I FILM - Cineforum del Circolo

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I FILM - Cineforum del Circolo
I FILM
MY BEAUTIFUL LAUNDRETTE
N
L A TRAMA
ella comunità pakistana di Londra, l'anziana madre di Omar raccomanda al più fortunato suo fratello Nasser - ricco, attivo, con
famiglia e amante - l'unico figlio Omar. Lo zio lo assume come
lavamacchine, poi, convinto dalle attitudini del nipote, lo prende a ben
volere: il giovanotto è pieno di idee, propone di assumere lui la gestione
di una vecchia lavanderia del congiunto, mette insieme un pò di soldi (all'uopo fa anche il corriere della droga tra il quartiere e l'aeroporto), riammoderna locali e macchinari e comincia ad andar benino. Gli è socio in
affari Johnny, un compagno di infanzia che è un gay come lui e che per
lui e quel lavoro smette di fare il balordo da suburbio in una combriccola
di teppistelli e picchiatori....
Titolo originale: My Beautiful Laundrette
Regia: Stephen Frears
Anno: 1985
Durata: 97 min
Sceneggiatura: Hanif Kureishi
Fotografia: Oliver Stapleton
Montaggio: Mick Audsley
Musiche: Ludus Tonalis
Scenografia: Hugo Luczyc-Wyhowski
Con: Gordon Warnecke, Daniel Day-Lewis,
Saeed Jaffrey, Roshan Seth
P REMI
National Board of Review Awards 1986: miglior attore non protagonista
(Daniel Day-Lewis)
R ASSEGNA STAMPA
C’era una volta la British Film Renaissance. Se ne è parlato in convegni,
rassegne, articoli di giornale cercando di afferrarne la consistenza effettiva
e una possibile coerenza di temi e di stile. È stata indicata come un esempio
di cinema europeo in alternativa al dominio americano, esattamente come era stato fatto negli anni settanta
per il Nuovo Cinema Tedesco. Si è giunti a descrivere Channel 4 con accenti edenici, come la “televisione
che lavora per il cinema”.
Tutto vero e anche motivato. Ma oggi, a metà dei 1987, mi sembra che quella stagione (non chiamiamolo movimento, perché non corrisponderebbe comunque a verità) sia giunta alla fine, per esaurimento naturale. E che
My Beautiful Laundrette ne rappresenti l’ultimo e più felice prodotto, quello che riunisce le migliori caratteristiche produttive, stilistiche e tematiche della British Film Renaissance. Produttive: l’impegno finanziario di
Channel 4, l’abilità di Sarah Radclyffe (un nome che si trova nei credits di molti dei migliori film inglesi degli
ultimi anni), del regista e dei suoi tecnici nello sfruttare al massimo un budget non elevato. Stilistiche: un cinema di sceneggiatura e di attori, in cui la parola e i dialoghi hanno altrettanta importanza delle immagini, ma
sempre capace di evitare le trappole dei teatro filmato. Tematiche: un’acuta analisi della realtà sociale, osservata
con humour e ironia, un atteggiamento provocatorio (si parla di gay e di razzismo come fatti quotidiani, non
come “problemi”) e insieme attento ai sentimenti. Non è un caso che a firmare questo piccolo gioiello non sia
un “grande”, ma Stephen Frears, quello che comunemente viene definito un “onesto artigiano”.
In realtà Frears ha vissuto tutte le tappe che hanno portato all’esplosione della British Film Renaissance e My
Beautiful Laundrette si presenta perciò come il logico risultato di un processo creativo cominciato molto tempo
fa. Dopo l’inevitabile tirocinio teatrale e alcune esperienze come aiuto-regista al fianco dei santoni del Free
Cinema (Reisz, Anderson, Albert Finney) Frears esordisce nel lungometraggio a trent’anni, nel 1971, con
Gumshoe.Gumshoe è ancora oggi un film molto bello, una brillante parodia dei film noir classico con un grandissimo Albert Finney come protagonista. Poi televisione per otto anni: e negli autori della British Film Renaissance l’importanza dei tirocinio alla BBC non sarà mai sopravvalutata. Un film-tv del 1979, Bloody Kids,
troverà poi anche una limitata circolazione nei cinema, così come il successivo Saigon: Year of the Cat (1983).
Ma Bloody Kids (che narra le peripezie di una coppia di ragazzi terribili nei sobborghi londinesi) è importante
per notare la felice mano di Frears nella descrizione dei temi sociali (il Free Cinema è morto, ma non dimen33
ticato).
Tentato dalla grande produzione multinazionale Frears si presenta a Cannes nel 1984 con il patinato The Hit,
altra incursione nel film noir. Il prodotto è ben confezionato, godibile ma innegabilmente “inglese” nel senso
negativo del termine. Il resto è storia recente: la proposta dell’“impossibile” sceneggiatura di Hanif Kureishi,
la realizzazione di My Beautiful Laundrette, la presentazione al festival di Edimburgo, l’enorme successo del
film in patria e in tutto il mondo.
“Oggi come oggi tutto è talmente orribile che se si scrivesse dei puro realismo sociale la gente non riuscirebbe
neanche ad avere la forza di guardarlo”, ha dichiarato Kureishi in un’intervista. Qual è dunque il segreto della
riuscita di My Beautiful Laundrette, poiché, senza dubbio, quello che viene messo in scena è realismo sociale:
le divisioni di classe, la questione razziale, il sesso come mezzo per ottenere il successo? La risposta, probabilmente, non sta tanto in una formula teorica o di genere, ma in quell’impalpabile qualità che è l’incontro di
due talenti personali. Alcune considerazioni sono però da farsi, a cominciare dall’amoralità del film.
Siamo stati abituati da una tradizione hollywoodiana e inglese ad aspettarci, quando c’è di mezzo la denuncia
sociale, il melodramma, gli eroi, lo scontro del bene e del male. In My Beautiful Laundrette non c’è niente di
tutto questo. Lo sguardo di Frears e Kureishi è disincantato al limite del cinismo, a cominciare dalla storia
d’amore tra Omar e Johnny. Nel rapporto omosessuale tra i due non c’è il minimo senso di dannazione o di
problematica “diversità”: semmai, solo l’ironia della deliziosa scena dell’inaugurazione della lavanderia,
quando Nasser e l’amante ballano rapiti mentre nel retro i ragazzi si baciano. Sembra che nella Gran Bretagna
thatcheriana i concetti di moralità e di giustizia siano solo il retaggio di un lontano passato, quello del padre
di Omar, vecchio intellettuale di sinistra dedito irrimediabilmente alla bottiglia. Peraltro anche questo personaggio, egli stesso autoironico nei confronti della sua condizione di relitto della storia, è caratterizzato con
mano felicissima: deliziosa la scena in cui Omar (e il pubblico con lui) crede che il padre sia morto e ne viene
invece sbeffeggiato. Siamo negli anni ottanta e non c’è morte o catarsi che tenga: e se parliamo di purificazione
è solo perché abbiamo a che fare con una lavanderia a gettone...
In questa prospettiva la figura di Omar costituisce un’interessante variazione sul motivo dell’arrampicatore
sociale, un soggetto ben noto al cinema inglese a cominciare dal Joe Lampton di Room at the Top. Il ragazzo
non ha alcuna di quelle connotazioni sgradevoli che di solito si associano alla figura dell’arrivista. È semplicemente qualcuno che ha imparato la lezione secondo cui funziona tutto il resto della società: il suo rapporto
di amore-sfruttamento nei confronti di Johnny è esemplare. Questa relazione è la cartina di tornasole di tutto
il film. Oltre che trasgressiva, essa si fonda su un rovesciamento dei ruoli consueti: è l’immigrato a detenerne
il potere e questo consente a Johnny di poter assumere a un certo punto gli imprevedibili panni dei moralista,
quando si accorge che Omar assomiglia sempre di più a Salim. La posizione di Omar riflette evidentemente
quella di Hanif Kureishi: membro di una nuova generazione dell’immigrazione, sfruttato-sfruttatore del sistema, e abbastanza intelligente da capire che la scintilla della ribellione non cova più tra la sua gente, ma può
brillare all’improvviso dalle strane alchimie etniche e sociali di un paese in crisi irreversibile. Se gli ideali
sono morti con la mercificazione della vita, resta almeno la speranza di un progresso che nasca dal rispetto reciproco degli individui.
La società descritta da My
Beautifut Laundrette è un organismo nel quale il ribaltamento
hegeliano
dei
rapporto servo-padrone si è
completamente realizzato.
Mentre i disoccupati inglesi
ciondolano per le strade
senza futuro, i pakistani prosperano con ogni tipo di attività lecita e illecita. La
legge dei commercio, che
non guarda in faccia a nessuno, parla in loro favore.
My Beautiful Laundrette
mostra con arguzia il modo
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in cui le due culture si sono compenetrate e il prezzo pagato dai pakistani di successo per inserirsi. Nasser, che
a casa sua replica con inerzia le strutture arcaiche della famiglia patriarcale,mantiene un’amante bianca che è
insieme uno status symbol e una relazione sincera. Salim si circonda dei più costosi oggetti dei consumismo
occidentale ed è proprio sulla sua macchina che gli ex compagni di Johnny sfogano il loro livore razzista. Nello
stesso Omar la fascinazione per l’amico sembra originare dalla medesima radice da cui scaturiva l’amore di
Sakamoto per il David Bowie di Furyo. Le vere vittime di questo stato di cose sono, come sempre, le donne:
Rachel, abbandonata da Nasser e perseguitata dal malocchio procuratole dalla legittima consorte dell’amante;
quest’ultima, che per tutto il film appare come una figura remota e disancorata, salvo dimostrare alla fine di
possedere arcani poteri perfettamente funzionanti anche nella Londra contemporanea; ma soprattutto Tania, il
personaggio più triste della storia. Disgustata dal cinismo del padre, incapace di guadagnare Omar alla sua rivolta, Tania è il segno di una disillusione profonda, di un acuto disagio generazionale. Se, alla fine del film, i
due ragazzi - in una bellissima, pudicissima scena d’amore - hanno almeno ancora se stessi, Tania è una dropout
senza alternative.
