Intervista a Gianrico Carofiglio - Società Psicoanalitica Italiana

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Intervista a Gianrico Carofiglio - Società Psicoanalitica Italiana
Intervista a Gianrico Carofiglio
A CURA DI MARCO MONARI
D.: La prima domanda riguarda com’è avvenuta la sua scelta di scrivere. Era un sogno da
bambino? L’ambiente familiare, le letture, le esperienze di vita: in che modo tutto ciò ha favorito
questa scelta?
R.: Direi che tutti quanti gli elementi che sono indicati nella domanda abbiano giocato un ruolo
significativo nella scelta di scrivere, o comunque nell’evento di cominciare a scrivere – io la
metterei più in questi termini: in qualche misura è accaduto; sicuramente era qualcosa che
desideravo fin da bambino.
D.: La sua mamma scriveva già quando lei era bambino?
R.: In verità, mamma quando ero bambino non scriveva quasi nulla. Aveva scritto negli anni
passati, e io sapevo che lo aveva fatto, ma più che altro saggistica letteraria. A volte forse scriveva
qualcosa che non so cosa fosse perché poi non si è tradotto in pubblicazioni. Mi ricordo che lei
aveva questo oggetto del desiderio, che era una macchina per scrivere Olivetti che io cercavo di
usare ogni volta che mi era possibile e con la quale tra l’altro ci feci una specie di giornalino…
D.: Un giornalino per la scuola?
R.: Sì, in due copie con la carta carbone. Insomma, da quando ero abbastanza piccolo, intendo otto
anni, ho cominciato a scrivere qualcosa. Le prime due cose sono quasi contemporanee; una era in
qualche modo ispirata a Zanna bianca ed era la storia di un lupo, e un’altra era una specie di horror,
una storia di fantasmi però – come posso dire? – di impronta laica, perché era un gruppo di
ragazzini che finiva in una apparente casa stregata però poi scopriva che erano tutti dei trucchi, che
era una finta casa stregata – con una radice illuminista. Uno l’ho scritto a macchina e l’altro l’ho
scritto a penna. E quindi fin da quando ero piccolo. Poi ho continuato per qualche anno con cose più
o meno umoristiche e poi intorno all’adolescenza ho quasi smesso. Scrissi un orrendo racconto a
diciannove anni di cui ero molto soddisfatto e in genere quando uno è soddisfatto di qualcosa non
va bene. E poi, per tutti gli anni che sono venuti dopo, fino a quando non ho cominciato, ho ripetuto
– in maniera sempre più velleitaria, devo dire – che avrei scritto. Poi ho scritto dei libri tecnici a
metà e verso la fine degli anni Novanta. Come ha detto una mia amica psicologa, era chiaramente
una manovra di avvicinamento; forse non avevo il coraggio di dire che ci stavo provando davvero e
il libro che poi è diventato L’arte del dubbio e che era in forma di manuale tecnico prima, ha una
dimensione narrativa forte, perché ci sono i pezzi dei processi. E poi, nel 2000, dopo – come capita
spesso – un momento di difficoltà personale, una sensazione di vuoto, di non aver fatto quello che
volevo – non saprei dire se era una forma tecnicamente di depressione… ero infelice, abbastanza
acutamente… e quindi ho cominciato a scrivere… a settembre… A settembre ho pensato qualcosa
del tipo che non avevo scelta – è un po’ enfatico ma, più o meno, era così. E poi in nove mesi ho
finito il primo romanzo, per gli amanti delle metafore. E quindi certamente è una cosa che viene da
lontano e certamente è una cosa che si è nutrita dell’ambiente familiare e direi però soprattutto
anche di letture. Cioè io, tante volte, leggendo qualcosa che mi piace… l’abitudine a vivere in
mezzo ai libri ha avuto un’influenza. Un elemento significativo sono state letture, a volte di
sconosciuti, magari dimenticate e poi Einstein diceva che la creatività è la capacità di saper
nascondere le proprie fonti.
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D.: L’etimologia latina di «narrare» viene da gnarus, che è «chi sa in un modo particolare», il che
implica che il raccontare sia inestricabilmente un modo di conoscere. Quando e come nasce in lei
l’idea? È importante un luogo, un momento, uno stato d’animo?
R.: Intanto, in questo caso più che in altri, l’etimologia è illuminante, perché è proprio così. La
scrittura narrativa onesta, la scrittura che si propone di dire qualcosa, non semplicemente di
raccontare un plot e di mettere in moto un meccanismo, è una forma di conoscenza. Uno va in una
stanza buia, cerca di capire cosa c’è e ne esce; il libro è una vaga comprensione di cosa c’era lì
dentro e delle cose di cui voleva parlare. Peraltro io amo anche un’altra definizione per cui la
scrittura è soprattutto una superiore capacità di vedere, che è un altro modo di dire la stessa cosa.
Detto questo, io non ho frequenze regolari, non ho luoghi precisi in cui mi vengono le idee o posti
in cui scrivo a preferenza di altri. Probabilmente il posto in cui mi trovo meglio è la mansarda della
casa in cui prima abitavamo tutto l’anno e in cui stiamo adesso solo d’estate, nella quale ho
incominciato a scrivere il primo… Però io scrivo dappertutto, veramente dappertutto, nelle sale
d’attesa degli aeroporti, per dire.
D.: Ma l’idea come nasce?
