La poetica degli oggetti in Valerio Magrelli
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La poetica degli oggetti in Valerio Magrelli
La poetica degli oggetti in Valerio Magrelli di Alberto Fraccacreta Qualcosa di scassato, il midollo sfilato dalla spina dorsale e sguainato come una spada luccicante voce-carcassa vertebra della voce. Presentazione Si parte da un assunto alquanto pregiudicante: la poesia di Valerio Magrelli non ha Oggetto. Ciò significa che la tensione fondamentale della lirica magrelliana – la sua speranza intrinseca e la sagoma riflessa nello specchio del pensiero – è esistente per negazione, inespressa per volontà. Il “tu” accade raramente. C’è un confine, un contorno incerto che si intravede, ma resta difficile da varcare, se non impossibile. Si resta al di qua della soglia. L’intera vicenda poetica si snoda in una continua, ossessiva interrogazione dell’io che si riveste di oggetti da inglobare, fagocitare, usare e usurare. Alla fine del processo l’io si ritrova sempre dinnanzi alla sua povertà epistemologica e veritativa, scoprendo la dépense del suo tempo e del suo essere. Ciò fa sì che gli oggetti, percorrendo una singolare via negationis, nascondano in realtà l’Oggetto, rivelino la sua natura di ricercato e non vissuto, claustrofobicamente liberato dalla sua stessa prigionia di non essere un oggetto. L’Oggetto è non narrato, “il non narrato”; tuttavia lo si presuppone dall’incessante dispendio à la Montale: «Altro comfort fa per noi ora, altro / sconforto»1. Forte sin dagli esordi di una singolare consapevolezza stilistica, Magrelli sembra voglia additarci il mal du siècle: la febbrile fabbricazione di feticci del soggetto, che ha condotto a un assottigliarsi delle possibilità di conoscere davvero il reale. Per mezzo di una macchina stilistica esattissima, che procede per analogie e paragoni, Magrelli non fa altro che far ricadere continuamente il testo su se stesso, senza mai lasciare una via di fuga alla fattualità, al surplus significativo della realtà-vita. La realtà è il suo segno, la realtà è il pensiero, la scrittura è scrittura di una scrittura. Ne deriva un percettibile senso di claustrofobia (ma si potrebbe anche parlare del contrario, di una claustrofilia) all’intera operazione (“Io resto prigioniero/ mentre tra me/ e il cielo della carta/ continueranno a correre/ le sbarre dell’inchiostro./ Solo di questa interminabile/ cattività so scrivere/ e scrivendo infittisce/ la trama del mio carcere”), un ripiegamento della parola sul suo tracciato, sul suo formarsi nel tragitto dalla mente alla carta: ciò che costituisce, appunto, l’oggetto quasi esclusivo della poesia, il meccanismo senza oggetto della conoscenza (“Un tempo si portava sulla pagina/ il giorno trascorso, adesso invece/ si parla solamente del parlare./ Come se nel tragitto/ dall’impressione alla carta/ si fosse dischiusa una vertigine”)2. 1 E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori 1984, p. 381. 2D. PICCINI, (a cura di), La poesia italiana dal 1960 a oggi, Milano, Rizzoli 2005, p. 544. La parola si ripiega “sul suo tracciato”. La conoscenza è un dispositivo “senza oggetto” e senza Oggetto. La poesia diviene poesia di poesia. Trama di trama. Ciò provoca un ristagnamento, una secca del pensiero tipica delle epoche di crisi. Per andare più al fondo della questione, l’inscape (impronta dell’essenza dell’oggetto nel soggetto) e l’instress (azione di relazione tra soggetto e oggetto), teorizzate dal gesuita Hopkins3, sono sfibrate sino a riconoscersi in un peculiare, torbido elemento. Soggetto e oggetto sono una cosa sola: l’unico esistente. Non c’è altro. La poesia è se stessa, non più viaggio in direzione dell’alterità. Non uscita, ma ricaduta. Paradossalmente e contro ogni evidenza, questo status di penuria teologica nasconde un’“esigenza” di teologia. Una poesia teologica offre un senso al suo oggetto e lo orienta e gli imprime una spinta geometrica. Ogni riga è il fasciame sull’asse della chiglia, mentre lungo la prua dove l’opera dello scafo è detta morta, si protende l’immagine curva della polena4. La vacuità, la perdita di senso dell’Oggetto, che trae il suo significato soltanto nell’essere un significante, attesta un punto di netta rottura con la risposta di una blanda verità. È un tentativo di nuovo inizio, di azzeramento, come conferma l’esatta disamina di Piccini: Una simile, lenticolare procedura può sorreggersi solo grazie al virtuosismo della parola, a una lucidità vertiginosa e stupita (di una tonalità di luce morandiana ha parlato Siciliano): da ciò l’irripetibilità di tale linea di ricerca, perché di operazione terminale, conclusiva di una lunga vicenda si tratta. Si ha l’impressione che Magrelli ricapitoli per azzerare e che riparta da un vuoto, una vacuità che ha una sorta di valore terapeutico; l’autore ha spesso ricordato di aver cominciato a scrivere dopo il trauma di un urto, un incidente motociclistico, come ricomponendo con precisione minuziosa il vaso infranto del corpo: ma in fondo qualcosa di simile accade nei riguardi della tradizione, remota e recente, del Novecento5. L’esclusione del dato trascendente acquista, però, un inedito valore. Dal cancellamento deliberato si passa alla rimozione. Il “negativo” di Montale, ad esempio, corrisponde qui a una formula neutra: non c’è spostamento, ma ellissi. Bisogna strappare l’erba vecchia per coltivare 3Cfr. G. M. HOPKINS, Dalle foglie della sibilla. Poesie e prose, a cura di V. Papetti, Milano, Rizzoli 1992. 4 V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992), Torino, Einaudi 1996, p. 96. 5 D. PICCINI, (a cura di), La poesia italiana dal 1960 a oggi, op. cit., p. 544. ancora. Tuttavia, anche con questa nuova soluzione, il dato teologico sembra comunque inestirpabile. Emerge. In cerca di un pregresso: parallelo con Montale Io traccio il mio bersaglio intorno all’oggetto colpito, io non colgo nel segno ma segno ciò che colgo, baro, scelgo il mio centro dopo il tiro6. Se in Montale «la pallottola ignora chi la spara / e ignora il suo bersaglio»7, perché conferisce il ruolo trascendente all’immanente, Magrelli si muove nella duplice negazione del non trascendente e del non rimedio dell’immanente come trascendente. Con Clizia, sembra dire “non siamo ai baracconi’. L’Oggetto non è riconosciuto, né spostato. È oggetti. Nominati e dissolti immediatamente dopo averli proferiti. È un qualcosa di non colto, concepito in questo modo proprio perché non lo si può cogliere, se non all’interno di un’antiepistemologia poetica. “Segno ciò che colgo”: il soggetto nella sua eventualità di oggetto. Già in Ora serrata retinae l’Oggetto esiste soltanto nel riflesso del pensiero sull’esterno, che diviene una manifestazione fisica dell’interno. In Hand with Reflecting Sphere Escher riflette il “dentro sé”, lascia cadere il mondo dentro il soggetto, come in un buco nero che risucchia la luce. L’Oggetto è intimamente cosa di sé, del soggetto, esperito in quanto scorto alla presenza di un osservatore, non possiede una sua realtà in sé. È una visione quantistica del mondo. «Tutto questo corrisponde a una condizione di base del ragionamento dispiegato da Magrelli: un quasi nevrotico, ma più ancora virtuosistico inseguimento dell’essenza della cosa da riprodurre in parola, nella sequenza, nella catena verbale metaforico-analogica»8. Si perviene, dunque, alla scoperta di vere e proprie “nature morte verbali”, all’interno delle quali il rappresentato coincide con il rappresentante. La cucina è gremita di oggetti e veramente può sembrare un bosco. Ogni pianta è al suo posto sorge là dove è messa con pazienza infinita riposa. Pensate alle cose 6V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992), op. cit., p. 177. 7E. MONTALE, Tutte le poesie, op. cit., p. 715. 8 D. PICCINI, (a cura di), La poesia italiana dal 1960 a oggi, op. cit., p. 545. alla flora metallica delle posate9. Il riposo delle cose è allargamento della sfera emozionale del soggetto sulle cose. Chi parla si impadronisce della “creazione” delle cose. Il “sorgere” di queste ultime dipende dal modo in cui sono disposte. Montale conferisce altresì all’Oggetto un “innesto epifanico”. Basti pensare a Keepsake o, meglio, a Buffalo. La cosa agisce sul soggetto. Si presenta, cioè, con tutta la sua potenza in una sorta di investitura conoscitiva e veritativa. In Magrelli, invece, non solo l’Oggetto non ha alcuna radiance, nessuna carica, ma funge da prolungamento esistenziale dell’io. In ciò avviene l’unica verità. Vi è una sorta di paura lirica dell’esteriore, dell’assolutamente altro da sé, che assume la connotazione di una dichiarazione di poetica, secondo la quale tutto deve essere ricondotto all’interno, riportato al cervello, all’intellettuale, alla noesi. È un moto di preservazione di sé, angoscia della dissoluzione. La coscienza intenzionale deve essere sempre “coscienza di”, non accettando mai del tutto lo strappo, il precipizio, mantenendosi sempre in un cerchio connettivo controllabile. In