difendere l`europa

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difendere l`europa
Tra spese e ideali: i dilemmi della difesa
La storia e le istituzioni della PSDC
NATO e UE: complementari o rivali?
EU Battlegroups ancora inattivi
Il lato economico della difesa europea
www.rivistaeuropae.eu
Numero 8 - Dicembre 2013
DIFENDERE L’EUROPA
© Europae - Rivista di E
Affari
Europei
I DILEMMI
LE
OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
Associazione Culturale OSARE Europa
© Europae - Rivista di Affari Europei
Copertina di Luigi Porceddu
Dicembre 2013, Numero 8
© Europae - Rivista di Affari Europei, www.rivistaeuropae.eu
“Difendere l’Europa. I dilemmi e le opportunità della difesa europea”
A cura di Luca Barana e Davide D’Urso
Grafica ed editing di Davide D’Urso
Direttore: Antonio Scarazzini
Caporedattore: Davide D’Urso
Responsabili di Redazione: Luca Barana, Riccardo Barbotti, Simone Belladonna, Stefania Bonacini,
Fabio Cassanelli, Valentina Ferrara, Shannon Little, Mauro Loi, Tullia Penna.
© Europae - Rivista di Affari Europei
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INDICE
Tra ideali e portafoglio, il dilemma della difesa in Europa
Antonio Scarazzini
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La storia e la struttura istituzionale della politica di sicurezza e difesa
Luca Barana
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NATO e UE: complementarietà o concorrenza?
Giuseppe Lettieri
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European Union Battlegroup: capaci di tutto, pronti a niente
Enrico Iacovizzi
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Sicurezza nei mari e controllo delle frontiere: serve più Europa
Aldo Carone
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L’Europa e l’economia della difesa
Gianluca Farsetti
18
Gli autori
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I numeri precedenti di Europae
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© Europae - Rivista di Affari Europei
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TRA IDEALI E PORTAFOGLIO,
IL DILEMMA DELLA DIFESA IN EUROPA
di Antonio Scarazzini
Editoriale
U
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L’ALTO RAPPRESENTANTE ASHTON ALLA CONFERENZA DELL’AGENZIA DI DIFESA EUROPEA (© EDA)
na dicotomia fra l'aspetto valoriale e simbolico e quello economico: la storia dell'integrazione europea si dipana, in fondo,
su questo duplice binario. Il primo, legato
all'idea di cosa l'Europa debba e possa diventare, al
progetto di una costruzione politica da cui far diramare una struttura istituzionale dotata di competenze settoriali. Il secondo, impostato su ciò che
l'Europa può fare, sul concetto funzionalista di un'unione che si erige da una base prettamente economica e commerciale, da cui far derivare il carattere
politico-istituzionale più adatto a governarne lo sviluppo. La costruzione di un esercito europeo o,
nell'accezione più ampia ed inclusiva, di un'effettiva
politica di difesa europea, si scontra inevitabilmente
con l'ambiguità del cammino del processo d'integrazione, in cui il dato politico ed economico continuano a marciare separati e, forse, senza un'idea dell'Europa cui si vuole pervenire. La storia dei tentativi di costruzione di una difesa comune nel Vecchio Continente, spiega Luca Barana, è il sunto dello
strenuo tentativo delle sovranità nazionali di resistere alla loro progressiva erosione, alla perdita di
centralità globale dei singoli Stati europei se considerati come singoli atomi di un nucleo chiamato Unione Europea. Se è ad un super-Stato europeo
che l'integrazione vuole infine giungere, pare subito
chiaro che solo l'unificazione e la razionalizzazione
delle forze armate nazionali possono consentire lo
spostamento in capo all'Unione della prerogativa
dell'uso legittimo della forza, che nello Statonazione di accezione weberiana si affianca alle facoltà di battere moneta, già raggiunta grazie all'introduzione dell'euro, e di riscossione fiscale. Il dibattito sulla creazione di una difesa europea altro
non è se non una delle facce di quella medaglia che è
l'eterna lotta fra l'impostazione intergovernativa, conservatrice delle sovranità nazionali, e il processo di comunitarizzazione, di cui il secondo risvolto è proprio l'unificazione delle politiche fiscali,
ancora ben di là dal realizzarsi.
Quale binario imboccare, dunque, per realizzare una
vera difesa integrata, che superi la vacuità di una
Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) priva di un disegno strategico condiviso, pur all’interno
di un quadro giuridico relativamente ampio e ben
definito? Se si sceglierà di proseguire in ossequio ai
valori politici dell'integrazione europea, sarà fondamentale ridefinire l'entità dell'azione globale
dell'UE e dunque rimodellare le strutture civili e
militari sulla base di una nuova Grand Strategy.
Dal 2003, anno di pubblicazione della prima Strategia di Sicurezza Europea poi rivista nel 2008, il concetto strategico europeo si è tradotto in forme più
articolate rispetto al contesto di conflitto armato,
concependo interventi di polizia internazionale e
riconoscendo l'entità sempre più rilevante di minacce dai tratti fluidi e indefiniti quali il cambiamento climatico, la sicurezza energetica e i flussi
migratori, cui l'attività dell'agenzia Frontex - raccontata in questo numero da Aldo Carone - ha cercato (invano) di porre rimedio.
Un concetto tradotto operativamente nel varo dei
Battlegroups, battaglioni di uomini ad alta specializzazione, capaci di operare rapidamente e con flessibilità nelle missioni più disparate, ma alla prova
dei fatti dimostratitisi prigionieri, come evidenzia
Enrico Iacovizzi, della loro stessa natura intermodale. Sullo sfondo l’ambiguo rapporto che la difesa
europea, sin dai primordi dell’Iniziativa Europea di
Difesa in ambito NATO, vive con l’Alleanza Atlantica, producendo duplicazioni di strutture e linee di
comando descritte nelle prossime pagine da Giusep-
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DIFENDERE L’EUROPA
I DILEMMI E LE OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
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pe Lettieri.
Eppure, la strada verso una politica di sicurezza comune, complementare all’unione monetaria nella
costruzione di una statualità europea, corre il rischio più che mai concreto di giungere con il Consiglio Europeo del 18 e 19 dicembre all’ennesima
dichiarazione d’intenti. L’ennesima defaillance del
metodo intergovernativo - tra le ultime vittime il
bilancio dell’UE sino al 2020 - che lascia più di un
dubbio sulla capacità dei Ventotto di ritrovare lo
slancio con cui a Colonia, nel 1999, si licenziò la nascita della Politica Europea di Sicurezza e Difesa
(PESD).Le divisioni tra Stati membri sono lampanti nelle priorità di intervento militare (vedasi
l’attivismo francese in Africa e l’inerzia tedesca nel
trattare la questione siriana), nell’interpretazione
del dilemma euro-atlantico e della rapidità (e autonomia) con cui l’Unione Europea debba riprendersi
il fardello della garanzia della sicurezza del Vecchio Continente. Ed è qui che s’inserisce il dato economico, laddove l’UE e i suoi Stati membri hanno
l’obbligo di garantire ai 500 milioni di europei
un’efficacia maggiore di quanto mostrato sinora.
Nel 2012 i Paesi dell’Unione hanno speso per le proprie forze armate circa 190 miliardi di euro, impiegando più di 1.850.000 uomini tra civili e militari. Organici e spese per il personale sono calati del
2,8% e 2,6% rispetto al 2011 ma questo capitolo di
spesa rimane ancora al di sopra del 50% del totale. La stessa voce ha inciso negli Stati Uniti solo per
il 25,6% del totale, lasciando spazio per 75 miliardi
di investimenti in ricerca e sviluppo, pari al 13%
del bilancio del Dipartimento della Difesa. In Europa
la ricerca ha ottenuto solo il 2% dei bilanci del settore ma, per una qualche logica perversa, gli Stati
membri sono in grado di impegnarsi nello sviluppo
e produzione di ben 36 equipaggiamenti o sistemi
d’arma contro gli 11 realizzati negli Stati Uniti, secondo quanto rilevato da uno studio dell’Istituto
Affari Internazionali.
La dispersione di energie e risorse è resa ancora
più evidente dai dati sul collaborative procurement,
sulle commesse cioè realizzate in cooperazione tra
più Paesi europei, che nel 2012 si è attestato solo al
16,8% dei 34 miliardi di euro complessivamente
spesi, ben lontani dal benchmark del 35%. Dati che
confermano l’ancora strettissima dipendenza tra
l’industria della difesa e i governi nazionali, ancora i principali clienti delle rispettive imprese del
settore. Un legame mortale per le imprese stesse,
che si vedono vittime dei tagli ai bilanci operati nel
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corso della crisi economica e della ormai ridotta
propensione all’investimento in ricerca e sviluppo.