R.: Non c’è nessuna regolarità; è impossibile dire come nasca. Non mi ricordo neanche come sono
nate, ricordo dove m’è venuta l’idea de Il passato è una terra straniera: ero in giardino a prendere
un po’ di sole e mi è venuta in mente questa storia in cui il concetto era che c’erano due amici – uno
buono e uno cattivo, però a modo loro affezionati fra loro – e a un certo punto il buono si trova nel
dilemma fra tradire l’amico o fare qualcosa di moralmente ripugnante. Così è nata, ecco, quella me
la ricordo… come è avvenuto, chi lo sa? Come nascono in genere le idee? Io credo che nascano dal
cozzo di cose diverse, dall’urto casuale di entità diversissime; spessissimo si urtano e non succede
niente, a volte entità diversissime si urtano, si mettono insieme e nasce un’idea, questo è tutto.
D.: Ma quando le viene un’idea che sta sviluppando, è molto assorto? Le persone intorno a lei se
ne accorgono?
R.: Qualche volta succede che sia una buona idea o che mi sembri una buona idea e allora dico:
«Scusa un attimo» e la scrivo, se è un’idea che mi sembra volatile. Altre sono difficili da
dimenticare. Ci sono quattro o cinque romanzi in testa, per esempio, che forse dovrei segnarmeli,
perché me li scordo lo stesso. Ecco, però anche qui non c’è una regola. Più che altro se ne
accorgono perché dico: «Segno la cosa»… però, effettivamente, qualche volta mi distraggo. Questo
non succede necessariamente quando ho delle idee di scrittura. Qualche volta, sì. Succede… mi
dicono che a volte… è vero, quando mi viene un’idea e magari mi immagino un dialogo, sembro un
po’ un pazzo, più che a parlare, comincio a fare le espressioni del dialogo – mi viene detto – infatti
qualche volta mi chiedono: «Che cosa stai facendo?». Perché penso il dialogo e qualche volta mi
parte qualche gesto.
D.: Bruner dice che «per conseguire il suo effetto, la narrativa letteraria deve affondare le sue
radici in ciò che è familiare e che appare reale. Dopotutto la sua missione è ridare stranezza al
familiare, trasformare l’indicativo in congiuntivo». Forse questa domanda è molto simile a
quell’altra: come l’idea prendendo forma la cambia, quali le emozioni che la accompagnano nella
realizzazione? Ad esempio, di che umore è quando scrive?
R.: Pessimo!
D.: Pessimo?!
R.: Che, voglio dire, non è uno scherzo… perché se scrivi per mesi…
D.: No, no, ci credo. Simenon sosteneva che la vita dello scrittore è una vita votata all’infelicità.
R.: No, io non la metterei in questi termini. Io trovo che, per quello che mi riguarda…
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D.: Simenon si riferiva ai periodi di scrittura…
R.: Appunto… se uno dice la vita, io credo che complessivamente l’aver scritto dei libri, averli
pubblicati e avere la possibilità di scriverne altri, sia una fonte di enorme felicità, una fortuna, un
privilegio. Detto questo, la fase della scrittura è terribilmente penosa. Io poi ho scarsa disciplina;
questo aggrava le cose, perché tendo a ridurmi all’ultimo, tendo a sprecare il tempo. Quindi io tento
– e continuerò a tentare – espedienti di organizzazione del tempo, ma con scarso successo. Scrivi un
certo numero di parole… scrivi un certo numero di ore, storie di questo genere. Magari a me da
ragazzino, se fosse stato così di moda all’epoca, avrebbero diagnosticato un disturbo
dell’attenzione.
D.: Era molto irrequieto?
R.: E lo sono tutt’ora. Faccio enorme difficoltà a concentrarmi su un singolo compito per un periodo
di tempo superiore a 10-15 minuti. Ma, a parte – dicevo – questa mia modalità, che ovviamente
aggrava la situazione, scrivere è penoso; perché se stai scrivendo per fare quello che diceva Bruner
non è una cosa così che venga naturalmente o per la quale sia sufficiente avere le parole che
indicano gli oggetti. Devi produrre quel passaggio dall’indicativo al congiuntivo. Bell’espressione.
Non mi piace tutta la frase, in particolare non mi piace l’idea della missione della letteratura, ma il
passaggio dall’indicativo al congiuntivo mi sembra geniale. Io la metto in altri termini, cioè bisogna
avere lo sguardo obliquo, però lo sguardo obliquo non è così; cioè devi trovare le parole. C’è un
aneddoto molto bello su Joyce, che era sistematicamente infelice per la scrittura: un giorno un
amico va a trovarlo, lo trova proprio depresso e gli chiede: «Qual è il problema?». «Il problema è la
scrittura». «E vabbè, quante parole hai scritto oggi?». «Cinque». «E non sono così poche per te, in
effetti, non è male». «Sì, sì è vero» – fa lui – «però non so in che ordine vanno». Il problema è
quello. Poi a volte, all’improvviso, vanno nell’ordine giusto e questo è fonte di felicità, durante la
scrittura, ma è un fatto raro. Il «durante» della scrittura è un «durante» penoso. È inevitabilmente
penoso perché se uno è soddisfatto c’è qualcosa che non va. Bisogna essere a disagio perché, se stai
entrando in rapporto con materia pericolosa – e la scrittura che vale la pena di essere scritta deve
avere a che fare con materiale pericoloso – non puoi sentirti a tuo agio. Poi puoi essere contento alla
fine, forse, o meglio puoi essere contento che dopo aver finito il libro e averlo pubblicato vengano i
lettori e ti dicano: fantastico!