Montale si tenta – almeno fino al “secondo tempo” – una scoperta, anche fugace, della realtà. L’Oggetto magrelliano è trinceramento nell’ordine, ritorno nervoso al cosmos. I lampi gnomiconegativi di Montale alludono a una trascendenza “negativa”, in negativo. Con Magrelli, permanendo comunque nel solco del negativo, si preferisce tacere. Ed è proprio in questa taciuta paura lirica dell’esteriore – estremo tentativo di confondimento e vera esperienza del reale – che il dato etico, metafisico, teologico comincia a erompere per acquisire un diritto di speranza. Da qui, da questa predisposizione teoretica, nasce un percorso di affrancamento misto a sconfessione. Sembra quasi che tutta la natura voglia dare le spalle alla luce – si volge le oppone il suo corpo – nell’abbraccio proteggere il pallore. Gli oggetti nascondono il volto coltivano curvi ciascuno la sua ombra come se l’ombra fosse il loro nome10. Il volto non ancora conosciuto degli oggetti, l’ombra che li nomina, preludono a un differente assetto dell’esperienza. Mentre guadagna il suo spazio vitale nelle cose, l’io riconosce una presenza che non può svellere e che, negandola o tacendola, lo porta a un vicolo cieco. Neanche i temi sono poi diversi 9V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992), op. cit., p. 107. 10Ibid., p. 112. anzi c’è un solo tema ed ha per tema il tema, come adesso11. L’aspetto transtorico della poesia di Magrelli non si fida più della sola parola (il cristallo petrarchesco), ma fa leva soprattutto sulla strategia poetica: sono il processo comunicativo e la capacità di creazione delle immagini che assicurano al poeta un futuro, seppure ipotetico. In Disturbi del sistema binario, ad esempio, domina la figura della reticenza, in particolare nel poemetto sull’anatra-lepre. La reticenza è sostanzialmente uno spostamento del discorso, una divagazione contro ciò che non si vuole dire. La reticenza montaliana ha il suo culmine nel mottetto La rana, prima a ritentar la corda12, nel quale è ribaltata la dichiarazione di poetica delle Occasioni: è taciuto l’oggetto ed è espressa l’occasione-spinta. Ma anche in questo caso sussiste una differenza di approccio: la reticenza magrelliana, di carattere più filosofico che lirico, è assai simile ai petiets poèmes en prose di Francis Ponge. Sui cespugli tipografici costituiti dal poema, su una strada che non porta né fuori dalle cose né verso la mente, certi frutti sono formati da una agglomerazione di sfere che una goccia di inchiostro riempie 13. C’è una riluttanza a esprimere il dato intellettuale, non l’agnizione poetica. La strategia di creazione lirica permette così di far aderire, meglio del linguaggio in sé, la reticenza al proprio fine: stornare la presenza concreta (e sofferente) del mondo. Ristabilire calma e unione, ignorando il franto e accennando una plausibile iustificatio. Il “primo” Magrelli La lucidità espressiva e la concentrazione del verso caratterizzano il “primo” Magrelli. L’individualità è paradossalmente l’unico valore di alterità, ma dissolta («Io sono ciò che manca/ dal mondo in cui vivo,/ colui che tra tutti/ non incontrerò mai») 14. Si raggiunge dunque lo stato wittgensteiniano15 di espressione del Dicibile, attraverso il modello liminale della tautologia: «Per me la ragione / della scrittura / è sempre scrittura / della ragione»16. La tautologia permette un maggiore ancoraggio gnoseologico e anche la sospirata ricaduta dentro di sé. Senza tale ricaduta, incrostata nell’animo come uno stimma incancellabile, c’è il pericolo di una mancanza di identità. E questo è, in effetti, il riflesso del dramma che viviamo nella contemporaneità: il non riconoscersi in un credo, in una fede stabile comporta la perdita del vessillo 11Ibid., p. 15. 12E. MONTALE, Tutte le poesie, op. cit., p. 155. 13F. PONGE, Il partito preso delle cose, traduzione di Jacqueline Risset, Torino, Einaudi 1979, p. 45. 14Ibid., p. 83. 15Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi 1964. 16V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992), op. cit., p. 93. necessario. L’io si chiude in un interrogativo inquietante, appunto tautologico. “Chi sono, se non sono io?”