Viene così mortificato l’effetto spill-over, il trasferimento nel settore civile di know-how tecnologico
sviluppato accanto ai sistemi d’arma, sprecando il
valore aggiunto che il tessuto di piccole e medie
imprese ad alta capacità d’innovazione, di cui si
occupa l’articolo di Gianluca Farsetti, può generare
all’interno della stagnante economia europea.
La condivisione di requisiti operativi che si traducano nella realizzazione congiunta di programmi
di progettazione o produzione di sistemi d’arma è
quindi la prima vera esigenza che i capi di Stato e di
Governo dovranno affrontare nel summit di Bruxelles: un’esigenza che si origina dall’obbligo di garantire ai propri cittadini un utilizzo efficiente e razionale delle risorse, pur in molti casi esigue ed
insufficienti, messe a disposizione del settore difesa.
L’Agenzia Europea di Difesa, l’ente deputato
dall’Ue alla regolazione del settore, continua a lanciare vani appelli alla realizzazione di programmi di
cooperazione, su tutti il Pooling & Sharing, ossia la
messa in comune e condivisione di equipaggiamenti, infrastrutture, conoscenze, expertise al fine di
ridurre duplicazioni a livello continentale. Sordi ai
richiami di un’agenzia costretta a drastiche diete da
risicatissimi bilanci, gli Stati europei continuano
invece a mantenere le proprie singole forze di terra,
di aria e di mare, le proprie industrie ed aree geografiche di riferimento. Il risultato è sotto gli occhi
di tutti: un’Europa costretta a tirare per la giacchetta un Barack Obama non proprio convinto della
campagna libica e poi umiliata sulla questione siriana dal capolavoro diplomatico sciorinato da Vladimir Putin. In breve, il fallimento della PSDC così
come sinora l’abbiamo conosciuta, proprio nel Mediterraneo alle porte di casa.
C’est l’argent qui fait la guerre, recita un vecchio adagio. Ma l’Europa di oggi non ha nemici nelle sue
immediate vicinanze a cui dichiarare guerra, né il
suo essere “potenza civile” può essere messo in
dubbio dal mantenimento di una forza credibile di
sicurezza e difesa. Il vero nemico è tutto interno
all’Unione Europea, quel populismo che rinfaccia
l’inefficacia delle attuali istituzioni nell’offrire ai cittadini una soluzione alla crisi economica e sociale.
L’opportunità offerta dal Consiglio Europeo di dicembre è tutta qui, simbolica e avida allo stesso
tempo: risparmiare e condividere, tagliare e selezionare. Soprattutto, silenziare una volta per tutte gli egoismi nazionali. ∎
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LA STORIA E LA STRUTTURA ISTITUZIONALE
DELLA POLITICA DI SICUREZZA E DIFESA
L’obiettivo fondamentale dell’integrazione europea era il mantenimento della pace
nel continente europeo. Dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa negli anni ‘50, l’Unione Europea è riuscita a dotarsi negli ultimi due decenni di una struttura
istituzionale per una difesa comune: la PSDC. Superata la Guerra Fredda e realizzata
in Europa una “comunità di sicurezza”, l’integrazione della difesa degli Stati europei
mira oggi a un obiettivo diverso: fare dell’UE un attore politico globale.
M
di Luca Barana
olti cittadini europei sembrano aver
dimenticato quale fosse l’obiettivo
principale dei padri fondatori dell’integrazione europea: la pace. Dopo la seconda guerra mondiale infatti, in Europa si cercavano nuove soluzioni affinché una simile tragedia non
si ripetesse più. L’integrazione europea non era concepita solamente in termini economici, come accade
per lo più oggi, ma anche dal punto di vista politico
e della difesa. La Conferenza di Parigi del 1951 fra
Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo gettò le basi per la creazione di un esercito europeo: a pochi anni dalla fine del conflitto
mondiale, le tensioni e la diffidenza fra i Paesi europei dovevano essere superate. Altiero Spinelli si
fece quindi promotore della proposta di apporre un
‘cappello politico’ all’integrazione delle strutture
militari europee. Grazie anche al sostegno del governo De Gasperi, questa iniziativa venne accolta e
nel maggio 1952 venne promossa una bozza di Trattato della Comunità Europea di Difesa.
Si è trattato di un trauma da cui l’Europa ha faticato
a riprendersi, tanto che nuovi sviluppi in tema di
integrazione della difesa europea sarebbero riemersi solo negli anni Novanta.
Affossata la CED nel 1954, l’Europa continuò la
strada economica e commerciale all’integrazione.
Ma era diventata una “comunità di sicurezza”.
Nel frattempo, l’integrazione europea si era approfondita lungo altre vie, quella commerciale in particolare. La politica estera e di sicurezza è stata invece a lungo considerata di competenza esclusiva degli Stati nazionali. Grazie però alla comune partecipazione alla NATO, l’Europa era diventata una comunità di sicurezza: una comunità di Stati fra cui
la guerra era, di fatto, impensabile. L’obiettivo della
pace è stato raggiunto.
Negli ultimi decenni, gli sviluppi in materia di difesa
hanno risposto a una seconda motivazione: fare
dell’Europa un attore globale riconosciuto nel
mondo successivo alla conclusione della Guerra
Fredda. Il mutato contesto internazionale e il fallimento europeo nei Balcani richiedevano un salto di
qualità alla neonata Unione Europea, dopo che il
Trattato di Maastricht aveva lanciato la PESC, la Politica Estera e di Sicurezza Comune. Due le questioni che hanno plasmato la politica europea negli
ultimi due decenni fino ad oggi: il rapporto con la
NATO e lo sviluppo di capacità intimamente europee.
Il primo aspetto affonda le proprie radici nella storica divisione fra Paesi ‘atlantisti’ ed ‘europeisti’. I
primi, con a capo la Gran Bretagna e, dopo
l’allargamento del 2004, molti Paesi dell’Europa orientale, hanno sempre preferito il rafforzamento
dei legami con l’alleato americano. Altri Stati, soprattutto la Francia, hanno invece rivendicato la
necessaria autonomia della difesa europea rispetto
L’integrazione europea aveva l’obiettivo di garantire la pace. Per realizzarlo, negli anni ‘50, si varò
il progetto della Comunità Europea di Difesa.
Si trattava di un progetto politico ambizioso, che
prevedeva non solo la creazione di un esercito integrato, ma anche di istituzioni sovranazionali come
il Consiglio dei Ministri, al vertice della nuova struttura istituzionale, e l’Assemblea Parlamentare, che
sarebbe coincisa con il medesimo organo della CECA. La firma del Trattato, nel maggio successivo,
costituiva un passo fondamentale, dato che permetteva alla Germania Ovest un primo riarmo, con il
benestare dei partner europei, Francia su tutti, e
dell’alleato statunitense. Tuttavia, due anni più tardi, nel 1954, l’Assemblea Nazionale francese avrebbe affossato il Trattato, rifiutando di ratificarlo.
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DIFENDERE L’EUROPA
I DILEMMI E LE OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
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COLOGNA, GIUGNO 1999: IL CONSIGLIO EUROPEO DÀ AVVIO ALLA POLITICA EUROPEA DI SICUREZZA E DIFESA (PESD, OGGI PSDC). FOTO: EUROPEAN COMMSSION.
alla guida degli Stati Uniti. In questo senso, il superamento di questa contrapposizione con l’accordo
di Saint-Malò del 1998 fra Francia e Gran Bretagna
ha costituito il passo decisivo per il lancio di una
politica di difesa europea.
Comitato Militare dell’Unione Europea, il vertice
della struttura militare dell’UE, cui prendono parte i
Capi di Stato Maggiore degli Stati membri. Tale organo ha la responsabilità di dirigere e monitorare
tutte le attività militari dell’UE. Il Presidente del Comitato partecipa alle riunioni del Consiglio in materia militare e del settore della difesa. Infine, lo Stato
Maggiore dell’Unione Europea, a cui partecipa
personale militare degli Stati membri, fornisce consulenza e monitoraggio, occupandosi in particolare
delle attività di early warning rispetto a possibili
crisi internazionali.
Con l’accordo di Saint-Malò (1998) e il Consiglio
Europeo di Colonia (1999) l’UE diede vita alla
PESD, dal Trattato di Lisbona diventata la PSDC.
Il Consiglio Europeo di Colonia del 3-4 giugno
1999 istituzionalizzava infatti la PESD, oggi, dopo
l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, denominata PSDC, la Politica di Sicurezza e Difesa Comune. Dal momento della sua nascita, la PSDC si è concentrata sullo sviluppo delle capacità istituzionali e
militari necessarie. Dal punto di vista istituzionale,
la PSDC si colloca nell’ambito intergovernativo
dell’UE, quindi regolato dal principio dell’unanimità
in Consiglio dei Ministri e Consiglio Europeo, tranne
alcune eccezioni.