D.: «Mi ci sono ritrovato».
R.: Sì. Allora, quello sì, secondo me è lecito essere felici – soddisfatto è una parola che non mi
piace, ma essere felici sì.
D.: E dopo che ha scritto in questa stanza oscura…
R.: Riscrivo.
D.: Scrive e riscrive?
R.: Sì, 4-5 volte. Per esempio, quest’ultimo romanzo nella sua prima stesura era almeno 60 pagine
più lungo.
D.: Ma, ad esempio, quando comincia a scrivere il primo capitolo sa…
R.: Di regola non comincio a scrivere dal primo capitolo.
D.: Ah, e come fa?
R.: Come capita.
D.: Comincia da un pezzo della storia?
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R.: A volte comincio dal primo capitolo, ma più facilmente da un’altra parte. Poi dopo faccio il
montaggio. Non saprei dire quanto volte ho cominciato dal primo capitolo e quante volte…
D.: È interessante. Comincia dall’idea che ha…
R.: Quando l’idea– diciamo – ha fermentato per un po’ e quindi capisco…
D.: Ma l’idea fermenta in un’atmosfera interna anche un po’ inquieta, mi sembra di capire. O è la
scrittura che è più inquieta?
R.: Sì, è la scrittura. Invece avere delle storie e pensarle è abbastanza divertente. E tra l’altro uno
vorrebbe stare sempre là perché gli vengono le idee, hai delle buone storie, magari le racconti a
pochissime persone a voce… perché poi raccontare le storie a voce è bello. No, è penoso scrivere. A
me poi viene molto facile parlare e anche parlare in maniera precisa. Cioè, di regola, se sto un po’
attento, posso parlare in modo che quello che dico venga trascritto senza correzioni. Appena
comincio a scrivere, perdo la connessione; non scrivo in italiano corretto, all’inizio, non trovo le
parole, non riesco a fare le costruzioni. Thomas Mann diceva che lo scrittore è la persona per cui
scrivere è più difficile che per gli altri. È così. Tant’è che a volte ho pensato di dettare, ma secondo
me non funzionerebbe.
D.: Sarebbe lo stesso una camera buia.
R.: Non lo so, però devo provare, perché a me riesce facilissimo… cioè, se devo raccontare una
storia a voce o se devo improvvisare un lungo discorso di fronte a un pubblico, non ho nessuna
difficoltà. Io facevo le requisitorie di giorni, da Pubblico Ministero, di giorni e giorni – parlo di 15,
16, 20 ore solo con gli appunti sulle pene che dovevo chiedere per gli imputati.
D.: La presa in carico del personaggio è la tecnica utilizzata dal giallista bolognese Rigosi per
delineare i particolari, le caratteristiche peculiari, una sorta di ossessione creativa che porta alla
personificazione-vivificazione del personaggio. A lei come succede?
R.: Non provo ossessioni creative, ma, certo, convivere per un po’ di tempo (intendo: convivere con
la fantasia) con il personaggio che si sta creando e che si vuole raccontare, aiuta.
D.:Quali sono i rapporti che lei intrattiene coi suoi personaggi? Come nascono? Dal lavoro? Dalla
vita di tutti i giorni? Come si sviluppano dentro di lei? E quando ha la sensazione che siano ben
delineati?
R.: In generale provo simpatia per i miei personaggi, anche quelli negativi. Credo sia uno dei modi
per renderli vivi e dunque credibili. Come nascono? Non c’è un modo specifico. I personaggi come le storie - saltano fuori quando non te l’aspetti, sono nascosti nei dettagli insignificanti di
situazioni apparentemente banali. Qualcuno ha detto che lo scrittore deve avere, essenzialmente,
una superiore capacità di vedere. È una definizione che mi piace e che, credo, centra la questione.
D.: Tutto questo ha un lato molto comune col nostro lavoro psichiatrico e psicoanalitico, perché
per capire una persona bisogna ovviamente cercare di capirla dall’interno e poi riuscire a uscirne..
R.: Infatti, uno dei motivi per cui nell’ultimo romanzo (Il silenzio dell’onda, Mondadori, 2011) io
ho voluto uno psichiatra, lui dà dei farmaci…
D.: Ma lei ha un consulente per questi argomenti?
R.: Posto che ho studiato molto e letto molto in passato, diciamo che probabilmente avrei anche
potuto fare a meno di rivolgermi a qualcuno quando scrivevo questo romanzo però non volevo
correre rischi e quindi ho parlato con diversi psichiatri e psicoterapeuti, perché quella era la figura
che mi interessava – io non volevo uno psicologo, non volevo uno psicoanalista nel senso stretto del
termine, anche se si vede che il dottore del romanzo ha una formazione anche in qualche modo
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psicoanalitica. Io volevo uno che dava i farmaci perché avevo bisogno che il protagonista li
prendesse.
D.: Lei sa che adesso è molto comune, è chiamato in termini scientifici trattamento integrato,
farmaci e parole insieme, ed è pratica abbastanza comune …
R.: Perché lei è psichiatra e psicoanalista, appunto. Però uno che si presenta come psicoanalista
manda da qualcun altro, soprattutto se è ortodosso, qualunque cosa significhi la parola ortodosso.
