1443 il documento fu deposto nel sarcofago di
pietra allestito nella Collegiata dei santi Stefano e Lorenzo di
Castiglione Olona e fu ritrovato il 13 giugno 1935, quando si
procedette alla ricognizione della salma.
Il sarcofago di Branda da Castiglione
6.2 Cicco Simonetta,
Ludovico il Moro
capro
espiatorio
di
Cicco Simonetta, capro espiatorio di Ludovico
il Moro
di Paolo Colussi
I Simonetta e Francesco Sforza prima del loro arrivo a
Milano
Nel 1418 Francesco Sforza, figlio diciassettenne del grande
condottiero Muzio Attendolo, sposa Polissena Ruffo e ottiene in
dote la signoria su alcune zone della Calabria, tra le quali i paesi
di Rossano, Policastro e Caccuri. Il giovane è molto impegnato
con il padre nelle innumerevoli campagne militari dell'epoca, per
cui affida l'amministrazione di questi territori ad Angelo
Simonetta, un personaggio eminente della zona delle cui origini
poco sappiamo.
Angelo Simonetta riuscirà a conquistarsi pienamente la fiducia dello
Sforza, che si servirà di lui prima e dopo la sua ascesa a duca di
Milano, ma qui ci limiteremo a parlare del nipote di Angelo,
Francesco detto Cecco o Cicco o Ceco.
Dell'infanzia di Cicco Simonetta sappiamo pochissimo. Nasce forse
nel 1410 (la data non è certa) a Caccuri sulle pendici della Sila,
vicino al lago Ampollino. Anche il luogo di nascita è incerto, nel
firmare talvolta Cicco si intitolerà "di Rossano" oppure "di
Policastro", probabili luoghi di origine della sua famiglia. Già dal
1418 o poco più tardi (nel 1421), giovanissimo, Cicco entra al
servizio dello Sforza, ingaggiato dallo zio Angelo assieme ai
suoi due fratelli Andrea e Giovanni. Degli altri due suoi fratelli Matteo e Cassandra - non sappiamo invece nulla.
L'educazione di Cicco è molto curata. Studia con i padri Basiliani,
impara il greco e l'ebraico. Più tardi darà prova di conoscere
anche lo spagnolo, il tedesco e il francese. Si laurea in diritto
civile e canonico, probabilmente a Napoli.
Difficile capire il suo ruolo a fianco dello Sforza in questi primi anni,
nei quali il grande condottiero, ormai divenuto capo delle milizie
del padre (morto nel 1424) si destreggia tra le diverse leghe
(viscontee e antiviscontee) che si alternano seguendo le
sconvolgenti e tortuose alchimie politiche di Filippo Maria
Visconti. Sappiamo che Cicco nel 1435 viene nominato
consigliere di Renato d'Angiò nel pieno della lotta con gli
Aragonesi per la successione al trono di Napoli. Molto
probabilmente, lasciata Napoli, avrà seguito Francesco Sforza
nelle Marche assieme allo zio e ai fratelli. Nella guerra tra
Milano e Venezia degli anni 1438-41 per il possesso di Brescia
e Bergamo, Cicco Simonetta accompagna Francesco Sforza,
acclamato capo dell'esercito veneziano. I rapporti con Napoli e
gli Angioini non cessano comunque in questo periodo. Nel 1448
Cicco verrà nominato presidente (onorario) della Camera
Summaria di Napoli.
Nel 1444 emerge però la vocazione "burocratica" del nostro giovane,
che si sottoscrive "cancelliere e segretario" di Francesco Sforza
signore delle Marche. Non sembra infatti che alcuno dei
Simonetta abbia manifestato capacità o interesse per la carriera
militare, allora la più ambita, mentre essi dimostrano sempre
spiccate e preziose attitudini al "lavoro d'ufficio", allora appena
agli inizi nell'ambito delle corti, con alcune differenze però tra i
numerosi membri della famiglia. Angelo è un abile
amministratore, Giovanni è un estroso e valido letterato, Cicco è
un diplomatico. Andrea, infine, uomo probabilmente di modesta
levatura intellettuale, sarà considerato semplicemente un uomo
di fiducia.
L'anno in cui Cicco ho modo di emergere è il 1449, l'ultimo dei tre
anni della Repubblica Ambrosiana. In quest'anno lo troviamo
assieme ad Alessandro Sforza in un'importante ambasceria a
Venezia. Riceve dallo Sforza il comando civile e militare di Lodi,
strappata alla signoria di Milano. A Lodi conosce una certa
Giacobina dalla quale avrà due figli naturali nel 1451 e nel 1453.
I Simonetta diventano milanesi
Il 25 marzo 1450, festa dell'Annunciata, Francesco Sforza entra a
Milano accolto trionfalmente dal popolo che lo acclama duca di
Milano in virtù del suo matrimonio con Bianca Maria Visconti,
unica erede del precedente duca Filippo Maria. Si stabilisce nel
Palazzo dell'Arengo (l'attuale Palazzo Reale) e vi pone la corte
in attesa che venga ricostruito il Castello di Porta Giovia
demolito dai "repubblicani" milanesi nemici di ogni tirannia.
Al suo seguito arrivano molti Simonetta, con uno stuolo di amici,
parenti e conoscenti. Francesco Sforza si dimostra subito
riconoscente con coloro che lo avevano servito sino ad allora
collocando ex funzionari ed ex soldati a lui fedeli in tutti i più
importanti posti di comando del ducato. Tutti i Simonetta
ottengono subito la cittadinanza milanese. Angelo ottiene i feudi
di Belgioioso (4370 ducati), Lacchiarella (1250 ducati) e
Casteggio, e molti altri beni e diritti.
Andrea viene nominato (15 maggio 1450) castellano di Monza. Un
incarico molto importante perché le carceri di Monza - i Forni erano le più sicure e quindi venivano utilizzate soprattutto per i
prigionieri politici. Con i proventi della sua carica Andrea
acquisterà in seguito parecchi beni a Monza e 859 pertiche ad
Arcore.
Giovanni, il letterato, non riceve lauti incarichi ma uno stipendio che
per giunta tarda sovente ad arrivare, consentendogli di
esprimere elegantemente i suoi lamenti sulla perenne penuria di
denaro.
icco viene nominato "Cavaliere aureato" ed entra nella Cancelleria
che sarà per trent'anni il suo regno assoluto e incontrastato. Il 1
novembre dello stesso anno riceve dal duca il feudo di Sartirana
in Lomellina. Leonardo della Pergola gli contesta il diritto al titolo
ed inizia una vertenza legale che si concluderà con una
transazione dopo 16 anni, nel 1466. Nel frattempo, ed in seguito,
Cicco prende molto a cuore l'amministrazione di Sartirana, sia
per quanto riguarda l'amministrazione economica che
giurisdizionale. Ci resta fortunatamente un ampio carteggio con
il podestà di Sartirana dove Cicco dimostra di essere un signore
molto attento ad ogni spesa e ad ogni vertenza giuridica in
essere nel suo piccolo feudo.
Ormai sistemata la sua posizione economica e il suo ruolo nel
ducato, Cicco può finalmente pensare ad avviare su binari
adeguati anche la sua vita privata. Si sistema nel palazzo di
fronte a Brera, che tenterà via via di ampliare acquistando
alcune case vicine, dove in seguito sorgerà il palazzo Medici.
Nel 1452 sposa Elisabetta Visconti, figlia di Gaspare Visconti
segretario ducale e inizia le serie dei figli legittimi che si snoda
nel modo seguente:
- 29 settembre 1452: Nasce a Cremona Giovanni Giacomo
- 26 ottobre 1456: Nasce a Milano Margherita che sposerà G.G.
Torelli di Guastalla
- 23 dicembre 1457: Nasce a Milano Antonio
- 27 maggio 1459: Nasce a Milano Sigismondo
- 14 settembre 1460: Nasce a Milano Ludovico
- 12 agosto 1461: Nasce a Milano Ippolita, sposerà un Colonna
- 12 gennaio 1464: Nasce a Milano Cecilia, sposerà un Gaspare
Visconti
Il 21 settembre 1457, per rendere più visibile la sua presenza nel
sestiere di Porta Comasina, organizza e finanzia la Festa
dell'Oblazione della Porta, un grande corteo con carri allegorici
che porta le offerte al Duomo e all'Ospedale Maggiore, i cui
lavori erano iniziati l'anno precedente.
Gli anni passati al fianco di Francesco Sforza sono davvero
splendidi per i Simonetta. Anche Giovanni, intento ormai a
scrivere la sua celebre Vita di Francesco Sforza, riceve da
Ferdinando re di Napoli dei feudi in Calabria. Angelo e Cicco si
dedicano alla ricostruzione della chiesa del Carmine dove
realizzano due cappelle, una della famiglia dedicata a S.
Francesco e un'altra di Angelo dedicata all'Annunciata (1457).
Negli anni 1462-63 il castello di Sartirana viene fortificato in
rispondenza alle nuove esigenze belliche sopraggiunte in
seguito all'uso sempre più diffuso delle bombarde. Si costruisce
la nuova torre angolare a solidi sovrapposti che ricorda i modelli
del Filarete e che oggi viene attribuita ad Aristotele Fioravanti di
Bologna.
La fama di Cicco è ormai affermata: oltre a dirigere la Cancelleria fa
parte anche del Consiglio segreto, riceve la cittadinanza
onoraria di Novara (1456) alla quale seguiranno quelle di Lodi
(1469) e di Parma (1472). Francesco Sforza afferma
pubblicamente che se Cicco non ci fosse stato avrebbe dovuto
costruirsene uno di cera.
La fama e la fiducia sono dei resto ben meritate. A coronamento di
questi primi anni di attività al seguito di Francesco, Cicco dona
alla corte un lavoro fondamentale per il ducato: le Costitutiones
et ordines della Cancelleria segreta. Pone così le basi della
burocrazia di Corte, un tassello della nuova concezione dello
Stato che in quelli anni stava emergendo in varie regioni
d'Europa.
Nuove responsabilità di governo dopo la morte di
Francesco Sforza
L'8 marzo 1466 muore Francesco Sforza in seguito ad un forte
attacco di idropisia. Il figlio legittimo primogenito, Galeazzo
Maria, rientra precipitosamente dalla Francia per assumere i
poteri del padre. Galeazzo Maria ha soltanto 22 anni ed è un
ragazzo indocile che ha già dato numerosi grattacapi ai genitori
nel corso dell'adolescenza. Cicco Simonetta, per conto di
Bianca Maria, si era già occupato più volte di sorvegliare
l'educazione del giovane. A questo punto la situazione si fa
delicata e Cicco si trova ad affrontare problemi nuovi e molto più
spinosi. Galeazzo Maria ha un momento di esitazione prima di
riconfermarlo nelle cariche precedenti, ma è per lui impossibile
privarsi di un aiuto così valido. Per meglio accattivarselo,
Galeazzo Maria, affascinato dagli usi cavallereschi francesi e
borgognoni, gli dona un'"Arma", simbolo di fedeltà feudale: un
leone rampante con corona in campo azzurro che tiene una
croce latina rossa.
I problemi più seri vengono dal progressivo acuirsi del conflitto tra il
nuovo duca e la madre Bianca Maria. Cicco si trova proprio nel
mezzo della bufera. Bianca Maria ha molta fiducia in lui e lo
considera quasi un secondo tutore del figlio. Lo costringe a
seguire ovunque il figlio per sorvegliarne le mosse e per
informarla, anche perché Galeazzo Maria spesso non risponde
alle sue lettere. L'apprensione materna diventa ancora più forte
l'anno successivo, nel 1467, quando Galeazzo Maria con le sue
truppe è a fianco di Federico da Montefeltro in Romagna per
combattere il Colleoni a capo dell'esercito veneziano. Il Colleoni
è un condottiero temibilissimo ed ha inventato per l'occasione
una diavoleria del tutto nuova: schierare le artiglierie nel corso
di una battaglia campale. Bianca Maria è terrorizzata all'idea di
vedere il proprio figlio preso a cannonate e riesce (molto
probabilmente grazie a Cicco) ad allontanarlo con uno
stratagemma dal campo di battaglia facendolo convocare a
Firenze proprie nei giorni della vittoria di Riccardina (presso
Mazzolara in Romagna, 25 luglio 1467). Galeazzo Maria,
sempre ansioso di dimostrare di essere un condottiero degno di
suo padre, resta molto amareggiato.
Il momento cruciale arriva l'anno successivo. All'inizio dell'anno,
molti personaggi influenti tra cui il re di Napoli e il Colleoni
cercano di convincere Bianca Maria ad esautorare il figlio e di
sostituirlo con un altro meno instabile e capriccioso. Decisivo a
questo punto è il parere di Cicco Simonetta, che si schiera con
l'erede legittimo mettendo fuori gioco la madre. In pochi mesi,
dopo il matrimonio tra Galeazzo Maria e Bona di Savoia (4 luglio
1468), Bianca Maria è costretta a lasciare Milano. Morirà il 28
ottobre dello stesso anno a Melegnano, per molti avvelenata dal
figlio. Il giallo non verrà mai chiarito, certamente né allora né
dopo si è mai parlato di un'implicazione del Simonetta nella
oscura faccenda.
A questo punto l'atmosfera a Milano si modifica sensibilmente.
Galeazzo Maria, trasferitosi nel 1469 con la corte nel Castello
ormai terminato, inizia a organizzare una vita fastosa degna di
un grande signore, forse di un re. Cicco è sempre al suo fianco,
a Milano, a Pavia e nelle diverse altre residenze dove il duca si
reca, secondo un modello francese di re itinerante da castello a
castello. Nel 1471 è ancora Cicco a organizzare la nuova
Cappella musicale nel Castello di Porta Giovia che dal luglio
1474 avrà tra i suoi cantori addirittura il giovane Josquin des
Prés. Sempre in merito alla Cappella, Cicco deve anche
inoltrare più di una lettera di scuse a Ferdinando re di Napoli,
furibondo perché Galeazzo Maria gli aveva rubato i suoi migliori
musicisti.
Il breve sogno regale di Galeazzo Maria
Per il giovane duca, in un raro periodo di pace com'è questo, la
politica è soprattutto una "questione d'immagine" e quindi
bisogna curare l'aspetto del Castello con affreschi e decorazioni
e bisogna anche migliorare l'aspetto generale della città. Nel
1471, durante un sontuoso viaggio a Firenze, Galeazzo Maria
arriva sulle "prime pagine" di tutta Europa per la ricchezza del
suo seguito. Approfitta del viaggio per farsi ritrarre dal Pollaiolo.
Nel 1472 altre grandi feste per il fidanzamento del figlio Gian
Galeazzo (3 anni) con la cugina Isabella d'Aragona (2 anni),
figlia di Alfonso, erede al trono di Napoli e di Ippolita, sorella di
Galeazzo Maria.
Cicco si occupa di tutto. Prende le difese del Filelfo, il più noto
umanista residente a corte, scusandolo per le sue dissolutezze
col dire che "per la vecchiezza hormai è fora del birlo"; riceve
(1476) la dedica del primo libro stampato in greco in Italia, gli
Erotemata di Costantino Lascaris; fa venire a Milano Antonello
da Messina (nel 1476, peccato non avere dei ritratti milanesi di
questo grande pittore!); tesse soprattutto vaste trame
diplomatiche scrivendo persino nel 1474 uno dei primi saggi di
crittografia - le Regule ad extrahendum litteras ziferatas - ad uso
dei suoi emissari nella varie corti d'Europa.
Milano, grazie soprattutto a Cicco, è ormai strettamente alleata a
Firenze e imparentata con gli Aragonesi, si tratta di legarsi
anche con Roma. Il 1473 vede il culmine della sua azione
diplomatica: arriva a Milano Pietro Riario, nipote di papa Sisto IV,
per fissare le nozze tra il fratello Gerolamo e Caterina Sforza,
nozze che avrebbero assicurato al papa il possesso di Imola e
la possibilità di una penetrazione dei Della Rovere in Romagna.
Cicco è l'unico ad essere ammesso agli incontri segreti tra Galeazzo
Maria e Pietro Riario, durante i quali i due giovani, egualmente
ambiziosi e stravaganti, discutono seriamente del futuro Regno
d'Italia con a capo re Galeazzo I. I Diari di Cicco, che iniziano
quest'anno, sono pieni di annotazioni sui re d'Europa,
sull'etichetta regale, sulle formule liturgiche da pronunciarsi
durante la messa del re, ecc. ecc.
Nel 1474, al culmine della sua fama, Cicco viene nominato da
Galeazzo Maria, gravemente ammalato, addirittura tutore dei
suoi figlioli "come Houmo non solamente dell'imperio milanese,
ma anche tra tutti i latini, et esterni, di somma esperienza, et
fedelissimo a suoi figlioli" (Corio, p. 417). Due anni dopo
Ludovico, il figlio di Cicco destinato alla carriera ecclesiastica,
viene eletto Canonico della Metropolitana a soli 16 anni.
Il tragico epilogo
Da alcuni anni Cicco però non è più quello di prima. Nel 1470, all'età
di sessant'anni, soffre di gotta. Fa voto alla Madonna delle
Grazie di Monza di non mangiare grassi il mercoledì e il venerdì.
Da Sartirana, dove i suoi possessi terrieri si sono notevolmente
allargati, arrivano troppi capponi dei quali il nostro cancelliere
non può fare a meno. Le preoccupazioni maggiori, a partire dal
1474, vengono però dalla politica. I tradizionali alleati - Napoli e
Firenze - stanno arrivando allo scontro e non è facile capire
come reagire. Galeazzo Maria non è il solo a coltivare sogni di
gloria. Anche Ferdinando d'Aragona vorrebbe diventare re
d'Italia e, assieme al papa, pensa di liquidare facilmente
l'ancora giovanissimo Lorenzo de' Medici, da poco arrivato al
potere.
Galeazzo Maria e Cicco si schierano dalla parte di Firenze secondo
il tradizionale schema di riequilibrio delle forze ormai collaudato
da decenni. I fratelli di Galeazzo Maria e il partito ghibellino di
Milano (molto legato agli Aragonesi) sono favorevoli a Napoli e
cominciano a guardare con odio la politica ducale e Cicco. I
fratelli (Sforza Maria, Ludovico e Ottaviano) vengono perciò
allontanati da Milano. Le cose sembrano aggiustate quando il
26 dicembre 1476, nella chiesa di Santo Stefano in Brolo,
Galeazzo Maria viene ucciso da tre giovani congiurati che
intendono sollevare la città contro il tiranno e restituire a Milano
le libertà repubblicane. Questa almeno è la versione della
vicenda confessata da uno dei tre congiurati - Girolamo Olgiati che chiama in causa l'umanista Cola Montano, maestro dei tre
giovani, come ispiratore del delitto.
La città comunque non si solleva. Bona di Savoia, validamente
aiutata da Cicco, prende una serie di misure che scongiurano il
peggio. Entrambi tuttavia capiscono che la città va pacificata e
che in qualche modo bisogna trovare un compromesso con le
più importanti famiglie ghibelline. Cicco è subito riconfermato
Segretario generale, ma i fratelli del duca defunto devono
essere fatti rientrare non solo in città, ma anche
nell'amministrazione della cosa pubblica. A metà gennaio questi
tornano a Milano e, per accontentarli, vengono creati due
Consigli, uno nel Castello che si occupa delle cose dello Stato e
un altro nell'Arengo, presieduto da Sforza Maria e Ludovico, per
le cause civili. Anche in questo Consiglio minore, tuttavia, i
fratelli sono in qualche modo subordinati al controllo di Cicco
Simonetta.
A questo punto, per la maggior parte delle famiglie milanesi e per gli
altri signori d'Europa, Cicco Simonetta dovette apparire come
l'unico e vero duca di Milano. Questi però non doveva sentirsi
molto sicuro della propria posizione e decide di far costruire
molto in fretta nel Castello la cosiddetta "Torre di Bona" che
forse sarebbe meglio chiamare "Torre di Cicco", dal momento
che proteggeva la Rocchetta dove Cicco aveva sistemato i
propri uffici.
I fratelli, apparentemente pacificati grazie anche all'intervento di
Ludovico Gonzaga, vengono sistemati in vari palazzi di Milano e
presto spediti a sedare la rivolta di Genova fomentata dagli
Aragonesi. Tornati da Genova in maggio ricominciano però a
complottare, o almeno così sembra a Cicco, che, per saperne di
più, fa incarcerare Donato del Conte, comandante militare molto
vicino ai fratelli. Impauriti, o indignati, questi ultimi tentano una
maldestra sollevazione che il Simonetta, con l'aiuto delle
famiglie guelfe (Trivulzio, Lampugnani, Birago), riesce
facilmente a sedare. Roberto di Sanseverino scappa ad Asti;
Ottaviano, il minore dei fratelli, di soli 18 anni, scappando tenda
di guadare a nuoto l'Adda e annega. Sforza Maria, Ludovico e
Ascanio si rifugiano a Chiaravalle (Ascanio ne era l'abate) e qui
decidono di accettare l'offerta di confino (retribuito) offerta da
Bona.
Il 28 ottobre 1477, ormai padrone incontrastato di Milano, Cicco
riceve una splendido diploma miniato che lo nomina Segretario
ducale, di fatto Primo Ministro, di uno stato retto da un duca di 8
anni e da una vedova piuttosto sprovveduta. Nel settembre
1478, i firmatari della Lega con il re di Francia sono, secondo il
Corio (p. 429), Bona e "Ceco governatore". Il 1478 per Milano è
un anno abbastanza tranquillo, ma all'esterno le cose
continuano e preoccupare seriamente la Corte. Soprattutto
preoccupa la Congiura dei Pazzi a Firenze, una mossa
arrischiata del papa e del re di Napoli che costringe il Simonetta
a colpire più duramente la fazione ghibellina di Milano, ormai
apertamente ostile all'alleanza con i Medici. A Milano comunque
l'equilibrio si è rotto e si parla di una nuova lega con l'Angiò per
riconquistare Genova in perenne subbuglio.
Nel 1479 le cose precipitano, Sforza Maria e Ludovico il Moro
abbandonano le città dov'erano stati confinati e, assieme a
Roberto di Sanseverino, compiono scorrerie in Toscana e in
Liguria schierandosi con il re di Napoli. In marzo vengono
dichiarati ribelli. La città, apertamente divisa, è in fermento.
Cicco, seriamente preoccupato per la propria sorte fa sposare a
Pentecoste la figlia Ippolita con Gaudenzio, comandante
dell'esercito del duca d'Austria, nella speranza di ricevere un
aiuto militare in caso di bisogno. Nell'estate l'esercito dei ribelli è
in Liguria quando muore improvvisamente Sforza Maria (29
luglio) a Varese Ligure. Secondo il Corio (p. 430) "dicesi che fu
avelenato, altri dissero esser proceduto per l'incredibile
grassezza". Il mistero non venne mai completamente chiarito, è
certo però che il presunto avvelenamento di Sforza Maria fu il
principale capo d'imputazione contro Cicco nel processo che lo
condannò a morte l'anno successivo.
Da questo momento Ludovico il Moro diventa il protagonista della
storia. Inizia la sua scalata al potere, una scalata condotta con
decisione e grande abilità, che deve obbligatoriamente "passare
sul cadavere" di Cicco. Il momento decisivo arriva a settembre.
Il giorno 7 settembre Ludovico entra segretamente nel Castello
e si accorda con Bona per una pace tra le fazioni in armi. Cicco,
appena lo viene a sapere, capisce subito che la svolta è ormai
avvenuta e pronuncia la celebre profezia: "Duchessa
Illustrissima, à me sarà tagliato il capo, e voi in processo di
tempo perderete lo stato". Tre giorni dopo, al termine di una
serie di trattative e di minacce tra le fazioni guelfa e ghibellina,
Ludovico acconsente all'arresto del Simonetta con grande gioia
del papa e del re di Napoli, che vedono finalmente aperta la loro
strada verso Firenze. Assieme a Cicco vengono arrestati il
fratello Giovanni e tutti i suoi amici, parenti e sostenitori. La casa
viene saccheggiata e i beni espropriati. Si è calcolato che il
valore dei beni di Cicco ammontasse a circa 200.000 ducati
(oggi potrebbe essere qualcosa come 20 miliardi, ma il
confronto è del tutto indicativo).
Tradotto dopo pochi giorni nel castello di Pavia, Cicco resterà in
carcere più di un anno in attesa del processo mentre il fratello e
la maggior parte dei suoi sostenitori vengono quasi subito
liberati. Ludovico il Moro è incerto sulla condotta da tenere nei
confronti delle fazioni e preferisce attendere. Molti guelfi potenti
(il Trivulzio soprattutto) sono a favore di Cicco. Anche il duca
d'Austria e gli Estensi sono con lui, ma non hanno abbastanza
forza per imporre la sua liberazione. Nel frattempo
l'occupazione di Otranto da parte dei Turchi scombina tutti i
progetti di Napoli e del papa e le loro mire su Firenze
svaniscono. Cessata la guerra, l'1 ottobre 1480 Roberto di
Sanseverino torna a Milano accompagnato da molti esponenti
di famiglie ghibelline. Ludovico deve accontentarli nei confronti
di Cicco se vuole prendere stabilmente il potere. La sorte di
Cicco è segnata. Mentre il giovane duca Gian Galeazzo viene
segregato nella Rocchetta (7 ottobre) si apre il processo a Pavia
contro l'ex Segretario ducale. Il 30 ottobre, dopo la sentenza
emessa da un tribunale composto interamente da persone a lui
ostili, Cicco viene decapitato sul rivellino del castello di Pavia
dalla parte del giardino. Verrà sepolto nel chiostro di S.
Apollinare (a Pavia?) tra il cordoglio degli amici che pongono
sulla tomba epitaffi in sua memoria tra i quali viene ricordato
questo che gioca sul nome Ceco:
Principis insubrium fidus quia sceptra tuebar
Acephalon tumulo gens nimica dedit.
Me Cecum dicunt vidi qui multa superstes
Crede mihi sine me patria ceca manes.
Pochi giorni dopo - il 3 novembre - anche Bona viene segregata ed
esautorata da ogni potere mentre Ludovico il Moro, nuovo tutore
di Gian Galeazzo, inizia il suo ventennio di potere incontrastato
a Milano.
Bibliografia
Documenti sui Simonetta nell'Archivio di Stato di Milano
ARCHIVIO DIPLOMATICO (SEZIONE STORICO-DIPLOMATICA)
FAMIGLIE
422. Famiglie, selezioni: Cart.176. Simonetta Angelo, Cicco, Giovanni ed altri
(1438, 1466-68, 1470-72, 1474-80, 1483, 1491, 1497, 1499, 1513-14,
1521, 1530, 1532, 1549, 1552, 1560, 1580, 1583, 1593 + non
datato).
MISCELLANEA STORICA
423.1. Cart. 9A. Cicco Simonetta, documenti biografici (varie date).
423.2. Cart. 9B. Cicco Simonetta, Quaderni di conti (1452-1479).
ARCHIVIO SFORZESCO DUCALE
CARTEGGIO INTERNO
MILANO CITTA'
447.1. Cart.1083 (1453-54), 1456-57, 1461-65, 1468, 1474-76, 1478, 1479
Gen. - Dic. + non datato; carte di Cicco Simonetta).
I diari di Cicco Simonetta (1473-76 e 1478), Milano, Giuffrè, 1962
(Trivulziana Arch C 595/1) anche in Archivio Storico Lombardo, Serie
VIII, vol. I (1948-49), pp. 80-114; vol. II (1950), pp. 157-80; vol. III
(1951-52), pp. 154-187; vol. IV (1953), pp. 186-217.
Costitutiones et ordines della Cancelleria sforzesca, 1465
Regule ad extrahendum litteras ziferatas, sine exemplo, Paris, Biblioteque
Nationale, Fonds Italien, Cod. 1595, foll. 441r-441v-442r-442v
Ordini perché in casa soa se viva regulatamente et con bono ordine, in
Redaelli, G., cit., in "Annali Universali di Statistica", vol. XXI (1829),
pp. 26-28.
Scritti su Cicco Simonetta
AA.VV., Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani
ed europei (1450-1535), Milano, Cisalpino-Goliardica, 1982
Catalano, Franco, Francesco Sforza, Milano, Dall'Oglio, 1983
Catalano, Franco, Ludovico il Moro, Milano, Dall'Oglio, 1985
Corio, Bernardino, L'Historia di Milano, Milano 1554 [Reprint Studio Editoriale
Insubria, Milano 1978]
Covini, Maria Nadia, L'esercito del duca. Organizzazione militare e istituzioni
al tempo degli Sforza (1450-1480), Roma, Istituto Storico Italiano per
il Medio Evo 1998
Pizzagalli, Daniela, Tra due dinastie. Bianca Maria Visconti e il ducato di
Milano, Milano, Camunia, 1988
Redaelli, G., La vita di Cicco Simonetta, in "Annali Universali di Statistica", vol.
XX (1829), pp. 263-78; vol. XXI (1829), pp. 25-39; vol. XXII (1829),
pp. 194-233; vol. XXIII (1829), pp. 84-?; vol. XXIV (1830), pp.
181-192. Manca la conclusione.
Santoro, Caterina, Gli Sforza, Milano, Dall'Oglio 1968
Storia di Milano, vol. VII, Milano 1957
6.3 Gian Giacomo Trivulzio
Gian Giacomo Trivulzio
di Maria Grazia Tolfo
Il periodo sforzesco
Gian Giacomo nasce intorno al 1440 da una figlia di Domenico
Aicardi Visconti e da Antonio Trivulzio. Suoi fratelli sono
Ambrogio, Erasmo, Renato e Gian Fermo.
Con l’avvento della signoria sforzesca, Gian Giacomo viene inviato a
corte per essere educato coi figli di Francesco Sforza, in
particolare con Galeazzo Maria.
Alla morte di Francesco Sforza l’8 marzo 1466 Gian Giacomo è con
Galeazzo Maria in Francia a sostenere Luigi XI. Per sfuggire a
un tentativo di sequestro da parte dei Savoia, i due si
travestono da servitori del mercante Antonio da Piacenza, ma
vengono riconosciuti e si salvano grazie alla prontezza di Gian
Giacomo. Il nuovo signore di Milano gli dimostrerà d’ora in poi
la sua riconoscenza e lo promuove da subito nel secondo
ordine dei suoi camerieri.
1467: Gian Giacomo sposa la dodicenne Margherita, figlia di
Nicolino Colleoni, che porta in dote 7.000 ducati. Il Trivulzio ha
già due figlie illegittime, Grazia e Caterina. Nello stesso anno,
come familiare d’arme, è messo a capo di una piccola squadra
di lance spezzate e di galuppi, coi quali controlla il
contrabbando nel Ducato. Gian Giacomo è descritto come
piccolo di statura, con fronte spaziosa e naso pronunciato. E’
un appassionato lettore di Giulio Cesare, col quale ama
identificarsi.
1468: nasce il figlio Gian Nicolò. La giovanissima madre Margherita
sembra averne risentito, perché non avrà più figli.
1471: muore la figlia Grazia.
Ottobre 1472: si accaparra i beni del fuggitivo Giorgino (Brandolino)
da Galese.
1475: Gian Giacomo è sempre al comando di lance spezzate.
Insieme a Guido Antonio Arcimboldi, Giovanni Ambrogio Cotta
detto il Cottino, Giovanni Pietro Carminati di Brambilla detto il
Bergamino, Gian Giacomo forma intorno a Galeazzo Maria un
circolo ristretto di gozzovigliatori, coi quali il duca “si dà assai
piacere”: La preminenza di questa cerchia rifulge nelle feste,
nei tornei, soprattutto nella festa di S. Giorgio. Il clima politico
milanese si fa però piuttosto critico per il comportamento
dispotico di Galeazzo Maria.
Primavera 1476: per non essere coinvolto nella congiura ai danni del
duca, Gian Giacomo parte per la Terrasanta. Forse durante la
sua assenza muore sua figlia Caterina. In ottobre Gian
Giacomo ritorna per la morte del suocero Domenico Aicardi
Visconti. Raggiunge Galeazzo Maria in Piemonte, dove
combatte contro il vescovo di Ginevra. Sfidato da Roberto
Sanseverino a dare prova di prestanza fisica, Gian Giacomo
cade e si ferisce gravemente. Il 26 dicembre viene assassinato
il Duca. Cicco Simonetta è segretario generale e Gian Giacomo
entra nel Consiglio di reggenza che affianca la vedova Bona di
Savoia.
1479: agli ordini di Cicco Simonetta, G. Giacomo scende in campo
contro Ludovico Maria Sforza il Moro, ma Ludovico il 7
settembre si mette segretamente d’accordo con Bona per
governare al posto di suo figlio Gian Galeazzo di dieci anni.
Una congiura ghibellina briga per disfarsi dello scomodo Cicco,
che verrà arrestato il 10 settembre 1479. Il giorno dopo
Ludovico il Moro è reggitore dello Stato. Si aprono trattative con
gli Aragonesi di Napoli per un matrimonio tra Gian Galeazzo e
la cugina Isabella d’Aragona.
Ottobre 1480: Gian Galeazzo è segregato, Ludovico il Moro è il
Signore del Ducato, mentre Bona di Savoia è arrestata nel
castello di Abbiate. 20 novembre: Ludovico il Moro conferisce a
Gian Giacomo la signoria della Mesolcina, togliendola ai da
Sacco (Sax). Il Trivulzio punta su acquisti massicci di proprietà
fondiarie e aumenta il prestigio dei palazzi milanesi.
1482: Gian Giacomo è ancora al servizio di Milano e guida le truppe
che appoggiano Ferrara contro Venezia. Bona di Savoia rientra
a Milano il 30 novembre, ma deve già andarsene ad Abbiate il 7
dicembre per accuse di congiura contro Ludovico.
1483: muore a 28 anni Margherita Colleoni.
7 maggio 1486: battaglia di Montorio. G. Giacomo sconfigge le
milizie del papa. Poco dopo si trasferisce alla corte di
Ferdinando di Aragona a Napoli, funestata dalla grande
congiura dei baroni, iniziata l’anno prima. L’11 agosto si firma
una pace, riconosciuta dai baroni il 26 dicembre.
Il periodo aragonese
22 aprile 1487: G. Giacomo, come ringraziamento per aver debellato
la rivolta a Napoli, è nominato conte di Belcastro, titolo sottratto
al sovversivo Giovanni Antonio Petrucci. Viene trattato il
matrimonio G. Giacomo e Beatrice d’Avalos d’Aquino.
Maggio 1488: sono celebrate le nozze del Trivulzio a Milano. Per
l’occasione viene decorato da Bernardino Scotti il palazzo di
via Rugabella. Il 21 dicembre a Napoli si celebrano le nozze
per procura tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza.
A Napoli G. Giacomo entra in contatto col capo della cancelleria
Giovanni Pontano, dotto umanista, che dal 1471 guidava
l'Accademia Pontaniana. All’interno dell’Accademia si prepara il
programma per gli Arazzi dei Mesi.
1490: Gian Giacomo briga per far annettere Mesocco e Soazza ai
Grigioni.