. La risposta è: io sono l’io che non sono, sono oggetti. Non c’è nulla che può confermare una piena e solida identità, nulla in cui riconoscersi. Sono oggetti. Questa consapevolezza ci mette dinanzi a una “atroce incuria” dell’essere. Soltanto il tempo veramente scrive usando come penna il nostro corpo. Per le strade, nei cinema o in un letto questa calligrafia va persa ed è atroce l’incuria degli dei e degli uomini. Quello che arriva sulla carte è solo il commento residuo d’un poema perennemente disperso. Chiosa frugale, calco d’un racconto, questo è l’indice ultimo degli indici17. L’assenza di uno stabile consorzio consegna al frammento anche l’opera (“il commento residuo d’un poema”), vissuta non più nella sua interezza, ma nella sua quasi inutile capacità di fungere da “chiosa”, “calco”. L’opera è quanto, particella; la poesia è quantistica, fisica nucleare dell’animo parcellizzato. In questa maniera rappresenta, pur sempre, una narrazione interrotta, un barbaglio che dà segnali senza opportunità di lettura e risemantizzazione. Un salto, un’impressione di simmetria. In Nature e venature, seconda raccolta, quella che era un’esperienza unica e irripetibile (l’io con io) la si trova condivisa in altri, senza che sussista possibilità di simpatia ed empatia. È l’io con io degli altri. Abbiamo esperienza dell’alterità nella ripetizione delle azioni in cui sono coinvolti soggetti. Ma ognuno ha un posto separato, marginato nella “foto di gruppo”. Siedo al cinema, in cura, votato ad una quieta fisioterapia, l’esposizione a un chiarore riflesso. Ferve lo scambio, cerco la guarigione, faccio lo schermo dello schermo, cedo la vasta compresenza del mio corpo a un’opera lunare. Astante, assente, sono il paziente della mia passione. Fermo nel buio condiviso 17Ibid., p. 62. osservo la discesa della luce, la sua catabasi. Sosto in un bosco, guardo la pellicola di neve cadere sul paesaggio, sul presepe di questa notte artificiale, curva sopra la sala muta nella corrente del racconto. Fisso quella finestra illuminata e scorgo chi passando dietro ai vetri mi fa segno, fa segno a questa gente invalida, malata, messa in posa per la foto di gruppo18. La massa degli uomini, compressa nei luoghi del moderno, sembra accomunata soltanto nella sofferenza. Nonostante ciò, “sono il paziente della mia passione”. L’esperibile non è mai preso dagli altri ma dal proprio vissuto. Ogni io risolve in sé, nella propria interiorità, la “quieta fisioterapia” dello spirito. Tutto si esaurisce dietro la propria sagoma. Appare un segno: qualcuno fa un gesto. Ma tale presenza è articolata in un’immagine recepita noeticamente, che la vincola a un personale assemblamento. Non esiste autenticità. Ogni cosa è mediata e, nell’epicentro di questo mediato, si frappone altra mediazione, sinché non sembra possibile uscire da un circolo secondo cui il fenomenico è tale in quanto non fenomenico. L’esistenza è astensione del giudizio. In Esercizi di tiptologia Magrelli sembra correggere, almeno leggermente, il tiro di questa concezione che lo accompagna, in verità, lungo tutta l’opera poetica. N e L’abbraccio, lirica di notevole bellezza, impreziosita di alcuni fortuiti echi heaneiani19, l’esperienza quotidiana dell’amore permette un commercio nella relazione fra soggetti. I due “stoppini” si passano il sonno e si fondono in una “torcia paleozoica”, in un fuoco che avvampa da sempre e per sempre, ma che è recintato nel pascoliano “nido” del familiare, accaduto all’interno del fremente segreto dell’intimità il cui baricentro è, per altro, spostato al cuore di una “natura fossile”, dentro la “torba”. Tu dormi accanto a me così io mi inchino e accostato al tuo viso prendo sonno come fa lo stoppino da uno stoppino che gli passa il fuoco. E i due lumini stanno mentre la fiamma passa e il sonno fila. 18Ibid., p. 139. 19Cfr. S. HEANEY, North, traduzione di Roberto Mussapi, Milano, Mondadori 1996. Ma mentre fila vibra la caldaia nelle cantine. Laggiù si brucia una natura fossile, là in fondo arde la Preistoria, morte torbe sommerse, fermentate, avvampano nel mio termosifone. In una buia aureola di petrolio la cameretta è un nido riscaldato da depositi organici, da roghi, da liquami. E noi, stoppini, siamo le due lingue di quell’unica torcia paleozoica20. La torba è, per Heaney, la frollatura della terra che serba il dono del passato, mantenendone integro lo stato. Nella torba è custodita l’origine, l’antenato culturale, la spiegazione di ciò che è stato e di ciò che è rimasto. La torba è scrigno dell’identità. In questo senso la terra vigila la condizione di sacertà dell’essere umano. Il sacro viene dalla terra, dalla venatura profonda e concreta dei legami fra mondi. In particolare, la relazione d’amore fermenta, si conserva, si dona, illumina, riscalda, conferisce stato paritario ai