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LUCIANO MANICARDI Simeone, la vecchiaia e la fede La Rivista del Clero Italiano 4| 2015 Una lettura del «Nunc dimittis» Il testo di Luciano Manicardi, monaco della comunità ecumenica di Bose, introduce al celebre brano lucano del Nunc dimittis nella modalità di una intensa meditazione più che in quella di uno studio esegetico. La breve pericope evangelica è fatta oggetto di una penetrante lettura, che mette in risalto i delicati tratti spirituali di Simeone, uomo anziano e prossimo alla morte, ma anche uomo che ringrazia, benedice e prega, riconoscendo la presenza salvifica di Dio in un bambino nato da poco. Simeone diviene così l’emblema del «kalógheros, l’anziano “bello”, scavato e plasmato da una vita di obbedienza, di fede», figura riconciliata con la morte, che sa pregare davanti a essa, non spinto dall’angoscia, bensì dalla riconoscenza di chi ha saputo cogliere la gratuità del dono e la fedeltà di Dio, conservando la freschezza di saperlo vedere nella semplicità di un bambino. La figura di Simeone propone così molti motivi di riflessione sui modi del ben invecchiare, suggerendo i tratti di una saggia spiritualità dell’età anziana. Ed ecco, c’era a Gerusalemme un uomo di nome Simeone, e quest’uomo era giusto e timorato; egli attendeva la consolazione di Israele e lo Spirito santo era su di lui. Egli era stato avvertito dallo Spirito santo che non avrebbe visto la morte prima di aver visto il Messia del Signore. Nello Spirito egli venne al tempio, e quando i genitori introdussero il bambino Gesù, per fare secondo la consuetudine della Legge a suo riguardo, egli lo accolse nelle sue braccia e benedisse Dio dicendo: 276 4 Aprile 2015 Ora lasci, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza che tu hai preparato davanti a tutti i popoli, luce per rivelazione alle genti e gloria del tuo popolo, Israele. Suo padre e sua madre erano meravigliati di ciò che veniva detto di lui (Lc 2,25-33). Il Nunc dimittis è il breve inno che la Chiesa fa pregare a compieta, alla fine del giorno, come ultime parole di fede prima di entrare in quel sonno che è simbolo della morte. E il Nunc dimittis è anche il canto della sera della vita, pronunciato da un Simeone ormai prossimo alla morte, ed è per noi memoria dell’«ora della nostra morte», come recita un’altra popolare preghiera, l’Ave Maria. Si tratta dunque di un atto, pregare il Nunc dimittis, che rientra nell’ormai scomparsa arte di prepararsi a morire. E prepararsi nella fede, se mai ci si può preparare a quell’evento della morte che sempre ci contraddice e sorprende. In questo, pregare il Nunc dimittis è atto decisamente controcorrente in un contesto culturale come quello attuale in cui l’ideale della cosiddetta ‘bella morte’ prende la forma della morte repentina, improvvisa e incosciente, a cui non solo non ci si prepara e nemmeno ci si pensa, ma di cui ‘non ci si rende nemmeno conto’, in cui non solo non si soffre fisicamente, ma non si patisce nemmeno la fatica del pensare, dell’anticipare la propria morte, del veder arrivare la propria fine, dell’integrare nella fede, con la preghiera, l’evento culminante della vita, cioè la morte1. Questo ideale, inteso come una morte senza il morire, è l’esatto contrario della concezione della ‘bella morte’ diffusa fino a pochi decenni fa, quella di una morte preparata, che lasciava tempo all’uomo di adattarvisi, certo, per quanto possibile, di dettare le sue ultime volontà, di salutare e dire addio ai suoi cari, di regolare le ultime pendenze, di ricucire in extremis i rapporti incrinati. Nella tradizione cattolica le litanie dei Santi recitavano: A subitanea et improvisa morte, libera nos, Domine. Chiudere la giornata con un atto di fede che riconosce la vita come dono e si prepara alla morte come obbedienza: questo significa, tra