È notevole che nella sua complessa trama di incidenti e relazioni My Beautiful Laundrette non perda mai di
vista i suoi personaggi, che risultano sempre perfettamente a fuoco e ben delineati, sempre ambiguamente in
bilico tra la condizione di vittima e quella di persecutore. Lo fa con il tono di una commedia acre che non diventa mai grottesca, ancorché alcune sequenze (come l’inaugurazione della lavanderia) vi si prestassero fin
troppo facilmente. Frears, come già in Bloody Kids, va a cercare un’impertinente evidenza che sta nelle cose
come sono, senza lasciare spazio alla satira e concedendone piuttosto - con grande senso drammatico - al sentimento. È questo un aspetto del film che è stato sottolineato con enfasi anche da Kureishi: “Uno dei problemi
degli scrittori di colore è che spesso vengono misurati a seconda della rabbia che mettono nelle loro opere. È
come se non si potesse fare a meno di essere arrabbiati. Si è sempre detto di James Baldwin che era arrabbiato
e pieno di furore: mentre nessuno lo chiede a Saul Bellow. È una trappola preparata dai bianchi per la gente
di colore, una trappola in cui questi ultimi sono felici di cadere. È accaduta la stessa cosa alle femministe - e,
ovviamente, è tutto falso”.
Dalle parole di Kureishi si intuisce una deliberata intenzione di non inasprire i motivi più controversi dei soggetto a livello di sceneggiatura e di realizzazione, ma c’è un altro aspetto della questione che è stato raramente
preso in considerazione. My Beautiful Laundrette, come tanti altri film inglesi degli ultimi anni (a cominciare
da Another Time, Another Place), non è stato girato in primo luogo per il cinema, ma per la televisione. E se
è consolante notare con quanta disinvoltura il film regge la presentazione sul grande schermo, un occhio attento
non può fare a meno di accorgersi che i tempi e il montaggio del film sono tipicamente televisivi.
Tutto questo ha sicuramente una spiegazione storica, a partire dalla grande tradizione della BBC (in epoca
pre-Channel 4) nel campo degli sceneggiati a sfondo sociale. Tanti registi della British Film Renaissance si
sono fatti le ossa in questa “accademia”, tanto più valida delle tristi rincorse RAI alle demenzialità berlusconiane. Quello che però stupisce - e che forse alla fine resterà come la lezione più duratura della British Film
Renaissance - è la trasformazione pressoché indolore (e al di là di ogni teorizzazione linguistica) del codice di
comunicazione televisivo in codice di comunicazione cinematografico. Fenomeno, questo, che meriterebbe
di essere investigato più a fondo dal punto di vista del pubblico: che differenza (e che diversità di aspettative)
c’è tra gli spettatori del piccolo schermo che si vedono programmare My Beautiful Laundrette in una qualsiasi
serata di trasmissione e la massa di quelli che ne hanno decretato il successo dovunque è uscito? A meno di
pensare, come sembra fare qualcuno, che siano omosessuali...
In questa prospettiva non è una sorpresa leggere che il film era stato progettato all’inizio come “qualcosa di
simile a Il padrino”, un miniserial di quattro ore la cui storia si sarebbe svolta dal 1945 al giorni nostri. My
Beautiful Laundrette ritiene parte di questo impianto di grande saga familiare per il piccolo schermo e in una
forma che sembra proprio incontrare il gusto dei pubblico cinematografico. Le piccole storie che si intrecciano
intorno alla lavanderia “Powders” non si sviluppano regolarmente, secondo i dettami della trama cinematografica classica, ma quasi per accumulo, per somma di tante notazioni, un po’ come le vicende delle interminabili sitcom. Lo stesso finale, pur così preciso e delicato, è talmente sottotono che ci potremmo aspettare di
rivedere Omar e Johnny in una prossima, ipotetica puntata.
La felicità creativa di My Beautiful Laundrette indica uno dei modi in cui il cinema europeo potrebbe trovare
la sua autonomia dal colosso americano: con una maggiore attenzione per la realtà sociale e con una rielaborazione intelligente del linguaggio televisivo. Una formula apparentemente semplice, così come “semplice”
è, in fin dei conti, il film di Frears. Ma, come ben si sa, sono sempre le cose semplici a essere le più difficili.
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S TEPHEN A RTHUR F REARS
Studiò al Gresham’s School ed al Trinity
College della Università di Cambridge.
Abbandonati gli studi di giurisprudenza,
inizia a collaborare con il Royal Court
Theatre di Londra. Dopo varie regie televisive, esordisce sul grande schermo
nel 1972 con Sequestro pericoloso, film
con Albert Finney ricco di citazioni del
noir classico. Il film ha scarso successo
e Frears riprende il suo lavoro di regista
televisivo, tornando al cinema solo nel
1979 con Bloody Kids.
La stampa e la critica si accorgono di lui
nel 1984 quando realizza Vendetta, e l’anno dopo arriva anche il successo di pubblico con My Beautiful Laundrette, storia di una relazione omosessuale e interrazziale sullo sfondo di una lavanderia a gettone della periferia
londinese. Il film, realizzato per Channel 4, è tratto da un romanzo dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi, con il quale Frears collabora nuovamente nel 1987 per Sammy e Rosie vanno a letto.
A questo punto anche Hollywood si accorge di lui e lo chiama per realizzare la costosa trasposizione in costume
del romanzo Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Il suo film si trova involontariamente a dover
competere con Valmont, tratto dallo stesso romanzo e girato nello stesso periodo da Miloš Forman, ma grazie
al cast più prestigioso (composto da John Malkovich, Glenn Close e Michelle Pfeiffer) e al budget più alto,
riesce ad attirare maggiore pubblico.
Seguono, sempre negli Stati Uniti, altri successi quali Rischiose abitudini, per il quale viene candidato all’Oscar
come migliore regista nel 1991, Eroe per caso e Due sulla strada.
Dopo il meno fortunato Hi-Lo Country, western anticonvenzionale girato nel 1998, con Alta fedeltà Stephen
Frears ritrova le atmosfere british portando sullo schermo l’omonimo romanzo di Nick Hornby. Sempre nel
Regno Unito sono ambientate le sue successive realizzazioni, tra cui Piccoli affari sporchi, una via di mezzo
fra thriller e denuncia sociale ambientata ancora una volta sullo sfondo di una Londra multietnica, e Lady Henderson presenta, commedia sugli impresari che lanciarono il nudo a teatro nell’Inghilterra bombardata dai nazisti, che si aggiudica il Golden Globe per il miglior film commedia o musicale.
Regista ironico e provocatorio, nel 2006 lancia la sua sfida più ardua affrontando tra mille difficoltà di lavorazione il mito intoccabile della monarchia britannica. L’establishment inglese negherà alla produzione il permesso di girare la pellicola nei luoghi reali, ma The Queen - La regina sarà caparbiamente portato a termine.
Il risultato è un ritratto intimista e disincantato della regina Elisabetta II e di tutta la famiglia reale, radiografata
con uno stile cronachistico, quasi televisivo (ma in origine il film era destinato proprio alla TV), nelle contraddizioni tra immagine istituzionale e pettegolezzi privati nei giorni della vicenda della morte di Lady Diana
Spencer.
Il film, presentato in anteprima a Venezia, fa guadagnare alla protagonista Helen Mirren una meritatissima
Coppa Volpi e l’anno successivo un Oscar alla miglior attrice.
FILMOGRAFIA
Sequestro pericoloso (Gumshoe) (1972)
Bloody Kids (1979)
Vendetta (The Hit) (1984)
My Beautiful Laundrette (1985)
Prick Up - L’importanza di essere Joe (Prick Up Your Ears) (1987)
Sammy e Rosie vanno a letto (Sammy & Rosie Get Laid) (1987)
Le relazioni pericolose (Dangerous Liaisons) (1988)
Rischiose abitudini (The Grifters) )1990)
Eroe per caso (Hero) (1992)
The Snapper (1993)
Mary Reilly (1996)
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Due sulla strada (The Van) (1996)
Hi-Lo Country (The Hi-Lo Country) (1998)
Alta fedeltà (High Fidelity) (2000)
Liam (2000)
Piccoli affari sporchi (Dirty Pretty Things) (2002)
Lady Henderson presenta (Mrs. Henderson Presents) (2005)
The Queen - La regina (2006)
Chéri (2009)
Tamara Drewe - Tradimenti all’inglese (Tamara Drewe) (2010)
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THIS IS ENGLAND
L
L A TRAMA
uglio 1983. Shaun ha 12 dodici anni, vive con sua madre, suo padre
è morto nella guerra delle Falkland. A scuola è vittima del bullismo
ed è considerato da tutti un perdente, proprio in questo periodo turbolento, Shaun si trova sempre più isolato dal resto dei giovani ragazzi e
passa le giornate alla spiaggia praticamente solo. Dopo l'ennesimo litigio a
scuola, dovuto al suo abbigliamento ritenuto da sfigato con i pantaloni a
zampa di elefante, Shaun incontra un gruppo di skinheads che sembrano
non curarsi dei suoi vestiti. Grazie a loro troverà degli amici veri che lo faranno sentire parte di qualcosa e il coraggio che gli è sempre mancato...