1493: il vescovo di Coira lo investe di domini nella valle del
Vorderrhein e in Safiental.
25 gennaio 1494: muore Ferdinando d’Aragona e gli succede
Alfonso II. In estate Carlo VIII invade l’Italia e rivendica l’eredità
angioina al regno di Napoli. Il 20 ottobre muore a Pavia Gian
Galeazzo Sforza. Gian Pietro, figlio del conte Enrico da Sacco
(Sax), cede la signoria di Mesocco a G. Giacomo, dopo che ne
era già stato investito nel 1480 da Ludovico il Moro (nel 1549 la
Mesolcina pagherà un riscatto di 94.000 scudi a Gian
Francesco Trivulzio).
28 gennaio 1495: Carlo VIII lascia Roma dopo il rifiuto di Alessandro
VI di dargli l’investitura del regno di Napoli e si dirige verso la
capitale aragonese. Alfonso II abdica a favore del figlio, che
sale al trono col nome di Ferdinando II. Alfonso II si ritira a
Messina presso gli Olivetani (e muore a 47 anni il 18 dicembre
1495). 22 febbraio: Carlo VIII è a Napoli e Ferdinando II si
rifugia a Ischia. A Venezia si forma una Lega contro Carlo VIII
voluta dall’imperatore Massimiliano, da Ludovico il Moro, dalla
Spagna e da Venezia. 11 giugno: Luigi d’Orléans occupa
Novara e si fa proclamare dux Mediolani. Gian Giacomo
abbandona il Moro e si rifugia presso l’Orléans. Il Moro lo fa
dipingere a testa in giù, come gli infami. Gian Giacomo non gli
riconosce l’investitura ducale e lo chiama Ludovico di Cotignola.
6 luglio: l’esercito francese subisce una sconfitta a Fornovo sul
Taro. Ferdinando II torna a Napoli.
7 ottobre 1496: muore Ferdinando II d’Aragona e termina
l’esperienza napoletana del Trivulzio.
Il Maresciallo di Francia
1497: Gian Giacomo assale e saccheggia Calstelnuovo Belbo (Asti)
a capo delle truppe francesi.
1498: muore Renato Trivulzio, fratello di Gian Giacomo. Muore Carlo
VIII e sale al trono di Francia Luigi d’Orléans (Luigi XII).
25 aprile 1499: Gian Giacomo è nominato capitano delle truppe
francesi in Italia. Mette a ferro e fuoco Bergamasco Belbo al
termine della pianura di Alessandria e all’inizio del Monferrato.
Il 15 luglio le truppe francesi entrano nel Milanese. Il 31 agosto
Milano insorge contro Ludovico il Moro che parte il 2 settembre
per Innsbruck. Il 6 settembre Gian Giacomo entra a Milano con
le truppe francesi. Dopo il primo entusiasmo, il malcontento
esplode per il comportamento incivile delle truppe e per la resa
poco onorevole della città. I balestrieri guasconi si divertono a
distruggere il modello in terracotta preparato da Leonardo per
la fusione del monumento equestre di Francesco Sforza. Il 18
settembre Bernardino da Corte lascia il castello e il giorno dopo
vi si insedia Gian Giacomo, che occupa l’appartamento di
Ludovico il Moro. G. Giacomo si atteggia a nuovo duca, ma è
impopolare perché non ha favorito la sua città nelle trattative.
Per premio gli vengono infeudati Gambolò, il Vigevanasco con
Confienza e Melzo. Il 10 ottobre l’ambasciatore Cotta conta più
di 200 nobili milanesi che vanno a raggiungere Ludovico il Moro
a Bressanone. Il 18 ottobre Luigi XII è a Milano; è inizialmente
alloggiato al Cassino Scanasio del Trivulzio, quindi viene
ricevuto alla Corte Vecchia dove si imbandisce un grande
banchetto, organizzato dal più grande cuoco del momento,
Mastro Martino de’ Rossi, al servizio di Gian Giacomo. Il 29
ottobre 150 cittadini per porta giurano fedeltà sotto il portico
dell’Elefante nel Castello a Luigi XII, affiancato da George
d’Amboise e dal cardinale Borgia, legato del papa. Ma in S.
Ambrogio scoppia una sommossa e G. Giacomo uccide
personalmente uno degli agitatori. Il 3 novembre G. Giacomo è
nominato luogotenente e vicerè e risiede alla Corte Vecchia per
garantire la continuità tra il periodo sforzesco e quello francese.
Il 7 novembre Luigi XII riparte per la Francia. Il Trivulzio
s’impegna a far trasportare a Parigi la biblioteca dei Visconti di
Pavia. L’11 novembre c’è la cerimonia della creazione del
Senato. Alessandro Minuziano dedica a Gian Giacomo
l’epistola di premessa alla sua edizione delle Opere complete
di Cicerone.
10 gennaio 1500: i conti Annibale e Antonio Balbianocedono al
Trivulzio le valli chiavennati e ricevono in cambio i comuni di
Isola, Colonno, Lezzeno, Sala, Ossuccio, Lenno, Mezzegra,
Tremezzo, che aveva Gian Giacomo avuto Bernardino Visconti.
Il 27 gennaio si verifica una sollevazione contro il governo del
Trivulzio. G. Giacomo spedisce al suo castello di Mesocco tutti i
suoi beni mobili e fa trasferire la famiglia dal palazzo di via
Rugabella in Castello. Qui la nuora Paola Gonzaga dà alla luce
il suo primogenito.
Il 2 febbraio Ascanio Sforza entra a Milano, ma il Castello resta
nelle mani del Trivulzio. Il 5 febbraio arriva a Milano Ludovico il
Moro. Per alcuni mesi G. Giacomo soggiorna nel castello di
Melzo poi lo affida a Giorgio Trivulzio, che assume il titolo di
marchese.
Il 10 aprile Gian Giacomo Trivulzio assedia Novara dove si era
rifugiato Ludovico il Moro, che viene tradito dai mercenari
svizzeri da lui arruolati. Ludovico è fatto prigioniero e portato in
Francia. 11 aprile: entrano a Milano Nicolò e Francesco
Trivulzio con soldati svizzeri e francesi, ma la popolazione
suona le campane per impedirne l’accesso. 15 aprile: Gian
Giacomo rientra a Milano ma non riesce a tenere a bada la
rappresaglia francese contro le famiglie ribelli. Luigi XII, vista la
scarsa tenuta di G. Giacomo, affida la gestione del Ducato al
cardinale George d’Amboise, anche per impedire che il
risentimento milanese contro il Trivulzio crei nuovi disordini.
Il 4 giugno è squartato monsignor Galeazzo Farrè, reo di aver fatto
saccheggiare le case dei Trivulzio. Il 5 giugno Gian Giacomo
deve partire per Grenoble, dove si tiene il Consiglio generale, in
realtà per impedire disordini maggiori. Quando ritorna a Milano,
Gian Giacomo non ha più incarichi politici. Per sistemare il
palazzo di via Rugabella, danneggiato dagli avvenimenti bellici,
ordina a Bernardino Scotti di provvedere a una nuova
decorazione.
Il periodo “arcadico” e artistico
G. Giacomo e la sua famiglia si preoccupano di rastrellare un
numero impressionante di tenute, feudi e diritti giurisdizionali su
tutto il dominio ex-sforzesco. Nel frattempo vengono decorate e
impreziosite le abitazioni urbane e di campagna di G. Giacomo.
22 agosto 1501: pagamento a Cristoforo da Cisate per il restauro
del palazzo di via Rugabella con opere in cotto. G. Giacomo
finanzia il restauro del monastero del Lentasio
(cortile
porticato in stile bramantesco), sul quale prospettava il suo
palazzo di via Rugabella. Gian Pietro Valla dedica a G.
Giacomo l’edizione De expetendis et fugiendis rebus scritta da
suo padre Giorgio Valla.
1502: Piattino Piatti gli dedica gli Epigrammata.
1503: intorno a questo periodo si presume che venga
commissionata a Bartolomeo Suardi detto il Bramantino la
serie degli Arazzi dei Mesi, mentre a Cristoforo Solari detto il
Gobbo vengono commissionati 6 medaglioni in marmo per il
palazzo di via Rugabella. Angelo Callimaco scrive un Panegyris
Trivultia con una miniatura del Trivulzio a cavallo, conservato
alla Biblioteca Trivulziana.
1504: il mastro arazziere Benedetto da Milano inizia la tessitura
degli Arazzi dei Mesi nel borgo di Vigevano. Progetto per il
monumento funebre del Trivulzio, per collocare la quale Gian
Giacomo pensa di sistemare la basilica di S. Nazaro. Non ha
ancora scelto l’artista.
Nel maggio 1505, in occasione del ritorno di Leonardo a Milano per
terminare la Vergine delle Rocce, G. Giacomo gli commissiona
il suo monumento funebre, che doveva essere una statua
equestre.
1506: Piattino Piatti dedica a G. Giacomo le sue Epistole latine. A
Cristoforo Solari vengono commissionate altre sculture.
1507: Gabriello da Pirovano pubblica il suo trattato astrologico. Era
l’astrologo personale di G. Giacomo e il probabile estensore del
progetto degli Arazzi dei Mesi. Il 23 maggio Luigi XII festeggia a
Milano la riconquista di Genova. Gian Giacomo allestisce un
grandioso banchetto lungo corso di Porta Romana ed esibisce i
primi sei Arazzi dei Mesi. Il progetto per il monumento funebre
si amplia in erezione di una cappella in S. Nazaro con
canonica.
1508: Gian Giacomo comanda 600 armati e 5.000 fanti come truppe
ausiliarie per impedire all’imperatore Massimiliano di scendere
nel Ducato. Punta alla conquista delle Tre Pievi. Ottiene le
miniere di ferro di Dongo e la famiglia Malacrida gli cede Musso.
Beatrice d’Avalos è la benefattrice del convento di S. Maria
della Misericordia a Vigevano, terminato in quest’anno, dove si
apre una scuola per l’educazione delle fanciulle.
1509: Gian Giacomo partecipa alla battaglia di Agnadello vinta
contro Venezia. Muore la nipotina Ippolita di 6 anni. Nel luglio
Luigi XII rientra trionfalmente a Milano da Porta Romana.
Come per gli antichi trionfatori romani, il Trivulzio si fa coniare
una medaglia con la sua statua equestre dal cavallo impennato
(Coll. Trivulziana). Per il 21 dicembre Mastro Benedetto da
Milano ha terminato gli Arazzi dei Mesi (resta da finire il mese di
Febbraio).
1510: Giulio II preme perché gli Svizzeri liberino Milano dai Francesi.
Entrano in Lombardia in settembre, ma si allontanano prima
dell’inverno. Giovan Pietro Belbano da Vigevano dedica a Gian
Giacomo un codice di falconeria (Bibl. Trivulziana), decorato
con una miniatura di soggetto venatorio.
23 maggio 1511: Gian Giacomo recupera Bologna e vi riporta i due
figli di Giovanni Bentivoglio. Il 5 ottobre Giulio II proclama la
Lega Santa contro i Francesi. Il 14 dicembre gli Svizzeri
assediano Milano e si ritirano dietro pagamento di una grossa
somma. Il Bramantino inizia a progettare il Mausoleo
Trivulziano, ma deve sospendere subito i lavori per motivi
politici fino al 1518.
Dal 4 gennaio all’aprile 1512 si tiene un Concilio in Duomo a Milano
contro Giulio II, che si conclude a Chiaravalle con l’elezione
dell’anti-papa Martino VI. Il 5 giugno Gian Giacomo convoca un
consiglio cittadino in S. Sepolcro per consentire a Milano di
arrendersi agli Svizzeri, che vogliono riportare a Milano Ercole
Massimiliano Sforza. Le Tre Leghe dei Grigioni occupano la
Valtellina, i contadi di Chiavenna e di Bormio e le Tre Pievi. Il 27
giugno a Teglio c’è il giuramento di fedeltà al vescovo di Coira e
alle Tre Leghe. Ercole Massimiliano denuncia ai Grigioni la
nullità dell’operazione, ma questi esibiscono la donazione di
Mastino Visconti. Muore Nicolò Trivulzio, figlio di Gian Giacomo.
Muore anche Lancino Curzio, biografo del Trivulzio.
L’inizio della fine
20 giugno 1512: Ottaviano Sforza prende possesso di Milano a
nome di Ercole Massimiliano. Tutti gli esiliati sforzeschi
possono rientrare. Le trattative per i filo-francesi sono fatte
anche da Urbano Trivulzio e Sagramoro Visconti. G. Giacomo
si ritira con l’esercito francese, ma entra subito in lite con
Galeazzo Sanseverino. Il 12 agosto la dieta di Mantova invita
Ercole Massimiliano che si trova a Innsbruck a tornare a Milano.
Il 29 dicembre il diciannovenne Ercole Massimiliano entra a
Milano. Assegna la Sforzesca e Vigevano al cardinale Schiner.
13 marzo 1513: Luigi XII si allea con Venezia per scacciare lo Sforza.
L’esercito francese è guidato da Gian Giacomo e quello
veneziano da Teodoro Trivulzio. Ercole Massimiliano fugge a
Novara. Gian Giacomo chiede agli Svizzeri che glielo
consegnino e Sagramoro Visconti arriva con 500 fuoriusciti che
si piazzano a Gallarate. Il 5-6 giugno gli Svizzeri ad Arietta
vincono i Francesi del Trivulzio. Per rappresaglia sono
saccheggiate a Milano le case di Maria Susanna Trivulzio e del
preposto di S. Nazaro. Teodoro Trivulzio e Sagramoro Visconti
sono battuti dagli Spagnoli. Sagramoro ed Ermes Bentivoglio
muoiono. Il 19 novembre il Castello si arrende e i Francesi
tornano a casa.
1 gennaio 1515: muore Luigi XII e gli succede il genero Francesco I.
16 febbraio: Lega contro la Francia. Prospero Colonna
comanda le truppe milanesi. 10 agosto: Francesco I fa
prigioniero il Colonna. 13-14 settembre: battaglia fra
Melegnano e Zivido S. Giuliano vinta dai Francesi, ma Gian
Giacomo che partecipa con 500 cavalieri non può entrare a
Milano per l’antipatia che suscita. La battaglia vede 6000
morti francesi e 15.000 morti svizzeri. Secondo il Trivulzio fu
una battaglia di giganti per l’intensità del fuoco, i grandi numeri
in gioco, lo scorrere del sangue, la metodicità di combattimento
di Svizzeri e Tedeschi, l’uso dell’artiglieria, mentre la cavalleria
era marginale.
Ottobre: il castello dove era Ercole Massimiliano si arrende e
Francesco I entra a Milano. Ercole Massimiliano va in Francia.
Francesco I era stato ospitato a Cassino Scanasio da Gian
Giacomo, poi a Milano si stabilisce nel palazzo del
Carmagnola.
Marzo 1516: l’imperatore Massimiliano assedia Milano e spera in
una sollevazione popolare. Gian Giacomo riesce a mantenere
l’ordine e a trattenere i Francesi che vogliono ritirarsi. Aprile:
Odet de Foix incarica Gian Giacomo del comando di Milano.
Gian Giacomo si rende subito impopolare per le nuove
tassazioni. 25 novembre: Francesco I consente il ritorno in
patria dei fuoriusciti milanesi.
Andrea Assaraco pubblica il suo libro Sarracus Assaracus Andreas
Trivultias Historiae novae ac veteres presso lo stampatore
Gottardo da Ponte. 29 novembre: con la Pace Perpetua di
Friburgo è riconosciuta agli Svizzeri l’annessione di Lugano,
Mendrisio, Capolago, Riva S. Vitale e Locarno, mentre ai
Grigioni è assegnata la Valtellina con Bormio e Chiavenna.
1517: Gian Giacomo è così mal ridotto che deve essere trasportato
in lettiga. Ottiene l’approvazione per la costruzione del
Mausoleo Trivulziano davanti a S. Nazaro. Ordina che nel
castello di Musso sia allacciata l’acqua a corrente per forgiare il
ferro e farne armi. Il 19 settembre riesce a eliminare il pirata
Antonio il Matto di Brenzio, che da anni combatteva i Francesi
sul lago di Como con azioni di pirateria. Il figlio Giovanni di
Brenzio, che militava al servizio di Venezia, torna in patria per
vendicare il padre. Fra i suoi fidi si trova Gian Giacomo Medici
detto il Medeghino.
1518: grave carestia nel Milanese. La città è pesantemente tassata.
Il 5 agosto c’è la posa della prima pietra del Mausoleo
Trivulziano.
Gian Giacomo perde la causa intentatagli da
Galeazzo Sanseverino, figlio di Roberto, che aveva ottenuto da
Francesco I la restituzione dei suoi beni di Castelnuovo nel
Tortonese assegnati a Gian Nicolò Trivulzio. Gian Giacomo li
vuole per il nipote Gian Francesco Trivulzio, ma il consiglio
della corona dà ragione al Sanseverino e condanna Gian
Giacomo al risarcimento delle spese. Gian Giacomo vuole
andare in Francia ad appellarsi e passa per la Mesolcina.
Francesco I, temendo una ribellione armata, appena entra in
Francia lo fa arrestare. A Milano il Odet de Foix tiene agli arresti
domiciliari Beatrice d’Avalos e il nipote Gian Francesco. Gian
Giacomo è discolpato dall’accusa di sovversione e può tornare
a casa. Anche suo figlio naturale Camillo, che lo accusava di
avergli sottratto la terra di Galliate, perde la causa. 5 dicembre
Gian Giacomo, sulla strada del ritorno, muore a Chartres a 78
anni.
19 gennaio 1519: solenni funerali, ma il Mausoleo Trivulziano non è
pronto. Tiene l’orazione funebre il cosentino Antonio Tilesio,
insegnante di retorica a Milano. Muore in questo stesso anno
Paola Gonzaga.
1521: il palazzo di via Rugabella subisce il saccheggio da parte delle
truppe imperiali. Gian Francesco Trivulzio è preso in custodia
da Ferdinando d’Avalos, parente della nonna Beatrice. Si
salvano dalle devastazioni gli Arazzi dei Mesi e della Guerra di
Troia perché prestati.
28 aprile 1535: inventario dei beni che Gian Francesco Trivulzio
riceve dalla nonna Beatrice d’Avalos. Sono presenti sia gli
Arazzi dei Mesi sia quelli della Guerra di Troia, questi ultimi
donati il 2 luglio 1550 alla basilica degli Apostoli e S. Nazaro.
Saranno venduti nel 1617 e da allora se ne perderà la traccia.
Gennaio 1547: muore Beatrice d’Avalos.
14 luglio 1573: muore a Mantova Gian Francesco Trivulzio senza
eredi maschi viventi.
6.4 L’interpretazione dei sogni di Gerolamo
Cardano
L’interpretazione
Cardano
dei
sogni
di
Gerolamo
di Paolo Colussi
La vita di Gerolamo Cardano
L’infanzia
Gerolamo Cardano nasce a Pavia il 24 settembre 1501. Il padre
Fazio, originario di Cardano presso Gallarate, aveva allora 56
anni. Si era laureato in medicina a Pavia ed era entrato a far
parte del Collegio dei Giureconsulti. Insegnava alle Scuole
Piatti, ed è citato da Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico
(f.225) a proposito di un libro di matematica. Tra le sue opere va
ricordato il commento al De perspectivis communis di Peckham,
scritto nel 1480, uno dei testi più importanti sulla teoria della
prospettiva. Personaggio curioso e in fama di mago, Fazio
vestiva sempre di rosso con una cappa nera; forse era anche
un po’ alchimista, vista la sua amicizia con il fabbro milanese
Galeazzo Rossi, abilissimo nel creare straordinarie leghe
d'acciaio e forse anche lui alchimista (quando il fabbro morirà
alcuni anni dopo, Gerolamo sentirà battere un gran colpo nel
muro).
La madre di Gerolamo, Clara Micheria, nel 1501 aveva 36 anni. Non
era sposata con Fazio per cui, quando era rimasta incinta, per
nascondere la gravidanza aveva dovuto trasferirsi a Pavia da
un padrino - Isidoro Resta - fingendosi la sua governante e lì
aveva messo al mondo Gerolamo.
Di genitori milanesi, Gerolamo nasce dunque a Pavia. Subito dopo
la nascita, per sfuggire alla peste che imperversava, viene
portato a Moirago dove resta a balia per 3 anni, finché nel 1504
viene portato a Milano dove vive con la madre e la zia
Margherita. Qualche tempo dopo, Fazio e Clara decidono di
convivere e così la famiglia finalmente riunita va ad abitare in
via Arena.
Fin da bambino Gerolamo si dimostra dotato di grande spirito di
osservazione e di una fervida immaginazione: al mattino nel
dormiveglia passa molto tempo ad osservare diafani cerchietti
che scorrono davanti ai suoi occhi prendendo varie forme. A
otto anni inizia il lavoro. Deve accompagnare il padre dai clienti
portando sulle braccia pesanti volumi, ma queste fatiche lo
costringono spesso a mettersi a letto ammalato. In questi anni
la famiglia cambia casa più volte, alla fine si stabilisce presso
un parente "vicino al mulino dei Bossi". Dagli otto ai sedici anni,
Gerolamo, sempre lavorando, impara dal padre a leggere e
scrivere, la matematica e "certe nozioni quasi occulte". Dalla
madre impara la musica che continuerà ad amare molto per
tutta la vita.
Gli studi universitari
A sedici anni impara a usare le armi, a cavalcare, a nuotare e diviene
abilissimo nel gioco delle carte, dei dadi e degli scacchi. Nel
1520 si iscrive all'università di Pavia, alla facoltà di
Giurisprudenza, su consiglio del padre che la considera la
carriera più redditizia. A Pavia gira di notte per la città con la
faccia coperta da un velo nero e con il pugnale alla cintura:
un'abitudine che avrebbe mantenuto per tutta la vita. Gli
interessi verso l’occulto stanno ormai prevalendo. Nel 1521
compra da uno "sconosciuto" un Apuleio in latino, lo legge
durante tutta la notte e il giorno dopo ha imparato a leggere e
scrivere in latino. Quasi contemporaneamente impara nello
stesso modo il greco, lo spagnolo e il francese (solo per la
lettura). E’ ormai il momento di abbandonare l’arida
giurisprudenza per esplorare i più allettanti territori della filosofia
e della medicina. A filosofia, tra l’altro, insegnava Paolo Ricci
(Paulus Riccius), ebreo convertito, medico dell'imperatore
Massimiliano I e famoso divulgatore della cabala ebraica.
L’anno seguente però l'università di Pavia deve chiudere i
battenti per la guerra tra imperiali e francesi che infuria in tutta
la Lombardia. Cardano si trasferisce a Padova dove nel 1524
consegue il bacellierato "in artibus", cioè medicina e filosofia. In
questo stesso anno muore il padre Fazio che viene sepolto in S.
Marco con una lapide dettata da Gerolamo che portava questa
scritta:
FACIO CARDANO
I.C.
MORS FUIT IT QUID VIXI, VITAM MORS DEDIT IPSA
MENS AETERNA MANET, GLORIA TUTA, QUIES
OBIIT ANNO MDXXIV KAL SEPT ANNO AETATIS LXXX
HIERONYMUS CARDANUS MEDICUS, PARENTI
POSTERISQUE
Data la magra eredità (per giunta contrastata da cause con i
Castiglioni e i Barbiano) per mantenersi ricorre al gioco, una
passione che lo porta a scrivere in volgare la prima versione del
De ludis, un libretto dove si affrontano per la prima volta i
problemi matematici della teoria della probabilità.
In questo periodo avverte i primi segni prodigiosi che lo fanno
sempre più avvicinare al mondo dell’occulto: per esempio,
sente un ronzio all'orecchio destro se parlano bene di lui,
all'orecchio sinistro se parlano male. Nel 1526 si laurea in
medicina a Padova e nel settembre dello stesso anno grazie a
Francesco Bonafede, fondatore dell'Orto botanico di Padova, si
stabilisce a Sacco (Saccolongo) per esercitare la professione.
Continua a giocare, scrive alcuni libri sul Metodo di cura,
sull'Epidemia e sulla Chiromanzia. I primi due, dice il Cardano,
vengono distrutti "dall'orina dei gatti", cioè dal suo stesso
disinteresse.
La conquista della fama
Con la pace di Cambrai e il ritorno di Francesco II Sforza la guerra in
Lombardia è finita e si può rientrare a Milano. Gerolamo va ad
abitare a S. Michele alla Chiusa, nella casa della madre ormai
stanca e ammalata. Siamo nel momento di più vivo interesse in
Europa per la magia, e anche lui inizia a sentire attorno a sè
uno "splendore" che lo protegge e lo aiuta.
Il 30 dicembre 1530 chiede di essere ammesso al Collegio dei fisici
di Milano per poter esercitare la medicina, ma la domanda è
respinta perché è illegittimo di nascita e non conta il fatto di
essere stato legittimato dopo il tardivo matrimonio dei suoi
genitori. Deluso torna a Sacco. Qui, nel corso di una malattia,
sente la sua carne "odorare di zolfo, d'incenso e di altre
sostanze". E’ un segno premonitore e infausto del matrimonio.
Poco dopo infatti conosce una ragazza di Sacco, Lucia
Banderini, che alla fine dell'anno sarà la sua sposa.
Formata una famiglia, bisogna cercare possibilità di carriera migliori
di quelle offerte da un piccolo paese di campagna. Torna quindi
a Milano e ripete la domanda di ammissione al Collegio dei
Fisici, che viene ancora bocciata. Si trasferisce allora con la
moglie a Gallarate dove può esercitare la professione e può
sperare in qualche aiuto da parte dei Castiglioni di Cardano,
suoi lontani parenti.
A Gallarate gli nasce il primogenito Giovanni Battista e fa la
conoscenza di Filippo Archinto, il futuro arcivescovo di Milano
appassionato di magia e astrologia, che gli commissiona due
libri: uno sui testi magici di Agrippa di Nettesheim (De occulta
philosophia Agrippae) e uno sull’astrologia (De astrorum
judiciis). Ma le risorse della famiglia restano sempre scarse,
anzi scarsissime, e i tentativi di porvi rimedio con il gioco si
traducono in ulteriori perdite di soldi. Così torna di nuovo a
Milano dove si riduce a vivere con la moglie e il figlio in un
ospizio (xenodochio) che costa sette scudi all'anno di affitto. [Lo
stipendio di un servo era di 5 scudi al mese.] E’ il punto più
basso di una carriera che da qui in poi comincerà rapidamente
a salire. Verso la fine del 1534 l'Archinto gli fa avere una
cattedra di geometria, aritmetica e astronomia alle Scuole Piatti
per 50 scudi l'anno. Insegnava nei giorni festivi. Con questo
stipendio può affittare una casa. Fa mille lavori, cura in modo
semiclandestino i canonici di Sant'Agostino e il loro priore
Francesco Gaddi. Grazie sempre all'Archinto, stringe molte
amicizie con persone influenti di Milano, scrive saggi su Euclide,
Tolomeo, sul De Sphera mundi di John Halifax (Sacrobosco).
Nel giugno 1535, il Collegio dei Fisici, pur non accogliendolo tra i
membri effettivi, gli consente di praticare l'arte medica. Inizia a
curare persone influenti di Milano tra cui la famiglia Borromeo, salvando anche la vita alla madre del futuro San Carlo,
ammalatasi gravemente dopo un parto -, e la famiglia di
Francesco Sfondrati, uno dei cui figli diventerà papa con il
nome di Gregorio XIV.
Nel 1537 gli nasce la figlia Clara e gli muore la madre. Ospita come
valletto un ragazzo di 15 anni, Ludovico Ferrari, e lo educa alla
matematica. L’insegnamento della matematica sembra dirottare
in questa direzione i suoi pensieri.
Due anni dopo si incontra con Tartaglia che gli rivela il suo metodo
segreto di risoluzione delle equazioni cubiche. La pubblicazione
di questo segreto procurerà al Cardano una enorme fama e le
aspre rimostranze del Tartaglia.
Il 14 agosto 1539, grazie allo Sfondrati e ad altri amici, ottiene
finalmente l'ammissione al Collegio dei Fisici di Milano. Dopo
cinque anni la situazione è completamente cambiata. Le entrate
sono soddisfacenti e gode di una certa fama come studioso. Il
tipografo di Norimberga Joannes Petreius gli chiede di poter
pubblicare qualche sua opera che sarebbe stata curata dal
grande umanista e teologo Andreas Osiander. Cardano invia il
De astrorum judiciis e in seguito altre opere. Diventa presto
rettore del Collegio dei fisici e ha l’onore di reggerne lo
stendardo per l'ingresso di Carlo V a Milano. Quando nel 1543
l'università di Pavia si trasferisce a Milano per paura di una
nuova guerra con la Francia, Cardano accetta la cattedra di
medicina, ma pensa di rinunciarvi, quando l’anno dopo gli
chiedono di proseguire nell’incarico a Pavia, dove l’Università
sta per ritornare. La notte prima del suo rifiuto crolla però parte
della sua casa in S. Michele alla Chiusa e questo evento viene
interpretato come un segno favorevole al trasferimento.
Dal 1545 è a Pavia, ormai ricco e famoso. Pubblica a Norimberga
l'Ars Magna il suo testo più geniale, che contiene le soluzioni
matematiche prima ricordate. Diviene amico di Andrea Alciato
appena rientrato a Pavia dove morirà nel 1550. Il re di
Danimarca, su consiglio del Vesalio, gli offre di trasferirsi presso
di lui per 1300 scudi l'anno, ma Cardano rifiuta. Scrive i consigli
per i figli e una raccolta di favole De le burle calde. Si occupa di
fisiognomica che lui chiama Metoposcopia, lettura del volto
(soprattutto le pieghe della fronte) con metodi affini a quelli usati
per la mano.
Nel 1550 pubblica a Norimberga il De subtilitate, il libro che gli
procura maggior fama tra i contemporanei. Viene ripubblicato
l'anno seguente a Parigi, Londra e Basilea. E' una sorta di
enciclopedia dello scibile in 21 libri (fisica, astronomia, metalli,
pietre, piante, animali, uomini, scienze, arti, miracoli, demoni,
sostanze prime, Dio e l'universo).
L’anno seguente lascia Pavia e torna a Milano, una città che si sta
avviando verso una nuova stagione di benessere e dove
fervono i lavori per i nuovi Bastioni voluti da Filippo II e dal
Gonzaga.
In novembre arriva una lettera del medico di John Hamilthon primate
di Scozia che gli chiede consiglio su come curare il vescovo. E’
ormai ora di farsi conoscere in Europa. Il 22 febbraio 1552
Cardano parte da Milano e dopo un breve soggiorno a Lione
riparte per Parigi dove incontra i medici Fernelius e Silvius e
altri studiosi, ma la città non gli piace. Il 3 giugno giunge a
Londra e dopo altri 23 giorni è ad Edimburgo. Guarisce il
vescovo che soffriva d'asma con diete, bagni, riposi e altre
prescrizioni tra cui quella di evitare i cuscini di piuma. Il 13
settembre, dopo aver rifiutato le offerte della reggente Maria di
Lorena, riparte per Londra con 1.400 scudi.
A Londra incontra Edoardo VI (quello del racconto Il principe e il
povero di Mark Twain) e ne compila l’oroscopo prevedendo una
vita tormentata ma lunga. Il giovane re invece morirà dopo
pochi mesi. Torna a Milano passando per l'Olanda, il Reno,
Basilea, Berna. Il 3 gennaio 1553, ormai famoso, rientra a
Milano dal suo lungo viaggio. Il cardinale Ercole Gonzaga,
reggente del ducato di Mantova e fratello di Ferrante, gli offre di
entrare al suo servizio per 30.000 scudi all’anno, ma Gerolamo
preferisce restare libero di continuare i propri studi nella vecchia
casa di S. Michele alla Chiusa. Dedica a John Hamilthon il
commento al Tetrabiblos di Tolomeo, che riporta in appendice
alcuni oroscopi tra cui quello di Cristo. E' un segno di grande
sicurezza da parte sua. Coloro che prima di lui, nel Trecento,
avevano tentato la stessa operazione, erano finiti sul rogo.
Viene stampato a Basilea il De rerum varietate in 17 libri, dove
si parla tra l’altro del giunto cardanico.
La tragedia del figlio
Anche sul versante della famiglia le cose si stanno evolvendo, ma
non sempre felicemente. La figlia Clara fa un buon matrimonio
con il patrizio Bartolomeo Sacco. Molto più inquietanti sono
invece le vicende matrimoniali del primogenito Gianbattista. Il
20 dicembre 1557 il Cardano ha una visione premonitrice della
morte del figlio. Il giorno seguente, all'insaputa e contro la
volontà del padre, Gianbattista sposa Brandonia Seroni, una
ragazza appartenente ad una famiglia molto poco
raccomandabile. Cardano non vuole ricevere in casa la coppia
che deve vivere con pochissimi mezzi. Quando nasce il primo
figlio, Fazio, il Cardano si è di nuovo trasferito a Pavia
riprendendo la cattedra di medicina.
Nel 1560 scoppia la tragedia, preannunciata da una sogno funesto.
La moglie di Gianbattista, dopo aver partorito un secondo figlio,
rivela al marito che i due bambini erano figli di due suoi amanti.
Poco dopo muore avvelenata e Giambattista viene arrestato e
processato per uxoricidio. Il Cardano da questo momento
avverte nell’anulare un segno che gli annuncia l’imminente
morte del figlio, torna a Milano per difenderlo, ma tutti i suoi
sforzi sono inutili: il 9 aprile Giambattista viene decapitato in
carcere. Il segno sull'anulare scompare quella stessa notte. E’ il
momento in cui il potere magico del Cardano si fa più intenso
ed evidente. La sua ira contro gli accusatori del figlio provoca
loro una serie di disgrazie, che arrivano a colpire persino il
governatore. Cardano, affranto per quanto è accaduto, su
suggerimento del suo "genio" trova temporaneo sollievo al suo
dolore tenendo in bocca lo smeraldo della sua collana. Sono di
questo periodo i suoi scritti più “neri”: il Theonoston
sull'immortalità dell'anima, il De utilitate ex adversis capienda, il
De Secretis e l'Encomium Neronis.