l’altro, la preghiera del Nunc dimittis. Pregare il Nunc dimittis ci aiuta a integrare la morte, o meglio, la prospettiva della nostra morte, nella nostra vita. Esercizio affine a 277 Simeone, la vecchiaia e la fede Preghiera della sera della vita La Rivista del Clero Italiano questo, anch’esso collocato al termine del giorno, quando facciamo un esame di coscienza, è porsi la domanda su ciò che ci fa vivere. Ovvero, se abbiamo un motivo per cui saremmo disposti e pronti a morire. Perché solo chi ha un motivo per cui morire ha anche un motivo per cui vivere. La fine del giorno e l’ingresso nella notte, la soglia che separa la veglia dal sonno, sono il luogo di frontiera, di quotidiana frontiera, di quotidiano confine che ci ricorda e ci esercita al passaggio finale, alla morte appunto come passaggio. Preghiera dell’anzianità Luciano Manicardi Nunc dimittis che è anche preghiera dell’uomo anziano. Certo, il testo non dice esplicitamente che Simeone sia anziano, e ancor meno ci viene specificata l’età, come avviene per la profetessa Anna, che aveva ottantaquattro anni (Lc 2,37). È licenza poetica quella che porta Thomas Stearns Eliot a parlare di Simeone come di «un uomo di ottant’anni che non ha domani»2. Tuttavia, il parallelismo con Anna stessa, la prossimità con figure come Zaccaria e Elisabetta, presenti nel primo capitolo del vangelo secondo Luca, di cui si dice che erano «avanti negli anni» (Lc 1,7), la sua prossimità con la morte, il fatto che egli abbia alle spalle una vita che gli ha meritato la considerazione di «uomo giusto e pio», o, come ho preferito tradurre, «timorato» (iustus et timoratus, in latino), tutto questo sta a indicare la condizione di anzianità di Simeone. Prossimità della morte e condizione di vecchiaia: il Nunc dimittis sembra voler sfidare due dei maggiori tabù culturali del nostro tempo, impegnato com’è, quest’ultimo, a rimuovere il pensiero della morte e a cancellare con ogni mezzo le tracce della vecchiaia dal corpo umano. Un uomo che prega Ma soprattutto, il Nunc dimittis ci presenta un uomo che, nella sua anzianità e prossimità alla morte, prega. Egli loda e benedice Dio. Spesso avviene, soprattutto nella vita di fede di un uomo, di un maschio, che l’avanzare degli anni porti con sé anche un certo cinismo, un non crederci più di tanto, un pregare sempre meno o un tralasciare del tutto la preghiera. Colpisce molto vedere uomini in età avanzata, anziani, che piegano il loro corpo affaticato e acciaccato in un gesto 278 di adorazione davanti a Dio, si inginocchiano, spesso in modo impacciato e lento, e tuttavia non rinunciano a questa espressione visibile e corporea dell’invisibile che abita nel loro cuore. Uomini che magari hanno costruito la loro vita da protagonisti e che tuttavia si riconoscono debitori davanti a Dio, si inginocchiano, pregano, rendono grazie. La figura di Simeone sembra così anche un po’ fuori moda: non è l’uomo in rivolta, disperato di fronte alla morte, che si scaglia contro il silenzio di Dio di fronte all’imperversare del male nel mondo. Non è nemmeno l’uomo angosciato che, stanco della vita, vorrebbe che tutto finisse o vorrebbe farla finita. No, è l’uomo che ringrazia, che benedice e prega, riconoscendo la presenza salvifica di Dio in un bambino nato da poco. Simeone è anche la diretta sconfessione dell’uomo religioso pieno di sé, che rende grazie a Dio in realtà benedicendo ed esaltando se stesso, inebriato di sé e del proprio agire, un po’ come il fariseo nella sua preghiera al tempio (cfr. Lc 18,11-12). La grandezza di Simeone è nella sua umiltà. Nella semplicità dei suoi occhi che vedono la salvezza nella carne di un neonato, di una nuova vita da poco sbocciata, nella tenerezza del suo abbraccio al piccolo, nella disponibilità a fare spazio ad altri, nella prontezza a farsi da parte, a cedere il passo, a