P REMI
Titolo originale: This Is England
Regia: Shane Meadows
Anno: 2006
Durata: 101 min
Sceneggiatura: Shane Meadows
Produttore: Mark Herbert, Louise Meadows, Julia Valentine
Produttore esecutivo: Peter Carlton, Will
Clarke, Lizzie Francke, Hugo Heppell,
Kate Ogborn
Fotografia: Danny Cohen
Montaggio: Chris Wyatt
Musiche: Ludovico Einaudi
Scenografia: Mark Leese
Costumi: Jo Thompson
Con: Thomas Turgoose, Stephen Graham,
Jo Hartley, Andrew Shim,Vicky McClure
Festival Internazionale del Film di Roma 2006: premio speciale della giuria
2 British Independent Film Awards 2006: miglior film, miglior esordiente
(Thomas Turgoose)
Premi BAFTA 2008: miglior film britannico
Festival di Mons 2008: miglior film europeo
R ASSEGNA STAMPA
Il gruppo è molto coeso nonostante sia formato da ragazzi e ragazze appartenenti a diverse sottoculture del periodo. Il gruppo è formato da Woody
(skinhead), Lol (skingirl/sort), Smell (new romantic), Gadget (skinhead),
Milky (rude boy), Pukey (street skinhead), Kelly (skingirl), Pob (rude girl),
Kes (herbert) e Trev (skingirl).
Durante una festa a casa di Gadget, torna in città Combo, che è stato in prigione per 3 anni, per riprendersi il posto di capo banda portandosi dietro Banjo, un suo compagno di galera;
purtroppo quando era dentro Combo ha frequentato alcuni skinhead nazisti che lo hanno convinto ad accogliere
l’idea razzista e nazionalista del National Front inglese. Combo inizia immediatamente ad istigare i giovani
del gruppo al razzismo dando brevi lezioni di vita e pronunciando discorsi sulla supremazia dei bianchi rispetto
agli altri popoli, specialmente i neri. Milky, di origine giamaicana, si sente offeso e questo porta alla divisione
del gruppo, nonostante i tentativi di Lol e Woody di mantenere uniti gli amici cercando di allontanare alcuni
di loro, i più giovani soprattutto, dalle ideologie nazionaliste di Combo.
Una volta diviso il gruppo, Combo inizia l’indottrinamento di Shaun seguito da Gadget, Banjo, Meggy e Pukey.
Quest’ultimo, dopo un discorso tenuto da un rappresentante del National Front, ha un violento diverbio con
Combo a causa della sua impossibilità a condividere idee razziste. Quindi Pukey abbandona il gruppo di skinheads tornando tra i vecchi amici.
Ma Combo non demorde, oltre a riappropriarsi della leadership degli skinhead cittadini vuole riavere il suo
vecchio amore, Lol, che dopo la carcerazione di Combo è diventata la fidanzata di Woody. Nel frattempo
Combo organizza anche dei raid contro gli immigrati, pakistani in particolare. La vita di Combo crolla dopo
l’ennesimo rifiuto di Lol, invita Banjo, Meggy, Gadget, Shaun e Smell e, con lo stratagemma di voler comprare
della marijuana da Milky, lo fa entrare in casa sua. Gadget si sente male dopo aver fumato la marijuana, e
viene accompagnato fuori da Smell. Durante la festa, Combo capisce che la sua vita è un totale fallimento, soprattutto dopo che Milky gli descrive il suo rapporto coi familiari e le feste passate in famiglia. Combo perde
la testa, aggredisce brutalmente Milky e lo riduce in fin di vita. Nella stessa occasione picchia anche il suo
compare Banjo e caccia in malo modo Meggy e Shaun. L’unico che rimane nell’appartamento è il piccolo
Shaun, che assiste a tutta la scena in lacrime.
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In seguito vediamo la madre che rincuora Shaun sulle condizioni di Milky, fortunatamente non morto. Le immagini alla TV fanno intuire la fine della guerra delle Falkland. Shaun torna sulla spiaggia dove passava i pomeriggi da solo e getta nel mare la bandiera con la Croce di San Giorgio regalatagli da Combo.
Recensione
Siamo nel 1983 e un montaggio che ritrae Roland Rat, Margaret Thatcher, il cubo di Rubik, il matrimonio
reale tra Carlo e Diana, i disordini per le strade e gli skinhead scorre sullo schermo accompagnato dagli accordi
in levare dello ska. Questa sequenza di immagini all’inizio del film introduce il contesto di una nazione in
guerra soprattutto contro se stessa.
This is England è la storia di un gruppo di skinhead di una piccola e deprimente città costiera inglese ambientata
sullo sfondo della guerra delle Falklands. Il film uscì in Inghilterra nel 2006 ma solo nell’estate del 2011 è
stato distribuito nei cinema italiani. Lo stesso regista, Shane Meadows è stato in passato uno skinhead inglese
che ha frequentato la scena musicale Oi! dei primi anni ’80 e il National Front per poi tirarsene fuori. Come
nei suoi film precedenti, Meadows, si concentra sulla natura e l’origine della violenza e del bullismo nella società attuale. Uno degli aspetti chiave del film è proprio la proposta di considerare tra le esternalità negative
della guerra anche la generazione di violenza sul piano interno. In soldoni più che di un film sugli skinhead si
tratta di un film sugli anni di merda del thatcherismo.
La violenza dei giovani, le armi, le gang, gli accoltellamenti, per Meadows sembrano essere un riflesso della
profonda violenza di uno Stato classista che sponsorizza le sue guerre. Dai media del periodo i giovani con le
Doctor Martens ai piedi e la Ben Sherman sul petto furono accusati di terrorizzare la Gran Bretagna nei primi
anni 80. Questo film tenta anche di ristabilire un giudizio equilibrato e fornire una lettura alternativa di questo
fenomeno culturale. La percezione che se ne ricava è che si sia trattato della generalizzazione di una cultura
abbracciata da individui diversi e per molte ragioni diverse. La moda, la musica e la voglia di ribellione hanno
attratto diverse tipologie di giovani anche se fu solo la violenza e il tentativo di aggregarli da parte del National
Front a catturare i titoli dei giornali.
Le cose più meritevoli del film, a nostro avviso, sono la regia, la recitazione e ovviamente la colonna sonora.
Il personaggio principale, Shaun, è interpretato da Thomas Turgoose, 13 anni. Prima di questo film la cosa più
vicina al recitare che abbia mai fatto è stata quella di essere scartato per il ruolo di comparsa in una recita scolastica. Turgoose ci regala una performance incredibile. Lo stesso approccio low profile con il resto del cast dà
al film una grande sensazione di autenticità. Non ci sono attori famosi, ad esclusione forse di uno. Le scene,
le case, i vestiti sono perfettamente progettati per ricreare la vita di una piccola cittadina inglese del periodo,
e ci riesce pienamente con tutto il suo grigiore. Si vede che Meadows deve essere debitore a un certo Ken
Loach.
Il tredicenne Shaun è un ragazzino solitario che cresce con la mamma in questa deprimente città costiera. Il
padre è morto nella guerra delle Falkland e Shaun viene costantemente preso di mira dai bulli della scuola.
Così si imbatte in un gruppo di skinhead che decide di prendere le sue parti. Presto diventa un membro della
gang a tutti gli effetti. Gli
skinhead gli mostrano una
vita di feste e concerti nello
spirito original del ’69. C’è
gerarchia, ma c’è anche amicizia, sensibilità e una forma
di solidarietà. Possiamo vedere come i comportamenti
anti-sociali siano un riflesso
della loro posizione subalterna all’interno di una società classista, impari e senza
speranza nel futuro creata dal
thatcherismo. Tuttavia questa
atmosfera è ulteriormente rovinata dal ritorno di Combo
dal carcere. Più grande degli
altri e apertamente razzista,
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Combo, divide il gruppo cercando di traghettare la banda verso la militanza nel Fronte Nazionale. Con la disintegrazione della cultura della working class, la disoccupazione, il decadimento, diventa facile vedere come
l’alienazione degli individui possa cedere alla retorica del nazionalismo sciovinista che in quegli anni (ma ancora oggi) incolpa gli immigrati per i problemi economici e sociali di un’intera società. Shaun viene così catturato dal razzismo e dal teppismo propugnato dal National Front. Molto bella e significativa la scena che ritrae
la gang prendere parte in uno squallido pub all’incontro con il National Front dove l’oratore politico si presenta
in periferia con i suoi abiti eleganti a bordo di una Jaguar. Un’altra delle scene chiave è quando Combo viene
respinto da una ragazza per un amore non corrisposto. In un certo senso il regista ci chiede di considerare il
suo razzismo anche come il prodotto di una serie di insicurezze radicate in un’infanzia difficile o in un disagio
psicologico.
Questo dà l’impressione di essere un po’ una scappatoia perché, come sappiamo, il razzismo e il fascismo non
sono prodotti di malattie mentali o traumi infantili ma il risultato delle profonde divisioni di classe di una
società nella quale la gente di fronte a un futuro incerto e a una povertà implacabile e dilagante cerca delle
spiegazioni semplici. La rappresentazione cinematografica del razzismo e del fascismo è sempre stata un terreno
difficile. Per rimanere agli ultimi anni, Romper Stomper in qualche modo ha glorificato il razzismo neonazista.
American History X, per quanto dichiaratamente anti-razzista, ha decontestualizzato totalmente il fascismo.
Questo film non ripete totalmente gli stessi errori, è un film difficile e scomodo e costringe a riflettere.
Nel frattempo dall’altra parte dell’oceano ci sono le Falkland. Una manciata di piccole isole di scarso valore
che sono diventate il punto di riferimento della politica estera per due capi di stato che cercano di uscire dalla
loro impopolarità. Con i lavoratori in piazza a Buenos Aires e oltre tre milioni di disoccupati in Gran Bretagna
la guerra rappresenta un’opportunità sia per Galtieri che per la Thatcher di riprendere il controllo sulla classe
operaia.
Come Meadows ha fatto notare, relativamente alla propria esperienza personale, non è stata solo l’alienazione
della working class ad aspirarlo dentro il Fronte Nazionale. Questa atmosfera velenosa fu certamente aiutata
dallo sciovinismo della Thatcher ma come ha reagito la sinistra inglese durante quel periodo? Alcuni britannici
si sono schierati per la riconquista delle Falklands e altri con gli antimperialisti argentini e altri ancora sono rimasti passivi. Quando osserviamo che buona parte della sinistra di oggi sostiene o ha sostenuto più o meno
criticamente l’attacco a Gheddafi da parte dei ribelli e della Nato sembra che non abbiano imparato niente
nemmeno da quella lezione. Si tratta della cancellazione dei principi cardine della classe operaia a partire da
quello dell’internazionalismo. Per quanto ci riguarda preferiamo di gran lunga la cultura di ribellione della
working class, di cui anche gli skinhead original erano parte.