soggetti. È l’unica identità possibile, l’unica fede concessa. Si affranca, dunque, dal tentativo psicologico di oggettualizzazione. Ma ancora non si compie nella sua verità più riposta. Nondimeno, la non oggettualizzazione apre la strada al concetto di Einfühlung21, la conoscenza autentica dell’alterità che coincide con l’aver trovato il significato ultimo: ciò che precede l’essenza dell’uomo e i suoi legami con la terra. Porta Westfalica Una giornata di nuvole, a Minden, su un taxi che mi porta in cerca di queste due parole. Chiedo in giro e nessuno sa cosa indichino – esattamente, dico – che luogo sia, dove, se una fortezza o una chiusa. Eppure il nome brilla sulla carta geografica, un barbaglio, nel fitto groviglio consonantico, che lancia brevi vocali luminose, come l’arma di un uomo in agguato nel bosco. Si tradisce, e io vengo a cercarlo. 20V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992), op. cit., p. 250. 21Cfr. E. STEIN, Il problema dell’empatia, Roma, Studium 2012. Il panorama op-art si squaderna tra alberi e acque, mentre i cartelli indicano ora una torre di Bismark, ora il mausoleo di Guglielmo, la statua con la gamba sinistra istoriata dalla scritta: “Manuel war da”, incisa forse con le chiavi di casa, tenue filo dorato sul verde del bronzo, linea sinuosa della firma, fiume tra fiumi. Lascio la macchina, inizio a camminare. Foglie morte, una luce mobile, l’aria gelata, la fitta di una storta alla caviglia, io, trottola che prilla, io, vite che si svita. Nient’altro. Eppure qui sta il segno, qui si strozza la terra, qui sta il by-pass, il muro di una Berlino idrica in mezzo a falde freatiche, bacini artificiali, e la pace e la guerra e la lingua latina. Niente. E mentre giro nella foresta penso all’autista che attende perplesso, all’autista che attende perplesso e ne approfitta per lavare i vetri mentre nel suo brusìo sotto il cruscotto scorre sussurrando il fiume del tassametro, l’elica del denaro, diga, condotto, sbocco, chiusa dischiusa, aorta, emorragia del tempo e valvola mitralica, Porta Westfalica della vita mia22. Sempre in Esercizi di tiptologia, nella medesima sezione in cui è collocato L’abbraccio, in una posizione leggermente anteriore, compare Porta Westfalica: forse lo spartiacque tra la prima e la seconda fase della poetica magrelliana. Il respiro lirico si amplia, abbandona la secchezza del conchiuso per aprirsi all’immenso di un passo, di una foresta, di un paesaggio (“Si tradisce, e io vengo a cercarlo”). Per la prima volta si avverte con nitore – senza che sia asserita nello specifico – una chiara, positiva traccia di trascendenza (“Eppure qui sta il segno”), non appigliata ad alcuna certezza, ma delineata delicatamente in una fisica schiacciante di alterità. Esiste un’esperienza dell’io che non sia io o atto riconducibile intenzionalmente all’io (“io, trottola che prilla, io,/ vite che si svita’). La coscienza si sgretola nell’inconoscibile. Il soggetto vacilla nell’apertura. 22V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992), op. cit., pp. 247-248. La ricerca ossessiva del nome, che è di per sé qualcosa di conchiuso, si scontra con il suo contenuto inesauribile, con la sua mancanza di certo confine certo, sempre contrassegnato dal limite dell’infinito («Eppure il nome brilla / sulla carta geografica, un barbaglio, / nel fitto groviglio consonantico, che lancia / brevi vocali luminose, come l’arma / di un uomo in agguato nel bosco»). Ed è a questo punto che Magrelli avverte – e ci lascia intendere – il cozzo della ragione, il passo non percorribile tra la condizione soggettuale e la realtà esterna. Il nome che è un punto chiaro della realtà tangibile, si slega dalla sua normale oggettualità per librarsi nell’aria del vissuto. Evoca nell’ampiezza. Ma, giunto dentro questo vissuto, svanisce in una presenza impossibile da toccare, recidere, dominare. Il nome è al di fuori del governo dell’io. È vastità che investe l’intera vita, significante di un significato nascosto, non palpabile. Il nome è corporeamente assente. Eppure non è importante che sia l’assenza nell’assenza, ma che presupponga l’assenza nella presenza. Sventola come può; ha resistito a monsoni restando ritta, solo un po’ ingobbita. Se il vento cala sa agitarsi ancora quasi a dirmi cammina non temere, finché potrò vederti ti darò vita23. L’assenza nella presenza è l’altra faccia della distruzione della dialettica soggetto/oggetto: riconoscere empaticamente un mondo di soggetti. Non più contrapposizione