lasciare il posto, a diminuire perché altri cresca. Contento che altri cresca. Proprio come Giovanni Battista: «Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30). Nessuna traccia di quella gelosia spesso tipica degli anziani nei confronti di chi viene dopo di loro, nessun sospetto e diffidenza, nessuna invidia, ma la gratitudine, la gioia serena e pacata. Simeone è invecchiato bene. C’era un uomo a Gerusalemme «C’era un uomo a Gerusalemme di nome Simeone». Così inizia il nostro breve racconto. Anzi, il testo inizia con quell’«ed ecco» che nel terzo vangelo introduce spesso una rivelazione, esprimendo l’invito a fare attenzione, a guardare con attenzione per vedere nell’opacità del quotidiano lo straordinario di Dio. Ovvero, per fare ciò che sa fare Simeone, il quale riconosce nel bambino il messia di Israele, la salvezza di Dio. C’era un uomo a Gerusalemme. Chi era quest’uomo? Il suo nome, Simeone, rinvia all’ascolto, shamà in ebraico. E l’ascolto 279 Simeone, la vecchiaia e la fede 4 Aprile 2015 Luciano Manicardi La Rivista del Clero Italiano di cui Simeone si è mostrato capace per tutta la vita è stato senz’altro anzitutto l’ascolto delle Scritture. Le profezie di Isaia echeggiano nelle parole dell’anziano: «Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» (Is 52,10); «Si rivelerà la gloria del Signore e ogni carne la vedrà» (Is 40,5); «Io ti renderò luce delle genti perché tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Questi e altri testi veterotestamentari stanno dietro le parole di Simeone, dicono di una fede forgiata negli anni sulle Scritture fino a scolpire nel cuore di Simeone una speranza salda, una fede solida. Che non si lascia mettere in scacco nemmeno dalla morte. L’ascolto delle Scritture ha creato in Simeone un ponte con la vita, con la sua vita, è stato un ascolto che gli ha consentito di sentire la promessa profetica delle Scritture, la promessa di Dio come rivolta a sé: lui stesso vedrà la salvezza di Dio. Isaia diceva che ogni carne vedrà la salvezza di Dio, ma perché la veda ogni carne, la deve vedere quella carne che io stesso sono. E Simeone vede, vede perché ha ascoltato. Simeone ascolta, ma ascolta con fiducia, egli crede che ciò che la Scrittura dice è parola di Dio rivolta a sé: egli crede alla promessa di Dio. Ecco l’ascolto efficace: l’ascolto che crede. E suscitando fede, crea un corpo e una mente aperti, accoglienti, ospitali. Ciò che ha consentito a Simeone di invecchiare bene è stato anzitutto l’ascolto, la capacità di fare spazio alla parola e alla presenza di un Altro, ma anche di altri. Tanto che alla fine della vita egli riesce ad accogliere anche fisicamente, nelle sue braccia, il bambino in cui riconosce la salvezza di Dio. La capacità di ascolto si manifesta in capacità di accoglienza. E così è l’intero suo corpo che viene scolpito dall’ascolto e diviene non geloso, non timoroso, non angosciato, non ripiegato su di sé, ma accogliente, capace di ospitalità. Non sulla difensiva, ma aperto all’altro. Di Simeone si sottolineano gli occhi e le braccia: i suoi occhi anziani sono ancora capaci dello stupore di chi, guardando, vede nell’altro non un rivale, non una minaccia, non uno che prende il suo posto e gli toglie spazio e libertà, non un nemico, ma un sacramento della salvezza. Noi siamo salvati attraverso gli altri, grazie agli altri. Spesso gli altri sono per noi motivo di lamento e di stanchezza e di frustrazione, ma in verità, la salvezza ci raggiunge attraverso gli altri. Noi vediamo la salvezza grazie agli altri. Il suo sguardo di anziano non è sospettoso, diffidente, pauroso, ma tenero. Ha saputo sviluppare quella dote di tenerezza che è così preziosa e rara. Soprattutto nei 280 maschi. E questo si manifesta anche in quell’abbraccio quasi materno con cui egli accoglie il bambino, quasi cullandolo, con