Fonte: http://www.militant-blog.org
LA QUESTIONE DELLE FALKLAND
Le Falkland sono un gruppo insulare che sorge sulla stessa piattaforma
continentale della Patagonia a E dello Stretto di Magellano, dal cui imbocco di levante dista 500 km. Costituiscono una colonia britannica rivendicata dall’Argentina; capoluogo Stanley (2115 ab. nel 2006). Il
gruppo è formato da due isole maggiori ( o Gran Malvina e o Soledad)
separate dal F. Sound , e da circa 200 isolotti e scogli. La scarsa popolazione, quasi tutta di origine britannica, è dedita all’allevamento (soprattutto ovino) e alla pesca. L’unità monetaria è la sterlina. Più volte
avvistate, a partire dal 16° sec., le F. furono visitate per la prima volta
nel 1690 dall’inglese J. Strong che le intitolò a Lord Falkland, allora tesoriere della marina britannica. I primi coloni, stabilitisi sulle isole nel
1764, erano francesi e le ribattezzarono Malouines; nel 1766 le isole,
cedute dalla Francia alla Spagna, ricevevano il nome di Malvinas. Un
insediamento britannico dello stesso anno veniva ritirato nel 1774 e nel
1811 gli stessi Spagnoli abbandonavano le isole. Negli anni successivi
le F. rimasero disabitate, salvo la presenza temporanea di gruppi di pescatori, ma, dopo l’indipendenza argentina (1816), il governo di Buenos
Aires proclamò la propria sovranità su di esse (1820) e avviò un nuovo
tentativo di colonizzazione. Gli Argentini furono tuttavia espulsi nel 183132, prima da un intervento statunitense poi da una spedizione britannica,
e nel 1833 il Regno Unito prendeva formalmente possesso delle isole,
proclamate dieci anni dopo colonia della Corona. Nel 1966 iniziarono
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negoziati fra Regno Unito e Argentina, che non aveva mai smesso di rivendicare al sua sovranità sulle isole. Le trattative si protrassero per
oltre 15 anni senza risultati soddisfacenti, finché il 2 aprile 1982 truppe
argentine occupavano le isole, il 14 giugno la spedizione militare britannica le costrinse alla resa, con un bilancio di oltre mille morti, soprattutto
argentini (755 contro 250). Dopo la fine della guerra (giugno 1982), Londra conferì agli abitanti delle F. la piena cittadinanza britannica (1983),
potenziando il suo impegno militare a difesa dell’arcipelago. . Successivamente l’Argentina ha sollevato il tema della rivendicazione delle isole
in tutti i maggiori organismi internazionali, raccogliendo in genere ampi
consensi soprattutto da parte di altri paesi del sud del mondo, interessati
a combattere i residui di colonialismo ancora esistenti. Negli anni successivi la Gran Bretagna si rifiutò di riaprire le trattative con il governo
argentino circa la questione della sovranità sulle isole e nel 1985 fu varata una nuova Costituzione delle F. che affermava esplicitamente il diritto dei loro abitanti. all’autodeterminazione. Nell’ottobre del 1989 le
due potenze firmarono a Madrid gli accordi di pace e nel febbr. 1990
riallacciarono relazioni diplomatiche. Attraverso un referendum tenutosi
nel 2013 gli abitanti delle isole si sono espressi con una schiacciante
maggioranza (il 98,8%) a favore del mantenimento del controllo britannico sul territorio.
Fonte: www.treccani.it
SHANE MEADOWS
Figlio di un camionista e di una venditrice di fish and
chips, Shane Meadows (1972) cresce a Uttoxeter nello
Staffordshire. Vive un’infanzia non facile in un ambiente
segnato dalla disoccupazione e dalla delinquenza, lasciando presto la scuola e facendo diversi lavori per mantenersi. A vent’anni si trasferisce a Nottingham dove
realizza un gran numero di cortometraggi; poco più tardi
si iscrive al Burton College, frequentato anche da Paddy
Considine, suo futuro collaboratore in più di una pellicola,
col quale forma la band musicale She Talks to Angels.
Già dai suoi primi corti, una ventina prima dell’esordio
di Small Time (1996), si evince la connessione con la tradizione realista inglese che dal Free Cinema arriva fino alle opere di Ken Loach e Mike Leigh.
Alla Mostra del Cinema di Venezia 1997, il lungometraggio Ventiquattrosette (1997) ne rivela il talento a pubblico e critica, aggiudicandosi inoltre il Premio Fipresci nella sezione “British Renaissance”. Il pugile in là
con gli anni, interpretato ottimamente da Bob Hoskins, che dà una speranza a giovani disoccupati, emarginati
e privi di sogni in una cittadina delle Midlands definisce perfettamente un metodo operativo in cui l’attenzione
al sociale, la capacità di dirigere gli attori, la scelta dei luoghi e delle musiche risultano ottimamente bilanciate.
Come il film precedente anche la storia di gioventù, amicizia e dolore di A Room for Romeo Brass (1999) che segna l’esordio su grande schermo dell’amico Paddy Considine - è scritto insieme a Paul Fraser, coautore
anche del successivo C’era una volta in Inghilterra (2002). Interpretata da Robert Carlyle e Rhys Ifans, questa
terza pellicola ha un tono differente dalle prime due per via di un intreccio che vira più sulla commedia, mettendo in scena un poco di buono tornato nelle Midlands per riconquistare la moglie innamorata di un altro
uomo.
Scritto con Paddy Considine, anche protagonista, e l’apporto di Fraser, il successivo Dead Man’s Shoes - Cinque
giorni di vendetta (2004) è una feroce riflessione sulla violenza e l’affetto fraterno, condotta al limite di più
generi e sensibilità, in cui il contrasto tra il paesaggio che incornicia la vicenda e le folli azioni del militare Richard, deciso a vendicare i torti subiti dal fratello, creano un effetto straniante e difficilmente dimenticabile.
In maniera meno forte, anche il giovane dell’ottimo This is England (2006) è vittima di soprusi da parti dei
coetanei, ne uscirà fuori entrando in contatto con un gruppo di skinhead che lo accoglieranno come loro pupillo
fino a quando il gioco diventerà troppo serio. Nell’Inghilterra del 1983, l’acuto e a tratti benevolo occhio di
Meadows segue il non professionista Thomas Turgoose - faccia tanto giusta da meritarsi un altro lavoro col
regista, il successivo e più modesto Somers Town (2008) - in un cammino di crescita che bordeggia il male,
aprendo squarci poetici, derivazioni nostalgiche e momenti di vera tensione. Considerato il successo di critica,
il film avrà anche uno spin-off televisivo nel 2010, This is England ‘86, ambientato tre anni dopo il racconto
della pellicola, tra ulteriori disagi, divertimento e acuta indagine sociale. Ancora con Paddy Considine come
protagonista, realizza poi Le Donk & Scor-zay-zee (2009), mockumentary girato con pochissimi soldi su un
roadie che lavora per gli Artic Monkeys, deciso a lanciare la carriera di un amico rapper sovrappeso.
Marco Chiani, www.mymovies.it
F ILMOGRAFIA
Small Time (1996) mediometraggio
Ventiquattrosette (24 7: Twenty Four Seven) (1997)
A Room for Romeo Brass (1999)
C’era una volta in Inghilterra (Once Upon a Time in the Midlands) (2002)
Dead Man’s Shoes - Cinque giorni di vendetta (Dead Man’s Shoes) (2004)
Northern Soul (2004)
The Stairwell (2005) cortometraggio di 15 secondi
This Is England (2006)
Somers Town (2008)
Le Donk & Scor-zay-zee (2009)
The Stone Roses: Made of Stone (post-produzione, 2013)
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HUNGER
I
L A TRAMA
l film ricostruisce il trattamento riservato ai prigionieri politici nel carcere di Long Kesh in Irlanda del Nord. Protagonista è Bobby Sands appartenente alla Provisional IRA, che per ottenere il riconoscimento di
prigionieri politici per i membri dell'IRA, organizza uno sciopero della fame
in cui perderà la vita. Oltre allo sciopero della fame furono attuati anche uno
sciopero delle coperte, che prevedeva il rifiuto della tradizionale divisa da
carcerato, e lo sciopero dello sporco, consistente nell'imbrattare le pareti
della cella con escrementi.
Nel film vengono evidenziate la violenza e l'efferatezza con cui le guardie
carcerarie malmenano e torturano i prigionieri, la determinazione e spirito
di sacrificio del protagonista e degli altri prigionieri, che persero la vita lottando per la causa dell'indipendenza....
P REMI
European Film Awards 2008: Prix Fassbinder
Festival di Cannes 2008: Caméra d'or
British Independent Film Awards 2008: Premio Douglas Hickox per il miglior regista esordiente, miglior attore (Michael Fassbender), miglior contributo tecnico (Sean Bobbitt)
R ASSEGNA STAMPA
Titolo originale: Hunger
Regia: Steve McQueen
Paese di produzione: Regno Unito,
Irlanda
Anno: 2008
Durata: 96 min
Sceneggiatura: Enda Walsh e Steve
McQueen
Produttore: Laura Hastings-Smith e Robin
Gutch
Produttore esecutivo: Jan Younghusband, Peter Carlton, Linda James, Edmund Coulthard,
Casa di produzione: Blast! Films
Fotografia: Sean Bobbitt
Montaggio: Joe Walker
Musiche: David Holmes e Leo Abrahams
Scenografia: Tom McCullagh (production
design) e Brendan Rankin (art direction)
Costumi: Anushia Nieradzik
Con: Michael Fassbender, Liam Cunningham
Opera prima del regista britannico Steve Rodney McQueen, Hunger è una
pellicola violenta e viscerale dalla sconvolgente potenza visiva. Articolata
da lenti, chirurgici movimenti della cinepresa, che predilige lunghi piani
sequenza per addentrarsi nell’inferno terreno vissuto dai carcerati nordirlandesi, la storia (vera) non lascia respirare lo spettatore: i detenuti irlandesi
del carcere “Maze” di Long Kesh chiedono lo status di prigionieri politici
mettendo all’opera la “protesta delle coperte” e un radicale sciopero della
fame.
