Friedrich Dürrenmatt o l`impossibilità della giustizia

Transcript

Friedrich Dürrenmatt o l`impossibilità della giustizia
Friedrich Dürrenmatt o l’impossibilità della giustizia
(Pavia, 15 maggio 2013)
Friedrich Dürrenmatt nasce nel 1921 a Konolfingen nel cantone di Berna, in
Svizzera, e muore a Neuchâtel il 14 dicembre 1990, stroncato da un infarto.
Abbandonata l'università dopo gli studi in filosofia, germanistica e storia
dell’arte, decide di dedicarsi al teatro, passione che gli porterà fama
internazionale con opere come La visita della vecchia signora (1956) e I
fisici (1962). Molto noti sono anche gli adattamenti cinematografici dei suoi
romanzi gialli come Il giudice e il suo boia (1952) o La promessa (1958).
Meno conosciuti invece i saggi filosofici, le opere autobiografiche
dell’ultimo periodo e l’attività pittorica, in cui icasticamente esprime la sua
apocalittica visione del modo.
***
La paradossalità della giustizia occupa il ruolo centrale fra i temi che lo
scrittore elvetico affronta sia nelle sue opere teatrali sia soprattutto nei suoi
romanzi e racconti, nei quali, essendo meno evidente la presenza di figure
intermedie, sembra possibile corrispondere meglio alle esigenze non
soltanto di una fantasia che ama tessere un gioco sempre più fitto fra
racconto autobiografico, invenzione figurativa e riflessione filosofica, ma
pure di una poetica che ambisce ad irrompere nella letteratura come atto
demiurgico, onde farla deflagrare dall’interno. L’insistito recupero da parte
di Dürrenmatt del romanzo poliziesco obbedisce non a caso all’intenzione di
mostrare il limite di un genere che esprime nel miglior modo possibile la
vocazione finzionale propria della letteratura.
Come esemplarmente mostra La promessa recando come sottotitolo
“requiem per il romanzo giallo”, non è oscillando fra una concezione
secondo la quale è l’imprevedibilità affatto casuale delle azioni umane a
determinare il venire alla luce della maggior parte dei delitti, ed una
concezione in base alla quale è, invece, la confusione dei rapporti umani a
generare l’impossibilità per alcuni delitti di essere scoperti e puniti, che
possono dirsi esauriti, contrariamente a quanto si è soliti opinare, i percorsi
diegetici del romanzo giallo. Può infatti anche sorgere l’eventualità, come in
effetti accade nel romanzo del 1958, che « il peggiore dei casi» si verifichi,
facendo sì che quanto doveva fungere da una presa di congedo dal romanzo
poliziesco finisca con il rivelarsi una sua reductio ad absurdum (Cesare
Cases).
A far scoprire, quando ormai è troppo tardi, chi fosse stato (dopo un
primo fermo d’un venditore ambulante sul quale si erano addensati
ingiustificati sospetti, sufficienti però ad indurlo a togliersi la vita, nella
solitudine disperata d’una camera di sicurezza) ad uccidere la piccola Gritli
Moser è la fortuita confessione in punto di morte dell’anziana consorte
dell’assassino, deceduto in un incidente automobilistico proprio il giorno in
cui la trappola predisposta con calcolo spregiudicato dal commissario
1
Matthäi avrebbe dovuto entrare in funzione. La missione di Matthäi non è
dunque, secondo quanto sarebbe lecito attendersi in un “giallo”
convenzionale, coronata dal successo. Anzi, dimostrando quanto esatte
fossero le parole dello psichiatra al quale si era rivolto per avere lumi sul
profilo del possibile omicida, l’esito infausto della sua inchiesta lo condanna
ad essere divorato da quella stessa pazzia cui il suo metodo d’indagine si era
ispirato, nella convinzione che non dovesse restare senza risposta
l’interrogativo che chiedeva che cosa fosse giusto e che cosa fosse sbagliato,
anche qualora ciò avesse comportato il «naufragio nell’assurdo». Sarebbe
d’altra parte stolido – nella prospettiva di Dürrenmatt – aderire
all’architettura che sostiene la più parte dei romanzi polizieschi: in questi
«tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima,
qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le
regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria
della giustizia». Nella ferrea applicazione di principi logico-deduttivi il
romanzo poliziesco non fa minima attenzione all’evidenza che mostra come
la ragione umana rischiara il mondo non più dello stretto necessario, mentre
ogni cosa d’intorno partecipa d’un inesauribile paradosso. In tal senso
omettere di considerare la paradossalità nella quale la realtà umana nella sua
interezza è immersa, attraverso la pretesa di imporre principi perfettamente
razionali, significherebbe commettere il peggiore errore possibile: costruire
a bella posta un universo da dominare, dal quale sia interamente assente
l’ambito infinito del possibile. Il reale infatti è a ben vedere «solo un caso
particolare del possibile, e per questo è anche concepibile in modo diverso.