Quindi io volevo uno che, quando gli arriva il paziente a pezzi, gli dà l’ansiolitico, gli dà
l’antidepressivo, lo rimette in piedi col farmaco e poi comincia parlare; uno convinto, laicamente…
volevo una idea laica di professionista della salute mentale, per cui dice… non è che va bene uno o
va bene l’altro, spesso sono necessari tutt’e due. Volevo che lui prendesse le medicine anche perché
questo mi serviva per alcuni snodi tattici della scrittura – il rapporto con l’alcool, la presenza del
farmaco durante la giornata, l’idea piuttosto comune, magari sbagliata, che il farmaco, lo
psicofarmaco sia collegato con una menomazione personale e così via. Che è una sciocchezza,
perché se mi fa male la caviglia vado dall’ortopedico… però non c’è dubbio che l’idea comune sia
questa e che la gente tende a rifiutare l’idea di prendere lo psicofarmaco. Volevo che aleggiasse una
cosa di questo genere. Però poi ho parlato con parecchi pazienti, che mi sono stati almeno
altrettanto utili, perché io volevo poi raccontare la storia dal loro punto di vista… anche se c’è la
terza persona nel romanzo, di fatto è una terza persona camuffata – è il punto di vista del paziente
Roberto – e quindi avevo bisogno di sapere come il paziente vede il terapeuta, anche nei dettagli
dell’interazione.
D.: E il fatto che lo psichiatra a un certo punto si apra?
R.: Quello è lo specchio. Voi siete degli specchi. Siete là e in qualche modo restituite un’immagine
al paziente che gli consente di capire chi è.
D.: Sì, degli specchi – come dire – umani, nel senso…
R.: Degli specchi parlanti.
D.: … no, siccome una volta c’era l’idea… lei lo sa meglio di me…
R.: No, no. Lo specchio sta pure alle spalle, quindi… no, siete degli specchi parlanti… però l’idea è
che parlando con il paziente gli restituiate un’immagine non più deformata di sé con la quale impari
a convivere. In questo senso dico specchio e in questa prospettiva quello che c’è dietro lo specchio
non è affare del paziente. A me piaceva l’idea che a un certo punto lo specchio gira, non riesce,
perché lì c’è comunque, per chi è in grado di coglierlo – anche se non è indispensabile cogliere
questo aspetto – tutto il gioco del controtransfert; cioè, a un certo punto il paziente è il figlio che
lui… lo so che è raro però può perfettamente succedere.
D.: Sull’autorivelazione dell’analista c’è una vasta letteratura…
R.: Sì, sì, appunto. A me lì premeva proprio di creare una situazione ambigua – quando dico
ambigua intendo dire non chiaramente classificabile – perché, di fatto, quella è una situazione
terapeutica. E uno potrebbe anche farsi venire il dubbio che lui l’abbia fatto apposta per sbloccare la
situazione.
.D.: Nel romanzo l’ho percepita come una cosa molto naturale.
R.: Anch’io la vedo in questo modo. Però esiste modo di escludere che lo abbia fatto come un
astuto, audace, acrobatico espediente terapeutico? Secondo me non l’ha fatto, ma adesso parlo da
lettore e lì ci sono elementi per dirne l’uno o per dirne l’altra. Per me ha mostrato la sua umanità. E
lui – attenzione! – non ha nome. Il dottore non ha nome.
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D.: Vorrei sapere, riguardo ai personaggi, quando arriva nella stanza buia per dare quello che lei
prima ha definito «lo sguardo obliquo», sono già un po’ delineati?
R.: No, diciamo, con me ce ne sono almeno un paio… diciamo che si inizia assieme la camminata;
poi però scopri gli altri e poi magari qualcuno di questi che facevano parte della squadra dall’inizio
si rivelano diversi da come te li eri immaginati.
D.: E quand’è che capisce che sono ben delineati?
R.: Quando ho finito il romanzo.
D.: Quindi non c’è un momento, una caratteristica, qualcosa che vede…
R.: No. Se fosse delineato prima della fine del romanzo ci sarebbe qualcosa che non va, perché il
romanzo ha senso – indipendentemente dal fatto che sia tecnicamente un romanzo di formazione –
il romanzo ha senso se racconta qualche tipo di parabola. Se a un certo punto della parabola il
personaggio è delineato vuol dire che il resto non serve. Quindi, alla fine. O alla fine del pezzo di
storia che lo riguarda, ovviamente, insomma.
D.: Walter Benjamin, ne Il narratore, dice: «Così il racconto reca il segno del narratore come una
tazza quello del vasaio». Ogni scrittore ha il suo segno di fabbrica? Come avviene che l’opera
procede, è compiuta, cosa le segnala che diventa un’opera compiuta, quale sensazione, emozione o
altro? O quale segno di fabbrica vorrebbe?
R.: Premetto che questa metafora della tazza non mi sembra originalissima. È capace di far di
meglio il Benjamin. Sì, non c’è dubbio, ognuno lascia il segno, qualsiasi artigiano. Non c’è dubbio
che qualsiasi scrittura abbia un suo segno distintivo, anche la più banale, proprio per essere banale.
Però io non so dire qual è il mio. Anzi, è l’unica cosa che devono dire i lettori… è la tipica cosa che
devono dire i lettori, però io credo – per andare alla seconda parte della domanda – che non sia mai
completo un racconto; tendo ad apparire un po’ paradossale, il racconto completo è un racconto
morto, cioè non vale la pena di leggerlo. I racconti devono essere incompleti perché devono essere
letti, cioè devono essere completati dalla lettura. La lettura è un atto creativo come la scrittura.
Quindi la letteratura – secondo me – richiede l’incompletezza.