dolcezza. Il corpo di Simeone non è rigido, chiuso, respingente, ma luminoso, caldo, accogliente. Cercando di immaginare Simeone vien da pensare alla figura del kalógheros della tradizione orientale, l’anziano ‘bello’, scavato e plasmato da una vita di obbedienza, di fede. Un corpo che è vangelo, che è narrazione evangelica. Non è un evangelizzatore, ma un uomo divenuto vangelo. Un po’ come di Francesco di Assisi, di cui si dice che era non tamquam orans, sed oratio factus. Ecco dunque l’uomo che c’era a Gerusalemme: un uomo giusto e timorato. Come Zaccaria ed Elisabetta sono detti da Luca «giusti davanti a Dio e irreprensibili osservanti delle leggi e delle prescrizioni del Signore» (Lc 1,6), così anche di Simeone si rileva la giustizia, ovvero il rapporto giusto, adeguato, che egli ha vissuto con Dio, nel timore e nell’obbedienza alla Legge. Una obbedienza dinamica che lo ha portato a essere dimora dello Spirito santo, abitato dal respiro di Dio, dal suo sguardo, tanta e profonda era stata l’assiduità con il Dio che parla, non semplicemente con pagine scritte, con frasi bibliche. Simeone ha assunto il soffio stesso di Dio, il soffio che portava la parola di Dio che egli ascoltava con continuità. Per ben tre volte si sottolinea la presenza dello Spirito in rapporto a Simeone: «lo Spirito santo era su di lui» (v. 25); «egli era stato avvertito dallo Spirito santo che non avrebbe visto la morte prima di aver visto il Messia del Signore» (v. 26); «nello Spirito egli venne al tempio» (v. 27). L’ascolto della parola di Dio ha reso Simeone un profeta. E lo ha reso uomo capace di attesa. «Egli attendeva la consolazione di Israele». Ecco ancora la grandezza umana e spirituale di Simeone. È un uomo anziano ma che attende, che spera. Non si è lasciato indurire dal tempo che passa, dai dolori che si stratificano, dalle delusioni che si moltiplicano; non si è lasciato andare alla facile tentazione del cinismo, del non sperare più nulla in un atteggiamento disincantato e disilluso duro e puro. Non ha ceduto alla facilità e alla banalità della tentazione di non sperare più, di non aver più niente da attendere. La passione del desiderio in lui non si è spenta, il dinamismo dell’attesa e della proiezione al futuro non sono venuti meno in lui. Verrebbe da dire che in Simeone vi è anche una dimensione di infanzia, di fanciullezza. Certo, è anziano, ma non è un sopravvissuto, non è un sopravvissuto a se stesso. La capacità di attendere, anche umanamente, 281 Simeone, la vecchiaia e la fede 4 Aprile 2015 La Rivista del Clero Italiano dice di una duttilità, di una non chiusura su di sé, di una esposizione agli altri e alla realtà guardati positivamente, come se da essi potesse ancora venire del buono. Davvero non c’è in Simeone l’occhio disilluso, stanco, che ne ha viste tante, anzi, troppe, come si dice spesso con amarezza, stanchezza e sfiducia. Simeone ha saputo credere, avere fiducia. Nella promessa di Dio, ma anche nella vita, e anche in se stesso. Occorre anche avere fiducia in sé per credere che la propria vita sarà salvata, avrà pienezza di senso. E per continuare a sperare fino alla fine. E Simeone spera per il suo popolo, non solo per sé. La speranza autentica è sempre incentrata su un noi, non su un io. L’invecchiamento non gli ha fatto rimpicciolire le prospettive e lo sguardo. Egli spera e attende, come se dovesse venire da un momento all’altro la consolazione di Israele. Egli non ha mai smesso di credere che avrebbe visto lui personalmente la salvezza. Simeone, con la sua attesa che è anche l’attesa di Israele, ci insegna che la fede è credere che ciò che è vero per il suo popolo è vero anche per lui, anzi particolarmente per lui, e lui deve e vuole farne esperienza in prima persona, nella propria carne, sulla propria pelle. Lo Spirito che ha guidato la promessa di Dio guida ora