Gli ultimi anni
La morte infamante del figlio getta un’ombra anche sul padre e
subito ne approfittano i molti nemici del Cardano. I professori di
Pavia che mirano a prendere il suo posto lanciano su di lui
pesanti accuse, tra cui quella di pederastia e intrigano forse
addirittura per ucciderlo. A Milano è accusato di eresia, ma le
accuse vengono stroncate dai suoi due importanti protettori: il
cardinale Morone e il giovane Carlo Borromeo, appena salito
agli onori grazie allo zio Pio IV. E’ lo stesso Carlo Borromeo a
insistere perché Cardano lasci Pavia e assuma la cattedra di
medicina a Bologna. Dopo molte trattative e difficoltà frapposte
dai professori di questa università, l'11 giugno 1562 Cardano si
dimette da Pavia e si trasferisce a Bologna come professore di
medicina per 521 scudi l'anno. Per ringraziarlo, dedica al
Borromeo la sua nuova opera - il Libro dei sogni - del quale si
parla nella seconda parte di questa dispensa. A Bologna vive
con il nipotino Fazio da principio in varie case d'affitto, poi in
una casa di sua proprietà vicino alla chiesa di S. Giovanni in
Monte. Ha molto successo come medico, dimostrando una
straordinaria capacità diagnostica. Poiché la passione del gioco
non l’ha ancora abbandonato, ne inventa uno piuttosto macabro:
le scommesse pubbliche sulle cause di morte. Quando moriva
qualche suo paziente accettava scommesse sulla malattia che
aveva causato il decesso. Vinceva o perdeva in base ai risultati
dell’autopsia. Il suo grande impegno come medico in questi
anni si traduce nella pubblicazione di alcuni libri di medicina
dedicati a Pio IV e nella stesura del De natura (postumo) ultimo
suo trattato filosofico sui corpi e l'anima.
Dal 1562 al 1570 gli anni trascorrono abbastanza felicemente tra lo
studio, l’insegnamento e l’esercizio della professione, però
attorno a lui il clima sta mutando. La chiusura del Concilio di
Trento e l’avvio della Controriforma segnano la fine delle
illusioni rinascimentali di una religione capace di conciliare
ermetismo magico e teologia. Per i maghi iniziano i tempi duri. Il
6 ottobre viene arrestato dal Sant'Uffizio per eresia, resta in
carcere 77 giorni e poi ottiene di commutare la prigione con gli
arresti domiciliari versando una cauzione di 1800 scudi. Dopo
tre mesi, il 18 febbraio 1571, ha luogo il processo che si risolve
con una condanna mite grazie alla sua tarda età, ai suoi
protettori (Morone e Borromeo) e alla sua grande fama come
medico: deve abiurare (privatamente) da alcuni errori del De
rerum varietate; non deve più pubblicare né insegnare. Lasciato
l'insegnamento, resta per un po’ a Bologna come medico. A
settembre con il fedele Silvestri (che diventerà medico
personale e amico di S. Filippo Neri) e il nipote Fazio si
trasferisce a Roma, dove abita in diverse zone della città. Cura
molti prelati e cardinali, e ottiene dal nuovo papa Gregorio XIII
una pensione. Sono anni di solitudine e di amare considerazioni
sugli uomini: "quale uomo mi potresti proporre che non si porti
sempre appresso una borsa d'escrementi e un otre d'orina?".
Esprime il desiderio di trascorrere la vecchiaia in luoghi felici
dichiarando una serie di preferenze assai curiose: in Italia
all'Aquila o a Porto Venere, fuori d'Italia a Monte S. Giuliano in
Sicilia, a Dieppe sul fiume Arques, a Tempe in Tessaglia. Se
fosse stato più giovane sarebbe andato in Cirenaica, in
Palestina o nell'isola di Ceylon.
Nell’ autunno del 1575 inizia a scrivere la sua celebre Autobiografia
(De vita propria) terminata nel maggio dell’anno successivo.
Verrà pubblicata a Lione nel 1642. In estate redige l'ultimo
testamento lasciando al nipote Fazio un patrimonio valutato
8100 scudi, incluse le case di Pavia e di Bologna. Al terzogenito
Aldo, vissuto sempre in modo molto scombinato, va una piccola
pensione. Vuole essere sepolto a Milano in S. Marco accanto al
padre e al figlio Gianbattista. Aveva previsto la propria morte
per il 5 dicembre 1573 e invece muore a Roma forse il 20
settembre 1576. Poiché a Milano infuriava la famosa peste di
San Carlo non viene subito trasportato a S. Marco, ma è
sepolto provvisoriamente in S. Andrea a Roma. Non si sa dove
sia la sua tomba definitiva.
Nel 1663 vengono pubblicate a Lione le sue Opere in 10 volumi a
cura di Charles Spon. Sono ben 130 titoli.
(Clicca qui per consultare la Cronologia di Gerolamo Cardano.)
La teoria dei sogni
Abbiamo scelto di trattare questo particolare argomento tra i tanti
affrontati dal Cardano nei suoi libri prima di tutto per il fascino
che i sogni ancora oggi esercitano su tutti noi, specialmente
dopo la riscoperta dei loro significati nascosti operata da Freud
e in genere dalla psicanalisi. In secondo luogo, questa scelta è
stata determinata dal fatto che, proprio grazie all’interesse degli
psicanalisti per l’argomento, questo è l’unico libro di Cardano
presente sul mercato editoriale in un’edizione tradotta e
commentata ed è quindi accessibile a chi voglia approfondire la
conoscenza del nostro “mago”.
Il titolo completo dell’opera, pubblicata per la prima volta nel 1562, è
Synesiorum somniorum omnis generis insomnia explicantes
libri IIII, [Quattro libri che spiegano tutti i tipi di “insomnia” trattati
nel libro di Sinesio “Sui Sogni”]. Il riferimento al libro di Sinesio è
dovuto in parte al taglio “spirituale” di quest’opera, ma più
probabilmente è stato determinato da ragioni prudenziali nei
confronti della Chiesa. Sinesio di Cirene era infatti un pio
vescovo, apprezzato dai Padri della Chiesa per le sue Omelie,
che oltre a tutto richiamava molto da vicino Sant’Ambrogio per
essere stato anche lui eletto vescovo per acclamazione
popolare a sorpresa (nel 410 d.C.) pur essendo un laico.
Mettendosi al riparo dietro Sinesio, Cardano cercava così di
evitare i sospetti della Chiesa e toglieva nello stesso tempo
dall’imbarazzo il giovane Carlo Borromeo al quale il libro era
dedicato.
Il succo della teoria dei sogni è esposto nei primi quindici capitoli del
libro I (pp. 27-77). E’ un’esposizione molto analitica, condotta
con una logica molto serrata, quasi da ingegnere, della quale il
Cardano si vanta dicendo che si tratta della prima sistemazione
esauriente dell’argomento. In seguito l’opera assume un
carattere più enciclopedico enumerando esempi su esempi,
diventando cioè una specie di manuale di consultazione per
coloro che intendono avventurarsi nella difficile arte
dell’interpretazione dei sogni.
Lo schema dell’intera opera è il seguente:
Libro I, capp. I-XV, teoria generale
Libro I, dal capitolo XVI in poi, significato delle cose viste in sogno
(ad esempio, piante, animali, cibi, vesti, morti, case, città,
persone conosciute o sconosciute, viaggi, ecc.)
Libro II, tipi di sogni (oscuri, incompiuti, terribili, ricorrenti, perfetti,
ecc.)
Libro III, tipi di sognatori (ricchi o poveri, sposati o celibi, con figli o
senza figli, maschi o femmine, sani o malati, ecc.)
Libro IV, raccolta di esempi di sogni del secondo, terzo e quarto
genere. Sogni di Cardano e loro interpretazione.
Nel libro IV gli esempi sono riportati secondo il “genere” di sogni.
Quale genere? Lo scritto inizia proprio da questa fondamentale
distinzione dei sogni secondo quattro generi. Gli autori che lo
hanno preceduto, dice il Cardano, non sono riusciti a fondare
una “scienza dei sogni” proprio perché non hanno compreso
questa fondamentale distinzione. Questi quattro generi si
distinguono in base alle loro cause che possono essere
corporee o incorporee, oppure nuove o già presenti nel
sognatore. Combinando tra loro queste cause otteniamo i
quattro generi.
Primo genere (cause corporee e nuove):
Sono i sogni di nessun valore rispetto alla previsione del futuro.
Sono generati da cibi indigesti ingeriti subito prima di dormire
che fanno giungere al cervello vapori spessi e turbolenti, atti a
generare sogni oscuri e confusi. Le cause che producono questi
sogni, che tutti noi conosciamo benissimo (“Cos’hai mangiato di
pesante?”), sono cinque (Libro I, p. 32):
“(1) O perché i cibi sono quelli che hanno la natura della testa di
polipo, del cavolo, della cipolla, dell’ossimele, del coriandolo
fresco ... il frutto di giunco, quasi tutte le specie di erba mora, il
giusquiamo, la mandragola, il vino denso e abbondante;
insomma tutto ciò che provoca il sonno e la bile nera come i
legumi e specialmente le fave. (2) Oppure a causa della
quantità e della varietà delle cose ingerite, (3) o a causa
dell’ordine sbagliato, quando si mangia molto e cibi di diverso
genere, e si mescolano diverse bevande; (4) oppure se a cibo
crudo si aggiunge altro cibo; (5) o se il cibo assunto genera
disturbi di digestione.”
Secondo genere (cause corporee già presenti nel sognatore):
Questi sogni si verificano in presenza di vapori meno agitati, sono
più coerenti dei primi e dipendono dagli “umori” presenti nel
sognatore in forma più o meno equilibrata. Sono molto
importanti per il medico perché rivelano possibili malattie latenti
nel sognatore. Nel mondo classico ci si serviva di questi sogni
per formulare diagnosi e terapie attraverso il metodo dell’
“incubazione”, che consisteva nel far dormire il paziente entro il
recinto di un tempio (celebre quello di Esculapio ad Epidauro) in
modo che il dio suggerisse attraverso i sogni qual’era la
malattia latente (in incubazione, appunto) e possibilmente quali
rimedi si dovevano adottare.
I sogni provocati dagli umori si distinguono secondo l’umore che
prevale sugli altri, campanello d’allarme di uno squilibrio che
può trasformarsi in malattia, secondo questo schema:
umore
sogni
bile gialla (fuoco)
ira, corsa, battaglia, fuochi,
incendi accompagnati da paura e furia,
bile nera (terra)
oscurità, terremoto, lampo e
tuono, fuga, melma, carceri, morte, lutto, tenebre, disperazione
flegma (acqua)
inondazioni, fiumi, pioggia,
tempeste, grandine, nevi, freddi, ghiaccio, paludi
sangue (aria)
vino
lago di sangue, rose rosse, porpora,
Se gli umori sono in equilibrio sogneremo prati, luoghi ameni, suoni,
delizie, piaceri, belle pitture, profumi soavi.
Terzo genere (cause incorporee già presenti nel sognatore):
Anche questo genere, come il primo, è noto a tutti. Sono i sogni
generati dagli stati d’animo presenti nel sognatore durante la
veglia e quindi ai ricordi delle affezioni che lo turbano. Come i
sogni del primo tipo, quindi, non dicono nulla rispetto al futuro,
ma denunciano soltanto la presenza di rancori, timori e
speranze, gioie e tristezze, odi e amori nella vita del sognatore.
Questi “sogni di memoria” sono prodotti da un surriscaldamento
dei vapori che permette ai ricordi di apparire più nitidamente.
Quarto genere (cause nuove e incorporee):
Questi sono i sogni provocati da agenti di ordine superiore (angeli,
dèmoni) che entrano nella nostra mente nel sonno soprattutto
per ammonirci o per rivelarci il futuro. Il quarto genere è quindi
l’unico che interessi veramente e che richieda un’arte
particolare per poter essere interpretati e compresi.
I sogni di quest’ultimo genere, i più preziosi, non sono però destinati
a tutti. Per meritarli bisogna essere persone di un certo rango e
di specchiata moralità. Capitano più facilmente a chi usa
normalmente cibi sobri e si raccoglie frequentemente in
preghiera. Sono più frequenti nei vecchi, in estate o in inverno,
nei giorni sereni e senza vento, in un periodo che va dal sorgere
del sole all’ora terza. Sono portati ad avere quasi sempre sogni
profetici “chi ha nell’oroscopo della nascita Giove, e ancor più
Venere come pianeta dominante mentre si trova nella nona
casa, quando la Luna sarà vicina a Mercurio, in Ariete, nella
Bilancia o nel Leone, allontanandosi dal Sole, ed essa sarà
signora della casa significante lavoro”. Anche le gemme aiutano
ad avere sogni veritieri. “E’ bene portar gemme, come il
diamante, lo smeraldo, lo zaffiro, l’ametista e il Hiacynthus, che
non ostacolano i sogni, ma anzi ne respingono l’aspetto vano e
portano tranquillità all’animo.” La tranquillità d’animo è sempre
la condizione indispensabile perché il cervello sia ben
predisposto ad accogliere i messaggi esterni e la cosa migliore
da farsi per ottenerla è quella di “per così dire, spazzare la
casa, ... depurare il corpo dagli umori, dai cibi, dalle bevande e
da Venere, e l’animo dai turbamenti.” (p. 51)
L’interpretazione dei sogni
I sogni veritieri sono di due tipi: gli idoli e gli insomnia. Gli idoli sono i
sogni che si esprimo in maniera chiara e diretta e non hanno
bisogno di interpretazioni. Molti sogni veritieri e profetici sono
invece oscuri, si esprimo come attraverso un codice che va
decifrato. Le regole della decifrazione di questo codice forma
l’oggetto del libro, ma sono esposte sinteticamente nei capitoli
XI e XV. E’ la parte del libro che più si avvicina alla psicanalisi,
che però, come sappiamo, considerava questi messaggi cifrati
come provenienti dal profondo e non d’alto, come pensava
Cardano.
Ma in primo luogo, di quali cose future ci parla il sogno? L’elenco
fornito dal Cardano ci fa vedere quali erano allora gli argomenti
sui quali si appuntavano le maggiori ansie, e non c’è da stupirsi
se corrisponde a quello che compileremmo anche oggi. Quello
che i sogni ci rivelano riguarda dunque: la durata della nostra
vita, la salute, le affezioni dell’animo, gli incidenti che colpiscono
il corpo, le attività che intraprenderemo (amori, litigi, viaggi,
feste, ecc.), ricchezze, cariche e onori, la famiglia.
L’interpretazione si basa sul concetto di convenienza, che può
manifestarsi in quattro modi: per natura, condizione, opinione e
contrasto. Per esempio, per un vecchio sognare di ballare “è
una cosa che significa stoltezza, disonore o morte: stoltezza
perché la cosa in sè è sconveniente (per natura), disonore per il
giudizio di chi guarda (condizione), morte perché si dice che i
vecchi son soliti ballare con la morte (opinione).” I meccanismi
usati dal sogno non sono sempre lineari, perché possono
intervenire significati “trasposti” od “opposti”. Con la
trasposizione (p. 53) “come davanti allo specchio, la destra
diventa la sinistra e la sinistra la destra. Il fatto che i fiori
significhino tristezza, è da riferirsi all’inversione destra/sinistra o
alla trasposizione in generale dato che i fiori cadono in fretta e
si trasformano”. Altre volte invece i sogni indicano l’opposto,
specialmente se c’è incompatibilità tra il sognatore e la cosa
sognata. Ad esempio “per un semplice uomo del popolo, una
pompa principesca significa impiccagione; infatti, anche chi è
condotto al supplizio è circondato da guardie.” (p. 74)
L’arte dell’interpretazione deve dunque tener conto del sognatore,
che, per Cardano come per tutti gli altri autori di scritti sui sogni
(compreso Freud), è sempre il miglior interprete perché
conosce a fondo la propria condizione. Comunque le difficoltà
sono tanto più grandi quanto più vago è il sogno e quanto più gli
affetti dell’animo sono mescolati agli influssi celesti. Per questo
il trattato, a partire dal cap. XVI ci fornisce un lunghissimo
elenco di casi ai quali attingere per dipanare i significati
nascosti, una ricerca da capogiro che tocca via via ogni oggetto,
ogni situazione, ogni tipo di sognatore. Abbiamo scelto come
esempio del carattere estremamente analitico di quest’arte il
capitolo LII sulle “Vesti” che può darci un’idea del grande lavoro
compiuto dall’autore nelle centinaia di pagine che compongono
quest’opera. Forse qualcuno di noi, di fronte alla complessità
dell’opera e all’incertezza dei risultati, preferirà rinunciare ad
affannarsi per conoscere il proprio futuro.
Bibliografia
Catalogo dell'Archivio Cardano (bibliografia generale dei manoscritti
e delle stampe)
Ritratti di Cardano
Opere di Gerolamo Cardano tradotte e commentate:
Aforismi astrologici, Milano, Xenia edizioni 1998
Della mia vita, Milano, Serra e Riva 1982
Elogio di Nerone, Milano, C. Gallone 1998
Encomium Neronis, Milano, Philobyblon 1986
Manuale per la lettura della fronte, Milano, Mimesis ermetica 1994
Prosseneta ovvero della prudenza politica, Milano, Silvio Berlusconi
editore 2001
Sul sonno e sul sognare (I libro del Synesiorum somniorum) a cura
di Mauro Mancia e Agnese Grieco, Venezia, Marsilio 1989
Sogni (II, III e IV libro del Synesiorum somniorum) a cura di Mauro
Mancia e Agnese Grieco, Venezia, Marsilio 1993
Opere su Gerolamo Cardano:
Biografie on-line: in italiano, in inglese, in inglese (scientifica), in
francese, in tedesco, in spagnolo, in polacco, in svedese.
Baldi, Marialuisa e Canziano, Guido (a cura di), Girolamo Cardano :
le opere, le fonti, la vita, Milano, F. Angeli 1999
Baldi, Marialuisa e Canziano, Guido (a cura di), Girolamo Cardano.
Un enciclopedista del Rinascimento (catalogo della mostra),
Milano, Biblioteca di via Senato 2002
Bellini, Angelo, Gerolamo Cardano e il suo tempo, Milano, Hoepli
1947
Bertolotti, A., I testamenti di Gerolamo Cardano, in “Archivio Storico
Lombardo”, IX, 1882, pp. 615-660
Capparoni, Pietro, Profili bio-bibliografici di medici e naturalisti
celebri italiani dal sec. XV al sec. XVII, 2 voll., Roma 1925-28, II,
pp. 39-42
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Le vesti
da Sogni di Gerolamo Cardano, cap. LII, pp. 180-182
Le vesti significano la dignità, sia perché le cambiamo spesso, sia
perché mutano facilmente di foggia. Significano anche la moglie,
perché è lei che abbellisce o svilisce l'uomo. Le differenze tra le vesti
dipendono dalla parte del corpo, dalla materia, dal colore, dalla
forma e dal modo di indossarle. Togliersi le vesti vuol dire spogliarsi
della dignità quasi intenzionalmente. Ma vederle bruciate o lacerate
significa subire onta e violenza. Una veste bianca indica gioia e
felicità; una purpurea, una gioia maggiore accompagnata da ira e
crudeltà; una azzurra, malattie; dorata, dolori e tormenti, mentre
verde è buon segno, pieno di speranza e di piacere. Una veste di
seta annuncia onori, una di lino malattie, morte e povertà. Il pileo
[berretto che portavano gli schiavi quando venivano affrancati]
significa liberazione per un prigioniero e un servo. L'elmo indica la
corona; e la corona a sua volta doti poetiche e autorità, nonché
vittoria. Il petaso [cappello a larga tesa] una carica non importante e
tuttavia utile. La cirbasia [turbante aguzzo] una carica militare. La
tiara e il diadema indicano invece sacerdozio; e se è rosso il sommo
sacerdozio. I copricapi femminili, come la mitra, la retìna, la benda
tra i capelli, stoltezza e lascivia. Il velo di mussola significa viaggio,
perché usiamo indossarlo viaggian-do. La corazza significa dignità,
magistratura e moglie. Se è bianca una moglie bella, verde una
moglie casta e onesta, gialla una ricca e pesante, celeste una triste,
nera una iraconda e crudele, rossa una fastidiosa, variopinta e
dorata una svergognata. La camicia significa anche essa moglie,
amante, segreti del cuore. I cosciali, le brache, la fascia intorno alle
anche rimandano alla moglie, al pudore, all'onestà e a piaceri osceni.
Gli scarponi significano caccia e ancor più spedizione militare. Gli
zoccoli annunciano servitù, fatiche e pover-tà. I gambali viaggio, i
coturni e i socci [sandali portati soprattutto dalle donne e dagli attori
durante le rappresentazioni] piacere e processione. Le scarpe un
viaggio a piedi, e se vengono levate malattie; i sandali malattie,
lascivia, mollezza. I sandaletti intrecciati inganno e insidie, perché
non fanno rumore. I sandali da donna, e tutti gli altri indumenti
femminili indicano mollezza, azioni turpi e indegne, e parole
indecorose. Il mantello militare guerra o tristezza; e la mantellina una
guerra dura, vicino ai propri poderi; un pesante mantello villoso al
dritto e al rovescio annuncia un lungo viaggio, o carcere, servitù,
navigazione, povertà e miseria. Il mantello, e tutti gli indumenti
esterni, se sono rossi significano ira e strage; se bianchi sacerdozio
o riposo, se verdi buona speranza, se neri dignità e pudore; ma
quelli particolarmente disadorni e lunghi significano lutto; quelli gialli
impudenza; quelli dorati stoltezza, impudenza, o regno e
magistratura. Le vesti di lana significano ricchezze, e così quelle di
cotone, ma di minore entità; indicano anche malattie e mollezza. I
veli da sera malattie e ferite. Inoltre tra gli indumenti esterni la toga
significa dignità, e alla nostra epoca, se un lembo pende sul retro e
la coda è lunga e nera, è una veste mortuaria e di lutto; invece la
toga pretesta è segno di onore e magistratura. La toga reale o orlata
e intessuta di gemme indica regno o principato. Una veste dipinta
significa vittoria, un comandante militare, un mimo, un imbecille, un
attore comico o tragico. Una veste damascata, tessuta di fili diversi,
significa disonore; se però è preziosa, dignità non durevole. La
gonna a ruota e la veste Maltese, un mantello di bisso o di cotone, e
ogni altra veste femminile, significa delizie o stoltezza e disonore,
oppure mollezza; e quanto più è preziosa, tanto più è propizia, o
meno funesta. E se viene portata o comprata o tenuta in casa
significa moglie, amante o concubina. Una veste orlata di porpora
scura significa sempre lutto e funerale. E ogni vestito da donna di
colore scuro annuncia la morte di chi sogna, dei suoi figli o di parenti.
La lacerna [sopraveste portata sulla toga] e il mantello col cappuccio
significano viaggio, il mantello pesante però è tipico dei poveri. La
pelliccia di chi viaggia a piedi e significa anche spedizione militare.
La lacerna col cappuccio e il cappuccio da solo significano vita
solitaria e convento. Se però è azzurra o tutta di porpora, annunzia
un sacerdozio elevato e grandi ricchezze. Anche la stola sacerdotale,
il berretto sacerdotale di lana, la prima specialmente se intessuta di
rosso scarlatto, di bisso, di porpora, di colore giacinto, e le vesti che
si indossano nelle cerimonie quotidiane e che un tempo erano
portate dai sacerdoti romani, indicano un sacerdozio molto ricco.
L'endromide [veste pesante che si indossava dopo gli esercizi ginnici]
significa lite o viaggio con un tiro di cavalli. Le pellicce belle indicano
dignità, quelle brutte povertà. La veste da casa, siccome si usa
spesso, non significa nulla; ma se indossata nel foro annuncia un
male improwiso o catene, perché non ci si reca colà vestiti in tal
modo, se non si è pazzi. Il pallio (la coperta) è segno di astinenza, di
moderazione, di studio delle arti. Il lungo mantello militare è tipico del
comandante militare ed è segno di dignità, specie se di porpora e
trapunto di gemme. La clamide [mantello militare] invece, di potere
regio. La trabea [mantello bianco orlato di porpora] scura o militare
significa morte; trapunta di rosso scarlatto sacerdozio nobile;
rilucente o ricamata potere regio e vittoria; pieghettata promette
ricchezze in vecchiaia: infatti i vecchi avari la prediligono
particolarmente. Essere vestito in modo ridicolo annuncia non solo
derisione, ma anche sventure e disprezzo. Il pallio, la toga e le vesti
che non costringono (dette «Apostoliche») secondo la qualità del
colore indicano l'affidabilità dell'uomo perciò quelle bianche sono le
migliori, e annunciano fede sincera quelle rosse liti, risse e disonori,
tuttavia non sono funeste. Molto propizie sono quelle verdi, portatrici
di malattie quelle celesti. E tutte le vesti sozze e lacere annunciano
noie, fastidi, molestie e disonori; una veste pulita e bella liberazione
da un fastidio antico una nuova e brutta significa l'imminenza di un
nuovo fastidio. Ad una donna il cui marito era in esilio, parve in
sogno di vederlo avanzare in pubblico senza veste: le fu predetto
che mai l'avrebbe rivisto, perché il marito è l'ornamento della moglie,
così come la veste.
6.5 Gian Giacomo Mora, il barbiere della peste
manzoniana
Gian Giacomo Mora, il barbiere della peste
manzoniana
di Mauro Colombo
La peste del 1630
Prime avvisaglie dell'epidemia
Tra le numerose epidemie di peste che flagellarono Milano lungo i
suoi secoli di vita, quella del 1630 è da considerare senz'altro la più
conosciuta e ricordata, per merito indiscusso del Manzoni, che la
scelse quale cupo sfondo alle vicende narrate nei Promessi sposi.
Anche questa epidemia, come le precedenti (l'ultima aveva
devastato la città nel 1576), non arrivò improvvisamente nell'arco di
pochi giorni, bensì si sviluppò lentamente ma inesorabilmente dando
le prime avvisaglie moltissimi mesi prima, e prova ne è che già nel
1628 la Sanità milanese (l’organo preposto alla tutela della salute
dei cittadini), considerate le poco rassicuranti notizie riguardanti i
contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per
porre Milano al riparo da ogni sorta di rischio. Successivamente,
sull'onda dei racconti provenienti soprattutto dalla Svizzera, vennero
pubblicati alcuni bandi per vietare il commercio con Friburgo e
Berna.
In marzo, ad aggravare la carestia che da qualche tempo si era
abbattuta sul Milanese (carestia che spingerà il popolo, nel
novembre successivo, ad assaltare i forni e la casa del vicario di
provvisione Ludovico Melzi, in via S.Maria Segreta), ci si mise la
guerra per la successione nel Monferrato tra la Francia e gli Asburgo.
L’esercito spagnolo pose l’assedio a Casale, il che comporterà per i
mesi seguenti, come vedremo, pericolosi movimenti di truppe
attraverso i territori di Milano. Sul piano politico, a fine agosto, vi fu il
passaggio di consegne tra il nuovo Governatore, Ambrogio Spinola,
e l'odiato Gonzalo Fernandez de Cordova, la cui partenza fu salutata
dal popolo come una liberazione.
Tuttavia, tra proclami e bandi inascoltati, arrivò l'ottobre del 1629
senza che importanti e mirati provvedimenti fossero ancora stati
presi, e ciò a causa, prevalentemente, dello scetticismo che le
autorità mostravano circa la possibilità che la peste varcasse le porte
cittadine. Neppure la morte sospetta di Alfonso Visconti, all'epoca
vicario di provvisione, smuoverà Ludovico Settala, di cui parleremo
più avanti, dalla sua ostinazione nel volere negare l'esistenza della
peste a Milano.
Del resto, in questo periodo, il registro del lazzaretto di Porta
Orientale, regolarmente in funzione dall'inizio del 1500 e adibito a
ricovero di malati contagiosi, riporta soltanto tre ricoverati sospetti,
prelevati dalle rispettive abitazioni dietro segnalazione dell’Anziano
di S. Babila.
La paura cominciò a diffondersi veramente solo il 12 ottobre, con la
notizia che a Malgrate, il giorno prima, erano morte dodici persone
sane e robuste.
Il primo caso di peste a Milano
Il 22 ottobre 1629, proveniente da Lecco o da Chiavenna, tornò in
città Pietro Antonio Lovato, abitante in porta Orientale, nella
parrocchia di S. Babila, portando con sé molti abiti barattati o
acquistati dai fanti alemanni. Dopo tre giorni trascorsi nella propria
casa assieme ai familiari, fu ricoverato all'Ospedale Maggiore, dove
tuttavia morì nell'arco di due soli giorni.
Sul suo corpo, il barbiere e il capoinfermiere rinvenirono "un
flegnione nel brazzo sinistro, et principio di infiammatione sotto
all'assela, pure sinistra" (Cronaca del Settala). Pertanto si
bruciarono al più presto il letto e le sue povere cose, dopodiché i
familiari dell'uomo furono trasportati al lazzaretto per la quarantena.
Dopo questo caso di peste conclamata, furono pubblicate numerose
grida che proibivano baratti coi soldati tedeschi di passaggio, mentre
la Sanità milanese pensò bene di introdurre l'utilizzo obbligatorio
delle “bollette personali di sanità”, una sorta di passaporto medico
che accertasse la provenienza da territori sani di ogni persona che
volesse entrare in Milano.
Più che questi blandi provvedimenti, fu il rigido inverno ad arrestare,
momentaneamente, il diffondersi del contagio.
Il 1° gennaio 1630 a G. B. Arconati, Presidente della sanità, subentrò
M. A. Monti, coadiuvato da alcuni fisici e dall'illustre medico e
protofisico Ludovico Settala, che avrà un ruolo importante durante
tutto il decorso della pestilenza.
Il carnevale portò un periodo di spensieratezza e festeggiamenti,
durante i quali nessuno parve preoccuparsi delle persone che,
sebbene in non larga misura, morivano di peste entro tre giorni dai
primi sintomi. Ai festeggiamenti carnevaleschi si aggiunsero quelli,
ancora più sfarzosi, in onore della nascita, avvenuta nel novembre
dell’anno precedente, dell’infante di Spagna.
Dal clima euforico non si salvava neppure il lazzaretto, dove si
organizzavano feste e balli, e si commerciava impunemente con
l’esterno. Questi eccessi, ed altri ben più gravi, spinsero alla
pubblicazione dei severi "Ordini dell'hospitale di S. Gregorio detto
lazzaretto, fatti e instituiti dai fisici collegiati Alessandro Tadino et
Senatore Settala" (18 febbraio 1630). In ogni caso, poco dopo, per
risolvere definitivamente i problemi connessi alla disciplina, i
conservatori della città ne affidarono la gestione e l'organizzazione al
padre cappuccino Felice Casati.
A marzo si ebbero grandi spostamenti di truppe, da Geradadda
dirette verso il Monferrato, truppe che, nonostante gli evidenti rischi
di diffusione incontrollata del contagio, transitavano in città,
bivaccando per giorni nelle campagne circostanti. Dalla Valsassina,
inoltre, scesero 4.000 lanzichenecchi, diretti nel novarese e nel
mantovano.
Con la primavera i morti presero sensibilmente ad aumentare, tanto
che a maggio, col primo vero caldo, il lazzaretto si mostrò incapace
di accogliere altri appestati. Si ipotizzarono dunque varie soluzioni,
tra le quali requisire il borgo della Trinità, fuori Porta Ticinese, per
adibirlo a ricovero dei sospetti, lasciando il lazzaretto solo per i
malati accertati.
Inoltre, si ventilò l'ipotesi, poi scartata, di sigillare l’intero borgo di
Porta Orientale, la zona di Milano col più alto numero di malati e di
decessi.
Caccia agli untori
Proprio quando il cardinale Federico Borromeo iniziava ad
organizzare processioni cittadine per invocare l’aiuto divino contro il
flagello, tra il popolo iniziò a diffondersi la voce circa la presenza un
po' ovunque di loschi personaggi che, muniti di veleni e intrugli vari,
andavano ungendo mortalmente le zone di maggior passaggio. Il 17
maggio, durante la consueta processione serale all’interno del
duomo, alcuni fedeli videro distintamente alcune persone nell'atto di
ungere la balaustra che all’epoca divideva la zona riservata agli
uomini da quella delle donne.
Dato prontamente l’allarme, accorse per un sopralluogo lo stesso
presidente della sanità Monti, individuando in più punti, ma
soprattutto sulle
sconosciuto.
panche,
macchie
di
materiale
untuoso
e
Dopo questo caso clamoroso, si misero a verbale molte denunce di
cittadini, terrorizzati dalle continue unzioni che nottetempo venivano
compiute a danno di portoni, maniglie e catenacci.
Lo storico Ripamonti riferisce due casi che riassumono bene il clima
di sospetto che aleggiava in quei tempi.
Uno riguarda tre viaggiatori francesi, i quali visitando la nostra città,
giunti davanti allo splendido marmo del Duomo, vi passarono le
mani per saggiarne la levigatura. Furono subito percossi da alcuni
popolani, e poi trascinati in carcere con l'accusa di essere untori.
L'altro, di un vecchio che prima di sedersi su di una panca in S.
Antonio, ebbe la malaugurata idea di spolverarla col proprio mantello.
I fedeli presenti lo aggredirono a calci e pugni, abbandonandolo
morto.
La situazione si era fatta a questo punto ingestibile: il numero dei
decessi aumentava ogni giorno di più, così come le tracce di
sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante il
Monti avesse dato alle stampe una grida “contro coloro che sono
andato ungendo le porte, catenacci, e muri di questa città”.
Di tutto ciò il Governatore dello Stato accusava apertamente
potenze straniere nemiche della Spagna, colpevoli, a suo dire,
aver prezzolato individui senza scrupoli per diffondere la peste
tutta la città, col chiaro intento di ridurre il ducato milanese
ginocchio.
le
di
in
in
Alla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e centinaia di
malati, venne allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino, affidato ai
carmelitani, che vi entrarono il giorno 8 giugno.
E mentre anche le cause civili erano ormai sospese per precauzione,
martedì 11 giugno, a mezzogiorno, si mosse la grande processione
col corpo di Carlo Borromeo, voluta dal cardinale Federico, ultima
speranza di un evolversi positivo del contagio. La processione si
snodò lungo le vie, toccando tutte le porte della città, e di volta in
volta fermandosi ai piedi delle numerose croci stazionali innalzate in
occasione della pestilenza del 1576.
Purtroppo, la grandissima affluenza di popolo portò, come
prevedibile, ad un incremento della virulenza del male, che nelle
settimane successive falciò inesorabilmente migliaia di persone, con
una media di centocinquanta morti al giorno, numero che toccò con
l'estate i duecento e più.
Ormai la situazione appariva drammatica: migliaia di case chiuse o
abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza conforto e senza
alcun tipo di aiuto medico, un macabro andirivieni, di notte e di
giorno, di carri colmi di cadaveri, fisici e protofisici incapaci di dare
risposte se non ricorrendo ai soliti salassi.
I nobili frattanto, davanti allo spettacolo di una città ridotta a bolgia di
dannati, si erano dati precipitosamente alla fuga, diretti nelle più
sicure dimore di campagna, nonostante le grida che proibissero di
lasciare Milano, pena la confisca dei palazzi e di tutti gli averi.
Gian Giacomo Mora: il capro espiatorio
L'unzione alla Vetra dei cittadini
Quando ormai le cifre ufficiali parlavano apertamente di 14.000
decessi per peste dall’inizio dell’epidemia e la città si presentava,
come scriveva il Monti, “miserabilissima”, i milanesi di Porta Ticinese
e del Carrobbio ebbero un terribile risveglio, la piovosa mattina di
venerdì 21 giugno 1630.
