L`uomo non mente

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L`uomo non mente
(dal mensile Tracce)
L'uomo non mente
Alessandra Stoppa
NEUROSCIENZE - LA NUOVA FRONTIERA
Come funziona il cervello??Siamo bombardati da ricerche e scoperte che diventano subito slogan. Ma le domande sono sempre di
più. Iniziamo una breve serie che ci introduce al mondo delle scienze cognitive: una rivoluzione pari a quella galileiana. Il filosofo
della mente, MICHELE DI FRANCESCO, ci spiega che, innanzitutto, occorre sapere come affrontarla
«Scoperta l’area delle scelte morali». «Così nasce il ricordo». «Fotografata l’emozione». Qualche flash dall’ultima e più
promettente frontiera di ricerca: le neuroscienze. Nata come studio del sistema nervoso, oggi è scivolo per un campo di indagine
sempre più articolato e interdisciplinare, dai movimenti impercettibili degli occhi al problema di dove (e cosa) sia la coscienza.
L’attenzione è grande, non solo per gli enormi investimenti dei Governi, Stati Uniti in testa, nei progetti di ricerca, ma anche per
l’instancabile fascinazione del mistero della nostra mente.
Ciò che tentiamo con una breve serie di articoli non è sondare il panorama poliedrico delle neuroscienze, ma essere più
consapevoli della rivoluzione in atto, che per il filosofo della mente Michele Di Francesco, già preside della Facoltà di Filosofia
dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, oggi rettore dello Iuss di Pavia, «è paragonabile a quella galileiana». Dato che
le notizie fanno quasi sempre riferimento a singole scoperte, finiamo per infatuarci dei messaggi semplificati, della suggestione
che portano più che del loro effettivo valore. Anche per questo, è molto facile lo slittamento e la confusione tra i risultati delle
neuroscienze e la tentacolare neurocultura che ne deriva: una visione antropologica in ascesa, per cui l’uomo è un “soggetto
cerebrale” e il cervello il luogo del Sé, secondo il noto: «Tu non sei altro che un pacchetto di neuroni», formulato all’inizio degli
anni
Novanta
dal
Premio
Nobel
Francis
Crick.
Negli stessi anni, lo scrittore Tom Wolfe avvertiva «il senso di gelo che emana dal settore più scottante del mondo accademico».
E chiosava: «Viviamo in un’epoca in cui la scienza è un tribunale che non concede appello. Ma, questa volta, la posta in gioco è la
natura del nostro prezioso io interiore». Questa volta ci indica un tornante storico imperdibile. Eppure, proprio per la posta in
gioco, il rischio è rinunciare alla comprensione dei successi scientifici perché non vogliamo ci sia sottratta la misteriosa grandezza
dell’essere uomini. Per questo, davanti alla potente sfida intellettuale che le neuroscienze ci pongono, bisogna innanzitutto
«sapere come affrontarla».
Professor Di Francesco, perché il paragone con la rivoluzione galileiana?
Come sono state poste le basi per una rivoluzione della conoscenza del mondo fisico, così oggi siamo nel pieno di una
rivoluzione che permette di comprendere il funzionamento della mente umana. Per la prima volta nella storia. Ma questo non
solo grazie alle neuroscienze: esse fanno parte della grande impresa delle scienze cognitive, tra cui la psicologia cognitiva,
l’intelligenza artificiale, la linguistica e altre discipline. La rivoluzione cognitiva è iniziata negli anni Sessanta-Settanta, quando
non è più stato sufficiente l’approccio comportamentista, per cui la mente era considerata una “scatola nera”, inconoscibile, e la
sola comprensione sperimentabile e scientifica era il rapporto tra stimolo ambientale e risposta dell’uomo.
Oggi che lo studio del cervello è al suo massimo vigore, anche grazie alle neuro-tecnologie che permettono la mappatura
cerebrale, qual è il modello dominante?
Oggi gode di notorietà e autorità il neurocentrismo di una parte importante del materialismo contemporaneo, che riconduce i
fenomeni mentali all’attività nervosa del cervello e li confina nella scatola cranica, fino alla coincidenza tra essere una persona e
avere un cervello. Ma si fanno strada anche modelli che insistono, in varie direzioni, su una concezione della mente non solo
come prodotto di meccanismi interni all’organismo, ma come sistema dinamico, aperto al mondo e immerso in esso. Comunque,
il punto è che siamo di fronte a un nuovo tentativo di riscrittura dei confini della mente: come dei meccanismi neurochimici
producono la coscienza e il pensiero? È l’enigma a cui vogliono trovare soluzione le scienze cognitive, di cui le neuroscienze sono
le più spettacolari.
Perché colpiscono di più?
