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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE CANONISTICHE ED ECCLESIASTICISTICHE Tesi di dottorato di ricerca XXV ciclo LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE NEL DIRITTO CANONICO MEDIEVALE Tutor e Coordinatore: Dottorando: Chiar.mo Prof. Giuseppe Rivetti Dott. Matteo Carnì A. A. 2013/2014 INDICE DELLA TESI DI DOTTORATO Tavola delle abbreviazioni pag. 4 Premesse e linee di ricerca pag. 6 » » 6 7 » 11 » 13 pag. 15 » » » » » » » » » » » 15 16 17 19 20 21 23 26 27 31 34 » » » 34 36 39 » » » 42 46 53 » » » » 57 62 68 69 1. Il principio «Responsabilità» 2. Tra «alterum non laedere» e «regula aurea» 3. Linee di ricerca sulla responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico 4. Explicatio terminorum Capitolo I – La responsabilità extracontrattuale nel diritto romano Introduzione 1. Il danno da fatto illecito nella normativa preaquiliana 1.1. Il danno alle cose e alla persona nella legge delle XII tavole 2. Il danno nella posteriore legislazione preaquiliana 3. La lex Aquilia 3.1. Contenuto e caratteristiche dei capitoli I e III della lex Aquilia 3.2. Contenuto e caratteristiche del capitolo II della lex Aquilia 3.3. Permanenza delle azioni anteriori alla lex Aquilia 3.4. Presupposti rilevanti per la configurazione del danno aquiliano 3.4.1.(segue) Significato della condotta tenuta iniuria 4. Lex Aquilia ed interventi giurisprudenziali 4.1. L’espressione «quadrupedem vel pecudes» nel cap. I della lex Aquilia 4.2. I verbi contemplati nella legge 4.3 «Iniuria» e «culpa» 5. Interventi pretori nella disciplina aquiliana con incidenza sulla concezione del danno 6. Aestimatio e danno aquiliano 7. L’estensione della legittimazione attiva 8. Il delitto di iniuria e la protezione dell’integrità psicofisica degli uomini liberi in epoca classica 9. Il danno aquiliano nel diritto giustinianeo 9.1 Il delitto di iniuria in età post-classica e giustinianea Conclusioni 2 Capitolo II - La responsabilità extracontrattuale in età altomedievale e nell’età dei comuni Introduzione 1. Contributi patristici e dello ius canonicum del primo millennio in tema di responsabilità extracontrattuale 1.1. Responsabilità e imputabilità nella patristica 1.1.1. (segue) Il contributo di Agostino d’Ippona 1.2. Responsabilità e imputabilità nelle fonti canonistiche 1.2.1. (segue) Le collezioni pseudoapostoliche 1.2.2. (segue) I canoni dei concili 1.2.3. (segue) Le collezioni canoniche fino al periodo pre-classico 1.2.4. (segue) I libri penitenziali tra responsabilità e ripazione della colpa 2. Tra diritto romano volgare e diritto germanico 3. L’età dei Comuni Conclusioni pag. 74 » 74 » » » » » » » » » » » 77 79 82 84 84 86 87 90 97 100 101 Capitolo III – La responsabilità extracontrattuale nel diritto pag. canonico classico e post-classico 106 Introduzione 1. L’actio legis Aquiliae tra diritto canonico e scienza canonistica 2. Volontà e cognizione nel Decretum Gratiani 2.1. Residui di responsabilitas ex effectu nel Decretum e nelle decretali 3. Damnum 4. «Iniuria» e «culpa» 4.1. (segue) La decretale «Si culpa tua» di Gregorio IX 4.2. (segue) La gradazione della culpa tra foro esterno e foro interno 4.3. (segue) Il nesso di causalità 5. La legittimazione attiva e passiva 5.1. (segue) La responsabilità dell’erede per il delitto del defunto 6. Rapporti tra teologia e diritto canonico in tema di responsabilità 6.1. Restitutio, aestimatio rei e modalità di riparazione 6.1.1. (segue) «Peccatum non dimittitur, nisi restituatur ablatum» 6.1.2. (segue) Le somme penitenziali Conclusioni » » » » » » » » » » » » » » » » 106 112 116 118 120 123 126 128 133 134 137 143 147 152 155 158 Fonti pag. 166 Bibliografia pag. 172 Tabula gratulatoria pag. 194 3 TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI Abbreviazioni per indicare le fonti e la bibliografia: BIDR: «Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”» DBGI: Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. BIROCCHI – E. CORTESE – A. MATTONE – M. N. MILETTI (Bologna, 2013). DDC: Dictionnaire de droit canonique (Paris, 1935-1965). DGDC: Diccionario general de derecho canónico, a cura di J. OTADUY – A. VIANA – J. SEDANO, (Cizur Menor, 2012). DSSRN: Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. MELLONI, (Bologna, 2010). ED: Enciclopedia del diritto (Milano, 1958- ). EG: Enciclopedia giuridica (Roma, 1988-). NSSDI: Novissimo digesto italiano (Torino, 1957-1987). PG: Patrologiae cursus completus. Series graeca, accurante J.-P. Migne. PL: Patrologiae cursus completus. Series latina, accurante J.-P. Migne. RDC: «Revue de droit canonique» RHDFE: «Revue historique de droit français et de droit étranger» RIDC: «Rivista internazionale di diritto comune» RSDI: «Rivista di storia del diritto italiano». SDHI: «Studia et documenta historiae et iuris». SG: «Studia Gratiana» ZSSKA: «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Kanonistische Abteilung» Abbreviazioni comuni: can. / cann.: canone / canoni. cfr.: confer. cit.: citato. 4 col./coll.: colonna/colonne. nt.: nota. num.: numero. p. / pp.: pagina / pagine. t. / tt.: tomo / tomi. vol. /voll.: volume / volumi. 5 PREMESSE E LINEE DI RICERCA 1) Il principio «Responsabilità» Nello scenario giuridico del XXI secolo il concetto di responsabilità costituisce ormai una pietra angolare che difficilmente può essere rimossa. Sembra apparire retorica, a tal proposito, la domanda indiretta posta da Lon Fuller in una memorabile pagina dell’opera The morality of Law, in cui il filosofo del diritto americano, consapevole della importanza della predetta categoria giuridica, affermava: «Vorrei ricordare […] che cosa si verrebbe a perdere se il concetto di responsabilità scomparisse completamente dalla scena del diritto. L’intero corpo delle leggi è permeato da due ricorrenti definizionistandards: colpa e intenzione […] senza di essi saremmo privi del filo che ci guida attraverso il labirinto»1. Si tratta di un’affermazione densa di significato e carica di suggestioni, un’affermazione tutt’altro che ovvia giacché, aldilà delle costanti che si rinvengono nell’intera storia del diritto circa l’obbligo (in diritto civile) di riparare il danno e l’obbligo (in diritto penale) di subire la pena, lo stesso termine responsabilità, avente peraltro un’origine abbastanza recente2, ha conosciuto un’utilizzazione variegata e dispersiva anche sul piano non propriamente giuridico. Paul Ricoeur ha magistralmente evidenziato lo sconfinamento dell’antica obbligazione di riparare il danno e di subire la pena in una generica obbligazione di fare che occupa tutto il terreno dell’agire umano a tal punto che il termine responsabilità, con il filosofo tedesco Hans Jonas, è diventato «principio»3, il «principio responsabilità» come contenuto di un’etica per la società tecnologica. L. L. FULLER, La moralità del diritto, a cura di A. DAL BROLLO, Milano, 1986, p. 216 (trad. di The morality of Law, Yale, 1969). 2 Fondamentale la lettura di S. SCHIPANI, Schede sull’origine del termine “responsabilità” (contributo per una riflessione sui problemi dell’elaborazione del concetto sistematico generale designato da tale termine), in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, vol. I, Milano, 1995, pp. 885-918, ora anche in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 1-28. Si vedano altresì J. HENRIOT, Note sur la date et le sens de l’apparition du mot «responsabilité», in Archives de philosophie du droit, 22 (1977), pp. 59-62, e M. VILLEY, Esquisse historique sur le mot responsable, ivi, pp. 45-58. 3 P. RICOEUR, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, in ID., Il Giusto, vol. 1, Cantalupa, 2005, pp. 51-52 (trad. di Le Juste 1, Paris, 1995). Si vedano anche le riflessioni di M. A. FODDAI, Il privilegio della responsabilità: la proposta di Hans Jonas, in Archivio storico e giuridico sardo di Sassari, n. s., 3 (1996), pp. 187-244. 1 6 È proprio su un passo della celebre opera Das Prinzip Verantwortung che è doveroso soffermarsi, senza minimamente addentrarsi nella disamina dei profondi contenuti di essa, dal momento che esula dall’intelaiatura del presente lavoro l’analisi strettamente filosofica del concetto di responsabilità4. Trattando della responsabilità come imputazione causale delle azioni compiute Jonas sostiene che: «la condizione della responsabilità è il potere causale. L’agente deve rispondere della sua azione: egli viene ritenuto responsabile delle sue conseguenze ed eventualmente deve farsene carico. Questo riveste anzitutto un significato giuridico e non, in senso stretto, morale. Il danno arrecato deve essere riparato, anche se la causa non fu un’azione cattiva e anche se la conseguenza non fu né prevista né intenzionale»5. 2) Tra «alterum non laedere» e «regula aurea» Nell’essenzialità delle affermazioni di Jonas, ed in particolare nell’inciso «il danno arrecato deve essere riparato», è dato rinvenire uno zoccolo duro di principi giuridici che possono facilmente ricondursi all’«alterum non laedere», uno dei tre praecepta iuris ulpianei. Mentre l’«honeste vivere» si richiama al rapporto tra la morale e il diritto come prima premessa del vivere sociale, gli altri due imperativi («alterum non laedere» e «suum cuique tribuere») si rivolgono all’uomo soggetto dell’ordinamento giuridico. Infatti l’«alterum non laedere» limita l’uso del diritto proprio, coesistente col diritto altrui, mentre il precetto del «suum cuique tribuere» incita al rispetto pieno del diritto altrui, che a sua volta soggiace al principio dell’«alterum non laedere»6. La polemica sorta intorno al principio dell’alterum non laedere è stata ben riassunta da Salvatore Pugliatti che ha ricondotto le diverse e molteplici posizioni essenzialmente Si rinvia, sul punto, all’accurato volume di A. ARGIROFFI-L. AVITABILE, Responsabilità, rischio, diritto e postmoderno. Percorsi di filosofia e fenomenologia giuridica e morale, Torino, 2008. Cfr. anche F. TUROLDO, Il concetto di responsabilità, in L. MESSINESE-C. GÖBEL (a cura di), Verità e responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, Roma, 2006, pp. 265-279. 5 H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P. P. PORTINARO, Torino, 2009, p. 115 (trad. di Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main, 1979). 6 In tal senso F. CALASSO, Alterum non laedere. a) L’esperienza storica, in ED, vol. II, Milano, 1958, p. 94. Ad avviso di A. LEVI, Teoria generale del diritto, II ed., Padova, 1953, p. 395, la responsabilità giuridica ha ad oggetto «i doveri giuridici, i quali si assommano in quello del neminem laedere, che col comportamento illecito si è trasgredito; quella propriamente morale ha per oggetto i doveri morali, che si assommano in quello, che non è stato adempiuto, dell’honeste vivere». 4 7 ad un problema: quello cioè di «vedere se possa considerarsi veramente esistente e operante come tale il principio alterum non laedere, o se questa formula non costituisca una mera sintesi verbale»7. Fatto è che da un punto di vista rigorosamente tecnico-giuridico i tria praecepta iuris, anche se concepiti come principi generali, non vanno ad inserirsi organicamente nel tessuto dell’ordinamento giuridico. Tuttavia non si può negare che siffatti precetti, in virtù della circolazione costante nei vari secoli in cui rifulse il diritto romano, siano portatori di una tradizione che non può essere totalmente svalutata. È infatti nel solco di questa tradizione che il principio pagano dell’«alterum non laedere» viene recepito dal pensiero giuridico medievale che traduce il concetto giuridico di lesione in termini più semplici e positivi, plasmando dunque un precetto, tutto cristiano, con cui Graziano, padre del diritto canonico, apre la sua Concordia discordantium canonum: «Humanum genus duobus regitur, naturali videlicet iure et moribus. Ius naturae est, quod in lege et in evangelio continetur, quo quisque iubetur alii facere, quod sibi vult fieri, et prohibetur alii inferre, quod sibi nolit fieri. Unde Christus in evangelio: “Omnia quaecunque vultis ut faciant vobis homines, et vos eadem facite illis. Haec est enim lex et prophetae”»8. Analogamente il giurista Accursio farà suo il precetto cristiano nel testo della Glossa ordinaria (al verbo laedere), riportando semplicemente: «Quod tibi non vis fieri, aliis ne feceris»9. S. PUGLIATTI, Alterum non laedere. c) Il diritto positivo e le dottrine moderne, in ED, vol. II, Milano, 1958, p. 107. Con riferimento al «neminem laedere» quale deus ex machina della dottrina imperativistica, invocato ogni qual volta non si conosca il preciso comando che tuteli gli interessi lesi in questione, cfr. C. MAIORCA, Colpa civile. b) Teoria generale, in ED, vol. VII, Milano, 1960, p. 541. 8 Humanum genus D. 1, c. 1, Gr. a. Similmente, in piena età moderna, il cardinale IOANNES BAPTISTA DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, vol. XV, pars I, De iudiciis, Romae, 1673, p. 243, disc. XXXV, n. 31, affermerà che il diritto naturale «[…] in praeceptis decalogi, sive in generico axiomate, ut quid tibi non vis fieri, alteri ne feceris, scriptum reperitur in sacra pagina veteris, et novi Testamenti, unde propterea pro sinonimis haberi solent, ius divinum et naturale, adeo ut istud ius primo insit». Sul celebre giurista si vedano A. ZANOTTI, Cultura giuridica del Seicento e Jus Publicum Ecclesiasticum nell’opera del Cardinal Giovanni Battista De Luca, Milano, 1983, e da ultimo I. BIROCCHI-E. FABBRICATORE, De Luca, Giovanni Battista, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 685-689. 9 ACCURSIUS, Glossa laedere ad D. 1, 1, 10, 1: «Et hoc ad proximum, unde illud: Quod tibi non vis fieri, alij ne feceris». [in Pandectarum seu Digestum Vetus Iuris civilis, tomus primus, Venetiis, 1581, p. 13]. Sulla glossa accursiana «comme témoin de la bonne entente des droits savants et du respect des romanistes pour le spirituel» si veda G. LE BRAS, Accurse et le droit canon, in G. ROSSI (a cura di), Atti del Convegno internazionale di Studi Accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), v. I, Milano, 1968, pp. 217-231, in part. p. 224. 7 8 Appare di immediata evidenza che nell’età dello ius commune il principio dell’alterum non laedere viene riletto alla luce del messaggio di Cristo ossia di quella «regola aurea»10 contenuta nel vangelo di Matteo (7, 12) e di Luca (6, 31), in ossequio al suo antecedente veterotestamentario presente nel libro di Tobia (4, 15)11. È stato giustamente sottolineato che Graziano trasforma il comando evangelico nel principio fondamentale dello ius naturale col ricavarne il divieto di fare agli altri quel che non si vuole sia fatto a se stessi. Si tratta di un’integrazione della legge morale, un’integrazione giuridica «perché soltanto con la determinazione di un limite alla condotta, e non con la sola enunciazione del criterio o legge interna di essa, si trapassa dal campo della pura morale in quello del diritto»12. La Chiesa porterà avanti il «processo di diffusa canonizzazione (quasi di divinizzazione) degli apporti sapienziali della Giurisprudenza romana»13 arrivando a conferire un alone di sacralità ai tria praecepta iuris ulpianei, espressamente menzionati da Gregorio IX nella bolla di promulgazione14 delle sue Decretales. L’età moderna è caratterizzata invece da un recupero giusnaturalistico dell’«alterum non laedere» operato da Grozio e soprattutto da Samuel Pufendorf e Christian Thomasius. 10 Sulla fortuna della regola e le critiche rivolte nella storia filosofica dell’Occidente si vedano le lucide osservazioni di F. D’AGOSTINO, La «regola aurea» e la logica della secolarizzazione, in L. LOMBARDI VALLAURI-G. DILCHER (a cura di), Cristianesimo secolarizzazione e diritto moderno, Milano, 1981, pp. 941-955. 11 Circa la formulazione letterale del principio espresso nella Bibbia cfr. C. CARDIA, La Chiesa tra storia e diritto, Torino, 2010, p. 10, il quale rileva: «Legge suprema dell’etica evangelica è l’amore per il prossimo, che deve eguagliare l’amore che si deve a Dio. Il primo dovere sta nel non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, secondo il principio del neminem ledere, proteso ad evitare conflitti ed egoismi. Ma il secondo dovere allarga l’orizzonte della pacificazione al sostegno dell’altro, perché dobbiamo fare al prossimo ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Quando cancella l’alterità tra l’io e l’altro, l’etica cristiana suggerisce un metodo razionale per distinguere il bene dal male, individuare il meglio rispetto al bene. Nonostante tutti i tentativi, nessuno nella storia del pensiero è riuscito a dir meglio, e di più». 12 W. CESARINI SFORZA, Alterum non laedere. b) Il problema filosofico, in ED, vol. II, Milano, 1958, p. 96. 13 P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica della Europa preumanistica, rist., Firenze, 1985, p. 65. 14 GREGORIUS IX, bulla Rex Pacificus, in Corpus Iuris Canonici, editio Lipsiensi secunda post AE. L. RICHTERI curas ad librorum manu scriptorum et editionis romanae fidem recognovit et adnotatione critica instruxit AE. FRIEDBERG, pars secunda, Lipsiae, 1881, p. 2: «Ideoque lex proditur, ut appetitus noxius sub iuris regula limitetur, per quam genus humanum, ut honeste vivat, alterum non laedat, ius suum unicuique tribuat, informatur». Il riferimento gregoriano ai precetti ulpianei è stato considerato in termini di «migliore attestato di stima, di colleganza» nei confronti del diritto romano da C. CALISSE, Influsso del diritto romano e canonico nella evoluzione delle leggi barbariche e specialmente longobarde nel Regno d’Italia, in Acta congressus iuridici internationalis VII saeculo a Decretalibus Gregorii IX et XIV a Codice Iustiniano promulgatis, (Romae 12-17 novembris 1934), vol. II, Romae, 1935, p. 268. 9 Grozio, «mediatore fra la tradizione della teologia morale e l’emergente Giusnaturalismo laico»15, fissa le basi di una configurazione dogmatica autonoma della responsabilità per fatto illecito, grazie soprattutto all’influsso esercitato dalla Seconda Scolastica16. Con Pufendorf il fondamento del precetto «alterum non laedere» è rintracciato nell’obbligo di conservare la convivenza umana (socialitas). Dalla violazione di un simile precetto nasce l’obbligo di riparare il danno. In Thomasius l’indagine sul danno ruota intorno al precetto dell’«alterum non laedere» (rectius «neminem laedere»), il cui fondamento viene individuato nell’esigenza di custodire l’aequalitas tra gli uomini17. L’eco del precetto evangelico supera l’età del giusnaturalismo moderno fino ad arrivare in pieno Ottocento, durante la vigenza dell’ormai diffuso e imitato Code Napoléon, che nell’art. 1382 aveva cristallizato il principio della culpa consacrato da Grozio nella famosa definizione di «maleficium». Non mancano infatti giuristi che ravvisano nel principio evangelico il fondamento di quanto disposto dal citato art. 1382 del Code Napoléon18. Ciò trovava del resto un autorevole appiglio nei lavori preparatori al Codice francese, in particolare nell’esposizione dei motivi al corpo legislativo operata dal consigliere di Stato JeanBaptiste Treilhard19. Così F. WIEACKER, Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania, pres. di U. SANTARELLI, vol. I, Milano, 1980, p. 455 (trad. di Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, Göttingen, 1967). 16 O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804, Paris, 2005, pp. 395-411, e da ultimo P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema di responsabilità civile verso la european civil law, in ID. (a cura di), La responsabilità civile, Milano, 2009, pp. 42-51. 17 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, Napoli, 2010, pp. 155-164. 18 Ad esempio J. L. A. BENOIST, De la responsabilité civile en matière de délits et de quasi-délits, en droit civil français, Strasbourg, 1859, p. 84, e A. SOURDAT, Traité général de la responsabilité, IV ed., t. I, Paris, 1887, p. 484. 19 «Les engagements de cette espèce sont fondés sur ces grands principes de morale si profondément gravés dans le coeur de tous les hommes, qu’il faut faire aus autres ce que nous désirerions qu’ils fissent pour nous dans le mêmes circonstances, et que nous sommes tenus de réparer les torts et les dommages que nous avons pu causer». Il testo è tratto da P. A. FENET, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, t. XIII, Paris, 1827, p. 465. Sul giurista francese cfr. P. LENOËL, TREILHARD Jean-Baptiste, in P. ARABEYRE-J. L. HALPÉRIN-J. KRYNEN (a cura di), Dictionnaire historique des juristes français XIIe-XXe siècle, Paris, 2007, pp. 749750. 15 10 L’invocazione del principio evangelico veniva tuttavia vista, in piena età positivistica, come un palese esempio di confusione tra l’ambito della morale e quello del diritto20. Michel Villey ha parlato invece di errore, in cui caddero i giuristi moderni, di costituire le obbligazioni giuridiche su massime di moralità soggettiva. Così è accaduto per la concezione della responsabilità extracontrattuale dedotta dal preteso dovere di ciascuno di risarcire i danni provocati per colpa sua21. 3) Linee di ricerca sulla responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico medievale Viene a questo punto da chiedersi quale sia stato nel corso della storia il contributo offerto dallo ius canonicum alla dogmatica della moderna responsabilità extracontrattuale. Si tratta, in sostanza, di analizzare l’apporto del diritto canonico alla fondazione del moderno illecito aquiliano sull’elemento della culpa, fondazione consacrata da Grozio e cristallizzata nel Code Napoléon, ma pur sempre influenzata, in numerose sfaccettature, anche da ampi «frammenti» del pensiero dei Padri della Chiesa, e dalle correnti facenti capo alla Scolastica ed alla Seconda Scolastica. Il primo capitolo della presente dissertazione dottorale verrà dedicato alla trattazione storica della responsabilità extracontrattuale nel diritto romano. Riteniamo imprescindibile il riferimento alla disciplina romanistica nella materia de qua giacchè la Chiesa nel corso dei secoli ebbe come punto di riferimento il diritto romano, modello In tal senso si veda la critica serrata condotta in Italia da G. BRUNETTI, Il delitto civile, Firenze, 1906, pp. 39-59. Su quest’opera, che offrì una lettura della responsabilità civile fortemente ispirata al positivismo giuridico, cfr. G. CAZZETTA, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (1865-1914), Milano, 1991, pp. 393-397. 21 M. VILLEY, Il diritto e i diritti dell’uomo, Siena, 2009, p. 117, nt. 10 (trad. di Le droit et les droits de l’homme, III ed., Paris, 1998). Per approfondimenti, con particolare riferimento a Grozio, si veda ID., Le moralisme dans le droit a l’aube de l’epoque moderne (Sur un texte de Grotius), in RDC, 16 (1966), pp. 319-33; ID., La formazione del pensiero giuridico moderno, intr. di F. D’AGOSTINO, Milano, 2007, pp. 528-546 (trad. di La formation de la pensée juridique moderne, III ed., Paris, 1975). Cfr. anche R. POUND, Introduzione alla filosofia del diritto, intr. di W. CESARINI SFORZA, Firenze, 1963, p. 140 (trad. di An Introduction to the Philosophy of Law, New Haven, 1954): «La dottrina della responsabilità per colpa, e soltanto per colpa, ha le sue origini nel periodo dell’equità e del diritto naturale, quando l’elemento morale e quello giuridico si identificano, e significa che si risponderà di offese che conseguono ad una condotta moralmente biasimevole». 20 11 di insuperata perfezione alla base della vita dei fedeli in Cristo, di cui è testimone l’antico adagio «Ecclesia vivit lege romana». Ciò fungerà da premessa storica necessaria per introdurre la trattazione del secondo capitolo del lavoro dottorale dedicato alla responsabilità extracontrattuale in età altomedievale e nell’età dei comuni. Sarà questa la sedes materiae in cui analizzeremo i contributi patristici e dello ius canonicum del primo millennio in tema di responsabilità extracontrattuale, con particolare riferimento alla responsabilità ed imputabilità nella patristica e nelle collezioni pseudoapostoliche, nei concili e nelle collezioni canoniche fino al perido pre-classico. Sarà dato spazio alla trattazione della responsabilità e della ripazione della colpa nei libri penitenziali, così come alla disciplina della danno extra contractum nel diritto romano volgare e nel diritto germanico, con riferimenti alla normativa statutaria nell’età dei Comuni. Nel terzo capitolo tratteremo della responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico dell’epoca classica e post-classica. Ad apertura di quest’ultimo capitolo verrà evidenziata, dopo una breve introduzione sui rapporti tra il diritto romano e quello canonico nel sistema dello ius commune, l’importanza della disciplina dettata dalla lex Aquilia (tramandata dalla riscoperta compilazione di Giustiniano) per la nuova scienza del diritto canonico. Nella disamina dei vari aspetti dogmatici dell’illecito aquiliano si procederà sistematicamente attraverso un’analisi degli innumerevoli punti di contatto tra le leges ed i canones, non senza evidenziare gli aspetti tipici del diritto della Chiesa. Questi ultimi imporranno pertanto costanti riferimenti alle peculiarità del diritto canonico nella materia della responsabilità extracontrattuale. Si tratta di aspetti che presuppongono lo stretto legame tra diritto canonico e teologia, e che possono comprendersi soltanto in un ordinamento giuridico «aperto verso l’alto»22, quale è quello canonico, un «ordinamento peculiare di una comunità di fedeli affratellati da comuni aspirazioni spirituali: la “societas hominum viatorum in veritate fidei deambulantium”»23, che partecipano all’economia della salvezza. L’espressione è di O. GIACCHI, Sostanza e forma nel diritto della Chiesa, in Jus, 1940, pp. 413-414. Così P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico con particolare riferimento ai secoli XII e XIII, Milano, 1964, p. 12. 22 23 12 Il presente lavoro verrà condotto partendo dalla consapevolezza che nella materia de qua il diritto canonico è fortemente debitore al diritto romano. Verrano comunque evidenziati anche quegli elementi canonistici e teologici che, nel divenire della storia, hanno influenzato24 la disciplina civilistica, tentando di evitare ogni approccio allo studio storico del diritto con intenti applicativi modernizzanti. Siffatti intenti si espongono in maniera naturale a strumentalizzazioni dell’esperienza passata, specie quando si tratta di comparare diverse esperienze/sistemi giuridici in chiave sincronica e diacronica. Ciò non toglie di ravvisare il contributo specifico offerto dal diritto canonico alla configurazione dell’attuale dogmatica dell’illecito aquiliano, con particolare riferimento al principio della culpa, il cui antecendete storico è ravvisabile nello ius canonicum vetus e precisamente nella decretale Si culpa tua di Gregorio IX. Il lavoro si arresterà agli albori dell’età moderna, periodo nel quale la riflessione giuridica, filosofica e teologica farà tesoro di quanto espresso in età medievale da canonisti e teologi. Come avremo modo di precisare nelle coonclusioni al capitolo, il travaglio legislativo e dottrinale medievale preparerà la strada alla riflessione giusnaturalistica di Grozio in materia di illecito extracontrattuale fondato sulla colpa, riflessione che getta le fondamenta per la costruzione del principio che verrà consacrato definitivamente nella codificazione napoleonica. 4) Explicatio terminorum Nell’economia del presente contributo è stato volutamente omessa la trattazione specifica di tematiche particolari, sia pur connesse con l’oggetto da noi studiato, ma la cui disamina avrebbe di gran lunga ampliato le nostre riflessioni storiche e giuridiche dedicate alla sola responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico medievale. Si veda la critica al concetto di influenza nei rapporti tra ius civile e ius canonicum avanzata da M. BELLOMO, Ius civile, ius canonicum, società medievale, in O. CONDORELLI-F. ROUMY- M. SCHMOECKEL (a cura di), Der einfluss der kanonistik auf die europäische rechtskultur, Bd. 1: Zivil-und Zivilprozessrecht, Köln-Weimar-Wien, 2009, pp. 1-6, in part. p. 3: «Non mi riesce di immaginare una scienza che sta per sé, quella civilistica, e un’altra che sta pure per sé, quella canonistica, né mi riesce di chiedermi se e in quale misura l’una abbia influenzato l’altra, in astratto, nel confronto, astratto, tra le figure (o categorie) giuridiche disegnate da una parte e dall’altra. […] L’una scienza e l’altra hanno da rispondere a problemi che in parte sono comuni e in parte sono di propria esclusiva pertinenza». 24 13 Intendiamo riferirci alle tematiche (totalmente estranee allo ius vetus nel linguaggio ma non integralmente nei contenuti!) della «responsabilità ecclesiale» e della «corresponsabilità» sulle quali la dottrina canonistica contemporanea si è recentemente soffermata25 ed il cui dibattito rimane ancora aperto26. Abbiamo brevemente ricordato come il termine responsabilità sia un’acquisizione recente al lessico filosofico e giuridico occidentale. Lo stesso dicasi per il diritto della Chiesa giacchè «responsabilitas»27, comparirà solamente con il Codex Iuris Canonici del 1983 ed in una accezione diversa da quella frequente di responsabilità giuridica tout court, sia essa responsabilità civile (nella triplice declinazione di responsabilità contrattuale, precontrattuale ed extracontrattuale) o responsabilità penale. La predetta «responsabilità ecclesiale»28, intesa come dovere di cooperazione, gravante su ciascun fedele, all’edificazione del Corpo di Cristo, fa pertanto emergere «un’ulteriore accezione di responsabilità che generalmente non traspare in maniera evidente nel concetto puramente giuridico: quello del coinvoilgimento pieno, della dedizione, che si traduce in impegno spirituale e in dovere morale, in tal senso più ampio del dovere giuridico, e che nel diritto canonico si attua attraverso la partecipazione alla realizzazione del fine salvifico»29. Si vedano i contributi raccolti in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, (Atti della giornata Canonistica Interdisciplinare), Città del Vaticano, 2010; G. BONI, Corresponsabilidad, in DGDC, vol. II, Cizur Menor, 2012, pp. 779-785. Indispensabile la lettura delle considerazioni storiche di J. GAUDEMET, Sur la co-responsabilité, in L’année canonique, 17 (1973), pp. 533-541. 