l’attesa del compimento della promessa in Simeone. Sì, «se uno non spera l’insperabile non lo troverà»3, e Simeone ha creduto e sperato. In Simeone ci viene presentato questo mistero di una speranza ostinata, instancabile. «Solo persone così sono in grado di scoprire in questo mondo qualcosa che assomigli alla salvezza»4. Luciano Manicardi L’incontro fra due debolezze Quest’uomo dunque, di Gerusalemme, si reca al tempio della città santa, mosso dallo Spirito santo e lì avviene l’incontro anzitutto con i due genitori del bambino Gesù. I quali portavano il piccolo al tempio per adempiere quanto prescritto dalla Torah. I genitori di Gesù lo avevano fatto circoncidere a otto giorni dalla nascita (Lc 2,21), e ora sono al tempio per la purificazione della madre e per la presentazione del bambino. In realtà nessun precetto obbligava a presentare al tempio il figlio primogenito (uso che tutt’al più era raccomandato alla pietà dei fedeli: Nee 10,36-37 parla di «portare ogni anno al tempio del Signore le primizie del nostro suolo e le primizie di ogni frutto di qualunque pianta, come anche i primogeniti dei nostri figli e del nostro bestiame grosso e minuto»), ma per il narratore questo evento diviene non solo 282 più importante della purificazione della madre, ma acquisisce un valore rivelativo che va ben oltre le usanze cultuali giudaiche verso le quali Luca si mostra un po’ approssimativo. Avviene così un incontro tra persone semplici e fedeli: i genitori di Gesù che, nella loro fede popolare e semplice, adempiono usanze legali e precetti religiosi, e un uomo anch’esso semplice, che al tempio si reca guidato dallo Spirito. A questo livello della fede semplice e pura, ciò che prevale è l’umano, il buon senso che pone l’umano al primo posto: è fine dei riti e delle usanze religiose, è luogo e fine dell’azione dello Spirito. E tutto avviene nel quadro di un incontro umano, non di un rito. Prima dell’azione liturgica prevista, dunque fuori da un quadro cultuale, in un contesto spaziale del tempio in cui anche le donne potevano ancora entrare, avviene l’incontro tra la madre e il padre di Gesù, e l’anziano profeta. In verità un profeta nascosto. Un profeta quotidiano, cioè un uomo di fede e di speranza, un uomo di preghiera, un uomo abitato dallo Spirito di Dio; un uomo di Dio, ma senza la popolarità e la notorietà che, certo acquisita spesso a caro prezzo, era propria a diversi profeti. Un profeta nascosto, umile, non gridato, che viene quasi scovato, rivelato, fatto uscire all’aperto, da Gesù stesso. L’incontro di queste persone è incontro nella piccolezza e nell’umiltà, fra gente semplice, incontro in cui chi cercava l’adempimento legale trova la rivelazione dello Spirito, chi attendeva la consolazione di Israele discerne la salvezza di Dio nel bambino. E allo stupore dei genitori di Gesù al sentire ciò che si dice del loro bambino (Lc 2,33) corrisponde la meraviglia di Simeone che tali parole pronuncia su quel bambino. Sì, Simeone è anche uomo di stupore. Che conserva la meravigliosa facoltà dello stupore. Ma all’incontro di queste persone semplici segue l’incontro più significativo, quello tra l’anziano e il neonato, tra colui che si prepara alla morte e colui che si dischiude alla vita, tra colui che la vita ha attraversato e colui che deve ancora salpare per il viaggio. È l’incontro di due debolezze: quella dell’uomo anziano e dell’infante. Gesù ancora non parla, può solo essere parlato. E da Simeone è parlato, così come è visto e toccato, accolto nelle braccia. Gesù, infans, non parla. La Scrittura ha già parlato per lui e all’anziano Simeone basta la testimonianza delle Scritture. Basta ciò che ha letto e ascoltato nelle Scritture per discernere nel bambino la salvezza di Dio. All’impotenza del bambino corrisponde la non volontà di possesso da parte dell’anziano, il 283 