C’è una capacità di attrazione che nasce dal tipo di comunicazione che permettono. Sono appunto facilmente divulgabili,
semplificabili. Se io mostro una bella immagine tratta da una risonanza magnetica funzionale, dove si vede l’attivazione di
un’area cerebrale, e a fianco scrivo: «Scoperta l’area delle decisioni morali», ecco questo è un messaggio che passa con grande
forza. Ciò non significa che la scoperta non abbia una reale, effettiva importanza. Ma il problema è sempre andare a vedere
bene cosa dimostra. E comunque, la vera ragione dell’attenzione che hanno e che meritano è che oggi costituiscono la frontiera
che più promette grandi progressi.
Progressi clinici?
Innanzitutto. Di fronte all’invecchiamento della popolazione, il tema delle malattie neurodegenerative diventa di primaria
importanza. Noi viviamo sempre più a lungo, ma il periodo di vita che “guadagniamo” è spesso vissuto in condizioni difficili da
accettare e affrontare: noi non vogliamo vivere cent’anni, se negli ultimi venti siamo incapaci di intendere e di volere. Vogliamo
vivere bene. Il problema non è allungare la vita, ma la sua qualità. Per questo, si scommette così tanto sulle neuroscienze. Al
contempo, la vita dell’uomo è sempre più filtrata attraverso le sue capacità cognitive, le capacità di pensiero, per cui l’equazione
che scatta è: più conosciamo la mente, più conosciamo gli esseri umani.
I dati in sé non coincidono tout court con una visione del mondo e dell’uomo, pretesa che hanno invece le teorie interpretative. A
suo
parere,
quali
sono
i
dati
delle
attuali
scoperte
che
non
possiamo
ignorare?
Il primo dato è che la coscienza è meno centrale di quanto abbiamo sempre pensato, perché il nostro agire è fatto di una
miriade di processi sub-personali: gran parte della nostra vita cognitiva è fatta da meccanismi automatici, processi di
elaborazione di cui siamo all’oscuro, perché sono sub-coscienti. Come quando guidiamo sovrappensiero eppure ci fermiamo allo
stop, o come quando abbiamo quella sensazione di totale vuoto mentale, per cui andiamo in una stanza, il nostro pensiero è
altrove e a un certo punto ci fermiamo perché si interrompe l’automatismo: “Cosa stavo facendo?”. Ciò detto, non è possibile
arrivare a concludere che la coscienza non conti nulla. Questo è il salto non giustificato del riduzionismo.
Quali altri macro-risultati non possiamo ignorare?
Quelli che riguardano l’introspezione. Abbiamo una fiducia istintiva nelle nostre capacità auto-esplorative: pensiamo che quando
guardiamo dentro noi stessi acquisiamo una conoscenza che non può essere messa in dubbio. Invece oggi i risultati contrastano
proprio il modello cartesiano, l’idea secondo cui noi conosciamo la nostra mente meglio del mondo esterno.
Come sappiamo che l’introspezione è fallace?
Farei due esempi: da un lato, le ricerche sui nostri processi decisionali mostrano che le ragioni che adduciamo per giustificare le
nostre azioni spesso sono fallaci. Dall’etica all’economia, alla politica, si è aperta una nuova frontiera in cui le neuroscienze ci
aiutano a capire come le deliberazioni razionali siano influenzate (a nostra insaputa) da “pregiudizi” inconsci, automatici e
sottratti all’introspezione. Il secondo esempio è la nostra stessa conoscenza dell’io. Non solo l’ego cartesiano, la res cogitans,
non è rintracciabile introspettivamente (come aveva già notato Hume), ma oggi sappiamo anche che la conoscenza interna di
noi stessi è fallibile quanto quella esterna. La scienza ci dice che i processi psicologici e neurologici avvengono in un modo che
non corrisponde a quello che ci rappresentiamo. Percepire non è crearsi una rappresentazione statica del mondo esterno;
ricordare non è crearsi un archivio statico di ricordi fissi e immutabili - entrambi questi processi sono dinamici e abbinati
all’evoluzione della nostra relazione col mondo. Così come ragionare correttamente è un’attività che richiede necessariamente il
contributo delle emozioni, e così via.
Lei ha dato conto al pubblico italiano del dibattito d’Oltreoceano sul modello della “mente estesa”, formulato dai filosofi Andy
Clark e David Chalmers nel 1998. Una nozione di mente che non rinuncia alla dimensione personale e fenomenologica
dell’esperienza di sé, e che pone la domanda: dove finisce la mente e inizia il resto del mondo?
