Il film - Logo del comune
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COMUE DI LECCO LECCO CITTA’ DEL MAZOI 2009 Ermanno Olmi insignito del Premio alla Carriera “Alessandro Manzoni - Città di Lecco” 2009 Cinema Palladium giovedì 8 ottobre ore 21 IL MESTIERE DELLE ARMI Regia e sceneggiatura Ermanno Olmi, fotografia Fabio Olmi, musica Fabio Vacchi, montaggio Paolo Cottignola, scenografia Luigi Silvio Marchione, costumi Francesca Sartori, interpreti e personaggi Hristo Jivkov (Giovanni dalle Bande Nere), Sergio Grammatico (Federico Gonzaga, duca di Mantova), Dimitar Ratchov (Luca Antonio Cuppano), Sasa Vulicevic (Pietro Aretino), produzione Luigi Musini, Roberto Cicutto per Cinema Undici , Rai, Studio Canal, distribuzione Mikado, origine Italia, Francia, Germania, 2001 durata 105 minuti. Il film racconta in una sorta di flash-back gli ultimi giorni di Giovanni de’ Medici, chiamato ‘Giovanni dalle Bande ere’, considerato da alcuni come ultimo vero ‘Capitano di ventura’, cioè comandante di formazioni relativamente esigue, anche se disciplinate, prima dell’avvento massiccio dell’artiglieria nella pratica di guerra. Può considerarsi una sfida, ma di quelle che premiano, la visione della nuova pellicola di Ermanno Olmi. La prima parte, infatti, per chi non è così avvezzo alla storia da cogliere al volo collegamenti e dinamiche, risulta davvero indigesta. Ed è curioso e molto personale il modo con cui Ermanno Olmi racconta gli ultimi giorni di vita del capitano di ventura Giovanni de’ Medici. Non c’è una progressione tradizionale degli eventi e uno snodo lineare dei personaggi, ma lo spettatore viene a trovarsi all’interno di frammenti storici e stati d’animo che solo attraverso una visione paziente e priva di aspettative trovano una risposta. La seconda parte chiarisce i punti oscuri e, pur se raggelata dalla negazione di qualsiasi coinvolgimento, arriva a colpire per l’assoluta originalità e bellezza della messinscena. Alcuni momenti sono davvero emozionanti e forti. Come il flashback che accosta la passione del fugace incontro con la nobildonna di Mantova al dolore dell’inutile operazione con cui i medici cercano di guarire il protagonista amputandogli la gamba incancrenita. Alla riuscita del film contribuiscono sicuramente la bellissima fotografia di Fabio Olmi e la meticolosa cura scenografica e dei costumi. Ma quello che più colpisce è il controllo della regia. Nulla è lasciato al caso e appartiene a un progetto che riesce ad essere comunicativo attraverso la perfetta coordinazione degli strumenti cinematografici. E alla fine si esce dal cinema con la sensazione di essere stati testimoni di un punto di vista prezioso. Forse proprio per la sua non conformità ai ritmi e ai tempi imposti dal mercato che, soprattutto se si parla di guerra e battaglie, tendono a condannarla dopo averla magnificata a livello visivo. Ne Il mestiere delle armi la magnificenza c’è, ma altrove. Luca Baroncini in www.spietati.it [….] Il mestiere delle armi narra la passione e morte di Giovanni de’ Medici, la storia dei tradimenti subiti (da parte di Federico Gonzaga e Alfonso D’Este) e dei mutamenti intervenuti nell’arte della guerra, da lui concepita secondo regole non più in vigore. Alla maestosa bellezza dello scambio di sguardi tra i due soldati prima dello scontro decisivo, quasi un commiato da un’epoca, si contrappone la frettolosa, meccanica risoluzione del conflitto con il colpo di falconetto che ferisce a morte il giovane capitano, cui succede l’immagine del generale tedesco stanco e malato, costretto ad abbandonare l’impresa. Le varie letture critiche de Il mestiere delle armi, nel tentativo di approssimarsi allo splendore delle immagini, alla loro malinconica bellezza, hanno suggerito paralleli con famose opere pittoriche o cinematografiche, o le une e le altre insieme. Per la pittura si sono chiamati in causa i nomi più disparati, da Paolo Uccello a Piero della Francesca per le battaglie; passando poi a un’intera pinacoteca di pittori 1 cinquecenteschi per gli interni e i ritratti, da Moretto a Savoldo, i fiamminghi, Lotto, Tiziano. Quanto al cinema, i riferimenti spaziano dall’Ejzenstejn della maturità (Aleksandr evskij, Ivan il Terribile) al Tarkovskij di Andrej Rublev e al Bresson di Lancelot du Lac. Certo può essere suggestivo il parallelo tra la fusione del falconetto nel Mestiere e quella della campana in Rublev; tra i paesaggi innevati in Ejzenstejn e quelli di Olmi, tra la ritrattistica cinquecentesca e i primi piani dell’Aretino o di Federico Gonzaga. Ma nessun riferimento sarà