D.: Ci potrebbe raccontare, come per un autoritratto, il suo percorso di vita e insieme di scrittore,
delineandone qualche snodo fondamentale?
R.: Ci scrivo un libro su questo. Io penso questo – lo penso davvero, a volte con un senso di
sgomento, a volte mi viene da ridere – che nella vita delle persone, e nella mia sicuramente, i
meccanismi delle porte scorrevoli – se lo ricorda quel film, Sliding Doors? – abbiano un peso che
spesso proprio non consideriamo. Non incontri la persona giusta al momento giusto, oppure quel
treno che arriva in quel momento, non ci sali su, e non sai dove ti trovi. Che ne so, se non avessi
fatto il magistrato, avrei scritto? Forse sì, forse no. Se non fossi tornato da dove lavoravo in Toscana
in Puglia a fare un lavoro che mi piaceva meno all’inizio, mi sembrava, invece poi mi è piaciuto di
più? Se non mi fosse successo quello che ho detto quell’anno? Sa, la gente tende a considerare i
suoi successi come l’inevitabile risultato del talento e di un destino e gli insuccessi come sfortuna.
Non funziona così. Spesso gli insuccessi derivano dal fatto semplicemente che non ti meritavi
qualcosa – o a volte, naturalmente, dalla sfortuna – e una bella quota del cosiddetto successo, parola
che io non amo, dipende dagli incontri fortunati; non intendo gli incontri necessariamente con le
persone, dalle coincidenze giuste. Quindi, noi che scriviamo dei libri, se siamo capaci di farlo,
siamo bravi a dare senso alle storie e quindi ovviamente non ci vorrebbe nulla ora a raccontare di
come quello che sono adesso sia il risultato di un destino segnato – volevi scrivere a 8 anni, c’hai
pensato sempre, poi tutto il resto della vita è stata una preparazione a questo, un’incubazione e tutto
quanto il resto – però invece io penso tante volte all’alternativa – cioè se non c’era quel proiettile
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nella roulette russa e ce n’era un altro – io potevo semplicemente essere uno oggi che continuava a
dire sempre più stancamente e velleitariamente «mah sì un giorno scriverò un romanzo».
D.: In che modo le sue scelte di narratore e di magistrato si sono influenzate? Come la verità
indiziaria, la verità giudiziaria, le narrazioni giudiziarie e le verità narrative si intrecciano?
R.: Io ho scritto su questo. Nell’arringa finale di Ragionevoli dubbi c’è tutta la risposta a questa
domanda, perché il protagonista fa una riflessione su come nel processo alla fine dei conti noi
raccontiamo storie e raccontiamo storie per dare senso a sequenze di eventi che in sé senso non ce
l’hanno. Che è esattamente quello che succede nella letteratura: noi prendiamo pezzi di realtà – che
sono gli indizi nel processo – e cerchiamo di dare loro una struttura coerente inserendoli nella
narrazione di una storia; se la storia è plausibile, si può proseguire; se la storia è implausibile, o se
ce ne sono di più plausibili, la decisione del processo si orienta su quelle più plausibili. Quindi, dal
punto di vista dei temi della plausibilità e del mettere insieme pezzi di realtà per costruire storie, c’è
una somiglianza notevole fra processo e narrativa, somiglianza che peraltro è colta ed è in qualche
modo l’oggetto di scuole di pensiero, quelle che genericamente si riferiscono al filone della law
literature. Quindi sono due mestieri che si possono influenzare tra loro se uno poi però, dopo aver
percepito le somiglianze, ovviamente è capace di cogliere le differenze fondamentali, perché il
mondo delle storie narrate dei romanzi è un mondo di finzione – anche se prende spunto dalla
realtà. La coppia di concetti fondamentale per ragionare di questo mondo di finzione è: finto ma
non falso. I personaggi e le storie della finzione narrativa sono – non dico: devono essere, ma sono
– normalmente finte, nel senso di finzionali e questo è non solo regolare e giusto, non devono essere
falsi, cioè non devono essere un imbroglio. E questa è la coppia di concetti fondamentali quando ci
si sposta nel territorio delle storie letterarie. Nel territorio delle storie giudiziarie la questione è più
semplice, naturalmente, cioè le storie devono essere capaci di inglobare in un quadro di coerenza
narrativa tutti quanti gli elementi – quelli favorevoli e quelli sfavorevoli – cioè devono essere in
grado di spiegarli tutti quanti. E dal punto di vista dell’accusa la storia proposta per chiedere la
condanna di qualcuno non deve essere solo la storia più probabile; deve essere l’unica storia
plausibile.
D.: «Il lettore nella sua solitudine legge il romanzo» – anche questa è una frase di Benjamin – «ed
è pronto ad assimilarlo interamente, a – per così dire – divorarlo. Sì, egli brucia, divora il
contenuto come il fuoco la legna del camino…». Pamuk sostiene che il lettore è come se avesse una
sua seconda vita custodita nei romanzi: «come in alcuni sogni, vogliamo che il romanzo che stiamo
leggendo prosegua e speriamo che questa seconda vita continui a evocare in noi un costante senso
di realtà e di autenticità». Simenon afferma che, per il lettore, il romanzo è una specie di buco
della serratura attraverso il quale vede come sono fatti gli altri e che, vedendo come sono fatti gli
altri, il lettore un po’ si rassicura riguardo ai propri problemi.