Nella zona, infatti, tutti i muri, le porte, gli angoli, e i catenacci delle
case apparivano imbrattati con una sostanza appiccicosa di colore
giallo. Nazario Castiglioni, sagrestano di S. Alessandro, è il primo ad
informare dell'accaduto il capitano di giustizia, Gianbattista Visconti,
che si recò immediatamente in Porta Ticinese per far luce
sull’accaduto.
Le informazioni che sono pervenute a noi, e che ci permettono di
ricostruire tutti i drammatici risvolti della vicenda, sono contenute in
alcune copie (leggermente differenti tra loro) fatte del verbale
originale degli atti processuali, questo essendo da considerarsi
perduto, nonostante le pignole ricerche effettuate dallo stesso Verri,
prima, e dal Niccolini, poi.
Delle copie esistenti, una, a stampa (considerata la più attendibile)
fu pubblicata nel 1633 ed è conservata alla Braidense (A.B. XIII.32),
mentre un'altra, manoscritta, sempre custodita alla Braidense (Manz.
XII. 65-66), in due volumi, fu a fondo studiata dal Manzoni, del quale
riporta ancora le postille autografe.
L'arresto di Guglielmo Piazza
Da quanto si apprende dalle copie degli interrogatori, il Capitano di
giustizia, dopo aver ascoltato decine di popolani, scovò finalmente
una testimone ben informata: Caterina Trocazzani, vedova di
Alessandro Rosa. Questa abitava in alcune stanzette le cui finestre
s'affacciavano sulla Vetra dei cittadini, una strada che si immetteva
sul corso di Porta Ticinese, sbucandovi quasi in faccia alle colonne
di S. Lorenzo.
La Trocazzani raccontò di aver visto, intorno alle otto di quel venerdì
mattina, un uomo alquanto sospetto, avvolto in una mantella nera e
con un grosso cappello, il quale camminava in modo a suo dire
sospetto, rasente ai muri, e "che aveva una carta piegata al longo in
mano, sopra la quale metteva su le mani, che pareva che scrivesse
(…) che a luogo a luogo, tirava con le mani dietro al muro".
Un’altra donna del quartiere, Ottavia Persici, moglie di Giovanni
Bono, descrisse la stessa scena, e concordò sulle fattezze e il
comportamento dell'individuo.
La Trocazzani poi, sempre affacciata al davanzale, disse di aver
visto l'uomo misterioso allontanarsi, non senza aver prima salutato
un passante, ch'ella, per combinazione, conosceva. Da questo
seppe dunque il nome del presunto untore.
Fu così immediatamente tratto in carcere "un uomo di statura grande,
magro, con barba rossa assai longa, capelli castani scuri, in camisa
dal mezzo in su, con calzoni di mezzalana mischia stracciati,
calcette di stamo nero, et ligazzi di cendal nero": il suo nome era
Guglielmo Piazza, di professione Commissario di sanità. La sua
abitazione in porta Ticinese, per l'esattezza nella parrocchia di S.
Pietro in Camminadella, fu perquisita, ma nonostante lo zelo non si
trovò alcunché di sospetto.
Il poveretto subì numerose sedute di tortura, durante le quali ribadì
sempre la medesima versione, e che cioè quella mattina stava solo
compiendo il suo lavoro, percorrendo la zona della Vetra dei cittadini,
delle colonne di S. Lorenzo, di S. Michele alla chiusa e di S. Pietro in
campo lodigiano, per segnarsi sul foglio di servizio le case rimaste
abbandonate,
e prendendo appunti sui decessi avvenuti nel
quartiere.
Sul perché poi camminasse rasente ai muri, si giustificò dicendo che
voleva ripararsi dalla pioggia, cosa che se a noi potrebbe apparire
più che verosimile, all’epoca fu ritenuta una menzogna bella e
buona.
Tuttavia, non potendo resistere a lungo ai tormenti cui veniva
quotidianamente sottoposto, il 26 giugno confessò di aver ricevuto
del veleno da un barbiere anche lui del Ticinese, di cui conosceva
solo il nome di battesimo: Giovanni Giacomo.
Il Piazza si era inventato dunque una storia credibile, narrando che il
barbiere lo aveva avvicinato qualche tempo prima, offrendogli una
buona ricompensa se in cambio si fosse prestato ad ungere le case
della zona con una sostanza di tipo "giallo, duro, come l’oglio gelato
nel tempo dell’inverno", che lo stesso barbiere fabbricava di
nascosto nella sua bottega, e con la quale poi riempiva certe
ampolline di vetro.
Il notaio, che assisteva all'interrogatorio, mise a verbale che il Piazza
confessava di aver ricevuto la sostanza una sola volta, e di averla
utilizzata nella zona circostante la Vetra dei cittadini, ma non oltre il
ponte dei Fabbri (attuale piazza Resistenza partigiana).
L'arresto di Gian Giacomo Mora
Forti di quanto estorto con la tortura, il presidente della sanità, col
notaio ed una opportuna scorta, si presentarono nella bottega di
barbiere (ad angolo tra la Vetra dei Cittadini e il corso di Porta
Ticinese) di Gian Giacomo Mora, in quel momento in compagnia del
figlio, Paolo Gerolamo, intento a sbrigare le proprie faccende.
Per sua somma disgrazia, il Mora, che come tutti i barbieri dell'epoca
si occupava anche di bassa chirurgia, da quando era scoppiata la
peste arrotondava i magri guadagni vendendo un prodotto da lui
stesso inventato, un rimedio contro il contagio, che era alquanto
richiesto dal popolo, privo, del resto, di altri e più efficaci trovati
scientifici.
Il barbiere pertanto, viste le guardie e spaventato dal fatto che
queste iniziavano una minuziosa perquisizione della bottega, pensò
di confessare la colpa che, a suo ingenuo avviso, aveva spinto
qualcuno a denunciarlo: ammise così di aver più volte preparato un
unguento senza averne l'autorizzazione, ma di averlo fatto solo a fin
di bene, per amore del prossimo. Non poteva neppure immaginare,
in realtà, quale accusa terribile gli sarebbe stata mossa di lì a poco.
Durante la perquisizione della casa, fu sequestrata una gran
quantità di sostanze e pozioni, il cui elenco venne steso dal notaio
presente. La scoperta più interessante la si fece però nel cortile
interno del caseggiato, dove in un angolo un poco nascosto si
rinvenne un grosso pentolone dimenticato al sole, dentro al quale
marciva “un aqua, in fondo alla quale vi è un’istessa materia viscosa
e bianca, e gialla”. Il tutto fu catalogato come “lisciva e cenere”, una
sostanza che, ricorda anche il Manzoni, veniva comunemente
adoperata, col nome popolare di "ranno" o "smoglio" per fare il
bucato.
Trascinato in carcere, alla domanda se conoscesse il Piazza e se
mai gli avesse consegnato un vasetto di vetro ricolmo di un certo
preparato, il Mora, sempre all'oscuro del reato per il quale era stato
messo agli arresti, ammise di conoscerlo e di avergli venduto tal
unguento salvavita, dato il mestiere pericoloso che il Piazza
svolgeva, sempre a contatto con cadaveri e ammalati.
Quell'intruglio, secondo la sua confessione riportata nel verbale
dell’interrogatorio, era composta di “8 onze d’oglio di oliva, 4 di aglio
laurino, 4 d’oglio di sasso detto filosophorum, 4 di cera nova, 4 di
rosmarino, 4 di ballette di ginepro, e 4 onze di polvere di salvia”. La
pozione andava sfregata sui polsi, e conservava la salute da ogni
contagio di peste.
Inutile dire che la sanità milanese volle vedere in quella storia ben
altri risvolti. In un processo indiziario e inquisitorio, quello che
appariva certo era una sola cosa: il Mora produceva del veleno,
tracce del quale erano state rinvenute nella bottega, e ne aveva
fornito il Piazza, col fine criminoso di diffondere il contagio a Milano.
Per eliminare ogni dubbio, il Senato milanese convocò dei "periti"
perché analizzassero la sostanza rinvenuta nel pentolone
abbandonato nel cortile della bottega, al fine di accertare se fosse o
meno il comune smoglio da bucato.
Vennero così ascoltate due lavandaie professioniste. La prima,
Margherita Arpizanelli, disse che in effetti trattavasi sì di smoglio, ma
non puro, perché a suo dire vi si potevano scorgere "delle
furfanterie". La seconda, Giacomina Andrioni, si disse sicura che lo
smoglio contenesse "delle alterazioni", e che con quello si potessero
fare "gran porcherie, e tosiche".
Per completare il giro dei periti, si mise a verbale anche il responso
di Archileo Carcano, fisico collegiato, secondo il quale, addirittura, la
sostanza rinvenuta non era smoglio, anche se, poco
professionalmente, tagliò corto con un "ma io non ho osservato
troppo bene".
Il Verri scrisse a proposito: ”In una bottega di un barbiere dove si
saranno lavati de’lini sporchi e dalle piaghe e da’ cerotti, qual cosa
più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo
varii giorni d’estate?”.
Ma di diversa opinione era il Senato, che tratte le sue conclusioni,
voleva solo ottenere le confessioni necessarie per emettere la
condanna.
Nel mese di luglio si ebbero numerosi arresti, sulla base di
testimonianze popolari o dietro confessioni estorte torturando al
limite della sopravvivenza il Piazza e il Mora.
Tra gli altri, varcarono le soglie delle carceri anche quattro ragazzi,
con l'accusa di aver catturato lucertole per conto del Mora, al prezzo
di un soldo l'una, e con le quali, secondo l'accusa del Senato,
venivano preparati gli unguenti pestiferi. Il barbiere, di contro, si
giustificò dicendo che le lucertole erano impiegate per preparare un
olio contro "le aperture", di cui soffriva un suo cliente di nome
Saracco.
Nelle calde giornate comprese tra il 27 e il 30 giugno si organizzò il
confronto tra il Piazza e il Mora, ai quali si concedettero infine sei
giorni di tempo per definire le loro difese, termine che comunque
venne più volte procrastinato, secondo le esigenze degli inquisitori.
Durante un interrogatorio segreto e pertanto non trascritto in alcun
verbale, il Piazza accusò quale untore il cavaliere Giovanni de
Padilla, figlio del castellano di Milano. In considerazione del suo
lignaggio, viene chiesta l’autorizzazione all’arresto direttamente al
Governatore Spinola. Il Padilla, senza intervento di ufficiali, fu
condotto nel castello di Pomato per un primo interrogatorio. Si
susseguono rapidamente altri arresti e altre accuse, tra le quali
quelle rivolte ad alcuni banchieri (Turconi, Sanguinetti) e ai loro
impiegati, che secondo il teorema accusatorio, avrebbero pagato, su
commissione, gli untori.
La confessione del Mora
Stremato da più di un mese di torture, domenica 30 giugno il Mora
iniziò a rendere piena confessione, sperando di porre fine a
quell'incubo e di avere salva la vita.
Raccontò dunque di aver più volte preparato un unguento pestifero,
che ricavava utilizzando la "bava raccolta dai morti di peste", materia
che lo stesso Piazza gli forniva, essendo per lavoro sempre a
contatto coi monatti e i carri stracolmi di appestati. La sostanza
veniva poi fatta bollire in quel pentolone rinvenuto in cortile.
Successivamente, sottoposto ad altri tratti di corda, il Mora aggiunse
di aver organizzato il tutto dietro compenso versatogli da un
personaggio di spicco, appunto Gaetano de Padilla, il cui nome
evidentemente venne messo in bocca al Mora dai giudici.
Con la confessione, il barbiere aveva firmato la sua condanna a
morte.
La colonna infame
La sentenza del Senato milanese
In uno degli ultimi giorni di quel maledetto luglio del 1630 (vi è
incertezza sulla data), il Senato milanese emanò, dopo quasi un
mese e mezzo di indagini, interrogatori, torture, arresti, la più terribile
delle condanne, a danno del Piazza e del Mora, che troveranno così
la morte pochi giorni dopo, il 1° agosto.
Come previsto dalla sentenza capitale, i due untori rei confessi,
legati schiena a schiena, furono caricati su di un carro trainato da
buoi, attorniato da una folla inferocita. Il corteo partì dal palazzo del
Capitano di giustizia (attuale comando della Vigilanza Urbana) e,
passando prima accanto al Duomo e snodandosi poi attraverso le
varie tortuose contrade dei Mercanti d'oro, dei Pennacchiari, della
Lupa, della Palla, di S. Giorgio al palazzo (che ora, rettificate,
formano la via Torino), raggiunse il Carrobbio.
Poi imboccò la strada di S. Bernardino alle monache, dove i due
vennero tormentati con tenaglie arroventate, successivamente
proseguì per S. Pietro in camminadella, e, sostando davanti alla
bottega del Mora, ai condannati si amputò la mano destra. Infine, il
macabro corteo si arrestò nell'attuale piazza della Vetra, tristemente
famoso prato ove era abitualmente allestito il patibolo.
Fatti scendere sullo sterrato gremito di popolo, i condannati furono
legati alla “ruota” (strumento molto in voga all’epoca) e colpiti
duramente con bastoni fino alla rottura di tutte le ossa. Seppure in
agonia, i due poveretti rimasero per sei ore esposti alla pubblica
vista, affinché tutti potessero meditare sulla terribile sorte riservata
agli untori.
Al termine del rituale, si pose fine alle loro sofferenze scannandoli,
bruciandoli, e gettando le loro ceneri nella Vetra che scorreva lì
accanto.
Morti i due, si diede seguito alle disposizioni della sentenza del
Senato, demolendo dalle fondamenta la casa del barbiere, e sullo
slargo così creatosi si innalzò una colonna di granito, con in cima
una sfera di pietra, la colonna infame, a perenne ricordo della
malvagità degli artefici dell'epidemia. Sul muro della casa di fronte
venne affissa una grossa lapide, la quale ricordasse quali furono le
colpe dei due criminali, quale la pena loro riservata, e il monito
affinché nessuno mai osasse riedificare sui resti della bottega del
barbiere Mora.
Riportiamo di seguito il testo latino della lapide, con la traduzione
fatta del Verri:
HIC.UBI.HAEC.AREA.PATENS.EST
SURGEBAT.OLIM.TONSTRINA
JO.JACOBI.MORAE
QUI.FACTA.CUM.GULIELMO.PLATEA
PUB.SANIT.COMMISSARIO
ET.CUM.ALIIS.CONJURATIONE
DUM.PESTIS.ATROX.SAEVIRET
LAETIFERIS.UNGUENTIS.HUC.ET.ILLUC.ASPERSIS
PLURES.AD.DIRAM.MORTEM.COMPULIT
HOS.IGITUR.AMBOS.HOSTES.PATRIAE.JUDICATOS
EXCELSO.IN.PLAUSTRO
CANDENTI.PRIUS.VELLIICATOS.FORCIPE
ET.DEXTERA.MULCTATOS.MANU
ROTA.INFRINGI
ROTAQUE.INTEXTOS.POST.HORAS.SEX.JUGULARI
COMBURI.DEINDE
AC.NE.QUID.TAM.SCELESTORUM.HOMINUM
RELIQUI.SIT
PUBLICATIS.BONIS
CINERES.IN.FLUMEN.PROJICI
SENATUS.JUSSIT
CUJUS.REI.MEMORIA.AETERNA.UT.SIT
HANC.DOMUM.SCELERIS.OFFICINAM
SOLO.AEQUARI
AC.NUNQUAM.IMPOSTERUM.REFICI
ET.ERIGI.COLUMNAM
QUAE.VOCETUR.INFAMIS
PROCUL.HINC.PROCUL.ERGO
BONI.CIVES
NE.VOS.INFELIX.INFAME.SOLUM
COMACULET
MDCXXX.KAL.AUGUSTI
Qui dov'è questa piazza
sorgeva un tempo la barbieria
di Gian Giacomo Mora
il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di
sanità
e con altri
mentre la peste infieriva più atroce
sparsi qua e là mortiferi unguenti
molti trasse a crudele morte
questi due adunque giudicati
nemici della patria
il senato comandò che sovra alto carro
martoriati prima con rovente tanaglia
e tronca la mano destra
si frangessero colla ruota
e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati
poscia abbruciati
e perché d'uomini così scellerati
nulla resti
confiscati gli averi
si gettassero le ceneri nel fiume
a memoria perpetua di tale reato
questa casa officina del delitto
il senato medesimo ordinò spianare
e giammai rialzarsi in futuro
ed erigere una colonna
che si appelli infame
lungi adunque lungi da qui
buoni cittadini
che voi l'infelice infame suolo
non contamini
1° agosto 1630
Gli ultimi mesi del'epidemia
La morte dei due innocenti non placò ovviamente la furia del
contagio, che in agosto, anche a causa della calura opprimente,
toccò il suo picco massimo. I morti giornalieri, anche se le cifre
tramandateci dagli storici sono purtroppo sempre alquanto
approssimative, ammontavano ormai a 600, e si diceva che almeno
4.000 fossero i cadaveri insepolti che giacevano lungo le vie o
abbandonati nelle case.
Continuarono anche gli arresti di untori, e qualcuno iniziò ad
ipotizzare che in città si aggirasse un vero esercito straniero, col
diabolico compito di ungere tutta Milano.
Con settembre iniziarono a mancare i generi di prima necessità e,
quel che è peggio, iniziarono a scarseggiare i monatti. Una grida del
22 luglio, del resto, già aveva intimato di non "gettare, far gettare,
lasciare o far lasciare in strada dalle finestre alcun cadavere, se non
nell'atto che i monatti li ricevono".
Una missiva del 31 agosto 1630 testualmente dice che "ormai a
Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case disabitate, e i
morti, dall'inizio del contagio, ammontano a settantaduemila".
Fortunatamente, a dicembre, grazie al freddo, il contagio cominciò a
perdere vigore, e a partire dai primi mesi del 1631 l'epidemia poteva
dirsi in ritirata.
Da un primo ed approssimativo conteggio Milano risultava "ridotta
però a cinquantamila abitanti solamente, mentre, fattosi melio il
conto, centocinquantamila ne ha tolto la contagione di questo
infelice anno, mentre nelle ville, et per le terre del paese continuano
a dimorare la nobiltà tutta et molti altri, che a tempo sono fuggiti dalla
imminenza del pericolo" (Dispaccio 11 dicembre 1630).
Concludendo sui numeri dei morti causati dalla peste, bisogna in
ogni caso dire che fornire una cifra esatta risulta a tutt'oggi assai
difficile, anche perché non sicuro è il numero degli abitanti prima
dello scatenarsi del contagio (gli storici dell'epoca Tadino e
Ripamonti parlano, rispettivamente, di 250.000 e 200.000 abitanti).
Per il numero dei morti, il Tadino lo calcola sui 165.000, mentre il
Ripamonti 140.000.
Accanto a questi calcoli coevi, riportiamo quelli effettuati a metà
ottocento da Francesco Cusani, che farebbero ammontare a
150.000 gli abitanti di Milano prima della peste, e a 86.000 i morti.
Vicende della colonna infame fino ai giorni nostri
La colonna rimase saldamente al suo posto anche quando venne
livellata la Vetra dei cittadini, per portarla alla stessa altezza del
corso di Porta Ticinese (metà del 1700). Ma le cose erano destinate
presto a mutare.
Come racconta il Bertarelli, nel 1770 il poeta Balestrieri inviava a
Vienna (sotto il cui giogo nel frattempo Milano era passata), al
barone di Sperges, la traduzione milanese della Gerusalemme
liberata, ove si faceva un accenno alla colonna infame.
La lettera di ringraziamento dello Sperges, con la quale si
rammaricava della presenza in città di quel simbolo di antichi errori
giudiziari che disonorava il Senato milanese, fu letta a casa del
conte di Firmian, il quale si ripromise di intervenire quanto prima.
Tuttavia il Governo austriaco non aveva fatto i conti col Senato,
contrario assai fermamente a qualsiasi possibilità di rimozione della
colonna, dato che ciò sarebbe finito con l'apparire un'accusa ad una
propria precedente sentenza, seppur emessa in periodi storici ben
differenti, quando la parola illuminismo neppure esisteva.
Il braccio di ferro tra le due autorità, nel quale si inserirono gli scritti
del Verri e del Beccaria, si risolse grazie ad una vecchia legge
cittadina, la quale prevedeva, per i simboli e i monumenti d’infamia, il
divieto di restauro. Così fu sufficiente danneggiare un po’ il
basamento della colonna, per spingere l’Anziano del quartiere a
domandare il suo abbattimento per motivi di sicurezza.
Il Senato, strenuamente, si oppose alla richiesta, ma il Governo,
deciso a chiudere la questione, nella notte tra il 24 e il 25 agosto
1778, bloccati i due accessi alla via, mandò sul posto una squadra di
muratori, che prima dell’alba aveva già atterrato, demolito e
sgomberato il terreno della colonna infame, i cui avanzi furono
frettolosamente gettati nella cantina della demolita casa.
Il racconto di quella demolizione riparatrice di errori passati fu steso
dal farmacista Porati, residente di fronte allo slargo, e pubblicato poi
col titolo: "L’abbattimento della colonna infame raccontato da un
testimone oculare".
La lapide fu invece rimossa nel 1803, ed è visibile tuttora al Castello
Sforzesco, dov’è esposta sotto il portico del cortile della Rocchetta.
Proprio in quell'anno infatti venne edificata una nuova casa, che finì
così per trovarsi proprio dove un tempo sorgeva l'antica bottega,
sull'angolo tra il corso di Porta Ticinese e la Vetra dei cittadini, presto
però ribattezzata, con decisione municipale del 17 dicembre 1868
"via Gian Giacomo Mora" (magra consolazione per il barbiere più
sfortunato di Milano).
Purtroppo quella casa ottocentesca, come del resto migliaia d'altre,
crollò sotto i bombardamenti anglo-americani del 1943. Al suo posto,
nell'immediato dopoguerra, venne costruita una bassa e brutta
costruzione, sede prima di un emporio di mobili e poi di una rivendita
di legna e carbone. L’area è stata recentemente oggetto di
demolizione e successiva costruzione di un nuovo palazzetto ad uso
abitativo. Proprio all’angolo tra il corso e la via Mora il nuovo edificio
si presenta con un piccolo portico angolare, sotto il quale è stata
murata una scultura bronzea che rappresenta con un gioco di vuoti
lo spazio che occupava la colonna. La relativa targa, posta di fronte
alla scultura in una posizione poco visibile al passante frettoloso,
racconta succintamente questa tragica storia milanese:
Scultura di Ruggero Menegon anno 2005
QUI SORGEVA UN TEMPO LA CASA DI GIANGIACOMO MORA
INGIUSTAMENTE TORTURATO E CONDANNATO A MORTE
COME UNTORE DURANTE LA PESTILENZA DEL 1630.
"... E' UN SOLLIEVO PENSARE CHE SE NON SEPPERO QUELLO
CHE FACEVANO,
FU PER NON VOLERLO SAPERE, FU PER QUELL'IGNORANZA
CHE L'UOMO
ASSUME E PERDE A SUO PIACERE, E NON E' UNA SCUSA MA
UNA COLPA".
Alessandro Manzoni, Storia della Colonna infame
Bibliografia
Bertarelli, Tre secoli di storia milanese, 1929
Borromeo F., La peste di Milano, a c. di A. Torno, 1987
Brentari O., Le vie di Milano, 1900
Canosa R., La vita quotidiana a milano in età spagnola, 1996
Farinelli G., Paccagnini E., Processo agli untori, 1988
Fava F., Storia di Milano, 1997
Formentini M., La dominazione spagnuola in lombardia, 1881
Gridario generale della gride, bandi, ordini, editti, provisioni,
prematiche, decreti ed altro (…), 1688
I cinque libri degl'avvertimenti, ordini, gride et editti, fatti et osservati
in Milano ne' tempi sospettosi della peste, ne gli anni MDLXXVI e
LXXVII, 1579
Manzoni A., Storia della colonna infame (testo on line), 1840-42
Pellegrino B., Porta ticinese, 1991
Porati A., L'abbattimento della colonna infame raccontata da un
testimone oculare, 1892
Ripamonti J., De peste quae fuit anno MDCXXX libri quinque, 1641
Settala L., Preservatione della peste, 1630
Verri P., Osservazioni sulla tortura, 1777
Vianello C.A., Il Senato di Milano organo della dominazione straniera,
1935
6.6 Manfredo Settala , l'Archimede milanese
Manfredo Settala , l'Archimede milanese
di Mauro Colombo
La famiglia Settala
I Settala derivavano il loro nome dal borgo di Settala, situato ad est
di Milano, che ebbero in feudo a partire almeno dal IX secolo.
La famiglia faceva risalire le sue origini però al V secolo d.C.,
citando come illustre appartenente al casato S. Senatore,
vescovo milanese del V secolo, del quale in verità non si hanno
notizie.
Tra gli altri membri della stirpe degni di menzione si ricorda
Passaguado, che, dopo la terribile distruzione di Milano ad
opera di Federico Barbarossa, si era prodigato a ricostruire le
mura cittadine nel 1171.
Poi vi fu Enrico, arcivescovo di Milano dal 1213, partito per le
Crociate nel 1220. Consacrò l'Abbazia di Chiaravalle nel
maggio del 1221 e morì il 16 settembre del 1230, dopo aver
partecipato, sempre come protagonista, nel bene e nel male,
alla vita della città.
Altri tasselli importanti della famiglia furono il famoso beato
Manfredo, eremita sul monte San Giorgio nei secoli XI e XII, il
beato Lanfranco, priore dal 1254 al 1264 del convento
agostiniano annesso a San Marco, e Gerolamo, penitenziere
maggiore della cattedrale a partire dal 1618.
Nella chiesa di San Marco si può ammirare il grande monumento
tombale di un altro celebre Lanfranco Settala, il confessore di
Giovanni Visconti morto il 29 gennaio 1355.
Ludovico Settala
Senza dubbio, però, il personaggio più illustre e conosciuto della
famiglia (anche grazie al Manzoni) fu Ludovico, protofisico
all'epoca della terribile pestilenza del 1630. Nato nel 1552, si
era laureato in medicina a Pisa, pur continuando a coltivare
interessi filosofici e letterari.
La sua esperienza medica era iniziata con la peste del 1576,
accanto a Carlo Borromeo, esperienza che gli permise di
ottenere presso le autorità cittadine un grande credito durante i
terribili mesi della successiva, violentissima, epidemia del 1630,
benché ottantenne e malfermo di salute. Venne descritto come
uno spirito illuminato e scientificamente all'avanguardia rispetto
ai colleghi del tempo, e proprio per questo fu accusato dal
popolo di voler terrorizzare la città, per via delle sue teorie circa
i rischi del contagio.
D'altro canto credette sempre e fermamente nell'esistenza della
stregoneria, e di ciò ne diede ampiamente prova nel famoso e
triste caso della domestica Caterina Medici, contro la quale,
assieme ad altri medici, stese una perizia accusandola senza
mezzi termini di stregoneria e malocchio, finalizzati ad uccidere
lentamente il senatore Luigi Melzi. La poverina fu, in forza di
tale documentazione, condannata al rogo e bruciata viva il 4
marzo 1617.
Ludovico morì nel 1633 lasciando ben diciotto figli, tra i quali
Senatore, medico ricordato dal Manzoni, e Manfredo.
Con la numerosa famiglia abitava nel palazzo avito nella contrada
che dalla sua famiglia aveva preso il nome (oggi via Paolo da
Cannobio), ma divenuto lo spazio troppo stretto per così tante
persone, costruì un nuovo palazzo in piazza S. Ulderico (poi via
Pantano 26), che grazie ai suoi eclettici interessi divenne
famoso per la splendida biblioteca e la celebre quadreria,
nucleo primitivo della raccolta che poi verrà ereditata ed
elaborata dal figlio Manfredo.
Manfredo Settala
Manfredo nacque l'otto marzo del 1600. Ancora adolescente, si
recò in visita alla collezione d'arte dei Gonzaga, a Mantova,
rimanendo colpito dal contenuto delle quattro stanze del
palazzo Ducale, ove erano state sistemate le più rare
meraviglie che la natura aveva saputo offrire. Dopo gli studi di
lettere, retorica e filosofia, si laureò in giurisprudenza
nell'università di Pavia all'età di ventun'anni. Trasferitosi a Siena,
iniziò ad interessarsi alla scienza e alla fisica. Deciso a scoprire
l'Oriente, dovette faticare parecchio per convincere il padre
Ludovico a concedergli le risorse economiche necessarie
all'organizzazione della complessa spedizione, stante la
situazione familiare non certo rosea. Riuscì comunque a
coronare il suo sogno, potendo partire prima per la Sicilia, sulle
galere del granduca di Toscana, e dall'isola spostandosi poi a
Costantinopoli, dove rimase circa un anno,ottenendo il
permesso di spostarsi in Turchia e a Cipro, in un periodo
compreso tra il 1622 e il 1628. Sbarcato al termine
dell'avventura a Livorno, rientrò a Milano carico di reperti
naturalistici ed etnografici scovati un po' dappertutto, da lui
definiti "turcheschi".
Il 18 marzo 1628 ricevette il diaconato dal suo amico cardinale
Federico Borromeo, senza che intendesse comunque
indirizzarsi alla carriera ecclesiastica. Lontano da Milano
Manfredo continuava a condurre una vita mondana, sempre più
esposta ai rischi della peste e delle scorribande dei
lanzichenecchi. Il padre Ludovico non mancava pertanto di
rimproverargli, di tanto in tanto, tale condotta immorale, come
risulta dal rapporto epistolare tra i due.
Nel 1630 il cardinale Borromeo gli concesse il canonicato della
basilica di San Nazaro, sul corso di Porta Romana, a due passi
dal palazzo paterno, carica che manterrà per tutta la sua vita e
che gli assicurerà
una rendita economica modesta ma
perpetua, in grado di lasciargli tutto il tempo necessario per
potersi dedicare agli studi scientifici e naturalistici senza l'assillo
di trovarsi altre fonti di reddito.
Manfredo fece rientro a Milano solo a peste cessata. Il terribile
flagello, oltre a decine e decine di migliaia di cittadini, si era
portato via nel 1633 anche il padre Ludovico, dal quale ereditò
la collezione di famiglia.
Il Museo Settala
Dopo la morte del padre, Manfredo iniziò a collezionare in maniera
sistematica oggetti e strumenti scientifici di ogni genere, i quali
trovarono spazio sia nella casa di piazza S. Ulderico, sia nei
locali della canonica di S.Nazaro. In quest'ultima, tranquilla e
isolata, aveva anche allestito un piccolo ma fornitissimo
laboratorio, dove passava le giornate a progettare e realizzare
strumenti meccanismi tra i più disparati. Lavorava al tornio,
fondeva metalli, costruiva specchi ustori e strumenti ottici di
precisione, tanto da essere definito "l'Archimede del nostro
secolo" (Picinelli).
Lo spirito curioso e metodico di Manfredo lo portò a riunire più di
tremila pezzi di varia natura, catalogabili in tre grandi sezioni,
come Manfredo stesso precisava: i Naturalia, cioè oggetti forniti
all'uomo direttamente dalla natura, e suddivisibili a loro volta in
animali, vegetali, minerali; gli Artificialia, cioè le creazioni
dell'uomo, che grazie alla sua perizia modifica i naturalia
secondo le proprie esigenze o estro; i Curiosa, cioè tutto ciò che
può incuriosire o stupire in quanto monstra, cioè extra norma.
Accanto agli oggetti trovati in natura o costruiti nel laboratorio,
Manfredo raccolse migliaia di libri, che assommandosi a quelli
della più antica biblioteca paterna, finirono con l'ammontare a
ben 10.000 volumi a stampa e circa 600 manoscritti.
La moda della Wunderkammer tra Cinquecento e Seicento
Il Museo Settala poteva, secondo alcuni studiosi e per certi versi,
inserirsi in quel filone collezionistico che andava all'epoca di
Manfredo sotto il nome di Wunderkammer, o camera delle
meraviglie, collezioni diffusesi soprattutto nel centro Europa a
partire dal tardo Cinquecento. Sviluppatesi poi enormemente
nel primo Seicento, in un periodo caratterizzato dal gusto
barocco, erano raccolte di meraviglie naturali e artificiali che
ricchi personaggi allestivano e continuamente incrementavano
per appagare se stessi e stupire gli ospiti. Di norma tali
collezioni trovavano posto in stanze o ali di palazzi e residenze,
ma erano alquanto statiche, nel senso che il proprietario
collezionista introduceva sì continuamente nuovi pezzi, ma
questi erano posti in modo da essere semplicemente
contemplati. (Per vedere alcune immagini di Wunderkammern
clicca qui.)
Secondo altre teorie, che forse colgono più nel segno, la Galleria
Settala, grazie all'estro di Manfredo, doveva apparire ben
differente dalle suddette camere delle meraviglie, proprio a
causa dell'interrelazione tra gli oggetti e Manfredo stesso.
Questi infatti non si accontentava di ammirare i pezzi raccolti,
ma li adoperava e li analizzava di continuo, cercando il più
possibile di trarre nuove esperienze scientifiche. Ne sarebbe
prova il fatto che accanto alla sezione propriamente museale,
dove primeggiava il gusto per le stranezze e il collezionismo di
quadri, monete, monili, esisteva il già citato laboratorio
scientifico, dove venivano creati gli artificialia o elaborati e
analizzati i naturalia.
A sostegno di questa seconda tesi, del resto, che cioè la concezione
di Manfredo della sua raccolta fosse più vicina al gabinetto
scientifico che ad una Wunderkammer, esistono i documentati
rapporti scientifici che il Settala intrattenne con alcuni esponenti
del mondo accademico del suo tempo (Giovanni Rucelai,
Cosimo III Medici, Henry Oldenburg della Royal Society).
Tra le sue prestigiose frequentazioni ricordiamo l'amico di gioventù
Fabio Chigi. Quando questi, nel 1655, fu elevato al soglio
pontificio col nome di Alessandro VII, Manfredo si recò a Roma
per rendergli visita. Qui si fermò alcuni mesi, per avere il tempo
di visitare e studiare le catacombe cristiane.
Manfredo intrattenne una fitta corrispondenza epistolare anche con
Francesco Redi, incentrata prevalentemente su problemi di
ricerca medico-naturalistica.
L'attività scientifica di Manfredo
Il secolo di Manfredo si caratterizzava dall'apertura inarrestabile di
nuove vie commerciali e dalla colonizzazione di nuovi mondi.
Iniziavano in quegli anni gli scambi commerciali tra Europa e
America, fonte inesauribile di novità.
A Milano il cardinale Federico Borromeo riceveva e ospitava spesso i
missionari di ritorno dall'America Latina, per informarsi
dell'evangelizzazione di quelle terre. Anche Manfredo ospitava
presso il proprio gabinetto scientifico religiosi e mercanti
provenienti da spedizioni oltreoceaniche, sperando di poter
ottenere nuovi pezzi per il Museo.
Tra gli oggetti così ottenuti vi era un intero corredo rituale usato dai
sacerdoti Tupinamba nelle danze propiziatorie, composto da un
mantello di piume colorate e da cavigliere e bracciali con
sonagli.