26 Cfr. P. GHERRI, Bilancio canonistico, in ID. (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, cit., pp. 381-399. 27 X. OCHOA, Index verborum ac locutionum Codicis iuris canonici, II ed., Città del Vaticano, 1984, p. 417 sub voce Responsabilitas. 28 La formula «responsabilità ecclesiale», al pari della voce «corresponsabilità», evidenzia il coinvolgimento dell’intero Popolo di Dio nella vita ecclesiale in virtù del sacramento del Battesimo, coinvolgimento che tocca ogni fedele in Cristo, ciascuno secondo la propria condizione giuridica. In tal senso A. MONTAN, Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, cit., pp. 9-33, in part. pp. 12-13. 29 M. D’ARIENZO, Riflessioni sul concetto giuridico di responsabilità. Aspetti canonistici, in AA. VV., Scritti in onore di Franco Bolognini, Cosenza, 2011, p. 238. Per ulteriori approfondimenti si veda EAD., Il concetto giuridico di responsabilità. Rilevanza e funzione nel diritto canonico, Cosenza, 2012, passim. 25 14 CAPITOLO PRIMO LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE NEL DIRITTO ROMANO Introduzione In materia di responsabilità extracontrattuale la scienza canonistica, nel corso dei secoli, non ha costruito una propria autonoma dottrina. I canonisti, infatti, hanno risparmiato il loro sforzo costruttivo giacchè si erano trovati di fronte ad una preesistente e consolidata disciplina normativa in tema di danno «extra contractum», una disciplina di eccelsa razionalità e di inarrivabile perfezione tecnica costituita dal diritto romano. Anche con riferimento a siffatta tematica vale infatti la nota affermazione «Ecclesia vivit lege romana», la quale sta a significare che il diritto romano, «in conseguenza della portata del rinvio di ricezione, effettuato dall’autorità prelatizia al diritto dello Impero, per il regolamento delle materie temporali di propria pertinenza, veniva ad integrare, salvo espressa disposizione ecclesiastica contraria, il contenuto normativo del jus canonicum in temporalibus»30. In ossequio alla natura più intima dello ius canonicum, ed alle sue esigenze specifiche, che non trovano riscontro negli ordinamenti giuridici statuali31, non sono mancati, tuttavia, specifici apporti normativi del legislatore canonico, elaborazioni dottrinali canonistiche e riflessioni teologico-filosofiche che hanno permesso, e tuttora consentono, di ravvisare un originale contributo dato dal Cristianesimo, ed in particolare dallo ius canonicum, alla moderna dogmatica del danno aquiliano. È necessario pertanto ripercorrere, seppur brevemente, la storia della responsabilità extracontrattuale senza perdere di vista che, con riferimento al sistema giuridicoreligioso romano32 lo studio della responsabilità extracontrattuale, al pari di P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, cit., p. 526. 31 Sull’argomento si rinvia alle memorabili pagine di P. FEDELE, Discorso generale sull’ordinamento canonico, Padova, 1941 [estratto da Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Regia Università di Perugia, 55 (1941)], e ID., Lo spirito del diritto canonico, Padova, 1962, passim, dedicate ad approfondimenti mirati su concetti, propri dell’ordinamento canonico, quali ratio peccati, foro interno, salus animarum ed aequitas canonica. 32 Con riferimento al diritto romano preferiamo utilizzare questa espressione rispetto a quella di ordinamento giuridico o di esperienza giuridica. Solo il concetto di «sistema giuridico-religioso» 30 15 qualsivoglia moderno istituto giuridico, deve essere condotto tracciando, per quanto possibile, le linee di continuità e i momenti di frattura tra tradizione antica e l’attuale sistema di civil law, evitando di leggere il fenomeno del danno aquiliano con gli occhiali della moderna dogmatica civilistica. Una siffatta lettura comporterebbe infatti una sovrapposizione concettuale che reca con sé il rischio di alterare ogni interpretazione della più antiche manifestazioni di responsabilità extracontrattuale. Ne rimarrebbe alterato, pertanto, il modo di studiare gli istituti romani sopravvissuti nella nostra esperienza giuridica, modus studendi che consiste nel collocare gli istituti romani «nella vicenda storica che li ha condotti sino a noi, in modo da evitare, per quanto possibile, le naturali proiezioni della modernità»33. 1) Il danno da fatto illecito nella normativa preaquiliana È pacificamente risaputo come la lex Aquilia abbia rappresentato in diritto romano la norma cardine in materia di danneggiamento. Ancor prima della votazione di siffatto plebiscito, tuttavia, esisteva nel diritto romano arcaico una disciplina del danno da fatto illecito, la cui testimonianza è offerta dal giurista di età severiana Ulpiano in un frammento riprodotto in D. 9, 2, 1: «Lex Aquilia omnibus legibus, quae ante se de damno iniuria locutae sunt, derogavit, sive duodecim tabulis, sive alia quae fuit: quas leges nunc referre non est necesse. 1.Quae lex Aquilia plebiscitum est, cum eam Aquilius tribunus plebis a plebe rogaverit»34. permette di comprendere le definizioni romane di ius come «ars boni et aequi» (D. 1, 1, 1) e di iurisprudentia come «divinarum atque humanarum rerum notitia , iusti atque iniusti scientia», nonché la dimensione religiosa del diritto. Esso permette altresì di evitare la separazione (o «Isolierung»), tra diritto, morale e religione. Cfr. in merito P. CATALANO, Diritto e persone, I, Torino, 1990, pp. VII-XII; 99-101; ID., Systema y ordenamientos: el ejemplo de América Latina, in S. SCHIPANI (a cura di), Mundus Novus. America. Sistema giuridico latino-americano, Roma, 2005, p. 21. 33 Così M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 47. 34 Trad.: «La legge Aquilia derogò a tutte le leggi, che prima di essa hanno parlato del danno <arrecato> ingiustamente, sia delle Dodici Tavole, sia a qualsiasi altra. Riferire tali leggi non è ora necessario. 1. Tale legge Aquilia è un plebiscito, avendola proposta alla plebe il tribuno della plebe Aquilio». Le traduzioni dei frammenti riguardanti i primi 32 libri del Digesto sono tratte da S. SCHIPANI (a cura di), Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, Testo e traduzione, voll. I-V, Milano, 2005-2013. In attesa del compimento della monumentale iniziativa portata avanti dall’equipe coordinata dal prof. Sandro Schipani, per la traduzione dei restanti libri del Digesto occorre basarsi sulla classica edizione di G. VIGNALI (a cura di), Corpo del diritto corredato delle note di Dionisio Gotofredo e di C. E. Freiesleben altrimenti Ferromontano […], voll. I-X, Napoli, 1856-1862, cui si è anche fatto riferimento nella presente trattazione. 16 1.1) Il danno alle cose e alla persona nella legge delle XII tavole La legge delle XII Tavole (451-450 a.C.)35 elencava nella sua Tabula 8 alcune ipotesi di danni causati alle cose altrui e alla persona da una azione umana. Il quadro che si riesce ad avere dalle notizie molto frammentarie in tema di danno preaquiliano alle cose «testimonia numerosi interventi negli ambiti più disparati»36. Si va dall’introduzione del bestiame nel terreno altrui per farlo pascolare (Tab. 8, 7: actio de pastu pecoris, la cui la pena sarebbe stata determinata in concreto), al taglio clandestino degli alberi altrui (Tab. 8, 11) vale a dire l’actio arborum furtim caesarum37. Altro esempio è costituito dall’incendio non doloso della casa o del frumento accatastato in vicinanza di essa38 (Tab. 8,10). A tal proposito giova sottolineare che nel caso di incendio doloso la sanzione è propria del diritto criminale mentre nell’evenienza della fattispecie non dolosa cioè quando il fatto si sia relizzato «casu, id est negligentia» è previsto il risarcimento del danno («noxiam sarcire»). Si tratterebbe in sostanza di una ipotesi di pena privata consistente nel risarcimento del danno, in cui viene in rilievo l’esigenza di risarcire la perdita patrimoniale subita39. È stato notato come «il rapporto tra le norme decemvirali e la Lex Aquilia non si limita solo a un problema di successioni di leggi nel tempo ma interessa anche il mutamento di prospettiva dalla quale i fenomeni sono osservati nelle diverse fasi della riflessione giuridica»40. Al riguardo l’esempio concreto è costituito dal ferimento dello schiavo. Mentre infatti le XII Tavole riconducevano la fattispecie alle lesioni della Sulla genesi ed il contenuto della celebre legge si vedano V. RAGUSA, Le XII Tavole, Roma, 1925; O. DILIBERTO, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992; ID., Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della legge delle XII Tavole (secoli XVIXX), Roma, 2001; ID., Una palingenesi ‘aperta’, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. HUMBERT, Pavia, 2005, pp. 217 ss. 36 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 3 ss. Si veda anche L. JING, Riparazione del danno extra contrattuale: sistema giuridico romanistico, elaborazione canonistica e prospettive attuali, (Tesi di dottorato di ricerca in Sistema giuridicoromanistico: unificazione del diritto e diritto dell’integrazione, Univeristà degli studi di Roma Tor Vergata, XIX ciclo), Roma, 2007, pp. 12 ss. 37 Ad avviso di Gai. 4, 11, l’azione sarebbe stata applicabile a tutte le altre ipotesi di taglio di piante altrui. Secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist., 17, 1, 7) la pena relativa ammontava al pagamento di 25 assi per ogni albero tagliato. 38 Stando alla lettura di D. 47, 9, 9 se l’autore dell’illecito era indigente si contemplava una leggera punzione corporale mentre se si era agito intenzionalmente veniva inflitta al responsabile una forte pena che consisteva nel legarlo, picchiarlo e bruciarlo. 39 In questo senso A. BURDESE, Manuale del diritto privato romano, IV ed.,Torino, 1993, p. 529. 40 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 6. 35 17 persona, non diversamente dalle lesioni subite dai liberi, nella lex Aquilia l’ipotesi fu invece ricompresa nel danno patrimoniale. Oltre alla ossis fractio del libero (sanzionata in 300 assi) o di un servo, la cui pena era invece stabilita in 150 assi (Tab. 8, 3), ritroviamo in età decemvirale altre due fattispecie di danno alla persona41 vale a dire il membrum ruptum (Tab. 8, 2)42, sanzionato con il taglione in mancanza di una composizione pecuniaria, e la iniuria c.d. semplice, punita con una pena fissa di 25 assi (Tab. 8, 4)43, senza distinguere tra liberi e servi . Nella legge delle XII Tavole iniuria acquisì il significato particolare di lesione fisica lieve al corpo di un uomo libero. Dall’esame delle figure sopra descritte emerge che in età decemvirale non esiste una clausola generale che sanzioni il danno alle cose altrui causato da un atto umano, ma esiste una serie di figure particolari e autonome tra di loro. Siffatte figure tutelavano una gamma di beni riconducibili ad una economia di tipo agricolo, propria della Roma del V secolo a. C, quali i campi di foraggio, gli alberi, la casa, gli animali, il grano accumulato in prossimità di essa e la integrità fisica del servo. Gai. 3. 223, di cui conviene riportare in integrum la testimonianza: «Poena autem iniuriarum ex lege XII tabularum propter membrum quidem ruptum talio erat; propter os vero fractum aut conlisum trecentorum assium poena erat, si libero os fractum erat; at si servo, CL; propter ceteras vero iniurias XXV assium poena erat constituta. Et videbantur illis temporibus in magna paupertate satis idonae istae pecuniariae poenae». Trad. «La pena delle ingiurie per la legge delle XII Tavole nel caso di membro rotto era il taglione; nel caso invece di osso fratturato o schiacciato era di trecento assi, se l’osso fratturato era di un libero, o di centocinquanta, se di un servo; per le altre ingiurie era fissata una pena di venticinque assi. E queste pene pecuniarie, in quei tempi di gran povertà, apparivano abbastanza idonee». Il testo e la traduzione di Gai institutionum commentarii IV sono tratti da E. NARDI, Istituzioni di diritto romano, A, Testi, 1, Milano, 1986, utilizzato nella presente trattazione. 42 Sul punto una parte della dottrina ritiene che il membrum ruptum sia l’arto imputato (in tal senso si vedano U. VON LÜBTOW, Untersuchungen zur lex Aquilia de damno dato, Berlin, 1971, p. 113, ed E. POLAY, Iniuria Types in Roman Law, Budapest, 1986, p. 17). Altra dottrina reputa invece che si tratti solamente di una parte del corpo danneggiato (cfr. G. PUGLIESE, Studi sull’‘iniuria’, Milano, 1941, p. 33). 43 Tab. 8, 4 «Si iniuriam alteri faxsit, XXV poenae sunto». Una lettura del termine iniuria all’ablativo, anziché all’accusativo, ha avallato la teoria che, pur riconoscendo autonomia alla fattispecie prevista da Tab. 8, 4, nega l’esistenza di un delitto di iniuria. Per un’ampia disamina dottrinale cfr. M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 16-17. 41 18 2) Il danno nella posteriore legislazione preaquiliana È nota la testimonianza ulpianea, di cui supra, circa l’esistenza di una legislazione posteriore alla legge delle XII Tavole, ma anteriore alla lex Aquilia, in materia di damnum iniuria. In mancanza di fonti normative dirette, tuttavia, occorre basarsi sulla testimonianza letteraria di Aulo Gellio, attraverso le parole del filosofo Favorino, per comprendere l’inadeguatezza della normativa delle XII Tavole a tutelare le lesioni. Lo scrittore latino afferma che i pretori decisero che la norma decemvirale in tema di lesioni fisiche dovesse essere abolita e abbandonata e stabilirono di affidare ai recuperatori la stima della pena da pagare in caso di iniuriae44. Se la dottrina ha imboccato strade diverse nel descrivere lo sviluppo postdecemvirale dell’iniuria, tuttavia essa è pressochè concorde nel sostenere la tarda formazione della nuova nozione di iniuria-contumelia, che solitamente è ricondotta alla giurisprudenza di Labeone. La lettura di alcuni frammenti della letteratura latina arcaica (databili tra III e II secolo a. C.) consentirebbe altresì di anticipare a quest’epoca lo sviluppo della nuova nozione45. Il sostantivo iniuria indicherebbe un comportamento talora materialmente lesivo, talaltra astrattamente offensivo, altre volte genericamente ingiusto, altre ancora, invece, riconducibile al delitto sanzionato con l’actio iniuriarium. Parte della dottrina ha considerato come possibili, nel periodo preaquiliano, nuove figure di danni, senza giungere naturalmente alla configurazione di una categoria generale, quali la regolamentazione della morte di uno schiavo o di un animale di allevamento (nel caso che queste situazioni non siano state gia sanzionate nelle legge delle XII Tavole) e quella della acceptilatio della obligazione fatta per adstipulator in pregiudizio del creditore principale46. Gell. 20, 1, 13: «Propterea – inquit – praetores postea hanc abolescere et relinqui censuerunt iniuriisque aestumandis recuperatores se daturos edixerunt». 45 Sul punto si veda M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 22-26, con ampia disamina dei frammenti di Cecilio Stazio, Catone, Pacuvio e soprattutto Plauto. 46 Si veda in merito G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, in J. PARICIO (a cura di), Derecho romano de obligaciones. Homenaje al profesor José Luis Murga Gener, Madrid, 1994 , p. 827. 44 19 3) La lex Aquilia Nell’evoluzione dell’intera disciplina dei fatti illeciti la votazione della lex Aquilia rappresenta il momento in cui vengono rielaborate le antiche norme decemvirali e postdecemvirali in materia di danno. Si tratta di un famoso plebiscito, la cui data di approvazione (tradizionalmente47 indicata nel 286 a.C.) è stata molto dibattuta dalla romanistica48, ma in ogni caso può essere posto in un periodo che si colloca tra IV sec. a.C e la prima metà del II sec. a.C.49. La finalità della lex Aquilia fu quella di abrogare le leggi precedenti e attribuire al titolare di beni economici il diritto di ottenere il pagamento di una pena pecuniara da parte di chi avesse distrutto o deteriorato tali beni50. Per quanto riguarda il testo del plebiscito, esso , come noto, si compone di tre capitoli contenenti ciascuno specifiche disposizioni. Le fonti che ci hanno restituito il testo, corrispondente almeno nella sostanza a quello originario, sono le Institutiones di Gaio e la compilazione di Giustiniano51. Riportiamo di seguito i riferimenti per il testo dei rispettivi tre capitoli della lex Aquilia: 47 Ciò sulla base della Parafrasi di Teofilo, oggi ritenuta non più attendibile in merito. Cfr. S. SCHIPANI, L’interpretazione della lex Aquilia nei giuristi repubblicani e il problema della culpa, ora in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 63-65. 48 Sul problema della data delle lex Aquilia si veda M. F. CURSI, Iniuria cum damno. Antigiuridicità e colpevolezza nella storia del danno aquiliano, Milano, 2002, pp. 147 ss. 49 In questo senso ID., Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 44 che non condivide la posizione della datazione “bassa” della lex Aquilia (fine del III secolo ed inizi del II secolo a.C.) sostenuta da ultimo da A. FRANCIOSI, Il problema delle origini del plebiscito Aquilio. Una messa a punto in tema di datazione, in Philìa. Scritti per Gennaro Franciosi, vol. II, Napoli, 2007, pp. 935 ss. 50 Per una rapida panoramica si veda S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: prospettive sistematiche del diritto romano e problematiche della responsabilità extracontrattuale, ora in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 133-137; ID., El sistema romano de la responsabilidad extracontractual: el principio de la culpa y el método de la tipicidad, in La responsabilidad. Homenaje H. Goldenberg, Buenos Aires, 1995, pp. 21-36. 51 Si vedano in merito C. A. CANNATA, Sul testo della lex Aquilia e la sua portata originaria, in L. VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, (atti del I Congresso Internazionale ARISTEC, Madrid, 7-10 ottobre 1993), Torino, 1995, pp. 25-57; ID., Sul testo originale della lex Aquilia: premesse e ricostruzione del primo capo, in SDHI, 58 (1992), pp. 194-214; ID., Considerazioni sul testo e la portata originaria del secondo capo della “lex Aquilia”, in Index, 22 (1994), pp. 151-162; S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, Torino, 1969, pp. 41-44 e G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., pp. 830-833. 20 D. 9, 2, 2, pr.: «Lege Aquilia capite primo cavetur: “si quis52 servum servamve alienum alienamve quadrupedem vel pecudem53 iniuria occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino damnas esto”»54. Gai. 3, 215: «Capite secundo adversus adstipulatorem, qui pecuniam in fraudem stipulatoris acceptam fecerit, quanti ea res est, tanti actio constituitur»55. D. 9, 2, 27, 5: «Tertio autem capite ait eadem lex Aquilia: “Ceterarum rerum, praeter hominem et pecudem occisos, si quis alteri damnum faxit, quod usserit fregerit ruperit iniuria, quanti ea res erit in diebus triginta proximis, tantum aes domino dare damnas esto”»56. 3.1) Contenuto e caratteristiche dei capitoli I e III della lex Aquilia Dalla lettura dei capita riportati emerge che la lex Aquilia ebbe un campo di applicazione molto ampio sanzionando, nel capo primo, la occisio di uno schiavo o una schiava altrui e di animali quadrupedi mentre nel capo terzo tutelò il danno che fosse stato causato alle altre cose, tranne lo schiavo e i capi di bestiame uccisi, per mezzo di Nell’edizione classica del Digesto curata dal Mommsen e dal Krueger il testo è “ut qui”. Parte della dottrina ritiene che il testo esatto sia «quadrupedemve pecudem», il che permetterebbe di limitare la sfera di applicazione della norma a quei casi in cui l’animale fosse un quadrupede, cioè un animale che avesse più di altri una rilevanza economica per il dominus. Sul punto si veda A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, II ed., Padova, 2008, pp. 76-77; M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 27-30. Vedi infra § 4.1. 54 Trad.: «Il primo capo della legge Aquilia prevede: “SE TALUNO INGIUSTAMENTE ABBIA UCCISO UN SERVO ALTRUI O UNA SERVA ALTRUI O UN QUADRUPEDE O UN CAPO DI BESTIAME, QUANTO FU IL MAGGIOR VALORE DI ESSO IN QUELL’ANNO, TANTO DENARO SIA CONDANNATO A DARE AL PROPRIETARIO”». 55 Trad.: «Nel secondo capo si dà contro il costipulante, che con frode allo stipulante abbia fatto l’accettilazione del denaro, un’azione per il valore della cosa». Riportiamo di seguito la traduzione offerta da M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 33: «nel secondo capitolo si prevede un’azione per il valore della cosa distrutta contro il creditore accessorio che in frode al creditore stipulante abbia estinto l’obbligazione a carico del debitore mediante acceptilatio». 56 Trad. it.: «La stessa legge Aquilia nel terzo capo afferma: “DELLE ALTRE COSE, ECCETTO IL SERVO O IL CAPO DI BESTIAME UCCISI, SE TALUNO CAGIONÒ DANNO AD UN ALTRO, PERCHÈ HA BRUCIATO SPEZZATO ROTTO INGIUSTAMENTE <QUALCHE COSA DI QUELLO>, QUANTO QUELLA COSA VALGA NEGLI ULTIMI TRENTA GIORNI, TANTO DENARO SIA CONDANNATO A DARE AL PROPRIETARIO”». 52 53 21 una delle azioni materiali indicate vale a dire le condotte di bruciare, spezzare o rompere con iniuria le cose altrui57. Occore precisare che le ipotesi di lesione e di morte di schiavi, furono inclusi in questo capo dal momento che costituiscono beni economici suscettibili di proprietà58. Nei capitoli I e III la lex Aquilia consacró un sistema di tipicità delle condotte lesive sanzionate, descrivendo con notevole acribia le modalità necessarie per la configurazione di tali delitti. Nel capitolo I viene punita la occisio di uno schiavo, schiava, quadrupede o cosa altrui fatta con iniuria, mentre nel capo III, si punisce chiunque «arrechi danno ad altri» con iniuria per mezzo di una azione materiale specifica, consistente in urere, frangere, rumpere un bene materiale di proprietà del danneggiato. Giova precisare come il capo III si allontani dal sistema casuistico59 adottato dal diritto arcaico, per prospettare una formula adatta a «ricomprendere tutti i danni direttamente cagionati con una certa attività materiale a qualsiasi bene corporale, eccettuate ovviamente le ipotesi specifiche disciplinate nel primo»60, quasi una sorta di norma unica «tendenzialmente di chiusura»61. Altra caratteristica comune ai capi I e III è quella della protezione esclusiva della proprietà. Ciò deriva dalla constatazione che il danno economico disciplinato va a coincidere esclusivamente con la perdita di un bene o con la diminuzione del suo valore come conseguenza della violazione della sua integrità fisica. Questa antica funzione dell’istituto «ha pesato a lungo nel nostro ordinamento, dove ancora taluni ritengono che non ci sia responsabilità aquiliana se non v’è stata lesione d’un “diritto reale, o comunque, assoluto”»62. Secondo C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, in F. MILAZZO (a cura di), Illecito e pena privata in età repubblicana, (Atti del convegno internazionale di dirittto romano, Copanello 4-7 Giugno 1990), Napoli, 1993, pp. 38 ss., il capitolo III della Lex Aquilia sarebbe riferito, in principio, esclusivamente ai danni causati a cose inanimate. 58 Tali figure furono inoltre penalmente sanzionate nella lex Cornelia de sicariis con deportatio, da cui deriva una azione cumulabile con l’azione prevista dalla legge Aquilia (Gai. 3, 213; D. 9, 2, 23, 9; D. 48, 8, 1, 2), e, con riferimento alle sole lesioni, esse erano già disciplinate nelle XII Tavole. 59 Tale sistema è conservato nei primi due capitoli, che costituiscono il nucleo centrale della lex Aquilia. 60 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 835. 61 Ivi, p. 838. In tal senso anche M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 39. 62 G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità extracontrattuale attraverso i secoli, in Studi in onore di Edoardo Volterra, vol. I, Milano, 1969, p. 101. 57 22 Sul piano della legittimazione attiva, essa apparteneva esclusivamente al proprietario. L’azione Aquiliana era infatti diretta a punire chi avesse attentato alla proprietà altrui mediante un certo comportamento. Pertanto la reintegrazione del patrimonio costituiva una conseguenza, in nessun caso la sua finalità. Come azione penale essa era caratterizzata dal nesso di causalità, dalla intrasmissibilità passiva e dalla solidarietà cumulativa63 Per tale motivo il damnum iniuria datum era considerato un delictum privato, alla stessa maniera del furtum e della iniuria. Il fatto che le sanzioni a cui conducevano i Cap. I e III si calcolassero tenendo conto del maggiore valore (plurimi) della cosa in un tempo passato (nell’anno o nei 30 giorni precedenti il danneggiamento) sostiene il carattere penale di questa azione. 3.2) Contenuto e caratteristiche del capitolo II della lex Aquilia Il secondo capo della lex Aquilia, di cui comunque non ci è pervenuta una versione testuale che attesti il suo contenuto originale, si caratterizza per la disciplina che detta in tema di lesione del credito. Sembra che si trattasse di un’innovazione introdotta a seguito della diffusione dell’uso della adstipulatio, legata probabilmente all’attività di prestiti bancari e alla necessità di una azione autonoma di recupero del credito, non esercitabile concretamente dallo stipulator, (cioè colui che presta denaro), né esperibile all’interno dell’antico processo per legis actiones da parte dei rappresentanti processuali64. Il testo gaiano chiarisce che veniva sanzionata la condotta dell’adstipulator che avesse fatto acceptilatio della obbligazione in frode del creditore principale, obbligando l’adstipulator a pagare un indennizzo che ammontava al valore del credito estinto o al duplum in caso di infitatio65. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, in F. MILAZZO (a cura di), Diritto romano e terzo millennio. Radici e prospettive dell’esperienza giuridica contemporanea, (Relazioni del convegno internazionale di dirittto romano, Copanello 3-7 Giugno 2000), Napoli, 2004, p. 176. Cfr. anche A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 122-123. 64 In tal senso G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 175. 65 Cfr. Gaio. 3. 216: «[…] nisi quod ea lege adversus infitiantem in duplum agitur». 63 23 In epoca classica, stando alle testimonianze giustinianee, la previsione del secondo capo cadde in desuetudine66. Gaio precisa inoltra come la sanzione non fosse necessaria, perchè bastava utilizzare l’actio mandati, che alla fine la assimilò. L’attrazione esercitata dalla actio mandati sulla figura contemplata nel capitolo II si comprende alla luce del vincolo contrattuale esistente tra stipulator ed il creditore accessorio (adstipulator)67. Ne deriva pertanto la piena coscienza che già allora si aveva della distinzione tra due diversi tipi di danno: quello derivante da un’ obbligazione contrattuale e quello che consegue alla lesione di una posizione giuridica assoluta, prevista invece dal primo capo della medesima lex68. Le ragioni dell’inserimento di questo capitolo all’interno della lex Aquilia, la sua collocazione, la sua connessione con gli altri capita così come il suo contenuto ed il significato del termine pecunia, sono elementi che hanno generato varie ipotesi in dottrina. Grosso fa riferimento alla nozione di «res incorporalis» per trovare le connessione tra i due primi capitoli della lex Aquilia69. A suo avviso, i citati capitoli regolano entrambi la distruzione di una cosa, ma di diversa natura: corporale nel primo, incorporale nel secondo, affermando, a tal proposito, che «agli effetti del danneggiamento illecito il credito altrui viene concretamente in considerazione come una cosa che si distrugge; chi è nella condizione di poterla distruggere è l’adstipulator, il quale iure civili ha il potere di fare remissione gratuita del credito, ma così facendo commette un illecito, alla stessa guisa di chi distrugge o danneggia la cosa altrui»70. Ad avviso di Guarino il punto di incontro tra i due primi capitoli della lex Aquilia non si deve riscontrare «nel concetto di danneggiamento (un concetto che si formò solo Come afferma Ulpiano in D. 9, 2, 27, 4: «huius legis secundum quidem capitulum in desuetudinem abiit», e lo stesso Giustiniano in I. 4, 3, 12: «caput secundum legis Aquiliae in usu non est». 67 Sulla figura dell’adstipulator cfr. A. CORBINO, Il secondo capo della “lex Aquilia”, in O. CONDORELLI (a cura di), “Panta rei”. Studi dedicati a Manlio Bellomo, t. II, Roma, 2004, pp. 9-20. 68 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 175. 69 G. GROSSO, La distinzione fra “res corporales” e “res incorporales” e il secondo capo della “lex Aquilia”, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, vol. II, Napoli, 1964, pp. 791-795. Per la distinzione tra i due tipi di res si veda, anche con riferimento alle situazioni unificate, il prezioso contributo di R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, cit., pp. 144-162. 