intellettiva. L’insostenibile si sostiene e si equilibra in un punto di non oggettualizzazione e di non dissolvenza. Se il fagocitare gli oggetti era un modo per esprimere la mancanza dell’Oggetto, ora quest’ultimo si libera, per un attimo, di tale maschera e diventa altro, l’altro. L’estremo. La paura lirica dell’esteriorità riconosce la presenza. Identifica l’esistenza come un vivere il presente, immergersi nell’eterno. La grande lezione di Porta Westfalica è difficile da sorreggere, oggi, nella società globalizzata. Il subentrare dell’etica nel “secondo” Magrelli Porta Westfalica è il punto di intersezione tra la prima e la seconda fase della poetica magrelliana. Benché alcuni temi persistano e talora ritornino (ad esempio, come si è detto, l’esistenza come astensione del giudizio è il Leitmotiv di Disturbi del sistema binario), c’è qui un punto di rottura e, contemporaneamente, di sutura. Il motore dell’ultimo Magrelli è così una resistente vena etica e una specie di compassione per i suoi simili, diluita in forme verbali come al solito virtuosistiche e svanenti, lievi e costrette sotto vuoto spinto ma poggianti su uno zoccolo 23E. MONTALE, Tutte le poesie, op. cit., p. 439. duro di significato, magari appena suggerito tra gli “incendi dolosi del marketing”: la poesia fatta bisbiglio, sussurro ragionante in un mondo perso nel suo duro accento (è quasi un epigramma la chiusa di Economia: “Adesso Sheherazade non può più nulla”)24. L’impegno etico fa sì che dagli oggetti, vissuti nell’esclusiva gradazione soggettuale, si passi con prudenza all’altro nella sua esperibilità, però, autentica, immarcescibile. C’è un’aspirazione al bene, un bisogno di mettersi al servizio del più debole di matrice fiocamente marxiana, filtrata dal pensiero Simone Weil: un ethos risalente ai primi pensatori Greci, fautori di una morale, per quanto fluttuante, che «deriva direttamente dalla mistica», da ciò «che è situato al di fuori di questo mondo» e che è «la prova sperimentale che il bene puro trascendente è reale» 25. La poesia diventa un modo per scagionare la condizione umana dal peso gravante dell’errore. Pur tuttavia la purezza è guardata con sguardo nostalgico e commosso, da un’angolatura particolare. Nei Quaderni di Weil moltissime sono le riflessioni sul tema dell’anelito al bene puro: in sostanza, esso è riconosciuto come inscindibile al metafisico e alla sofferenza. Quest’ultima pare innata nell’uomo, poiché essere creaturale, originato dall’atto di abbandono di Dio: Dio crea nell’abbandono, e l’uomo deve a sua volta creare un vuoto perché, «facendo posto nello spirito a Dio, la carne viene abbandonata alla necessità» 26. Da tale vuoto si origina la condizione di soggetto che sente una mancanza, una distanza da colmare, sapendo che la strada dell’oggettualizzazione è errata. L’altro diventa, dunque, lo spazio che ci divide dalla pienezza. Ma è irriducibile. Riconoscendo il vuoto come vuoto di sé e vuoto da sé, il poeta sperimenta l’Einfühlung come coraggio lirico dell’esteriorità. Di ciò si ha prova nell’assai significativa La lettura è crudele, poesia centrale dell’ultima raccolta magrelliana: Ti guardo, cerco di guardarti dentro, come se mi sporgessi su un abisso. Mi affaccio al parapetto e guardo giù in fondo al tuo silenzio, mentre leggi in una lontananza irraggiungibile. Vorrei stare con te lì in basso, invece resto inchiodato a questo ponticello atterrito e remoto, separato, legato alla vertigine che amo, se amore è la distanza che ci chiama e insieme la paura di varcarla27. 24D. PICCINI, (a cura di), La poesia italiana dal 1960 a oggi, op. cit., p. 550. 25S. WEIL, Oppressione e libertà, Milano, Edizioni di Comunità 1956, p. 227. 26S. WEIL, Quaderni II, Milano, Adelphi 1982, p. 151. 27V. MAGRELLI, Il sangue amaro, Torino, Einaudi 2014, p. 37. La parafrasi potrebbe essere questo celebre passo di Weil: Se si discende in se stessi si trova che si possiede esattamente quel che si desidera. [...] La sofferenza, il vuoto sono, in casi simili, il modo di esistenza degli oggetti del desiderio. Scostato il velo di irrealtà, si vedrà che essi ci sono offerti così. Quando lo si capisce, si soffre ancora; ma si è felici 28. Questa poesia determina forse la fine del rapporto soggetto/oggetto e apre all’instaurarsi di una nuova relazione con l’altro e con il mondo. Da un accadimento “mistico” deriva un comportamento “etico”. L’Eros, sottolinea Lacan29, è forse tensione verso l’Uno? Ma il godimento non si relaziona all’altro in quanto