Ma non solo le meraviglie d'oltre Oceano stuzzicavano l'interesse di
Manfredo. Infatti, a rappresentare degnamente il fascino
dell'Oriente v'era la mappa cinese disegnata dal missionario
gesuita Aleni, una sorta di planisfero con al centro la Cina
anziché, come da tradizione topografica europea, il vecchio
continente.
Ricco di tutte queste meraviglie, non stupisce che il museo fosse
tappa obbligata per gli stranieri di passaggio a Milano. Tra i più
illustri, Manfredo ebbe il piacere di ricevere Walter von
Tschirnhaus, uno degli inventori della porcellana europea, al
quale Manfredo confidò di essere riuscito a creare anch'egli la
ceramica col metodo dei cinesi.
La catalogazione degli oggetti del Museo
Manfredo aveva fin dal 1664 manifestato l'intenzione di predisporre
un catalogo ove elencare tutte le "meraviglie" custodite nel suo
Museo. Sul finire di quell'anno venne stampato, ad opera di
Paolo Maria Terzaghi, fisico collegiato milanese, il "Musaeum
Septalianum", vero e proprio catalogo suddiviso in 67 capitoli
per elencare minuziosamente tutto il contenuto della galleria
manfrediana. Poiché la lettura di tale opera risultava, per i meno
dotti, ostica a causa dell'utilizzo del latino, due anni dopo veniva
stampata l'edizione italiana dell'opera, meno erudita ma più
divulgativa. Di questa opera in volgare venne poi tirata una
seconda edizione, di poco successiva, aggiornata con le nuove
acquisizioni.
È in questa edizione che fu inserita la celebre incisione, a firma di
Cesare Fiori, riproducente la sistemazione della galleria nel
palazzo Settala di via Pantano: si tratta di una tavola
panoramica ove è possibile scorgere, se non ovviamente tutti i
pezzi, almeno i più significativi e prestigiosi, così come
Manfredo aveva voluto esporli e collocarli negli spazi a sua
disposizione.
Purtroppo questa rappresentazione non corrisponde a certe
descrizioni lasciate da alcuni visitatori: ad esempio risulta che il
Museo fosse alloggiato in quattro stanze, ma l'incisione
propone un unico, grande, lungo locale.
Ma ancora prima di dare alle stampe un catalogo, Manfredo aveva
ideato un curioso sistema per enumerare i suoi tesori. Risulta
infatti che egli avesse affidato a giovani pittori milanesi il
compito di riprodurre con disegni e dipinti tutti gli oggetti del
Museo: un catalogo visivo, che andò a riempire ben sette
volumi, presto purtroppo svaniti nel nulla.
Solo nel 1900 due di questi volumi vennero ritrovati sul mercato
antiquario di Lipsia, mentre un terzo fu ritrovato presso
Michelangelo Guggenheim. Altri due furono identificati presso la
Biblioteca Estense di Modena. Tutti questi cinque volumi
entrarono poi tra le proprietà della Biblioteca Ambrosiana che,
come vedremo più avanti, divenne la depositaria della raccolta
settaliana.
Ognuno dei disegni riproducenti fedelmente gli oggetti museali reca
anche brevi annotazioni, redatte dallo stesso Manfredo, circa
l'oggetto rappresentato. Dai disegni pervenuti fino a noi, e da
tali appunti, sappiamo così di una Sfera Armillare tolemaica,
costruita dallo stesso Manfredo (si tratta di un sofisticato
strumento astronomico, che nulla aveva da invidiare a quelli
costruiti sulle migliori piazze d'Europa).
Tra gli strumenti costruiti dal Settala, alcuni disegni raffigurano un
compasso galileiano, due arcolai snodati, una corona ricavata
da avorio di rinoceronte, e un gioco di società basato sulla
corsa di una lucertola metallica. Poi apprendiamo di numerose
macchine del moto perpetuo, tra le quali quella ove una piccola
sfera rotolava lungo una scanalatura, risaliva grazie ad una
molla e poi riprendeva a scendere, più o meno all'infinito, o
quella che, per confessione dello stesso Manfredo, andò avanti
tre mesi, avendola dimenticata in moto per sbaglio, prima di
partire per un soggiorno trimestrale a Venezia.
Tra le costruzioni ottiche (che egli lavorava, come già accennammo,
nel suo laboratorio a San Nazaro) destava meraviglia tra i
visitatori uno strumento per leggere a distanza (sorta di
cannocchiale), sperimentato nel chiostro di S.Pietro in Gessate:
"Mezza balla di vetro massiccia delle maggiori che si possa fare,
poiché tutte crepano per legere di lontano, poiché havendo fatto
l'esperienza nel convento di S. Pietro Gessato, che il coridor de
tutti duoi cortili sono longhi 220 passi, et legevamo le lettere et il
missale benissimo".
Nella sezione dedicata all'archeologia, dai disegni apprendiamo
dell'attività di archeologo dello stesso Manfredo, che aveva
disseppellito: "Otto vasetti lacrimatori trovati a Sesto Ulteriano
nella mia prependa, appresso alcune urne, nel lavorare".
Per quanto riguarda i reperti naturalistici, sappiamo dell'esistenza,
presso la Galleria, di una "Testa grandissima di Hippostamo
(ippopotamo) con tutti li 12 denti mardiculari venuto dal Congo",
"Duoi bracci con le loro mani, uno tutto lavorato di nastri e
bindelli di Mummia con la sua mano, et le ungi di tutta
bellezza…….l'altro con carne et la mano ristretta a pugno", poi
ancora "Quattro coste di pesce sirena, o Pesce muglier…….e
mano di pesce sirena", una "pelle di tigre" e una "di Leone",
"icuana, che nel capo tiene una pietra molto stimata contro
veleno".
La maggior parte di questi reperti gli era stata donata dai numerosi
amici che Manfredo frequentava, tra i quali il munifico principe
Landi.
I rapporti tra Manfredo e l'Ambrosiana: il testamento
Federico Borromeo, artefice e fondatore dell'Ambrosiana, era molto
amico di Manfredo, tanto da affidargli l'incarico di ricercatore di
libri per la neonata biblioteca. Successivamente, Federico lo
nominò conservatore, carica di prestigio che spinse Manfredo,
nel 1670, a donare alla biblioteca Ambrosiana una parte della
sua collezione libraria, alla quale ne farà seguito un'altra, due
anni dopo.
E all'Ambrosiana Manfredo pensò anche quando, nel 1672, decise
di predispone il proprio testamento. Dopo aver affermato di
essere l'unico proprietario degli oggetti facenti parte del Museo,
avendoli egli stesso raccolti, acquistati o fabbricati, il Settala
istituì un fedecommesso sull'intera raccolta, disponendo cioè
che questa dovesse passare, dopo la sua morte, al fratello
Carlo, il quale avrebbe dovuto poi trasmetterla, senza poterla
disperdere o alienare, ai figli del fratello Senatore: Francesco,
Lodovico, Settimio Passaguado e ai suoi discendenti maschi in
linea di primogenitura.
Estintasi la linea maschile dei Settala, Manfredo dispose che la
Galleria entrasse a far parte del patrimonio dell'Ambrosiana. Al
testamento fu allegato, a scanso di equivoci, il Catalogo a
stampa di cui già parlammo.
Il fedecommesso (istituto successorio all'epoca diffusissimo, persino
nei ceti meno abbienti), permetteva dunque di non disperdere i
patrimoni familiari, dato che ciascun erede era costretto a
mantenere i beni presso di sé per poterli poi trasmettere, integri,
ai successivi eredi designati. Così facendo Manfredo tutelava il
Museo da smembramenti e suddivisioni tra eredi che ne
avrebbero minato il valore scientifico e artistico.
La morte di Manfredo
Manfredo Settala morì il 6 febbraio 1680, e sei giorni dopo ebbe un
sontuosissimo funerale in San Nazaro, di cui per tanti anni era
stato canonico.
La data del suo funerale coincise, incredibilmente, con l'inizio della
dispersione del suo amato Museo. Infatti nella Chiesa venne
allestito un catafalco tipicamente barocco, addobbato con
numerosissimi oggetti prelevati dalla Galleria, oggetti che, ad
esequie terminate, non tornarono più al loro posto.
Anche il collegio dei Gesuiti a Brera volle onorare lo scomparso,
allestendo una sorta di rappresentazione teatrale, durante la
quale vennero portati in processione alcuni tra i più significativi
pezzi del Museo. Ed ancora una volta, molti di questi pezzi
presero poi strade diverse anziché quella del palazzo di via
Pantano.
Apertasi la successione, primo erede del Museo Settala fu dunque,
come da testamento, il fratello Carlo, vescovo di Tortona.
Morto Carlo nel 1682, il Museo passò a Francesco (anch'egli
canonico di San Nazaro), e da questo momento si può ben dire
che la Raccolta si iniziò a trasformarsi senz'altro in una
wunderkammer, avendo ormai assunto il carattere della staticità
che Manfredo aveva invece sempre evitato, grazie al suo
ingegno e al suo interesse per la ricerca di nuovi pezzi.
Charles de Brosses, durante una visita a Milano nel 1739, non perse
l'occasione di recarsi ad ammirare il Museo Settala, ma il suo
commentò non fu d'ammirazione, come prima d'allora gli altri
visitatori erano soliti fare, bensì il seguente: "Quanto alla
Collezione Settala, tanto celebrata in tutti i libri su Milano, essa
ha la sorte di tutte le collezioni, che è quella di deperire a poco a
poco". L'unica cosa che parve colpire davvero il visitatore fu
l'automa meccanico: "Un cassettone dal quale esce
all'improvviso una spaventosa faccia di demonio che si mette a
sghignazzare, a cacciare la lingua e a sputare in faccia ai
presenti".
Successivamente, morto anche Settimio Passaguado, sua figlia
Caterina, sposa del marchese Gaetano del Pozzo, avanzò
pretese in ordine alla proprietà museale, benché il
fedecommesso parlasse esclusivamente di eredi in linea
maschile. Si aprì così uno spiacevole contenzioso con il
canonico Francesco e suo fratello Lanfranco, ultimo dei
sostituti.
Il Senato Milanese, investito della controversia, sentenziò assai
celermente, ingiungendo a Caterina di rilasciare la Galleria in
favore di Francesco Settala, che avrebbe dovuto in ogni caso
custodirla senza asportarvi alcunchè.
Francesco Settala morì nel 1711, senza che vi fossero altri eredi
maschi che potessero impedire all'Ambrosiana di entrare in
possesso del Museo di Manfredo.
La controversia
Tuttavia, morendo, Francesco Settala aveva voluto comunque
istituire erede universale il conte Carlo Settala, rappresentante
di un ramo collaterale della famiglia, specificando che non tutto
quello che apparteneva al Museo poteva veramente dirsi di
Manfredo, dato che molti oggetti erano stati da sempre della
famiglia Settala, anche prima della nascita di Manfredo.
Così, per l'Ambrosiana il testamento di Manfredo iniziò a rivelarsi un
impiccio più che un vantaggio. Il 9 giugno del 1713 fu siglato un
compromesso tra il conte Carlo e l'Ambrosiana, in forza del
quale le parti si impegnavano a ricomporre amichevolmente la
lite entro sei mesi.
Purtroppo le cose non andarono per il verso giusto, visto che due
anni più tardi la causa si trovava pendente presso il Senato
milanese, e per di più bloccata a causa dell'assenza dalla città
del Senatore Olivazzi, innanzi al quale doveva tenersi il
contraddittorio.
Tra vari avvicendamenti dei rappresentanti dell'Ambrosiana e
l'ostinazione del conte Settala, la causa iniziò a trascinasi
stancamente, fino a quando, a peggiorare le cose, si ripresentò
Caterina Settala del Pozzo, già conosciuta in precedenza, che a
sua volta iniziò una controversia contro Francesco Settala.
Nel 1734 il Senatore Olivazzi fu promosso a Gran Cancelliere, e la
causa Settala fu sospesa in attesa che le venisse assegnato un
nuovo relatore. Nel 1744, la Congregazione dei conservatori
dell'Ambrosiana presentò istanza perché venisse redatto un
nuovo inventario, al fine di determinare con precisione (dopo
così tanti anni di liti) quale fosse veramente l'ammontare degli
oggetti ancora presenti nel museo Settala.
Finalmente, il 19 febbraio 1751, il Senato emise sentenza favorevole
all'Ambrosiana, e ingiungeva a Carlo Settala, e a suo fratello
Senatore (che nel frattempo si era intromesso) a rilasciare tutta
la Galleria.
Carlo Settala impugnò la sentenza, chiedendo che l'Ambrosiana
fornisse adeguata garanzia a tutela di tale incommensurabile
patrimonio scientifico. Dopodiché, consegnati alcuni oggetti,
Carlo Settala si rifiutò di rilasciare altro, sostenendo che il
restante materiale non era mai appartenuto a Manfredo, bensì
alla famiglia Settala da generazioni. In ogni caso, dopo alcuni
anni di tira e molla, dai documenti dell'Ambrosiana risulta che a
far data dal 1755 tutto il materiale museale era stato
consegnato, nel rispetto della sentenza del Senato.
Successive vicende della collezione Settala
Giunta finalmente nel patrimonio del nuovo legittimo proprietario, la
collezione non fu comunque al sicuro. Nel 1760, infatti,
l'Ambrosiana acquistò un'importante collezione naturalistica,
che andò così a mischiarsi con la settaliana: da questo
momento risulterà sempre più arduo stabilire quali oggetti
appartennero veramente a Manfredo e quali furono invece
frutto di acquisizioni successive.
Nel 1790 una parte delle Medaglie settaliane fu ceduta in cambio di
altre medaglie in vendita sul mercato collezionistico, e giudicate
più rappresentative ai fini storico-divulgativi. Due anni dopo, in
seguito ad un altro scambio di pezzi numismatici, la sezione
Medaglie e Monete della collezione settaliana andò
definitivamente e irrimediabilmente compromessa.
Con l'arrivo dei napoleonici, numerosi pezzi settaliani furono
trafugati e spediti a Parigi. Molti reperti sfuggirono alle
requisizioni militari solo perché nascosti in vari luoghi, e furono
celati tanto bene alle truppe francesi, che poterono essere
ritrovati e riuniti (ma in parte) solo parecchi anni dopo la fine
dell'occupazione straniera.
Solo nel 1906 il museo Settala fu degnamente ricomposto e
sistemato, ad opera del prefetto dell'Ambrosiana Antonio Maria
Ceriani, e finalmente reso visibile alla cittadinanza. Fu però la
paziente opera di Achille Ratti (il futuro papa Pio XI) che
permise, in quegli stessi anni, di ripulire la collezione da pezzi
non originali, basandosi, per l'analisi del nucleo originale, sul
catalogo a stampa.
Successivamente fu compiuto un nuovo riordino negli anni
1926-1934, ma un durò colpo fu inferto alla collezione durante i
bombardamenti notturni del 15 agosto 1943.
L'ultimo smembramento fu compiuto nel 1970, quando la parte
naturalistica fu ceduta al museo di Storia naturale, e alcuni
pezzi venduti ad altre istituzioni. Il mostro semovente
meccanico, ad esempio, venne ceduto alle Civiche raccolte
d'Arte Applicata del Castello sforzesco.
Nel 1984 fu organizzata, in ultimo, una mostra temporanea che
raccolse la maggior parte dei pezzi settaliani ancora esistenti e
individuati: un doveroso tributo all'Archimede milanese.
Bibliografia
Navoni
M.,
L'Ambrosiana
e
il
museo
Settala,
in
Storia
dell'Ambrosiana, 2000;
Aimi A., De Michele V., Morandotti A., Musaeum Septalianum. Una
collezione scientifica nella Milano del Seicento, 1984
De Michele V., Cagnolaro L., Aimi A., Laurencich L., Il Museo di
Manfredo Settala nella Milano del XVII secolo, Museo Civico di
Storia Naturale di Milano, 1983
Tavernari C., Manfredo Settala, collezionista e scienziato milanese
del '600, 1976
6.7 Il Ritratto di Milano di Carlo Torre
Il Ritratto di Milano di Carlo Torre
appunti di Paolo Colussi
Il frontespizio qui riprodotto si riferisce alla seconda edizione del
volume, stampata da Francesco Agnelli (1665-1739) il 15
settembre 1714. E’ un’edizione postuma che riproduce la prima
edizione del 24 luglio 1674 (imp. 15 novembre 1672), del padre
Federico Agnelli (1626-1702), con numerose correzioni e alcuni
aggiornamenti. Le correzioni erano già state indicate dall’autore
nella lunga Errata Corrige della prima edizione mentre gli
aggiornamenti sono stati probabilmente scritti dello stesso Torre
nei pochi anni che separano la prima stampa dalla sua morte,
avvenuta nel 1679. Sappiamo infatti dall’Argelati che esisteva
all’Ambrosiana un volume del 1674 con alcune annotazioni a
margine dell’autore, riprese probabilmente dall’Agnelli.
L’edizione originale conteneva inoltre 8 incisioni con le vedute di
alcuni importanti edifici milanesi, mentre l’edizione postuma
manca dell’ultima incisione, relativa al Duomo.
Questo libro inaugura una tradizione che avrà largo seguito nei
secoli successivi, quelle delle “passeggiate” attraverso Milano.
L’autore ci parla infatti come una guida che porta a spasso un
gruppo di turisti, manifestando quando è il caso la sue
preoccupazione perché non si affatichino, predisponendo i
percorsi in modo da osservare le ore dei pasti, rallegrando i suoi
ascoltatori con qualche battuta di spirito, interrompendo la
monotonia delle visite con racconti storici o leggendari,
sconfinando talvolta nel genere fantastico o addirittura horror.
La parte più interessante e ancora oggi molto utile per gli studiosi di
storia dell’arte, è quella relativa alla descrizione dei monumenti
(quasi esclusivamente chiese) e delle opere d’arte in essi
contenute. Carlo Torre non è un grande esperto di architettura o
di scultura, ma è certamente un grande amante e conoscitore
della pittura della sua epoca. La descrizione delle pitture
presenti a Milano è minuziosa ed accurata, a partire ovviamente
dal Cinquecento. Poco sa invece dell’arte precedente, e quel
poco gli viene dalla lettura delle opere di Paolo Lomazzo. E’ in
grado invece di seguire e anche di correggere un lavoro
pubblicato nel 1671 dal pittore Agostino Santagostino,
L'immortalità e gloria del pennello, un semplice catalogo della
pittura presente a Milano negli stessi anni. Carlo Torre, di fronte
alla pittura, non è solo una guida sicura e competente, ma si
dimostra un vero amatore, soffermandosi sulle opere di maggior
valore verso le quali non nasconde il suo entusiasmo.
Il titolo stesso del libro parla di questo entusiasmo per la pittura, e
l’immagine che accompagna il frontespizio (vedi sopra) ci toglie
ogni dubbio. Ma anche le incisioni che accompagnano il volume,
se si osservano con attenzione, ci parlano di questa passione
dell’autore per la pittura.
Nella stampe dedicate al Castello e a Piazza San Fedele si vede
infatti in primo piano un pittore intento a riprendere queste
vedute, forse gli artisti stessi che hanno firmato le opere: Filippo
Biffi e Giuseppe Garavaglia.
Nelle incisioni dell’Agnelli, oltre ad ammirare il monumento
protagonista della veduta, prendono posto numerose scenette
di vita quotidiana: ricchi, poveri e borghesi; molte carrozze,
carrette e curiosi calessi a due ruote; ma un gruppetto di
persone davanti a San Celso fa pensare che il Torre abbia
voluto anche lui essere presente sulla scena, mentre appunto
illustra la città ai suoi amici “turisti”. Possiamo immaginare che
questo sia l’unico ritratto rimastoci di Carlo Torre.
Le incisioni che accompagnano il volume sono state scelte e volute
dall’autore e rapprentano la prima serie di vedute di Milano che
sia stata fatta. Sei di queste sono state incise da Federico
Agnelli e disegnate da pittori amici dell’autore: 1. Ospedale
Maggiore di Andrea Biffi, figlio di Carlo e nipote del celebre
scultore Gian Andrea (1580c.-1630c.); 2. Castello di Porta di
Giove di Filippo Biffi, fratello del precedente; 3. Porta Romana di
Giuseppe Garavaglia, figlio di Carlo, celebre intagliatore; 4. S.
Maria presso San Celso del Garavaglia; 5. S. Fedele e Palazzo
Marino ancora del Garavaglia; 6. Collegio Elvetico di Benedetto
Quarantino; 7. Colonne di S. Lorenzo di Giovanni Ghisolfi,
senza firma dell’incisore che appare molto più scadente
dell’Agnelli.
(Vedi la pagina con la serie delle incisioni in questo sito.)
Carlo Torre: un tentativo di biografia
Una biografia di Carlo Torre ancora non esiste. Le poche notizie che
abbiamo sulla sua vita provengono dal suo libro più
conosciuto – Il Ritratto di Milano – e da Filippo Argelati.
Nella Bibliotheca scriptorum mediolanensium dell’Argelati (Milano
1745, vol. III, coll. 1538-1540 e vol. IV, col. 2040) sub voce
Carolus Turre troviamo poche notizie biografiche e l’elenco di 56
opere ricostruito grazie all’abate Picinello (vedi F. Picinelli,
Ateneo dei letterati milanesi, Milano 1670, pp. 130-132) che ha
fornito all’Argelati notizie su testi in gran parte già irreperibili.
In questa scheda segneremo con il numero di pagina le notizie
provenienti da Il Ritratto di Milano, nell’edizione del 1714, e con
“Arg.” quelle desunte dall’Argelati.
Il padre di Carlo Torre si chiamava Francesco Bernardino, era un
celebre orafo, autore di importanti opere presenti all’epoca nelle
chiese milanesi e soprattutto della grande statua di S. Carlo
donata dall’Università degli Orafi al Duomo per la
canonizzazione del santo (4 novembre 1610) e fusa dal Torre su
modello di Gian Andrea Biffi. Francesco Bernardino era anche
un provetto ballerino e aveva partecipato al gran ballo eseguito
nel 1598 per Margherita d’Austria come allievo del celebre
coreografo Cesare Negri. (p. 95)
Se nel 1679, quando muore, aveva 70 anni, dobbiamo presumere
che Carlo Torre sia nato nel 1609. Nel testo (p. 322) si ricordano
come zii Francesco e Gian Battista Lucchi tra le persone
facoltose che hanno consentito l’erezione del cosiddetto
“Oratorio del Bellarmino” accanto al Palazzo di Giustizia nel
1616. Forse la madre si chiamava Lucca o Luca?
E’ da questi zii che eredita dei beni fruttiferi a Caronno che gli
consentono una agiata vecchiaia? (p.292)
Nei “primi anni” studia alle Scuole Canobiane ed ha per maestro di
Morale Ludovico Settala (p. 367). Sappiamo poi che studia
diritto e a 24 anni (1633?, il Picinelli dice a 22 anni) sostiene una
valida tesi teologica (Arg.) ma l’amore per la poesia gli fa
abbandonare una promettente carriera forense.
La prima opera a stampa che conosciamo si chiama Il Naviglio
Grande inaridito da’ Francesi. Canzone, Milano, Filippo Ghisolfi
1636.
Grazie all’Argelati conosciamo i titoli di 56 opere, di cui 13 a stampa.
Cinque di queste sono reperibili nella biblioteca Braidense (oltre
al Ritratto di Milano, presente in più copie), altre, non citate
dall’Argelati, si trovano nella Biblioteca della Accademia dei
Filodrammatici di Milano:
L’arpa ossequiosa per le lodi della signora Leonora Castillionea,
Milano, Ramellati 1638;
La Regina sfortunata. Romanzo, Libri quattro, Milano, Filippo
Ghisolfi 1639; ristampata più volte. Si conosce l'edizione
dedicata "al molto illustre signor Gio. Battista Cicala", Venezia,
Alessandro Zatta 1664;
I Numi guerrieri. Poema eroicomico, Libri XII, Venezia, Giunti 1640
(scritto su commissione del card. Teodoro Trivulzio);
Le zimbellate al zimbello, ovvero L'Italia riconosciuta, Lucca,
Castacagnina 1641;
Il re discacciato dal figlio, in persona di Davide, e d'Assalone.
Tragicommedia in prosa di Carlo Torre. Dedicata all'Ill.mo, &
Eccell.mo Sig.r Principe D. Ercole Teodoro Trivultio, Milano,
Filippo Ghisolfi ad istanza di Gio. Battista Cerri, 1641
(Filodrammatici E. III 3);
Del Re Tiranno. Romanzo. All'ill.mo sig.re d. Giuseppe di Velasco,
Milano, Filippo Ghisolfi, ad istanza di Carlo Seuerino Como
1642;
L’Amor impossibile fatto possibile. Pastorale di Carlo Torre
rappresentata dagli Accademici Arditi. Milano, Lodovico Monza
stampatore alla piazza de’ Mercanti 1648 (Braidense TT.VIII.39);
Il pianto, oda … per la morte del virtuosissimo sig. Antonio Maria
Turati maestro di cappella nel Duomo di Milano, Milano,
Lodovico Monza stampatore alla piazza de’ Mercanti 1650
(Braidense 14.16.D.5/30);
Specchio per l’anime religiose, cioè Vita della Beata Veronica
monaca del venerabile Monasterio di S. Marta di Milano,
descritta da Carlo Torre, Milano Lodovico Monza stampatore
alla piazza de’ Mercanti 1652 (Braidense ZEE.VIII.389);
Il gastigo ingiusto ouuero gli tre fratelli discacciati dagli Ebrei.
Romanzo sacro di Carlo Torre. Dedicato all'illustrissimo sig. d.
Alonso Pamo Altamirano, Milano, Lodouico Monza 1657;
La Ricchezza schernita. Drama scenico morale per musica di Carlo
Torre. Dedicata all'ill.mo ... d. Francesco Marino Caracciolo,
Milano, Filippo Ghisolfi 1658 (Filobrammatici E. III 1);
L' Arianna. Drama scenico per musica di Clerarto Ro' [Carlo Torre].
Recitata al Teatro Regio Ducale. All' illustrissimo signor il signor
co. Filippo Archinto, Pavia, Gio. Andrea Magri 1660
(Filodrammatici E.III 2);
Sciagure avventurose overo le nozze di Semiramide, Bologna 1662;
La Pellegrina ingrandita, overo La Regina Ester, Drama scenico di
Carlo Torre, Dedicata alla [...] dell'Imperatrice D. Margherita
Teresa d'Austria, Lodovico Monza stampatore alla piazza de’
Mercanti 1666 (Braidense Racc. Dramm 6026/3);
Il pastor fortunato. Drama scenico boschereccio di Carlo Torre. All'
illustrissimo ... Paolo Monti, Milano, Gio. Battista Ferrario stamp.
vicino la chiesa di S. Maria Elisabetta in Verziere 1666;
La gioventù ravveduta. Scenica azione per musica del canonico
Carlo Torre, Milano, Gioseppe Marelli, impr. 1670, ded. 1671.
(Braidense XX.III.47/4).
Tra le opere a stampa sono ancora ricordate: La Maddalena, drama
scenico; La Cleopatra, drama per musica recitata al Teatro
Regio Ducale, e Il Trionfo della penitenza.
Delle altre opere citate dall’Argelati conosciamo solo i titoli ed è
molto probabile che siano rimaste manoscritte. Tra queste è
utile ricordare Il maggior santo overo li maggiori gesti di S.
Ambrogio, seguiti in Milano a’ suoi tempi. Nel Ritratto di Milano
sono ricordate molte di queste gesta del santo patrono, e le
leggende tradizionali milanesi sono tutte diligentemente
raccontate.
La maggior parte dei titoli citati fanno però pensare a testi scritti per
azioni sceniche, commedie o melodrammi. Ne cito alcuni: Il
medico alla riversa, Il Cieco geloso, La Serva amoreggiata, Il
Villano imbrogliato, Il mangiare colla testa nel sacco, Il Vestire
alla moda, Li Pitocchi scaltriti, La Zingara ingannatrice, La
Maestra disubbidita, Li Ciclopi saettati, L’Oca acquistata, Giona
affogato, Adamo ed Eva gelosi, Balaamo confuso per l’Asina
parlante, L’Ignoranza castigata, Il Pastor pentito.
Anche l'opera poetica del nostro sembra sia rimasta manoscritta. Il
Picinelli cita alcune raccolte di versi, senza indicazione di
stampatore o di data: La Vindemmia, prose e rime, divisa in otto
giornate; L'Accademia divisa in ariette e madrigali; Le sinfonie
d'Euterpe, rime divise in Sonetti, Madrigali et Ode alla Pindarica;
I capricci poetici.
L’attività letteraria del Torre, per quanto intensa, non doveva
consentirgli certamente una vita agiata. La soluzione è uno
stipendio regolare ovvero una “Prebenda canonicale” presso
qualche chiesa milanese. I suoi voti non sono delusi, nel 1655 è
nominato canonico nella basilica di S. Nazaro a Porta Romana
(Arg.) e questo gli consente di perseguire i suoi interessi
culturali per tutti gli anni a venire. Nel Ritratto (p. 349) è
accennato un episodio misterioso della sua vita: nel marzo 1655
partecipa alla campagna militare del marchese di Caracena a
Reggio Emilia. Aveva tentato la carriera delle armi prima di
ottenere la tranquilla sinecura milanese? Comunque, un’attenta
lettura del Ritratto ci fa capire che la ricerca di un posto da
canonico dev’essere stata accurata e meticolosa: nel libro sono
annotati scrupolosamente tutti i posti da canonico disponibili
nella chiese di Milano, con qualche commento sulla qualità
dello … stipendio.
Dal 1655 al 27 luglio 1679, data della sua morte, Carlo Torre si
adopera a mantenere viva la sua attività di letterato, che raggiunge il
suo apice nel 1666, quando gli viene commissionata dalle monache
di S. Marta un’opera scenica da rappresentare davanti a Margherita
Teresa, figlia di Filippo IV e prima moglie dell’imperatore Leopoldo, di
passaggio a Milano (p. 123). L’opera è La pellegrina ingrandita (vedi
sopra). Questo è anche l’unico suo lavoro citato nel Ritratto.
6.8 Bartolomeo Arese e il Senato di Milano
Bartolomeo Arese e il Senato di Milano
di Mauro Colombo
Il Senato di Milano fu uno dei più potenti tribunali di massima istanza
a livello europeo, così temuto e prestigioso da tenere testa alle
varie dominazione che governarono Milano nel corso di tre
secoli, dal XVI al XVIII.
I suoi membri furono sempre personaggi di spicco, provenienti dalle
più illustri famiglie milanesi e lombarde.
Bartolomeo Arese
Bartolomeo nacque a Milano nel 1610 da una famiglia senatoria
cittadina, imparentata con altre casate patrizie lombarde.
Suo padre Giulio, giureconsulto collegiato, aveva compiuto un
esemplare percorso nell'alta burocrazia del ducato, ed era figlio
di Marco Antonio Arese e Ippolita Claro, figlia questa di Giulio
Claro (1525-1575), celebre giurista alessandrino, conosciuto
per l'opera "Liber quintus sententiarum", vero vademecum del
diritto criminale dal Cinquecento in avanti..
Dopo aver frequentato il collegio dei gesuiti di Brera, anche
Bartolomeo si iscrisse giovanissimo alla facoltà giuridica
dell'università di Pavia, dove si addottorò. Successivamente fu
ammesso a far parte del collegio dei giureconsulti di Milano, ed
in un primo tempo esercitò con successo l'avvocatura.
Nel frattempo il padre Giulio era diventato membro del Senato, poi
residente del magistrato dei redditi ordinari e consigliere
segreto. Completò il cursus honorum ottenendo la carica di
Presidente del Senato nel 1619.
Nel 1626 il padre aveva acquistato Castellambro, onde acquisirne il
titolo comitale. Il privilegio sovrano di concessione arrivò
tuttavia poco dopo la sua morte, sicché fu proprio Bartolomeo a
potersi fregiare per primo del titolo di conte. Questi ottenne nel
campo giuridico numerose soddisfazioni, prima delle quali
l'assegnazione del seggio paterno tra i sessanta decurioni
perpetui della città.
Nel 1636 Bartolomeo ricoprì l'incarico biennale di Capitano di
giustizia, e si dice addirittura che, al fine di vegliare sull'ordine
pubblico, passasse la notte aggirandosi per le vie della città
accompagnato da una scorta di armati per sedare risse e
disordini.
Nel 1641 ottenne finalmente un posto in Senato, del quale divenne
Presidente nel 1660. Dall'alto di tale incarico si sforzò di
reprimere le illegalità, le vendette, i duelli.
Sul
piano letterario si distinse per la compilazione di numerose
raccolte manoscritte di giurisprudenza senatoria e di collezioni
di pronunce del magistrato dei redditi ordinari.
Il palazzo Arese-Borromeo-Litta di corso Magenta
Sua dimora cittadina era il palazzo fatto realizzare nel 1648 in corso
di porta Vercellina (oggi corso Magenta) su progetto di
Francesco Maria Richini (poi, per ragioni successorie,
conosciuto come Palazzo Arese-Borromeo-Litta). Il palazzo,
che in origine si protendeva con rustici e giardini fin quasi al
Castello (privilegio urbanistico che mantenne fino alla
costruzione dei palazzi di Foro Bonaparte), fu celebre all'epoca
per i fastosi ricevimenti che il conte Are se amava dare.
Il più mondano fu quello organizzato in occasione della sosta
milanese di Maria Anna d'Austria (1649), che andava sposa di
Filippo IV di Spagna. Per l'avvenimento Bartolomeo fece
costruire una galleria verso il giardino, con le pareti ricoperte di
broccato d'oro e quadri,
e "di quando in quando si
incontravano fontane d'onde zampillavano acque odorose. Da
un momento all'altro, come per incanto comparvero le tavole
apprestate per una sontuosa cena. Agli ospiti il padrone di casa
presentò splendidi regali: al re d'Ungheria un quadro d'autore
insigne, alla regina un cestello d'oro, alle dame oggetti preziosi
d'ogni qualità".
La sontuosa dimora verrà poi completata e arricchita dai
discendenti di casa Arese, che le seppero dare lustro facendo
erigere il famosissimo scalone scenografico opera del Merli e la
facciata di Bartolomeo Bolli.
Per la villeggiatura Bartolomeo fece realizzare nella Pieve di Seveso
una magnifica villa con uno splendido giardino, Palazzo Arese
a Cesano Maderno.
Meno fortuna ebbe invece sul piano familiare: dei tre figli avuti dalla
consorte Lucrezia Omodei, l'unico maschio morì in giovane età,
all'inizio della carriera giudica; le due femmine andarono spose
l'una al conte Renato Borromeo, l'altra al conte Fabio Visconti.
L'Arese morì nel 1674, e le sue spoglie furono deposte nella chiesa
di S. Vittore al Corpo, dove aveva fatto realizzare qualche
anno prima una cappella di famiglia (la sesta cappella nella
navata destra), su progetto dell'architetto Girolamo Quadrio,
con sculture di Giuseppe Vismara.