70 G. GROSSO, La distinzione fra “res corporales” e “res incorporales” e il secondo capo della “lex Aquilia”, cit., p. 792. A tal proposito A. GUARINO, Diritto privato romano, XI ed., Napoli, 1997, p. 1018, nt. num. 97.2, ritiene poco convincente l’ipotesi del Grosso «sia perchè attribuisce ad epoca troppo risalente la concezione della res incorporalis, sia perché Gaio, cioè l’autore che più chiaramente utilizza il concetto di res incorporalis, non ricorre affatto a questa spiegazione per giustificare il nesso tra caput primum e caput secundum». 66 24 più tardi e sulla base dell’interpretazione del caput tertium), ma nel concetto molto più generico del pregiudizio economico arrecato da taluno a talaltro con alcune specifiche azioni, esattamente indicate dalla legge: l’uccisione dello schiavo, l’uccisione di quadrupedes pecus, l’estinzione del credito. Quando, sulla base dell’interpretazione del caput tertium, emerse e si precisó la nozione giuridica del damnum iniuria datum, inevitabilmente il caput secundum fu considerato estraneo alla lex de damno»71. Schipani ha invece sottolineato che, in ogni caso, la organicità delle tre norme e i suoi elementi di omogeneità si possono ipotizzare solamente se si guarda al risultato delle condotte da esse previste sulla cosa lesionata, insomma, al momento dell’evento, inteso con una certa elasticità, dal punto di vista soggettivo. La condotta prevista dal capitolo secondo (pecuniam in fraudem stipulatoris acceptam facere) si fonderebbe sulla nozione di fraus che caratterizza la volontà, mentre nei capitoli I e III il requisito della iniuria costituisce un elemento chiaramente distintivo72. Da ultimo Corbino ha ritenuto che il termine pecunia non alludesse solamente al denaro ma anche a una cosa materiale, alla ricchezza mobile costituita innanzitutto da schiavi e animali quadrupedi73. Al di là delle dispute dottrinali, e con riguardo alla prospettiva della evoluzione storica del danno extra contractum, occorre rilevare che, come recentemente e puntualmente sottolineato, nell’antichità si concepì un’ ipotesi di tutela del credito connessa alla tematica aquiliana, ipotesi che ha dato avvio ad una problematica che è venuta a galla in tempi recenti generando un gran dibattito dottrinale e giurisprudenziale74. A. GUARINO, Diritto privato romano, cit. pp. 1018-1019. S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit., pp. 45-46; 137. 73 A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, cit., pp. 45-54, posizione comunque criticata, per gli esiti verso i quali necessarimente porta, da M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 51-52, giacchè la tutela del credito è l’obiettivo comune sia all’azione aquiliana si all’actio mandati, indipendentemente dall’oggetto del diritto di credito. 74 Sul punto si veda L. JING, Riparazione del danno extra contrattuale: sistema giuridico romanistico, elaborazione canonistica e prospettive attuali, cit., pp. 21-22. 71 72 25 3.3) Permanenza delle azioni anteriori alla lex Aquilia. Stando alla testimonianza di Ulpiano, «la legge Aquilia derogò a tutte le leggi, che prima di essa hanno parlato del danno <arrecato> ingiustamente, sia delle Dodici Tavole, sia a qualsiasi altra» (D. 9, 2, 1, pr.). Tuttavia essa lasciò in vigore le azioni private già esistenti (contemplate anche nelle XII Tavole), destinate alla restituzione o al risarcimento dei danni causati alla proprietà75. In primis l’actio de pauperie76, concessa in relazione a danni causati da quadrupedi, che dava al proprietario la possibilità di scegliere tra il risarcimento del danno o la consegna nossale dell’animale ( D. 9, 1 )77. Ritroviamo poi l’actio de pastu pecoris, concessa contro il proprietario dell’animale che pascola nel fondo altrui e per la quale si deve il risarcimento o la consegna (D. 19, 5, 14, 3). Vennero altresì mantenute l’actio de arboribus succisis contro chi tagliava abusivamente alberi altrui, che obbligava l’autore a pagare 25 assi per ogni albero tagliato (D, 47, 7), ed infine l’actio aedium incensarum, (Tab. 8, 10). Quest’ultima azione escludeva dal risarcimento le ipotesi di incendio doloso. In questa prospettiva, si ritiene che la actio legis Aquiliae, (la quale presupponeva un comportamento posto in essere iniuria), dovette sembrare lo strumento adatto a riempire il vuoto normativo. In età successiva il rimedio aquiliano si sarebbe trasformato nella via utilizzata normalmente, includendo le ipotesi colpose e soppiantando l’azione menzionata fino al punto che alcuni la considerano scomparsa in età classica78. Da ultimo si consulti A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 68-69. 76 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 838. Un ricco quadro sull’azione è offerto da A. M. HONORÉ, Liability for animals: Ulpian and the compilers, in J. A. ANKUN-J. E. SPRUIT-F. B. J. WUBBE (a cura di), Satura Roberto Feenstra sexagesimum quintum anuum aetatis complenti ab alumnis collegis amicis oblata, Fribourg, 1985, pp. 239-250. 77 Per una rapida analisi cfr. R. DE RUGGIERO, Azione de pauperie, in Dizionario pratico del diritto privato, vol. I, Milano, 1900, p. 462; G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità extracontrattuale attraverso i secoli, cit., pp. 104-106. Per approfondimenti si veda G. L. FALCHI, Studi sulla legittimazione passiva alle azioni nossali, Milano, 1976, passim. 78 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 838. 75 26 3.4) Presupposti rilevanti per la configurazione del danno aquiliano. Corbino ha ben sintetizzato i presupposti originari rilevanti per la configurazione del danno aquiliano affermando che «perché la legge potesse trovare applicazione il danno doveva risultare “esistente”, “certo” e “stimabile”»79. Quanto affermato significa che occorreva in primis una distruzione o alterazione o violazione della sostanza di un oggetto fisico80. Damnum esprime nel suo significato originario l’idea di rottura causata a un corpo, e nel suo più antico significato il «danneggiamento di un bene (“Sachbeschädigung”) e non piuttosto un pregiudizio arrecato al patrimonio del suo proprietario (“Schaden”)»81. Il valore specifico inequivoco dei termini occidere, urere, rumpere e frangere fece si che il danno fosse inteso come la distruzione o lesione materiale di una cosa altrui. In questo senso in D. 9, 2, 27,14 si afferma con chiarezza che «ut lex Aquilia locum habeat» è necessario un danno consistente in «ipsum quid corrumpere et mutare»82. Ciò ha determinato il mancato ingresso, nella sfera della tutela aquiliana, della semplice perdita della disponibilità di un oggetto, quando non esisteva una alterazione della sua sostanza fisica83, nochè la dispersione della cosa mobile altrui. Quest’ultima ipotesi costituiva un vuoto legislativo, dovuto al fatto che in origine dovette configurarsi un’ ipotesi del furto secondo l’ampia nozione che si aveva di questo delictum. Si comprendono, pertanto, le comuni affermazioni secondo cui, per essere in presenza della disciplina aquiliana, si richiedeva un damnum corpori datum; il damnum inizialmente era rilevante solo se materiale (corpori illatum), cioè un danno prodotto alla integrità fisica della cosa (corpori)84; l’alterazione per rilevare a tale fine doveva A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 106-108. A ciò si riferisce l’espressione mutatio rei che trova le sue radici nelle fonti. Cfr. D. 9, 2, 27, 14. 81 G. VALDITARA, Sulle origini del concetto di damnum, II ed., Torino, 1998, p. 71. 82 B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, in Annali del seminario giuridico Università di Palermo, 21 (1950), pp. 181-182. 83 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 851. 84 L’espressione «damnum corpore corpori datum» è stata coniata per esprimere in modo molto chiaro l’esigenza della relazione causale fisica tra il delinquente e la persona o la cosa danneggiate. In tal senso, ex plurimis, V. ARANGIO RUIZ, Istituzioni di Diritto Romano, XIV ed. riv., ristampa anastatica, Napoli 1989, p. 375; G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità, cit., p. 101; A. GUARINO, Diritto Privato romano, cit., p. 1023; G. LONGO, Lex Aquilia de damno, in NSSDI, vol. IX, Torino, 1963, p. 799; C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, Catania, 1959, pp. 75-76. 79 80 27 essere dannosa, cioè doveva comportare una diminuzione della funzionalità e del valore del bene. Altro presupposto che viene in rilievo è la patrimonialità del danno poiché con la lex Aquilia si tutelavano esclusivamente ipotesi di distruzione o deterioramento di beni economici suscettibili di proprietà. La lesione o la morte di schiavi merita attenzione per il fatto di colpire beni con siffate caratteristiche. L’identificazione del damnum con un pregiudizio di natura patrimoniale troverebbe espressa conferma in un passo di Ulpiano contenuto in Coll. 2, 4, 1 e in D. 9, 2, 27, 17 (che presenta una versione alterata) nel quale, per le ipotesi di lesioni fisiche causate a un servo, si afferma che se esse non hanno arrecato una diminuzione del valore economico del bene suscettibile di proprietà, non sussiste un danno rilevante e per questo non si può intentare l’azione aquiliana85. Proprio perchè non esiste diminuzione patrimoniale si spiega la improcedibilità della actio legis Aquiliae quando si raccoglie l’uva altrui che già era matura (D. 9, 2, 27, 25) o quando si castra un bambino, servo di un’altra persona, facendone così aumentare il suo valore (D. 9, 2, 27, 28)86. Ciò è una conferma dell’esistenza dell’operatività del cosiddetto principio della compensatio lucri cum damno, dal momento che il bambino schiavo castrato ha acquisito per questo motivo un prezzo maggiore, e l’uva altrui già matura è stata raccolta con risparmio pertanto del costo per la raccolta dei frutti. Dal tenore letterale della legge non risultano tutelati come damnum iniuria datum la morte, i danni fisici, o la sofferenza morale causati a una persona libera, nè la perdita del semplice valore affettivo. Questi aspetti saranno protetti in certa misura attraverso il delitto di iniuria87. In tal senso G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 201. Non è corretto fondare la natura patrimoniale del danno aquiliano sul concetto di damnum elaborato da Paolo e contenuto in D. 39, 2, 3: «Damnum et damnatio ab adeptione et quasi deminutione patrimonii dicta sunt». Tale frammento si inserisce in un contesto diverso quale quello della cautio damni infecti. Cfr. sul punto C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., p. 14. 87 In questo senso S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit., p. 86, il quale afferma che: «è comunque da porre in evidenza il fatto che la lex Aquilia tutela il patrimonio e nei capitoli in esame, si riferisce solo a delle res, opera su un piano la cui rilevanza è strettamente economica, ed in questo si differenzia in modo profondo dall’iniuria, che considera la lesione alla persona umana, e la cui repressione è connessa ad esigenze sviluppatesi su un piano psicologico e culturale in modo più complesso». 85 86 28 In caso di lesioni fisiche, il principio «liberum corpus non tollit aestimationem» era incompatibile con il metodo estimatorio, e quindi impediva di considerare un danno risarcibile la lesione del corpo di una persona libera. Circa la morte di un servo, Paolo (e Sesto Pedio, citato nel frammento), chiariscono che comunque non si considera il «valore affettivo», ma il valore obiettivo che vale per tutti: D. 9, 2, 33 pr. «Si servum meum occidisti, non affectiones aestimandas esse puto, veluti si filium tuum naturalem quis occiderit, quem tu magno emptum velles, sed quanti omnibus valeret. Sextus quoque Pedius ait pretia rerum non ex affectione nec utilitate singulorum, sed communiter fungi: itaque eum, qui filium naturalem possidet, non eo locupletiorem esse, quod eum plurimo, si alius possideret, redempturus fuit, nec illum, qui filium alienum possideat, tantum habere, quanti eum patri vendere posset. In lege enim Aquilia (damnum) consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur»88. Il tipo particolare di aestimatio proprio dell’azione aquiliana (cfr. Gai. 3, 210; 212; 214; 218), che si circoscrive in principio al valore del bene danneggiato (aestimatio rei), porta a concepire il damnum come la distruzione o la diminuzione del valore di mercato, del pretium, della cosa stessa. La concezione del damnum come pregiudizio economico, conseguenza diretta dell’illecito, portò a negare la legittimazione ad esercitare l’azione aquiliana in tutti i casi in cui, nonostante si fosse potuto configurare una attività materiale rilevante [cioè rumpere (D. 9, 2, 27, 17), occidere, urere o frangere], non si era causata una diminuzione di valore del bene del dominus rei. Fu altresì negata la risarcibilità di quelli che, con terminologia moderna, chiameremmo danni morali, in quanto non sono adatti a influire sul valore economico Trad. it. «Se tu hai uccisso un mio servo, reputo che non si debbano considerare nella stima i valori d’affezione e morali <per il servo ucciso>, come nel caso in cui uno abbia ucciso un tuo figlio naturale che tu avresti voluto comprare ad alto prezzo, ma <si deve considerare nella stima> quanto vale per tutti. Anche Sesto Pedio afferma che i prezzi delle cose non equivalgono al valore di affezione o di utilità di singoli, ma a quello comune; e così, colui che possiede il suo figlio naturale non per questo è più ricco, perché, se altri lo possedesse, egli sarebbe disposto a comprarlo per moltissimo, né colui che possieda il figlio di un altro può avere <da colui che lo uccida> tanto quanto avrebbe conseguito vendendolo al padre. In base alla legge Aquilia, infatti, conseguiamo il valore del danno, e si dirà che abbiamo perduto quanto o avremmo potuto conseguire o siamo costretti a spendere». 88 29 del bene. È il caso ad esempio del testatore a seguito di cancellazione delle tabulae o della divulgazione de loro contenuto89. Parimenti rilevante risulta poi il presupposto dell’altruità della cosa su cui ricade il danno90. La circostanza che la cosa danneggiata fosse altrui era indispensabile e sufficiente perché l’evento lesivo venisse qualificato come violazione di un diritto, e ciò lo ritroviamo sia nel capitolo I, dove esiste un riferimento espresso in tale senso, sia nel capitolo III dove si puntualizza che deve trattarsi di un danno a un’altra persona. In ordine alla distruzione o alterazione dannosa essa doveva essere conseguenza diretta di un facere di una persona attraverso un contatto del danneggiante con l’oggetto danneggiato. L’esistenza di questo presupposto appare chiara se si esamina il tenore letterale della lex Aquilia giacché per essa aveva rilevanza solamente il danno che fosse conseguenza di un’azione specifica: occidere nel Cap. I, urere, frangere e rumpere nel Cap. III. Non appare concessa, pertanto, l’applicazione dell’actio legis Aquiliae in caso di comportamenti omissivi91, come risulta da D. 7, 1, 13, 2 in cui si esclude la applicazione dell’actio in relazione ad una serie di figure di danno conseguenti ad omissioni92. Questo presupposto implicava l’esigenza di una relazione materiale o fisica, immediata e diretta, tra la condotta dell’agente e l’effetto dannoso. All’inizio di Gai. 3, 219 si evidenzia, a questo proposito, che affinchè il danno possa essere sanzionato dalla legge Aquilia, deve essere causato corpore suo dal danneggiante: «Ceterum placuit ita demum ex ista lege actionem esse, si quis corpore suo damnum dederit [...]»93. Autorevole dottrina ritiene che la interpretatio più antica trovò una via per stabilire «una presunzione di responsabilità: laddove, in sostanza, ricorrevano il damnum D. 9, 2, 41, pr., segnalato da A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 108. Cfr. anche D. 9, 2, 33 pr; D. 35, 2, 63, pr. Per approfondimenti si rinvia a G. VALDITARA, A proposito di D. 9, 2, 41, pr. e dell’actio in factum concessa per il danneggiamento di tavole testamentarie, in SDHI, 60 (1994), pp. 649-657. 90 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, II ed., Firenze, 1994, p. 532. 91 G. PUGLIESE, Istituzioni di Diritto romano, III ed., Torino 1991, p. 605. 92 D. 7, 1, 13, 2: «[…] nam qui agrum non proscindit, qui vites non subserit, item aquarum ductus conrumpi patitur, lege Aquilia non tenetur […]». Trad. it. «[…] Infatti colui che non ara il terreno <in usufrutto>, che non ripianta le viti, che, parimenti, tollera che l’acquedotto si deteriori,non è tenuto in base alla legge Aquilia […]». 93 Trad. it. «Si reputò peraltro che per detta legge ci fosse azione solo se uno avesse dato il danno col suo corpo […]». 89 30 corpore datum e il requisito dell’iniuria, il sistema romano più antico di tutela del danno extracontrattuale dispensava da ogni indagine specifica sulla colpevolezza dell’agente, ritenendo sufficienti a stabilirla quei due stessi elementi. Ciò spiega anche, in modo chiaro, il nome tipico del danno aquiliano, nome che si da a tutte le situazioni nelle quali traspaiono bene questi requisiti: damnum iniuria datum»94. Tuttavia il tema del nesso di causalità tra il danno verificatosi e il comportamento attuato dall’agente rimane tra quelli «più tormentati nella letteratura romanistica» giacchè da un lato troviamo «la ritenuta originaria connotazione strettamente materiale (in termini cioè di avvenuto “contatto fisico” tra agente e cosa danneggiata) dell’azione richiesta per la concessione dell’azione aquiliana, che mal si concilia con una serie di casi nei quali essa appare invece accordata anche in assenza di tale presupposto», dall’altro sussiste «la difficoltà di comprendere il criterio discretivo adottato dal pretore per concedere l’azione in factum ovvero quella utilis»95. 3.4.1) (segue) Significato della condotta tenuta iniuria. Nei suoi capitoli I e III la lex Aquilia esigeva che il danno fosse causato “con ingiuria” (iniuria)96. La parola iniuria, che aveva diversi usi nel diritto romano97, in questo specifico contesto significava «senza diritto» o «contro diritto»98. Stando a Ulpiano «iniuria», in ossequio all’etimologia stessa, «ex eo dicta est, quod non iure fiat»99. Ad avviso di Contardo Ferrini, «se «iniuria» significa offesa all’integrità personale non è incredibile che già apparisse nella legge decemvirale a significare il danneggiamento delle cose; si avrebbe così «iniuria» degli uomini e delle cose»100. B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 181. A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 110. 96 Ad avviso di S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”, Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit., pp. 85-86, anche il capitolo II probabilemente utilizzò il termine iniuria. 97 Sull’uso del sostantivo iniuria si consulti S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”, Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit., pp. 51-86. 98 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 532, precisa che «il danno sanzionato dalla legge Aquilia era il damnum iniuria datum. Il termine iniuria è certamente adoperato nel testo legislativo nel suo significato più lato, con riguardo ad un comportamento ingiusto, “senza” o “contro” ius (quod non iure fit: D. 47, 10, 1 pr. Ulp. 46 ad. ed.)». 99 D. 47, 10, 1. 100 C. FERRINI, Diritto penale romano, Milano, 1899, p. 247. 94 95 31 In alcuni testi iniuria parrebbe equivalente a danno, mentre in altri a «culpa et dolo» come risulta da Gaio 3, 211: «Iniuria autem occidere intellegitur, cuius dolo aut culpa id acciderit; nec ulla alia lege damnum, quod sine iniuria datur, reprehenditur; itaque inpunitus est, qui sine culpa et dolo malo casu quodam damnum committit»101. Si richiedeva inoltre un atteggiamento psicologico riprovevole. Il che si aveva non solo quando l’autore dell’azione lesiva avesse avuto consapevolezza delle conseguenze dannose del suo operare, ma anche quando egli avrebbe dovuto avere tale consapevolezza con riferimento alle regole di comportamento sociale correnti. Ciò risulterebbe confermato dal passo ulpianeo contenuto in D. 9, 1, 1, 3: «Ait praetor ‘pauperiem fecisse’. Pauperies est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu caret»102. In coerenza alla sua etimologia iniuria significa l’obbiettività del torto arrecato dall’agente, il torto obbiettivo che si risolve a sua volta nella violazione di un diritto. In principio, a questo presupposto si attribuí un significato che conteneva la «ingiustificatezza della condotta, cioè l’assenza di cause di giustificazione per essa, in una fattispecie di illecito non di pura condotta, ma in cui la condotta deve necessariamente provocare un evento tipico, che, come detto, viola il diritto e riverbera sulla condotta tale qualificazione»103. In tale modo se la condotta non era “giustificata” e causava una lesione attraverso alcune delle modalità descritte nella lex, trasformava il soggetto in responsabile104. Al contrario, non arrecava iniuria, e per questo non commetteva delitto, chi avesse causato il danno per un giusto motivo105 come l’esercizio di un diritto106, la leggitima difesa107 o lo stato di necessità108. Trad.: «Si considera che uccida ingiustamente colui per dolo o colpa del quale l’uccisione avvenga. Il danno arrecato senza torto non è censurato da alcuna altra legge: è quindi impunito chi per un qualche accidente, senza colpa e dolo malvagio, cagiona [qualche] danno». Sui problemi che lascia aperti il testo gaiano si veda S. SCHIPANI, Pluralità di prospettive e ruolo della culpa come criterio elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, ora in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 52-53. 102 Trad. it.: «Il pretore afferma: ‘ABBIA CAGIONATO pauperies’. La PAUPERIES è il danno arrecato senza un atto ingiusto dell’autore: infatti, l’animale non può aver agito ingiustamente, dato che manca di ragione». 103 S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, p. 86; B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 179, che allude alla iniuria come la «antigiuridicità obiettiva» della condotta del danneggiante. 104 S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit., p. 90. 101 32 Antonio La Torre ha evidenziato come «il primo approccio storico al concetto di danno ingiusto, quale può desumersi dalla iniuria di cui parla la lex Aquilia, sia decisamente orientato nella direzione del soggetto attivo. Più precisamente verso la condotta di colui il quale, operando nel contesto di una situazione valutabile alla stregua del diritto oggettivo, avendo cagionato un damnum, appunto, era da stabilire se imputargli o no le conseguenze del fatto dannoso, secondo che egli abbia agito non iure o iure»109. Di recente è stato precisato che «il legislatore aquiliano, nel recepire dall’omonimo delitto la nozione di iniuria, non poteva prescindere da un requisito ad esso tanto coessenziale quanto il criterio del dolo, della volontarietà della condotta: l’abbandono di quest’ultimo avrebbe comportato, invece di una recezione, il completo snaturamento del concetto di iniuria»110. Rimane pertanto inevitabile l’interpretazione secondo cui il termine iniuria che qualifica la condotta lesiva nel primo e nel terzo capitolo della lex Aquilia esprime il carattere doloso del comportamento antigiuridico. L’interpretazione della Cursi supera la tradizionale lettura dell’iniuria aquiliana nel significato di antigiuridicità oggettiva, basata pressochè su criteri etimologici quale contrarietà allo ius, e dovuta alla scissione tra antigiuridicità e colpevolezza sostenuta da Rudolph von Jhering nella sua ipotesi di sviluppo dal torto oggettivo al torto soggettivo111. Quanto alle conseguenze delle diverse letture, se l’iniuria aquiliana coincideva alle origini col dolo, ciò implica che erano punite soltanto le uccisioni volontarie dello schiavo, mentre se intendiamo iniuria come illiceità oggettiva della condotta, allora ogni uccisione dello schiavo altrui non giustificata altrimenti avrebbe comportato l’applicazione della pena prevista. Sulle singole cause di giustificazione si veda l’ampia analisi svolta da A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 159-171. 106 Cfr. D. 9, 2, 7, 4; D. 9, 2, 29, 7; D. 47, 10, 13, 1. 107 Cfr. D. 9, 2, 4, pr.; D. 9, 2, 5, pr.; I. 4, 3, 2. 108 Cfr. D. 9, 2, 49, 1; D. 43, 24, 7, 4. 109 A. LA TORRE, Genesi e metamorfosi della responsabilità civile, in Roma e America. Diritto romano comune, 8 (1999), pp. 61 ss., ora in ID., Cinquant’anni col diritto. (Saggi), vol. I, Milano, 2008, p. 123. 110 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 31. 111 R. VON JHERING, Das Schuldmoment im römischen Privatrecht, Leipzing, 1867, in Vermischte Schriften; juristischen Inhalts, Leipzing, 1879, pp. 155 ss. (trad. it. Il momento della colpa nel diritto privato romano, Napoli, 1990, p. 3 ss. 105 33 4) Lex Aquilia ed interventi giurisprudenziali Il concetto primitivo di danno ha subito profondi cambiamenti ad opera della giurisprudenza romana la quale interpretò nei suoi diversi aspetti la disciplina Aquiliana arrivando a porre alcune delle basi su cui poggia la moderna nozione del danno risarcibile. 4.1) L’espressione «quadrupedem vel pecudes» nel cap. I della lex Aquilia. Un primo intervento interpretativo è quello avutosi con riferimento alla espressione «quadrupede o animali che formano gregge» («quadrupedem vel pecudes») utilizzata nel capitolo I della lex Aquilia. La giurisprudenza precisa che tale espressione non indica due cose distinte, ma una stessa cosa: il quadrupede (quadrupes) che forma gregge (pecudes). Frammento fondamentale risulta essere quello di Gaio contenuto in D. 9, 2, 2, 2: «Ut igitur apparet, servis nostris exaequat quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur, veluti oves caprae boves equi muli asini. Sed an sues pecudum appellatione continentur, quaeritur: et recte Labeoni placet contineri. Sed canis inter pecudes non est. Longe magis bestiae in eo numero non sunt, veluti ursi leones pantherae elefanti autem et cameli quasi mixti sunt (nam et iumentorum operam praestant et natura eorum fera est) et ideo primo capite contineri eos112 oportet»113. Nelle Institutiones giustinianee si afferma: I. 4, 3, 1: «Quod autem non praecise de quadrupede, sed de ea tantum quae pecudum numero est cavetur, eo pertinet, ut neque de feris bestiis neque de canibus cautum esse intellegamus, sed de his tantum quae proprie pasci dicuntur, quales sunt equi muli asini boves oves caprae. De suibus quoque idem placuit: nam et sues pecorum appellatione 112 Nell’edizione classica del Digesto curata dal Mommsen e dal Krueger il termine è “eas”. Trad.: «Come quindi risulta, essa equipara ai nostri servi i quadrupedi che appartengono al novero del bestiame e si tengono a mandrie, come pecore, capre, bovini, cavalli, muli, asini. Ma si pone la questione se i suini siano inclusi nella denominazione di bestiame; e correttamente a Labeone pare bene che siano inclusi. Il cane invece non è fra il bestiame. A maggior ragione in tal novero non sono le bestie <selvagge> come orsi, leoni, pantere. Gli elefanti, poi, e i cammelli sono come se fossero misti (infatti lavorano come giumenti e nel contempo la loro natura è selvaggia) e pertanto è necessario che essi siano inclusi nel primo capo». 113 34 continentur, quia et hi gregatim pascuntur: sic denique et Homerus in Odyssea ait, sicut Aelius Marcianus in suis institutionibus refert»114. Il problema sorgeva dal significato di «pecudes», espressione con la quale si faceva riferimento non ai quadrupedes, ma a quelli, tra questi, che «gregatim habentur». Una siffatta limitazione determinava tuttavia alcune difficoltà. Ne derivava di conseguenza la sicura esclusione dei cani, ma non ne è però chiara la posizione dei suini e nemmeno quella degli elefanti e dei cammelli. La ragione di dubbio non è chiarita. A tal proposito viene in soccorso solo la citazione di Omero nel testo giustinianeo e l’accenno al trattamento da farsi ad elefanti e cammelli (I. 4.3.1). Gaio sosteneva la natura non solo ferina di elefanti e cammelli, possono essere addomesticati e perciò utilizzati dall’uomo come le altre bestie da tiro e da soma, ciò che ne giustifica conseguentemente, a suo giudizio (oportet), la loro inclusione nel novero degli animali protetti dal primo capitolo. Si può notare come rilevi non già il fatto “naturale”, ma quello “economico”, costituito dall’effettiva riduzione degli animali in questione al servizio dell’uomo, attraverso una loro “organizzazione”, che facendo di essi un «grex»115 ne accresce il valore perché ne permette uno sfruttamento migliore. Al pari degli schiavi, anche gli animali costituivano oggetto (con riferimento all’economia coeva alla legge) di una disciplina che tiene conto dello speciale pregiudizio che può derivare al proprietario dalla loro uccisione. Trad. it.: «Il fatto che la norma non parli semplicemente del quadrupede, ma solo di quello rientrante fra il bestiame, è in relazione col dover noi capire che la disposizione non riguarda né le bestie feroci né i cani, ma soltanto i quadrupedi di cui si dice propriamente che pascolano, quali sono i cavalli, i muli, gli asini, i buoi, le pecore e le capre. Anche per i maiali si ritiene questo:anch’essi, infatti, sono compresi nell’appellativo di bestiame, dato che essi pure pascolano insieme; così appuntodice anche Omero nell’Odissea, come riferisce Elio Marciano nelle sue Istituzioni». Il testo e la traduzione delle Iustiniani Institutiones sono tratti da E. NARDI, Istituzioni di diritto romano, B, Testi, 2, Milano, 1986, utilizzato nella presente trattazione. 115 Sul grex e sugli altri esempi di corpora ex distantibus (vale a dire i corpora in cui i diversi elementi, anche se materialmente separati, sono uni nomini subiecta, come ad esempio il popolo e la legione) si veda R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, 1968, pp. 130137. 