Che cosa spinge secondo lei il lettore ad essere preso dalle storie che legge? Che funzione
dovrebbero svolgere i narratori e le narrazioni nella società attuale, in cui siamo sommersi da
narrative di vario genere e in vari modi?
R.: Io comincio col dire che le narrazioni non dovrebbero svolgere nessuna funzione, nel senso del
dover fare qualcosa. La funzione – anche questa parola mi crea qualche problema perché allude a
una dimensione non libera dell’arte, ma posso accettare la parola «funzione», posso trattare sulla
parola ‘funzione’ – è quella di dare ordine, una parvenza di ordine o dimostrare il disordine in
qualche modo reso leggibile. Io sono del parere che le storie servono a dare senso alla casualità. In
questo senso io vedo veramente un filo rosso fra certe riflessioni, quel tipo di riflessione
psicoanalitica, fra la riflessione che sembra non centri proprio nulla della fisica moderna, della
meccanica quantistica, e del lavoro di chi racconta le storie. Ci sono cose casuali che quando
entrano a far parte di una storia smettono di essere casuali – o rimangono casuali in un modo
diverso, in un modo in qualche maniera intelligibile. Detto questo, quelle definizioni vanno
abbastanza bene, insomma. Nessuna francamente mi fa impazzire… Con le metafore bisogna stare
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attenti, le metafore sono materiale pericoloso. Se uno la porta troppo in avanti, per ciò stesso la
condanna a morte, perché ovviamente la metafora non è la riproduzione puntuale, speculare,
dell’oggetto che rappresenta, è un’evocazione.
D.: Come il rischio di ipernarrazione, allo stesso modo l’uso eccessivo della metafora…
R.: Certo, la metafora è materiale pericoloso, sono come… sono lame. Sono pericolosissime. Allora
va accennata e bisogna fermarsi, non bisogna farsi sedurre dal gusto intellettuale di svilupparla –
rischio che io percepisco nella prima metafora.. questo fuoco… tira… Quello che dice Pamuk è
abbastanza giusto e quello che dice Simenon è giusto, anche se non è tutto lì, naturalmente, e quella
è una parte. Per me la questione è diversa, mi viene da dire più profonda, ma magari mi parlo
addosso. La questione fondamentale del rapporto fra scrittore e lettore è quella che prende spunto
dal concetto cui alludevo prima, cioè quello dell’incompletezza. La scrittura è un momento, una
fase non chiusa in se stessa di una conversazione collettiva. Io scrivo un libro per iniziare una
conversazione con chi lo leggerà e il libro viene completato da chi lo legge; e chi legge compie un
atto creativo. In questo, secondo me, c’è la fondamentale ragione della cattura – quando funziona,
naturalmente, cioè quando la conversazione è iniziata nel modo giusto – del lettore da parte
dell’autore. Quando il lettore vuole partecipare a questa conversazione, cioè vuole, per esempio,
riempire tutti i vuoti che inevitabilmente e necessariamente ci sono nel romanzo – a cominciare da
come è l’aspetto fisico del personaggio, per quello che mi riguarda. Dico una cosa all’apparenza,
forse anche nella sostanza, banale, ma io non descrivo molti dei personaggi importanti dei miei
romanzi, però il lettore ce li ha in mente eccome; e ce li ha in mente perché, quando comincia a
leggere, crea il suo mondo.
D.: L’avvocato Guerrieri è stato trasposto in televisione…
R.: Sì, ma è stato già dimenticato. Nessuno identifica l’avvocato Guerrieri con l’attore che ha
interpretato in due film…
D.: E dal suo punto di vista come è stata questa esperienza?
R.: Io penso che quei due film siano stati un errore, ma per ragioni tecniche. In primo luogo un
errore di ambientazione, cioè il senso delle storie di Guerrieri è un senso che esiste se le storie sono
collocate in una realtà metropolitana. Lui è un personaggio metropolitano, ha bisogno degli spazi
della città, per dire quello che ha da dire: le passeggiate, la notte, un certo senso di solitudine che
anche in una città non metropolitana come Bari si può avvertire se sei solo. Trasporre, come è stato
fatto in quei film, l’ambientazione in un paese significa chiudere il discorso… lì l’hanno fatto
soprattutto un po’ per l’ottimo regista di questi film – che è lo stesso dei film di Camilleri – ha
avuto probabilmente una coazione a ripetere, perché l’ambientazione di Camilleri è là, però… E
poi, secondo me, anche ragioni proprio produttive, cioè in città costa di più.
D.: Il titolo di Psiche in cui comparirà la sua intervista è Un problema di Coscienza e contiene un
intervento del Presidente Napolitano sul tema della coscienza civile. Come si inserisce all’interno
della sua complessa e avvincente vicenda di magistrato e scrittore la sua scelta di diventare uomo
politico e senatore?
R.: Come molte cose non c’è una sequenza drammatica. Quando ci furono le scorse elezioni mi
chiesero se volessi accettare una candidatura; io pensai che mi incuriosiva e che quello era il
momento forse giusto, per varie ragioni mie personali. L’idea di tornare a fare il magistrato – io
avevo sospeso perché ero venuto a fare il consulente della Commissione Antimafia a Roma – mi
sembrava molto problematica; l’idea di vedere com’era il mondo della politica e della legislazione
mi sembrava interessante, anche se non mi facevo né illusioni né aspettative irrealistiche. Ho
pensato che forse avrei potuto dare una mano – questa forse è un’aspettativa irrealistica – e quindi
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ho accettato. Ci sono arrivato così. Secondo me, in generale sarebbe sano che ci si arrivasse in un
modo – come posso dire?