Il lascito testamentario in favore del Senato milanese
Il 24 settembre 1671 il conte Bartolomeo, prevedendo ormai di
morire senza lasciare eredi maschi, dispose con testamento
rogato dal notaio Annoni che al Senato milanese, di cui era
stato membro e presidente, e dal quale aveva ricevuto enormi
soddisfazioni professionali e prestigioso riconoscimento,
andasse la maggior parte dei libri giuridici che la sua vasta
cultura e le cospicue finanze gli avevano permesso di
raccogliere.
Secondo le sue ultime volontà, al momento della morte il segretario
del Senato (o il prefetto della biblioteca senatoria) avrebbe
dovuto stilare un preciso elenco dei libri di carattere giuridico
lasciati dal conte, di modo che tutti i testi che fossero risultati
mancanti alla biblioteca del Senato passassero a questo,
mentre i "doppioni" (dei quali il tribunale dunque non
abbisognava) sarebbero andati ad un nipote, il giureconsulto
Agostino Arese.
Bartolomeo dispose anche per i libri non giuridici facenti parte della
sua collezione, lasciandoli ad altri soggetti a seconda
dell'argomento.
I libri che concretamente entrarono a far parte della biblioteca
senatoria vennero marchiati in modo indelebile con l'ex libris
del suo munifico proprietario: "Ex dono Co. B. Aresii Praesidis".
Il legato di Bartolomeo Arese seguiva, a distanza di un decennio,
quello di un altro illustre presidente del Senato, il marchese
Luigi Cusani. Questi, infatti, nel 1659 aveva donato alla
medesima biblioteca tutti i propri libri attinenti il diritto.
A seguito di questi due consistenti lasciti, che testimoniano peraltro
l'attaccamento e il rispetto che i membri del Senato avevano
per l'organo giudiziario di appartenenza, la biblioteca doveva
essersi notevolmente sviluppata, tanto da necessitare la
stesura di un nuovo catalogo, redatto presumibilmente intorno
alla fine del 1688 e stampato col titolo "Nomenclator librorum
qui sunt in Bibliotheca Senatus excellentissimi Mediolani ex
legato illustrissimorum olim regentium et praesidum d.
marchionis Aloysii Cusani et d. comitis Bartholomaei Aresii".
Da tale catalogo, all'interno del quale i libri sono elencati
sommariamente con il nome dell'autore e del titolo (o solo
quest'ultimo per le opere miscellanee), si apprende che i testi di
proprietà del Tribunale assommavano a 1670 ed erano di vario
formato, con prevalenza tuttavia di quelli di formato cosiddetto
in folio.
Soppresso da Giuseppe II il Senato, come vedremo più avanti, tutti i
testi presenti nella sua biblioteca furono trasferiti prima alla
Corte d'Appello austriaca, successivamente passarono in
proprietà del Tribunale d'Appello di Milano (con sede in palazzo
Clerici), il quale volle a sua volta stampare nel 1858 un
aggiornato "Catalogo della Biblioteca Antica dell'I.R. Tribunale
d'Appello in Milano", dal quale si evince che i testi erano di
poco aumentati rispetto a quelli posseduti dal Senato dopo i
lasciti Cusani ed Arese.
Con l'istituzione, nel 1924, dell'Università degli Studi di Milano,
l'intera biblioteca, rivestendo un enorme valore storico-giuridico,
fu a questa trasferita, anche se purtroppo attualmente, dopo
l'incendio occorso alla Corte d'Appello e il bombardamento
aereo del 24 ottobre 1942, i testi un tempo di così illustri organi
giudiziari si sono ridotti a 1168.
Il Senato di Milano
Il Senato milanese fu creato per volere di Luigi XII d'Orleans, con
l'editto di Vigevano dell'11 novembre 1499. Suo desiderio era
infatti quello, sconfitto Ludovico il Moro e avanzando pretese
sul ducato milanese in qualità di discendente di Valentina
Visconti, di riorganizzare il sistema giudiziario secondo le
nuove esigenze governative.
Il nuovo e potentissimo organo, chiamato latinamente Senatus e che
andava a sostituire sia il consilium secretum sia il consilium
iustitiae di stampo visconteo-sforzesco, ottenne una vasta serie
di prerogative, ben maggiori di quelle detenute dai due consigli
soppressi.
Accanto al diritto d'interinazione, cioè il diritto di confermare e far
eseguire gli atti del sovrano, il Senatus fu depositario fin
dall'inizio dell'amministrazione della giustizia, intesa più che
come gestione diretta delle singole cause (cosa che faceva
solo in parte) soprattutto come controllore delle magistrature
inferiori presenti nel ducato.
All'atto della creazione ne dovevano far parte diciassette membri
(detti Senatores), scelti tra i personaggi di spicco della città, e
che già avevano fatto parte dei consigli sforzeschi. Accanto a
questi membri milanesi sedevano alcuni francesi, uomini di
fiducia di Filippo.
Col tempo però il numero dei senatori andò aumentando, e già nel
1535, con il definitivo passaggio di Milano nell'orbita dell'impero,
si erano attestati a ventisette, oltre al presidente. Vi erano
dunque nove cavalieri, cinque prelati e tredici giureconsulti,
questi ultimi tutti lombardi, secondo la volontà dell'ultimo Sforza,
Francesco II.
Come era facile che accadesse, i senatori giuristi, proprio a causa
della loro estrazione culturale, presero il sopravvento sui
membri laici, e si arrogarono il diritto di riservarsi le attribuzioni
prettamente giurisdizionali, e col passare degli anni i membri
non giuristi persero progressivamente d'importanza. Questi
dottori del diritto provenivano tutti dal patriziato milanese,
all'interno del quale lo studio e la pratica giuridica erano intesi
come massima forma di prestigio e potere. Anzi, in pieno
Seicento la maggiore aspirazione di un nobile giureconsulto
collegiato lombardo era proprio quella di entrare tra il numero
dei senatori, con la speranza, magari, di raggiungere la più
prestigiosa carica: la presidenza.
Quando nel 1541 furono promulgate dall'imperatore le Nuove
Costituzioni, compilazione di leggi elaborata da una
commissione di esperti con la finalità di organizzare in una
sorta di testo unico le miriadi di decreti viscontei e sforzeschi
(diventerà la legislazione provinciale fino a tutto il XVIII secolo),
il secondo titolo del primo libro fu dedicato alle prerogative del
Senato, in pratica ricalcando l'editto di Vigevano.
I poteri del Senato
In materia di diritto civile, il Senato era competente in primo grado a
decidere su controversie relative a cause ritenute ardue o di
alto valore economico, in materia di confini tra fondi, in diritto di
famiglia e successorio, nomina di tutori, rapporti obbligatori tra
privati, e in materia di cause feudali: "Cognoscet(que) Senatus
de causisi marchionatuum, comitatuum et quorumqumque
feudorum, sive lis et contentio oriatur inter principem et
vassallos, et seu inter ipsos vassalos". In tal modo la
giurisdizione venne definitivamente tolta ai pares curiae, cioè ai
vassalli dipendenti da uno stesso signore, o al dominus.
Inoltre, era giudice d'appello per le sentenze emesse dalle altre
magistrature superiori del ducato, e corte di ultima istanza per
ogni reclamo avverso giudicati di grado inferiore.
In materia di diritto criminale, il Senato aveva ogni e più ampio
potere discrezionale, con l'unica (certa) esclusione della
concessione della grazia, potere riservato al principe.
Quando il caso non era direttamente sottoposto al Senato, a questo
comunque spettava l'ultima decisione per i giudizi istruiti nello
Stato per i reati comportanti pene corporali, pena di morte e
confisca dei beni.
Tutti i giudici inferiori della città, primo tra tutti il Capitano di giustizia,
dovevano settimanalmente recarsi presso il Senato onde
relazionare le cause trattate . Per queste incombenze era di
norma addetto il senatore di turno, che riceveva e sentenziava
direttamente in casa propria, mentre la decisione collegiale,
presa cioè durante la riunione di tutti i senatori, era riservata
alle cause delicate o estremamente controverse.
Infine, tra i residuali compiti attribuiti al collegio, vi era quello di
amministrare l'università di Pavia (dove "nascevano" i giuristi
lombardi dell'epoca), la censura dei libri stampati nel Ducato, e
la tutela della salute pubblica, sovrintendendo sull'operato del
magistrato di sanità.
Per comprendere l'enorme potere di cui questo supremo tribunale
godeva, si pensi che poteva modificare o disapplicare la legge
nel caso concreto sottopostogli, potere che sfociava dunque
nella capacità di creare nuove norme. Accadde così sempre più
spesso che il Senato (come del resto i grandi tribunali
dell'epoca: la Rota romana, il S.R. Consiglio di Napoli), pur
dovendo in teoria solo applicare la legge, si arrogò in pratica il
potere legislativo, potendosi allontanare discrezionalmente
dalle norme scritte e seguendo i dettami dell'equitas.
Questo modo di operare era tollerato dal potere politico, se non
addirittura autorizzato, dato che, comunque, senza tale potere
discrezionale i giudici avrebbero non poco faticato nel venire a
capo delle lacune e delle incongruenze del diritto vigente,
sempre minato dall'eccessiva frammentazione delle fonti, della
procedura macchinosa e dalla difficoltà di comprensione delle
norme.
Lo spirito di onnipotenza che aleggiava sul Senato lo spinse a
mostrarsi in più di un'occasione insofferente nei confronti del
sovrano, quest'ultimo quasi sottomesso, in certi campi, proprio
a causa del già menzionato diritto d'interinazione senatoriale.
Si pensi che del Senato si arrivò ad affermare che giudicava "ut
principes" e che sentenziava "divino quoddam efflatu"
(Cavanna). Il Senato infatti guardava alla verità del fatto,
piuttosto che alle leggi, e poteva condannare a morte sulla
base di indizi e senza prova certa legale.
Le sentenze del Senato, non motivate, avevano valore di precedenti,
e dovevano rispettarsi nel futuro come fossero vere e proprie
leggi, secondo una interpretazione compiacente ricavata da un
passo del Digesto.
Inoltre, le sentenze dei tribunali inferiori contrarie ai precedenti del
Senato erano bollate come "iniustae" e di conseguenza
riformate. Per questa ragione il Senato milanese vide nascere
raccolte a stampa di sue decisiones (sentenze), come
succedeva per gli altri tribunali centrali presenti nelle varie
realtà politiche italiane.
Ad occuparsi della raccolta e della diffusione delle sentenze in un
mercato librario in forte crescita erano di norma gli stessi alti
giudici innanzi ai quali le cause erano state discusse, oppure
persone comunque vicine agli ambienti giud iziari.
Se con Carlo V il Senato aveva ottenuto, se possibile, ancora più
potere, con Filippo II dovette scontrasi più volte, intenzionato
questo a mettere un freno allo strapotere e agli abusi tanto
ricorrenti del sistema della burocrazia lombarda. Ciononostante,
il sovrano mantenne sempre, per rispetto e per opportunità, le
prerogative dei senatori, cercando di mediare e bilanciare i loro
poteri con quelli spettanti al Governatore.
Vero schiaffo fu l'emanazione dei cosiddetti ordini di Tomar, che
Filippo II promulgò nel 1581, col fine di correggere le
disfunzioni legislative ed evitare i conflitti tra poteri, non senza
espliciti rimproveri all'abuso di potere di cui il Senato
quotidianamente si macchiava.
Ma anche in quella occasione il Senato seppe rispondere per le rime
e tenere testa alla corona.
Il lavoro quotidiano
Le cause sottoposte all'attenzione del Senato erano migliaia, sia
civili che penali. Ciò, come detto, era dovuto al fatto che oltre a
conoscere direttamente le cause nelle materie prestabilite,
spessissimo avocava a sé cause di altri giudici inferiori. Inoltre,
soprattutto in campo civile, era solito spedire ordini, detti
rescritti, a tali giudici, con le istruzioni di merito o processuali
per dirimere le controversie innanzi a loro pendenti.
Le parti processuali chiedevano poi in continuazione il parere
senatoriale sulle cause che le vedevano coinvolte presso i
giudici minori.
Per questo la mole di lavoro che gravava sui singoli membri era
enorme, pur coadiuvati da decine di cancellieri e segretari, che
si occupavano della stesura degli atti e alla conservazione dei
documenti.
I senatori, tra l'altro, nel Seicento si erano ridotti al numero di 15,
compreso il presidente, ma tale numero dovrebbe essere in
realtà ridotto, se si considera che concretamente erano assai
meno i membri davvero operanti. Infatti i due di prima nomina
erano inviati per due anni presso le preture di Pavia e Cremona,
molti erano anziani o addirittura impossibilitati causa salute a
prestare servizio, essendo la carica attribuita a vita, senza
contare che ad ogni epidemia di peste la situazione si faceva
molto precaria.
Il sistema comunque poteva reggere grazie alla trattazione delle
cause operata disgiuntamente, dal singolo senatore
Come detto il consesso interveniva solo per le cause maggiori, sulla
base della istruttoria preparata del senatore di turno o "di
lettura".
Il collegio sedeva in tale occasioni nell'aula predisposta nel piano
nobile del palazzo regio ducale, in giorni ed orari prestabiliti.
Qui, fattisi un'idea della causa, discutevano e votavano,
esprimendo la motivazione a turno ed in latino.
Il declino settecentesco
Il Settecento segnò per la città la fine di un'epoca e l'inizio di una
nuova stagione.
Quando infatti, a partire dal 1706, il Ducato divenne provincia
dell'impero asburgico, il Senato cominciò a rivelarsi
eccessivamente arroccato su posizioni ormai superate,
ostinandosi a sbandierare il potere che gli derivava
direttamente dalle Nuove Costituzioni.
Nel 1740, salita al trono Maria Teresa, venne varata una linea
riformistica della struttura statale, all'interno della quale non
poteva esserci ancora posto per il Senatus Excellentissimus
Mediolani e per i suoi ordines.
L'istituzione milanese (ed il suo modus operandi) era ormai bersaglio
anche degli scritti illuministici, tra i quali si devono ricordare le
opere del Beccaria, dei fratelli Verri, ed in generale gli articoli
prodotti in seno al gruppo "Il caffè".
Fu però Giuseppe II ad intervenire radicalmente: nel 1786 il supremo
tribunale venne abolito con editto dell'undici febbraio. Vennero
anche abrogate le Nuove Costituzioni e riformata la procedura
criminale.
Davanti a tutti quegli sconvolgimenti, il Verri scrisse: "Giuseppe
Secondo conobbe che il sistema era viziato; ma non conobbe
che una contemporanea ed universale distruzione delle leggi e
delle pratiche d'un paese è un rimedio peggior del male. Si
videro i senatori senza alcuna distinzione e mutato titolo,
andare avviliti al nuovo tribunale. Nuova forma, metodi,
vocaboli, ebbero i tribunali di giustizia".
Scriverà poi, parlando di quegli anni ricchi di cambiamenti, il
Cattaneo: "Si abolirono le preture feudali, s'abolì un Senato, sul
quale pesava la memoria di supplizii iniqui e crudeli (…), si
abolì la tortura, che puniva nell'innocente i delitti dell'ignoto,
sparvero le fruste, le tenaglie infocate, le orribili rote,
l'inquisizione".
Morì così un'istituzione milanese, che nel bene e nel male era stata
la protagonista indiscussa per quasi tre secoli.
Di seguito indichiamo i nomi dei Senatori che furono Presidenti del
Senato, segnalando la relativa data di investitura. Si tenga
presente che la carica era concessa a vita.
I PRESIDENTI DEL SENATO DI MILANO
Data di investitura
Senatore
1° marzo 1531
Giacomo Filippo Sacchi
24 ottobre 1550
Marco Barbavara
17 dicembre 1552
Pietro Paolo Arrigoni
1° settembre 1565
Gabriele Casati
18 novembre 1569
Giovanni Battista Rainoldi
11 dicembre 1587
Giacomo Riccardi
21 febbraio 1597
Bartolomeo Brugnoli
18 febbraio 1604
Giacomo Mainoldi
15 novembre 1612
Agostino Domenico Squarciafico
31 gennaio 1619
Giulio Arese
29 giugno 1627
Giovanni Battista Trotti
30 maggio 1641
Ottaviano Picenardi
15 dicembre 1646
m. Luigi Cusani
17 novembre 1660
c. Bartolomeo Arese
24 giugno 1675
c. Carlo Belloni
24 marzo 1683
Luca Pertusati
6 febbraio 1697
Giorgio Clerici
1706
c. Luca Pertusati
9 aprile 1711
m. Giorgio Clerici
10 dicembre 1733
c. Carlo Pertusati
25 gennaio 1734
m. Carlo Castiglioni
29 settembre 1736
c. Carlo Pertusati
25 agosto 1751
m. Giovanni Corrado de Olivera
Sulla sede del Senato vedi: Palazzo Reale dagli Spagnoli ai Savoia
Bibliografia
AA. VV.: Bibliotheca Senatus mediolanensis, 2002;
Bascapè G.C., I palazzi della vecchia Milano, ristampa 1986;
Cattaneo, C.: Notizie naturali e civile su la Lombardia (1844) in Scritti
su Milano e la Lombardia, 1990;
Cavanna, A.: La codificazione penale lombarda, 1975;
Massetto, G.P.: Saggi di storia del diritto penale lombardo, 1994;
Petronio, U.: Il Senato di Milano, 1972;
Signorotto, Giovanni Vittorio: Il ruolo politico di Bartolomeo Arese
nell'Europa secentesca, Convegno di studi "Mecenatismo
culturale e spettacolo al tempo dei conti Bartolomeo Arese e
Vitaliano Borromeo. 1650-1690", Cesano Maderno, 13-14
giugno 1998;
Zeppegno, L.: Le chiese di Milano, 1999.
Tra le molte raccolte di pronunce senatorie:
- Ordines excellentiss. Senatus Mediolani editi circa eiusdem
decreta fienda in civilibus causis et criminalibus, necnon de iis
quae per iudices huius Dominij in memoratis causis servari
debent, 1580;
- Ordines excellentissimi Senatus mediolani ab anno MCDXC usque
ad annum MDCXXXIX collecti et scholiis ornati ab olim j.c. Angelo
Stephano Garono. (…), 1743.
6.9 I Durini
I Durini
di Paolo Colussi
Gli inizi
Le origini della famiglia Durini sono piuttosto oscure. Sono citati
come capostipiti un certo Martino, ricordato nel 1389 o un
Lazzaro del Durino vissuto a Moltrasio intorno al 1400. Si sa per
certo che agli inizi del Cinquecento i Durini fanno parte del
patriziato della città di Como e occupano la carica di decurione oggi diremmo consigliere comunale - di quella città. La fortuna
della famiglia inizia con Gian Giacomo, mercante di seta e oro
di Como, nato nel 1573, che agli inizi del Seicento si trasferisce
a Milano dove esercita l'attività di mercante-banchiere. Lo
troviamo, durante la peste del 1630, tra coloro che
distribuiscono le elemosine alle famiglie degli ammalati nelle
parrocchie di San Giorgio al Pozzo Bianco e di San Pietro
all'Orto. Molto probabilmente si era anche lui stabilito nella zona
dei banchieri che era cresciuta intorno all'attuale corso Vittorio
Emanuele. La sua fortuna sembrò vacillare negli anni seguenti,
quando il governo spagnolo gli negò la restituzione di un grosso
prestito fatto nel 1629 al Viceré di Napoli, ma nonostante ciò
lasciò agli eredi una cospicua fortuna, che permise loro di salire
col tempo ai vertici della società milanese. Morì nel 1639 (o 40)
lasciando sette figli: i maschi Giovan Battista (n. 1612 - m.
1676), Giuseppe (m. 1671), Angelo Maria, Carlo Francesco e le
femmine Caterina, Sestilla e Maddalena.
Anche i tentativi degli eredi di riavere i soldi prestati andarono a
vuoto, e lo stesso avvenne nei secoli successivi. I Durini, infatti,
famiglia senza scandali, non capì mai come una Corte potesse
compiere una tale truffa e continuò ad insistere di generazione
in generazione. L'ultima richiesta al governo spagnolo della
quale sono al corrente venne effettuata negli anni 1870-73
quando era re di Spagna Amedeo I di Savoia. Non escludo però
che ne siano state fatte altre negli anni successivi.
Giovan Battista e i suoi fratelli: il palazzo e la contea di Monza
Morto il padre, i quattro fratelli cominciano a pensare in grande. Si
rendono conto che i soldi non bastano e che è necessario
essere ammessi nel patriziato per poter svolgere un ruolo
adeguato alla loro fortuna. La manovra è condotta su due fronti:
da un lato bisognava acquistare un titolo importante che aprisse
loro le porte della "nobiltà diplomatica", il gruppo di famiglie
diventate nobili per acquisto e non per discendenza. D'altro lato,
bisognava rendere illustre il casato con grandi opere in modo da
aspirare alla qualifica di famiglia nobile "generosa", termine che
designava addirittura il grado massimo nella gerarchia milanese.
Gli obiettivi prioritari sono dunque un palazzo e una contea.
Il palazzo Durini
Giovan Battista abitava in parrocchia di San Bartolomeo a Porta
Nuova (oggi piazza Cavour) quando iniziò con i fratelli ad
acquistare i lotti da accorpare per costruire il nuovo palazzo. Gli
acquisti si susseguirono rapidamente secondo questa
sequenza, documentati dai rogiti del notaio G.B. Aliprandi:
21 luglio 1644 - I fratelli Mandelli vendono la loro casa situata nella
Cantarana di Porta Tosa a Gian Battista e ai suoi fratelli.
15 febbraio 1645 - La vedova Margherita Niguarda e i figli vendono
ai fratelli Durini una casa a fianco di quella già dei Mandelli e
prospiciente sulla Cantarana e sulla contrada della Cervetta (via
Cerva).
16 febbraio 1645 - Giuseppe Monti, figlio della vedova Niguarda,
vende ai Durini una quota della casa.
Mancano gli atti relativi ad altri due acquisti di immobili, e cioè una
seconda casa dei Mandelli ed una di Francesco Melzi.
Conosciamo questi acquisti grazie ad una dichiarazione
successiva dei Durini che chiedono la derubricazione delle
tasse poste su questi edifici ormai demoliti e sostituiti dal nuovo
palazzo.
Il 23 febbraio inoltre i Durini ricevono la quietanza per il pagamento
di 505 lire e 6 soldi fatto alla città per aver occupato una
porzione di suolo pubblico. Ci resta una relazione dell'11
febbraio precedente, scritta dal funzionario Domenico Rinaldo
detto il "Tolomeo", dove egli afferma di aver parlato con il
mastro Angelo, responsabile dei lavori, e di aver concordato con
lui la quantità di suolo che si doveva cedere per rettificare la
strada.
Il progetto del palazzo venne affidato al maggior architetto del
momento - Francesco Maria Richino - ormai in età avanzata e al
culmine della sua fama. Ci restano parecchi disegni relativi a
questo progetto, conservati nella Raccolta Bianconi (tomo I, pp.
34; 36; 38). Questi disegni ci consentono di vedere come il
nuovo edificio fu sovrapposto ai precedenti. Molto
probabilmente venne conservata parte della casa sulla sinistra
guardando la facciata mentre quella sulla destra venne
completamente abbattuta. La casa adiacente al palazzo ed oggi
parte integrante di esso, verrà acquistata in seguito per creare
locali di servizio.
Anche per quanto riguarda la facciata possiamo seguire abbastanza
bene le varie fasi della progettazione. Si partì da un primo
bozzetto più simile a palazzo Annoni che a palazzo Durini, forse
un foglio standard, appartenente al campionario che il Richino
usava mostrare a chi avesse chiesto un palazzo a nove finestre.
Vennero poi elaborati separatamente gli elementi più
significativi della facciata: le chiusure ai lati e il portale.
Impostato su forti elementi orizzontali, il palazzo venne centrato sul
grande portale che include tre finestre e sorregge il balcone, un
elemento di grande prestigio che doveva corrispondere
perfettamente alle esigenze di "magnificenza" richieste dai
committenti. Magnificenza, ma anche rigore però. I committenti
rinunciarono infatti ad una decorazione a festoni prevista alla
base delle finestre dell'ultimo ordine forse perché la ritenevano
troppo frivola.
Per ottenere un giusto equilibrio rispetto al portale, il Richini inventò
poi, ai due lati della facciata, due chiusure realizzate con un
bugnato che si alleggerisce via via che sale verso il cornicione.
Da notare infine come sulla facciata definitiva si rinunciò allo
stemma di famiglia, che venne inserito pudicamente ai quattro
angoli del cortile, all'altezza del cornicione. Il cortile, pur
denotando una piena padronanza dei mezzi architettonici, fu
realizzato in forme molto semplici, con le finestre allineate sopra
un quadriportico a colonne binate. Unico elemento decorativo,
oltre agli stemmi, sono i mascheroni che ornano le mensole del
cornicione.
Anche la facciata sul giardino segue lo stile sobrio del cortile, priva
com'è di ogni importante elemento architettonico. Sulla destra
del cortile è previsto lo scalone d'onore e poco più avanti
l'accesso al cortile di servizio con il deposito delle carrozze e la
scuderia. L'abitazione principale dovette essere collocata in
genere sul corpo che si affaccia sul giardino, servito da una
seconda scala. E' qui che vengono create le sale più fastose
decorate con affreschi che ancora sopravvivono. Al piano
terreno, il salone centrale ha sulla volta un Trionfo d'Amore. Al
piano nobile, su larghe fasce poste sotto il soffitto sono
raccontate la Vita di Enea, le Fatiche di Ercole e la Vita di Achille.
Completano l'arredo Scene bacchiche, Centauri e il più celebre
Pegaso impennato. Questi affreschi, successivi di alcuni
decenni alla costruzione del palazzo, sono stati attribuiti, sia
pure dubitativamente, alla scuola del Nuvolone e del Suster.
La contea di Monza
Il palazzo venne ultimato in soli tre anni e nel 1648 i Durini poterono
già stabilirvisi. Nello stesso anno, il 6 giugno, i quattro fratelli
acquistarono dagli eredi de Leyva, Luigi Antonio e il cugino
Gerolamo, il titolo di conte di Monza per 30.000 ducati d'oro
napoletani, pari a 150.000 lire imperiali. Il titolo venne
confermato con diploma dal re di Spagna Filippo IV il 12 luglio
1652. La contea era possesso di tutti i fratelli maschi e dei loro
discendenti maschi legittimi e conferiva loro tutti i diritti, i dazi e
le entrate, compresa quella del sale che normalmente invece
rimaneva di proprietà dello Stato. Risolte con una serie di
processi alcune contestazioni mosse ai Durini dal questore del
Magistrato Straordinario di Milano, la contea resterà ai Durini
fino a questo secolo, contribuendo notevolmente alle finanze e
al prestigio della famiglia, che del resto ricevette nei secoli
continui elogi per l'ottima amministrazione del proprio feudo,
impreziosito già nei primi anni da Giuseppe con la costruzione
della villa Mirabello ( vedi schede), oggi inglobata nel parco.
Una grande famiglia
Gian Giacomo II
Alla morte di Giovan Battista nell'ottobre 1676 sembra sia rimasto
unico erede il figlio Gian Giacomo II che ricevette per
l'occasione una lettera di condoglianze dal granduca di Toscana
Cosimo III de' Medici. Da questa lettera sappiamo che
esistevano già da tempo strette relazioni tra i Durini e il
Granducato, ma non sappiamo quanto fossero collegate con le
attività finanziarie della famiglia. L'assiduità anche futura di
questi legami ci segnala comunque un problema che
meriterebbe di essere maggiormente indagato attraverso uno
studio della fitta corrispondenza intrattenuta da Gian Giacomo
con i Medici.
La vita di Gian Giacomo II, figlio di Gian Battista e di Bianca d'Adda,
si sviluppa tranquillamente e dignitosamente, rafforzando
l'immagine di signorilità ed equilibrio tipica di questa grande
famiglia. Nato nel 1647, si laurea a Pavia nel 1672 e sposa nel
1683 Margherita Visconti dalla quale avrà ben nove figli, cinque
maschi e quattro femmine: Giovan Battista (1685), Giuseppe
(1687), Carlo Francesco (1693), Angelo Maria (1697), Ercole,
Beatrice, Giustina, Maddalena, Bianca.
Mentre la famiglia cresce, risiedendo nel corpo del palazzo che
guarda il giardino, l'appartamento che si affaccia sulla strada
viene affittato nel 1685 a don Luis de Guzman Ponce de Leon,
che era stato governatore di Milano dal 1662 al 1668. Sono
celebri le feste date dal Guzman durante il suo soggiorno nel
palazzo. Egli ottiene anche dai Durini di farsi costruire un
ballatoio sul lato sinistro della facciata che gli serviva per poter
vedere di scorcio il corso di Porta Orientale e le sfilate dei carri
carnevaleschi che lo percorrevano. Questo ballatoio, riportato
nella veduta di Marcantonio Dal Re, sarà demolito nel corso del
Settecento. Il prestigio di Gian Giacomo raggiunge il suo apice
nel 1703 quando entra a far parte del Consiglio segreto durante
il breve periodo del dominio franco-ispanico su Milano.
I rami si dividono: la linea di Giovan Battista e quella di Giuseppe
Conclusa la dignitosa esperienza di Gian Giacomo II, la famiglia si
divide nei due rami che discendono dal primogenito Giovan
Battista e dal secondogenito Giuseppe. Prima però di seguire
queste due linee, contrassegnate entrambe da illustri esponenti
della storia non solo milanese, ci soffermiamo un momento su
un terzo figlio di Gian Giacomo II, il cardinale Carlo Francesco.
Carlo Francesco è il primo dei Durini ad essere ricordato nel
prestigioso Dizionario Biografico degli Italiani soprattutto per la
sua attività diplomatica svolta al servizio della Santa Sede nella
Francia di Luigi XV. Nato nel 1693 a Milano, visse quasi sempre
fuori dalla sua città fornendo comunque un notevole contributo
al rafforzamento del prestigio della famiglia. Laureato a Pavia
nel 1714, si trasferì a Roma dove divenne sacerdote e svolse
numerosi incarichi politici finché nel 1735 fu nominato
inquisitore a Malta e poi nel 1739 nunzio a Lucerna. Egli dovette
certamente svolgere con notevole abilità questi incarichi tutto
sommato di modesta rilevanza perché nel 1744 venne insignito
da papa Benedetto XIV di uno dei compiti diplomatici più delicati
di quel tempo - la nunziatura di Francia - in un momento in cui
esplodevano a Parigi le nuove idee, peggio che eretiche, di
Montesquieu, Rousseau, Voltaire e Diderot. Lo vediamo infatti
spedire a Roma sistematicamente casse di libri "degni di
censura" con uno zelo, dice il Dizionario Biografico (vol. 42, p.
205), "che venne giudicato dalla Segreteria di Stato eccessivo,
anche per la spesa che tali spedizioni comportavano".
Richiamato in Italia nel 1753, fu nominato vescovo di Pavia,
dove visse gli ultimi anni e dove è sepolto. Pochi mesi prima di
morire, alla morte di Clemente XIII (2 febbraio 1769), fu
considerato tra i possibili successori al papato per le sue
capacità e il suo equilibrio.
La linea principale di Giovan Battista
Questa linea, dopo un periodo di serena dignità che percorre tutto il
XVIII secolo, raggiungerà la fama nell'Ottocento soprattutto con
Antonio Durini, a lungo podestà di Milano nel periodo
napoleonico e della Restaurazione.
Il capostipite Giovan Battista, nato nel 1685 ed educato a Firenze,
sposa Isabella Anna Archinto e conduce nel palazzo
un'esistenza molto signorile in un periodo di disordini e miseria
così ben descritto dalle pitture del Magnasco e del Pitocchetto.
Grandi feste accompagnano i soggiorni nel palazzo di Giovanni
Gastone de' Medici, ultimo granduca di Toscana nel 1711 e di
Carlo di Lorena nel 1739. A proposito di quest'ultima visita
illustre va segnalato un errore ormai ricorrente in molte
pubblicazioni su Milano secondo le quali i Durini in
quest'occasione avrebbero ospitato nel palazzo anche
Francesco di Lorena, fratello di Carlo, e la moglie Maria Teresa,
nell'unico soggiorno
milanese della futura imperatrice. La
notizia proviene da una cattiva lettura del Calvi (Famiglie
notabili milanesi, vol. I) che invece afferma testualmente:
"Il principe Carlo di Lorena, visitando Milano nel maggio 1739 col
fratello Francesco granduca di Toscana e la sposa sua Maria
Teresa, futura imperatrice, venne da lui [Giovan Battista Durini]
accolto nel suo palazzo con tanta magnificenza che il principe
ebbe a dichiarare essere egli egualmente bene colà dove si
trovava che le Reali Altezze, l'Arciduchessa e il Granduca, nella
Reggia."
Pur essendo molto chiara, la frase venne equivocata e ormai, di libro
in libro, l'equivoco sta diventando una verità storica.
Dei figli di Giovan Battista, Gian Giacomo III e Giuseppe Stefano,
resta qualche notizia sul primogenito.
Gian Giacomo III, nato nel 1717, il 29 dicembre 1741 ottiene
finalmente il diritto di essere annoverato tra le famiglie patrizie
milanesi, potendo egli dimostrare l'ascendenza e il carattere di
nobiltà "generosa" dei Durini da almeno un secolo. Sposò
Marianna Ruffino di Diano, torinese, dalla quale ebbe nove figli,
uno dei quali, Antonio, occupò, come si è detto, un posto
notevole nella storia di Milano del primo Ottocento. Gian
Giacomo III, ormai patrizio milanese, continuò la vita fastosa del
padre ospitando nel palazzo di quella che ormai veniva
chiamata "Contrada del Durino" alcuni personaggi illustri come
l'Elettrice di Sassonia e il principe ereditario di Modena. Arricchì
il palazzo con nuovi arredi di gusto settecentesco e ricoprì
alcune cariche pubbliche. Nel 1742 fu capitano della Milizia
Urbana nel 1742 e divenne più tardi nel 1768 Sovrintendente
del neonato corpo dei Vigili del fuoco di Milano ospitando nel
palazzo la nuova macchina idraulica che serviva nel caso di
incendi. Quando si decise di costruire il Teatro alla Scala fu
eletto rappresentante dei palchettisti presso il Governo. Godeva
quindi della piena fiducia dell'aristocrazia milanese.
Dei nove figli di Gian Giacomo III, solo Antonio lasciò tracce durevoli.
Nato a Milano il 6 giugno 1770 sembrò da principio che si
avviasse nella carriera ecclesiastico-diplomatica dei due illustri
cardinali della famiglia, Carlo Francesco e Angelo Maria. Compì
gli studi a Roma, prese gli ordini religiosi e venne nominato
governatore di Città di Castello, una piccola e tranquilla città
dove iniziare a far pratica. I tempi però erano completamente
cambiati e si erano ormai realizzate le più funeste previsioni del
prozio Carlo. Siamo all'inizio del 1797 e le armate di Napoleone
scorrazzano da un anno per l'Italia minacciando ripetutamente
lo Stato della Chiesa. Antonio era giunto da poco ad occupare il
suo ufficio quando le milizie napoleoniche arrivarono in città.