114 35 4.2) I verbi contemplati nella legge Ai fini della configurazioe dell’illecito aquiliano, il plebiscito esigeva che il danno dovesse essere conseguenza di una azione tipica qualificata: servum quadrupedemve occidere nel capitolo I e rumpere, urere, frangere aliquid nel capitolo III, che viene a precisare e restringere la più generica espressione damnum faxit. I verbi usati dal legislatore descrivono una condotta tipica e un evento, in una maniera «vincolata» (in contrapposizione a una forma «libera»), poichè non si riferiscono a qualsiasi condotta che provochi quell’evento, ma descrivono sinteticamente quella condotta che lo causa attraverso un immediato contatto fisico violento (eccetto per la condotta di «urere») tra il soggetto attivo e il soggetto passivo116. Di fronte a queste ristrette ipotesi di azioni qualificate, la giurisprudenza adoperò uno sforzo interpretativo che contribuí in certa misura a superare la stretta tipicità originale dell’illecito aquiliano. Per quanto riguarda il verbo «occidere» i giuristi proposero, relativamente ad esso, diverse interpretazioni117. Così Giuliano, giurista del II secolo d. C., comincia distinguendo il concetto comune di occidere da quello riferentesi ai fini della lex Aquilia: D. 9, 2, 51, pr.: «Ita vulneratus est servus, ut eo ictu certum esset moriturum: medio deinde tempore heres institutus est, et postea ab alio ictus decessit: quaero, an cum utroque de occiso lege Aquilia agi possit. Respondit: occidisse dicitur vulgo quidem, qui mortis causam quolibet modo praebuit: sed lege Aquilia is demum teneri visus est, qui adhibita vi et quasi manu causam mortis praebuisset, tracta videlicet interpretatione vocis a caedendo et a caede […]»118. Così fa notare S. SCHIPANI, L’interpretazione della lex Aquilia nei giuristi repubblicani e il problema della culpa, cit., p. 69. 117 Cfr. la minuziosa analisi di A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 93-98. 118 Trad. «Un servo è stato ferito in modo tale che per tale ferita certamente morirà; nell’intervallo è stato istituito erede e poi, per un altro colpo, morì; pongo il quesito se nei confronti di entrambi <gli autori delle ferite> si possa agire per la uccisione in base alla legge Aquilia. Risponde: comunemente invero si dice che abbia ucciso colui che in qualsiasi modo abbia procurato la causa della morte; ma in base alla legge Aquilia si considerò che sia tenuto soltanto colui il quale, utilizzando la forza e quasi con la mano abbia procurato la causa della morte, con una interpretazione manifestamente tratta dalla parola caedere (percuotere) e caedes (uccisione)». 116 36 Ai fini della legge Aquilia, in ossequio ad una interpretazione restrittiva, fu considerato «occidere» solo il provocare l’evento morte attraverso determinate modalità dell’azione. Giuliano riferisce che occidere, nel contesto aquiliano, richiedeva la vis come presupposto della sua configurazione congiuntamente all’azione fisica in relazione al corpus. Ulpiano119 equipara più esplicitamente le ipotesi nelle quali il veleno fu dato dal danneggiante per «vim» a quelle nelle quali il veleno fu dato «suasum», cioè con la persuasione. L’occidere sussiste quando la condotta ha riguardato direttamente l’oggetto (sia che vi sia stata violenza fisica, sia che l’agente abbia fatto ricorso ad una violenza invece morale, come avviene nel caso di minacce, sia che abbia agito invece senza violenza, avendo attuato solo una condotta persuasiva) e può, inoltre, considerarsi causa dell’evento dannoso. Nel caso in cui la condotta risulti priva dei predetti caratteri oppure non sia materialemente configurabile una condotta, come avviene in presenza di un comportamento omissivo, l’evento non può considerarsi conseguenza del comportamento ed è perciò sanzionabile soltanto in factum grazie ad un intervento del pretore120. Tra le due situazioni (danno diretto e certamente causato; danno la cui causa è dubbia) che giustificano le due diverse azioni (azione diretta o azione in fatto) si situa quella che genera l’azione utile: la condotta è stata causa certa, ma non anche diretta (come lo è invece la morte causata «fame» ad animali e schiavi reclusi) dell’evento. Corbino precisa che l’actio utilis «risulta accordata dal pretore al proprietario – per ragioni legate a questionii di nesso di causalità – nei casi nei quali il danno da lui sofferto, pur riguardando la cosa oggetto del comportamento attuato, non può dirsene D. 9, 2, 9, 1: «Si quis per vim vel suasum, medicamentum alicui infundit, vel ora, vel clystere, vel si eum unxit malo veneno, lege Aquilia eum teneri, quemadmodum obstetrix supponens tenetur». Trad. «Se taluno a forza o con la persuasione propina ad altri una medicina o per bocca o con clistere o se gli spalma un unguento velenoso, egli sarà tenuto in base alla legge Aquilia, allo stesso modo di come è tenuta l’ostetrica che la somministra». 120 Si riferisce D. 9, 2, 9 pr, Labeone era stato sulla stessa linea interpretativa di Giuliano, ma egli era anche giunto ad individuare un’ipotesi di “morte” in assenza di facere diretto, nella quale invece si concede l’actio in factum. 119 37 diretta conseguenza, perché esso è derivato da circostanze sopraggiunte e/o concausanti»121. Ulpiano, in particolare, descrive taluni fatti in cui vi è una condotta che causa l’evento e tuttavia essa si presenta in modo indiretto, concorrendo cause ulteriori alla determinazione di esso evento (D. 9, 2, 11, pr., relativo al caso del barbiere che, mentre sta radendo il cliente, è violentemente colpito alla mano dal pallole proveniente dagli atleti che giocavano nei pressi, tanto da perdere il controllo del rasoio che va a tagliare la gola del cliente). In relazione ai verbi urere, frangere e rumpere122 un primo sforzo tendente a superare il sistema di tipicità delle azioni lesive contemplato nel capitolo III della lex Aquilia può ravvisarsi in D. 9, 2, 27, 22 che pone in relazione la schiava o la cavalla che abortiscono in conseguenza del colpo ricevuto: «Si mulier pugno vel equa ictu a te percussa ejecerit, Brutus ait, Aquilia teneri, quasi rupto»123. Si è considerato che già negli ultimi decenni del secolo III a. C. si riconosceva al verbo rumpere un significato tendenzialmente comprensivo di urere e frangere. Dalla sua collocazione alla fine dell’elenco delle condotte rilevanti, acuta dottrina ha dedotto che lo stesso legislatore aquiliano attribuì a tale verbo una funzione di chiusura e ciò spiegherebbe anche l’affermazione contenuta nel commentario di Gaio (Gai. 3, 217) secondo cui «capite tertio de omni cetero damno cavetur»124. È chiaro che, nonostante la loro ampiezza, i tre verbi elencati nel capitolo III non comprendessero tutte le ipotesi dei danni a cose altrui. In particolare rimanevano escluse quelle che toccavano cose rispetto alle quali era difficile applicare la rigorosa nozione di rumpere (è il caso del vinum acetum factum, contemplato in D. 9, 2, 27, 15), così come, più in generale, tutti i tipi di danno nel quale ricorrendo alla mutatio rei non si poteva a A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 138. Cfr. A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 98-106. 123 Trad.: «Se una serva da te percossa con un pugno o una cavalla con un colpo abbia abortito, Bruto afferma che sei tenuto con <l’azione della legge> Aquilia come se tu l’abbia “lesa”». Qui il feto è considerato come se fosse un’unica cosa con la madre. Per cui si tratterebbe di ruptio vera e propria. 124 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p.847-848. 121 122 38 rigore parlare di rumpere (per esempio, le macchie provocate sui vestiti, ricordate in D. 9, 2, 27, 18)125. La equiparazione del rumpere a corrumpere fu la via trovata dai giuristi per apprestare una tutela a situazioni, come quelle sopra menzionate, e superare la stretta tipicità degli eventi lesivi sanzionati nel capitolo III126. Con il verbo corrumpere si indicava tutta l’attività che conducesse a una «mutatio in peius di un qualsiasi oggetto ancorchè questo oggetto non fosse un corpo solido e così anche se la modifica non fosse corporea»127. Rumpere includeva così urere e frangere, ma anche qualsiasi pregiudizio, come tagliare, provocare contusioni, versare e «tutti gli altri effetto di vizio, peggioramento o deterioramento»128. Si comprende pertanto come Gaio (3, 217) abbia sostentuto che in questo contesto rumpere poteva essere sufficiente per comprendere tutte le ipotesi considerate rilevanti e regolate nel capitolo III della lex Aquilia. 4.3) «Iniuria» e «culpa» Rispetto all’esigenza del danno arrecato iniuria, richiesta espressamente dalla lex Aquilia nei suoi capitoli I e III, si può dire che essa si considerò sempre riferita alla condotta del danneggiante, prima come evocativa del suo carattere ingiustificato (cioè l’assenza di cause di giustificazione nei suoi confronti) e poi come comprensiva del dolo e della colpa129. Appare dunque di tutta evidenza che vi era iniuria quando l’attività lesiva non trovasse giustificazione in un fatto consentito dal diritto. In ciascuna delle ipotesi considerate però l’esimente cessava di essere tale quando l’autore del comportamento lesivo avesse violato le regole della scriminante stessa, cioè B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 182. Così si legge D. 9, 2, 27, 13 «Inquit lex: ‘ruperit’; rupisse verbum fere omnes veteres sic intellexerunt, ‘corruperit’». Trad.: «La legge dice ‘ABBIA ROTTO’. Quasi tutti <i giuristi> antichi intesero qui la parola aver rotto come aver leso». 127 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 849. 128 Gai. 3, 217: «[...] et quoquo modo vitiata aut peremta atque deteriora facta hoc verbo continentur». 129 Per una effica sintesi cfr. S. SCHIPANI, Pluralità di prospettive e ruolo della culpa come criterio elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, cit., pp. 42-53. 125 126 39 avesse così reagito all’aggressione, tenendo tuttavia un comportamento diverso e molto più grave da quello che avrebbe semplicemente evitato il danno. Vengono ad esempio in considerazione i frammenti D. 9, 2, 29, 7, con riferimento all’esercizio di un’attività lecita come l’esercizio di publica potesta svolta da un magistrato; D. 48, 8, 9; D. 9, 2, 45, 4; D. 9, 2, 52, 1 con riferimento alla legittima difesa; D. 9, 2, 7, 4 per la contesa sportiva, anch’essa attività lecita; mentre in D. 9, 2, 39 pr.-1, il problema invece non si pone per lo stato di necessità, essendo evidente che la “necessità” non può avere presupposti ulteriori130. Nella valutazione del comportamento lesivo occorreva pertanto la doppia condizione: “positiva”, costituita dal fatto che il comportamento dell’autore potesse considerarsi “causa certa” dell’evento dannoso; “negativa”, costituita dalla inesistenza di una causa giustificativa. Il che comportava la necessità di un’analisi delle circostanze non soltanto oggettiva (che il damnum avesse carattere aquiliano e potesse considerarsi “datum”) ma anche soggettiva (che fosse stato anche “datum iniuria”). È stato puntualmente sottolineato che il considerare la “culpa”, quale conquista della giurisprudenza più evoluta, significa non comprendere che di iniuria non si poteva parlare presso i Romani di ogni tempo senza tenere conto degli aspetti soggettivi (psicologici) del comportamento valutati alla stregua di parametri di riferimento (cioè della culpa)131. Corbino ha messo in evidenza che in D. 9, 2, 5, 1 sembrerebbe manifestarsi un certo impaccio descrittivo e un avvicinamento solo progressivo al concetto di iniuria come connesso alla presenza di una culpa nel comportamento che si valuta (Ulpiano esordisce dicendo che vi è iniuria quando il comportamento è “non iure”, per proseguire osservando che ciò vuol dire che è “contra ius” e concludere che esso è insomma connotato da culpa)132. Fatto sta che sono costanti i riferimenti alla culpa, termine che nelle fonti assume cimunque diversi significati133. In tal senso e per un’ampia disamina delle singole cause di giustificazione cfr. A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 159-176. 131 A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 172 in posizione critica verso Valditara. 132 Ibidem. 133 Precisa M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 518, che il termine culpa «assume un significato variabile, che si concreta, sostanzialmente, in tre diverse accezioni […]: quella di illecito, quella di imputabilità e quella di negligenza in senso generico». 130 40 La prima testimonianza ci viene da Quinto Mucio, del quale si sono conservati due importantissimi contributi alla materia della culpa ( D. 9, 2, 31; D. 9, 2, 39, pr.), ma è dato comunque rinvenire un fil rouge che passa per Alfeno, rievocato da Gaio in D. 9, 2, 8, 1134, per Proculo, che considerava l’imperitia come sicuro fatto di imputabilità soggettiva aquiliana (D. 9, 2, 7, 8)135, mentre Pegaso ha trattato casi di neglegentia (D. 9, 2, 7, 2)136. È proprio Ulpiano a recuperare la citazione di Pegaso, mentre Paolo riprende, a sua volta, casi già considerati dalla giurisprudenza per inquadrarli in una più ampia visione sistematica: D. 9, 2, 30, 3: «In hac quoque actione, quae ex hoc capitulo oritur, dolus et culpa punitur: ideoque si quis in stipulam suam vel spinam comburendae eius causa ignem immiserit et ulterius evagatus et progressus ignis alienam segetem vel vineam laeserit, requiramus, num imperitia eius aut neglegentia id accidit. Nam si die ventoso id fecit, culpae reus est (nam et qui occasionem praestat, damnum fecisse videtur): in eodem crimine est et qui non observavit, ne ignis longius procederet. At si omnia quae oportuit observavit vel subita vis venti longius ignem produxit, caret culpa»137. «Mulionem quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si eae alienum hominem obtriverint, vulgo dicitur culpae nomine teneri. idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum impetum non potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur, cum affectare quisque non debeat, in quo vel intellegit vel intellegere debet infirmitatem suam alii periculosam futuram. Idem iuris est in persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel infirmitatem retinere non poterit». Trad. «Si dice comunemente che è tenuto a titolo di colpa anche il mulattiere, se per imperizia non abbia potuto trattenere l’impeto delle mule e se esse abbiano schiacciato con gli zoccoli un servo altrui. Lo stesso si dice anche se egli non abbia potuto trattenere l’impeto delle mule per debolezza; né sembra iniquo, se la debolezza si ascriva a colpa per il fatto che ciascuno non deve cercare di fare ciò per cui capisce o deve capire che la sua debolezza sarà pericolosa per altri. Il diritto <da applicare> è il medesimo nei confronti della persona che non potrà frenare per imperizia o debolezza l’impeto del cavallo che cavalcava». 135 «Proculus ait, si medicus servum imperite secuerit, vel ex locato vel ex lege Aquilia competere actionem». Trad. «Proculo afferma che, se un medico abbia operato senza perizia un servo, compete l’azione o di locazione o in base alla legge Aquilia». 136 «Sed si quis plus iusto oneratus deiecerit onus et servum occiderit, Aquilia locum habet: fuit enim in ipsius arbitrio ita se non onerare. Nam et si lapsus aliquis servum alienum onere presserit, Pegasus ait lege Aquilia eum teneri ita demum, si vel plus iusto se oneraverit vel neglegentius per lubricum transierit». Trad. «Se poi taluno, caricato più del giusto, abbia fatto cadere il carico ed ucciso un servo, trova applicazione la <legge> Aquilia: è stato infatti nell’arbitrio dello stesso non caricarsi così. E certamente, anche se, una volta caduto, taluno abbia schiacciato con il carico un servo altrui, Pegaso afferma che è tenuto in base alla legge Aquilia solo quando o si sia caricato più del giusto o sia passato in modo alquanto negligente in luogo sdrucciolevole». 137 Trad. «In questa azione, che nasce da questo capitolo <della legge>, si punisce il dolo e la colpa; e, pertanto, se taluno abbia appiccato il fuoco alle sue stoppie o rovi per bruciarli, ed il fuoco, propagatosi e passati i limiti, abbia danneggiato il campo seminato o la vigna altrui, esaminiamo se ciò accade per 134 41 Occorre ribadire che il termine culpa non sempre è presente nei frammenti sopra segnalati. Ritenere, tuttavia, che sia frutto di linguaggio “tardoclassico” il parlare di damnum «culpa» datum (per difendere l’idea di una emersione del rilievo del profilo soggettivo della responsabilità)138, è contro ogni evidenza. Non deve essere sottaciuto che di damnum «culpa» datum potrebbe aver parlato già Labeone, nello sforzo di chiarire il peculiare significato di iniuria nella lex Aquilia. È quanto sembra emergere da un frammento ulpianeo conservato in D. 47, 10, 15, 46: «Si quis servo verberato iniuriarum egerit, deinde postea damni iniuriae agat, Labeo scribit eandem rem non esse, quia altera actio ad damnum pertineret culpa datum, altera ad contumeliam»139. Può considerarsi dunque certo che la giurisprudenza romana si sia preoccupata in ogni tempo di approfondire l’elemento soggettivo della responsabilità richiesto dalla lex Aquilia come presupposto della sua applicazione, sforzandosi di chiarire i confini tra attività “imputabile” e attività “giustificata” al fine di individuarne il nesso eziologico con l’evento140. 5) Interventi pretori nella disciplina aquiliana con incidenza sulla concezione del danno Malgrado gli innegabili progressi raggiunti dalle interpretazioni giurisprudenziali esaminate, esse non furono sufficenti a superare completamente il sistema della tipicità delle condotte lesive, contemplato nei capitoli I e III della lex Aquilia. La materia del danno diventò pertanto una di quelle in cui frequente fu l’intervento del pretore. Non si dimentichi che, stando alla testimonianza di Papiniano, «il diritto sua imperizia o negligenza: infatti, se abbia fatto ciò in un giorno di vento, è reo di colpa (giacché anche colui che offre l’occasione si considera aver cagionato un danno); si può similmente accusare anche colui che non abbia badato che il fuoco non si estendesse più lontano. Ma manca di colpa, se ha badato a tutto ciò che era necessario o una improvvisa forza del vento abbia portato il fuoco più lontano». 138 Si invocano, al riguardo, i frammenti di Paolo (D. 44, 7, 34 pr.) e di Ulpiano (D. 47, 6, 1, 2). 139 Trad. «Se taluno agì iniuriarum essendo stato bastonato il servo e poi agisca damni iniuriae, Labeone scrive non essere la stessa materia di lite, perché la prima azione riguarda il danno dato con colpa, la seconda la contumelia». 140 A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 176. 42 pretorio è quello che i pretori introdussero per aiutare o supplire o correggere, per pubblica utilità, il diritto civile»141. In particolare il pretore tendeva a concedere l’azione142 in alcuni casi in cui l’interesse soggettivo non era tutelato dallo ius civile e tuttavia il magistrato riteneva equo concedere la tutela giudiziaria all’attore. L’actio in factum veniva dunque concessa dal magistrato in base ad una valutazione di merito della fattispecie sottopostagli, nel caso in cui la stessa non fosse prevista dall’edictum pretorile, non sulla base di presupposti di diritto civile, ma sulla base di circostanze di fatto giudicate degne di tutela. In sostanza l’azione in factum riguardava i danni che non solo non erano stati arrecati direttamente (ossia non corpore) ma che non avevano neppure leso materilmente una res (ossia non corpori). L’azione veniva concessa pertanto in via residuale, in assenza sia di un damnum corpore corpori datum, sia di altro danno tutelabile in via utile143. Le actiones utiles costituivano più in particolare una categoria di azioni utilizzate per regolare situazioni o casi non disciplinati direttamente dal ius civile, ma analoghi a quelli che già ricevevano una loro precisa tutela. Così facendo si estendeva utiliter la tutela di un certo rapporto a rapporti analoghi a quello, sebbene non identici. Nella primitiva interpretazione che venne data alla lex Aquilia, fu preso in considerazione solamente il danno che era conseguenza di un’ azione positiva. Quindi non si concedeva l’actio legis Aquiliae in ipotesi di omissioni dannose144. Grazie alla decisione del pretore di concedere azioni in factum ad exemplum legis Aquiliae, si potè 141 D. 1, 1, 7, 1. In merito alla natura delle actiones la terminologia utilizzata dalle fonti non è del tutto chiarificatrice, in quando si allude in alcuni casi ad actiones in factum, altre volte a quelle in factum ad exemplum legis Aquiliae, in factum accomodatae legis Aquiliae, ed anche alle actiones utiles. Cfr. sul punto B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit.; G. LONGO, Lex Aquilia de damno, cit., pp. 799-800; G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 14 (1916), pp. 942-970; G.VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., pp. 11-12. 143 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 66. 144 A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 137, in relazione al frammento ulpianeo contenuto in D. 9, 2, 9, 2, sottolinea che «procurare la morte [dello schiavo] per fame significa causarla attraverso un comportamento omissivo, dunque attraverso una “inattività”, che non può perciò – in quanto fisicamente “non comportsamento”- né essere considerata causa constatabile dell’evento né posta in relazione diretta con la cosa che ne subisce le conseguenze». 142 43 configurare la responsabilità in determinate ipotesi di danni derivati da omissioni145 (dove sarebbe esistito un dovere di agire146). Alla luce di Coll. 12, 7, 4-5, si comprende bene che la responsabilità aquiliana diretta vada esclusa per le cose che l’autore dell’azione lesiva non aveva assunto ad “oggetto” della propria attività, anche in presenza di “contiguità”. Si consideri altresì che l’uomo che intraprendesse un’ azione avrebbe dovuto anche prendere le precauzioni necessarie per impedire possibili conseguenze dannose (come sembra risultare da D. 9, 2, 27, 10)147. Inizialmente la lex Aquilia esigeva la concorrenza di una relazione causale strettamente materiale o fisica, immediata e diretta, tra la condotta dell’agente e l’effetto dannoso. Di conseguenza dalla tutela aquiliana rimanevano escluse le condotte che avevano un’effetto dannoso indiretto. L’esame delle fonti ci rivela che la protezione per tali situazioni si raggiunge principalmente attraverso la via pretoria, mediante la concessione di azioni in factum che seguono il modello della legge, per questo chiamate in alcuni casi actiones ad exemplum legis Aquiliae. A questo proposito occorre menzionare in primo luogo l’actio in factum concessa per quei casi in cui, nonostante non si possa configurare l’occidere richiesto dalla legge, è stata provocata la causa che ha poi portato alla morte. Si fa risalire ad Ofilio la concessione di questo tipo di actiones, tenendo in vista il frammento di Ulpiano contenuto in D. 9, 2, 9, 3148: «Si servum meum equitantem, concitato equo effeceris in flumen praecipitari, atque ideo (homo) perierit, in factum esse dandam actionem 145 Come sarebbero quelli contemplati in Coll. 12, 7, 4-7 (dove risulta la opinione favorevore di Celso). Cfr. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 186. 147 «Si furnum secundum parietem communem haberes, an damni iniuria tenearis? et ait Proculus agi non posse, quia nec cum eo qui focum haberet: et ideo aequius puto in factum actionem dandam, scilicet si paries exustus sit: sin autem nondum mihi damnum dederis, sed ita ignem habeas, ut metuam, ne mihi damnum des, damni infecti puto sufficere cautionem». Trad. «Se tu avessi un forno addossato ad una parete comune, saresti forse tenuto per danno arrecato ingiustamente? E Proculo afferma che non si può agire, così come <non si può agire> neppure nei confronti di colui che vi abbia un focolare; e pertanto reputo più equo che si dia un’azione modellata sul fatto, evidentemente se la parete sia bruciata; se invece tu non mi abbia ancora cagionato danno, ma tenga il fuoco in modo tale che io tema che tu mi possa arrecare danno, reputo che basti la stipulazione di garanzia per il danno temuto». 148 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 845. 146 44 Ofilius scribit: quemadmodum si servus meus ab alio in insidias deductus, ab alio esset occisus»149. Celso, in un frammento contenuto in D. 9, 2, 7, 6, lascia intendere con chiarezza che l’actio legis Aquiliae deriva da un occidere quanto quella concessa in factum dal «mortis causam praestare»: «Celsus autem multum interesse dicit, occiderit, an mortis causam praestiterit, ut, qui mortis causam praestitit, non Aquilia, sed un factum actione teneatur. Unde affert eum, qui venenum pro medicamento dedit, et ait, causam mortis praestitisse, quemadmodum eum, qui furenti gladium porrexit; nam nec hunc lege Aquilia teneri, sed in factum»150. I concetti di causam damni praestare e causam mortis praestare portano a considerare responsabile per la legge Aquilia non solo colui che procurò il danno, nel senso primitivo, ma anche colui che creò una occasione di fatto per cui si producesse quel danno. Gli esempi contemplati nelle fonti sono vari151. Il meccanismo della concessione delle azioni in factum (o utile secondo alcuni autori) si applicò anche a quei casi in cui il danno, se anche non si trasformava in una Trad.: «Se tu abbia fatto sì che il mio servo che cavalcava, fattogli imbizzarrire il cavallo, precipitasse nel fiume e di conseguenza l’uomo sia perito, Ofilio scrive che bisogna dare l’azione modellata sul fatto, allo stesso modo che se il mio servo da uno fosse attratto in un agguato e da un altro fosse ucciso». 150 Trad.: «Celso, poi, dice che è molto diverso se uno abbia ucciso o procurato la causa della morte, tanto che colui che abbia procurato la causa della morte non <è tenuto in base all’azione della legge> Aquilia, ma dovrebbe essere tentuo con quella modellata sul fatto. Egli fa l’esempio, perciò, di colui che, in luogo di una medicina, diede del veleno, e afferma che ha procurato la causa della morte, allo stesso modo di colui che ha dato una spada in mano ad uno che è fuori di sé: infatti, neppure questi è tenuto in base alla <azione della> legge Aquilia, ma <in base all’azione modellata> sul fatto». 151 Si vedano ad esempio i frammenti D. 9, 2, 9, 3 e D. 9, 2, 7, 6. In D. 9, 2, 9 pr. si segnala che risponde secondo la lex Aquilia la levatrice che di proprie mani fece bere una medicina alla sua paziente, la quale per questo morì, poiché si tratta di un danno corpore corpori datum, però se consegnò il bicchiere che conteneva la medicina alla schiava e questa la bevve risponde secondo l’actio in factum perchè anche se non può intendersi propriamente che la uccise, fu causa della sua morte; D. 9, 2, 9, 2 d’altra parte, stabilisce che «se taluno abbia fatto morire di fame un servo, Nerazio afferma che è tenuto con l’azione modellata sul fatto»; Gai. 3, 219 stabilisce che in virtù della legge Aquilia si può agire soltanto se qualcuno «causa il danno direttamente con propria colpa», per cui «si accordano delle azioni utili, come se uno avesse rinchiuso l’uomo o la bestia altrui perchè morisse di fame, o avesse così violentemente incalzato un giumento da farlo scoppiare, o avesse tormentato una bestia al punto di farla precipitare, o se uno avesse indotto il servo altrui a salir su un albero o a discendere in un pozzo, e quello, salendo o scendendo, fosse morto o si fosse fatto male in qualche parte del corpo»; D. 9, 2, 11, 1 dispone che «Se uno ha trattenuto ed un altro ha ammazzato, colui che ha trattenuto è tenuto con l’azione modellata sul fatto come se avesse procurato la causa della morte» (mentre quello che uccise risponde civilmente); secondo D. 9, 2, 11, 5 si fa rispondere per l’actio in factum, colui che aizzò un cane facendo in modo che mordesse un altro senza tenerlo legato ( se lo tiene legato risponde civilmente). Infine D. 9, 1, 1, 7 concede l’actio in factum contro colui che colpì un cavallo e, in conseguenza di ciò, il cavallo diede un calcio allo schiavo. 149 45 alterazione o violazione della sostanza di un oggetto fisico, implicava la sua perdita definitiva o almeno irreparabile per il suo proprietario152. Così avviene quando si gettano in mare una coppa d’argento o un anello nel fiume (D. 19, 5, 14, 2 e D. 19, 5, 23), oggetti che, anche se si mantengono integri, per il loro proprietario risultano ormai dispersi; o quando uno schiavo sia stato liberato delle sue catene per pietà e non per sottrarlo al suo padrone. In questo modo, concedendosi l’ actio in factum in quei casi in cui il danno non era direttamente legato allo sforzo fisico del danneggiante e in quegli altri in cui il danno non si trasformava in una alterazione o violazione della sostanza di un oggetto fisico, si tentava di fare un passo avanti nel superare il sistema della tipicità delle condotte dannose rilevanti. 6) Aestimatio e danno aquiliano La dottrina romanistica ha sostanzialmente accolto l’ipotesi avanzata da Valditara153 secondo cui tra la originaria aestimatio aquiliana riferita soltanto al prezzo di mercato del bene danneggiato (aestimatio rei) e quella fondata sull’id quod interest dell’autore (opera della giurisprudenza imperiale dal I al III secolo d.C.), è esistito uno stadio evolutivo intermedio, a cui allude con la denominazione “criterio del prezzo formale”, frutto della interpretazione sviluppata dalla giurisprudenza (traiano-adrianea) e comprensivo non solo del valore di mercato della res, ma anche dell’utilitas domini154. In questo senso B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 188. G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C.Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 14 (1916), p. 947, ha sostenuto che «nessun giurista classico ha mai pensato di estendere, alterandolo, il concetto stesso di damnum datum ossia di lesione materiale della cosa altrui: se questo elemento di fatto vien meno, si è fuori dal campo della lex Aquilia e delle sue possibili estensioni» -utiles o in factum-, aggiungendo che in tale caso «si ricorrerà a rimedi d’altra natura, se ricorrono gli estremi o si riconoscerà l’inesistenza di remedi adeguati». 153 G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, Milano, 1992; ID., Dall’aestimatio rei all’id quod interest nell’applicazione della condemnatio aquiliana, in L. VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, cit., pp. 76-87. 154 Recentemente questa teoria è stata criticata, con mutamento di prospettiva, da A. CORBINO, L’oggetto della aestimatio damni nella previsione del primo e del terzo capitolo del Plebiscito Aquiliano, in Scritti in onore di Remo Martini, vol. I, Milano, 2008, pp. 699-710. 152 46 La lex Aquilia superò il sistema di pena fissa in denaro, contemplato in importanti ipotesi sanzionate dalla legge delle XII Tavole, sicuramente a causa dell’eccessiva rigidità che comportava, e che produceva crisi in periodi di svalutazione monetaria. Così, nel capitolo I si condannava a «risarcire al proprietario il maggiore prezzo che la cosa aveva avuto durante l’anno» (D. 9, 2, 2 pr. «[…] quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino damnas esto […]»). Ciò è quanto risulta espressamente nelle Istituzioni di Giustiniano (I. 4, 3, ,10), e, come accettato dalla dottrina romanistica attuale, la clausola «quanti id in eo anno plurimi fuit» fu intesa in una prima epoca come riferita esclusivamente al maggiore valore di mercato –“valore comune” per una certa dottrina- che avrebbe ottenuto lo schiavo o il quadrupede che forma gregge nell’anno precedente155. L’uso della espressione al passato “fuit” fa riferimento, chiaramente, ad un tempo precedente156. La fissazione del termine di un anno, d’altra parte, deriverebbe dalla necessità di considerare i cambiamenti stagionali di prezzo che subivano queste categorie di beni157. Nel capitolo II, le fonti ci rivelano che si seguì un’altra strada. In effetti, in Gai. 3, 215 si dà notizia dell’uso nella condemnatio della forma verbale al presente “est” ( «[…] quanti ea res est […]»), il che implicherebbe un riferimento «all’acceptilatio fraudolenta, e più precisamente alla quantità di credito che, in forza dell’acceptilatio, risulta (attualmente) soppressa»158. Da ultimo nel capitolo III si condannava a pagare al proprietario il valore della cosa nei prossimi trenta giorni (D. 9, 2, 27, 5 «...quanti ea res erit in diebustriginta proximis, tantum aes domino dare damnas esto»). La coniugazione verbale al passato, “fuit” utilizzata in D. 9, 2, 29, 8159, ha permesso di concludere che, come nel primo capitolo, esisteva un’allusione chiara a un tempo passato160. G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp. 4-8; ID., Damnum iniuria datum, p. 865. 156 C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, cit., p. 36, ha precisato che l’opzione per il computo di un’anno precedente «obbedisce ad un’imprescindibile esigenza tecnica: il riferimento al valore di una cosa perita non può essere che formulato al passato, per alludere ad un momento precedente la soppressione della cosa: A partir dal momento dell’atto sanzionato, infatti, la cosa – lo schiavo o l’animale- hanno perso il valore utile al riferimento». 157 Cfr. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 865. 158 C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, cit., p. 37. 159 In D. 9, 2, 27, 5, troviamo invece la coniugazione al futuro «erit». 160 C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, cit., p. 37. 155 47 La giurisprudenza in generale, intese l’aggettivo «proximis» nel senso di passati prossimi o anteriori. D’altra parte, a differenza del capitolo I, non si include qui la parola «plurimi»161. Tuttavia, come si legge in Gai 3. 216, l’opinione autorevole di Sabino portò a ritenere che nel capitolo III il calcolo della condanna era riferito in considerazione al maggior («plurimi») valore162. Inoltre rimane chiaro che questo “maggiore valore” era il maggiore valore “commerciale”163 o “di mercato” del bene danneggiato nei trenta giorni anteriori alla commissione del delitto. Infine non bisogna dimenticare che, come attestato in D. 9, 2, 2, 1, in caso di infitatio operava l’istituto della litiscrescenza (cioè l’aumento della pena al duplum). L’esame della normativa aquiliana e della sua interpretazione iniziale, ci dimostra che in una epoca precedente i capitoli I e III adottarono un criterio di valutazione che conduceva alla aestimatio rei, cioè, a calcolare esclusivamente il valore del mercato del corpo danneggiato (pretium corporis) nel periodo di tempo indicato dalla legge, senza considerare assolutamente l’interesse del danneggiato164. Ciò, con il fine inizialmente attribuito alla lex Aquilia, di essere una normativa destinata a proteggere esclusivamente la proprietà e concordante con il presupposto del corpori richiesto ai danni riparabili165. In questo modo erano irrilevanti le ripercussioni pregiudizievoli che l’evento dannoso poteva avere sulla totalità del patrimonio del danneggiato globalmente considerato166. Sebbene all’epoca di Labeone la aestimatio fosse circoscritta al semplice valore del corpus danneggiato, alla fine del I sec. d.C. inizio del II sec. d.C., grazie all’opera dei giuristi Nerazio, Giavoleno e Giuliano nacque un criterio nuovo e più equo di Ad avviso di G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 865, «la assenza del plurimi derivava invero dal fatto che per la gran parte dei beni protetti non rientranti nella categoria del servi e pecude il riferimento ad un maggior valore non avrebbe avuto alcun senso, posto che tali beni, non essendo il loro valore correlato ad eventi stagionali, non dovevano normalmente subire periodiche variazioni di prezzo». 162 Sul particolare può vedersi anche D. 9, 2, 29, 8. 163 G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., p. 8. 164 Sul particolare si veda, G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 866; ID. Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., p. 4 ss, e p. 278 ss. 165 G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., p.176. 166 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 866, dichiara in proposito che «la rigida adesione della aestimatio al valore del corpus era d’altra parte strettamente legata al presupposto stesso della tutela aquiliana. Questa infatti, conseguiva a ipotesi di danneggiamento materiale, fisico di un determinato bene realizzate per di più tramite il diretto impiego della forza su quel corpus, spettando detta tutela esclusivamente al proprietario di quel determinato bene. Era dunque la proprietà su quel bene, nella sua integrità materiale, oggetto della tutela aquiliana e nulla d’altro». 161 48 valutazione dei danni, denominato “criterio del prezzo formale”, che si caratterizzava per il fatto di cercare di «ricomprendere nel prezzo complessivo dell’oggetto il valore relativo agli eventuali commoda che questo era in grado di offrire al suo propietario»167. Con l’applicazione del criterio del prezzo formale, al pretium corporis (che costituiva il punto fondamentale del processo valutativo) si aggiungeva un’entità che le fonti classiche indicavano come causa rei e che rappresentava «il valore ulteriore che quel bene aveva per il singolo proprietario»168. Stando alla ricostruzione del Valditara, a livello cronologico il primo ad adottare questa soluzione sarebbe stato Nerazio169, a cui sarebbero seguiti Giavoleno170, Giuliano171 e anche Gaio172. Diversa posizione avrebbe assunto invece Sesto Pedio173. I passaggi chiari dove si ipotizza l’utilizzo di questo criterio sono quelli contenuti in D. 9, 2, 37, 1 e in D. 9, 2, 23, 2. In quest’ultimo frammento, per esempio, si considera il caso di una persona che è istituita erede sotto la condizione che manometta un servo proprio. Dopo la morte del testatore il servo è morto per altro motivo, per cui la condizione non potrá verficarsi e di conseguenza gli sará impossibile acquisire l’eredità. La soluzione originale di Giuliano portava a liquidare in aggiunta al valore dello schiavo il valore della eredità, che era la causa che si aggiungeva174. In ogni caso si deve precisare che in base a questo criterio non si considerava ancora in forma, immediata ed esclusiva, il solo id quod interest del danneggiato175. Questo criterio innovativo era destinato a conseguire una valutazione comprensiva della posizione del dominus in riferimento al bene danneggiato. Il bene non si concepiva come isolato e staticamente, al pari di quanto accadeva nella primitiva visione legislativa, ma nell’ambito di una considerazione patrimoniale ID., Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., p. 63. Per l’uso di questa terminologia l’autore richiama D. 35, 2, 62, 1, dove si parla di pretium formale contrapposto a praesens pretium, cioè a un valore che Pedio identificava con il “valore comune” del bene. 168 ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 867. 169 Citato da Ulpiano in D. 9, 2, 23, pr. 170 D. 9, 2, 37, 1. 171 D. 9, 2, 51, 2. 172 Gai. 3, 212. 173 Come appare in D. 9, 2, 33, pr. e D. 35, 2, 63, pr. 174 In tal senso G. VALDITARA, Dall’aestimatio rei all’id quod interest nell’applicazione della condemnatio aquiliana, cit., p. 81. 175 ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 867. 167 49 più ampia che ipotizzava una funzione strumentale del bene e lo considerava dinamicamente come possibile oggetto di una serie di relazioni posteriori. Questo criterio ebbe un’importanza enorme nella evoluzione del danno aquiliano, poiché per la via della causa rei si giunse a includere nella sua valutazione due nuove entità che i giuristi medievali avrebbero più tardi identificato con la denominazione di danno emergente e lucro cessante. La risarcibilità del valore perduto a causa del fatto illecito (danno emergente) come quella del valore che non si è conseguito per effetto di esso (lucro cessante), saranno una costante indiscutibile che accompagnerà fino ai nostri giorni tutta la evoluzione della disciplina dei fatti illeciti. Le fonti contengono esempi in tal senso. Così, si considera che si configura una ipotesi di lucro cessante quando di fronte alla morte di uno schiavo istituito erede prima che accetti l’eredità, si ordina di includere il valore che l’eredità perduta aveva per il proprietario (D. 9, 2, 23, pr.)176. Quale esempio di danno emergente si tenga in considerazione il deprezzamento che causa in una compagnia di buffoni o in una orchestra, la morte di uno schiavo che la formava, o il deprezzamento che viene causato a una quadriga o a una biga, dalla morte di un cavallo o di un bue che la componeva (D. 9, 2, 22, 1), così come l’ipotesi di morte di un quadrupede, la cui consegna noxa, avrebbe evitato il pagamento del danno causato da questo animale (D. 9, 2, 37, 1)177. Al di là di una indiscutibile origine medievale della nomenclatura, la dottrina accetta la sostanziale risarcibilità del danno emergente e del lucro cessante nella disciplina romana dei fatti illeciti178, anche se con talune sfumature. Così, sebbene per alcuni, come Voci179 e Valditara180, questa fu una innovazione specifica della giurisprudenza classica, altri, come il Bove181, ritengono che la risarcibilità del lucro cessante sarebbe una conquista giustinianea. Sul punto devono essere considerati i frammenti D. 9, 2, 22, 1; D. 9, 2, 23 pr., D. 9, 2, 23, 2; D. 9, 2, 37, 1 e Gai. 3, 212 e I. 4, 3, 10. Così si esprime G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 869. Ibidem. 178 G. CRIFÒ, Danno a) Premessa storica, in ED, vol. XI, Milano, 1962, p. 618; A. GUARINO, Diritto Privato romano, cit., pp. 1022-1023; G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 202 e P. VOCI, Risarcimento del danno e processo formulare nel diritto romano, Milano, 1938, p. 64. 179 P. VOCI, Risarcimento del danno e processo formulare nel diritto romano, cit., p. 64. 180 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 869. 181 L. BOVE, Danno (diritto romano), in NSSDI, vol. V, Torino, 1960, p. 146. 176 177 50 Più eloquente appare l’inciso di D. 9, 2, 33 pr. che, nella parte finale, stabilisce espressamente: «[…] In base alla legge Aquilia, infatti, conseguiamo il valore del danno, e si dirà che abbiamo perduto quanto o avremmo potuto conseguire o siamo costretti a spendere»182. D. 9, 2, 7 pr.183 stabilisce che se si rende cieco un figlio, la stima comprenderà il valore del filgio con i due occhi sani e le spese mediche per la cura dell’occhio lesionato («danno emergente»), ma anche tutto il mancato guadagno per il padre a causa della incapacità lavorativa del figlio («lucro cessante»). Notevole è il fatto che rispetto a detta categoria di pregiudizio bastava provare un «alto grado di probabilità circa il suo verificarsi» secondo la logica della esperienza184, e non la certezza assoluta del suo verificarsi. Si esclude, in ogni caso, la risarcibilità dei supposti pregiudizi che apparivano meramente speculativi o eventuali185. Per mancanza dell’ “alto grado di probabilità” si respingeva anche il risarcimento della pesca sperata186, dato che la cattura dei pesci («captus piscium») era considerato la res incerta per eccellenza187 e come tale non suscettibile di aestimatio188. La grande conquista della giurisprudenza traiano-adrianea consiste dunque nel fatto che, anche se la valutazione è vincolata al plurimi, ad un tempo anteriore, dovendo valutare il pretium corporis, si pone come oggetto della aestimatio aquiliana, il danno sofferto dal dominus rei. In questo modo «il danno dunque da presupposto dell’azione è diventato oggetto della stima giudiziale»189. Per il resto, questa evoluzione era conseguenza della trasformazione stessa del rimedio aquiliano, a cui si iniziava a riconoscere un elemento «[…] In lege enim Aquilia damnum consequimur, et amisisse dicemur, quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur». 183 D. 9, 2, 7 pr.: «Qua actione patrem consecuturum ait, quod minus ex operis filii sui propter vitiatum oculum sit habiturus, et impendia, quae pro eius curatione fecerit». Trad.: «<Giuliano> afferma che con tale azione il padre conseguirà quanto avrà in meno dellìattività lavorativa di suo figlio a causa della perdita dell’occhio, ed inoltre le spese che abbia sostenuto per la sua cura». 184 Cfr. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 872. 185 G. CRIFÒ, Danno a) premessa storica, cit., p. 618, sostiene che «per i Romani la privazione di un occasionale vantaggio economico non rappresenta un danno». 186 D. 9, 2, 29, 3. 187 Così segnala G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 873, citando a tal proposito D. 18, 4, 11; 19, 1, 11, 18; 18, 1, 8, 1; 18, 4, 7; 19, 1, 12. 188 Concetto ribadito anche da A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 107. 189 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 196. 182 51 reipersecutorio insieme a quella originaria finalità punitiva, che sanzionava colui che attentava alla proprietà altrui190. L’evoluzione dell’ aestimatio aquiliana nel diritto classico romano culmina con l’adozione del cosidetto “criterio dell’id quod interest”191, che appare a partire dall’età severiana192, particolarmente, quando Ulpiano intende: «quanti is homo in eo anno plurimi fuit» nel senso di «quanti interfuit nostra eum hominem non esse occisum»193. L’interesse si poneva pertanto come oggetto immediato e diretto della aestimatio aquiliana staccata così da una aestimatio rei. Con riferimento alla clausola condannatoria ex capite tertio l’evoluzione interpretativa conduce a un simile risultato194. In questo modo non si teneva in considerazione il maggior valore della cosa ma il «maggior danno subito dall’attore» all’interno dei limiti di tempo stabiliti nella lex195. Tenendo conto di quanto detto e soprattutto dell’idea che Ulpiano aveva del contenuto dell’azione aquiliana (che risulta espressa principalmente in D. 9, 2, 21, 2), l’interesse viene a consistere nella «differenza tra quella che sarebbe stata la situazione patrimoniale del danneggiato senza l’illecito del terzo e la situazione determinatasi a causa di esso», per cui si tende a risarcire il danno effettivamente sofferto196. Un dato ulteriore rivela la coerenza che questa nuova interpretazione aveva con la interpretazione generale sistematica raggiunta allora dal diritto romano in materia. Dall’età antoniniana, infatti, l’azione aquiliana fu intesa come azione mista197. ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 869. G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C.Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 14 (1916), p. 967, ha affermato che: «l’a. l. Aquiliae è precisamente l’esempio tipico di un’azione a cui i classici riconoscono senza esitazione il carattere penale con tutte le relative conseguenze, mentre riconoscono parimenti […] che essa normalmente realizza la semplice rei persecutio». 191 Ad avviso di P. VOCI, Risarcimento e pena privata nel diritto romano, cit., pp. 66 ss. l’accoglimento del metodo dell’ id quod interest risale «ai più antichi giuristi dell’età classica». 192 In D. 9, 2, 2, 23 si trova una allusione ad un supposto pensiero di Labeone, che potrebbe fare collocare il criterio dell’ id quod interest anteriormente ad Ulpiano. Sui sospetti di interpolazione del frammento citato cfr. G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp. 156-175. 193 Come risulta con chiarezza nel classico passaggio di Ulpiano contenuto in D. 9, 2, 21, 2. 194 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 871. 195 P. VOCI, Risarcimento e pena privata nel diritto romano, cit., p. 68. 196 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 872. Vi è una certa coincidenza tra questa concezione e la moderna differenztheorie (o «Vermögensdifferenz», secondo Valditara). 197 ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 198. Di analogo avviso anche A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 203 che testualmente afferma: «l’atteggiamento giurisprudenziale fu (e da subito, il che impedisce di 190 52 In ogni caso, si dovevano eliminare due ostacoli per giungere a una concezione moderna del danno: il riferimento a un tempo passato nella valutazione del danno (un anno o un mese) e la neccessaria considerazione del maggiore (plurimi) valore della cosa nel tempo. Nonostante ciò si deve rilevare come «alla fine dell’età classica si erano comunque già affermate le premesse per un superamento della concezione dell’azione aquiliana come rimedio volto a tutelare la proprietà; si poteva insinuare l’idea che il mezzo processuale derivato dalla lex Aquilia portasse ad una più ampia protezione della proprietà»198. 7) L’estensione della legittimazione attiva La legge Aquilia, in ossequio al suo concetto originario di mezzo destinato a proteggere la proprietà contro determinate azioni lesive, considerava come esclusivo legittimato attivo per l’esercizio dell’azione civile il dominus rei, cioè il proprietario ex iure Quiritum della cosa danneggiata199. Le fonti sono chiare a questo proposito200. Ulpiano infatti afferma che l’azione della legge Aquilia compete al signore cioè al proprietario201. Herus è il termine arcaico che, probabilmente, veniva in origine usato nel testo della legge202. Tuttavia l’adozione del “criterio del prezzo formale” di valutazione dei danni fece emergere l’idea che l’azione aquiliana fosse uno strumento destinato alla reintegrazione del patrimonio. seguire quella dottrina che continua a pensare ad un carattere originariamente solo penale o solo risarcitorio della disciplina aquiliana) consapevole della particolare natura (mista come poi si dirà) della normativa in oggetto)». 198 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 872. 199 Ivi, pp. 873-874. Ad avviso di C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., pp. 8; 76, requisito imprenscindibile per applicabilità della lex Aquilia era la lesione del diritto del proprietario ex iure Quiritum, unico legittimato ad agire con l’actio legis Aquiliae. Sull’uso ed il significato dell’espressione ex iure Quiritium si veda P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, Torino, 1974, pp. 145-154. 200 Cfr. Gai. 3, 210; D. 9, 2, 2, 2; D. 9, 2, 27, 5. 201 D. 9, 2, 11, 6: «legis autem Aquiliae actio hero competit, hoc est domino». 202 Ad avviso di G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., pp. 873-874, sebbene il frammento ulpianeo sia riferito al capitolo I, si giunse alla stessa conclusione in relazione al capitolo III. Esclude invece la diversità di terminologia tra i e III capitolo A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 84. 53 In connessione con questa nuova interpretazione della aestimatio aquiliana, inizia a prospettarsi la possibilità di estendere la legittimazione attiva203 a soggetti non proprietari che potevano anche avere sofferto un pregiudizio economico, in conseguenza del fatto di un terzo che teneva sotto di sè dei beni che non erano di sua proprietà o perfino persone che non erano schiave, da cui però otteneva o pensava di ottenere qualche tipo di utilità. Inoltre, in particolare si trattava di verificare la possibilità di estendere la tutela non solo ai titolari di diritti reali su una cosa altrui e al possessore di buona fede, ma anche di concepire una eventuale tutela extracontrattuale del credito, così come di porre al centro della prospettiva risarcitoria i danni sofferti da una persona libera204. Autorevole dottrina205 ha segnalato testimonianze che fanno risalire a Giuliano le prime riflessioni sulla possibilità di estendere la tutela aquiliana al pater per le ferite causate al figlio206, al comodatario207 e all’usufrutuario, essendo verosimile pensare che si dovette porre un analogo problema in relazione al caso del liber homo posseduto in buona fede come schiavo (al quale lo stesso Giuliano aveva riconosciuto legittimazione passiva con riferimento al dominus apparente208). Sebbene l’estensione della legittimazione attiva rispetto ai non proprietari si sia potuta raggiungere facilmente concedendosi loro azioni utili (che si modellavano in relazione alla actio directa di cui seguivano il regime), ostacolava questa soluzione la circostanza che la legge presupponeva una aestimatio rei. Tale ostacolo non poteva essere superato neanche con la interpretazione che portò a liquidare il prezzo formale del bene danneggiato, e anche per essa il prezzo del corpus, Su questo tema si veda in generale: G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp. 302 e ss.; ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., pp. 203-208. Per approfondimenti cfr. B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., pp. 221 ss.; C. ARNÒ, Legis Aquiliae actio directa ero competit, in BIDR, 42 (1934), pp. 195-218; A. DE MEDIO, La legittimazione attiva nell’actio Legis Aquiliae in diritto romano classico, in Studi di diritto romano, di diritto moderno e di storia del diritto pubblicati in onore di Vittorio Scialoja, vol. I, Milano, 1905, pp. 29 ss; C. SANFILIPPO, Il risarcimento del danno per l’uccisione di un uomo libero nel diritto romano, in Annali del Seminario Giuridico Università di Catania, 5 (1950-1951), pp. 118-131. 204 Cfr. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, pp. 203-204. 205 ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 874. 206 Cfr. D. 9, 2, 5, 3; D. 19, 2, 13, 4. 207 Cfr. D. 9, 2, 11, 9. 208 Cfr. D. 9, 2, 13, 1. 203 54 cioè di quella entità su cui si doveva necessariamente sviluppare l’azione lesiva per potersi concedere un’ actio ex lege Aquilia, era un’ entità irrinunciabile209. In questo modo era impossibile concepire una legittimazione attiva aquiliana a favore del pater familias o del liber homo posseduto in buona fede, per quanto ciò avrebbe implicato esperire l’azione per danni causati a un bene non suscettibile di valutazione economica, secondo il principio romano «liberum corpus non recipit aestimationem»210. Era parimenti impossibile in questa ottica accedere al risarcimento dell’usufruttuario, comodatario, titolare di una servitù o creditore pignoratizio per i “danni propri” sofferti, poiché, esigendo la clausola condannatoria aquiliana la considerazione del valore totale del corpus danneggiato (ed eventualmente della causa rei), si sarebbe giunti oltre i limiti dei propri diritti. E in verità, una cosa è il valore di mercato del corpus (della eventuale causa rei ) e un’altra il valore del credito o la somma capitalizzata dei frutti che si sarebbero potuti ricavare (che costituisce il “danno proprio” di questi non proprietari)211. Una volta sostituito il criterio della aestimatio rei con quello dell’id quod interest, la prospettiva cambia radicalmente, non esistendo ostacoli per estendere la tutela ex lege Aquilia ai non proprietari attraverso le azioni utili. Giova evidenziare che le estensioni della titolarità attiva aquiliana in favore del liber homo per lesione alla sua integrità psicofisica furono limitate alle due specifiche ipotesi già riportate (in favore del padre per le lesioni causate al figlio e dell’uomo libero posseduto in buona fede come schiavo), e che avevano come elemento in comune la circostanza che per esse non era possibile agire mediante actio iniuriarum. Sebbene questo dimostri che non esisteva un’ enunciazione di carattere generale per danni causati alla persona del libero, ciò non ha impedito ad autorevole dottrina di affermare che «si erano in ogni caso create le premesse per la tutela di qualunque persona libera sui iuris»212. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 874. Cfr. D. 9, 1, 3; D. 9, 3, 7; D. 14, 2, 2, 2; D. 50, 17, 106; D. 50, 17, 176, 1. Sul principio si consulti C. SANFILIPPO, Corso di Diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., pp. 112 ss.; ID., Il risarcimento del danno per l’uccisione di un uomo libero nel diritto romano, cit., pp. 122 ss. Recentemente è tornato sul tema A. D. MANFREDINI, “Liberum corpus nullam recepit aestimationem”. Morte ferite cicatrici libertà arti e mestieri, in SDHI, 71 (2010), pp. 335-382. 211 G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 874. 212 ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208. 209 210 55 La progressiva estensione della tutela della legittimazione attiva è di grandissima importanza per valutare le trasformazioni che il danno aquiliano va sperimentando, per quanto ci conferma che la disciplina aquiliana viene vista come un mezzo per tutelare non solo la proprietà ma anche altri diritti reali, diritti di credito, compresi alcuni danni sofferti dalle persone libere. Come evidenziato dal Valditara, «l’estensione della tutela ai non proprietari appare dunque coerente con la trasformazione del rimedio aquiliano da azione volta a proteggere la proprietà a strumento per una più ampia protezione del patrimonio. La connessione fra criterio dell’interesse ed estensione della legittimazione ad agire appare come una ulteriore conferma di questa chiave di lettura»213. Da quanto sinora detto e, soprattutto, in virtù dell’idea che Ulpiano e Paolo avevano del contenuto dell’azione aquiliana (quale risulta fra l’altro da D. 9, 2, 21, 2), l’interesse come criterio per la stima dei danni risarcibili coincide pertanto con una “Vermögensdifferenz”, cioè con la differenza fra quella che sarebbe stata la situazione patrimoniale del danneggiato senza l’illecito del terzo e la situazione detereminatasi a causa di esso. Si può pertanto ritenere come la prospettiva tardo-classica abbia anticipato la moderna visione risarcitoria e ben può definirsi come tendente al risarcimento del danno effettivamente subito. Per una più piena aderenza alla concezione risarcitoria comune alla gran parte dei moderni sistemi di diritto continentale, occorreva ancora che cadesse il riferimento temporale della valutazione all’anno o al mese anteriori e il condizionamento nella determinazione della stima svolto dall’avverbio plurimi. Proprio questi due elementi impedivano in alcune circostanze di limitare la liquidazione dei danni al pregiudizio economico realmente volto a tutelare la proprietà, anche se si poteva insinuare l’idea che il mezzo processuale derivato dalla lex Aquilia portasse ad una più ampia protezione del patrimonio214. A tal proposito S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criterio di imputazione e problema della “culpa”, cit., p. 86, nt. 1, ha sottolineato accuratamente che «l’estensione della tutela aquiliana alle lesioni al corpo di una persona libera, fa sì che ne risultino cointeressati tutti i soggetti, anche quelli sprovvisti di patrimonio». 213 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208. 214 ID., Dall’aestimatio rei all’id quod interest l’applicazione della condemnatio aquiliana, cit., p. 87. 