D.: Naturale? Come tappa della vita.
R.: Sì, come passaggio provvisorio.
D.: Sul piano della sua attività politica, si occupa di problemi di giustizia?
R.: Io sono in Commissione Giustizia e in Commissione Antimafia, ma in questa legislatura di fatto
noi ci siamo più che altro occupati di contrastare manovre a volte quasi criminali per tutelare il
Presidente del Consiglio dai rischi di azioni giudiziarie, cioè leggi a volte approvate poi annullate
dalla Corte Costituzionale, che a volte siamo riusciti a fermare noi, in cui gran parte del lavoro del
Parlamento era dedicato a cercare di salvare un imputato dai processi e dalle eventuali conseguenze.
Questi sono stati gli atti finali di una patologia tutta italiana purtroppo che ci ha portati al punto in
cui siamo.
D.: Ne «Il paradosso del poliziotto» (un delizioso libricino edito da Nottetempo, 2009) un vecchio
poliziotto descrive una sorta di tecnica-sequenza che consente di far confessare il reo in un modo
naturale e umano; nel suo ultimo romanzo i protagonisti sono entrambi in terapia presso uno
psichiatra-psicoanalista. Che similitudini possono esistere tra questi due assetti, visto che sembra
conoscere molto bene anche l’ambito terapeutico, psicoterapeutico, quello di cui parlavamo prima.
R.: Lei ha avuto modo di leggere L’arte del dubbio? L’arte del dubbio è un libro che ha avuto una
storia singolare. Prima di cominciare a scrivere narrativa, io nel ‘97 scrissi un libro che si chiamava
Il controesame ed era un libro tecnico, rivolto agli addetti ai lavori, in cui si provava a insegnare o
si davano comunque dei suggerimenti sulle tecniche di interrogatorio dibattimentale prendendo
spunto da verbali di veri processi, a volte proprio riportati integralmente, in altri casi un pochettino
aggiustati per esigenze di fruibilità. Ed era un libro che fu letto abbastanza dagli addetti ai lavori,
ma che sono un numero circoscritto, e però anche da un certo numero di non addetti ai lavori, e il
libro era piaciuto. Poi comincio a scrivere romanzi, passarono anni e, forse una decina di anni dopo,
Antonio Sellerio mi disse: «Perché non rifacciamo quel libretto, togliendo le parti giuridiche, rivolto
al grosso pubblico?» e io l’ho rifatto, il libro si è chiamato L’arte del dubbio e da 2.500 copie della
versione tecnica, ho venduto – non so – 400.000 copie. È stato letto da tantissima gente e tra l’altro
– e arrivo al punto – da tantissimi specialisti della salute mentale che mi dicono – cosa che io trovo
un notevole complimento – di avere tratto molti spunti anche per il loro lavoro, cioè sul modo di
entrare in efficace rapporto con le persone con cui si parla. Questo per dire che è uno dei temi che
mi hanno sempre affascinato molto.
D.: E quindi questo breve dialogo è un riassunto di un argomento ben più ampio..
R.: Il dialogo è una storia ancora diversa perché c’erano gli amici della casa editrice Nottetempo
che mi chiedevano: ‘dài, scrivi qualcosa per noi’ e chiacchierando una volta con Ginevra Bompiani
saltò fuori che io facevo questi corsi, queste lezioni sulla tecnica dell’interrogatorio investigativo, su
come si può provare a scoprire le menzogne, senza la pretesa di essere capaci di farlo, su come si
può cercare di ottenere delle confessioni in maniera etica, su come si ascoltano i testimoni di fatti
violenti, cioè con una serie di cautele e via discorrendo. E lei disse: «Perché non ci scrivi questo?
Un minuscolo saggio». E io cominciai a scrivere quello che era il testo del mio seminario e poi mi
accorsi che non ne avevo voglia. E mi venne naturale scrivere quel contenuto, o meglio parte di
quel contenuto, nella forma di dialogo fra due personaggi che sono degli alter ego – l’uno dell’altro
e poi tutt’e due dell’autore, che ha fatto lo sbirro, anch’io diciamo facevo il Pubblico Ministero,
facevo parte della categoria Pubblici Ministeri…
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D.: È vero quello che dice il vecchio poliziotto che racconta che gli capitò all’inizio della sua
carriera di essere riuscito a far confessare spontaneamente persone altrimenti sottoposte a brusche
pressioni psicologiche o anche fisiche…?
R.: Tutti quanti hanno episodi del genere da raccontare, più o meno così, è una cosa specificamente
non vera ma quasi ideal-tipica. E quindi ho scritto quel dialogo che contiene la sequenza tecnica di
come si tenta l’interrogatorio efficace.
D.: Si crea il rispetto…
R.: Ma prima ancora che il rispetto, entrare in rapporto.
D.: Poi c’è questa fase delicata che racconta della proiezione della responsabilità…
R.: Va fatta in modo etico, perché devi dargli una possibilità di alleggerire il peso che si porta
appresso senza imbrogliarlo, cioè senza fargli credere che non ha fatto niente. Però, appunto, c’è un
territorio intermedio fra questi due estremi che si percorre per esempio con l’uso delle parole giuste.