tale. L’esigenza dell’Uno, come già osservato da Platone nel Parmenide, viene dall’altro. Là dove è l’essere, è l’esigenza dell’infinitezza. Il godimento dell’altro non è segno dell’amore, ma l’amore consiste in un segno: la traccia dell’esilio. Sempre secondo Lacan, fare l’amore – come indica il nome – è poesia. La mistica suggerisce l’esistenza di un godimento che sia aldilà. Quello che è in gioco, è che l’amore sia impossibile e che il rapporto sessuale sprofondi nel non-senso, senza che ciò diminuisca in nulla l’interesse che si ha per l’altro. La contingenza dell’incontro consiste nel cessare di non scriversi. La necessità è nel non cessare di scriversi. L’amore è, dunque, lo spostamento della negazione, il passaggio dal cessare di non scriversi al non cessare di scriversi. Ma proprio in questa “distanza che chiama”, in questa impossibilità data dallo spostamento della negazione, sussiste la paura del superare il varco. L’Uno si presenta, in tale modo, come negazione della negazione. Tutte le creature portano in sé una negazione: l’una nega di essere l’altra. Un angelo nega di essere un altro. Dio, invece, ha una negazione della negazione; egli è Uno e nega tutto il resto, perché niente è al di fuori di Dio 30. L’amore è sacro, possiede quell’aura di sacralità proprio perché comporta un’unione che nega la negazione come è esattamente la natura di Dio. Il trascendente permette l’unione tra l’uomo e la donna facendoli partecipare della sua negazione di negazione. «Io e te, una volta che la luce eterna ci ha avvolto, siamo una cosa sola»31, sostiene ancora Eckhart. La luce è la risoluzione del rapporto oggettuale. Bisogna trasformare l’io conflittuale, oggettivante, in “Eccomi’” me voici. La non oggettualizzazione discende dall’aver trovato il significato ultimo che precede ogni esistenza. La poetica degli oggetti lascia spazio all’apertura. 28S. WEIL, L’ombra e la grazia, traduzione di Franco Fortini, Milano, Bompiani 2002, p. 43. 29Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XX: Ancora (1972-1973), a cura di Antonio di Ciaccia, Torino, Einaudi 2011. 30MEISTER ECKHART, Sermoni tedeschi, Milano, Adelphi 1985, p. 42. 31Ivi. Allegato: intervista al poeta Questa intervista, corredata di un breve cappello introduttivo, è apparsa sul quotidiano online di informazione culturale «Succedeoggi», con il titolo L’attrito di Magrelli. Nell’officina del poeta: un’intervista, il 25 novembre 2015 (http://www.succedeoggi.it/2015/11/lattrito-di-magrelli/). *** Come inquadra l’ultimo lavoro lirico Il sangue amaro all’interno della sua opera? E quale tragitto c’è stato da Ora serrata retinae fin qui? C’è sempre stato un progresso, sotto un profilo progettuale, intendo. Penso che la mia poetica sia mutata molto nel tempo, a seconda delle urgenze esistenziali che venivano costituendosi. L’idea di un nuovo libro è costantemente legata a un cambiamento radicale. Questo lo è “sconcerto” che si prova dinnanzi alla vita, ogniqualvolta si presenti l’opportunità di un’accurata riflessione. Ecco, la stesura di una nuova silloge nasce proprio dall’esigenza particolare di una richiesta d’aiuto. Dopo otto anni da Disturbi del sistema binario, ho pensato che era il momento propizio per sopperire a tale richiesta. Il lavoro strutturale dell’opera è stato assai tortuoso, perché si è trattato di rielaborare il materiale grezzo dandogli, ad esempio, una fisionomia specifica. Basti pensare che per alcune poesie ho adottato il rondinet, una forma metrica legata al rondeau, che consta di dodici versi e due rime. Ho lavorato, cioè, per riadattare quel materiale alla nuova struttura che avevo in mente. È un po’ quello che Heaney definiva il «lavoro della poesia». Esattamente. La poesia necessita di una disciplina e di un’elaborazione peculiare. Verso cosa tende quella sua – così è stata definita da Piccini – «claustrofilia del verso»? Fa parte dell’attenzione del poeta? È vero, c’è un senso di controllo che caratterizza la mia attenzione nei confronti del verso, ma sotto un’ottica che potremmo definire “compositiva’. Non ha a che vedere propriamente con la “qualità’ del verso; qui le prospettive variano abbastanza. Basti guardare, come si diceva prima, alla variegatezza della mia evoluzione poetica: in Ora serrata retinae quei temi politici affrontati nelle ultime sillogi erano impensabili. Questo senso claustrofobico può avere un legame, ad esempio, con la pittura di Morandi, tanto per associarlo a un campo estetico differente? Certo, ci