La privazione della libertà dell’individuo viene riaffermata attraverso la libertà di disprezzare e affamare a
morte il proprio corpo. La negazione imposta nel carcere - la negazione di uno status politico, la negazione di
condizioni umane di vita, la negazione della dignità individuale attraverso percosse e violenze - una negazione
che annichilisce la libertà dei soggetti, viene combattuta attraverso un’altra negazione, questa volta scelta autonomamente, che porta i carcerati a riconquistare lo spazio della libertà sottratta attraverso la propria distruzione, attraverso la distruzione del proprio corpo. È, ormai, solamente un orpello debilitante la natura fisica
dei prigionieri di Hunger, un’appendice delle proprie idee che viene mortificata quotidianamente e che solamente nella sua distruzione volontaria, cosciente e libera riacquista la sua natura e funzione venendo tramutato
in uno spazio politico.
La rivolta è capeggiata da Bobby Sands (sullo schermo con il volto e il corpo di Michael Fassbender, attore tedesco naturalizzato irlandese, nell’interpretazione che lo consacra nell’Olimpo dei più promettenti interpreti
del presente), introdotto come protagonista solo oltre la metà della pellicola, mentre prima restava sullo sfondo
come uno dei tanti prigionieri lasciando che la camera di McQueen seguisse le vicende legate al celerino Raymond e al neodetenuto Davey Gillen che sprofondava in un pasoliniano girone di sangue e merda. Tre personaggi, tre momenti dentro una violenza feroce che non lascia scampo né speranza alcuna.
Numerose sono le scene di Hunger da inserire nei memorabilia cinematografici, ma per questo film non c’è
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miglior copertina del dialogo di Sands con il prete: più di 20 intensi minuti di cui 17 ripresi in un unico emozionante piano sequenza e i restanti con un montaggio serrato in cui, nel suo cuore vivo, si apre l’unico momento
dialogico e dialettico di un’opera incentrata su mute opposizioni, su confronti che non portano mai a un oltrepassamento dell’opposizione che separa, ma che schiacciano gli individui nella loro identità. Faccia contro
faccia, muro contro muro, morte contro morte. Quello che dal duro dialogo tra Sands e il prete emerge è la decisione tanto definitiva quanto tragica: 75 detenuti inizieranno uno sciopero della fame fino alla morte, ognuno
a due settimane di distanza dal precedente, Sands sarà il primo. Una lunga catena di morte ancorata alla ricerca
di un riconoscimento.
In una malata e umana Imitatio Christi il protagonista attraversa la sua personale e silenziosa passione senza
incontrare il parusiaco avvento della liberazione finale, senza poter arrivare a mondare l’originale peccato dell’essere (se stessi).
Il regista McQueen dirige la sua opera d’esordio, un gioiello invisibile che la distribuzione italiana ci offre a
distanza di quattro anni dalla sua uscita, con assoluta maestria e padronanza del mezzo cinematografico, insinuandosi nelle crepe di una realtà cruda e violenta, e con sapienza bressoniana riesce a reggere il trapasso della
dimensione storica e corale di “Hunger” in quella della tragedia individuale attraverso una virtuosa narrazione
ellittica. Non è poco, ma non è abbastanza per rendere merito a questa pellicola che colpisce lo spettatore come
un pugno allo stomaco, come un’aggressione selvaggia che non può lasciare indifferenti. Uscito nello stesso
2008 che ha visto il natale anche d’un altro interessante biopic carcerario, il Bronson di Refn, Hunger impone
il dovere di fare attenzione al più che talentuoso Mr.Steve McQueen che replicherà l’eccellente prova registica,
ma rovesciando il discorso, con Shame (presentato in concorso alla 68.ma Mostra d’Arte Cinematografica di
Venezia, 2011) dove il protagonista (ancora una volta Fassbender) giovane, bello e ricco nella New York dalle
infinite possibilità si richiuderà nella prigione del proprio corpo.
Simone Pecetta, www.ondacinema.it
S TEVE R ODNEY M C Q UEEN
Artista, regista e sceneggiatore inglese. Nato a Londra nel 1969,
McQueen ha studiato al Chelsea College of Art and Design e al Goldsmiths College; lasciato quest’ultimo nel 1993, ha frequentato la Tisch
School di New York.
Tra le sue prime pellicole, Bear (1993) e Deadpan (1997). Nel 1999,
con la sua mostra di sculture e fotografie presso la London Institute of
Contemporary Arts, si è aggiudicato il Turner Prize. Nel 2007 espone
le proprie opere alla 52° Biennale di Arti Visive di Venezia.
Nel 2009 espone nuovamente alla 53° Biennale di Arti Visive di Venezia, all’interno del padiglione britannico, proponendo un film che vede
protagonisti proprio i Giardini di Venezia (dove si tiene appunto parte
dell’esposto della Biennale), visti nel periodo meno chiassoso, evidenziando perciò la discrepanza tra i sei mesi che ogni due anni vedono
quella zona protagonista, e i rimanenti diciotto, dove rimane la desolazione.
McQueen si è fatto conoscere a livello internazionale quando, nel maggio 2008, il suo film Hunger ha partecipato in concorso al 61° Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard; la pellicola è stata premiata con
la Caméra d’or per la miglior opera prima.
McQueen vive e lavora in Gran Bretagna. Lui e il popolare attore Steve McQueen (1930 – 1980), sebbene clamorosi omonimi, non sono legati da alcun rapporto di parentela.
Il regista che lo ha più influenzato è Jean Vigo.
F ILMOGRAFIA
Hunger (2008)
Shame (2011)
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SEGRETI E BUGIE
S
LA TRAMA
obborghi di Londra. Hortense, trentenne borghese di colore, alla
morte della madre adottiva decide di scoprire chi sia la sua vera
madre. Scoprirà con molta sorpresa che si tratta di Cynthia, sfiorita
operaia bianca che vive con sua figlia ventenne Roxanne. La misera vita
di Cynthia è allietata solo dalle visite che le fa il fratello Maurice, fotografo
sposato ma senza figli. Dopo l'incontro, tra le 2 donne piano piano nasce
una profonda amicizia...
P REMI
1997 - Golden Globe- Miglior attrice in un film drammatico a Brenda Blethyn
1997 - Premio BAFTA- Miglior film britannico
1996 - Festival di Cannes - Palma d'Oro a Mike Leigh, Miglior interpretazione femminile a Brenda Blethyn, Premio della giuria ecumenica a Mike
Leigh
1997 - Premio Goya - Miglior film europeo a Mike Leigh
1997 - Nastro d'argento - Migliore regia a Mike Leigh
Titolo originale: Secrets & Lies
Regia: Mike Leigh
Anno: 1996
Durata: 142 min
Soggetto: Mike Leigh
Sceneggiatura: Mike Leigh
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: Jon Gregory
Effetti speciali: Dave Smith
Musiche: Andrew Dickson
Scenografia: Eve Stewart
Con: Brenda Blethyn, Timothy Spall,
Phyllis Logan, Claire Rushbrook,
Marianne Jean-Baptiste, Lee Ross,
Ron Cook
RASSEGNA STAMPA
Dramma psicologico raccontato con lucida freddezza, una rappresentazione
del dolore priva di interpretazioni pseudo-psicanalitiche. “Segreti e bugie
sta a Voglia di tenerezza come Full Metal Jacket a Rambo. La cinepresa di
M. Leigh riceve i personaggi, non li segue, non li cerca” (S. Danese). Ottimi
interpreti sui quali spicca B. Blethyn (premiata a Cannes dove il film vinse
la Palma d’oro), la madre, nota attrice teatrale inglese che fatica un po’ a
controllare il suo talento di mattatrice. Premiato anche in GB, Australia,
Francia, USA, Giappone e Spagna.
Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film, 2013
«Così è la vita», esclama Cynthia felice.
Verrebbe da dire che gli uomini e le donne di cui mostra le storie sono piccoli uomini e piccole donne. Ma si
sbaglierebbe, e per due motivi. Intanto, si supporrebbe che davvero gli uomini e le donne si potessero misurare.
E poi, nei suoi personaggi Leigh trova e indica una grandezza che nessun metro, sociale o culturale, riuscirebbe
mai a contenere. Con la stessa passione di Ken Loach, ma con un sorriso più disteso, Leigh osserva gli uomini
e le donne quotidiani, quelli che per lo più il cinema ignora o, peggio, falsifica. Lo si chiamerebbe realismo,
questo modo di guardare, se non fosse per quel poco o tanto di presunzione programmatica che l”‘ismo” implica. Diciamo allora che il regista inglese usa la macchina da presa come, in Segreti e bugie, Maurice usa la
macchina fotografica. Con passione e simpatia, Maurice se ne sta ben al di qua dell’obbiettivo: non sostituisce
i suoi occhi a quelli dei soggetti che ne sono al di là. È attento a non violare le loro vite. Per lui sono e restano
appunto soggetti, non oggetti. D’altra parte, gli capitano troppo vicine, quelle vite di cui per professione fissa
nelle immagini passaggi e sentimenti cruciali: cerimonie, anniversari, legami. Dunque, pur rispettandone gli amori
e gli odi, le passioni e le indifferenze, non rinuncia alla “regia”. Ossia, non rinuncia a proporre e forse solo a suggerire atteggiamenti dei corpi, sguardi reciproci, sorrisi. L’esperienza professionale, la finezza dell’occhio a lungo
esercitata e anche la sensibilità individuale garantiscono l’attendibilità delle proposte e dei suggerimenti. Quei
passaggi e quei sentimenti cruciali, in ogni caso, meritano d’esser migliorati e ritoccati con “gusto estetico”. E
questo non per formalismo o, peggio, per ipocrisia, ma perché, come una fotografia o un film, la vita è anche il
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risultato d’una forma che le viene imposta, d’una regia consapevole, per quel che è possibile.