Simeone, la vecchiaia e la fede 4 Aprile 2015 La Rivista del Clero Italiano Luciano Manicardi non voler avere un potere su di lui. Sono temi espressi in modo magistrale da un quadro di Rembrandt, un quadro che restò incompiuto e che rappresentava proprio Simeone e il bambino Gesù, tema carissimo a Rembrandt e che egli dipinse numerose volte fin dalla giovinezza. Ma questo quadro finale, quando lo stesso Rembrandt è vicino alla morte e presta il proprio volto a Simeone (egli, dipingendo Simeone, fa un autoritratto), mostra bene la delicatezza dell’anziano. Il bambino è poggiato sulle sue braccia stese in avanti ma egli non stringe il piccolo, le sue mani che spuntano da sotto il bambino in fasce sono tese in avanti, aperte, non stringono il corpicino, quasi lo presentano, lo consegnano, non lo trattengono. Inoltre, Simeone-Rembrandt ha la bocca semiaperta come stesse bisbigliando parole a bassa voce, come stesse sussurrando una preghiera, non certo declamando ad alta voce, e gli occhi sono chiusi, gli occhi che hanno visto la salvezza in realtà sono chiusi pressoché totalmente. Debolezza dunque declinata come delicatezza, come volontà di non trattenere colui che è destinato a illuminare le genti, sguardo pudico, quasi frenato, trattenuto, di chi può ormai chiudere gli occhi, e chiuderli per sempre, perché l’essenziale è stato visto. E due fasci di luce illuminano il viso dell’anziano e il volto e il corpicino del bimbo che emergono dalla penombra circostante. Ha scritto uno storico dell’arte commentando questo quadro: Alla sera della sua vita, quando Rembrandt ha sentito risuonare nel suo cuore il Nunc dimittis, quando ha cantato il cantico di Simeone da uomo che sa che cos’è la luce e che cos’è l’ombra, la chiaroveggenza e la cecità, la vita e la morte, questo canto risuona in una solitudine che è quella dell’anima davanti a Dio. Tutto è compiuto. Quel che doveva essere fatto è stato fatto. Ciò che era stato annunciato è stato realizzato. Colui che, infine, ha ricevuto l’eternità, e che la tiene tra le sue braccia, può restituire al Creatore la forma che ha appena compiuto. Non vi è più materia, non vi è quasi più forma. La luce sacra ha così imbevuto questa sostanza che tutto ciò che non è luce è stato distrutto o consumato. È bene che il quadro sia rimasto incompiuto. Perché ogni esistenza non si compie che nell’infinito5. Dunque, l’incontro di due debolezze. Ma che differenza tra le due! La debolezza del neonato è una nudità rivestita da altri; la debolezza dell’anziano è quella di chi si spoglia. La prima è la debolezza di chi è ignaro della vita, la seconda di chi la vita l’ha solcata e ne è restato 284 4 Aprile 2015 segnato. E proprio gli occhi che hanno visto e le braccia che hanno sorretto il bambino, nel quadro di Rembrandt sono i primi semichiusi, pressoché chiusi, a non profanare, a rispettare, e le seconde aperte, a non trattenere. Il pudore avvolge totalmente la figura di Simeone, la volontà di non avere e non esercitare potere su altri lo abita. Simeone è oltre questi atteggiamenti di possesso e di controllo che così spesso appassionano tanti uomini, e tanti uomini di Chiesa, rendendoli uomini di potere, non di fede. Nessun sguardo captativo, nessun abbraccio che stringe e possiede, ma un lavoro sul proprio corpo che è espressione di un cuore puro. La debolezza di Simeone è elaborata, frutto di lavoro, di ascesi, è frutto di forza. La forza di chi è più forte della propria forza. Questa forza si chiama mitezza. Ecco la debolezza forte di Simeone, si tratta di mitezza, di pudore. Sono due segni inequivocabili della libertà. In fondo, in questo gesto di abbraccio che nel quadro di Rembrandt diviene una sorta di offerta e donazione, si può leggere il dono che Israele fa del Messia alle genti: colui che è la gloria di Israele suo popolo, viene donato alle genti