La PSDC è guidata da tre organi istituzionali che operano nell’ambito del Consiglio. Innanzitutto, il
Comitato Politico e di Sicurezza (COPS), composto
da rappresentanti diplomatici dei Paesi membri, con
il rango di ambasciatori. Si tratta di un organo di
monitoraggio che ha il compito di valutare le situazioni di crisi e inviare proposte al Consiglio sulle
opzioni di intervento disponibili. È poi presente il
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La struttura istituzionale della PSDC comprende
tre organismi: il Comitato Politico e di Sicurezza,
il Comitato Militare e lo Stato Maggiore dell’UE.
Il Trattato di Lisbona ha poi esteso gli obiettivi
della PSDC, che oggi sono “garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale” (art. 42
TUE). Per raggiungere questi obiettivi, l’UE invia
missioni all’estero per operazioni umanitarie e di
soccorso, di peacekeeping e di gestione delle crisi
(le cosiddette ‘missioni di Petersberg’). Altri compiti
delle missioni UE riguardano operazioni di disarmo,
assistenza militare, prevenzione dei conflitti, stabilizzazione post-conflitto e lotta al terrorismo (art.
43).
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LA STORIA E LA STRUTTURA ISTITUZIONALE DELLA POLITICA DI SICUREZZA E DIFESA
Luca Barana
Il Trattato introduce la possibilità di “cooperazione strutturata permanente” fra Paesi che
desiderino approfondire la propria integrazione in
materia di difesa. Questa previsione richiama il secondo elemento delle capacità europee, quello militare. In realtà, l’approccio europeo alla difesa si caratterizza anche di una componente civile importante, come dimostra il tipo di missioni assegnate
alla PSDC. Non si tratta infatti di operazioni meramente militari, ma spesso di peace-building, che
richiedono lo schieramento di esperti civili a fianco
del personale militare. La prevenzione dei conflitti e
le attività di monitoraggio sono elementi imprescindibili per evitare le crisi internazionali e perseguire
gli obiettivi della difesa europea.
dell’operazione di peacekeeping MONUC II delle Nazioni Unite. A riprova del carattere comprensivo
della politica europea, l’UE ha lanciato anche missioni civili e ibride, come quelle di polizia, con
compiti di addestramento e consulenza, ma che garantiscono anche direttamente funzioni di polizia
sul territorio, come accaduto in Bosnia con l’operazione EUPM.
Dal 2003 l’UE ha dispiegato un numero crescente
di missioni all’estero, civili, militari e ibride, per
realizzare gli obiettivi della sicurezza europea.
In generale, le missioni europee si sono concentrate
in due scenari geopolitici di diretto interesse per
l’Europa: i Balcani e l’Africa, in particolare la regione del Congo. Altre operazioni sono state avviate,
fra le altre, in Palestina (2006), Afghanistan (2007),
Georgia (2004, 2008), Ucraina-Moldavia (2005) e
Indonesia (2005).
Gli anni della crisi economica sembrano però aver
ostacolato l’approfondimento dell’integrazione europea della difesa, un processo che sembrava inarrestabile fra gli anni Novanta e l’inizio dello scorso
decennio.
Come ricordato dal Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy durante una sua recente
visita a Roma, un’ampia discussione sul futuro
della PSDC manca in Europa da quasi dieci anni. È
ora che l’UE impari cosa vuole diventare da grande,
anche nell’ambito della difesa. Per ottenere questo
risultato però, il passo necessario è sempre lo stesso: superare le divisioni intergovernative che affliggono quasi ogni decisione europea attuale. In un
ambito sensibile della sovranità come quello della
difesa, l’impresa pare anche più ardua. Eppure in
passato ci si è riusciti. A volte. ∎
L’Agenzia Europea di Difesa svolge importanti
funzioni di coordinamento, razionalizzazione e
rafforzamento dell’industria militare europea.
Dal punto di vista militare, un ruolo crescente è giocato dall’Agenzia Europea di Difesa, nata per garantire l’implementazione effettiva della PSDC, porre rimedio alle carenze militari europee e coordinare l’azione degli Stati membri. ‘Coordinamento’ è
appunto la parola chiave per quanto riguarda le capacità di difesa europee, da affiancare a
‘duplicazioni’. Uno degli obiettivi della difesa europea dovrebbe essere proprio quello di evitare le duplicazioni fra strutture, siano esse quelle di diversi
Paesi membri o quelle della NATO. Razionalizzare
le capacità esistenti significa anche limitare gli sprechi nei bilanci nazionali, un fine ancora più importante in questi anni di ristrettezza economica. Oltre
alla razionalizzazione, altre attività dell’Agenzia sono la promozione dell’interoperabilità fra le forze
europee, l’ammodernamento delle capacità militari
e il rafforzamento dell’industria militare, specie nel
settore della ricerca e sviluppo.
Questa struttura istituzionale ha permesso all’UE di
inviare un numero crescente di missioni
all’estero a partire dal 2003. La prima missione
militare dell’UE è stata ‘Concordia’ nella Repubblica
ex jugoslava di Macedonia (FYROM), dopo
l’approvazione in merito di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il compito di supervisionare le riforme politiche nel Paese. Nel giugno
seguente è iniziata ‘Artemis’, una missione nel contesto particolarmente complesso della Repubblica
Democratica del Congo (DRC), con funzioni di controllo su sicurezza e condizioni umanitarie nel periodo di transizione precedente lo spiegamento
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NATO E UE: COMPLEMENTARIETÀ
O CONCORRENZA?
L’Unione Europea ha perseguito negli ultimi vent’anni un progetto di politica di difesa
comune autonomo e ambizioso. L’ambizione dell’UE ha portato però alla duplicazione
di numerose strutture rispetto a quelle analoghe della NATO, sinora il vero nocciolo
duro della difesa europea. La volontà politica di superare queste duplicazioni sembra
oggi necessaria, in un periodo di spending review che interessa i bilanci nazionali dei
Paesi europei, per garantire l’effettiva efficacia di entrambe le organizzazioni.
S
di Giuseppe Lettieri
in dalla fine della seconda guerra mondiale,
le aspirazioni per una più coerente politica
estera e di difesa europea, per quanto secondarie alla più veloce integrazione economica, furono alla base del programma comunitario
europeo. Già nel 1952, l'idea di una difesa collettiva,
la Comunità Europea di Difesa (CED), per quanto
dopo poco abbandonata, rappresentò uno dei primi
passi nell'ottica di una più stabile e sicura integrazione. Il processo, interrottosi per tutta la durata
delle Guerra Fredda, venne ripreso solo successivamente, alla fine degli anni Novanta, sulla spinta
dell'incapacità degli Stati europei di rispondere singolarmente alle contingenze delle crisi balcaniche.
Gli sforzi tuttora in corso rappresentano uno dei
maggiori impegni dell'attuale UE, una delle tematiche più spinose nei dibattimenti di Parlamento e
Consiglio e uno dei punti cardine nell'ottica del perfezionamento dell'unione politica sancita dal
Trattato di Lisbona nel 2009.
standard qualitativi condivisi, e tradizionali resistenze dovute ad aspetti culturali delle singole forze
armate.
La NATO, sopravvissuta e riformata dopo la fine
della Guerra Fredda, continua ad essere come negli anni ‘50 il nocciolo duro della difesa europea.
Un fattore di estrema rilevanza rimane poi la presenza di una stabile struttura di difesa collettiva
preesistente al progetto europeo. L’Alleanza NordAtlantica o NATO, sopravvissuta alla caduta del muro di Berlino, riformata e rinvigorita (o indebolita
secondo alcuni punti di vista) da un più vasto impegno internazionale, continua ad essere, come lo fu
sin dalla sua costituzione nell’aprile del 1949, il nocciolo duro della difesa europea. I fondamenti su cui
poggiano le sue istituzioni e le sue strutture, primo
fra tutti il principio della difesa collettiva, sancito
dall’articolo 5 del Trattato del ’49, sembrerebbero
aver garantito il massimo della difesa comune con il
minimo di cessione di sovranità da parte dei singoli
membri. Proprio questa generale sovrapposizione
di compiti, strutture, membri e organizzazioni, non
uniforme, né omogenea, ha reso estremamente difficile la risoluzione della querelle europea su difesa e
sicurezza e la dialettica trilaterale fra gli Stati
membri, l’UE e la NATO. Proprio l’analisi delle relazioni fra questi due ultimi attori internazionali
permette di intraprendere una reale comprensione
di quale spazio di manovra possa ritagliarsi l’Unione
Europea tramite la Politica di Sicurezza e Difesa
Comune (PSDC).