56 8) Il delitto di iniuria e la protezione dell’integrità psicofisica degli uomini liberi in epoca classica Il damnum iniuria datum originariamente faceva riferimento ad una condotta contraria al ius, cioè ingiustificata, per acquisire più tardi una valenza soggettiva che ha permesso di prendere in considerazione la colpa e il dolo. Iniuria tout court indicava invece un delitto particolare, consistente in atti di diversa natura commessi contro l’integrità fisica e morale di un essere umano215. La differenza tra le due accezioni dello stesso termine è molto marcata, come del resto ricordano le stessi fonti216. La promulgazione della legge Aquilia non determinò un progresso nella tutela della integrità psicofisica delle persone libere, poichè essa si riferiva unicamente ai danni alle cose e considerava le persone schiave da un punto di vista di beni che avevano un valore di mercato. Solo un processo successivo di estensione della legittimazione attiva, significò proteggere in ipotesi determinate alcuni danni e lesioni sofferti da uomini liberi nei limiti ristretti già analizzati. D’altra parte, con il passare del tempo le pene stabilite nella legge delle XII Tavole venivano considerate insufficienti217. Ciò portò il pretore a creare un’azione generale, tendente a reprimere le lesioni o le offese alla dignità, chiamata actio iniuriarum218. Così, in epoca classica questo delitto privato si identificava con una contumelia o offesa219, comprendendo non solo i danni fisici, ma anche la offese alla reputazione o E. VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1967, p. 561. In effetti D. 9, 2, 5, 1 distingue chiaramente tra le due accezioni annotate quando segnala che «Poi qui è necessario intendere “ingiustizia”, non, come nell’azione per atti ingiusti <contro la persona>, una qualche offesa, ma così: ciò che è stato fatto non in conformità al diritto, è questo contro il diritto, cioè se taluno abbia ucciso per colpa; e pertanto talvolta concorrono entrambe le azioni, sia quella della legge Aquilia, sia quella per atti ingiusti <contro la persona>, ma due saranno le stime fatte dal giudice <del valore dell’oggetto della lite>, una per il danno, l’altra per l’offesa. Quindi, qui intendiamo “ingiustizia” il danno arrecato con colpa anche da colui che non voleva nuocere». 217 Si allude in questo punto alla storia del cavaliere Lucio Verazio, che secondo Gellio (Noctes Atticae, 20, 1, 13) si sarebbe divertito in giro per la città schiaffeggiando la gente, munito di una borsa di denaro che utilizzava per pagare immediatamente la pena di 25 assi. Per approfondimenti sul punto cfr. A. D. MANFREDINI, Quod edictum autem praetorum de aestimandis iniuriis, in F. MILAZZO (a cura di), Illecito e pena privata in età repubblicana, cit., pp. 76 ss.; F. CASAVOLA, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, pp. 18 ss. 218 Per ulteriori approfondimenti sull’ iniuria si consultino V. DEVILLA, Iniuria, in NSSDI, vol. VIII, Torino, 1962, pp. 705-706; A. D. MANFREDINI, Contributi allo studio dell’ “iniuria” in età repubblicana, Milano, 1977; M. MARRONE, Considerazioni in tema di “iniuria”, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, vol. I, Napoli, 1964, pp. 475-485. 215 216 57 all’onore di una persona. In quest’epoca il delitto di iniuria comprende qualsiasi offesa all’integrità morale di una persona libera, della sua buona fama, onore, dignità o onestà, con parole, azioni e anche con lesioni fisiche dirette all’offesa220. In questo senso in D. 47, 10, 1, 2 è contenuto un frammento ulpianeo che stabilisce: «Omnemque iniuriam aut in corpus inferri, aut ad dignitatem, aut ad infamiam pertinere; in corpus fit, quum quis pulsatur, ad dignitatem, quum comes matronae abducitu, ad infamiam quum pudicitia attentatur»221. L’album pretorio conteneva cinque precetti sulla materia: un edictum generale222, che tipicizzava genericamente l’iniuria e quattro precetti che regolavano iniuria speciali. Gli appositi editti che regolavano le iniuriae speciali erano i seguenti223: a) l’editto relativo al convicium adversus bonos mores, cioè il riunirsi in gruppo o presentarsi qualcuno da solo davanti alla dimora di un’altro per offenderlo e insultarlo a voce alta e con gesti224; In questo senso si veda D. 47, 10, 1. pr.: «Iniuria ex eo dicta est, quod non iure fiat: omne enim, quod non iure fit, iniuria fieri dicitur. hoc generaliter. Specialiter autem iniuria dicitur contumelia. interdum iniuriae appellatione damnum culpa datum significatur, ut in lege Aquilia dicere solemus: interdum iniquitatem iniuriam dicimus, nam cum quis inique vel iniuste sententiam dixit, iniuriam ex eo dictam, quod iure et iustitia caret, quasi non iuriam, contumeliam autem a contemnendo». Trad.: «Iniuria è detto così dal perchè una cosa si fa non iure, perchè tutto ciò che si fa non legalmente, si dice farsi non iure; e questo in generale. Con ispecialità poi una contumelia si dice ingiuria; talvolta col nome d’ingiuria si accenna ad un danno cagionato con colpa, come sogliamo dire nella legge Aquilia. Talvolta una iniquità la diremo ingiuria; perchè, quando uno iniquamente o ingiustamente profferì sentenza, dicesi ingiuria, da che è privo di diritto e di giustizia, come se dicesse non iuria: contumelia poi deriva a contemnendo». 220 Il contenuto della iniuria si ricava dalla lettura di Gai. 3, 220, frammento in cui è segnalato che la iniuria (offesa alle persone) si commette non solo quando si colpisce qualcuno con il pugno o con un bastone o quando flagellato, ma anche quendo si insulta qualcuno, e se qualcuno abbia pubblicamente notificato i beni di un altro come debitore pur sapendo che quello nulla gli doveva, o se uno abbia scritto un libello o una poesia per infamare un altro, o se uno abbia assiduamente seguito una madre di famiglia o un adolescente, e, in fine, di altri molti modi. 221 Trad. «Ogni ingiuria poi o si usa al corpo o è relativa alla dignità o alla infamia. Si fa al corpo, quando uno viene percosso. Alla dignità quando ad una matrona si toglie il codazzo; alla infamia, quando si attenta alla pudicizia». 222 In D. 47, 10, 7 pr. si afferma che: «Praetor edixit: ‘qui agit iniurarium, certum dicat, quid iniuriae factum sit’: quia qui famosam actionem intendit, non debet vagari cum discrimine alienae existimationis, sed designare et certum specialiter dicere, quam se iniuriam passum contendit». Trad.: «Il pretore ordinò; chi agisce per ingiurie, dica determinatamente quale ingiuria si fece, perchè chi intenta un’azione infamante non deve vagamente col pericolo della stima altrui, ma designare e specificatamente dire quale ingiuria sostiene di aver sofferto». 223 Cfr. A. BURDESE, Manuale di diritto romano, cit., p. 526. 224 Gai. 3, 220; D. 47, 10, 15, 2. 219 58 b) l’editto de adtemptata pudicitia, il quale reprimeva l’attività diretta a far commettere a taluno atti contrari alla purezza dei costumi, soprattutto nei confronti di donne sposate e di minori; c) l’editto ne quid infamandi causa fiat, relativo alla diffamazione di parola o di azione225; d) l’editto relativo alle condotte di frustare un servo altrui, sottometterlo a tormenti (questio) o vessarlo in altro modo senza autorizzazione del suo padrone226. Nell’edictum generale si includevano condotte come: colpire con il pugno o con qualche strumento, frustare, insultare, divulgare il fatto che si siano venduti i beni di qualcuno in subasta pubblica senza che il danneggiato sia debitore del diffamatore (Gai. 3, 220). Ritroviamo altresì il chiedere a qualcuno di vessarlo (D. 47, 10, 13, 3); impedirgli l’ingresso in luogo pubblico come un teatro o il suo uso, come pescare in acque pubbliche (D. 47, 10, 13, 7); chiedere ai «fideiussores» quando il debitore è disposto a pagare il debito (D. 47, 10, 19); fare sigillare la casa di un debitore assente (D. 47, 10, 20); rincorrere un uomo libero come se fosse uno schiavo fuggitivo (D. 47, 10, 22); entrare in una casa altrui contro la volontà del suo padrone (D. 47, 10, 23); dirigere fumi contro la casa del vicino per vessarlo (D. 47, 10, 44); stracciare i vestiti di qualcuno (D. 47, 10, 9, pr.). Inoltre possono costituire iniuria le lesioni fisiche, come una ferita o una mutilazione e anche la morte, se furono inferte vessatoriamente. Labeone (D. 47, 10, 11) distingue tra iniuria re (quando si usarono le mani) e verbis (quando si usarono le parole). Occorre poi considerare che gli editti particolari si sarebbero conservati in epoca classica per la semplice forza della tradizione, dovuta al fatto che il concetto di iniuria avrebbe raggiunto attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, «un’estensione talmente ampia da ricomprendere in generale ogni ipotesi di lesione della personalità anche morale o sociale altrui (contumelia)»227. La iniuria, seguendo la regola generale, era un delitto doloso, però si richiedeva un elemento soggettivo particolare e specifico: l’animus iniuriandi (o iniuriae 225 D. 47, 10, 25-33. D. 47, 10, 34-49. 227 A. BURDESE, Manuale di diritto romano, cit., p. 527. 226 59 faciendae)228. In tale modo non si configura la iniuria quando qualcuno aveva dato un colpo a un altro per scherzo229 o nel mezzo di una gara di lotta230 o quando qualcuno aveva creduto che il colpito era uno schiavo proprio senza esserlo veramente o per incidente231. Aspetto imprescindibile è il fatto che l’iniuria poteva essere arrecata al danneggiato non solo direttamente ma anche indirettamente, per mezzo di un’azione che colpiva una persona sottoposta al suo potere come quando si colpisce il figlio, la moglie o uno schiavo232, rispetto a cui (tranne l’ultima ipotesi) l’azione sorgeva pure in favore del diretto danneggiato. L’iniuria poteva essere aggravata (iniuria atrox) sia in relazione al fatto (ex facto), come quando la persona è ferita o azzoppata, sia in relazione al luogo (ex loco), quando si verifica a teatro o nel foro; sia in riferimento allo status della persona, come quando si colpisce un senatore, o un uomo di riconosciuta autorità (Gai. 3, 225)233. Sebbene le azioni classiche della iniuria fossero onorarie234, il delitto in sé continuò ad essere considerato come civile. Tutte le figure specificate nell’editto del pretore (cioè l’edicto generale e gli editti particolari) furono raggruppati sotto il nome comune di actio iniuriarum. Legittimato attivo per l’esercizio di questa azione è quello che ha subito l’iniuria, sia sulla sua stessa persona (proprio nome), sia nella persona di altro, ma in maniera tale che costituisca iniuria per lui (alieno nomine), senza escludere che colui che subì 228 Così si stabilisce in D. 47, 10, 3, 1-2. D. 47, 10, 3, 3. 230 D. 47, 10, 3, 4. 231 D. 47, 10, 4. 232 Gai. 3, 221: «Pati autem iniuriam videmur non solum per nosmet ipsos, sed etiam per liberos nostros quos in potestate habemus; item per uxores nostras, quamvis in manu nostra non sint. Itaque si filiae meae quae Titio nupta est iniuriam feceris, non solum filiae nomine tecum agi iniuriarum potest, verum etiam meo quoque et Titii nomine». Trad.: «Si considera che soffriamo ingiuria, non solo direttamente, ma anche tramite i nostri discendenti che abbiamo in potestà; e, analogamente, tramite le nostre mogli, anche se non siano in nostra mano. Pertanto, se avrai recato ingiuria a mia figlia sposata a Tizio, non solo si può agire contro di te per ingiurie a nome della figlia, ma anche a nome pure mio e di Tizio» Cfr. anche D. 47, 10, 1, 3; D. 47, 10,1, 9. 233 D. 47, 10, 7, 8. 234 Onorario è sinonimo di pretorio. Cfr. D. 1, 1, 7, 1: «Ius praetorium […] et honorarium dicitur ab honore praetorem sic nominatum». 229 60 direttamente la iniuria possa, a sua volta, agire proprio nomine235. Soggetti passivi sono colui o coloro che recano iniuria, i suoi complici ed istigatori236. Un aspetto nuovo e importante è che l’offeso faceva da solo o direttamente la valutazione dell’ammontare del risarcimento pecuniario, che poteva o non poteva essere accettata dal giudice, che alla fine fissava l’ammontare della pena arbitrariamente, con la formula di «quanto (denaro) sembrasse buono ed equo»237, con riferimento al tempo in cui fu commesso il delitto238, per cui questa azione si chiama aestimatoria. La valutazione della pena non si poteva riferire a un danno materiale, neppure quando si trattava di lesione corporale, giacchè l’integrità fisica di una persona libera, come la sua stessa libertà, è qualcosa di inestimabile, ma doveva essere riferita all’offesa morale prodotta da iniuria (contumelia), e in conseguenza che si aumentasse la valutazione in proporzione alla dignità della vittima o alla gravità dello scandalo. Sul versante passivo questa azione era intrasmissibile (come la generalità delle azioni penali), al pari di quanto avveniva dal punto di vista della titolarità attiva, perchè si trattava di quelle azioni che gridavano vendetta (vindictam spirantes), stando alla terminologia usata dai commentatori del sec. XIV239. Inoltre, l’azione si estingueva quando c’era stato un patto remissorio o di transazione tra le parti, così come quando l’offesa era stata perdonata (dissimulatio) dalla vittima240. 235 Al riguardo si vedano D. 47, 10, 1, 9 e D. 47, 10, 41. Cfr. D. 47, 10, 11 pr.: «Non solum is iniuriarum tenetur, qui fecit iniuriam, hoc est qui percussit, verum ille quoque continetur, qui dolo fecit, vel qui curavit, ut qui mala pugno percuteretur». Trad.: «Non solo è tenuto d’ingiurie colui che commise ingiuria, cioè colui che percosse, ma vi si comprende anche colui che dolosamente fece, o chi procurò che alcuno fosse percosso alla faccia col pugno». 237 D. 47, 10, 17, 5. 238 D. 47, 10, 21. 239 Ad avviso di C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., p. 84, siffatta particolarità si spiega dal momento che, «secondo la concezione romana, l’actio iniuriarum mirava più ad una riparazione morale che non ad un arricchimento patrimoniale; tendeva più ad una soddisfazione intimamente personale dell’offeso per l’ingiuria patita, che non ad un vantaggio per il suo patrimonio». 240 D. 47, 10, 11, 1: «Iniuriarum actio ex bono et aequo est et dissimulatione aboletur. Si quis enim iniuram dereliquerit, hoc est statim passus ad animum suum non revocaverit, postea ex paenitentia remissam iniuriam non poterit recolere. secundum haec ergo aequitas actionis omnem metum eius abolere videtur, ubicunque contra aequum quis venit. proinde et si pactum de iniuria intercessit et si transactum et si iusiurandum exactum erit, actio iniuriarum non tenebit». Trad.: «L’azione di ingiurie è secondo il buono e l’equo, e colla dissimulazione viene abolita: perchè se uno abbia abbandonata l’ingiuria, cioè tosto che la soffrì non dimostrò risentimento, poscia per pentimento non potrà suscitare la rimessa ingiuria. Secondo ciò dunque l’equità sembra a coloro togliere ogni timore dell’azione, ovunque uno viene contro dell’equità a dolersi. Quindi anche se vi sarà stato giuramento, l’azione d’ingiurie non terrà». 236 61 9) Il danno aquiliano nel diritto giustinianeo. L’evoluzione dalla disciplina aquiliana nel diritto romano classico permise, sia mediante l’azione civile della legge Aquilia sia mediante quella delle azioni in factum (e/o utili, per altri), di fare rispondere del danno (inteso come pregiudizio patrimoniale) causato, direttamente o indirettamente, con un comportamento doloso o colposo241. Nei Digesta la costruzione del libro D. 9 ruota intorno al titolo sulla legge Aquilia, dove è contenuto il riferimento alla colpa secondo la famosa definizione di Quinto Mucio: D. 9, 2, 31: «Si putator ex arbore ramum cum deiceret vel machinarius hominem praetereuntem occidit nec ille proclamavit, ut casus eius evitari possit. Sed Mucius dixit, etiam si in privato idem accidisset, posse de culpa agi: culpam autem esse, quod cum a diligente provideri poterit, non esset provisum aut tum denuntiatum esset, cum periculum evitari non possit. Secundum quam rationem non multum refert, per publicum an per privatum iter fieret, cum plerumque per privata loca volgo iter fiat. Quod si nullum iter erit, dolum dumtaxat praestare debet, ne immittat in eum, quem viderit transeuntem: nam culpa ab eo exigenda non est, cum divinare non potuerit, an per eum locum aliquis transiturus sit»242. Le tematiche della remissio iniuriae e della dissimulatio saranno alla base di una copiosa letteratura (civilistica e canonistica) in età medievale. Sul punto si rinvia a H. DONDORP, Remissio Iniuriae, in R. H. HELMHOLZ – P. MIKAT – J. MÜLLER – M. STOLLEIS (a cura di), Grundlagen des Rechts. Festschrift für Peter Landau zum 65. Geserbustag, Paderborn – München – Wien – Zürich, 2000, pp. 655-675. 241 In tale senso vedi B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 183, dove indica che la nozione di danno aquiliano «si trova, in conseguenza, alla fine dell’età classica, già pronta alla rielaborazione che, incompletamente e dato il sistema e i fini del loro lavoro, operarono già i compilatori giustinianei; e che, più compiutamente e soprattutto più liberamente, si venne operando nell’interpretazione medievale e moderna, allorchè si rinunziò, anche formalmente, alla fedeltà agli schemi interpretativi romani. Tale rielaborazione, di cui, ripetiamo, tutti i dati fondamentali sono già presenti nell’interpretazione classica, conduce ad una nozione generalissima di danno, inteso come pregiudizio patrimoniale in qualunque modo arrecato». 242 Trad.: «Se un potatore lasciando cadere un ramo dall’albero, o un operaio <lasciando cadere qualcosa da una impalcatura>, uccide un servo che passa, è tenuto così, se tagli in luogo pubblico né gridò in modo che potesse essere evitato l’oggetto che cadeva. Ma <Quinto> Mucio disse che si poteva agire per la colpa anche se fosse accaduta la stessa cosa in luogo privato: infatti, è colpa non aver provveduto a ciò che da una persona diligente si sarebbe potuto provvedere, od aver avvisato, quando <ormai> il pericolo non poteva essere evitato. Secondo questa ratio non interessa molto se uno passasse in luogo pubblico o privato, poiché spesso comunemente si passa per luoghi privati. Se non vi era alcun passaggio, dovrà rispondere solo per dolo, cioè di non far cadere apposta su colui che abbia visto che sta passando: infatti, rispetto a lui non si deve pretendere <che sia tenuto per> la colpa <cioè per non aver provveduto o avvisato>, poiché non avrebbe potuto indovinare se per quel luogo sarebbe passato qualcuno». 62 Avendo come punto di riferimento il criterio: «culpa autem esse, quod a diligenti provideri poterit non esset provisum aut tum denuntiatum esset» (è colpa non aver provveduto a ciò che da una persona diligente avrebbe potuto provvedere, od aver avvisato), viene operata la selezione e interpretazione dei contributi dei giuristi classici, concorrendo così in modo determinante all’ulteriore superamento della tipicità delle condotte prese in considerazione. La richiamata definizione di Quinto Mucio, posta al centro del titolo del Digesto, indica il dovere di “providere” che significa sia “prevedere”, sia “provvedere”, cioè, anche senza aver concretamente previsto, osservare quelle regole di diligenza, perizia, prudenza ecc. che sono maturate per le varie circostanze al fine di evitare che dalle condotte umane derivino effetti nocivi. In altre parole, si ascrivono a colpa l’imperizia, la negligenza, l’imprudenza, la inosservanza di norme la cui inosservanza per lo più di per sé non comporta una propria sanzione, ma quando da tale inosservanza derivi un danno, una lesione, una offesa. Nelle Istituzioni di Giustiniano la colpa è esaminata in I. 4, 3, 4-8, da cui risulta una nozione di culpa quale condotta volontaria che viola delle norme per cui è direttamente riprovevole, secondo una prospettiva più ampia di quella di negligenza o imprudenza243. Con riferimento più specifico all’imputazione soggettiva, Schipani ha approfondito l’esame dei rapporti fra culpa et iniuria, in relazione a I. 4, 3, 2-3, affermando che: «il concetto di iniuria viene spiegato e poi semplificato; la spiegazione è del tutto generale: essa viene puntualizzata sul profilo del nullo iure agere, e l’esempio conferma e precisa la portata di questa indicazione rifacendosi alla legittima difesa, la più tipica delle scriminanti». Egli rileva che allorchè «si introduce il casus come ipotesi di esclusione della responsabilità, non vi è dubbio che ci troviamo al di fuori della precedente analisi del concetto di iniuria» e che «secondo questo schema espositivo, il dolo e la colpa si pongono come indipendenti dal requisito dell’iniuria posto dalle parole della legge; unico punto di contatto è la rilevanza:tenetur – non tenetur. La culpa poi si presenta come un’ipotesi in cui, pur essendosi l’evento verificato casu, impedisce che si concluda che non tenetur. Emerge quindi la contrapposizione tra casus e dolo: per dolo In tal senso cfr. S. SCHIPANI, Analisi di culpa in J. 4,3, ora in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 89-101. 243 63 si risponde sempre; quando invece l’evento si verifica casu bisogna accertare se vi sia stata o no culpa»244. Quanto alla nozione del danno aquiliano risarcibile, la compilazione giustinianea continua a concepirlo fondamentalmente come pregiudizio di contenuto patrimoniale. Prova di ciò si riscontra, per esempio, in D. 9, 2, 27, 17 dove, regolando l’ipotesi di lesione corporale di uno schiavo che non si traduce in una diminuzione del suo valore, si ammette solo il risarcimento delle spese fatte «per la sua guarigione», e datone il carattere di entità economica245, ciò era costitutivo, come è detto, di danni patrimoniali indiretti. In ordine alle categorie dei danni risarcibili in diritto giustinianeo, possiamo dire che sebbene si accetti pacificamente il risarcimento del danno emergente e del lucro cessante246, vi sono delle discussioni per quelli che vengono chiamati (con terminologia moderna) danni morali, poichè, se da una parte si afferma che «la sofferenza psicologica così come del resto la sofferenza fisica non vennero mai prese in considerazione nell’ambito del damnum iniuria datum»247 altri difendono la risarcibilità di questo diritto248. Nel Codex la trattazione della lex Aquilia è contenuta nel libro III, titolo 35, contenente solamente sei frammenti. Grande novità attribuita a Giustinano è la concessione di un’azione utile a tutti gli uomini liberi per le ferite causate al corpo249. Così risulta da D. 9, 2, 13 pr.: «Liber homo suo nomine utilem aquiliae habet actionem: directam enim non habet, quoniam dominus membrorum suorum nemo videtur. Fugitivi autem nomine dominus habet»250. ID., Pluralità di prospettive e ruolo della culpa come criterio elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, cit., p. 55. 245 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 201, dove precisa che la identificazione del damnum con un pregiudizio di natura patrimoniale non soffre alterazione con Giustiniano «che pur adotta una versione alterata del citato passo di Ulpiano (D. 9, 2, 27, 17) e liquida, non è chiaro se per ragioni umanitarie o se per una più attenta considerazione delle operae servorum e dunque dell’utilità economica del servo provvisoriamente pregiudicata, le spese fatte in salutem eius et sanitatem; in queste entità economiche Giustiniano ravvisa ora il danno». 246 In tal senso ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 20. 247 Ivi, p. 201. 248 Ad esempio U. RATTI, Il risarcimento del danno nel diritto giustinianeo, in BIDR, 40 (1932), p. 189. F. M. DE ROBERTIS, Sulla risarcibilità del danno morale nel diritto giustinianeo, ora in ID., Scritti varii di diritto romano, vol. I, Bari 1987, pp. 515-516. 249 Cfr. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208; ID., Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp. 422 ss. 244 64 In ogni caso, va considerato che non era prevista un’azione per la morte di una persona libera, dato che scomparendo il possibile titolare di questa «non poteva sorgere in capo ad alcuno nè poteva trasmettersi agli eredi»251. D’altra parte, Giustiniano si incaricó di ripetere che la actio legis Aquiliae presupponeva l’esistenza di un damnum corpore corpori datum252. In I. 4, 3, 16 concede azioni utili contro chi abbia causato danno in assenza del primo requisito (cioè del corpore). La portata rivoluzionaria del contributo giustinianeo è comunque la previsione di un’azione in factum in generale. L’imperatore dispose che nel caso in cui il danno non fosse stato causato direttamente (corpore) nè mediante una lesione all’integrità fisica di un bene (corpori), ma in qualche «altro modo», sarebbe stata concessa un’actio in factum generale contro il colpevole. Ecco quanto indicato in I. 4, 3, 16: «Ceterum placuit, ita demum ex hac lege actionem esse, si quis praecipue corpore suo damnum dederit. Ideoque in eum qui alio modo damnum dederit, utiles actiones dari solent: veluti si quis hominem alienum aut pecus ita incluserit ut fame necaretur, aut iumentum tam vehementer egerit ut rumperetur, aut pecus in tantum exagitaverit ut praecipitaretur, aut si quis alieno servo persuaserit ut in arborem ascenderet vel in puteum descenderet, et is ascendendo vel descendendo aut mortuus fuerit aut aliqua parte corporis laesus erit, utilis in eum actio datur. Sed si quis alienum servum de ponte aut ripa in flumen deiecerit et is suffocatus fuerit, eo quod proiecerit corpore suo damnum dedisse non difficiliter intellegi poterit ideoque ipsa lege Aquilia tenetur. Sed si non corpore damnum fuerit datum neque corpus laesum fuerit, sed alio modo damnum alicui contigit, cum non sufficit neque directa neque utilis Aquilia, placuit eum qui obnoxius fuerit in factum actione teneri: veluti si quis, misericordia ductus, alienum servum compeditum solverit, ut fugeret»253. Trad.: «Un uomo libero, in proprio nome <per un danno a lui arrecato>, ha l’azione della legge Aquilia in via utile: infatti egli non ha l’azione diretta, poiché nessuno si considera proprietario delle sue membra. Il padrone, invece, ha <l’azione in base alla legge Aquilia> in nome di un servo fuggitivo». 251 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208. Ad avviso di A. MARCHI, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto romano, in BIDR, 16 (1904), p. 234, l’actio utilis per danni causati alla persona dell’uomo libero si concedeva solo in caso di lesioni e non già in caso di morte. 252 La convinzione, largamente condivisa dalla dottrina romanistica, che i giuristi romani avessero elaborato un’idea assolutamente materialistica del nesso di causalità, basata sul contatto fisico tra soggetto agente e res danneggiata, è stata messa in crisi recentemente da I. PIRO, Damnum “corpore suo” dare. Rem “corpore” possidere: l’oggettiva riferibilità del comportamento lesivo e della possessio nella riflessione e nel linguaggio dei giuristi romani, Napoli, 2004. 253 Trad.: «Si reputò peraltro che in base a detta legge ci fosse azione solo se uno avesse arrecato il danno principalmente col suo corpo. Di conseguenza, contro colui che abbia cagionato il danno 250 65 A sua volta D. 9, 2, 33, 1, frammento ritenuto opera dei compilatori, ripete che: «In damnis, quae lege Aquilia non tenentur, in factum datur actio»254. Con Giustiniano si abbandonava il sistema classico di concessione di azioni in factum particolari, e veniva concessa una actio in factum generalis; in questo modo la actio in factum cessava di essere concepita come una azione decretale255 e si trasformava in un «rimedio di natura generale, integrativo per tutte quelle ipotesi in cui non risultasse applicabile un’azione aquiliana, era dunque ufficialmente attratta nel contesto aquiliano, venendo in sostanza assimilata all’azione di legge di cui rappresentava lo strumento integrativo e complementare»256. Per capire questa grande innovazione si deve considerare il riconoscimento che contemporaneamente si faceva dell’actio legis Aquilia (e quindi delle azioni utili e in factum che rapresentavano la sua estensione) come azione essenzialmente reipersecutoria (almeno rispetto alla sua finalità, che non era altro che ottenere il risarcimento del danno)257. diversamente sogliono darsi delle azioni utili: ad esempio, se uno avesse rinchiuso l’uomo o la bestia altrui perchè morisse di fame, o avesse così violentemente incalzato un giumento da farlo scoppiare, o avesse tormentato una bestia al punto di farla precipitare, o se uno avesse indotto il servo altrui a salir su un albero o a discendere in un pozzo, e quello, salendo o scendendo, fosse morto o si fosse fatto male in qualche parte del corpo, si dà contro di lui un’azione utile. Ma se uno avesse da un ponte o da una riva gettato in un fiume un servo altrui, e questo fosse affogato, non sarà difficile poter capire che, in quanto l’aveva buttato giù, gli aveva cagionato il danno col suo corpo, per cui risponde in base alla legge Aquilia direttamente. Se viceversa il danno non sia stato arrecato col corpo, nè un corpo sia stato leso, ma uno abbia avuto danno in un modo, poiché in tal caso non è sufficiente nè l’Aquilia diretta nè la utile, si è ritenuto che il colpevole debba rispondere in base ad un’azione in rapporto al fatto: ad esempio nel caso di chi, mosso da pietà, abbia slegato l’altrui servo in ceppi, perché fuggisse». 254 Trad.: «Per i danni per i quali non si è tenuti in base alla legge Aquilia, si può dare l’azione modellata sul fatto». 255 Cioè concessa di volta in volta sulle caratteristiche del caso concreto. 256 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 192. G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 14 (1916), p. 951, ha notato che «per i bizantini quest’azione in factum, pur essendo per necessità sistematiche strettamente collegata all’a. l. Aquiliae da cui prende il nome è nella realtà un’azione generale diretta a ottenere il risarcimento del danno […] con funzione integratrice e sussidiaria di fronte ai singoli rimedi specifici, sia l’a. l. Aquiliae (diretta od utile) siano altri d’altra natura e su presupposti diversi». 