Che l’ascoltino o che non l’ascoltino, Maurice finisce sempre con l’accettare la scelta di chi sta dall’altra parte
dell’obbiettivo: il suo valore consiste nel fatto che è la loro scelta. Così fa Leigh con i suoi personaggi. Ne descrive le vite, ne fissa sullo schermo i tratti sereni e tristi, generosi e meschini, ma sempre senza sovrapporre
il valore del suo punto di vista a quello del loro. Nel film non c’è mai un giudizio su Cynthia, Roxanne, Hortense, Monica o Maurice. E però non c’è nemmeno una rinuncia cinica alla “regia”. Solo che, per l’occhio di
questa regia appunto, i personaggi non sono oggetti di giudizio, ma soggetti. Tale ibrido felice di rispetto e curiosità vale in Leigh già nel rapporto con gli attori, prima d’iniziare a girare. Da loro s’attende una partecipazione alla “scrittura” dei personaggi che, in Segreti e bugie, ha richiesto un lavoro di conoscenza reciproca
durato sei mesi (sembra però che, per ottenere sul volto di Cynthia lo stupore necessario, fino all’ultimo il regista abbia tenuto nascosto alla bravissima Brenda Blethyn che il ruolo di Hortense sarebbe stato affidato a
un’attrice di colore). Ma è girando che, soprattutto, Leigh fa come il suo Maurice: rispetto ai personaggi, tiene
la macchina da presa sempre a una distanza che sia sufficiente a garantirne l’autonomia e che, insieme, ci consenta però di vederne e sentirne l’umanità. Ne vengono inquadrature per lo più statiche, spesso in campo medio,
dentro le quali si muovono più i sentimenti che i corpi. Splendida è quella, frontale e fissa, del riconoscimento
di Hortense da parte di Cynthia in un bar, e poi ancora quella del pranzo nel giardino di Maurice, con tutti i
personaggi “in relazione” attorno al tavolo, o quella in cui Cynthia abbraccia Monica, chiudendo in un silenzio
eloquente l’odio alimentato per anni. Giù in platea, ci pare d’essere con loro, non d’esserne giudici esterni.
Mai siamo indotti a prendere le parti di qualcuno contro qualcun altro. Mai siamo coinvolti nella cattiva reciprocità del dolore, nel nodo di segreti e bugie con cui si distruggono la vita. E quando Maurice riesce a spingere
la sua “regia fino a scioglierlo, quel nodo, in nome d’una saggezza che suggerisce di condividere il dolore
invece di gettarselo addosso, anche a noi sembra, come a Cynthia, che così davvero possa o almeno debba
essere la vita.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore
Una madre bianca e una figlia nera sono le protagoniste di Segreti e bugie di Mike Leigh, Palma d’Oro e premio
per la migliore attrice all’ultimo festival di Cannes, racconto aspro, amaro ma non disperato dei rapporti in
una famiglia contemporanea e delle perenni menzogne domestiche. è un film bello, che condensa le caratteristiche d’una scuola di cinema inglese unica in Europa, rappresentata pure da Ken Loach o Stephen Frears: l’attenzione realistica, l’interesse analitico per la vita quotidiana della gente non ricca né famosa né criminale che
soffre e non conta; la narrazione mista di dramma e comicità, emozione e commedia, lo stile documentaristico
nutrito e corretto dalla presenza di attori bravissimi; la rinuncia al nichilismo catastrofico, ai finali tragici, alle
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conclusioni azzeranti, a favore di quel dolente andare avanti raro nello spettacolo ma tipico della realtà.
Al centro del film stanno due gran personaggi: un uomo buono, fotografo generoso, protettivo e preoccupato
interpretato da Timothy Spall, al quale è affidato il messaggio essenziale, “Non ne posso più, perché non ci diciamo la verità?”; e la sua sorella maggiore recitata benissimo dalla premiata Brenda Blethyn, madre senza
marito d’una ragazza aggressiva e scontenta, operaia di fabbrica inconsapevole di sé, confusa, ignorante, bugiarda, querula, ricca di coraggio. (...)
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 7/12/1996
M IKE L EIGH E IL CINEMA DEGLI INVISIBILI
Regista britannico. Inserito nel filone del realismo inglese
di cui Ken Loach è il massimo rappresentante, Leigh ha costruito una carriera sulla forza e la temerarietà delle persone
“invisibili”. Ovvero la gente che incontriamo per strada, in
bar e al supermercato, ma che raramente diventa protagonista della società. Leigh li trasforma in personaggi del suo
cinema, mostrandone pregi e difetti, disgrazie e gioie, senza
mai perdere di vista l’onestà del racconto.
Cresciuto in una realtà industriale vicino a Manchester, influenzato dal nonno amante della fotografia, Leigh si trasferisce presto a Londra dove frequenta la Royal Academy
of Dramatic Arts e più tardi la London Film School. Qui studia disegno, pittura, scenografia e recitazione, e
negli anni Sessanta entra a far parte di diverse compagnie teatrali in qualità di attore. Con Bleak Moments
(1971), segna il suo esordio nel mondo del cinema: mostrando le sofferenze e le difficoltà di un gruppo di persone che vivono in un sobborgo londinese, dichiara già la preferenza per la gente comune, e fa una sorta di dichiarazione di poetica. Malgrado gli addetti al settore apprezzino fin da subito le sue qualità (il film vince il
Premio della critica a Venezia), il regista si dedica principalmente alla televisione dove fa una gavetta lunghissima, durata fino al 1988. In questo periodo dirige alcuni cortometraggi (The Five Minuts Film, Knock for
Knock e The Short & Curlies), film tv (Meantime e Four Days in July, entrambi incentrati sull’underclass inglese) e qualche episodio della serie Second City Firsts e di Play for Today.
Dopo un decennio di ingaggi per la televisione, si impone al cinema con Belle speranze (1988), ritratto di
coppie borghesi nell’Inghilterra thatcheriana, e qualche anno dopo con Dolce è la vita (1991). Quest’ultimo
film viene paragonato allo stile di Ken Loach per l’interesse a denunciare i drammi delle classi meno agiate
ma Leigh è senza dubbio più bizzarro, cerca l’eccentricità nelle persone normali per portarla sul grande
schermo. L’amore per ciò che è strano si esprime con genio in Naked (1993), una delle punte più alte toccate
dal suo originale modo di fare cinema: il vagabondare di un ragazzo cinico e solitario per le strade desolate di
Londra rappresenta una parabola esistenziale contraddittoria, bella e anarchica, difficile da assorbire. Premiato
a Cannes per la miglior regia e il miglior attore (David Thewlis), tre anni dopo ritorna al prestigioso festival
francese con Segreti e bugie (1996) e questa volta si aggiudica la Palma d’Oro. Il film è una lucida riflessione
sui rapporti umani, in questo caso di una madre che abbandona la figlia piccola per ritrovarla da adulta e accettarla, non senza difficoltà, nella sua famiglia.
L’anno successivo si dedica a Ragazze (1997), film amaro che guarda allo scorrere del tempo. Anche se considerato minore rispetto agli altri film della carriera, la pellicola è comunque un ritratto sincero, mai edulcorato,
di un’amicizia tra donne e dell’amarezza nel sentire gli anni che passano. Nel 1999 Topsy-Turvy vince l’Oscar
per i migliori costumi e i trucchi, un balzo verso l’America che conferma il talento di Leigh, già apprezzato in
Europa. Il film segna anche una svolta stilistica del regista che abbandona temporaneamente l’aspro realismo
sociale per dare spazio ad un film storico ambientato nella Londra vittoriana.
Riprende in mano i temi a lui congeniali con Tutto o niente (2002), dove racconta le vicende di tre famiglie
che vivono in un palazzone della periferia londinese. Ancora una volta Leigh scrive una storia straziante che
accompagna il pubblico in un mondo sgradevole, fatto di povertà e relazioni sbagliate. Affronta poi con la
stessa forza narrativa il tema dell’aborto ne Il segreto di Vera Drake (2004), vincitore del Leone d’Oro a Venezia, seguito poi da un cambio di rotta, La felicità porta fortuna - Happy Go Lucky (2008), omaggio alla vita
nei suoi aspetti più leggeri, il film più colorato e gioioso della storia cinematografica di Leigh. E non per questo
meno veritiero. Ritorna poi sullo stile del passato, più tragicamente introspettivo, con Another Year (2010),
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storia di un gruppo di diversi ed emarginati, tutti coinvolti nella ricerca di un compagno da amare o tesi al superamento di un lutto traumatico.
Nicoletta Dose
Filmografia
Bleak Moments (1971)
Nuts in May (BBC Play for Today, 1976)
Abigail’s Party (BBC Play for Today, 1977)
Meantime (1983)
Belle speranze (High Hopes) (1988)
Dolce è la vita (Life is Sweet) (1990)
Naked - Nudo (Naked) (1993)
Segreti e bugie (Secrets & Lies) (1996)
Ragazze (Career Girls) (1997)
Topsy-Turvy - Sotto-Sopra (Topsy-Turvy) (1999)
Tutto o niente (All or Nothing) (2001)
Il segreto di Vera Drake (Vera Drake) (2004)
La felicità porta fortuna - Happy-Go-Lucky (Happy-Go-Lucky) (2008)
Another Year (2010
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IN QUESTO MONDO LIBERO...