I primi forti contatti fra i due attori si istaurarono
agli inizi degli anni Novanta, nel momento in cui una
serie di dichiarazioni congiunte dei membri della
Comunità Europea sancirono la necessità di una
più stretta collaborazione. La volontà di dotarsi di
una politica estera comune e di strumenti atti alla
In un diverso contesto internazionale ed europeo,
sembrano immutati gli ostacoli che hanno finora
ostacolato la realizzazione di una difesa europea
È cambiato però il panorama mondiale in cui questo
processo riacquista forza e vigore. Sono cambiate le
realtà, gli interessi e le necessità dei singoli Stati.
Immutati restano però gli ostacoli a una più coerente attuazione di tale politica. La perdurante incapacità di indirizzare i singoli interessi nazionali verso l’obiettivo politico di una difesa comune sembrerebbe essere il prodotto di diverse cause. Le reticenze dei singoli attori europei nell'abbandonare quote
di sovranità in un'area di così fondamentale interesse per la sopravvivenza nazionale rimangono alla
base dell’impossibilità di una virata comune. A queste si aggiungono i cluster industriali nazionali, in
alcuni settori non così propensi a joint-project o
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UE E NATO: COMPLEMENTARIETÀ O CONCORRENZA?
Giuseppe Lettieri
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO EUROPEO VAN ROMPUY E QUELLO DELLA COMMISSIONE BARROSO AL VERTICE NATO DI CHICAGO NEL 2012 (© EUROPEANCOUNCIL)
sua implementazione , tra cui una capacità collettiva
di difesa dalle minacce esterne, nonché della
proiettabilità delle risorse strategiche a disposizione, venne riconfermata dalla struttura “a pilastri”
del Trattato di Maastricht (1992). I primi contatti
con la NATO furono principalmente rivolti alla creazione di un framework operativo in cui gli assetti
già sviluppati dall’Alleanza potessero essere utilizzati, su richiesta, in condizioni di necessità e previa
consultazione, dalla nascente Unione Europea.
Il varo della politica di sicurezza comune europea
portò alla creazione dei primi framework operativi per la cooperazione UE-NATO.
L’Unione dell’Europa Occidentale (UEO), organizzazione europea nata nel 1954 con il Trattato di
Bruxelles, venne incaricata di gestire le questioni
inerenti la sicurezza militare e di conseguenza le
relazioni con la NATO. La connessione fra le due
organizzazioni venne rafforzata tramite il supporto
dell’Alleanza alla formulazione dei “Petersberg
tasks” (dispiegamento di truppe per compiti umanitari) e degli accordi “Berlin-Plus” (la possibilità
per l’UE di ricorrere ad alcuni assetti della NATO
per le sue missioni di peacekeeping). Il processo
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andò intensificandosi negli anni successivi, muovendosi da un’attiva, ma occasionale collaborazione sul
campo (il caso di Bosnia e Kosovo) a una maggiore
istituzionalizzazione delle relazioni fra i due attori.
Tra il 2004 e il 2005 ufficiali di collegamento e personale di rappresentanza di NATO e UE vennero
stanziati presso il Supreme Headquarters Allied
Powers Europe (SHAPE) e lo European Union Military Staff (EUMS). Contemporaneamente, nel tentativo di raggiungere una minima autonomia operativa in linea con la creazione di un’unità politica (il
superamento dei “pilastri” di Maastricht), l’UE incominciò a dotarsi di propri strumenti e agenzie nel
settore della difesa. Nel 2003 venne approvata la
Strategia Europea di Sicurezza e nel 2004 venne
promossa l’Agenzia Europea di Difesa. Ancor prima era stata abbozzata l’idea di costituire forze militari proprie di rapido intervento (standing army
basate su contributi nazionali), implementata poi
tramite il lancio dei Battlegroups (EUBG). In ultimo, sulla scia delle innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona, venne approvato un nuovo framework normativo, la Politica di Sicurezza e Difesa
Comune (PSDC), racchiudendovi all’interno tutti gli
strumenti precedentemente elencati e le funzioni
della UEO (già fortemente ridimensionata e abolita
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DIFENDERE L’EUROPA
I DILEMMI E LE OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
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definitivamente nel 2011).
Gli ultimi dieci anni di politiche inerenti sicurezza e
difesa sembrerebbero delineare l'intenzione dell'UE, non troppo velata, di raggiungere una graduale
autonomia decisionale e operativa. Un’autonomia
non così complementare e sussidiaria rispetto a
quella della NATO. Pur poggiando su presupposti
differenti, sembrerebbe però che negli ultimi
vent'anni le organizzazioni siano incorse in una sovrapposizione di strutture e capacità al di la dei
principi di interoperabilità e complementarità più
volte ribaditi all'interno dei loro organi decisionali.
Il progetto europeo, secondo tale interpretazione, è
più ambizioso e più omnicomprensivo rispetto a
quello della NATO (occupata nella “mera” difesa collettiva e nella standardizzazione di procedure operative in missioni multinazionali fuori area), ma assume caratteristiche competitive-concorrenziali
più che casuali.
Nonostante dichiarazioni e manifestazioni di intento, UE e NATO sembrano essersi rincorse, sovrapponendosi in molti aspetti strutturali.
Guardando agli EUBG e all'adozione di alcune politiche europee, quali per esempio i documenti riguardo cyber-security, pooling and sharing, airlift e air-to
-air refuelling capability, una caratteristica di originalità sembrerebbe essere in parte assente, o quantomeno ridimensionata dall'esistenza di simili strumenti in ambito NATO. Proprio quest'ultima, già nel
2002 aveva adottato una serie di provvedimenti per
la creazione di una forza di reazione rapida, la NATO Response Force (NRF), su base multinazionale,
con capacità di gestione fino a 13,000 uomini e con
una propria componente marittima e di supporto
aereo.
Simili riflessioni valgono anche per la cyber security: la questione venne affrontata direttamente
dalla NATO dopo il caso del 2007 della creazione del
centro di ricerca di Tallin e il NATO's Strategic
Concept di Chicago 2012. Solo nel 2013 l'UE si è
dotata di una propria Cyber Security Strategy, per
altro sviluppata in cooperazione con il centro di Tallin e non di molto dissimile da quella in ambito NATO. Parlando poi di pooling and sharing e capacità
specifiche nel settore del rifornimento in volo e del
trasporto aereo, le conclusioni non cambiano, dato
che si ritrovano anche per queste aree concetti analoghi e antecedenti in ambito NATO (Smart Defence). Se non fossero coinvolti in questi processi
© Europae - Rivista di Affari Europei
membri di entrambe le organizzazioni, o quantomento non quelli più importanti per il contesto della
difesa (Francia, Regno Unito, Germania, Italia e Spagna), sarebbe più che lecito, anzi encomiabile, lo
sviluppo autonomo in ambito UE di tali capacità. È
diverso invece il caso attuale.
Le recenti iniziative UE in forza di reazione rapida, rifornimento in volo, cyber-security, pooling
and sharing richiamano quelle della NATO.
Inoltre, tale duplicazione, per quanto inutile, non
sarebbe neanche eccessivamente rilevante dal punto di vista economico, fatto presente che gli asset a
disposizione sono sempre gli stessi, sia che si
parli di NATO che di UE. In ogni caso, le capacità
vengono spostate da un framework all'altro in base
alla disponibilità, agli accordi e alle necessità delle
singole entità statali.
Il problema si pone esclusivamente, nell'ottica della
spending review in atto, nel momento in cui l'ipertrofia di queste duplicazioni (basi, centri, personale
e ricerca) incidano fortemente sia sulle reali capacità operative collettive, sia sulle capacità di spesa dei
singoli Stati. Nell’ottica del Consiglio Europeo di
dicembre e sulla spinta della volontà politica di trovare una soluzione alla questione, appare necessario e di primaria importanza, prima ancora di qualunque razionalizzazione o dichiarazione di intenti,
definire chiaramente il ruolo politico della difesa
europea e della NATO all’interno di essa.
Permane infatti il rischio che, nell’ipertrofico processo di duplicazione ancora in corso, le reali capacità operative dei due attori globali siano fortemente compromesse: nel fare tutto e niente, né
l’una né l’altra, nella peggiore delle ipotesi, potrebbero realmente dimostrarsi pronte e decisive come
entrambe credono di essere. ∎
11
EUROPEAN UNION BATTLEGROUP:
CAPACI DI TUTTO, PRONTI A NIENTE
Nati come prima applicazione sul campo della politica di difesa europea, i battlegroup
dell’UE non sono mai stati attivati. Le ragioni di questo stallo sono da ricercare nella
diffidenza degli Stati membri ad affidare le proprie risorse militari a strutture condivise e a sopportarne i costi, nella sovrapposizione con la NATO Response Force, ma
anche nella particolare modulazione dei gruppi: pensati per agire in contesti molto
diversi, per questo stesso motivo appaiono incapaci di incidere in missioni specifiche.