mai risolutivo se non si coglie il disegno d’insieme dell’opera che lo assorbe e in cui viene amalgamato. La bellezza di questo film ha qualcosa di indefinibile, non è cioè circoscrivibile, limitabile a singoli aspetti. Ne Il mestiere delle armi si giustappongono, già a partire dal prologo tre dimensioni. C’è prima di tutto la dimensione ‘mitica’, originaria, che è quella del “mestiere delle armi”, evocata nel titolo e messa immediatamente in campo nell’immagine del guerriero dal volto coperto, della selva delle lance, di un mondo cavalleresco percepito per lo più dallo sguardo di un bambino: essenziale è in questo senso lo scambio di campi-controcampi tra la sagoma di Giovanni, lato e maestoso sul suo cavallo, e il volto di un bambino che lo osserva tra il fogliame di un bosco. C’è poi la dimensione ‘storica’, in tutte le possibili accezioni del termine. E’ la dimensione del succedersi degli eventi, dei fatti, gli intrighi della politica, i tradimenti. C’è infine la dimensione ‘fenomenologica’, quella dei comportamenti, dello sguardo quotidiano sulle cose che accadono: il dolore, lo stupore, le passioni, il tempo atmosferico, il succedersi delle stagioni. Olmi accosta queste tre dimensioni: le fa “trascorrere”, una accanto all’altra, evitando la finzione realista della loro fusione, rifiutando la mistificazione dell’affresco a tutto tondo. Le tre dimensioni si costituiscono come campi di forze contigue, in tensione fra di loro. Egli evita parimenti la riduzione del tutto alla dimensione puramente fenomenologica, che è presente e ha un’importanza costitutiva, ma non è mai fine a se stessa. La dimensione fenomenologica è quella dei silenzi, degli interrogativi, degli sguardi assorti: Giovanni nel lettuccio da campo, in una pausa dopo la battaglia, lo sguardo ansioso della dama senza nome, ma anche la solitudine della carne corrotta della cancrena. Da questo punto di osservazione la dimensione della storia appare oscura, tortuosa, lontana dalla purezza originaria del mito, ma anche dalla concretezza e dalle evidenze del quotidiano. Antonio Costa “Il mestiere delle armi” in Ermanno Olmi (a cura di Adriano Aprà) Marsilio. [….] Il mestiere delle armi si offre alle verifiche della storia; o meglio, indaga alcuni modi possibili mediante i quali la storia può riverberarsi nel cinema e addirittura rivivere in esso. Da tale punto di vista Olmi non si cura di certi aspetti biografici del personaggio (ad esempio la sua crudeltà), né di inquadrare la vicenda generale secondo tesi, e tuttavia l’evocazione verso cui inclina non è di specie poetica soltanto, ma tende a una sorta di fusione. Voglio dire che il regista, pur riservandosi il privilegio di un osservatorio tutto personale, si abbandona nel medesimo tempo a una durata affatto diversa da quella storiografica comune; una durata che si misura sulla materia resistente, sui luoghi, e da questi sui sentimenti essenziali. Come Rivette nella Giovanni D’Arco recuperava il senso dell’epoca senza nascondere il mezzo, e scommetteva da un lato sulla immutabilità del paesaggio, dall’altro sulla metafisica bressoniana, così Olmi interroga la stasi argentea delle superfici dell’acqua, i profili notturni delle torri merlate, le foschie che posano leggere sulla pianura, per riandare al passato con la sensibilità del presente. Non c’è nulla di nuovo in uno sguardo che somiglia a quello degli antenati e dei posteri ma il suo valore suggestivo dipende dallo stile, cioè da una scelta coerente di tonalità, il cui scopo è toccare lo spettatore nel profondo: quanto la superficie esibisce gli attributi dello scontro guerresco tanto la decantazione individuale finisce per imporsi come un tormentoso delirio, un flusso solitario di coscienza. Così il sentimento selvaggio della guerra e la sua tumultuosa messa in scena, lasciano man mano trasparire un sommesso clima di compianto e l’attenuarsi di ogni suono, fino a comporre un’altra rarefatta partitura; ciò mentre resta visibile, quasi sontuoso, il contrasto con una iconografia di raffinata ‘esibizione’ cinquecentesca – farei per tutti i nomi del Moretto, del Savoldo – e fiamminga. Sembrano radicate in Olmi due eredità squisitamente lombarde: quella del Manzoni – più duratura e canonica – e quella frammentaria, ma ossessiva, che conserva e trasmette l’incubo della brutalità lanzichenecco: non aveva forse Lorenzo Lotto vestito i carnefici di Santa Barbara coi panni dei saccheggiatori ingaggiati da Carlo V? [….] Tullio Masoni in “Cineforum” n° 406 luglio 2001. 2
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