I
LA TRAMA
nghilterra. Angie, impiegata di un'agenzia di collocamento, non ha
avuto una vita semplice né tanto meno un'educazione e un'istruzione
accurate ma è una ragazza giovane ed energica, dotata di forte senso
pratico, ambizione e coraggio. Ha alle spalle una vita disordinata in cui non
è riuscita a costruirsi un futuro e ha bisogno di dimostrare a se stessa e agli
altri che può farcela da sola, senza l'aiuto di nessuno. Dopo essere stata licenziata per aver reagito ad una molestia sessuale da parte di un facoltoso
cliente, Angie si rende conto che per lei è arrivato il momento di dare una
svolta decisiva alla sua vita. Così, insieme alla sua coinquilina Rose, decide
di aprire una propria agenzia per inserire nel mondo del lavoro i numerosi
immigrati in cerca di un'occupazione.
Titolo originale: It's a Free World...
Regia: Ken Loach
Paese di produzione: Gran Bretagna
Anno: 2007
Durata: 96 min
Soggetto: Paul Laverty
Sceneggiatura: Paul Laverty
Fotografia: Nigel Willoughby
Montaggio: Jonathan Morris
Musiche: George Fenton
Con: Kierston Wareing, Juliet Ellis, Leslaw
Zurek, Colin Caughlin, Joe Siffleet
PREMI
Venezia 2007 Osella d'oro per la migliore sceneggiatura.
R ASSEGNA STAMPA
Inventata dal fido Paul Laverty dopo una lunga inchiesta sul campo, diretta
da Loach, Angie è interpretata dalla sconosciuta Wareing che, se non fosse
stato per la Blanchett di Io non sono qui, avrebbe probabilmente vinto la
Coppa Volpi a Venezia 2007: esemplare recitazione in full immersion, per
empatia. Coerente con sé stesso, il 70enne Loach non ha fatto soltanto un
altro film sull’immigrazione. Il suo tema centrale è il lavoro saltuario a termine, le nuove forme invisibili dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo nel mondo della globalizzazione.
Morando Morandini, Il Morandini2013
Un Ken Loach denso di drammaticità e al limite dell’umanità quello presentato quest’anno al Lido che, nella
sua 64a Edizione, gli conferisce la Menzione Speciale Signis e il Premio Eiuc Human Right Film Awards.
Loach affronta il tema dell’immigrazione, che riassume nella piccola e complicata attività di Rose e Angie impegnate con l’energia e, all’inizio, con il cuore a far decollare una agenzia di lavoro temporaneo che offra “una
possibilità di vita” a numerosi disoccupati. Instancabili e piene di vita, le due ragazze affrontano insieme i piccoli attriti che man mano crescono nel rapportarsi con i lavoratori dell’Est, i salari bassi, i doppi e tripli turni,
gli accampamenti abusivi, le paghe promesse e non consegnate e qualche piccola vendetta, che sfocia nel privato e atterrisce. Parallela a questo strano mondo, le ragazze di Ken Loach vivono la loro amicizia, non semplice
da tenere salda quando si combatte insieme per una causa così delicata. Tutto si muove in Inghilterra, tra
vecchie dimesse e sguardi supplichevoli, dove l’atmosfera grigia e il freddo, percepibile dai volti, fanno tappa
fissa davanti l’obiettivo. Un freddo che, attraverso la macchina da presa di Ken Loach, riesce a trapelare ovunque: “un Paese duro, come lo sono i vostri occhi”, pronuncia Karol, un giovane polacco.
Del mondo a parte di Loach – un’Inghilterra anni nostri - esiste solo quella facciata: come se tutto ciò che ruotasse intorno non fosse mai esistito; tutto il resto… siamo fin troppo abituati a vederlo. È “un mondo libero”
che, per scelta tematica, completa quel quadro registico che lo vede impegnato da anni, nella salda ricerca di
comprensione di ciò che fa da scenario alla sopravvivenza: rabbia, fame e… illegalità. Il film ha la caratteristica
- difficile da trovare in una sintesi così arguta e ben riuscita - di unire tragedia a rapidi e indispensabili scambi
ironici che permettono al ritmo di non scivolare mai nell’appiattimento.
Vera Usai, www.cinemadelsilenzio.it
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In un mondo liberista
Proletari di tutto il mondo dividetevi! Oggi più che mai si potrebbe far ricorso a questa grottesca formula quale
sintesi efficace, per il letale impasto di vecchie e nuove forme di sfruttamento capitalista che vanno assoggettando in misura sempre maggiore il mondo del lavoro, coerentemente con la protezione legislativa gentilmente
offerta da una classe politica asservita agli interessi della grande impresa. Liberismo economico senza freni,
lavoro interinale, scorte inesauribili di immigrati pagati in nero e sfruttati in mille altre maniere, neo-laureati
costretti a migrare inutilmente da uno stage all’altro, licenziamenti facili, perdita progressiva delle conquiste
sindacali ottenute in altre stagioni di lotta, morti bianche. Nel glossario degli orrori sociali prodotti dal capitalismo moderno c’è veramente di tutto, tanti gli esiti sconcertanti, ma di una delle conseguenze più tragiche
sembra essere particolarmente consapevole un cineasta accorto, da sempre lucidissimo e sincero nel suo approccio politico allo strumento cinematografico, come il nostro Ken Loach: si tratta del frazionamento di classe.
Non è certo una novità, la spinta verso il frazionamento di classe quale risposta della borghesia nei confronti
delle legittime aspirazioni della classe salariata, ma le forme in cui questa predisposizione genetica del sistema
di produzione capitalista si concretizza possono mutare sensibilmente, possono evolversi, e dal punto di vista
cinematografico le miserie cui si è giunti attualmente meritavano senz’altro un cantore adeguato. Non possiamo
proprio lamentarci, perché tra coloro che hanno voluto accollarsi questo compito vi sono Ken Loach e Paul
Laverty. Un ritorno di fiamma per il regista britannico e per il suo sceneggiatore di fiducia, che con It’s a Free
World… (In questo mondo libero…) hanno sfornato il loro film più sottilmente eversivo, coinvolgente, stratificato, da diversi anni a questa parte. Dai tempi dell’ottimo Paul, Mick e gli altri, per intenderci. Differentemente da Sweet Sixteen e Il vento che accarezza l’erba, penalizzati in modo e in misura diversi da uno
scollamento tra la dimensione intima dei personaggi e il quadro sociale in cui costoro si trovano ad agire, It’s
a Free World… propone anche da questo punto di vista una miscela esplosiva, perfetta fusione di ragione e
sentimento. Il fulcro emotivo del film, difatti, può esser fatto coincidere con la scelta (encomiabile) di far leva
sulle figure centrali di Angie e Rose, per suscitare una risposta emotiva (che può differenziarsi anche molto, a
seconda della sensibilità personale) da parte dello spettatore.
Entrando nello specifico, Angie e Rose reagiscono energicamente all’improvviso licenziamento della prima
da una sordida ma solidissima agenzia di collocamento per lavoratori immigrati, tentando di rientrare nel settore
con un vero e proprio azzardo: tirare su in poco tempo una società propria che faccia concorrenza alle altre,
aggirando se necessario la già incerta legislazione in materia e non facendosi troppi scrupoli; anche qualora si
tratti di prendere decisioni scorrette e terribilmente ciniche, nei confronti degli stranieri che si rivolgono a loro
per ottenere un lavoro. Le protagoniste si trovano così a rappresentare un anello intermedio, nella catena dello
sfruttamento, da cui deriva la particolare caratterizzazione dei personaggi. L’ambiguità è qui il segno dominante.
Alle due giovani donne, che risultano al tempo stesso vittime e strumenti dell’oppressione capitalista, vengono
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attribuiti di volta in volta comportamenti che ce le rendono simpatiche, vitali, permettendo così una parziale
identificazione, o che al contrario portano ad azioni odiose, per noi inaccettabili. Schizofrenia degli autori?
No, semplicemente realismo. A Loach e Laverty non interessa affermare che Angie e Rose siano del tutto buone
o cattive, simpatiche o stronze, opportuniste o generose, perché così si cadrebbe in schemi di giudizio precostituiti, improntati al più mieloso soggettivismo piccolo-borghese, invece di scandagliare in profondità una
condizione umana carica di contraddizioni. Emerge in realtà come sia lo squallore di un meccanismo sociale
perverso ad orientare certe loro azioni, con lo stress, le pressioni famigliari, lo spirito di competizione e la conseguente aggressività, che spingono incessantemente verso scelte egoistiche. Da qui la triste logica del frazionamento di classe, che è il punto di vista da cui abbiamo preso spunto per analizzare la profondità di sguardo
che rende It’s a Free World… così appassionante, sincero.
La sapiente scrittura di Paul Laverty è comunque il motore che assicura la presa emotiva del film. Sono pochi,
rispetto al recente passato, i dialoghi che nel tentativo di evidenziare la condizione degli immigrati risultano
eccessivamente schematici, didascalici, mentre qualche parentesi spiritosa ci avvicina con naturalezza al mondo
delle protagoniste, alternativamente ai previsti picchi drammatici e a quei confronti verbali tra i personaggi
più significativi (come quelli tra Angie e Karol, giovane operaio polacco suo amante, per esempio) che non lasciano indifferenti. Fino a ricomporre il senso del film in una allucinante struttura circolare, con le insidie dell’ufficio di collocamento quale perno impossibile da scalfire. Ken Loach è stato accusato, al solito, di
semplificare eccessivamente la parte registica, utilizzando un linguaggio para-televisivo. Si parte qui da una
prospettiva decisamente errata. L’evidente sobrietà della regia, la dichiarata semplicità dell’approccio naturalistico al pro-filmico, sono elementi che si rivelano più che mai funzionali al racconto, concedendo semmai
qualche spazio operativo, non privo di interesse, a ridosso del genere. (…)
Stefano Coccia, tratto da www.spietati.it, 18/10/2007
T UTTI I PERSONAGGI DI L OACH
Nonostante quella sua aria da tranquillo bravo signore di
mezza età, tanto english e con gli occhialini tondi da intellettuale, Ken Loach è uno dei registi contemporanei più graffianti del cinema mondiale.