Ne consegue che, per poterci addentrare nel possibile, dobbiamo trasformare
il concetto del reale» (Giustizia, 1985). Il che, a sua volta, implica accettare
che quest’ultimo non possa più riflettere un ordine retto da leggi fondate
sulla probabilità e sulla statistica, bensì un assoluto disordine, cui si
addicono unicamente i caratteri del grottesco, in quanto paradossale «forma
di un’assenza di forma, volto di un mondo senza volto» (Questioni di teatro,
1955).
Spiccatamente antinaturalistico nel suo negare la possibilità di un
rapporto riproduttivo fra la mente umana ed il caos dell’universo,
Dürrenmatt rivela con estremo nitore l’insieme delle conseguenze che una
tale visione importa ove trasposta nell’ambito della giustizia. A questo
riguardo la conferenza tenuta nel 1968 presso l’Università di Magonza Sulla
giustizia e sul diritto si procura di mostrare come il mondo è in disordine, e
poiché esso è in uno stato di disordine, esso è ingiusto. Più esattamente –
precisa Dürrenmatt – se «la giustizia è un’idea che presuppone una società
di persone», è necessario prendere in esame il modo in cui tale idea possa in
concreto tradursi, così da formare un ordinamento sociale giusto.
L’elaborazione concettuale prevede, d’altra parte, che si disponga di
concetti esatti, per mezzo dei quali sviluppare sistemi e strutture esatte utili
alla creazione del nostro universo di pensiero e di vita. Il concetto di uomo,
tuttavia, si mostra, a differenza di tutti gli altri, affetto da una intrinseca
duplicità. Esso definisce tanto qualcosa di particolare quanto qualcosa di
generale. Ma invero questa peculiarità è propria anche di altri concetti, ad
esempio quello di numero. Ciò nondimeno solo l’uomo è in grado di
formulare concetti su se stesso. Ne segue che «tramite il concetto particolare
che ha di se stesso l’uomo si isola, tramite il concetto generale egli si
associa agli altri uomini»: ricorrendo al concetto particolare che l’uomo ha
2
di sé – potrebbe dirsi in modo ancora più conciso – egli si coglie
immediatamente nel suo carattere esistenziale, laddove, ove voglia
intendersi nei modi di un concetto generale, deve ricorrere alle risorse che
gli offre la logica deduttiva. Per questa via, e dunque diventando
consapevole del suo dover essere un uomo fra gli altri uomini, l’uomo
prende a concepirsi in modo paradossale: «Il concetto generale che egli si fa
di sé – scrive Dürrenmatt – non comprende il concetto particolare che egli
pure si fa di se stesso. Nel concetto generale l’uomo esclude se stesso come
individualità». È sulla scorta di tale constatazione che dovrà declinarsi la
questione che investe la possibilità di un ordinamento sociale giusto,
questione che per l’appunto dovrà porsi avvertendo la dicotomia
individuo/società che attraversa il concetto di uomo. Accogliendo una o
l’altra accezione di tale concetto, il tipo di giustizia muta sostanzialmente. Il
diritto del singolo consiste nel fatto di essere se stessi secondo libertà; il
diritto della società consiste, invece, nel garantire la libertà di ciascuno
secondo giustizia. Il rapporto fra libertà e giustizia non si pone su un
medesimo piano. Un’idea esistenziale, quale è quella di libertà, è data
dall’emozione; un’idea logica, quale è quella di giustizia, è una concezione
intellettuale. In tal senso, sostiene Dürrenmatt, a cospetto dell’interrogativo
su che cosa sia un ordinamento sociale giusto è necessario trarre la
conclusione per la quale di fatto «non esiste un ordinamento sociale giusto,
perché l’uomo, se cerca giustizia, ha ragione a trovare ogni ordinamento
sociale ingiusto, e se cerca la libertà, ha ragione a trovarlo privo di libertà».