per illuminarne il cammino. L’Israele fedele e giusto, l’Israele che attende il Messia, l’Israele insomma simbolizzato in Simeone, risponde alla propria vocazione di essere luce per le genti donando a esse il Messia, il Messia Gesù che tra i figli d’Israele ha posto la sua presenza, la sua gloria e che però è destinato a ogni popolo. La preghiera di Simeone è un rendimento di grazie. Simeone loda e ringrazia Dio. Ecco un altro segno del beato invecchiamento di Simeone. Non avanza pretese, non si lamenta, non è autocentrato, ma ringrazia, riconoscendo la presenza e la preziosità altrui, riconoscendo che la sua vita è stata segnata da doni e promesse, che c’è un passato per cui dire grazie e un futuro a cui dire «sì». Anche questo futuro imminente che è la sua stessa morte. «Simeone benedisse dicendo». Con la parola Simeone fa fronte alla morte e nutre la propria speranza. Con la parola egli fa qualcosa della propria morte. La preghiera di Simeone si concentra sul momento presente: «Ora», nûn. Essa sintetizza il passato, il tempo della preparazione della salvezza, anticipa il futuro della illuminazione dei popoli pagani, ma trova nell’oggi, nel frammento di tempo presente, quello in cui il bambino 285 Simeone, la vecchiaia e la fede Simeone benedisse Dio dicendo… La Rivista del Clero Italiano viene presentato al tempio, il momento di sintesi, il momento in cui sgorga il ringraziamento. In quel momento tutto il passato viene accolto, l’attesa viene confermata, e il futuro viene rilanciato. Noi sempre viviamo il ‘tutto’ a cui abbiamo asservito la nostra esistenza, il senso del nostro vivere, nel frammento del momento presente, nel frammento dell’attimo, l’unico su cui abbiamo una certa presa. Nelle parole di Simeone, che sono una preghiera rivolta al Signore e «Padrone» (in greco Despótes) della vita, la morte appare come un licenziamento, un congedo dal servizio, dalla lunga militanza di una vita. Vi è sia il senso della liberazione dello schiavo sia il congedo dopo un servizio, sia, soprattutto, il permesso di partire, di morire. «Sì, Signore, ora tu puoi lasciare andare il tuo servo nella pace». L’uomo giusto e timorato si appresta a vivere una morte nella pace. Per Simeone sembra realizzarsi ciò che il poeta Rainer Maria Rilke chiede in una sua poesia: Luciano Manicardi A ciascuno, Signore, la sua morte concedi. il morire che vien da quella vita, dove trovava amore, senso, affanno6. Simeone, con la sua preghiera, sta personalizzando la morte, se ne sta appropriando, nel senso di porla in continuità con la sua vita. Sì, Simeone prega davanti alla morte, ma non prega spinto dall’angoscia, dalla paura della morte, bensì dalla riconoscenza di chi ha riconosciuto la gratuità del dono e la fedeltà di colui che aveva promesso. Simeone giunge alle soglie della morte con serenità, fidando sulla promessa del Signore. «Secondo la tua parola», dice Simeone ricordando l’avvertimento dello Spirito che gli aveva predetto che non avrebbe visto la morte senza aver prima visto il messia del Signore. Avere una promessa su cui contare è vitale per reggere l’impatto della vita e per far fronte alla morte. Così, Simeone è giusto e timorato anche nel momento finale della vita. Anche se, lui che ha tanto ascoltato le Scritture e le ha lette e conosce le profezie, non può ascoltare una sola parola da Colui di cui si dirà: «Mai un uomo ha parlato così» (Gv 7,46). Ma appunto, per Simeone si verifica ciò che Gesù stesso dirà ponendo un criterio ermeneutico delle Scritture: le Scritture parlano di Gesù. Dirà il Risorto: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44). Simeone legge nel 286 4 Aprile 2015 volto di Gesù ciò che ha letto nelle Scritture e vede lì la gloria e la luce di cui parlavano le Scritture. E sente ormai che il fiume della sua vita può sfociare in pace nel mare. Ormai