L’impegno e la funzione sociale che i suoi film svolgono deriva tutta dall’attacco alla struttura e all’ideologia della società borghese-capitalistica che opprime chiunque sia da essa
sfruttato, in particolar modo emigrati e disoccupati desiderosi di un senso di giustizia e di un ideale coerente alla loro
dignità di lavoratori e di uomini. Tutti i personaggi tratteggiati da Ken Loach, nessuno escluso, sono carichi di tensione, di determinazione, di un riscatto che a volte avviene
e a volte no, ma sempre e comunque dotati di una grandissima forza d’animo e di carattere che ne fanno degli individui attenti e responsabili verso gli altri, in netta
contrapposizione con un mondo che diventa ogni giorno più
egoista e indifferente. Allo stesso modo del suo cinema, Ken
Loach ha sempre rifiutato di soccombere alla “tentazione hollywoodiana” e a quel suo meccanismo di sfruttamento. In effetti, è impossibile immaginare uno degli unici registi sociali britannici immerso in quel particolare
mondo di red carpet e di prime con star.
Università, matrimonio, l’incontro con Garrett
Proveniente da una famiglia operaia, dopo aver studiato al St. Peter’s College e poi ad Oxford (giurisprudenza),
si appassiona al teatro e firma la regia di tutto il repertorio della compagnia teatrale scolastica e universitaria.
Nel 1962 si sposa con Lesley Ashton (sua attuale moglie) dalla quale avrà 5 figli: Stephen, Nicholas (che
morirà in un incidente stratale nel 1971), Hannah, James ed Emma. Lo stesso anno della felice unione entra
nel mondo del network BBC, dove cura la serie Z Cars. Tre anni più tardi, dall’incontro con il produttore riformista Tony Garrett, realizza dieci puntate di Wednesday Play, docudrammi con un forte contenuto politico
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che raccontano storie di degrado sociale, alcolismo, disoccupazione e che fanno dimenticare la visione multicolorata e happy della “swinging London”. È la prima impronta del suo cinema.
Una carriera impegnata
Il debutto cinematografico avviene nel 1967 con Poor Cow, cui seguiranno Kes (1969) e Family Life (1971),
con i quali il regista comincia a imporsi all’attenzione della critica inglese per il suo linguaggio audio-visivo
duro, asciutto, alienante e nevrotico, tipico di chi è immerso e/o prigioniero in una società borghese. Per vent’anni continua la sua carriera televisiva con documentari sugli scioperi, film tv come The Gamekeeper (1980)
e pellicole che troveranno difficoltà nella loro distribuzione come Uno sguardo, un sorriso (1981).
Dopo aver firmato L’agenda nascosta (1990) con Frances McDormand, Mai Zetterling e Brian Cox (con il
quale vince il Premio Speciale alla Giuria al Festival di Cannes), arriva il suo capolavoro: Riff Raff - Meglio
perderli che trovarli (1991) con Robert Carlyle e Peter Mullan (che guarda caso saranno gli attori che maggiormente utilizzerà nei suoi film). Una storia comune che ha come fondale la politica drammatica della Thatcher, messa alla berlina da un umorismo pungente. Il film non può che vincere il premio come Miglior Film
Europeo nel 1992. Altri premi conferiti sono il secondo Premio Speciale della Giuria a Cannes per Piovono
pietre (1993) e il Leone d’oro alla carriera nel 1994.
Un cinema libero dalle convenzioni sociali
Maestro indiscusso di quelle storie piene di contraddizioni, di doppie vite che sfociano poi in casi estremi che
portano addirittura a rompere ogni tipo di legame con la società di appartenenza, i film di Loach continuano
ad attaccare ferocemente qualsiasi proiezione dell’elemento sociologico dell’Istituzione: la burocrazia del welfare (Ladybird Ladybird, 1994), le dittature (Terra e libertà, 1995, e La canzone di Carla, 1996) e l’apparato
politico (My name is Joe, 1997). Ken Loach sta dalla parte dei clandestini messicani che passano il confine in
California per lavorare in America (Bread and Roses, 2000), dalla parte dei disoccupati di Sheffield (Paul,
Mick e gli altri, 2001) e degli adolescenti (Sweet Sixteen, 2002), descrivendo con una cura minuziosa la loro
quotidianità del vivere. C’è poco da fare: dal cinema di Ken Loach, non si può scappare. Si entra nelle vite dei
suoi personaggi, non spiandoli dalla finestra come molti registi fanno, ma entrando direttamente dall’ingresso,
vivendo con loro, affrontando con loro il comune senso d’impotenza e la tanto bramata ricerca di una qualche
utilità. Sono storie di uomini e donne impegnati, animati da una fede umana radicale e radicata nel cuore ancor
prima che nell’ideologia, con un’onestà intellettuale che non si piega di certo alle regole del benestare e ai dettami della politica approfittatrice.
11 Settembre 2001, Tickets e la Palma d’Oro
È con questo scopo che si unisce prima a Mira Nair, Sean Penn, Amos Gitai, Inarritu e Lelouch nel film corale
11 Settembre 2001 (2002), che racconta, in piccoli episodi, le conseguenze di quel catastrofico giorno che ha
cambiato gli assetti politici del nuovo millennio; e poi a Ermanno Olmi e Abbas Kiarostami in Tickets (2004),
decisamente più leggero. Paradossalmente, si mette perfino dalla parte dei terroristi con il film che gli ha fatto
finalmente vincere la Palma d’Oro a Cannes: Il vento che accarezza l’erba (2006) con Cillian Murphy, dove
ci trasporta nell’Irlanda del 1919-22 durante la guerra civile contro l’Inghilterra dei Lords.
Dopo In questo mondo libero (2007), e Il mio amico Eric (2009) il regista torna, nel 2011, con una nuova vicenda umana e commovente: L’altra verità. Nel 2012 ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes
con La parte degli angeli.
Un regista “anti-patria”
Non amato in patria per evidenti motivi, è stato considerato un anti-patriota, la cosiddetta “mosca rossa” del
reame, ma questo poco importa, perché quel suo genere storico-documentaristico (del quale è maestro) - dove
si parte dalla storia del piccolo per arrivare alla rigorosa costruzione di un contesto alla ricerca di verità - piace
moltissimo al pubblico e alla critica. Ci vorrebbero un regista così in ogni Stato: l’America ha già Michael
Moore, noi ce la caviamo bene con il nostro Nanni Moretti.
di Fabio Secchi Frau
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F ILMOGRAFIA
Poor Cow (1967)
Kes (1969) (come Kenneth Loach)
The Save the Children Fund Film (1971)
Family Life (1971)
Black Jack (1979)
The Gamekeeper (1980)
Uno sguardo, un sorriso (Looks and Smiles) (1981) (come Kenneth Loach)
Which Side Are You On? (1984)
Fatherland (1986)
L’agenda nascosta (Hidden Agenda) (1990)
Riff Raff (1991)
Piovono pietre (Raining Stones) (1993)
Ladybird Ladybird (Ladybird Ladybird) (1994)
Terra e libertà (Land and Freedom) (1995; ha vinto il premio FIPRESCI della critica internazionale ed il
premio della giuria ecumenica al Cannes Film Festival del 1995)
A Contemporary Case for Common Ownership (1995)
La canzone di Carla (Carla’s Song) (1996)
The Flickering Flame (1997)
My Name Is Joe (1998)
Bread and roses (2000)
Paul, Mick e gli altri (The Navigators) (2001)
11’09’01 (11’09’01) (segmento “Regno Unito” - 2002)
Sweet Sixteen (2002)
Un bacio appassionato (Ae Fond Kiss...) (2004)
Tickets (2005)
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B IBLIOGRAFIA
Sul cinema inglese
M.Bertolino, E. Ridola, Fuori dai denti : il nuovo cinema inglese
Philippe Pilard, Breve storia del cinema britannico
Emanuela Martini, British Renaissance : gioventù, amore e rabbia nel cinema inglese degli anni Ottanta
Emanuela Martini, Storia del cinema inglese 1930-1990
Emanuela Martini, Free cinema e dintorni: nuovo cinema inglese 1956-1968
Su Frears
Stefano Boni e Massimo Quaglia (a cura di), Stephen Frears
Mariolina Diana e Michele Raga, Stephen Frears
Carola Proto (a cura di), Stephen Frears
Su Meadwos
S. Giorgi, A.D. Bernardini, This is Shane. Il cinema di Shane Meadows
Su Leigh
E.. Martini, Mike Leigh
S.Boni, M.Quaglia, Mike Leigh
A. Raphael, Mike Leigh : dialogo allo specchio con il regista di Naked, Segreti e bugie, Topsy-Turvy,
Il segreto di Vera Drake, Happy-Go-Lucky
Su Loach
Luciano De Giusti, Ken Loach
K. Loach, Cinema e libertà. Ronan Bennet intervista Ken Loach
D. Audino, S. Ughi, Ken Loach
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INDICE
Introduzione: amore e rabbia in Inghilterra........................................................................................................3
Margaret Thatcher: la Lady di ferro che dichiarò guerra ai lavoratori...............................................................6
Tony Blair: una biografia...................................................................................................................................8
Il capitalismo inglese e lo sciopero dei minatori del 1984-85: il più grande scontro di classe in
Gran Bretagna dopo la II Guerra Mondiale......................................................................................................10
La questione irlandese......................................................................................................................................16
Dal punk alla new wave: tutto quello che è stata musica in Inghilterra...........................................................23
I film.................................................................................................................................................................31
My Bautiful Laundrette........................................................................................................................33
This Is England.....................................................................................................................................39
The Hunger...........................................................................................................................................43
Segreti e bugie......................................................................................................................................45
In questo mondo libero... ....................................................................................................................49
Bibliografia.......................................................................................................................................................55
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