Accade proprio in quei giorni e sotto i suoi occhi quello che sarei
tentato di chiamare ironicamente il "Miracolo dello Sposalizio
della Vergine". I maggiorenti della città, entusiasti per l'ottenuta
Libertà, avrebbero offerto in dono al comandante G. Lechi il
celebre quadro di Raffaello che iniziò un percorso verso nord
che doveva approdare dopo alcuni anni a Brera dove ancora si
trova. In realtà vi sono molte prove che dimostrano come il
quadro sia stato estorto con la minaccia di un saccheggio.
Antonio Durini in ogni caso capì subito che il vento era cambiato.
Tornato a Milano, si proclamò repubblicano, si svestì della
tonaca e cominciò a intraprendere la carriera politica. La
carriera fu piuttosto veloce tanto che nel 1807, a 37 anni, venne
nominato podestà di Milano, la più alta carica cittadina, carica
che tenne ininterrottamente fino al 1814 quando cadde il regime
napoleonico. Nei tragici giorni dell'aprile 1814 quando venne
ucciso il ministro Prina, il Durini visse certamente i momenti più
difficili della sua esistenza. Cercò in ogni maniera di evitare
quell'uccisione, ma alla fine non gli restò che il triste compito di
seppellire di nascosto alla Moiazza l'infelice ministro. Difese poi
risolutamente il cognato Federico Confalonieri dalle accuse di
essere stato l'istigatore del delitto. Dopo alcuni anni di silenzio,
rientrò comunque in politica riscuotendo l'assenso dell'Austria e
dei notabili milanesi che ne avevano sempre elogiato l'equilibrio
e l'efficienza. Alla fine tornò ad essere podestà di Milano, carica
che tenne per ben dieci anni, dal 1827 al 1837. Ritiratosi
definitamente nel 1843 riuscì ancora a vedere i propri figli,
Alessandro e Carlo, combattere coraggiosamente durante le
Cinque Giornate.
Antonio non abitò il palazzo Durini, che toccò invece al figlio Carlo,
nato dal suo matrimonio con Giuseppina Casati, sorella di
Gabrio e di Teresa Casati Confalonieri. Non sappiamo se Carlo
vivesse in palazzo Durini che all'epoca delle Cinque Giornate
era affittato, almeno in parte, ad un Collegio per signorine
diretto da madame Garnier. Sempre in una parte del palazzo
viveva la famiglia del figlio Giacomo, sposato con Paolina Durini,
che sarà, come vedremo, l'ultima Durini a possederlo.
Degli otto figli di Antonio, il più famoso fu Alessandro (1818-1892),
che studiò pittura a Brera dedicandosi da principio ai soggetti
storici allora molto di moda, ma poi specializzandosi
nell'acquerello. I suoi numerosi lavori furono apprezzati
ovunque e molti di essi, rimasti di sua proprietà, vennero
esposti per molti anni nel Museo Durini, istituito dal figlio
Antonio (1853-1934), anche lui noto pittore e amico degli
Scapigliati all'angolo tra via Guastalla e via San Barnaba.
Quando nel 1939 il Museo venne chiuso, i quadri furono ceduti
al Comune di Milano che li conserva da allora nei depositi della
Galleria d'Arte Moderna.
La linea secondaria di Giuseppe: il cardinal Durini
Di Giuseppe, nato il 25 maggio 1687, sappiamo soltanto che sposò
Costanza Barbavara ed ebbe otto figli, uno dei quali, il cardinale
Angelo Maria, è diventato famoso per le sue attività
diplomatiche e per il suo mecenatismo ed è ancora oggi citato
più semplicemente come "il cardinal Durini" dai conoscitori del
Settecento milanese. Una sorella del cardinal Durini, Maria
Margherita, sposò il marchese Giovanni Giorgio Serponti di
Varenna e visse nella Villa Serponti di Varenna (ora hotel Villa
Cipressi).
Angelo Maria Durini è un personaggio molto noto ed è stato oggetto
di studi abbastanza esaurienti come quello di G. B. Marchesi
nell’Archivio Storico Lombardo al quale si rinvia per più ampie
notizie. Nato nel 1725 venne avviato alla carriera ecclesiastica
trovando un valido aiuto nello zio Carlo Francesco, che egli
accompagnò a Parigi durante la sua nunziatura in Francia.
Perfezionò i suoi studi a Parigi dedicandosi anche alla
letteratura verso la quale si sentiva profondamente inclinato.
Come lo zio fu poi inquisitore a Malta nel corso di alcuni anni
che spese soprattutto a scrivere versi latini.
Nel 1766 fu nominato legato pontificio a Varsavia. Qui dovette
mettere da parte la poesia e concentrarsi su una situazione
politica difficilissima, che preludeva alla spartizione della
Polonia tra Prussia e Russia. Allo scoppio della guerra nel 1772
dovette tornare a Roma da dove fu inviato come governatore ad
Avignone, appena restituita alla Santa Sede. Vi rimase fino al
1776 quando decise di ritirarsi a vita privata e tornò a Milano per
restarvi definitivamente. Nello stesso anno venne nominato
cardinale, ma poiché non andò mai a Roma per ricevere
secondo l’uso il cappello cardinalizio, si può dire che fu un
cardinale a metà.
Dal 1776 al 1796, anno della sua morte, trascorse i suoi anni migliori,
circondato dall’affetto e dalla stima dei migliori esponenti della
vita culturale milanese, a cominciare dal Parini e da Pietro Verri.
Il Parini gli dedicò un’ode, chiamata poi La Gratitudine (testo [è
necessario registrarsi]), costellata di elogi non interessati e di
episodi curiosi come la visita al Parini mentre questi stava
facendo il bagno nella vasca di casa sua oppure l’inaspettata
comparsa del cardinale a Brera, che si sedette su un banco ad
ascoltare una lezione del Parini sulla tragedia greca.
Il cardinale in inverno soleva abitare in una casa non identificata di
Milano che si trovava in parrocchia di San Vincenzo in Prato. La
maggior parte dell’anno stava invece in campagna. Da principio
occupò la villa Mirabello a Monza, ma siccome aveva sempre
molti ospiti ben presto si allargò facendo costruire accanto il
Mirabellino. Soggiornò a lungo anche nella sua villa di Merate
avendo la commenda dell’abbazia di San Dionigi di quella
località. Nel 1787 riuscì a coronare il suo sogno acquistando dai
Giovio la villa di Balbiano sul lago di Como e anche questa
dimora, che fu poi la sua preferita, venne ampliata con la
costruzione del Balbianello (poi villa Arconati) posto sulla
penisoletta che guarda l’Isola Comacina. (
Vedi schede) I
due golfi della penisola vennero subito ribattezzati “seno di
Diana” e “seno di Venere”. In questi anni si dedicò interamente
alla letteratura scrivendo, tra l’altro, un elogio dei “cocchi
volanti” del Mongolfier subito dopo la celebre impresa. Poco
prima di morire donò a Brera la sua ricchissima biblioteca che
venne raccolta in una sala a lui dedicata. Sulla sua morte
circolarono alcune leggende. Siamo nella primavera del 1796,
quando ormai sembra inevitabile la conquista di Milano da parte
di Napoleone, avanzante in Piemonte. Il 28 aprile, giorno
dell’armistizio di Cherasco che spianava la via ai Francesi, il
cardinale - dice la leggenda - si preparò a fuggire da Balbiano
verso la Svizzera. Purtroppo però volle imbottire
esageratamente gli abiti d’oro e il peso di tanto oro gli procurò
subito un’ernia che lo uccise. Il tesoro del Durini, che sarebbe
stato subito sepolto nella villa, venne per decenni cercato dai
nuovi proprietari e dagli abitanti del luogo. Il cardinale venne
sepolto nella chiesa di Sant’Abbondio a Como, anch’essa una
sua commenda, ma quando un secolo dopo si volle esumare il
corpo non si trovò che una parrucca.
Per concludere questa lunga saga dei Durini, diremo ancora che dal
fratello del cardinale, che si chiamava Carlo Angelo, discende
ancora un Durini famoso, il nipote Giuseppe (1800-1850),
membro del Governo provvisorio durante le Cinque Giornate e
sostenitore, contro il Cattaneo, dell’annessione della Lombardia
al Piemonte. Una nipote di Giuseppe sarà infine Paolina che
sposa Giacomo Durini e vende il palazzo.
Le vicende degli ultimi anni
Il palazzo Durini viene comperato nel 1921 o 1922 dal senatore
Borletti con il patto di lasciare nel palazzo Paolina vita natural
durante e viene restaurato sommariamente dal Portaluppi. Alla
morte di Paolina nel 1925 viene venduto ai Caproni di Taliedo
che occupavano dal 1916 gli appartamenti verso il giardino e
viene restaurato dalla contessa Timina Caproni nata Guasti,
con la collaborazione dell’arch. Bacci, dello scultore Emilio
Monti e del pittore Franco Milani. La balaustra sopra il
cornicione del cortile è opera di questi rifacimenti che hanno
sostituito parte del tetto con un terrazzo.
Nel 1940 viene anche trasportata da palazzo Arnaboldi in corso
Monforte la balaustra che si trova nello scalone in fondo al
cortile.
Durante i bombardamenti del 1943 i Caproni salvarono il palazzo
mobilitando molte persone pronte a spegnere gli incendi e
coprendo il terrazzo con sacchi di sabbia. Una bomba caduta
molto vicino fece cadere i quattro stemmi del cortile e ruppe il
busto di Gian Battista Durini, che forse disapprovava la
cessione della sua creatura.
Dopo la morte di Gianni Caproni (
vedi schede) nel 1957 il
palazzo venne affittato. Nel 1963 ospitava il centro culturale
Durini voluto da Aldo Borletti dotato di un teatro e di una
biblioteca.
Nel 1980 risulta ancora di proprietà degli otto figli di Gianni Caproni,
alcuni dei quali abitano nel palazzo.
Attualmente la parte di servizio è occupata da Armani, gli altri
appartamenti da altri stilisti, studi legali e uffici. E' sede della
Società del Quartetto e della squadra di calcio dell'Inter.
Bibliografia
AA.VV., Angelo Maria Durini cardinale umanista nel secondo
centenario della morte. Atti del Convegno (Lenno, 15 maggio
1996), Milano 1996
AA.VV., Le Arti Nobili a Milano. 1815-1915, Milano, Electa 1994
AA.VV., Voci "Durini (Alessandro, Angelo Maria, Antonio, Carlo
Francesco, Giuseppe)" in Dizionario biografico degli italiani, vol.
42, pp. 193-208
Baroni, Costantino, Documenti per la storia dell'Architettura a Milano
nel Rinascimento e nel Barocco, Roma, Accademia Nazionale
dei Lincei, 1968, pp. 394-7
Bascapè, Giacomo C., I palazzi della vecchia Milano, Milano, Hoepli
1986, pp. 311-22
Bascapè, Giacomo C., Palazzo Durini Caproni di Taliedo, Milano,
Istituto Editoriale Cisalpino, 1980 (Trivulziana ARCH E 1307)
Calvi, Felice, Durini, in Famiglie notabili milanesi, vol. I, Milano,
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Calzini, Raffaele - Portaluppi, Piero, Il palazzo e la famiglia Durini in
due secoli di vita milanese, Milano, Bestetti e Tumminelli, 1923
(Biblioteca d'Arte P 85)
Forte, Francesco, Monza e i Durini. L'eredità dei de Leyva e l'Erario
spagnolo, in "Rivista di Monza", anno II, n. 1, gennaio 1934
(Trivulziana Man. op. 211)
Giustina, Irene, Il Palazzo Durini a Milano. Progetto, documenti,
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Marchesi, G.B., Un mecenate del Settecento, il cardinal A. M. Durini,
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Ronchi, Marino, Gli affreschi di Palazzo Durini, Milano, in "Città di
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F 31)
Spreti, Vittorio, Durini, in Enciclopedia storico-nobiliare italiana,
Milano 1928-36, vol. II, pp. 642-4 (Sormani Q DIZ 6-1)
Tencajoli, Oreste Ferdinando, Il Palazzo Durini in Milano, in "Ars et
labor", ottobre 1907, pp. 956-64 (Sormani O PER 158)
Visconti, Alessandro, Il Palazzo Durini, in "Città di Milano", maggio
1920, p. 182
6.10 I Clerici e il loro principe Anton Giorgio
I Clerici e il loro principe Anton Giorgio
di Matteo Sormani Turconi
Giorgio I (Giorgione), l'iniziatore delle fortune
La famiglia Clerici di Cavenago, pur vantando collegamenti con la
stirpe omonima di Lomazzo, è citata con precisione nei
documenti della Parrocchia di Copreno come oriunda dal vicino
borgo d’Asnago, dove con tutta probabilità nasce Giorgio I,
detto Giorgione. La famiglia appare sin dalle origini
indissolubilmente legata con altre due famiglie aristocratiche
della zona, i Porro d’Asnago e Copreno ed i Carcano di
Bregnano; proprio dall’alleanza con questi due casati nasce la
Clerici Carcano Porro, società bancaria che si occupa del
recupero dei crediti verso quelle famiglie della zona fortemente
indebitate con gli industriali della lana e delle sete.
A creare il patrimonio di famiglia è Giorgio I al quale non mancavano
contatti con gli ambienti giusti della nobiltà togata del tempo.
“Chi governa non è mai innocente”, così il buon Giorgione
reimpiega gli utili dell’attività bancaria nel mercato immobiliare.
Nel 1628 strappa alla concorrenza la tenuta di Copreno, la sua
prima tenuta, messa all’asta dal Venerando Hospitale di Milano
per la risibile somma di circa 50.000 lire, peccato che in una
nota di cinque anni prima fu valutata almeno 70.000,
valutazione già cauta comparata con i prezzi di allora. Qualche
anno dopo stipula un affare ancora più misterioso quando
acquista all’asta la tenuta di Meda, già della dissestata famiglia
Avogadro[1]; in questo non è possibile fare una comparazione
con i prezzi, ma non si può far a meno di notare che l’asta è
diretta dal senatore Patellano. Le mogli di Giorgione e del
Patellano erano cugine, entrambe del casato dei Porro. Una
parte della stessa tenuta è girata, qualche giorno dopo, al
potentissimo Bartolomeo Arese.
Da Don Carlo Visconti Giorgio I acquistò il Palazzo di Milano sito
nell’omonima via Clerici, dove trasferì la dimora abituale della
famiglia.
Giorgio I muore in Copreno nel 1665, ma come precisa il testamento
vuole essere sepolto nella tomba che lui stesso ha fatto
costruire nella chiesa milanese dei Padri Riformati del Giardino;
fatto che scatenerà un’accesa lite tra il parroco di Copreno e
quello di San Protaso ad Monacos, entrambi risolti nell’officiare
indipendentemente l’uno dall’altro la cerimonia funebre
causando l’intervento del Vicario arcivescovile che decise la lite
a favore del parroco coprenese.
I Marchesi di Cavenago
Pietro Antonio, primogenito di Giorgione e Angiola Porro, continua
l’attività del padre, ma contemporaneamente egli riesce ad
ottenere quell’agognato feudo di Cavenago che gli consente di
poggiarvi il titolo di marchese; con quest’atto anche i Clerici
escono dalla borghesia per entrare con suntuosità nel patriziato
milanese. Sposò Vittoria d’Adda, ma non ebbe discendenza.
Degli altri figli di Giorgione degno di nota é Francesco, capitano dei
corazzieri del re Spagna, gran mecenate, al pari del padre e del
fratello Pietro Antonio favorì grandemente l’Ospedale Maggiore
di Milano dove si conservano, nella nuova sede museale, i
ritratti di diversi membri di questo casato. Ricostruì sopra un
antichissimo luogo di culto il santuario di San Mauro abate di
Copreno dove un tempo si conservavano quadri del Guercino.
Sempre in Copreno fece restaurare la cappella di San
Francesco Saverio, suo patrono, dove volle per gli affreschi
importanti pittori barocchi di quel tempo. Malgrado il doppio
matrimonio non ebbe discendenza.
Da Carlo, secondogenito di Giorgione, giureconsulto validissimo,
discesero i due rami della famiglia, quello antico il cui ultimo
rappresentate fu il marchese Anton Giorgio, e quello moderno,
disceso da Giovanni Paolo, nato fuori del matrimonio, ma
legittimato alla presenza del conte palatino Castiglioni per
volontà dello zio Francesco che lo istituì suo erede particolare;
la discendenza di Giovanni Paolo è ancora fiorente.
Il principe Anton Giorgio
Dopo luttuosi fatti famigliari, ovvero la morte del padre[2] e del nonno
ancora giovani, Anton Giorgio, quarto marchese di Cavenago,
alla spensierata età d’anni sette si scopre essere l’unico erede
del grandioso patrimonio di questa famiglia[3] potendo disporre
di una rendita annua di 400.000 lire d’entrata netta[4]. I
documenti d’archivio mettono in luce l’alta e ormai indiscussa
posizione sociale della sua famiglia. Persino il potentissimo
principe Eugenio di Savoia é disposto a “favorirlo in tutto”. Molti
non sanno che il ramo principale dei Clerici vantava pure una
parentela con i Savoia per mezzo della principessa Giovanna di
Masserano, nonna d’Anton Giorgio[5].
La madre di Maria Archinto, figlia del conte Carlo, non era inferiore
per nobiltà; vedova di Carlo Giorgio Clerici contrasse un nuovo
matrimonio con il principe Antonio Trivulzio, il quale non poté
non influire sulla vita del giovane Clerici.
Anton Giorgio ai titoli degli avi aggiunge quello di barone di Sozzago
e grande di Spagna. Colonnello proprietario di un reggimento
che mantenne a proprie spese, rientrò presto nei favori dei
sovrani tedeschi dai quali fu inviato in Roma, quale loro
ambasciatore, durante il conclave che seguì la morte di
Benedetto XIV, dove, con grandi spese tratte dal proprio
patrimonio, fece un ingresso solenne degno di un imperatore.
Consigliere intimo di Stato fu quindi creato cavaliere del Toson d’oro
una delle più alte onorificenze di quei tempi. Inoltre non
essendo ancora la famiglia iscritta nelle liste del patriziato di
Milano vi ottenne l’ammissione nel 1739. Solo la famiglia
Castelbarco Visconti, forse la più nobile di quel tempo, rifiuterà
tal privilegio.
Molte risorse finanziarie le dedicò al Palazzo di Milano che fu
riarredato con mobili preziosissimi provenienti da Vienna.
Argenti e arazzi non lesinavano la loro presenza. Si poteva
godere della pittura del Tintoretto, di Guido Reni, Van Dyck, del
Pordenone, del Veronese e d’altri celebri artisti. Furono
decorate le porte, gli stipiti, le finestre, non mancava il legno
intagliato e dorato (forse dal Fantoni). Nel 1740 toccò al
maestro Giovan Battista Tiepolo, chiamato ad affrescare la
volta della galleria principale; pare di vedervi anche la mano
d’altri artisti di questa scuola, come il Bartoloni, ma nulla toglie
alla grandezza di quest’opera con il Carro del Sole circondato
dai Pianeti quasi a simboleggiare l’ascesa gloriosa della
famiglia ormai giunta ai tempi dell’esaltazione.
Anton Giorgio però non poté pagare i lavori, fu quindi costretto a
chiedere al Senato di sciogliere alcuni fedecommessi,
ovviamente gli fu concesso. Alla morte di questo principe
settecentesco rimaneva ben poco del patrimonio finanziario
della famiglia, la reggia milanese passò in proprietà di
Francesco Clerici che per evitare le enormi spese di gestione,
l’affittò all’arciduca Ferdinando d’Austria che vi tenne
immemorabili feste. Infine nel 1813 i Clerici cedettero il Palazzo
al Ministero del Tesoro del Regno d’Italia.
Il suo matrimonio[6] con la marchesa Fulvia figlia d’Annibale
Visconti[7] se da un lato lo posizionò negli ambiti saloni ovattati
dove si riuniva la Milano del potere, ma soprattutto la Milano
della cultura, per altro verso non riuscì (...) a dargli quel figlio
maschio che gli avrebbe consentito di continuare il suo ramo.
Delle due figlie Maria premorì al padre nel 1757, mentre la
primogenita, Claudia, fu importantissima nobildonna di palazzo,
ammessa per privilegio sovrano a godere del titolo di grande di
Spagna, fu pure dama della croce stellata, ma soprattutto
l’erede delle, in verità ormai non molte, sostanze del padre,
questo perché la parte più grande del patrimonio era costituita
da fidecommessi. Claudia nel 1752 aveva sposato il conte
Vitaliano Biglia, ma il matrimonio fu sterile e l’ultima del ramo
antico dei Clerici di Cavenago si spense sola nel palazzo di suo
marito nel 1822.
Note d'arte
Le importanti ville di Castelletto di Cuggiono, Copreno, Meda,
Tremezzo, Niguarda, nonché il palazzo di Milano, nel volgere di
qualche decennio, uscirono dal grandioso patrimonio famigliare,
andando così a rimpinguare le casse, ormai vuote, d’alcuni
sfortunati membri del casato; tra questi degno di nota è Giorgio,
morto in Roma, ma tra i primi avversi all’Austria nelle
straordinarie cinque giornate di Milano. Giorgio aveva ereditato
la tenuta di Copreno comprensiva della famosa scuderia Clerici,
ma dovette cederla ai suoi creditori, impossibilitato com’era nel
ripianare i debiti accumulati.
In Copreno presso il sepolcro del ramo moderno della famiglia
Clerici si conserva un bellissimo bassorilievo realizzato dallo
scultore Vela, come testimoniano le note di pagamento
conservate presso l’ASMi. L’opera più che ricordare il cav.
Paolo Clerici allude chiaramente alla fine dell’impero asburgico,
con quel Garibaldi colto nell’atto di chiudere il sarcofago dove
non giace il marchese, ma l’imperatore d’Austria e più a lato
quel Vittorio Emanuele II che sovrasta tutto. Il Vela ha voluto
trasformare i membri di questo nobile casato nei personaggi in
quel momento estremamente attuali, tanto che al centro
dell’opera, pur se con qualche dubbio, pare di vedervi il poeta
consolatore che assomiglia in modo straordinario al Carducci.
Il ramo moderno fu caratterizzato dalla netta scelta verso l’ideale
unitario non a caso la madre del cav. Paolo Clerici era Donna
Gaetana Melzi D’Eril, sorella del primo presidente dell’Italia
napoleonica.
Fonti
·
Archivio Parrocchiale di Sant’Alessandro di Copreno,
Registri Antichi e cartelle del Legato Clerici.
·
Archivio di Stato di Milano, Fondo Clerici di Cavenago,
ramo Antico e ramo moderno, cartelle varie.
·
Archivio Sormani Turconi di Copreno, Fondo Famiglie.
[1] Ramo cadetto dell’omonima famiglia di Lucino, presso Como.
[2] Carlo Francesco (1672-1722), Carlo Giorgio (1696-1717).
[3] Era nato il 5 novembre del 1715.
[4] Tuttavia questa sostanza non fu sufficiente dovette infatti
chiedere di poter disporre anche di parte del patrimonio
soggetto a fedecommesso.
[5] Nel Fondo Clerici, custodito presso l’ASMi si trova un bellissimo
albero genealogico ottocentesco che illustra questa parentela.
[6] Il matrimonio fu celebrato nel 1733. Annibale Visconti era
maresciallo e castellano di Milano
[7] Fulvia era cugina di secondo grado della prima moglie di Pietro
Verri. Il Verri riuscì a farsi vendere dal Clerici la possessione del
Mirabello, sotto il comune di Lentate, dove costruì un bel villino di
caccia sopra il quale s’innalza la torretta del Belvedere. Il villino, poi
ereditato da Giovanni Verri, sorge non a caso lungo la via dedicata al
Manzoni.
6.11 Ascesa e declino dei Serbelloni
Ascesa e declino dei Serbelloni
di Paolo Colussi
Le origini dei Serbelloni sono molto incerte. Non si sa nemmeno se
la famiglia fosse milanese o napoletana anche se è ricordato
un Francesco Serbelloni a Milano nel 1130 come autore di tre
libri sulla Trinità. Il nome originario forse era Sorbelloni perché
nello stemma della famiglia compare l’immagine di un sorbo,
ma anche questo fatto non è comprovato. Il primo esponente
che noi conosciamo - Giovanni Pietro figlio di Gabriele - è a
Milano agli inizi del 1500 e sposa Isabetta Rainoldi di
un’importante famiglia nobile milanese.
Anche la sorella Cecilia, sposando nel 1496 Bernardino Medici, si
imparenta con una famiglia importante di Milano e il suo
matrimonio darà frutti rilevantissimi: uno dei suoi figli, Giovan
Angelo, sarà papa (Pio IV), un altro sarà il celebre Medeghino,
la terza, Margherita, sarà la madre di san Carlo Borromeo.
Anche i figli di Giovanni Pietro Serbelloni comunque, in parte grazie
agli illustri cugini, sapranno farsi onore, soprattutto Gabrio, il
più inquieto e spericolato. Gli altri fratelli maschi sono Giovan
Battista, Filippo, Giovan Antonio e Fabrizio; solo Gabrio però
avrà discendenti maschi.
La frenetica vita di Gabrio Serbelloni
Nato nel 1508 o 1509, Gabrio Serbelloni, siccome non era tagliato
per gli studi, se ne va presto di casa per raggiungere a Lecco il
cugino Gian Giacomo Medici, il Medeghino, che
spadroneggiava sul lago di Como con le sue armate e le sue
barche di pirati. Diventa presto suo luogotenente nella guerra
che Milano conduce contro il Medeghino nel tentativo di
contenerlo. La sua carriera militare al fianco del cugino
continua poi con gli imperiali in Ungheria (1542), in Sassonia
(1546). Conquistata così una solida esperienza, al servizio di
Carlo V partecipa alla conquista di Saluzzo (1547-51) e
combatte per i Medici di Toscana nella guerra contro Siena
(1554-59) occupandosi anche delle loro fortezze. Con
l’elezione al pontificato del cugino Gian Angelo (Pio IV), tutta la
famiglia Medici e Serbelloni si precipita a Roma, compreso il
cuginetto Carlo Borromeo che sarà subito il preferito del papa.
Gabrio, nominato Cavaliere di Malta, diventa Capitano
generale della guardia papale;
il fratello Giovan Battista
Serbelloni è castellano di Castel Sant’Angelo e poi vescovo di
Cassano in Calabria; Giovan Antonio è nominato cardinale e
vescovo di Foligno e poi di Novara; Fabrizio, che già aveva
seguito Gabrio nelle sue imprese in Piemonte, è governatore di
Avignone.
Alla morte del papa nel 1565, Gabrio passa al servizio di Filippo II di
Spagna e su suo incarico ispeziona e modifica le fortificazioni
di Napoli e della Sicilia. Nel 1571 partecipa alla battaglia di
Lepanto dove mostra tutto il suo valore tanto da meritare la
carica di viceré di Tunisi. Una carica scomoda che lo vede
impegnato strenuamente contro i Turchi, che assediano la città
e la prendono, facendo prigioniero il Viceré, che perde in uno
dei tanti scontri il figlio Giovan Paolo. (L'episodio è citato nel
cap. 39 del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes.) La
prigionia di Gabrio a Istanbul non è delle peggiori, grazie
all’intercessione dell’ambasciatore veneziano Antonio Tiepolo
che ottiene il permesso di ospitarlo nella sua casa. Il soggiorno
comunque è breve perché il fratello cardinale Giovan Antonio
riesce a liberarlo in cambio di 36 schiavi turchi. Nel 1575
torna quindi a Milano dove si prende un po’ di “riposo”
dirigendo la città durante la peste del 1576 (la peste di San
Carlo) al posto del governatore scappato fuori Milano. Finita la
peste, torna subito agli amati campi di battaglia. Tra il 1577 e il
1579 partecipa alla guerra di Fiandra con molto onore,
conquistando la città di Maastricht, oggi famosa per altre
ragioni. All’età di settant’anni torna definitivamente a Milano per
morirvi nel gennaio dell’anno successivo.
I due primi palazzi Serbelloni a Porta Orientale
Gabrio Serbelloni non sta dunque quasi mai a Milano, dove vivevano
la moglie e i figli, il fratello più tranquillo Filippo e
saltuariamente gli altri fratelli e nipoti. Nessuno di loro pensa a
costruire un palazzo di prestigio, ma acquistano invece grandi
aree a Porta Orientale dove riadattano case preesistenti. Per
prima viene acquistata quasi tutta l’area situata tra San Babila
e la chiesa e il convento di Santa Maria dei Servi rilevando il
palazzo della famiglia Mozzanica. Il “giardino” viene decorato
da Callisto Piazza con il Monte Parnaso e divinità pagane. Il
portale di questo palazzo con le insegne dei Mozzanica,
rimasto in loco fino agli anni ‘30 dell’Ottocento, verrà venduto
quando al posto del palazzo Serbelloni si costruirà la Galleria
De Cristoforis ed è oggi murato nel cortile di palazzo Trivulzio
in piazza Sant’Alessandro. Viene acquistata anche una
cappella nella chiesa di Santa Maria dei Servi dove vengono
sepolti molti Serbelloni.
Ad una famiglia così vasta ed illustre questo primo palazzo nella
Corsia dei Servi non era sufficiente tanto è vero che nel 1565
ne sistemano un secondo di vaste dimensioni sul corso di
Porta Orientale, tra il complesso ecclesiastico di San Babila e il
palazzo Fontana-Silvestri, che diventerà dal 1679 palazzo
Arese.
I discendenti di Gabrio Serbelloni
Gabrio Serbelloni ha quattro figli maschi: Giovan Battista, Giovan
Francesco, Giovan Paolo e Alessandro.
Giovan Battista, forse per i meriti del padre, viene nominato nel 1581
conte di Castiglione d’Adda, ed è perciò il primo titolato della
famiglia, mentre i fratelli seguono le diverse carriere (militare,
ecclesiastica, forense) destinate ai cadetti. Sempre per i meriti
del padre la famiglia ottiene il privilegio di partecipare
obbligatoriamente a tutte le future ambascerie della città.
Questa prerogativa, lo vedremo in seguito, resterà ai Serbelloni
fino all’epoca napoleonica.
Durante il Seicento la linea che discende da Giovan Battista si
ramifica e si arricchisce di sempre più importanti titoli nobiliari:
marchesi di Romagnano nel 1649, duchi di San Gabrio nel
1684, signori di Gorgonzola (1689) e di Camporicco (1691),
marchesi di Incisa (Scapaccino) nel Monferrato (1693).
Giovanni Maria, figlio di Giovan Battista e marito di Luigia Marino, è
ancora un militare di valore che muore sul campo di battaglia
dopo aver messo al mondo 11 figli. I discendenti sono
anch’essi in divisa, ma per comandare più modestamente la
Milizia Urbana, una servizio municipale adibito al
mantenimento dell’ordine pubblico istituito nel 1635 dal
governatore marchese di Leganes, che forse temeva il ripetersi
di sommosse come quella descritta dal Manzoni nei Promessi
Sposi.
La Milizia Urbana
La Milizia Urbana è l’unico “esercito” milanese durante tutto il
periodo della dominazione spagnola e austriaca. Era un corpo
di volontari autorizzati a portare armi di giorno e di notte,
costituito da sei “Terzi” uno per porta più altri sei per i territori
esterni dei Corpi Santi. Un Terzo era comandato da un Maestro
di campo che aveva sotto di sè sei capitani, altrettanti tenenti e
alfieri, un aiutante e quattro sergenti. Maestri di campo e
capitani erano patrizi. Sopra tutta la milizia c’era un
Soprintendente generale eletto dal governo.
Le bandiere avevano da un lato la croce rossa in campo bianco e
dall’altro l’arma gentilizia del Maestro di campo del Terzo.
Molti Serbelloni ricopriranno la carica, più che altro onorifica, di
Maestri di campo durante un periodo tutto sommato tranquillo
dal punto di vista delle sommosse popolari. Altri continuano ad
essere ecclesiastici o soldati. Arriviamo così a Gabrio
Serbelloni, il padre di Gian Galeazzo, l’ultimo duca Serbelloni
ed il più noto per la costruzione del palazzo di Corso Venezia e
per la sua partecipazione alle vicende di Napoleone a Milano.
Gli ultimi Serbelloni
Anche Gabrio Serbelloni, tra le altre cariche, è nominato Maestro
della Milizia Urbana nella Milano dei primi decenni del
Settecento tormentata dalle guerre per la Successione
spagnola. Nato nel 1693, sposa nel 1741 Maria Vittoria
Ottoboni, romana, che aveva allora solo vent’anni. La
differenza d’età e la forte personalità della moglie rende il
matrimonio molto difficile, dove i contrasti erano acuiti anche da
questioni d’interesse. Maria Vittoria, messo quasi subito in
disparte il marito, ottiene grandi successi nella società
milanese per il suo spirito e la sua cultura. Fu amata da Pietro
Verri, che scrisse il Proemio alla sua traduzione dal francese
del teatro comico di Destouches pubblicata a Milano tra il 1754
e il 1773. Il Parini le dedicò un’Ode di cui rimane un frammento
e il sonetto Mentre fra le pompose. Carlo Goldoni le dedicò la
commedia La sposa persiana. Il Parini fu per otto anni
(1754-1762) al suo servizio come precettore dei figli, fino a
quando uno schiaffo dato da Maria Vittoria alla figlia del
musicista Sammartini non lo convinse a lasciare la famiglia.
Maria Vittoria ebbe cinque figli: Maria Ippolita (morta molto giovane),
Gian Galeazzo, Alessandro, Fabrizio e Marco.
La costruzione del nuovo palazzo
La famiglia abitava sempre nel vecchio palazzo nella Corsia dei
Servi, un edificio di grandi dimensioni, in una zona centrale
della città, ma privo di quei grandi saloni da ricevimento dei
quali erano dotati tutti i nuovi palazzi nobiliari milanesi. Forse
per quest’ultima ragione e sotto la pressione della moglie che
conduceva una vita ricca di incontri mondani, il 26 agosto 1756
il duca Gabrio acquista la casa Trotti (sua madre era una Trotti)
lungo il naviglio di San Damiano con l’idea di costruire un
nuovo palazzo di grandi dimensioni che doveva spingersi fino
al corso di Porta Orientale dove avrebbe avuto una degna
facciata e un magnifico ingresso.
A questo primo acquisto ne seguono infatti numerosi altri ancora dai
Trotti (1758), dai Gilardini (1758), dai Ravasi (1759). L’ultimo
acquisto sarà la casa Bussetti, l’ultima lungo il corso, ed è
datato 3 ottobre 1769.
Nel 1760 iniziano le lunghe trattative con la Municipalità per le
rettifiche stradali sulla strada di San Damiano e sul corso. La
contesa è sull’angolo tra le due vie che deve consentire la
possibilità alle carrozze di svoltare agevolmente. Si arriva alla
fine a concordare sulla smussatura dell’angolo e quindi del
nuovo palazzo. I lavori sul palazzo Trotti e lungo la via San
Damiano iniziano nell’agosto del 1765 e sono condotti
dall’impresa di Giuseppe Fontana, uno dei tanti ticinesi
impegnati da secoli nell’edilizia milanese.