È questa l’empasse che pare condizionare l’anelito alla giustizia che
anima i personaggi dürrenmattiani. Come emblematicamente afferma
l’avvocato Spät in Giustizia: «La sensazione di essere nel giusto mi
distrugge». Il vano ricercare un ordinamento sociale libero e giusto ha quale
unico effetto quello di provocare l’esuberante crescita dell’ideologia, in
quanto cosmetico di cui il potere si vale per truccarsi, per fingersi spirituale,
mentre dà sfogo alle proprie manifestazioni più violente e repressive, le
quali, come Dürrenmatt attesta in La panne (1956), non debbono
necessariamente appartenere ad un ordinamento statale per essere eclatanti,
essendo sufficiente che anche solo un ristretto gruppo d’individui coltivi
l’idea che la dignità dell’uomo non meriti rispetto alcuno. Da questo punto
di vista l’esercizio del potere può anche compiersi secondo i riti imposti
dalla sinistra pantomima d’un processo inscenato da un giudice in pensione
e da alcuni suoi colleghi in danno d’un ingenuo loro ospite, e parimenti
essere avvertito come giusto, inculcando l’impressione che è impresa
assolutamente disperata voler conservare la propria innocenza, dal momento
che d’un «crimine si finisce per essere sempre trovati colpevoli». Nell’ottica
di Dürrenmatt l’indubitabilità della colpa si collegherebbe al carattere
incerto ed arbitrario che la giustizia finisce con il possedere una volta
ricondotta ad un principio di autorità.
Non dimentico del carattere anfibologico che il termine Gewalt ha in
lingua tedesca, significando esso tanto violenza quanto autorità, il dettato di
Dürrenmatt, in particolare ne Il giudice e il suo boia (1952), dove un
commissario di polizia manovra occultamente un assassino per eliminare un
abilissimo criminale, e ne Il sospetto (1953), dove il medesimo commissario
espone ad un pericolo esiziale un giornalista pur di arrivare a scoprire la
vera identità d’un ex medico dei lager che opera sotto mentite spoglie in
Svizzera, si propone di mostrare come ogni azione umana che voglia
3
conformarsi all’autorità della legge sia vittima d’una strumentalizzazione
che inscena un “gioco di sponda”, nel quale – ha scritto Roberto Cazzola –
tutti gl’individui «sono semplici birilli o pedine di una partita che li
trascende». L’atto di autorità, se si accetta l’etimologia proposta da Émile
Benveniste, secondo il quale il termine “auctoritas” deriverebbe da
“auctor”, il quale a sua volta deriverebbe da “augeo”, da intendersi non
soltanto come “accrescere, aumentare ciò che esiste”, ma pure come “creare
qualche cosa di bel nuovo”, determinerebbe «un cambiamento nel mondo»,
dando esistenza alla legge. Tale cambiamento storicamente segna il
passaggio dall’esercizio della forza da parte dei singoli all’esercizio della
forza da parte della società, come Dürrenmatt efficacemente mostra ne La
promessa, allorché fa dire al commissario Matthäi, a cospetto della folla che
vorrebbe linciare l’ambulante presunto assassino della piccola Gritli: «Ora
voi avete deciso di farvi giustizia da soli […] ma io debbo pretendere
qualcosa da voi, come da ogni altro tribunale: giustizia. Perché è chiaro che