Q
di Enrico Iacovizzi
uando l’esplosione dei conflitti jugoslavi
mise a nudo tutte le lacune della neonata
Politica Estera e di Sicurezza Comune
dell’Unione Europea, divenne necessità impellente dell’Unione dotarsi di strumenti adeguati
che permettessero il perseguimento di quegli obiettivi di sicurezza interna e internazionale sanciti nel
Titolo V del Trattato di Maastricht: questo teatro
mise in luce infatti come l’immagine di una forza
militare europea omogenea e decisiva fosse offuscata da numerose lacune tecnico-operative.
Di fronte a questa situazione, il Consiglio Europeo
di Helsinki del dicembre 1999 decise di porre la
prima pietra di un nuovo concetto di forza di intervento europea, in grado “di schierare nell'arco di
sessanta giorni e mantenere per almeno un anno
forze militari fino a 50-60 mila uomini […] che in
tale contesto dovranno poter fornire formazioni più
ridotte, disposte a mobilitarsi in tempi brevissimi
per situazioni di rapido intervento”. A questa deci-
Il Consiglio Europeo di Helsinki (dicembre 1999)
fissò l’obiettivo operativo di rendere l’UE in grado
di dispiegare in 60 giorni fino a 50-60.000 uomini.
sione seguì nel 2003 l’operazione Artemis nella
Repubblica Democratica del Congo, il primo test
delle capacità istituzionali di pianificazione e intervento rapido europee: in due settimane furono approntati i parametri politico-strategici dell’intervento e fu ufficialmente lanciata l’operazione, il cui dispiegamento totale fu completato in trenta giorni.
La buona riuscita della missione confermò l’orientamento che Francia e Regno Unito avevano adottato pochi mesi prima, durante il vertice di Le Toquet,
impegnandosi a promuovere “capacità europee di
pianificazione e dispiegamento rapido di forze, incluso l’iniziale dispiegamento di forze terrestri, marine e aree in 5-10 giorni”. Un orientamento poi ri© Europae - Rivista di Affari Europei
modulato insieme alla Germania nell’EU Battlegroup Concept e ufficialmente abbracciato dal Comitato Militare dell’UE nel giugno 2004.
Nel 2004 si varò il concetto degli EU Battlegroups, forze più piccole ma autonome, dispiegabili rapidamente per missioni a bassa intensità.
Questo nuovo concetto definiva i battlegroup come
la più piccola forza efficiente, coerente, operativamente autonoma e rapidamente dispiegabile per
operazioni limitate o a bassa intensità o per funzioni
di bridging forces (intervento nelle fasi inziali di un
conflitto prima del dispiegamento di forze più complesse). Organizzati come forze in stand-by che si
alternano su base semestrale, i battlegroup sono
strutturati a livello di reggimento, composti da circa
1500-2500 unità, generalmente suddivisi in una
compagnia di comando, tre compagnie di fanteria e i
relativi mezzi e personale di supporto.
La gestione dei costi del loro mantenimento e della
loro eventuale entrata in azione si basa essenzialmente su due direttrici: i costi comuni sono amministrati secondo il meccanismo di Athena (l’apposito
meccanismo di finanziamento predisposto dall’UE),
mentre i costi individuali si basano sul principio del
“costs lie where they fall”, vale a dire che ogni Stato spende esattamente per le risorse che mette a
disposizione.
Una struttura dunque piuttosto flessibile, che, grazie alla propria rapidità di intervento e autonomia
operativa, potrebbe essere in grado di prevenire
l’escalation di crisi militari ed essere impiegata in
teatri estremamente diversi tra loro, dedicandosi a
un ventaglio di missioni piuttosto ampio e comunque sempre entro i limiti imposti dai compiti di Petersberg: missioni umanitarie e di soccorso, attività
di mantenimento della pace e missioni di unità di
combattimento nella gestione delle crisi. Situazioni
12
DIFENDERE L’EUROPA
I DILEMMI E LE OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
N. 8 - Dicembre 2013
ADUNATA DI ALCUNE UNITÀ AUSTRIACHE PARTECIPANTI ALLO EUROPEAN UNION BATTLEGROUP NEL 2011 (© BUNDESHEER/RUPERT RAUCH)
di questo genere si sono presentate a più riprese da
quando i battlegroup sono divenuti operativi. Basti
pensare all’intervento in Chad/Repubblica Centro Africana nel 2008 per arginare la crisi in Darfur, al terremoto di Haiti nel 2010, alla crisi libica
del 2011, alla recentissima crisi in Mali nel 2013:
eppure non uno solo di essi è mai stato attivato.
Nonostante le molte occasioni in cui avrebbero
potuto essere d’aiuto, come in Africa, ad Haiti e in
Libia, i Battlegroups non sono mai stati attivati.
Le ragioni di tale immobilismo sono spesso rintracciate nella mancanza di chiarezza relativamente alle
condizioni di teatro necessarie affinché i battlegroup possano essere dispiegati. In realtà, come
detto in precedenza, il recinto entro cui i battlegroup possono muoversi è ben definito. Le reali motivazioni che hanno giustificato l’inerzia dei battlegroup fino a oggi sembrano basarsi piuttosto su
quello che dovrebbe essere il loro punto di forza: la
flessibilità. Anziché rendere le forze impiegabili in
tutte le situazioni, tale flessibilità ha generato un
overstretch che non le rende praticamente adatte
per nessuna. Sarebbe come dire: capaci di tutto, ma
© Europae - Rivista di Affari Europei
pronti a niente. Per far fronte a questo paradosso si
è anche proposto di accrescere la flessibilità delle
formazioni, permettendo l’intervento di un solo battaglione anziché dell’intero gruppo. Ma questa proposta rischia di avere effetti deleteri, riducendo ulteriormente l’impatto in caso di intervento, a causa
dell’esiguità delle forze a disposizione.
Esistono poi anche considerazioni economiche. I
costi comuni coprono circa il 10% delle spese totali,
mentre il restante 90% grava direttamente sui bilanci dei singoli Paesi. In un periodo di bilanci della difesa in costante caduta, pare che gli Stati membri siano disposti a considerare l’attivazione dei battlegroup solo a patto che non vengano utilizzati i
propri. A tal proposito non è un caso che nel calendario di rotazione dei gruppi in stand-by da oggi
al 2016 diversi semestri siano ancora scoperti.
Le ragioni dell’inerzia dei Battlegroups risiedono
nella loro conformazione, che li rende poco adatti
a tutto, e alla questione dei costi del loro impiego.
Una terza ragione va ricercata nel costante binomio
UE-NATO. L’Alleanza Atlantica è infatti dotata di
uno strumento in parte simile ai Battlegroup: la NA-
13
EUROPEAN UNION BATTLEGROUP: CAPACI DI TUTTO, PRONTI A NIENTE
Enrico Iacovizzi
curezza si è espressa principalmente in due modi:
da un lato, l’auspicata accelerazione nella cooperazione e trasformazione delle forze armate dei Paesi
membri non ha visto un significativo approfondimento; dall’altro, l’approfondimento della cooperazione interistituzionale tra i Paesi appartenenti
agli stessi gruppi ha visto una realizzazione parziale
e comunque su scala regionale e limitata.
In un’ottica più generale, i battlegroup rappresentano a pieno la costante tensione tra il desiderio di
alcuni Stati di procedere verso un’integrazione spedita della difesa europea e la scarsa volontà di effettuare cessioni di sovranità troppo ampie nel settore, mettendo in luce le tre lacune principali che ostacolano il percorso verso una difesa europea, se
non unitaria, per lo meno integrata: la frammentazione delle diverse forze armate nazionali, i loro
deficit in determinate aree operative, l’assenza di
un impegno concreto da parte di alcuni governi.
RAPPRESENTANTI DELLO EU BATTLEGROUP “EUROFOR” (© MIN. DIFESA)
TO Response Force (NRF). La logica delle NRF si
basa sul principio del “first force in, first force out”:
forze dispiegabili in 5 giorni e sostenibili per 30
Altra ragione dell’inazione dei Battlegroups è la
somiglianza con la NATO Response Force, forza
più collaudata e sostenuta dagli Stati Uniti.
giorni, con interventi estendibili sia nel tempo che
nello spazio e atte a operazioni ad alta e bassa intensità. Le somiglianze con i battlegroup sono
effettivamente molteplici e le due differenze sostanziali sono rappresentate dalla dimensioni superiori della NRF (è organizzata a livello di brigata,
fino a 25 mila uomini provenienti dalle tre armate
principali) e dalla conseguente possibilità di essere
utilizzata per operazioni ad alta intensità. Inoltre, a
differenza di quanto detto per i battlegroup, l’NRF
gode di un elevato grado di standardizzazione
delle certificazioni e dell’addestramento, che ne facilita l’effettiva operatività e interoperabilità. Proprio la somiglianza di queste forze ha probabilmente influito sulle scelte dei Paesi europei, che in ambito NATO possono godere del forte appoggio statunitense e su una più lunga esperienza e migliore coordinamento. La non attivazione dei battlegroup
eviterebbe quindi potenziali sovrapposizioni sul
campo (con tutti i problemi di coordinamento tra
gli interventi che ne sarebbero derivati) e, almeno
in linea teorica, permetterebbe azioni militari più
incisive, anche se a detrimento dell’affermazione
dell’UE sul piano militare.