Alla fine del 1768 arriva a Milano Simone Cantoni (
vedi schede),
il futuro architetto del palazzo. Giuseppe Fontana lo conosceva
bene dato che ne aveva sposato la sorella. Il Cantoni, anche lui
di origine ticinese, nato nel 1739, era cresciuto a Genova,
aveva studiato con il Vanvitelli a Roma e poi all’Accademia di
Parma, acquisendo tutti i dettami del nuovo linguaggio
neoclassico. Al suo arrivo a Milano aveva sperato che il
Vanvitelli lo scegliesse come suo sostituto per i lavori del
Palazzo Reale e quindi come architetto di Stato. E’ invece il
Piermarini ad essere prescelto e da qui nasce un’inimicizia che
costerà molto cara al Cantoni, privandolo di ogni possibilità di
avere incarichi pubblici. I Serbelloni invece lo stimano
moltissimo e lo ingaggiano per tutti i loro lavori, non solo a
Milano. Messosi subito all’opera, il Cantoni elabora un primo
progetto del palazzo. Nella casa ex Trotti, che subisce poche
modifiche, è previsto l’appartamento “di comodità”
cui si
contrappone, verso il corso, l’appartamento “di parata”. Tra i
due appartamenti si distende il grande cortile rettangolare con
lo scalone sul lato verso il giardino e le scuderie verso San
Damiano.
Il 26 novembre 1774 Gabrio Serbelloni muore senza testamento. Il
figlio maggiore Gian Galeazzo rileva il palazzo versando
320.000 lire ai fratelli che continueranno ad abitare in Corsia
dei Servi. L’anno successivo fa progettare al Cantoni il cimitero
di Gorgonzola dove i Serbelloni avevano una villa e dove
sorgerà il loro sacrario.
Nel dicembre 1774 arriva finalmente l’autorizzazione per la rettifica
delle strade e si può pensare alla nuova facciata monumentale
sul corso. Si inizia dal casino in miarolo rosso corrispondente
all’attuale n. 18 di corso Venezia. La prima pianta del palazzo
subisce alcune modifiche: sparisce lo scalone sul cortile,
sostituito da una scala di fronte all’atrio. L’elaborazione della
nuova facciata e le trattative economiche tra i fratelli richiedono
comunque qualche anno. I lavori riprendono nel 1779 quando
vengono acquistate le pietre per la facciata: granito di Baveno
(miarolo rosso) per la parte inferiore fino al piano nobile,
colonne, pilastri e lesene; pietra di Viggiù per il poggiolo, la
loggia, l’architrave e il cornicione. Probabilmente in questo
stesso anno vengono ordinati agli scultori Francesco e Donato
Carabelli il fregio dove figurano tre episodi della guerra contro il
Barbarossa: Il Barbarossa ordina la distruzione delle mura di
Milano, Il rientro in patria dei milanesi, la Pace di Costanza.
I lavori esterni ed interni del palazzo proseguono lungo tutti gli anni
‘80 parallelamente ai grandi lavori sul corso di Porta Orientale
che vedono sorgere i Giardini pubblici, i Boschetti e i nuovi
Caselli daziari mentre viene finalmente interrata l’Acqualunga,
la fognatura a cielo aperto che scorreva nel mezzo della strada.
Il 29 luglio 1793 la facciata è quasi ultimata e si chiede
l’autorizzazione ad utilizzare il suolo pubblico per collocare la
macchina che dovrà innalzare sul loggiato le grandi colonne di
granito. A lettere di piombo campeggia ormai la scritta: IO
GALEATIUS GABRI F. SERBELONUS A.D. MDCCLXXXXIII.
All’interno, al piano nobile, il Traballesi affresca sul soffitto "Giunone
che mostra a Eolo le Donzelle tra le quali può sceglierne una in
cambio della tempesta che deve sommergere le navi troiane",
e altri episodi dell'Eneide alle pareti. Altre sale sono decorate
con le pitture di Luigi Sabatelli (Nozze di Psiche) e del Podesti.
Purtroppo questi affreschi sono andati perduti a causa dei
bombardamenti del 1943.
La vita di Gian Galeazzo Serbelloni
Gian Galeazzo, nato nel 1744 ed educato, come abbiamo visto, dal
Parini, sposa nel 1771 Teresa Castelbarco Visconti Simonetta
dalla quale avrà nel 1772 l'unica figlia: Maria Luigia. Dopo la
morte del padre, diventato duca, si occupa attivamente del
nuovo palazzo. Seguendo la tradizione di famiglia è anche lui
Maestro di campo della Milizia Urbana, anzi, nel 1775 ne è
nominato Soprintendente generale. Nello stesso anno viene
coinvolto in un episodio che sollevò molto scalpore a Milano e
in tutta la Lombardia: l’arresto del famoso ladro sacrilego Carlo
Sala.
Carlo Sala, costretto molti anni prima da uno zio a farsi frate per
ragioni di eredità, era fuggito in Svizzera ed aveva
imperversato in Lombardia per alcuni anni svaligiando le
chiese. Si diceva, forse per colorire il personaggio di ulteriore
anticlericalismo, che avesse lavorato per qualche tempo come
scritturale per Voltaire. Scoperto e arrestato nel 1775 fu
condannato a morte e affidato alla scuole di San Giovanni
Decollato. Molti confratelli tentarono di ottenere dal Sala un
segno di pentimento senza risultato. Quando fu la volta di Gian
Galeazzo Serbelloni, che era prefetto di quella scuola, questi
chiese di restare solo con lui e gli offrì, se si pentiva, la grossa
cifra di 100.000 lire per indennizzare le chiese e fornire ai figli i
mezzi di sostentamento. Anche questo tentativo non riuscì e il
Sala, giustiziato senza i Sacramenti, venne sepolto nella zona
dell’attuale piazza Aquileia che da allora fu infestata dal suo
fantasma.
Tornando al ruolo di Gian Galeazzo come comandante della Milizia
Urbana, va ricordato il suo impegno per dotare finalmente
quella milizia di una divisa che desse al corpo una nuova
dignità. Fu lui infatti a proporre quella divisa bianca e verde che
procurò ai poveri volontari il nomignolo, non certo eroico, di
“remolazitt” (ramolacci) perché ricordavano ai milanesi quelle
grosse rape bianche sormontate da un ciuffo di foglie verdi. La
nuova divisa consisteva infatti in una sopravveste verde, con
colletto e paramani bianchi, sottoveste e calzoni bianchi. Aveva
inoltre spallette d’oro, fiocchi nel cappello, portaspada con
pendone verde e oro, sciarpa simile. Gli ufficiali portavano
galloni d’oro.
Gian Galeazzo era ancora Soprintendente generale della milizia
nell’aprile 1796 quando il giovane generale Napoleone
Bonaparte superava le armate piemontesi e marciava verso
Milano e la Lombardia con la sua Armata d’Italia. Dopo
l’armistizio di Cherasco (28 aprile), l’arrivo a Milano dei
Francesi sembra ormai certo. Il 7 maggio viene emesso il
bando di reclutamento della Milizia Urbana in vista
dell’imminente partenza della Corte con il grosso dell’esercito
austriaco. Solo un ridotto numero di soldati sarebbero rimasti a
presidiare il Castello mentre la città sarebbe rimasta del tutto
sguarnita. Il pomeriggio del 9 maggio l’Arciduca Ferdinando
abbandona la città con gli ultimi soldati della sua guardia,
lasciando alla Milizia anche la sorveglianza del Palazzo Reale.
Iniziano giorni di grande trepidazione in attesa dei nemici, per
alcuni, dei liberatori per altri. Il Serbelloni è tra i secondi, il suo
spirito è con i rivoluzionari. Il 12 maggio, quando arrivano
notizie allarmanti di un ritorno in città dell’esercito austriaco, lo
vediamo precipitarsi in Broletto per chiedere di usare la Milizia
per impedire questo ritorno. Gli angosciati decurioni gli
ricordano pacatamente che la Milizia “è diretta all’unico fine di
proteggere e conservare la tranquillità pubblica e il buon ordine
della città né mai ad altre incombenze” e cercano di calmare il
comandante. Per fortuna tutte quelle voci erano nate da un
piccolo episodio senza importanza: cinque croati sbandati
avevano rapinato un salumiere presso Lambrate. Furono
arrestati dalla milizia e si tirò un respiro di sollievo.
Quando il 15 maggio finalmente Napoleone entrò con le truppe da
Porta Romana si pensò di alloggiarlo nella casa del “duca
repubblicano” e così il palazzo Serbelloni, appena terminato,
entrò nella Storia. Il Serbelloni, ormai completamente
conquistato dalle nuove idee, chiese ed ottenne di aderire alla
Società popolare, il gruppo più esagitato di rivoluzionari che si
radunava in via Rugabella, e con due membri di questa Società
venne mandato a Parigi a fine giugno per chiede una
mitigazione della tassa di 20 milioni di franchi richiesta a Milano
da Napoleone. L’ambasciata non ottenne nulla, ma la figura del
duca repubblicano impressionò favorevolmente il Direttorio
tanto che il Serbelloni fu incaricato di scortare fino a Milano la
moglie di Napoleone, Giuseppina, che fu anch’essa ospitata
nel palazzo di Porta Orientale, dove si fermerà fino all’anno
successivo alternando il soggiorno a palazzo con quello nella
villa Crivelli di Mombello.
Gian Galeazzo intanto accumula cariche. E’ presidente della prima
Municipalità all’arrivo di Napoleone e diventa presidente del
Direttorio esecutivo della Repubblica Cisalpina non appena
questa viene costituita nel luglio 1797. Nel novembre del 1797,
partiti da Milano Napoleone e Giuseppina, parte anche il
Serbelloni per andare a Parigi come ambasciatore della nuova
Repubblica. Nella capitale francese egli si ferma per tutto il
periodo in cui Milano è nuovamente “liberata”, questa volta
dagli Austro-Russi. Riprende il suo ruolo politico con il ritorno in
Italia di Napoleone e la creazione della Consulta Legislativa
che doveva redigere la Costituzione della Repubblica Italiana
nei Comizi di Lione (vedi il testo della Costituzione). Qui, a
Lione, egli giocherà tutte le sue carte per arrivare ai vertici dello
Stato, ma invano. Fa spese “da pazzo” in sontuosi banchetti
offerti ai deputati, facendo dire ai maligni “per comprarsi a forza
d’arrosto e di intingoli una delle prime dignità”, per ottenere
cioè la presidenza della Repubblica. Invece viene solo
nominato membro della Consulta di Stato.
Appena rientrato da Lione a Milano, Gian Galeazzo muore e viene
sepolto nella cappella gentilizia di Gorgonzola. Impone per
testamento di erigere un ospedale e una nuova chiesa a
Gorgonzola.
La sua unica figlia Luigia, che aveva sposato nel 1789 il marchese
Lodovico Busca Arconati Visconti resta l’unica erede. Fa
eseguire dal Cantoni la chiesa e il sacrario di Gorgonzola e
porta a termine la decorazione del palazzo. Riesce anche a
farsi pagare dalla Francia due milioni per il soggiorno di
Napoleone e della sua famiglia nel palazzo e nella villa di
Mombello.
Le ultime vicende
Antonio Busca, figlio di Maria Luigia, resta proprietario del palazzo
che, in mancanza di suoi eredi, passa poi ad Antonietta Busca,
nipote di Carlo Ignazio, l’altro figlio di Luigia. Il matrimonio di
Antonietta con Andrea Sola Cabiati trasferisce le proprietà a
quest’ultima famiglia che oggi dà il nome alle ville e ai palazzi
ex Serbelloni.
Gli altri Serbelloni, fratelli di Gian Galeazzo, restano anch’essi senza
eredi maschi, per cui la famiglia nel 1916 si estingue passando
nome e titoli ai Serbelloni Crivelli, estinti anche questi nel 1935.
Attualmente il nome Serbelloni è passato, sempre per via
femminile, ai Cetti Serbelloni, noti nel mondo di Internet per la
E-Gabrius, una Web Publishing Company con una forte
specializzazione nel settore dell'arte contemporanea, fondata
nel 1997 da Alberico Cetti Serbelloni.
Dei due palazzi di famiglia, quello della Corsia dei Servi venne
completamente demolito nel 1832 per costruire al suo posto la
Galleria De Cristoforis. Il palazzo sul corso, ormai diventato
Sola Cabiati o Sola-Busca perse gran parte del giardino nel
1926 quando fu lottizzato dall’architetto Aldo Andreani che vi
costruì la casa Fidia. Subì poi i bombardamenti del 1943 che
rovinarono gravemente gli appartamenti sul corso e l’ala verso
il giardino dove c’era la grande biblioteca e l’archivio di famiglia,
distruggendoli quasi completamente. La scala sull’atrio,
danneggiata, si poteva recuperare ma venne sostituita da una
scala più piccola per guadagnare qualche locale da affittare.
Attualmente il piano nobile sul corso ospita il Circolo della
Stampa che, nei saloni in parte recuperati, organizza iniziative
culturali e convegni. La proprietà è della società LA.GO Spa,
che prende il nome da Antonietta Lalatta e Amelia Gola, due
dei numerosi eredi Sola Cabiati.
Bibliografia
Consulta l'importante sito di Palazzo Serbelloni, con molte notizie sulla
famiglia e sul palazzo.
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Bascapè, Giacomo C., I palazzi della vecchia Milano, Milano, Hoepli 1986, pp.
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Gutierrez, Nino, La Contrada. Episodi di vita milanese, Milano, Cariplo 1975
Longoni, Giacinto, Palazzo Serbelloni - Busca in Porta Orientale, Milano 1820
Manaresi, Cesare, La famiglia Serbelloni, in Studi in onore di C. Castiglioni,
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Martinola, Giuseppe, L'architetto Simone Cantoni (1739-1818), Bellinzona,
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Mira Bonomi, Laura - Zucchetti, Cristina, Palazzo Serbelloni a Milano:
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Roncoroni, Mario, Il Circolo della Stampa di Milano, Milano, A. Pizzi 1961
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Araldica 6)
6.12 I fratelli Lechi e Gaetano Belloni
I fratelli Lechi e Gaetano Belloni
di Paolo Colussi
Nei primi anni dell'Ottocento il borgo di Porta Orientale, ormai
diventato Corso della Riconoscenza, aveva ancora pochi
palazzi di rilievo e numerose piccole abitazioni ad uno o due
piani, soprattutto sul lato che costeggiava i Giardini Pubblici
(vedi ). Questa situazione non si modificherà di molto fino agli
ultimi decenni del XIX secolo quando ci sarà l'ultima rincorsa
per occupare ogni spazio con i lussuosi edifici della nuova
borghesia. Fanno eccezione, nell'epoca napoleonica, i due
episodi dei quali ci occupiamo, creati da personaggi
diversissimi tra loro e con scopi diversi: il palazzo Lechi, poi
Batthyányi situato alla fine del Corso nell'area dei Giardini, oggi
profondamente alterato, e il palazzo Belloni, poi Rocca Saporiti,
sul lato opposto, all'altezza di via Palestro.
La casa sul Corso della Riconoscenza
La storia avventurosa dei fratelli Lechi inizia, si può dire, prima
ancora che nascessero. Stendhal (vedi ) nel suo diario di
viaggio Roma Napoli e Firenze racconta le incredibili avventure
del conte Vitelleschi, nobile bresciano che sembra un incrocio
tra Casanova e il don Giovanni di Mozart. Il conte Vitelleschi
era in realtà il conte Lechi, non Faustino, il padre dei futuri
generali come credeva Stendhal, ma il fratello Galliano, famoso
in tutta la Serenissima Repubblica per le sue stravaganze e
intemperanze, che lo portarono prima in prigione e poi a morire
assassinato in Valtellina.
Faustino era molto più tranquillo e obbediente alle leggi, ... anche di
natura: ebbe infatti dalla moglie Doralice Bielli ben 19 figli, 11
dei quali giunsero all'eta adulta, 7 maschi e 4 femmine. Molti
membri di questa numerosa famiglia si faranno onore nella città
di Brescia per le cariche ricoperte e per i loro studi, ma il nome
di due di loro - Giuseppe e Teodoro - sarà in pochi anni ben
noto in tutta Europa. Anche la sorella Franca o Fanny, poi
contessa Ghirardi, sarà famosa al suo tempo anche se oggi è
ricordata principalmente dagli appassionati stendhaliani.
La vita e le straordinarie avventure di Giuseppe e
Teodoro Lechi
Giuseppe Lechi, figlio primogenito di Faustino, nacque ad Aspes,
vicino a Brescia, il 5 dicembre 1766. Suddito della Serenissima,
intraprende la carriera militare nell’esercito austriaco
raggiungendo il grado di capitano. Dopo l’arrivo di Napoleone
in Italia prepara con altri rivoluzionari bresciani e i fratelli la
rivoluzione bresciana che esplode il 18 marzo 1797. La sorella
Franca è l’anima di questa rivolta e già alcuni giorni prima
aveva cucito con le sue mani il tricolore. Giuseppe entra nel
governo provvisorio di Brescia ed organizza la Legione
bresciana autonominandosi generale. Con la fondazione della
Repubblica Cisalpina a Milano (9 luglio) i bresciani vi
confluiscono subito portandovi tutta la loro irruenza. Napoleone,
per evitare scompigli nella capitale, invia la legione bresciana e
i Lechi (Giuseppe, il comandante, Teodoro ed Angelo) prima in
Emilia e poi, nell’inverno nelle Marche. Questo piccolo esercito
si fa subito onore entrando profondamente nell’Italia centrale
spingendosi fino a Città di Castello. E’ qui che accade il famoso
episodio, ancora oggi oggetto di dubbi e sospetti, della
donazione a Giuseppe Lechi da parte della città del quadro
dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, oggi a Brera. Questo
non è comunque l’unico quadro che arriva a Brescia dopo
questa spedizione militare anche perché assieme a Giuseppe
c’era il giovane fratello Teodoro, grande appassionato d’arte.
Tornato a Brescia, Giuseppe entra a far parte del Consiglio dei
Juniori dal quale esce però subito per protesta assieme agli
altri bresciani. Nella primavera del 1799 è ancora una
campagna militare in Valtellina per domare le rivolte
antifrancesi. Giuseppe ne approfitta per vendicare lo zio
Galliano bombardando alcune case del paese dove lo zio era
stato assassinato. Con l’arrivo degli austro-russi, dopo aver
murato in casa il prezioso Raffaello, Giuseppe si ritira con i suoi
soldati a Digione partecipando alla costituzione della Legione
italica nella quale assume il grado di comandante superiore,
agli ordini del comandante generale Teullié.
Attraversate le Alpi con Napoleone, Giuseppe (sempre con Teodoro
ed Angelo) appoggia l’azione delle truppe Francesi
percorrendo la linea delle Prealpi (Varese, Como, Lecco,
Bergamo e Brescia) per confluire poi con il grosso dell’esercito
a Marengo dove è nominato Generale di divisione sul campo.
Prosegue poi le operazioni militari nelle Venezie partecipando
alla conquista di Trento. Dopo la pace di Luneville (9 febbraio
1801) che pone temporaneamente fine alle ostilità con l’Austria
tutto l’esercito viene riformato. Sotto il comando di Murat, le
truppe della Cisalpina vengono organizzate in divisioni al
comando del generale Pino e di Giuseppe Lechi. Giuseppe
entra in politica, partecipa ai Comizi di Lione ed entra nel nuovo
Corpo legislativo della Repubblica italiana. E’ forse per
sostenere questa sua nuova carriera che vende per 50.000 lire
il Raffaello ad un collezionista milanese, Giacomo Sannazzaro.
Stringe rapporti sempre più stretti con Gioacchino Murat
partecipando alla creazione a Milano della prima loggia
massonica di rito scozzese e di tendenze filofrancesi (sino a
quel momento la massoneria a Milano era stata filoaustriaca)
denominata “Fratelli riuniti”. Qui cominciano alcuni equivoci che
si trascineranno per tutta la vita di Giuseppe: chi sono i fratelli
riuniti? Italiani e Francesi come pensavano allora Napoleone e
Murat oppure “padani” e napoletani? Molti napoletani infatti,
sfuggiti alle persecuzioni dei Borboni, erano a Milano e
spingevano per una liberazione del Regno di Napoli dai
Borboni. Giuseppe lega subito con loro, suscitando i sospetti
del Melzi e di Napoleone, contrarissimi all’idea di un’Italia unita.
E’ in questo contesto che ha luogo a Milano nel 1802 quella
riunione segreta tra Giuseppe Lechi, Domenico Pino e alcuni
patrioti napoletani per sollecitare l’unità d’Italia che Benedetto
Croce indicherà come la data di nascita del Risorgimento
italiano.
Questa situazione confusa e ambigua spiega gli avvenimenti
successivi. Nel 1804, quando il generale Saint Cyr avvia la
spedizione di Napoli che porterà Giuseppe Bonaparte sul trono
dei Borboni, Giuseppe Lechi (ma non gli altri fratelli Lechi) è
subito pronto ad aggregarsi e spinge le sue truppe alla
liberazione delle regioni adriatiche del Regno di Napoli. I suoi
successi e i suoi stretti legami con i patrioti napoletani
spingeranno ben presto i Francesi a sospendere le azioni delle
truppe italiane nel sud rispedendole a Milano. Giuseppe Lechi
al suo ritorno è ormai “napoletanizzato”. Quando il 20 giugno
1805, in occasione dell’incoronazione di Napoleone, tutti i
Sorveglianti delle Rispettabili Logge massoniche si riuniscono
a Milano per costituire il Grande Oriente d’Italia di Rito
Scozzese Antico Accettato (RSAA), Giuseppe Lechi partecipa
all’incontro nella veste di Gran Maestro del Grande Oriente di
Napoli al fine di unificare le due fratellanze.
Non è strano quindi se lo ritroviamo l’anno dopo con Murat nella
seconda spedizione di Napoli e questa volta Giuseppe è a capo
di tutta l’ala sinistra dell’esercito. A Napoli i legami con
Giuseppe Bonaparte e con Murat si fanno sempre più stretti
mentre si allentano quelli con la Lombardia e con gli altri fratelli
che passano al servizio di Eugenio di Beauharnais.
Negli anni 1808 e 1809 Giuseppe Lechi è con il generale Pino in
Spagna al servizio di Giuseppe Bonaparte, che ha ceduto il
regno di Napoli a Murat.
Qui succede qualcosa di strano, che i biografi di Giuseppe non
sanno o non vogliono raccontare. Giuseppe, dopo un lungo
assedio, prende Barcellona e ne diventa il governatore. Alla
fine del 1809 rientra a Parigi con le truppe decimate dalla
malaria e riceve da Napoleone una dote di 10.000 franchi annui.
Poco dopo però viene arrestato e rinchiuso nel castello di
Vincennes per le “prepotenze” e le “prevaricazioni” compiute in
Spagna. Il processo viene insabbiato per non infangare
l’esercito e Giuseppe Lechi viene “regalato” a Gioacchino
Murat, re di Napoli. Il Lumbroso, uno dei pochi che si sia
occupato in seguito di questo personaggio storico, parla di
“accuse di orrori, malversazioni e abusi infiniti” ma conclude
dicendo che “sulle colpe del Lechi non si sa bene quante e
quali fossero. Denaro certamente. La pratica fu archiviata.”
Giuseppe, tornato a Milano ma al servizio del Murat, comincia a
tramare con Domenico Pino contro Eugenio di Beauharnais e
contro Napoleone. Nel novembre del 1813, quando Murat
transita da Milano di ritorno dalla Russia, i due passano molto
tempo assieme a confabulare sotto gli occhi sospettosi della
polizia. Poi Giuseppe raggiunge Murat a Napoli e, al precipitare
degli eventi, diventa luogotenente del re di Napoli nella
campagna degli austro-napoletani contro l’esercito di Eugenio.
Il 31 gennaio 1814 Giuseppe è nominato governatore della
Toscana e in questa veste cede Livorno agli Inglesi facendo
infuriare Napoleone. Nel 1815, infine, conduce l’ultima
disperata campagna di Murat contro l’Austria che costerà la
vita all’aspirante re d’Italia e il carcere al generale bresciano. Al
ritorno dalla prigionia a Lubiana, nel 1818, Giuseppe si
stabilisce nella villa di famiglia a Montirone vicino a Brescia. Si
sposa con Eleonora, figlia del Pari di Francia Simeon e
trascorre gli ultimi anni strettamente sorvegliato dalla polizia,
isolato anche dai fratelli. Muore di colera a Montirone nel 1836.
Personaggio “più temerario, più spregiudicato e meno
scrupoloso” degli altri fratelli, come lo definisce Fausto Lechi, lo
studioso pronipote di Teodoro che ha raccontato le vicende
napoleoniche della famiglia nella Storia di Brescia, Giuseppe
ha lasciato delle Memorie autobiografiche ancora inedite, che
sono conservate manoscritte nella Biblioteca Queriniana di
Brescia e che meriterebbero di essere studiate e pubblicate,
viste le ombre che circondano ancora questa strana figura di
soldato.
Quanto è oscura e torbida la figura di Giuseppe, altrettanto limpida e
solare è invece l’immagine del fratello Teodoro, “mon beau
général”, come lo chiamava familiarmente Napoleone. E' molto
probabile che sia proprio ispirata a Teodoro Lechi la nobile
figura di ufficiale descritta da Stendhal nella Certosa di Parma
come conte di Pietranera.
Teodoro Lechi nasce a Brescia il 16 gennaio 1778, quattordicesimo
figlio di Faustino e quinto dei sette maschi sopravvissuti dopo
Giuseppe, Giacomo, Angelo e Bernardino. Ancora molto
giovane al momento della rivoluzione bresciana, segue i fratelli
maggiori nelle vicende che porteranno Giuseppe fino al grado
di generale dopo la battaglia di Marengo. Ha modo di farsi
notare per il suo coraggio durante la presa di Trento: è il primo
ad assalire la città.
Il suo carattere più schietto e leale, meno contorto di quello di
Giuseppe, lo tiene lontano dalle congiure per l’unità d’Italia
tramate forse dal fratello con i napoletani, si schiera invece
subito e decisamente con il Melzi e con Napoleone ed entra
nella nuova Guardia Presidenziale della Repubblica Italiana
che diventerà poco dopo la famosa Guardia Reale. Teodoro,
con i migliori quadri della Guardia, trascorre quasi due anni a
Parigi (dal 1803 al 1805) per addestrarsi alle nuove tecniche
militari francesi. Quando torna a Milano con Eugenio di
Beauharnais, nuovo viceré del Regno d’Italia, è comandante
dei Granatieri della Guardia Reale. Ha persino l’onore, dopo
l’incoronazione, di ospitare Napoleone nella villa di famiglia a
Montirone (13 giugno 1805) ed è nominato Scudiero del Re
d’Italia. Ma la vita sedentaria di corte non fa per lui. Vuole
seguire il suo idolo nei campi di battaglia ed eccolo infatti a
Ulma, ad Austerlitz e in tutte le avventure napoleoniche di
questi anni trionfali. Dal 1807 al 1809, passa di battaglia in
battaglia, di vittoria in vittoria, nel Veneto, in Dalmazia, in
Albania, in Ungheria. Dopo la battaglia di Wagram (6 luglio
1809) alla vigilia della quale aveva formato con la sua Guardia
il quadrato attorno all’imperatore, è nominato Barone
dell’Impero con diritto di trasmissibilità del titolo, privilegio
quest’ultimo conferito a pochissimi italiani.
Dal 1810 alla fine del 1811, mentre il fratello Giuseppe è in carcere o
comunque in disgrazia, Teodoro si gode a Milano le grandi
feste e i balli di questo raro periodo di pace. E’ forse in questi
anni che acquista la casa in Porta Orientale, dove ammasserà i
più di 800 quadri raccolti durante le sue campagne militari,
qualcuno persino in Albania.
Bello, colto, ricco e famoso, il 10 febbraio 1812 Teodoro parte per la
campagna di Russia dove ogni avversità si scatena contro
l’esercito francese. Anche qui, però, nei terribili giorni della
ritirata, la sua buona stella lo assiste. Riesce a salvarsi con
molti della sua Guardia e a meritare l’elogio dell' imperatore per
le sue grandi capacità di comandante e di combattente. L’anno
successivo, Eugenio si affida interamente a lui per ricostruire
un esercito a Milano dopo la catastrofe, e Teodoro riesce a
partire per la nuova guerra contro l’Austria con 10.000 uomini.
Ma ormai la sorte di Napoleone è segnata. Teodoro segue
Eugenio nell’avanzata e nella ritirata in Italia dopo la sconfitta di
Lipsia. Lentamente ma inesorabilmente devono ripiegare dal
Friuli, poi dal Veneto attestandosi nel febbraio 1814 a Salò,
ultima linea di difesa per non perdere Milano. Gli Austriaci
incalzano a est, gli austro-napoletani di Murat e Giuseppe
Lechi sono attestati oltre il Po in attesa degli eventi. Sembra
che sia ormai arrivato il momento in cui i due fratelli si
scontreranno in un’ultima battaglia decisiva tra due Italie o tra
due modi di concepire l’Italia, ma Eugenio firma l’armistizio con
l’Austria sperando di conquistarsi così il trono. Teodoro lo
supplica di andare a Milano prima che i suoi nemici soprattutto il generale Pino - facciano svanire le sue speranze.
La Guardia Reale, per bocca di Teodoro, proclama la sua
fedeltà ad Eugenio il giorno 19 aprile, ma il giorno dopo ci sarà
la rivolta di Milano e la fine del sogno bonapartista in Italia.
Teodoro, per non consegnare all’Austria le bandiere delle
Guardia Reale le fa bruciare dai suoi ufficiali che poi ne
mangiano le ceneri. Salva solo le aquile che donerà a Carlo
Alberto nel 1848 (una è conservata al Museo del Risorgimento
di Milano).
Tornato “borghese” dopo aver rifiutato il giuramento all’Austria,
Teodoro vive tranquillo, circondato dai suoi quadri, a Porta
Orientale. Ma è solo per pochi mesi. A settembre, mentre è nel
suo giardino con un vaso di fiori in mano, entra un suo ex
collega ed ex fratello massone che gli dice: “Teodoro, è il
momento di deporre i fiori e impugnare la spada!”
Il generale si risveglia in lui ed eccolo coinvolto nella congiura
massonica degli ex generali del 1814. Le congiure però non
fanno per lui: arrestato in dicembre è rinchiuso nel Castello
Sforzesco, al secondo piano nel cortile della Rocchetta, poi
viene tradotto a Mantova. Condannato prima a morte, la
condanna viene poi commutata in cinque anni di carcere anche
perché non ammise mai la sua partecipazione né denunciò gli
altri congiurati. Rimesso in libertà nel 1819, si infierì ancora su
di lui, condannandolo a pagare al fisco una cifra enorme come
rimborso per le gratifiche ottenute da Napoleone. Cerca di
vendere a Londra i suoi quadri, ma gli si nega il permesso di
esportazione. Deve vendere allora la casa di Porta Orientale,
che passa al conte Batthyányi, membro di un’illustre famiglia
d’Ungheria.
Tornato a Brescia nella casa di famiglia dove vivevano alcuni dei
suoi fratelli, nel 1829 sposa Clara Martinengo-Cesaresco dalla
quale ha tre figli, uno solo dei quali, Faustino, raggiunge la
maggiore età. Nel 1832 riesce finalmente a contrattare
l’esportazione dei quadri. In cambio cede a Brera il Martirio di
Santa Caterina di Gaudenzio Ferrari e la Madonna col
Bambino e i santi Giovanni Battista e Girolamo di Callisto
Piazza. Con i soldi ricavati acquista dal fratello Luigi l’isola
Lechi sul lago di Garda. Nel 1843, per fornire una buona scuola
a Faustino, torna a Milano e prende in affitto un appartamento
nella casa Bellotti in via Brera. E’ destino però che Milano non
consenta a Teodoro di vivere finalmente in pace. Il 18 marzo
1848, all’inizio delle Cinque Giornate, bussano di nuovo alla
sua porta perché, a 70 anni suonati, torni ad impugnare la
spada. E’ condotto al Broletto, si vuole che sia a capo delle
milizie rivoluzionarie. Fa appena in tempo ad accettare, che è
subito arrestato e condotto nuovamente alla Rocchetta dove
resterà fino al termine dell’insurrezione. Cercherà invano nei
mesi seguenti di consigliare Carlo Alberto a correggere la
disastrosa campagna militare che sta conducendo. Alla fine
ripara a Torino con la famiglia subendo il sequestro dei beni e
una multa di 40.000 lire. Nel 1854 scrive per il figlio la sua
autobiografia che verrà pubblicata alla fine dell'Ottocento. Nel
1859 può finalmente tornare a Milano in un appartamento di
palazzo Taverna di via Bigli dove muore il 2 maggio 1866.
La festa del conte Batthyányi nel 1828
Dopo tante turbolenze, nella casa di Porta Orientale ecco trascorrere
un periodo sereno e festoso. Il conte Batthyányi viveva con
grandi mezzi ricevendo la migliore aristocrazia della città.
Celebre fu la festa mascherata del 1828 che ci è stata
raccontata con dovizia di particolari dal Bascapè nel suo libro I
palazzi della vecchia Milano (pagg. 301-3) dove si finge che sia
il conte Mellerio nel 1838 a illustrare i palazzi di Milano.
Riportiamo le sue stesse parole:
« Il Batthyányi arricchì ed abbellì la propria casa, ove dieci anni or
sono diede un ballo in costume tanto sfarzoso, che restò nelle
cro-nache come un avvenimento memorabile. C'ero anch'io, a
quella festa, e non posso dimenticare lo splendore dei saloni, il
gaio movimento delle danze, la magistrale scelta dei pezzi
musicali che venivano ese-guiti alternatamente da due
orchestre, e soprattutto la ricchezza dei costumi degli invitati.
L'aspettativa per quei costumi era tale, che una folla di persone
si era preparata sul marciapiedi, per assistere all'arrivo degli
ospiti, e quando questi scendevano dalle carrozze per entrare
in casa, erano salutati da un mormorio di approvazione, e
qualcuno, più splendido ed ammirato, fu persino applaudito...
Bei tempi! »concluse malinconicamente il Mellerio. Ma le dame
chiesero altri par-ticolari, ed egli narrò che tutto era stato
combinato in precedenza: la scelta dei personaggi e quella del
vestiario, sicché furono evitate pos-sibili stonature. « Pensate
un po', ad esempio, se a due dame fosse saltato in mente di
acconciarsi da Caterina de' Medici? O se nei sa-loni si fossero
incontrate due... reincarnazioni di Francesco I? In-somma, il
ballo fu organizzato nel modo più perfetto, e ogni famiglia
ricostituì, per qualche ora, una Corte o un gruppo dinastico:
v'erano personaggi della Signoria fiorentina e di quella
milanese,