257 In questo senso M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 533. Cfr. anche G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., pp. 199-200, secondo cui «si potrebbe pertanto concludere che la finalità dell’azione era quindi ormai risarcitoria; la penalità dell’azione era piuttosto conservata unicamente nel carattere, pur se anche qui la funzione risarcitoria aveva portato a significativi temperamenti. Così persisteva la solidarietà cumulativa in modo che quod alius praestitit alium non relevat, la nossalità, peraltro legata al regime schiavista destinato ad estinzione, e la intrasmissibilità passiva, pur ormai derogata dal principio dell’esperibilità nei limiti dell’arricchimento e con la disponibilità ad ammettere la trasmissibilità ove fossero venuti meno i caratteri legati all’infitiatio e al plurimi. Per concludere, la natura penale dell’azione appare con Giustiniano poggiare ormai solo sul “ramo secco” rappresentato essenzialmente dalla presenza del 66 In questo modo l’actio in factum generale di origine giustinianea, fu lo strumento che permise di infrangere la tipicità dell’illecito aquiliano. In essa affonda le proprie radici la non tipicità dell’atto illecito sancita in molti codici attualmente vigenti258, ed è per questo che «si continua ancor oggi a parlare di danno aquiliano e di responsabilità aquiliana»259. Soltanto le Istituzioni di Giustiniano, depositarie della tradizione giurisprudenziale classica, tentano di risistemare la complessa materia secondo una logica che conserva le forme classiche a sostanzialmente corrisponde all’elaborazione bizantina. Ne risulta un quadro in cui emerge l’azione generale posta a tutela di ogni tipo di danneggiamento. Siffatta costruzione di strumenti di tutela generali «favorisce l’assorbimento entro schemi più fluidi dei rimedi classici tipici, anticipando la tendenza successiva alla costruzione di clausole generali di responsabilità»260. La persistenza in sede privata di azioni come l’actio furti, l’actio de effusis vel deiectis261, l’actio de pauperie, etc. era un forte limite alla conquista della piena atipicità e alla costruzione di una categoria unitaria del fatto illecito. Le offese all’onore o i furti, non avevano una rilevanza autonoma nella concezione aquiliana, e non erano comunque risarcibili i danni derivati dalla morte di una persona libera per la impossibilità di individuare un soggetto a cui attribuire la titolarità dell’azione262. Tutto questo non diminuisce la grande importanza che, come si è visto, ebbe il diritto giustinianeo nella evoluzione della disciplina aquiliana. plurimi, tagliato il quale anche il carattere penale del rimedio sarebbe venuto meno, come già l’imperatore in I. 4, 3, 9 bene dimostrava di intendere». 258 Così per esempio M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 133, e G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 193, che cita in proposito l’art. 1382 del Code Napoléon, l’art. 2043 del c.c. vigente e l’art. 1151 del codice Pisanelli del 1865. 259 M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 133. 260 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 91. 261 Per questa azione cfr. F. SERRAO, La responsabilità per fatto altrui in diritto romano, ora in ID., Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989, pp. 98-99, e S. SCHIPANI, Il contributo dell’edictum de his qui deiecerint vel effunderint e dell’edictum ne quis in suggrunda ai principi della responsabilità civile dal Corpus iuris ai codici civili europei e latinoamericani, ora in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 105-109. 262 G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208. 67 9.1) (segue) Il delitto di iniuria in età post-classica e giustinianea. Nelle Institutiones di Giustiniano (I. 4, 1-4) vengono trattate le quattro fattispecie di delitto, fonte di obbligazione, già esaminate da Gaio, vale a dire il furto, la rapina, il damnum iniuria datum e le lesioni e offese ingiustificate alle persone (iniuriae). Nei Digesta vediamo però anche la costruzione del libro 9 che comporta una rottura rispetto al quarto delle serie delitti privati che Gaio e Giustiniano avevano elencato (furto, rapina, danno, iniuria). Il danno arrecato senza giustificazione previsto dalla legge Aquilia, viene a costituire il nucleo di una composizione nuova, che include il danno arrecato da animali, il danno arrecato da persone che sono sotto la sorveglianza o direzione di altri, il danno per cose che cadono da una cosa. Da ciò si potrebbe dedurre una apertura verso una prospettiva che cancelli il carattere penale e che, quindi, può anche svolgersi come puramente risarcitoria del danno, con tutto il mutamento di impostazione che ciò può comportare. È stato puntualmente sottolineato come l’unità dei delitti privati e delle fattispecie assimilate, presente nelle istituzioni di Giustiniano e mutuata da Gaio, si spezza invece nei Digesta, dove il furto, la rapina e l’iniuria sono attratti entro un quadro di coerenze che accentua il profilo della riprovevolezza sociale e concorrono a formare un blocco di materia costituito dai libri D. 47-48, libri in cui i predetti delitti privati vengono affiancati ai delitti pubblici (crimina), costituendo il nuovo e articolato del diritto penale263. Il quarto delitto, vale a dire il damnum iniuria datum viene invece a costituire il nucleo del libro D. 9. Per quanto riguarda la valutazione in rapporto alla categoria romana del delitto, e della correlativa pena privata, essa include la tutela di cose e persone, e queste ultime non per la loro rilevanza patrimoniale, ma per la loro rilevanza personale, da valutare secondo ciò che è buono ed equo con riferimento al delitto di lesione e all’offesa ingiustificata alla persona. Quanto al delitto di iniuria, invece, occorre ricordare che in età post-classica e giustinianea assieme alla condanna nel privato dell’iniuria, vi fu anche la condanna pubblica regolata da una legge di Silla (Lex Cornelia de iniuriis, 81 a. C.), di cui si In tal senso S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: prospettive sistematiche del diritto romano e problematiche della responsabilità extracontrattuale, cit., p. 147. 263 68 discorre in D. 47, 10, 5, e relativa ai casi di pulsatio, verberatio e di ingresso violento nella casa altrui264. In età postclassica prevarrà questo punire pubblicamente l’iniuria265. Giustiniano, da parte sua, lascia la scelta tra i due tipi di condanna266. A questo proposito bisogna tenere presente che con il procedimento penale imposto dalla legge di Silla si pretende l’imposizione di una pena fisica al reo, mentre con la actio iniuriarum si tendeva alla condanna ad una pena pecuniaria in favore delle vittime. Alla luce di quanto esposto, possiamo notare che dall’epoca imperiale (più particolamente da Diocleziano) il diritto romano estende nuovamente il concetto d’iniuria, giungendo sia ad includere le più lievi lesioni fisiche che le violazioni minori dei diritti della personalità, essendo perseguiti penalmente extra-ordinem. Conclusioni La disamina storica dalle XII Tavole alla compilazione Giustinianea, ha mostrato una contrapposizione tra delitti privati (delicta) e delitti pubblici (crimina). Sotto la categoria dei delitti privati in diritto romano sono stati raggruppati diverse fattispecie quali il furto, il taglio degli alberi, le lesioni personali e le offese ingiustificate alla persona, il danno arrecato da animali, le ipotesi di danneggiamenti poi in parte abrogate e sostituite dalla lex Aquilia sul danno ingiustificato e la rapina. In riferimento D. 47, 10, 5, pr. stabirisce che: «la legge Cornelia sulle ingiurie compete a colui il quale vorrà agire d’ingiurie per il [nel testo originario del Vignali è “lo”] motivo che dice di essere stato battuto o percosso e di essersi con violenza entrato in sua casa. Colla quale legge viene disposto, che non giudichi colui il quale a quello che agisce sia genero, o suocero, padrigno, figliastro, o consobrino, o che toccherà più da vicino alcuno di coloro in tale parentela od affinità, o chi di essi sarà patrono di lui e del suo genitore. Sicchè la legge Cornelia diede l’azione per tre motivi, perchè uno sia stato battuto o percosso, o perchè si entrò nella sua casa con violenza. Apparisce dunque che ogni ingiuria la quale si faccia con mano, contengasi nella legge Cornelia». 265 A. BURDESE, Manuale di diritto romano, cit., p. 528. 266 In tale senso, cfr. I. 4, 4, 10: «Bisogna infine sapere che per ogni ingiuria chi l’ha subita può agire o in penale o in civile. E se agisca civilmente, fatta la stima secondo il già detto, si fissa la pena. Se invece agisca penalmente, si irroga al colpevole una pena fuor del sistema, che rientra nei poteri del giudice: nel rispetto, si capisce, del criterio introdotto dalla costituzione di Zenone (C. 9. 35. 11 del 478), per cui gli uomini della categoria degli illustri e quelli più in su possono, a norma del suo tenore che dalla stessa più chiaramente appare, muovere o subire in sede penale un’azione per ingiurie anche tramite procuratori». 264 69 Trattasi di categoria distinta da quella dei delitti pubblici (crimina)267 come ad esempio il danneggiamento notturno, l’incendio delle messi, l’omicidio, la sovversione dell’ordine costituito ecc. Nucleo comune ai delitti privati fu la lesione, per dolo o colpa, senza cause di giustificazione, di beni giuridici di natura ora patrimoniale ora personale, lesione sanzionata attraverso l’utilizzazione dell’obbligazione pecuniaria. Rispetto al passato abbiamo assistito ad un mutamento sanzionatorio giacché esso non consisteva più nella morte o in una sofferenza fisica inflitta al reo dalla lesione. La composizione pecuniaria e l’estizione di responsabilità da parte del reo in origine era volontaria, come risulta dalla legge delle XII Tavole, mentre successivamente assunse carattere coercitivo ed obbligatorio per legge. Caratteristiche dell’obbligazione pecuniaria furono268: a) la determinazione della somma di denaro dovuto sulla base di parametri rapportati all’interesse e al danno e, nelle lesioni ingiustificate alla persona, al buono e l’equo in funzione della corretta e attenta parità di trattamento; b) la solidarietà cumulativa, cioè l’obbligazione sorgeva a carico di tutte le persone che si rendevano responsabili del fatto delittuoso, ciascuna obbligata a versare l’intera somma dovuta e il pagamento di una di esse che non estingueva l’obbligazione per gli altri autori269; c) il concorso cumulativo con le pretese reipersecutorie aventi funzione di reintegrare il danno patrimoniale da inadempimento; d) l’intrasmissibilità passiva nei confronti degli eredi del reo; e) la nossalità, quale alternativa fra pagamento della pena e consegna dell’autore del delitto (delitto commesso da una persona sottoposta alla potestà di altri). Da siffatta alternativa emerge il carattere personale della responsabilità. Cfr. F. BELLINI, Delicta e crimina nel sistema quiritario, Padova, 2012, passim. In chiave comparatistica si veda H. S. MAINE, Diritto antico, a cura di V. FERRARI, Milano, 1998, pp. 274-298 (trad. it. di Ancient Law, London, 1917). 268 È questa l’impostazione offerta da S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della responsabilità extracontrattuale, in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 140-141. 269 Si vedano i frammenti di Ulpiano in D. 9, 2, 11, 2 e D. 9, 2, 11, 4, e di Giuliano in D. 9, 2, 51, 2. 267 70 Gaio raccoglierà il frutto di questo sviluppo già maturato da oltre due secoli, unificando in base al concetto di “delitto” le quattro fattispecie di responsabilità, e sottolineando come esse siano fonte di obbligazione contrapposte al contratto270. Quanto ai rapporti tra obbligazioni delittuali e contrattuali l’opinione maggioritaria ha sostenuto l’antecedenza storica dell’obligatio ex delicto271, pur se la composizione272 col pagamento di una somma di denaro (o con la consegna di altre res) si affermò solo in una fase più evoluta, con il superamento delle concezioni originarie fondate sulla vendetta privata praticata dal danneggiato o dal suo gruppo nei confronti della persona fisica del reo danneggiante. La fattispecie degli illeciti extracontrattuali non costituenti dei crimini pubblici273, arricchitasi delle figure costruite e delle azioni concesse di volta in volta dal pretore, ebbe una disciplina che si intese in primo luogo come strumento diretto a tutelare fondamentalmente la proprietà274, funzione alla quale sembra collegata direttamente la normativa decemvirale oltre che la lex Aquilia ed il criterio di valutazione della aestimatio rei che in principio si usò nell’applicazione di quest’ultima. Fu proprio la lex Aquilia, con la previsione di alcune fattispecie piuttosto limitate (secondo cui se una o più persone distruggevano o deterioravano una cosa altrui, ne scaturiva un’obbligazione al pagamento di una somma di denaro a titolo di pena), a costituire la base sulla quale sarà elaborato il principio generale della responsabilità extracontrattuale nel sitema di civil law. La scienza giuridica repubblicana e classica aveva rielaborato le fattispecie di cui ai capi I e III della lex Aquilia, ricostruendole in relazione a cinque elementi costitutivi vale a dire: 270 Gai. 3, 88; 182-225. Per l’opinione favorevole all’anteriorità storica delle obbligazioni ex delicto cfr. P. BONFANTE, Istituzioni di diritto romano, Roma, 1934, p. 374 e G. PACCHIONI, Corso di diritto romano, vol. II, Le istituzioni del diritto privato, Torino, 1910, p. 378. Di avviso contrario B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1946, pp. 247 ss., secondo cui il problema dell’origine dell’obbligazione si concreterebbe nel rintracciare quale sia la figura primitiva di obligatio, che l’autore identifica nella sponsio. 272 Sul punto cfr. P. VOCI, Istituzioni di diritto romano, III ed., Milano, 1954, p. 301, secondo cui la composizione legale si trovava già nelle XII tavole, sebbene la legislazione decemvirale non fosse riuscita ad imporla come pratica esclusiva, in quanto la stessa permetteva, in alcuni casi, la composizione volontaria e l’esercizio della difesa privata. 273 Anche i crimini pubblici possono comportare una sanzione costituita dal pagamento di una somma di denaro, ma questa è una “multa”, non una obbligazione a favore della parte lesa (cfr. D. 50, 16, 131, 1; D. 50, 16, 244). 274 Tuttavia non bisogna dimenticare che nel cap. II della Lex Aquilia vi fu originariamente una ipotesi di tutela del credito che, tuttavia, cadde in disuso. 271 71 a) l’evento di danno costituito dalla distruzione, incendio, rottura lesione di una cosa cui viene affiancata la lesione del corpo di una persona libera che sia in potestà del suo padre di famiglia; b) la condotta, che viene a includere ogni azione od omissione considerata causa del danno; c) nesso di causalità tra condotta ed evento; d) violazione del diritto di proprietà; e) assenza di cause di giustificazione . Gaio, da parte sua, fissa nelle sue Institutiones (3, 211) le regole con le quali reinterpreta alcuni punti essenziali della legge, cosi sintetizzate da Schipani275: a) chi agisce con dolo o colpa agisce in modo ingiustificato e deve pagare; b) le leggi non puniscono colui che, nell’esercizio di una causa di giustificazione, provoca un danno; c) non è punito colui che senza dolo o colpa provoca un danno. La reinterpretazione della lex Aquilia si completa con la codificazione giustinianea. Nei Digesta, al centro del titolo sulla legge Aquilia, viene messo in evidenza il riferimento alla colpa secondo una famosa definizione di Quinto Mucio (D. 9, 2, 13 pr.). Nelle Institutiones (4, 3), invece, la fattispecie del damnum iniuria datum viene riscritta fondandola sui seguenti punti: a) evento di danno; b) condotta; c) rapporto di causalità; d) dolo o colpa; e) violazione dell’altrui diritto; f) assenza di cause di giustificazione. Sempre nelle Institutiones, sive Elementa (4, 3, 16) Giustiniano inserisce quell’elemento di novitas costituito dall’actio in factum generalis, vale a dire l’azione che veniva concessa nel caso in cui il danno non fosse stato causato mediante una relazione di causalità diretta (corpore) nè mediante una lesione all’integrità fisica di un bene (corpori), ma in qualche «altro modo»276. S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della responsabilità extracontrattuale, cit., p. 134. 276 Cfr. anche D. 9, 2, 33, 1. 275 72 Accanto ad essa rimane l’antica actio legis Aquiliae di cui tuttavia viene dichiarata la natura mixta, cioè penale e simultanemante reipersecutoria. Giustiniano, tuttavia, «ligio alla tradizione e nel timore di infrangerla, […] “non può e non osa dichiarare indiscriminatamente la natura reipersecutoria dell’actio legis Aquiliae”, rinunciado così al traguardo, già lambito, di un’evoluzione destinata a culminare nella figura autonoma dell’“illecito civile”»277. Se leggiamo in combinato disposto D. 9, 2 e I. 4, 3, ne risulta un principio, valido anche per i secoli successivi, che trova pur sempre la sua origini nelle elaborazione precedenti, ben sintetizzato da Schipani nei seguenti termini: «chiunque, non per caso, con dolo o colpa, senza causa di giustificazione, uccide, o lede, o comunque arreca un danno a persona altrui, è tenuto a pagare una somma di denaro a titolo di pena»278. Siffatta linea interpretativa si discosta palesemente da quella sostenuta, all’inizio del XX secolo, dal Rotondi279 il quale attribuì al giusnaturalismo moderno il sorgere del principio secondo cui il danno come tale genera l’obbligazione al risarcimento280 o, altrimenti detto, “la colpa, che produca un danno ad altri, deve essere punita”281. La riforma di Giustiniano, nell’ambito di una revisione legislativa a carattere prettamente compilatorio, tuttavia non si spingerà oltre i limiti che abbiamo visto, e non compirà pertanto l’ultimo passo vale a dire quello di «eliminare del tutto ogni concezione penale dall’ambito del diritto privato»282. A. LA TORRE, Genesi e metamorfosi della responsabilità civile, cit., p. 141. La citazione interna al passo di La Torre appartiene a B. ALBANESE, Illecito a) Storia, in ED, vol. XX, Milano, 1970, p. 85. 278 S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della responsabilità extracontrattuale, cit., p. 136. 279 G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 14 (1916), pp. 942-970; 15 (1917), pp. 236-295. 280 Una disamina approfondita è contenuta in S. SCHIPANI, Pluralità di prospettive e ruolo della culpa come criterio elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, cit., pp. 32-35. 281 ID., Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della responsabilità extracontrattuale, cit., p. 136, nt. 15. 282 Così B. ALBANESE, Illecito a) Storia, cit., p. 65. 277 73 CAPITOLO SECONDO LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE IN ETÀ ALTOMEDIEVALE E NELL’ETÀ DEI COMUNI Introduzione Con l’Editto di Tessalonica283 del 380 d.C. il cristianesimo da religio licita divenne religione dell’Impero284, raggiungendo una notevole diffusione nei vari territori imperiali285. Quello cristiano è un annuncio rivoluzionario, basato sulla predicazione di Gesù contenuta nei Vangeli. I testi del Nuovo Testamento, nella loro nitidezza, contengono anche un messaggio generale sulla responsabilità che, riecheggiando le parole veterotestamentarie di Tobia (4, 15)286, viene compendiato nel precetto evangelico: «omnia ergo, quaecunque vultis ut faciant vobis homines, ita et vos facite eis; haec est enim Lex et Prophetae» (Matteo 7, 12; Luca 6, 31: «et prout vultis, ut faciant vobis homines, facite illis similiter»)287. Si tratta di una rilettura, in termini, cristiani, di quell’antico praeceptum iuris ulpianeo costituito dall’alterum non laedere. È stata sottolienata, con riguardo al danno extracontrattuale, una differenza tra i giuristi romani di età classica, concentrati tutti sull’antigiuridicità della condotta compendiata nel termine iniuria, ed il diritto di Giustiniano che, influenzato dal Si tratta della famosa costituzione Cunctos populos di Teodosio II trádita nel Codex Theodosianus (16, 1, 2) ed in quello di Giustiniano (1, 1, 1). 284 E non dunque religione di Stato, come ancora si continua a dire da più parti. Per una critica del concetto di religione di Stato si veda M. P. BACCARI, Cittadini, popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino, 1996, pp. 4-5. 285 Per una rapida sintesi degli avvenimenti che vanno dall’Editto di Nicomedia (311 d.C.) a quello di Tessalonica passando per l’Editto costantiniano di Milano (313 d.C.) cfr. G. GROSSO, Lezioni di storia del diritto romano, V ed., Torino, 1965, pp. 432-435. Per approfondimenti si veda A. SAGGIORO, La religione e lo stato. Cristianesimo e alterità religiose nelle leggi di Roma imperiale, Roma, 2011, pp. 39-43. 286 «[…] et, quod oderis, nemini feceris». 287 Tutti i testi biblici citati sono tratti da Nova vulgata Bibliorum Sacrorum editio, Sacrosanti Oecumenici Concilii Vaticani II ratione habita iussu Pauli PP. VI recognita auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgata, II ed. Città del Vaticano, 1998, passim. 283 74 cristianesimo, sembrerebbe dare più importanza al danno in sé stesso, giacchè la caritas non può tollerare il torto subito dal prossimo288. I risultati cui era giunta l’opera interpretativa della giurisprudenza classica e postclassico-giustinianea in materia di responsabilità extracontrattuale, refluiti nell’elaborazione di una «nozione di damnum iniuria ben più generale e vicina a quella moderna che non quella originariamente prevista dal plebiscito aquiliano»289, attraverso la sostanziale estensione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’actio legis Aquiliae e il superamento del concetto oggettivo di iniuria290, furono vanificati dalle invasioni barbariche che determinarono, per certi aspetti, un ritorno agli originari modelli di imputazione oggettiva. Giova precisare sin da ora che le invasioni barbariche, stando alla storiografia più recente, non rappresentano più la “tradizionale” causa della scomparsa del diritto, né tantomeno la causa di un presunto periodo di incertezza giuridica e di violenza generalizzata291. Al contrario, fu proprio grazie ai contatti con le locali popolazioni romane che vennero redatte, dai sovrani barbari, le prime leggi destinate ai sudditi romani abitanti nei territori occidentali conquistati dalle ondate germaniche. Si assiste insomma, durante il dilagare della presenza germanica, alla creazione di un nuovo diritto facente capo alla tradizione del diritto romano. La dottrina ha parlato, a tal proposito, di «diritto romano volgare»292, espressione con la quale «si mettono spesso insieme cose diversissime tra loro: prodotti di dottrina come le Pauli Sententiae o il Liber Gai; fenomeni legislativi come la Lex Romana In tal senso B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, vol. III, (La famiglia, rapporti patrimoniali, diritto pubblico), Milano, 1954, pp. 261-262. Già S. RICCOBONO, L’influsso del cristianesiomo sul diritto romano, in Atti del congresso internazionale di diritto romano, vol. II, Pavia, 1935, p. 68, aveva avuto modo di sottolineare l’influsso dell’etica cristiana su tutti i rami del diritto romano, in particolare sul diritto privato. 289 B. ALBANESE, Damnum iniuria datum, in NSSDI, vol. V, Torino, 1960, p. 111. 290 Sulla svolta progressiva dal modello di imputazione oggettiva a quello fondato sull’elemento soggettivo si vedano U. BRASIELLO, Delitto b) diritto romano, in ED, vol. XII, Milano, 1964, pp. 5-8; P. CERAMI, La responsabilità extracontrattuale dalla compilazione di Giustiniano ad Ugo Grozio, in L. VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, cit., p. 105; G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, in ED, vol. XXXIX, Milano, 1988, pp. 1118-1139; G. ROTONDI, Dalla “Lex Aquilia” all’art. 1151 cod. civ. Ricerche storicodogmatiche, in Riv. dir. comm., 1916, pp. 942-970; 1917, pp. 236-295. 291 E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, Roma, 1996, pp. 52-56. 292 Per una rassegna storiografica si vedano F. CALASSO, Diritto volgare, diritti romanzi, diritto comune, in ID., Introduzione al diritto comune, rist. in., Milano, 1970, pp. 207-232, e R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Bologna, 1987, p. 568 nt. num. 54, con riferimento ai lavori di Ernst Levy, Franz Wieacker, Jean Gaudemet, Bruno Paradisi, Antonio Guarino et alii. 288 75 Wisigothorum […]; atteggiamenti della prassi di valore disparato, ora conformi alla politica legislativa degli imperatori, ora invece in contrasto irrimediabile con l’ordinamento ufficiale»293. Il fenomeno del diritto volgare non deve essere considerato una mera degenerazione294 del diritto romano bensì un quid novi nel campo giuridico. Si tratta di un fenomeno la cui quintessenza è stata giustamente individuata nei «momenti di contraddizione con il diritto ufficiale», contraddizione che si concretizza nell’irrompere del Medio Evo nella romanità del basso impero295, e che è conseguenza «del ricorso a forze alternative per colmare il vuoto lasciato dallo sfacelo politico […attraverso…] istituti vecchi che si deformarno, istituti nuovi che si creano, con un libero attingimento dal grande serbatoio della vita quotidiana»296. Nello studio storico della responsabilità extracontrattuale, la storiografia giuridica ha da sempre insistito sull’approfondimento dell’eredità romana, fondata prettamente sulla lex Aquilia, trascurando però una trattazione sistematica delle altre due eredità alla base della moderna responsabilità extracontrattuale vale a dire l’eredità patristica e canonistica e quella del diritto volgare e della legislazione barbarica, oppure ha relegato la trattazione dei due aspetti in specifici e settoriali contributi scientifici297. Solo di recente si è pervenuto ad una pregevole trattazione unitaria di queste tre eredità grazie agli studi condotti in Francia da Olivier Descamps298. E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., p. 96, il quale, nelle pagine successive tratta anche del «volgarismo», problematica diversa da quella del diritto volgare. Ad avviso di M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna, 1994, p. 32: «oggi […] il diritto volgare è correntemente considerato come il diritto affermatosi nella pratica delle regioni occidentali in un periodo di sensibile trasformazione sociale sociale e di notevole involuzione economica quale du quello del tardo Impero: un diritto, cioè, disciplinato esclusivamente dalla prassi, dato che né leggi imperiali, né opinioni di giuristi riuscivano a star dietro in maniera significativa agli usi che si andavano affermando presso le singole comunità». 294 Questa è la visione di H. BRUNNER, Zur Rechtsgeschichte der römischen un germanischen Urkunden, Berlin, 1880, pp. 113; 139, primo autore ad evidenziare siffatto fenomeno ma la cui posizione non fu accolta da L. MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des römischen Kaiserreichs, Leipzing, 1891, il quale riteneva invece il diritto volgare come prodotto dell’incontro tra il diritto ufficiale e quello originario dei popoli sottoposti all’autorità di Roma. 295 In tal senso E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., p. 98. 296 P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari, 2006 (I ed. 1995), p. 53. 297 Da noi indicati di volta in volta nel prosieguo della trattazione. 298 O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804, cit., passim; ID., Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, in R. FIORI (a cura di), Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, 3, Napoli, 2008, pp. 139-191; ID., L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, in O. CONDORELLI-F. ROUMY- M. SCHMOECKEL (a cura di), Der einfluss der kanonistik auf die europäische rechtskultur, Bd. 1: Zivil-und Zivilprozessrecht, Köln-Weimar-Wien, 2009, pp. 137-167. 293 76 1) Contributi patristici e dello ius canonicum del primo millennio in tema di responsabilità extracontrattuale Una matrice che non deve essere assolutamente sottovalutata nello studio della responsabilità extracontrattuale e, soprattutto, nella disamina del principio della culpa299 è quella facente capo al pensiero patristico300 e al diritto canonico del primo millenio301. Abbiamo visto che il messaggio di Gesù Cristo, contenuto nei Vangeli, prevede anche un riferimento generale alla responsabilità tout court che si sostanzia nel precetto di non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facciano a te (Matteo 7, 12; Luca 6, 31), rilettura cristiana dell’ulpianeo alterum non laedere. Questo principio, posto alla base delle vita di ogni fedele in Cristo, viene ad essere immerso nella vita quotidiana dei singoli cristiani che, purificati dal peccato originale per mezzo del battesimo, «ianua sacramentorum», si trovano a vivere nella realtà temporale di questo mondo con la consapevolezza di essere cittadini di due città, quella terrena e quella celeste. Al riguardo la Lettera a Diogneto, noto testo del cristianesimo primitivo, è eloquente nel descrivere la situazione dei cristiani302: «abitano la loro patria, ma come pellegrini […], camminano sulla terra, ma sono concittadini del cielo» (5, 1-6, 1). L’uomo è soggetto alle debolezze che derivano dalla sua natura di creatura contrapposta al Dio creatore. La salvezza della propria anima impone pertanto di Sulla culpa come «categoria analogica, che può essere usata come registro morale, come categoria giuridica e come categoria psicologica, configurandosi quindi come molto complessa e problematica al contempo» si veda A. BONDOLFI, Colpa e pena. La responsabilità umana tra teologia e diritto, in M. BORSARI-D. FRANCESCONI, Peccato e pena. Responsabilità degli uomini e castigo divino nelle religioni dell’Occidente, Modena, 2007, pp. 153-183. 300 Rilevava l’importanza della patristica per lo studio del diritto privato G. LE BRAS, Naissance et croissance du droit privé de l’Église, in Études d’histoire du droit privé offertes à Pierre Petot, Paris, 1959, p. 331. Con particolare riferimento al principio di diritto naturale ed evangelico dell’alterum non laedere si veda, nello stesso saggio, p. 341 nt. 14. 