sono delle analogie. Morandi è un pittore che adoro: mi piacciono le sue immagini ferme, l’estrema concentrazione degli oggetti, il fatto che la scena sia perennemente assorta. Morandi ha un solo soggetto centuplicato, ripetuto allo sfinimento per meglio inquadrarlo nella sua idea di realtà, mentre io ho cambiato poetica, ho acquisito soggetti più disparati che tento così di fagocitare. L’oggetto conchiuso, espresso nella «claustrofilia», non ha dunque una possibilità di trascendenza. No, c’è una condanna all’immanenza. Il gioco consiste proprio nel dare all’immanente il valore più alto concepibile, senza l’eventualità di una fuga ulteriore. In Porta Westfalica, uno dei suoi esiti più importanti, per usare un’espressione del Montale delle Occasioni, il «nome agisce». L’occasione-spinta cosa cela dietro all’oggetto? Anche qui ricordo quanto a lungo abbia lavorato sul testo per conferirgli una legittimazione espressiva. La ripresa del verso riguardante l’autista che «attende perplesso» è, ad esempio, un omaggio a Robert Frost. Porta Westfalica è un’interrogazione ossessiva del nome, una sorta di cratilismo, l’idea cioè che il linguaggio non sia arbitrario. Sappiamo dalla linguistica strutturale di Saussure che il linguaggio è invece una convenzione fra parlanti. Chi scrive però tenta, talvolta, una strada diversa. A questo proposito, la poesia può avere un potere “epistemologico”? Sì, senz’altro. Il poeta cerca un senso, investe la sua poesia di una forza. In Cave cavie! cerco di spiegare la mia idea di testo poetico: è un continuo esperimento, un provare ad acquisire realtà. Anche se tentassimo di scomporre Porta Westfalica, di riprodurla in scriptio continua, conserverebbe la sua energia poetica. La sua spinta. Qual è la differenza della poesia? Per dirla con una battuta di Viktor Šklovskij, la poesia è un linguaggio rallentato, frenato, come di un treno che stia cercando di arrestarsi e che provoca un attrito, di cui il linguaggio quotidiano non ha precisa nozione. Non riesce a contenerlo. La poesia dimostra così un’intensità che non si può trovare in nessun atto linguistico. Il suo “secondo mestiere” è quello di professore di francesistica presso l’Università degli Studi di Cassino. Qual è il suo rapporto con la poesia francese? Nessuno in particolare. Sono stato maggiormente influenzato dalla cultura francese tout court. Penso a Proust, al romanzo sperimentale, alla saggistica. Certo, riconosco che Henri Michaux sia uno dei più grandi poeti del secolo scorso. Ma, in generale, la poesia francese ha contato meno rispetto ad altre forme espressive, come la prosa. Appunto. Lei è anche autore di alcuni premiati testi in prosa. Gli ultimi Geologia di un padre e Lo sciamano di famiglia, dedicato alla sua amicizia con Fellini. Quale differenza sussiste nel meccanismo della scrittura? Come si approccia alla poesia e come alla prosa? È una domanda molto interessante. Credo che poesia e prosa abbiano due sistemi respiratori diversi. Per molti anni ho conservato gelosamente l’idea che non sapessi scrivere in prosa. In effetti, c’è un tipo di narrativa che non so scrivere: la cosiddetta fiction. Ho provato, invece, con l’autofiction, il racconto “variato” che riguarda la vita, e ho notato che mi è molto più confacente. Quando scrivo in prosa di solito adotto lo stile autobiografico, naturalmente nel segno della divagazione. Lei è un autore Einaudi, praticamente l’unica grande casa editrice che pubblica ancora i poeti contemporanei. Quale futuro vede per la poesia in Italia? Non crede che la crisi sia, in questo senso, quasi straziante? Più che straziante, la chiamerei “cronica”: la poesia vive della sua crisi, fa della crisi la sua forza. Mi preoccuperei, invece, del totale deprezzamento della cultura a livello nazionale. È importante, in questi frangenti, non abbassare le armi. E che consiglio dà a un giovane poeta o scrittore che vuole affacciarsi all’attuale mondo editoriale? Leggere molto e, soprattutto, frugare, cercare su riviste telematiche. Avere la curiosità e lo spirito critico giusti. C’è stato un grande scadimento dei giornali da qualche anno a questa parte. Sul web, invece, si trovano delle risorse molto interessanti. Leggo quasi ogni giorno alfabeta2 e Doppiozero. Tra l’altro, curo una rubrica su Il reportage, che si chiama Didascalie. Credo che il panorama sia abbastanza ricco per chi voglia avvicinarsi alla letteratura. Una cosa è certa: bisogna far uscire la poesia dalle catacombe. Sono fiducioso e convinto.