Simeone ha visto. E, se ha visto, egli sa, è un testimone. Un testo dell’intertestamentario Libro dei Giubilei esprime idee simili a proposito di Israele-Giacobbe, il padre di Giuseppe che finalmente rivede vivo il figlio creduto morto: Qui non si tratta di un figlio, ma del Messia, non si tratta di un rapporto personale, ma di un rapporto universale che riguarda tutti gli uomini e i popoli. Certo, Simeone chiama «Padrone», Despótes, il Signore, dichiarando un rapporto di appartenenza. Egli è il suo servo. Ma la salvezza che lui ha avuto la possibilità di discernere è destinata a tutte le genti. Luca introduce sulle labbra di Simeone l’idea della dimensione universale della salvezza estesa a tutte le genti che sarà espressa nel libro degli Atti degli Apostoli. E come cogliere l’universale nel particolare di un bambino? La salvezza di cui parlava Isaia, la salvezza che tutti vedranno, che ogni carne vedrà, che Israele e le genti dovranno poter discernere non può che avere forma umana, essere in forma d’uomo, avere corpo umano. Che cosa di più universale dell’umano? Dell’essere figli? Dell’essere un corpo? Dell’essere vulnerabile e fragile? Tutto questo è presente nel bambino neonato. Ma in quel bambino, e non un altro, si concentra la testimonianza dello Spirito che ha spinto Simeone al tempio e l’ha condotto all’incontro con i genitori di Gesù. Ecco che il corpo di Gesù, il suo volto divengono il libro vivente su cui leggere i segni delle profezie veterotestamentarie: la gloria del popolo d’Israele, la salvezza per tutte le genti, la luce delle genti. Ciò che Simeone aveva letto e ascoltato nel libro scritturistico, ora lo vede e lo tocca, lo legge nel corpo e nel volto di Gesù. 287 Simeone, la vecchiaia e la fede E Israele entrò nel territorio di Goshen, in Egitto, al principio del quarto mese del secondo anno del terzo settennio del quarantacinquesimo giubileo. E Giuseppe venne a Goshen ad accogliere suo padre Giacobbe, lo abbracciò e pianse. E disse Israele a Giuseppe: «Poiché ti ho visto, possa io, fin d’ora, morire! E sia, ora, benedetto il Signore, Dio di Israele, di Abramo e di Isacco che non ha negato la sua benevolenza e la sua misericordia al suo servo Giacobbe. Per me che ti ho visto mentre sono vivo, poiché si è avverata la visione che ebbi in Betel, è molto! Sia benedetto il Signore, mio Dio, nei secoli e sia benedetto il Suo nome». (Libro dei Giubilei XLV, 1-4) La Rivista del Clero Italiano E la salvezza si preannuncia come una nascita. Come uno sbocciare di futuro che porterà e darà sostegno anche a quelle braccia e a quel corpo prossimo alla morte che ora portano e sostengono il neonato. Contemplando la figura di un uomo anziano e prossimo alla morte, siamo condotti, da quella stessa figura, ad aprirci alla vita e al mistero della nascita. Ha scritto Hannah Arendt: Il miracolo che preserva il mondo dalla sua naturale rovina è il fatto della natalità. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: «Un bambino è nato per noi»7. 1 Luciano Manicardi Cfr. L. Manicardi, Memoria della morte. La condizione umana nella società postmortale, Vita e Pensiero, Milano 2011. 2 Canto di Simeone, in T. S. Eliot, Poesie, Mondadori, Milano 1971, p. 283. 3 Eraclito, frammento 18 Diels-Kranz (cfr. Eraclito, Tutti i frammenti, Le Monnier, Firenze 1967, p. 39). 4 E. Drewermann, Il tuo nome è come il sapore della vita. Interpretazione dei racconti dell’infanzia del vangelo secondo Luca a partire dalla psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1996, p. 239. 5 Marcel Brion, citato in O. Pigeaud, Syméon et l’Enfant, Du Moulin, Poliez-le-Grand (CH), 1997, pp. 21-22. 6 R.M. Rilke, Il libro d’ore, Marcos y Marcos, Milano 1992, pp. 176-177. 7 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 200310, p.182. 288
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