È un’altra delle cose che si dicono: parole neutre – non dici «lo sgozzamento», ma «il fatto»: non
stai negando una cosa, stai accompagnandola, approvandola, accompagnare la persona a fare una
cosa che probabilmente è anche nel suo interesse e comunque è il tuo lavoro, quindi se tu non lo
imbrogli, se non gli dici cose false, se non gli prometti cose che non potrà ottenere, fai
correttamente il tuo lavoro cercando di ottenere una confessione. Questo è ovviamente un percorso
delicato.
D.: E i paradossi quali sono? .
R.: Il principale paradosso è che uno ha la tecnica, studia, impara come si fa e tutto il resto e poi
però la maggior parte dei casi si risolvono per un colpo di fortuna. Poi anche lì la fortuna si tratta di
capire perché uno si trova dove accadono le cose forse perché sa come muoversi e quindi forse in
immediata contraddizione con quello che ho detto la fortuna c’entra fino a un certo punto. E l’altro
paradosso è quello che ha a che fare con la capacità di non prendere sul serio eccessivamente quello
che si fa, anche e soprattutto quando si tratta di un lavoro terribilmente serio. Perché la capacità di
non prendere sul serio, l’autoironia è una dote fondamentale per fare i lavori che implicano
esercizio del potere.
D.: Infatti lei sostiene che i peggiori investigatori sono i moralisti, quelli che non colgono poi il
particolare…
R.: Il moralista è tutto impegnato a confermare un modello che poi è un modello rassicurante per se
stesso, perché ha paura di qualcosa che lo riguarda e allora cerca di consolidare una rete di
protezione su se stesso; tutto il resto non lo vede. Non c’è flessibilità nella visione moralistica delle
cose, prescindendo dall’immoralità della visione moralistica delle cose.
D.: L’altro paradosso che avevo colto era quello del poter impersonare due ruoli con naturalezza e
lì in quella occasione dice che è un po’ come scrivere.
R.: Sì, è così. Entri nell’altro e cominci a guardare il mondo con i suoi occhi. Sì, forse anche quello
è un paradosso, si potrebbe dire che anche quello è un paradosso. La scoperta dei significati spetta
al lettore.
D.: Rispetto ai suoi studi psicoanalitici, è stata una fase della sua vita? Un interesse che è nato…
R.: Non direi che è stata una fase, perché io leggo, continuo a leggere – non direi esclusivamente
cose di psicoanalisi, anzi se devo dire proprio tendo a essere più interessato ad altri orientamenti,
per esempio la mia naturale inclinazione per il trucco e per il gioco di prestigio mi porta a essere un
grande simpatizzante delle terapie brevi. Di quello ho letto parecchio, veramente parecchio. E
insomma c’erano delle tecniche che usavo con i miei figli da piccoli e funzionavano. Mi ricordo,
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devo dire, con grande piacere come liberai mia figlia dalla paura dei mostri nella stanza applicando
quel tipo di tecniche. Però sì sono in generale molto incuriosito da questo tipo di studi e di letture.
D.: Ci può dire come fece?
R.: Certo. Lei non voleva dormire perché diceva che c’erano i mostri nella stanza. Di regola uno in
quel caso va e dice: «Non c’è nessun mostro», ma ovviamente il bambino dice: «No, ci sono, tu non
li vedi». E io andai là e dissi: «Accipicchia, è vero, è pieno di mostri, che dobbiamo fare?». «Eh,
non lo so, papà», fece lei. «Senti io ho la capacità, non di farli sparire, però io sono in grado di
rimpicciolirli, proviamo un pochino a rimpicciolirli». «E va bene», fece lei. E quindi feci un gesto e
dico: «Vedi che ci sono però sono diventati un po’ più piccoli?». «È vero, sono più piccoli», fece
lei. Faccio: «Secondo te quanti sono?». «Son tanti, papà, non so…». «Sono una sessantina», feci io.
«Secondo me sono anche di più», fece lei. «Effettivamente là ce n’è qualcun altro, lo vedi?». «Sì,
c’è» – quindi io entrai completamente nella sua storia e già il fatto che io entrassi nella sua storia
cominciò a…. Faccio: «Vediamo se mi riesce di rimpicciolirli ancora un poco?» e li rimpicciolii
ancora un po’, e poi ancora un pochettino… faccio: «Ti secca se vado un attimo di là a prendere una
cosa e tu li tieni d’occhio?». «Va bene» – Tornai: «Ci sono ancora?». «Sì, papà sono ancora là». Li
rimpicciolii ancora un po’ e li misi in una scatola di fiammiferi. Faccio: «Ma ce n’è qualcun altro?».
Fa lei: «Non mi sembra». «No, ce n’è», faccio, «vedi che ce ne sono là ancora» – insomma dopo
che continuavo a vederne alcuni io, lei non ne poteva più e si addormentò e non ha mai più visto
mostri.
D.: Quanti anni aveva sua figlia?
R.: Avrà avuto 5 o 6 anni, non di più.
D.: Però rende molto l’idea di ciò di cui abbiamo parlato finora.
R.: E poi, per esempio, sempre come prescrizioni paradossali, quando mio figlio non dormiva,
andavo là e dicevo: «Secondo me tu non dormirai stanotte quindi è meglio che ti metti l’anima in
pace; facciamo così: tu resta sveglio per tre quarti d’ora, però devi restare sveglio perché se no non
ha senso, e poi tra tre quarti d’ora puoi andarti a vedere la partita notturna… però devi stare sveglio
con gli occhi aperti guardando il soffitto». Si addormentava veramente mezzo minuto dopo,
sembrava che gli avessi dato il narcotico.
D.: Penso che possiamo concludere qui.
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