L’incapacità di delineare una propria identità di si© Europae - Rivista di Affari Europei
Il Consiglio Europeo di dicembre potrà avere un
ruolo significativo in questo senso: avendo
all’ordine del giorno l’efficacia operativa delle forze per “rispondere meglio alle crisi e dispiegare le
capacità necessarie con rapidità ed efficacia” e la
capacità di difesa per “una cooperazione europea
più sistematica e più a lungo termine”, i battlegroup
hanno tutte le carte in regola per divenire un tema
chiave delle discussioni. Ovviamente il risultato è
tutt’altro che scontato,e il clima euroscettico che sta
investendo l’Europa sembra smentire clamorosamente l’ex premier Mario Monti quando diceva che
la crisi spingerà inevitabilmente verso un’ulteriore
integrazione.
La piena attivazione dei Battlegroups potrebbe
essere uno dei temi chiave del Consiglio Europeo
di dicembre, nonostante il clima diffuso anti-UE.
Tenendo a mente il mutare della relazione euroatlantica, la chiave di volta per il successo sarà invece l’affermazione nel consesso di una leadeship
decisa e incisiva, in cui l’Italia, potrebbe giocare un
ruolo di volano, accanto a Germania, Francia, Spagna e Polonia, da tempo impegnati per un rafforzamento della dimensione europea della difesa. ∎
14
SICUREZZA NEI MARI E CONTROLLO
DELLE FRONTIERE: SERVE PIÙ EUROPA
La tragedia di Lampedusa ha rilanciato la necessità di un’azione europea più coerente
per la sicurezza dei mari, il controllo delle frontiere e la gestione delle crisi umanitarie anche nel Mar Mediterraneo. L’UE si è dotata di strumenti quali l’agenzia Frontex,
ma potrebbe migliorare le proprie capacità di promozione della sicurezza marittima.
Un modello può essere la missione EUNAVFOR Somalia, Operazione Atalanta, dispiegata nelle acque del Golfo di Aden per contrastare la pirateria.
L
di Aldo Carone
a più comune vulgata antieuropeista diffusa
oggi un po’ ovunque nel Vecchio Continente
tende a descrivere l’Unione Europea come
un gigante burocratico intento solo ad
occuparsi di questioni economiche e monetarie.
Sebbene in parte questo sia vero, dal momento che
è stata proprio la cooperazione in ambito economico a conoscere i maggiori sviluppi fin dai tempi della
CECA, l’UE non si occupa solo di queste tematiche.
Se riesce solo in misura minore ad incidere in altri
ambiti, quali quello della sicurezza e della difesa,
grandi responsabilità sono da imputare ai governi
nazionali, che ancora oggi preferiscono conservare
le proprie prerogative e competenze sovrane.
Uno dei temi su cui l’Unione Europea potenzialmente potrebbe agire come key-player ed essere più
incisiva rispetto alla somma delle forze dei ventotto
Stati membri è quello che riguarda il controllo delle frontiere. In particolare questa considerazione
riguarda quelle marittime del Mediterraneo, da anni
interessate da fenomeni migratori di notevole portata. La tragedia dei mesi scorsi a Lampedusa ha
sollevato un dibattito attorno alla questione di una
più stretta collaborazione tra gli Stati membri circa
un sistema congiunto di gestione dei confini.
Nel controllo delle frontiere, specie quelle marittime del Mediterraneo, l’azione dell’UE potrebbe
essere assai più incisiva di quella dei suoi membri.
Sotto questo aspetto, una delle problematiche principali, per quanto riguarda il profilo giuridico, è costituita dal fatto che l’Unione è caratterizzata da una
differenziazione di incarichi tra le proprie istituzioni interne e da una divisione di competenze con gli
Stati membri. Come accennato, il fatto che la sicurezza e la difesa del territorio dei Paesi membri siano ancora competenza dei governi nazionali esclude
de facto un possibile intervento di Bruxelles per a© Europae - Rivista di Affari Europei
dottare provvedimenti di tipo comunitario, volti a
garantire una più coerente gestione dei confini.
Affinché questo possa avvenire, occorre che i Ventotto concertino una posizione comune a Bruxelles,
in occasione del prossimo Consiglio Europeo di dicembre.
Il Consiglio Europeo discuterà di solidarietà europea nella gestione dei confini e un maggior impegno dell’UE per garantire la sicurezza nei mari.
La riunione dei Capi di Stato e di governo sarà di
cruciale importanza non solo per ciò che concerne
la Politica Estera di Sicurezza Comune (PESC) e la
Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), ma
anche per quanto riguarda quegli aspetti della sicurezza e difesa non strettamente collegati con queste
due politiche. Infatti, come previsto dall’ordine del
giorno della due giorni di Bruxelles, uno dei temi
che sarà dibattuto è quello concernente lo sviluppo
di una solidarietà europea in merito alla gestione
dei confini e un maggior impegno nel garantire la
sicurezza nei mari.
In riferimento alla sicurezza marittima, garantire
che le rotte oceaniche restino aperte al transito internazionale è un interesse strategico per tutti i Paesi membri dell’Unione. Questo risulta dal fatto che
circa il 90% delle esportazioni europee circola
via mare: contrastare le attività di pirateria diviene
così un imperativo politico, oltre che un investimento volto a tutelare il normale proseguimento delle
attività commerciali da e per l’Europa. Ma il controllo delle tradizionali rotte marittime non è il solo
interesse dell’UE. Infatti, nel prossimo futuro, è prevista l’apertura di nuove rotte che potrebbero avere
importanti implicazioni geostrategiche. L’importanza di una buona gestione dei mari dunque non
finisce con il controllo e la prevenzione legata al
15
SICUREZZA NEI MARI E CONTROLLO DELLE FRONTIERE: SERVE PIÙ EUROPA
Aldo Carone
LA FREGATA KÖLN, IMPEGNATA NEI MARI DEL GOLFO DI ADAN NELL’AMBITO DELLA MISSIONE EUNAVFOR SOMALIA - OPERAZIONE “ATALANTA” (© EUROPEAN UNION)
transito delle merci. Difatti, l’Unione Europea ha
interessi marittimi in tutto il globo e deve essere in
grado di salvaguardarli da qualunque rischio e minaccia a partire dalla pesca illegale, fino alla prevenzione degli incidenti marittimi, del terrorismo, della criminalità organizzata transnazionale e garantendo una sua presenza laddove vi siano dispute
e atti di aggressione tra Stati, legati al controllo dei
mari.
La sicurezza dei mari e delle rotte marittime è un
fondamentale interesse strategico per l’UE. Via
mare transita il 90% dei suoi scambi commerciali.
A tal proposito è importante ricordare quanto l’UE
abbia fatto e stia facendo per garantire più sicurezza
nei mari. Dal punto di vista della prevenzione della
pirateria, la prima missione marittima avviata in
ambito PSDC, denominata EU-NAVFOR Somalia Operation Atalanta, ha avuto e sta avendo ottimi
risultati. Dislocata dal 2008 a largo delle coste somale e nel Golfo di Aden con circa duemila uomini,
questa missione ha fatto registrare un calo degli attacchi a danno delle navi commerciali in transito
dall’Europa e verso l’Europa che si sta attesta attorno a un più che considerevole -95%. La missione è
© Europae - Rivista di Affari Europei
in procinto di essere rafforzata fino al raggiungimento del pieno obiettivo di sconfiggere la pirateria in questa importante area marittima.
La missione navale EU NAVFOR Somalia, dispiegata nel Golfo di Aden, è uno dei casi di successo
nell’azione dell’UE per la sicurezza dei mari.
A partire dal 2006, a seguito dell’inasprirsi della
situazione somala, il numero di atti di pirateria a
danno delle spedizioni commerciali internazionali e
delle forniture di aiuti umanitari è cresciuto in modo esponenziale. Tali atti vengono condotti perlopiù
dalle milizie islamiche per finanziare la lotta contro il governo centrale somalo. L’obiettivo principale delle bande di pirati non è solo quello di impossessarsi delle merci trasportate, ma anche quello di
trattenere il personale di bordo per ottenere un riscatto dalle autorità nazionali di cui la nave presa in
ostaggio batte bandiera: si sono registrati casi di
rapimento durati più di due anni. Le Nazioni Unite
hanno più volte adottato risoluzioni contro questo
fenomeno e sono state avviate molteplici iniziative
internazionali. In questo quadro si inserisce EU NAVFOR Somalia, che è partecipata anche da Stati terzi,
uniti nella menzionata “Operazione Atalanta”.