vi potremo consegnare l’ambulante solo quando saremo persuasi che volete
giustizia». In tal senso la giustizia rappresenterebbe ciò che sospende la
forza dell’individuo, delegandola alla forza della legge. Ma il «fondamento
mistico dell’autorità delle leggi» (Montaigne) coinciderebbe, per
Dürrenmatt, unicamente con l’apparato burocratico della giustizia, che però
non garantirebbe affatto il realizzarsi di un giusto ordine sociale. Per questo,
se si adotta il punto di vista del dottor Kohler in Giustizia, il quale si è reso
colpevole di un omicidio proprio «per indagare le leggi che costituiscono il
fondamento dell’umana società», si scopre che esse sono a tal punto
vincolate ad un principio di causalità logica che, se viene meno anche un
solo nesso, esse possono, pure a cospetto d’un reato commesso in flagrante,
consentire al colpevole di farla franca. Nondimeno, non si tratta soltanto di
rilevare la difficoltà, a cospetto di un eccessivo formalismo, di poter
esercitare a pieno la legge; ma, più radicalmente, di prendere coscienza di
come si viva in un’epoca nella quale – come in modo drammatico si
sostiene dal breve racconto Pilato (1949) – avendo dio smesso di curarsi
della nequizia dell’uomo, questi, come aveva già presentito un autore molto
amato da Dürrenmatt, Georg Büchner, è ormai veramente solo con le sue
colpe. Sperare nella grazia divina affinché si venga redenti dalla nostra
terrena schiavitù è impossibile, come si evince dal dramma del 1954 Un
angelo è sceso a Babilonia; ma altrettanto vano è confidare nella giustizia
umana, mera «ferocia camuffata di idealismo» (Eugenio Bernardi), cui non
si attaglia alcuna definizione. Se infatti, in senso generale, con “definizione”
si intende quel situare l’oggetto nel suo genere che presuppone la
liberazione del fenomeno amorfo dalla sua confusione per farlo entrare in un
universo di linguaggio, la definizione di giustizia alla quale si viene
introdotti da Dürrenmatt non perviene ad alcun ordine di discorso che possa
situarla illativamente tanto in un ambito storico quanto in un ambito logico:
allorché la giustizia fosse tematizzata, essa dovrebbe riferirsi ad una realtà
che essa stessa è chiamata a costituire, per il fatto di essere pronunciata in
condizioni che la rendono atto. Ne deriverebbe che la giustizia sarebbe allo
stesso tempo manifestazione linguistica e fatto di realtà. Ma a ben vedere,
per lo scrittore svizzero, tale sui-referenzialità della giustizia sarebbe
radicalmente infirmata dal nostro essere posteri ad ogni colpa come ad ogni
follia omicida, una condizione esistenziale in ragione della quale tanto
4
linguisticamente quanto realmente enunciare la giustizia sarebbe una
esperienza del tutto impossibile.
Brancolo nel buio – confessa l’avvocato Spät in Giustizia – Che cos’è giusto? Che cos’è
eccessivo? Che cosa è stato falsato? Che cosa si è taciuto? Di che cosa devo dubitare? A
che cosa devo credere?
L’infinito linguistico su cui dovrebbe stagliarsi, come ogni definizione,
quella di giustizia non soltanto non si offre allo sguardo, ma neppure si
segnala: le Eumenidi dormono, e forse ormai non compaiono neppure se
chiamate.
Luigi Azzariti-Fumaroli
5