È il rifiuto di un’identificazione ontologica ed epistemologica di mentale e cerebrale. Il soggetto è un impasto di pensiero
biologico e potenziamento culturale. Le neuroscienze, dunque, possono aiutarci sempre di più a capire la base biologica che
rende possibile questa capacità di reclutare tante risorse ambientali per potenziare l’intelligenza, ma non abbiamo ancora
risposte su questa interazione, su come mai il cervello è fatto in modo tale da permettere la sua stessa espansione.
Quindi, qual è la sfida?
È interpretare la correlazione tra vita mentale e processi neurofisiologici. L’immagine scientifica più accreditata è che se togli il
cervello non hai la mente. Ma se tu prendi una persona e le togli la relazione, allo stesso modo non hai una mente (o una mente
genuinamente umana). Un bambino che cresce solo avrà disfunzioni gravissime, una coscienza alterata, una frantumazione della
mente. Per cui la mente, la sua unità, non è prodotta dal cervello e basta. Si parla di due poli di un campo magnetico: non è che
se ne togli uno, hai mezzo campo. Non hai nulla.
La posta in gioco è, quindi, il concetto stesso di ragione. Se essa è limitata alla dimensione biologica, il paradosso è che la scienza
negherebbe innanzitutto se stessa, negherebbe l’esperienza “in prima persona” che media la conoscenza.
Non è concepibile il mondo se viene cancellata la dimensione totale dell’essere persona. Quando noi caliamo nella realtà un
certo tipo di concezioni materialiste, si svela un pregiudizio: l’idea che ci siano prove fornite dalla visione scientifica del mondo
che esista da qualche parte una descrizione della realtà che sia perfetta, chiara, impersonale e disincarnata - alla quale dovrà
necessariamente ridursi il principio vivente dell’essere umano. Una descrizione che permetta di risolvere la “tensione” tra
naturale e spirituale, inglobando il lato personale in quello impersonale. Personalmente sospetto che questa tensione faccia
parte
dei
limiti
cognitivi
della
nostra
specie.
Non
è
risolvibile.
Forse non è un limite, ma il segno di una grandezza.
È una tensione evidente da quando l’essere umano ha cominciato a costruire un’immagine del mondo sui risultati scientifici. Io
sottolineo solo una cosa: se c’è un tema che risorge continuamente è quello della libertà. Ci chiediamo se siamo più liberi dei
topi e rispondiamo di sì perché possiamo scegliere di più. Ma diciamo che non siamo liberi in senso assoluto. E cosa vorrebbe
dire? Agire senza una ragione? Io agisco solo in base ad una ragione: agisco secondo dei motivi cui aderisco.
Le neuroscienze studiano i “correlati neurali”, lo stato cerebrale corrispondente ad un’esperienza. Questo cosa ci dice
dell’esperienza?
Potremmo dire che non aggiunge nulla, ma sarebbe sbagliato: la neuroscienza può e deve integrarsi positivamente con la
fenomenologia, ma non credo basti a spiegarla. Un esempio: avrebbe senso descrivere l’attività di scrivere un romanzo solo
parlando di quello che succede nel cervello? L’interazione con ciò che ho davanti è continua: scrivo, cancello, guardo, torno
indietro. Si costruisce un sistema più ampio, che comprende me e quello che sto scrivendo.
Se il nostro vissuto è per natura irriducibile ad una funzione neuronale, che orizzonte aprono i correlati?
Offrono grandissime possibilità che devono essere valutate, nel loro impatto etico, politico, giuridico, e nella rappresentazione di
noi stessi. Supponiamo che io riesca ad identificare certe forme di disagio psichico aventi come correlato uno stato cerebrale
preciso. E supponiamo che io produca una molecola che interviene su quel disagio. È di grande importanza. Ma non è detto che
sia la soluzione.
Perché?
Può essere che quel disagio, che pure ha una base cerebrale, derivi da una difficoltà di relazione. Se riduco il comportamento
sociale a basi neurobiologiche, collaboro ad un impoverimento della natura umana. È il motivo per cui in America si danno gli
psicofarmaci al bambino troppo agitato: è più comodo dare una pillola che costruire una scuola in grado di accoglierlo. Ma è
giusto? Bisogna essere capaci di porsi la domanda.
E lei cosa risponde?
Dico che pensare di prendere una pillola della felicità per essere felici non ci va bene. Ma perché? Forse perché abbiamo una
visione più ampia dell’essere umano. Forse perché non coincidiamo con: «Ho un certo equilibrio funzionale a livello neurale». Se
così fosse, andrebbe benissimo la pillola. Ma l’essere persona, la dignità umana, è un’altra cosa. Vogliamo essere felici nel modo
giusto.
Quale?
Non vogliamo “lo stato neurale che corrisponde all’esperienza della felicità”. Vogliamo una felicità fatta come deve essere.