16
DIFENDERE L’EUROPA
I DILEMMI E LE OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
N. 8 - Dicembre 2013
luppare un approccio strategico di ampio raggio e di
lunga durata.
I tentativi di incrementare le capacità civili
dell’Unione non mancano. Ed uno di questi è
senz’altro riscontrabile nel lavoro dell’Agenzia
Frontex, creata a tutti gli effetti nel 2005 al fine di
garantire un controllo congiunto delle frontiere europee attraverso i Border Guard Teams (EBGT) e
Rapid Border Intervention Teams (RABIT), a sostegno delle forze nazionali. L’elevato expertise di
questa agenzia ne sta facendo un partner affidabile
da coinvolgere sempre di più nelle operazioni PSDC.
Non è infatti un caso che sia stata strettamente as-
Il ruolo dell’Agenzia Frontex dovrebbe essere integrato in modo più coerente nelle strategie di
sicurezza e di politica estera dell’Unione..
IL LOGO DELLA MISSIONE EU NAVFOR SOMALIA (© EU, EEAS)
Ma il contrasto della pirateria commerciale e finalizzata ai rapimenti non è la sola azione che legittima
EU NAVFOR. Da quando è stata avviata, essa è riuscita infatti a far giungere a destinazione il 100%
delle spedizioni del Programma Alimentare Mondiale (WFP) e ha condotto numerosi salvataggi in
mare di navigli in difficoltà.
Al fine di divenire un attore credibile per quanto
riguarda la sicurezza dei mari, l’UE necessita quindi
di sviluppare un approccio strategico, coerente,
funzionale e che tenga in considerazione il rapporto
tra costi, benefici e risultati raggiunti. Partendo dal
successo di EU NAVFOR, è dunque possibile che al
Consiglio Europeo di dicembre venga dato mandato
di stilare una Strategia di Sicurezza Marittima
(EU MSS), che possa stabilire una serie di obiettivi
per accrescere presto il peso e l’impegno dell’UE
come security provider a livello globale.
In linea con la sua tradizione di potenza civile, la
credibilità europea però non potrà misurarsi solo in
termini militari. L’UE dispone infatti di una forza
civile che bilancia in pari misura le sue forze militari, se non addirittura le supera in termini qualitativi.
La maggior parte delle operazioni condotte in ambito PSDC è infatti di tipo civile: tuttavia anche in questo settore l’UE soffre di considerevoli problemi di
capacità. Non è infatti un segreto che l’UE soffra di
carenze di personale civile di alto livello e che lo
staff inviato dagli Stati membri costituisca una sorta
di palliativo da utilizzare di volta in volta e caso per
caso. Questo aspetto tuttavia non permette di svi© Europae - Rivista di Affari Europei
sociata alla missione EUBAM Libya, con la quale
l’Unione Europea sta cercando attivamente di coadiuvare le autorità del Paese nord-africano nella
difficile gestione dei confini dopo l’instabilità del
2011. Ma anche Frontex ha i suoi problemi. Diverse
accuse, infatti, le sono state mosse da ONG come
Human Rights Watch, oppure dal Consiglio Europeo
sui Rifugiati e dal Consiglio d’Europa, che hanno rilevato come essa applichi metodi che molto spesso
contravvengono a quanto previsto dalla Convenzione di Vienna del 1951 sullo status dei rifugiati. Inoltre, un’altra accusa rivolta a Frontex concerne i supposti scarsi risultati nel bacino del Mediterraneo, dove a fasi alterne, soprattutto a causa dei fenomeni politici nel vicino mondo arabo, si registrano
periodi di intensa attività migratoria non regolamentata.
Una maggior coerenza tra la più generale PESC e le
attività specifiche di Frontex, insieme anche
all’ausilio di Interpol, è dunque la rotta che occorre
seguire affinché l’Europa non resti solamente un
affare per economisti ed esperti di finanza. Il Consiglio Europeo sarà dunque di fondamentale importanza, al fine di fornire quegli impulsi nazionali utili
a creare un’Unione Europea con maggiori competenze in materia di sicurezza e difesa, a cominciare dallo sviluppo di maggiori capacità da impiegare
a difesa dei propri confini e nel garantire la sicurezza delle principali rotte marittime internazionali. ∎
17
L’EUROPA E L’ECONOMIA
DELLA DIFESA
Il mercato europeo della difesa è ancora fortemente frammentato, a causa degli interessi nazionali dei singoli Stati membri e della strenua presa dei governi nazionali
sulle proprie piccole industrie nazionali. Un mercato integrato della difesa dell’UE avrebbe tuttavia numerosi vantaggi: sfruttamento di economie di scala, più possibilità
per le PMI, maggior leva negoziale con gli attori terzi. Occupazione, ricerca e sviluppo,
indotto: il settore della difesa continua ad avere importanti ricadute economiche.
L
di Gianluca Farsetti
’integrazione economica è un processo di
lungo termine, che prevede la firma di uno
o più accordi di cooperazione che stabiliscano obiettivi economici comuni. Secondo
l’economista ungherese Bela Balassa, tale processo
è caratterizzato da un graduale e costante abbattimento delle barriere tariffarie e non tra i Paesi firmatari dell’accordo. Nel caso dell’Unione Europea
siamo ormai giunti a un mercato comune per ventotto Stati: i Paesi europei hanno gradualmente dato
vita a un mercato economico unico, caratterizzato
da una libera circolazione di capitali, lavoro, beni e
servizi. Tuttavia, alcuni settori sono stati relativamente esclusi da questo processo e uno di questi è
quello di sicurezza e difesa. Quest’ultimo, infatti,
risponde ancora a dinamiche abbastanza peculiari,
principalmente riconducibili a interessi prettamente nazionali.
Di fatto, la difesa è rimasta esclusa dalla costruzione
del mercato unico, poiché considerata un settore
troppo delicato per essere “condiviso” o “integrato”.
Tale tendenza sta mostrando ormai i propri limiti,
soprattutto alla luce di un contesto economico molto particolare. Una crisi economica che non sembra
finire tende a ridurre le spese militari da parte di
quasi tutti i Paesi occidentali e, quando le spese vengono autorizzate, sono viziate da sprechi e duplicazioni che potrebbero essere evitati. Dal 2001 al
2010 la spesa europea in sicurezza e difesa è scesa di quasi 60 miliardi (da 251 a 194), mentre gli
investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) nel medesimo settore hanno subìto un calo del 14%.
In un contesto di crisi economica, gli Stati europei
hanno operato tagli alle spese militari. Dal 2001 al
2010 la spesa militare UE è scesa di 60 miliardi.
Per avere un’idea di come si comportano i competitor, basti considerare che gli Stati Uniti spendono
© Europae - Rivista di Affari Europei
sette volte tanto per R&S di quanto spendono i ventotto Paesi europei. Inoltre, secondo alcuni analisti,
sarebbe necessario incrementare gli investimenti
nel settore militare, e non diminuirli. In primo
luogo a causa di un panorama internazionale che si
sta rinnovando: le relazioni tra gli Stati sovrani
stanno cambiando e con esse anche le minacce che
questi devono affrontare.
L’industria militare europea impiega circa
400.000 lavoratori, 960.000 attraverso il suo indotto. Il giro di affari è di 300 miliardi di euro.
Una seconda ragione è costituita dal rilievo economico che il settore di difesa e sicurezza può avere:
secondo i dati della Commissione Europea,
l’industria militare impiega direttamente circa
400.000 lavoratori, con un indotto di altri 960.000,
per un giro di affari di oltre 300 miliardi di euro.
Basterebbero questi numeri per far capire che non è
decisamente il momento di lasciarsi andare a considerazioni di carattere nazionalistico, le quali producono ulteriore divisione in un mercato che dovrebbe
essere più integrato, e nemmeno iniziare una battaglia politica contro le spese a favore della difesa e
della sicurezza.
Conseguentemente, gli Stati europei, se vogliono
rimanere competitivi economicamente e pronti a
ogni evenienza militare, dovrebbero agire in modo completamente diverso rispetto a quanto avviene oggi. Tuttavia, un PIL praticamente immobile, se
non in calo, e un elettorato generalmente contrario
ad ingenti spese nel settore militare sono i motivi
che spingono i governi verso una spesa minore e
inefficiente. Infatti, invece di condividere i costi in
modo da ottimizzare l’esborso economico e mantenere il ritmo di altre grandi potenze come Stati Uniti
e Cina, gli Stati europei preferiscono mantenere un
mercato inefficiente che porta, nel lungo e nel bre-
18
DIFENDERE L’EUROPA
I DILEMMI E LE OPPORTUNITÀ DELLA DIFESA EUROPEA
N. 8 - Dicembre 2013
SETTEMBRE 2013: CARRI ARMATI ESPOSTI ALLA INTERNATIONAL DEFENCE INDUSTRY EXHIBITION (© MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS OF THE REPUBLIC OF POLAND).
ve periodo, a maggiori spese e sprechi. La stessa
Commissione Europea in alcuni documenti pubblicati recentemente ha affermato che, nel caso in cui i
Paesi europei continuassero tale “strategia individuale”, non sono e non saranno in grado di sviluppare e mantenere le adeguate tecnologie e capacità
militari che il panorama odierno richiede. Per questa ragione, le istituzioni europee stanno cercando
di mettere in pratica un piano d’azione su più punti,
con l’obiettivo di rendere il mercato militare europeo più integrato, efficiente e competitivo.
Le “strategie individuali” seguite finora dagli Stati
membri hanno realizzato un mercato imperfetto
e una spesa militare sempre minore e inefficiente.
Innanzitutto, la Commissione, in una comunicazione
al Parlamento Europeo del luglio 2013, afferma la
necessità del settaggio di standard europei e di un
sistema di certificazione per i prodotti dell’industria militare. Economicamente parlando, l’assenza
di standard di produzione e di un sistema di certificazione è un vero e proprio collo di bottiglia per
l’intero settore, poiché porta a un incremento del
costo e del tempo di sviluppo rispettivamente del
20% e 50%. Inoltre, l’imposizione di standard e certificazioni assicurerebbe l’interoperabilità tra le
forze armate degli Stati europei, oltre che tra UE e
NATO.
© Europae - Rivista di Affari Europei
In secondo luogo, le direttive 2009/81 e 2009/43
(il cosiddetto “defence package”), se recepite uniformemente, dovrebbero porre le basi legali per la
regolamentazione del settore della difesa. L’obiettivo è incoraggiare la concorrenza intra-europea e
aprire i mercati degli Stati membri. La presenza di
ostacoli al commercio intra-europeo limita fortemente la nascita di un vero mercato unico per la difesa, tanto che, ad oggi, circa l’80% degli investimenti sono ancora effettuati a livello nazionale.
Per di più, la presenza di ventotto diversi mercati
nazionali non permette alle industrie di sfruttare le
economie di scala. Le complesse barriere ai trasferimenti intra-comunitari di materiale relativo al settore difesa scoraggiano poi il commercio intraeuropeo, colpendo soprattutto le Piccole e Medie
imprese (PMI), che si trovano alla base della supply
chain.
La Commissione Europea si è fatta portavoce delle esigenze di realizzare un mercato unico della
difesa, per ragioni economiche e di sicurezza.
Si calcola la presenza di circa 1320 PMI in questo
settore in Europa, che, in totale, sono responsabili
della vendita di una buona percentuale di beni del
settore militare (tra 11 e 17%). Secondo la Commissione stessa, questi ostacoli al commercio intraeuropeo, che si concretizzano in barriere legali o
19
L’EUROPA E L’ECONOMIA DELLA DIFESA
Giuseppe Farsetti
amministrative, possono costare 32 miliardi di euro all’anno.
In terzo luogo, la riduzione della domanda a livello
europeo sta gradualmente aumentando la dipendenza dell’intero settore dalle esportazioni verso
Paesi terzi. Tuttavia, non tutti i mercati sono accessibili: quello americano, per esempio, è di fatto chiuso ai concorrenti, e questo esclude una buona fetta
dell’intero mercato mondiale.
Altri mercati, al contrario, sono ancora sfruttabili, e
tra questi troviamo quelli dei Paesi emergenti tra
cui Cina, Russia, India, ma anche Singapore, Brasile e Turchia. Questi ultimi, infatti, stanno controbilanciando la riduzione della domanda europea,
tant’è che tra il 2011 e il 2015 è previsto un incremento del 6,8% della domanda mondiale.
Tuttavia, le capacità negoziali di un mercato molto
frammentato sono relativamente più basse rispetto
a quelle di un mercato eventualmente integrato e
sotto un’unica bandiera. Per esempio, se analizziamo le percentuali di import ed export di armamenti
a livello globale, si nota immediatamente che, se
presi singolarmente, i Paesi europei (Francia, Gran
Bretagna, Italia e Germania) detengono percentuali
trascurabili. Al contrario, se sommati, costituiscono
una quota a livello globale, quantomeno nell’export,
di una certa rilevanza (14% nel 2012, con un picco
del 27% nel 2007). Perciò, una maggior integrazione potrebbe aumentare le capacità negoziali e di
accesso ai mercati esteri, controbilanciando il calo
della domanda interna.
Il settore della difesa offre enormi potenziali di
crescita, nonostante la progressiva riduzione della
domanda europea nel corso degli ultimi anni.
In conclusione, da un punto di vista puramente economico, il settore difesa e sicurezza ha enormi potenziali di crescita. Tuttavia, la scarsa integrazione
del mercato europeo provoca un’inefficiente allocazione delle risorse disponibili e conseguenti fallimenti di mercato. Per tutte queste ragioni, considerata l’impossibilità di competere a livello nazionale,
la Commissione e gli Stati membri dovrebbero incamminarsi verso un rapido processo d’integrazione. In caso contrario, assisteremo ancora a sprechi e duplicazioni che provocano perdite per miliardi di euro. ∎
DATI SIPRI. I DATI RELATIVI ALL’UE SONO L’AGGREGATO DELLE PERCENTUALI
DI REGNO UNITO, FRANCIA, GERMANIA E ITALIA
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GLI AUTORI
Antonio Scarazzini
Direttore di Europae e membro del comitato direttivo dell’Associazione Culturale OSARE Europa. Laureato magistrale in Scienze Internazionali e Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino, con
una tesi di ricerca sul programma Joint Strike Fighter. Ha partecipato al corso di formazione per analisti di Equilibri.net. Specializzato in difesa e in politiche monetarie e fiscali. In questo numero: “Tra ideali
e portafoglio, il dilemma della difesa in Europa”.
Luca Barana
Vice-Direttore e Vice-Presidente del Consiglio di Redazione di Europae. Laureato magistrale in Scienze
Internazionali e Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi sulla politica di cooperazione allo sviluppo e sulle relazioni interregionali dell’Unione Europea in Africa. Specializzato in
politica, azione esterna e cooperazione allo sviluppo dell’UE. In questo numero: “La storia e la struttura
internazionale della politica di sicurezza e difesa”.
Giuseppe Lettieri
Redattore di Europae. Laureando in Scienze Internazionali e Global Studies presso l'Università degli
Studi di Torino. Durante l’Erasmus in Norvegia ha svolto ricerche sull’evoluzione della dottrina Petraeus inerente la couterinsurgency in Iraq e Afghanistan. Specializzato nella politica europea di sicurezza
e difesa. In questo numero: “NATO e UE: complementarietà o concorrenza?”.
Enrico Iacovizzi
Redattore corrispondente da Bruxelles. Laureato magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche
presso la Facoltà Roberto Ruffilli di Forlì con una tesi sull’evoluzione delle relazioni esterne dell’UE e
sul suo ruolo di potenza civile globale. Vive e lavora a Bruxelles. Specializzato in relazioni esterne e
nella dimensione politica e istituzionale della difesa comune europea. In questo numero: “European
Union Battlegroup: capaci di tutto, pronti a niente”.
Aldo Carone
Redattore di Europae. Laureato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi
sulla politica europea di sicurezza e difesa. Ha studiato presso la London School of Economics and Political Science, l’ISPI e l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali. Studia Relazioni Internazionali all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Specializzato in sicurezza e difesa europea e relazioni UE-USA. In questo numero: “Sicurezza nei mari e controllo delle frontiere: serve più Europa”.
Gianluca Farsetti
Redattore di Europae. Studente presso di Relazioni Internazionali presso l’Università LUISS Guido Carli
di Roma. Appassionato di politica estera e diplomazia. Specializzato nella dimensione di sicurezza e
difesa della politica estera europea.
In questo numero: “L’Europa e l’economia della difesa”.
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I numeri precedenti
Numero 1, Aprile 2013
“L’Unione Europea e la nuova corsa all’Africa”
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Numero 2, Maggio 2013
“Ulisse e Zheng He. Unione Europea e Cina
sulla rotta del mondo nuovo”
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Numero 3, Giugno 2013
“La camera bassa. Il Parlamento Europeo
tra Lisbona e il 2014”
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Numero 4, Luglio 2013
“L’Europa dei 28. La Croazia rilancia il
sogno europeo dei Balcani”
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Numero 5, Settembre 2013
“Kaiserin Angela? Merkel verso la
riconferma, l’Europa aspetta”
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Numero 6, Ottobre 2013
“Alle porte dell’UE. L’immigrazione
e la frontiera meridionale”
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Numero 7, Novembre 2013
“Alleanza inevitabile? L’America
del debito, l’Europa del rigore”
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