301 Una rapida rassegna della scienza canonistica nel primo millennio si può leggere a chiusura dell’accurato volume di B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, I, Il diritto antico fino al Decretum di Graziano, Roma, 1998, pp. 195-202. Per un bilancio storiografico, anche con riferimenti all’età grazianea ed a quelle successive, si veda O. CONDORELLI, Il contributo delle ricerche canonistiche alla storia del pensiero medievale: aspetti e problemi, in E. CONTE-M. MIGLIO (a cura di), Il diritto per la storia. Gli studi storici nella ricerca medievistica, Roma, 2010, pp. 65-90. 302 Si veda, anche per approfondimenti sul principio dualista cristiano, G. DALLA TORRE, La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni tra Chiesa e Comunità politica, III ed., Roma, 2007, pp. 28-30. 299 77 riparare le colpe commesse e ristabilire, sul piano dei rapporti umani intersoggettivi, il violato ordine di giustizia. I primi Padri della Chiesa sentirono viva l’esigenza morale di elevare la giustizia pagana traducendola in termini di amore cristiano303. Possiamo notare tuttavia come sussistano forti analogie tra la definizione di giustizia304 data da Ulpiano, seguita dall’elenco dei famosi tria praecepta iuris, e le riflessioni offerte dai Padri della Chiesa. Si pensi, ad esempio, al passo del De officiis di Ambrogio secondo cui: «[…] iustitiam, quae suum cuique tribuit, alienum non vindicat, utilitatem propriam neglegit, ut communem aequitatem custodiat»305. Quanto al principio dell’«alterum non laedere» si consideri invece l’inciso, in cui il vescovo di Milano, parlando del sensus della giustizia, la quale si concretizza nel vivere secondo natura, afferma che l’uomo, creatura con una inclinazione naturale, perché obbedisca alla stessa non può danneggiare il suo prossimo («nocere non possit alteri»)306. Cambia il verbo (nocere, anziche laedere) ma la sostanza del principio è immutato. Nell’arduo cammino che caratterizza la vita del cristiano, la debolezza umana non riesce ad evitare le numerose insidie di cui è disseminata la strada per arrivare alla vita eterna. La Chiesa pertanto elabora gradualmente una disciplina penitenziale che implica una valutazione delle colpe, delle condizioni poste per ottenerne il perdono, dell’opzione sulla possibilità della sua reiterazione307. Siffatta valutazione si basava sull’assunto di considerare in primo luogo l’animo e le motivazioni interiori dell’agente, come attestato in numerosi passi del Nuovo Testamento. Ciò era stato infatti il germe per la costruzione della nuova morale cristiana la quale, si contrapporrà presto, grazie all’elaborazione teologica e culturale dei Padri della Chiesa, alla moralità Cfr. l’ampio studio di R. PIZZORNI, Giustizia e carità, Bologna, 1995, pp. 465-589. D, 1, 1, 10, pr: «Iustitia est constans et pepetua voluntas ius suum cuique tribuendi». 305 AMBROSIUS, De officiis, I, 24, 115 (= PL, vol. 16, Parisiis, 1845, col. 57). 306 AMBROSIUS, De officiis, III, 4, 24 (= PL, vol. 16, Parisiis, 1845, col. 152): «hinc ergo colligitur quod homo, qui secundum naturae formatus est directionem, ut obediat ei, nocere non possit alteri: quod si cui noceat, naturam violet». 307 Cfr. in tal senso J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, Cinisello Balsamo, 1998, pp. 305-306 (trad. it. di Église et Cité. Histoire de droit canonique, Paris, 1994). 303 304 78 eminentemente formale (e ricca di numerosi casi di responsabilità oggettiva) della tradizione giudaica308. 1.1) Responsabilità e imputabilità nella patristica309 I padri della Chiesa ben conoscevono la concezione romana, intrisa di stoicismo, del peccare/peccatum inteso come “caduta”, “deviazione”, spesse volte messa in riferimento a espressioni o verbi simili quali iniuriam facere o delinquere310. L’influenza del linguaggio giuridico e di quello biblico si ravvisa, nell’ambito della patristica latina, in Tertulliano che utilizza peccatum e delictum nello stesso senso311, ma al di fuori del contesto giuridico. L’illustre apologeta distingue poi i peccati in carnali, o corporali, e spirituali. L’uomo infatti può peccare servendosi del corpo oppure con moti dell’animo che diventano peccaminiosi quando ad essa aderisca la volontà (peccata voluntatis). Tutti questi peccati sono imputabili e per tutti è stata stabilita la penitenza, né giova ricordare come i peccati dello spirito non vengano perseguiti dalle leggi civili, per l’impossibilità della giustizia umana di rendersi conto di essi e punirli, giacchè ciò che rimane nascosto agli uomini è invece palese agli occhi di Dio312. In tal senso L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, in SDHI, 1979, ora in L. MUSSELLI-E. GRILLO, Matrimonio, trasgressione e responsabilità nei penitenziali. Alle origini del diritto canonico occidentale, Padova, 2007, pp. 5-12. 309 Patristica e patrologia sono termini coniati in ambito protestante nel XVII secolo. La Patristica è la disciplina che si occupa del pensiero teologico dei Padri della Chiesa ed ha carattere dottrinale nonché presenta legami con la teologia dogmatica, morale e spirituale. La Patrologia invece ha ad oggetto la vita e gli scritti dei Padri, muovendosi sul livello dell’indagine storica e dell’informazione biografica e letteraria. Per il loro carattere teologico, Patristica e Patrologia si distinguono dalla letteratura cristiana antica che invece è una disciplina non teologica. Cfr. E. VALERIANI, Patrologia e letteratura cristiana antica, in DSSRN, vol. II, Bologna, 2010, pp. 1217-1232. 310 B. ALBANESE, Illecito a) Storia, cit., p. 69, afferma che, con riferimento a peccatum, facinus, flagitium e altri termini generalissimi, i giuristi romani non diedero mai alcuna rigorosa utilizzazione tecnica. Ad avviso di G. CRIFÒ, Illecito (diritto romano), in NSSDI, vol. VIII, Torino, 1962, p. 160, nelle fonti romane ricorre un uso sinonimico di termini come scelus, fraus, maleficium, delictum, flagitium, facinus, peccatum, delictum, probrum, crimen, ecc., ciascuno dei quali deve aver avuto, però, almeno all’origine, un ambito specifico di applicazione, in ciò ricollegandosi all’opinione di Contardo Ferrini. 311 TERTULLIANUS, De pudicitia, 19 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, n. s., vol. V, Mediolani, 1890, pp. 261-266); De oratione, 7(= PL, vol. 1, Parisiis, 1844, col. 1163); De paenitentia, 4, 1-3 (=Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 76, Vindobonae, 1957, pp. 147-148). 312 TERTULLIANUS, De paenitentia, 3, 3-9 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 76, Vindobonae, 1957, pp. 144-145). 308 79 Anche negli altri padri risultano più frequenti i termini crimen e delictum, sempre in contesti non giuridici. Così Cipriano313, il quale mette in risalto altresì l’importanza del fattore volontà per la valutazione della gravità della colpa nel caso della condotta dei lapsi e dei libellatici314. Lo stesso dicasi per Ambrogio315, autore importante per il ruolo dato alla volontà. Il vescovo di Milano afferma che «nemo tenetur ad culpam, nisi voluntate propria deflexerit»316, marcando un concetto importantissimo che verrà ripreso dal Decretum di Graziano317. Altra conseguenza poi di questa riconduzione della colpevolezza ad un atto di libera scelta riferibile alla volontà dell’agente è l’esclusione della responsabilità del furiosus e, in linea di massima, del coactus318. Quanto alla patristica greca319 risultano di notevole importanza le posizioni di Clemente d’Alessandria e di Basilio Magno. In diversi luoghi degli Stromata, Clemente afferma che i peccati che non derivano da una libera determinazione della volontà non sono, proprio in quanto involontari, imputabili, né sottoponibili a giudizio, anche se di fatto vengono in essere per ignoranza o per necessità a causa dell’imperfezione umana320. Interessante è la tripartizioni delle varie mancanze dell’uomo in τύχημα (cioè disgrazia, definita come peccato non intenzionale e pertanto non imputabile all’autore), μαρτία (peccato, definito crimine involontario, in quanto commesso per debolezza di carattere e di giudizio od incapacità di nresistere alle tentazioni) ed infine δικία, CYPRIANUS, Epistulae, 16, 2, 2 (= Corpus christianorum, Series latina, vol. III B, Turnholti, 1994, pp. 91-92). 314 CYPRIANUS, De Lapsis, 3 (= PL, vol. 4, Lutetiae Parisiorum, 1844, col. 467); Epistulae, 55, 13, 2 (= Corpus christianorum, Series latina, vol. III B, Turnholti, 1994, pp. 270-271).. 315 AMBROSIUS, De poenitentia, 1, 10, 45(= PL, vol. 16, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 480); 1, 16, 90(= PL, vol. 16, Lutetiae Parisiorum, 1845, coll. 493-494). Circa le distinzioni dei peccati in Ambrogio si veda R. MARCHIORO, La prassi penitenziale nel IV secolo a Milano secondo S. Ambrogio, Roma, 1975, pp. 33-35. 316 AMBROSIUS, De Jacob et vita beata, 1, 3, 10 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 602). 317 C. 15, q. 1, c. 10. 318 AMBROSIUS, Exameron, 1, 8, 31 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 140). 319 Risulta indispensabile sul punto l’analisi dettagliata offerta da L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., pp. 21-23, e ID., Imputabilità e responsabilità penale nella patristica del IV e V secolo, in AA. VV., Diritto, persona e vita sociale. Scritti in memoria di Orio Giacchi, vol. I, Milano, 1984, ora in L. MUSSELLI-E. GRILLO, Matrimonio, trasgressione e responsabilità nei penitenziali. Alle origini del diritto canonico occidentale, cit., pp. 29-32. 320 CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata, II, 14, (= PG, vol. 8, Parisiis, 1891, coll. 997-1000). 313 80 (costituita da un comportamento che sia frutto di una malvagità pienamente consapevole e volontaria)321. L’analisi di Basilio il Grande322 rileva non solo per la teoria generale dell’imputabilità ma anche per la graduazione della responsabilità in caso di omicidio, settore, quest’ultimo, in cui le soluzioni basiliane eserciteranno un durevole influsso sulla canonistica posteriore323. Dalla breve disamina del pensiero patristico emerge come il termine peccatum indichi a volte una nozione teologica cioè il peccato, altre volte indica una nozione giuridica cioè la colpa intesa in un senso ampio come atto illecito. Culpa, come ben sottolineato dal Talamanca, ha diverse accezioni e può indicare l’illecito, l’imputabilità e la negligenza in senso generico324. Nell’accezione di illecito culpa è comprensiva sia degli illeciti penali (crimina, atti illeciti penali di diritto pubblico) si di quelli che chiameremmo illeciti civili (delicta/maleficia, atti illeciti penali dello ius civile)325. Si nota tuttavia una preminenza della responsabilità morale sulla responsabiltà penale. Valgano come esempio gli elenchi di peccati, in cui vengono inseriti indifferentemente atti che rilevano nel foro interno ed atti che costitutisco veri e propri reati, con la conseguente confusione tra peccatum e crimen326. Il rilievo dato alla volontà interna e all’elemento intenzionale327 consente una analisi approfondita della colpa dando luogo a diverse distinzioni in ordine ai peccati. Si va dalla dicotomia peccata capitalia e peccata minora/minuta, introdotta da Giovanni Cassiano, alla distinzione di Agostino tra peccata malitiae, peccata infirmitatis e CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata, II, 15 (= PG, vol. 8, Parisiis, 1891, coll. 999-1012). BASILIUS CAESARIENSIS, Moralia, Reg. IX (= PG, vol. 31, Parisiis, 1885, coll. 715-718); Epistolarum Classis, 188, 11 (= PG, vol. 32, Parisiis, 1886, col. 682). 323 L. MUSSELLI, Imputabilità e responsabilità penale nella patristica del IV e V secolo, cit., 30-31 324 M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, cit., p. 518. 325 B. ALBANESE, Illecito a) Storia, cit., p. 70. 326 In tal senso O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 145. Di avviso contrario fu invece M. ROBERTI, “Delictum” e “peccatum” nelle fonti romane e cristiane. Contributo allo studio dell’influenza del cristianesimo sul diritto romano, in Studi in onore di Carlo Calisse, vol. I, Milano, 1940, pp. 168-169, secondo cui: «Mentre il diritto romano pagano non ha preso mai in considerazione il peccato in senso cristiano, […] la Chiesa fino dalle più antiche fonti distinse nettamente il delitto dal peccato. Non si può infatti accettare l’opinione, per lo meno inesatta, di coloro che nella contraria dimostrazione si valgono di talune fonti dove manca una netta distinzione fra i due termini». 327 Sottolinea l’importanza dei padri della Chiesa circa l’intenzione e la volontà come fondamenti della responsabilità J. GAUDEMET, Le problème de la responsabilité penale dans l’antiquité, in Studi in onore di Emilio Betti, vol. II, Milano, 1962, pp. 506-508. 321 322 81 peccata imperitiae328. La confusione tra il peccato e il delitto non permette ai Padri della Chiesa di offrire una chiara definizione di ogni singolo illecito, per i quali essi operano un rinvio al diritto romano classico329. Il travaglio intellettuale dei Padri conduce alla individualizzazione del peccato ed alla sua espiazione, «elementi culturali», quest’ultimi, che unitamente all’individualismo greco-orientale e cristiano, sono alla base dell’«affinamento del concetto» di culpa che ritroviamo nel diritto romano postclassico330. 1.1.1) (segue) Il contributo di Agostino d’Ippona. Tra i padri della Chiesa sant’Agostino è il pensatore a cui più di frequente ricorre il diritto canonico medievale. Nel pensiero331 del vescovo di Ippona è dato rinvenire una raffinata analisi della colpa e della responsabilità basata sul suo carattere personale, sull’imputabilità e sulla qualificazione dell’atto umano. Agostino, in ossequio alla propria teoria in materia di libero arbitrio, riconduce ogni responsabilità in materia morale o penale ad un comportamento malvagio consapevolmente tenuto dal soggetto agente, affermando che «nullius crimen maculat nescientem»332. Tuttavia, l’ignoranza non vale a scusare completamente il peccatore, anche se rende la mancanza meno grave come traspare dalla parole secondo cui «sunt enim peccata ignorantium quamvis minora quam scientium»333. Entrambi i frammenti saranno recepiti da Graziano nel Decretum334, opera in cui ritroviamo anche un altro frammento importante in cui emerge l’importanza della volontà per l’imputabilità AUGUSTINUS, De diversis quaestionibus, 26 (De differentia peccatorum), (= PL, vol. 40, Lutetiae Parisiorum, 1861, coll. 17-18). 329 J. GAUDEMET, L’Église dans l’Empire romain (IV-Ve siècles), Paris, 1958, pp. 272-273. Si veda anche ID., Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au IVe siècle, Milano, 1978, p. 38 (per i riferimenti a Cipriano); p. 74 (per Ambrogio); pp. 125-126 (per Girolamo). 330 Così G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità extracontrattuale attraverso i secoli, cit., p. 102. 331 Sulla conoscenza del diritto romano di Agostino si veda A. DI BERARDINO, Diritto romano, in A. D. FITZGERALD, Agostino. Dizionario enciclopedico, edizione it. a cura di L. ALICI-A. PIERETTI, Roma, 2007, pp. 570-575. 332 AUGUSTINUS, Epistulae, Classis II, 93, 15 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 34, Vindobonae, 1895, p. 459; PL, vol. 33, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 327). 333 AUGUSTINUS, De adulterinis coniugiis, 1, 9 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 41, Vindobonae, 1900, p. 356). 334 Rispettivamente in C. 23, q. 4, c. 37, e C. 32, q. 7, c. 10. Sull’influenza del pensiero agostiniano in materia di imputabilità nel Decretum Gratiani cfr. P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, in SG, VII (1959), pp. 447-460. 328 82 dell’atto dannoso: «peccatum voluntarium malum est, ut ullo modo sit peccatum, si non sit voluntarium»335. Il ruolo precipuo della volontà e la natura libera dell’uomo compare anche in uno scritto, attribuito anticamente ad Agostino ma già da molto tempo ritenuto apocrifo. Si tratta del Liber de vera ac falsa poenitentia, composto in epoca posteriore ad Agostino e confluito altresì in Ivo di Chartres e Graziano. L’anonimo autore afferma in merito che «omnis poenitentia est de mala usa libertate»336. Di particolare importanza è la distinzione agostiniana tra il semplice peccatum ed il crimen, anche se bisogna subito dire che si tratta di due species appartenente allo stesso genus. Infatti nel solco della precedente elaborazione patristica, anche il crimen viene definito peccatum ma Agostino lo qualifica «grave peccatum, accusatione et damnatione dignissimum»337, segnando una significativa demarcazione tra foro interno e foro esterno giudiziale338. Ne risulta una teoria della responsabilità e del peccato che mette in grande evidenza il carattere personale della colpa (per cui ciascuno è responsabile dei propri atti339), esalta la volontà e la scientia dell’agente, ed infine tiene in considerazione sia i comportamenti commissivi che quelli omissivi, lasciando fuori le intenzioni che sono prive di manifestazione esterna che come tali sono fuori dal campo giuridico. Si pensi all’equiparazione, fatta nella prima epistola di Giovanni340, tra l’omicida e l’uomo che prova ira od odio per il fratello, che Agostino svaluta relegandola nella dimensione extragiuridica341. AUGUSTINUS, Retractationum libri II, 13, 1, 5 (= PL, vol. 32, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 603), anche in C. 15, q. 1, d. a. c. 1. 336 PSEUDO-AUGUSTINUS, Liber de vera ac falsa poenitentia, 1, 8, 22 (= A. COSTANZO, Il trattato De vera et falsa poenitentia: verso una nuova confessione. Guida alla lettura, testo e traduzione, Roma, 2011, pp. 262-263). 337 AUGUSTINUS, In Johannis Evangelium tractatus, 41, 9 (= PL, vol. 35, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 1697). 338 Così L. MUSSELLI, Imputabilità e responsabilità penale nella patristica del IV e V secolo, cit., 36. 339 Pe riferimenti all’Antico Testamento e allaconcezione greca cfr. L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., pp. 5-10; O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 147-149. 340 1 Gv, 3, 15. 341 AUGUSTINUS, Contra Faustum, 19, 23, (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 25, pars I, Vindobonae, 1991, pp. 521-522). 335 83 1.2) Responsabilità e imputabilità nelle fonti canonistiche Alla base del diritto canonico nascente342, in un’epoca segnata dal passaggio «dall’esortazione al diritto»343, troviamo la Sacra Scrittura. In primis l’Antico Testamento di cui spiccano i documenti normativi come la legge di Mosè, il Codice dell’Alleanza, il Deuteronomio ed il Levitico, normativa che Cristo non è venuto ad abrogare. Più direttamente ritroviamo i Vangeli e le Lettere accolte nel canone del Nuovo Testamento, che verrà fissato tra il II e IV secolo344. È proprio sulla base delle concezioni e degli spunti rinvenibili nei testi sacri che si tenta di costruire e precisare i concetti di responsabilità e imputabilità345. 1.2.1) (segue) Le collezioni pseudoapostoliche Considerato il valore rivestito, nei primi secoli del cristianesimo, dalla Tradizione scritta e orale, è facilmente intuibile come i primi testi normativi si siano sforzati di apparire di derivazione apostolica, almeno in ordine ai propri contenuti, ed abbiano trasmesso, in maniera più o meno fedele, la prassi di vita e l’iniziale ordinamento delle chiese locali. Siffatti testi, compilati prevalentemente in Siria nel periodo compreso tra la fine del I e del III secolo, sono un chiaro segnale della necessità di un diritto per regolare la vita dei cristiani. Verso la fine del IV secolo essi furono accorpati in raccolte denominate collezioni pseudoapostoliche, giacchè sono state falsamente attribuite agli apostoli o ai loro discepoli o ad altri successori immediati346. Principio di queste collezioni, infatti, è 342 Tralasciamo volutamente l’analisi del rapporto tra Chiesa nascente e diritto, e tutta la polemica sui tentativi di delegittimazione del diritto canonico compiuti tra la fine dell’Ottocento e i nostri giorni, in particolare quella originata dai contributi di R. SOHM, Kirchenrecht, I, Die geistlichen Grundlagen, Berlin, 1892; ID., Wesen und Ursprung des Katholizismus, Leipzing, 1909. Per un bilancio si veda A. MELLONI, Diritto canonico, in DSSRN, vol. II, Bologna, 2010, p. 647, nonché C. FANTAPPIÈ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Bologna, 2011, pp. 28-33. 343 Così J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 47. 344 Cfr. C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, Bologna, 2003, pp. 32-33. 345 L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., p. 13. 346 C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., p. 34. 84 quello della traditio apostolica, che caratterizza la grande autorevolezza ed obbligatorietà della norma347. La compilazione anonima denominata Didachè348, testo più antico che probabilmente assemblea documenti ancora più vetusti, mutua dalla sacre scritture l’esortazione a non nuocere al prossimo (Tobia, 4, 15)349, inserendola nella prima parte del testo dedicata alle “Due vie, della vita e della morte”, sorta di catechesi sullo stile delle due vie: la via del peccato e quella della virtù, della morte e della vita, della luce e delle tenebre. Nella Didachè viene altresì messa in rilievo «la ratio dell’imputabilità anche per fatti meramenti interni, in quanto dotati di una pericolosità potenziale, poiché alla volizione del male segue facilmente un’azione esterna estrinsecativa di essa»350. Risulta fondamentale anche quanto contenuto in un’altra celebre collezione, la Didascalia Apostolorum351, composta nel patriarcato di Antiochia in Siria verso l’anno 230352. Essa ribadisce il principio secondo cui la sanzione va applicata non in modo automatico ma tenendo conto della gravità del fatto: «judicetis igitur secundum magnitudinem delicti cuiuscumque cum misericordia multa»353. Quanto all’imputabilità, riconducibile ad un atteggiamento doloso o colposo, si registra una reazione dura contro tentativi e tendenze, emerse probabilmente in comunità cristiane di origine ebraica, tesi a reintrodurre situazioni di impurità e concetti di contaminazione di tipo giudaico354. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 46. Per l’edizione critica cfr. W. RORDORF-A. TUILIER, La doctrine des douze Apôtres (Didaché), Paris, 1978 (trad. it. La dottrina dei dodici apostoli (Didachè), Roma-Bologna, 2009, a cura di Maria Benedetta Artioli). 349 Preziosa, per la conoscenza dei passi biblici citati nell’opera, lo studio di J. GAUDEMET, La bible dans les collections canoniques, in P. RICHÉ-G. LOBRICHON, Le Moyen Âge et la Bible, La Bible de tous les temps, Paris, 1984, ora in J. GAUDEMET, Formation du droit canonique et gouvernement de l’Église de l’antiquité à l’âge classique, Recueil d’articles, Strasbourg, 2008, p. 96. 350 L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., p. 13, con riferimento a Didachè, II, 1-3. 351 L’edizione del testo si può leggere in F. X. FUNK, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, I, Paderborn, 1905. Per le altre edizioni e gli studi in materia cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., 50-51. 352 J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 51. 353 Didascalia Apostolorum, II, 43, 5. 354 In tal senso L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., p. 15. 347 348 85 1.2.2) (segue) I canoni dei concili Decisamente più importante è l’apporto fornito dai canoni dei concili355 che verrano a costituire una parte consistente della normativa contenuta nei penitenziali e nelle collezioni canonistiche ante Gratianum. L’apporto conciliare alla teoria della responsabilità è pur sempre nell’ottica penale, in particolare attraverso la disamina dell’omicidio. In ordine cronologico troviamo il concilio di Elvira, celebrato in Spagna nel primo lustro del IV secolo, che distingue, a livello di sanzione, tra l’omicidio volontario e quello preterintenzionale o colposo, prevedendo sette anni di penitenza nel primo caso e cinque nel secondo356. Nei canoni 22 e 23 del concilio di Ancira, celebrato nell’anno 314, troviamo invece un criterio più rigoroso giacchè l’assise prevede per l’omicidio volontario (sponte) una penitenza per tutta la vita mentre per quello involontario per la penitenza è di sette anni (non sponte)357. Una disposizione importante è quella contenuta nel concilio di Neocesarea, celebrato tra il 314-319, relativa alla esclusione della punizione qualora il desiderio di fornicazione e la relativa intentio fornicandi non trovino realizzazione sul piano concreto358. Come puntualmente sottolineato dal Musselli, «si sottrae in pratica l’ambito dei comportamenti interni alla sanzione canonica, che viene vista solo come applicabile alle trasgressioni poste in essere concretamente sul piano dell’azione esterna. Ha così origine, con questo testo che apporta una deroga, per ragioni pratiche, all’equiparazione evangelica tra peccatum e desiderium peccandi, un’impostazione ed una corrente di pensiero, che seppur con alterne vicende e fortuna, troverà la sua continuità per tutto il periodo pregrazianeo fino alla precisazione del concetto di delitto attuato nell’ambito della canonistica classica»359. Per la datazione dei concili ci siamo basati sul Dizionario dei concili, diretto da P. Palazzini, voll. I-VI, Roma, 1963-1967. 356 CONCILIUM ELIBERITANUM, can. 5 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. II [Ab anno CCCV ad annum CCCXLVI], Florentiae, 1759, col. 6). 357 CONCILIUM ANCYRANUM, can. 22; 23 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. II, cit., coll. 519-522). 358 CONCILIUM NEOCESARIENSE, can. 4 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. II, cit., col. 540). 359 L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., pp. 18-19. 355 86 Per le epoche successive bisogna aspettare gli inizi del IX secolo per avere disposizioni normative che arricchiscono la riflessione sulla responsabilità incentrando l’attenzione sempre sul delitto di omicidio. La persistenza del modello di imputabilità oggettiva dell’ordinamento germanico spinge a dare alcune precisazioni in tema di atto imputabile. Il canone 29 del concilio di Worms, convocato nell’ anno 868, mantiene infatti la distinzione tra homicidium sponte / homicidium non sponte e contempla anche l’ipotesi del potatore di alberi che, per negligenza, non si accorge della caduta di rami che causano l’omicidio di un individuo360. Il concilio di Treviri, tenutosi nell’ anno 895, riproduce la stessa dicotomia riportata ed afferma l’innocenza di colui che, non avendo mancato alla dovuta diligenza, avesse determinato la morte del fratello in occasione del taglio di alberi361. Siffatto concilio rappresenta una reazione al principio della responsabilitas ex effectu, che conduce all’imputazione dell’effetto dannoso dell’azione anche al di fuori del concorso della volontà libera e deliberata dell’agente, accogliendo invece il principio della responsabilitas ex voluntatis consensu362. Il Decretum Gratiani raccoglierà una ampia gamma di canoni conciliari eterogenei offrendo una singolare testimonianza della difficoltà che incontrò la tesi volontaristica propugnata dalla dottrina ecclesiastica tradizionale. 1.2.3) (segue) Le collezioni canoniche fino al periodo pre-classico La dicotomia omicidio volontario / omicidio involontario è attestata nella Vetus Gallica363, collezione, elaborata in tre fasi diverse (600-721), che riprende espressamente il concilio ancirano, distinguendo tra la rubrica De homicidis sponte CONCILIUM WORMATIENSE, can. 29 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. XV[Ab anno DCCCLV usque ad annum DCCCLXVIII incl.], Venetiis, 1770, col. 874). 361 CONCILIUM TRIBURIENSE, can. 36 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. XVIII [Ab anno DCCCLXXXV usque ad ann. DCCCCLXVII iam inceptum],, Venetiis, 1773, col. 150). 362 In tal senso P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, cit., p. 453; G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1105, nt. 50. 363 L’edizione critica è quella di H. MORDEK, Kirchenrecht und Reform in Frenkreich: Die Collectio “Vetus Gallica”, die älteste systematische Kanonensammlung des frankischen Galliens, Berlin, 1975, pp. 341-617. 360 87 commissis e quella De homicidis non sponte commissis364. L’opera ebbe un’ampia diffusione anche al di fuori della Gallia e fu usata in numerose collezioni canoniche posteriori ed in penitenziali di epoca carolingia365. Lo stesso dicasi per un’altra importante collezione, la Hispana366, la quale è il risultato di un lungo processo di redazione e aggiornamento che comincia nel 633, al tempo di Isidoro, vescovo di Simiglia a cui è generalmente attribuita, e giunge fino al 702. Nella predetta raccolta viene pertanto mantenuta la dicotomia risalente al concilio di Ancira ma vengono modificate le rubriche che disciplinano invece De his qui volentes homicidium fecerunt e De his qui nolentes homicidium fecerunt367. In siffatta tradizione si inserisce anche la collezione Dionysiana-Hadriana368, edizione aggiornata della celebre collezione Dionysiana369 offerta da papa Adriano I a Carlo Magno nel 774, e divenuta di fatto «il codice dei canoni del regno dei Franchi e di tutta la riforma [carolingia]»370. Fino a questo periodo possiamo notare come nelle fonti conciliari e nelle collezioni canonistiche non ci sia alcun riferimento al diritto romano in materia di responsabilità. Bisogna attendere una raccolta di testi di diritto romano, ma destinati agli ecclesiastici, per rivedere un riferimento alla lex Aquilia. Si tratta della Lex romana canonice compta371, opera anonima risalente alla prima metà del secolo IX e redatta nell’Italia settentrionale, ove circolò fino al XII secolo. Al capitolo 198 di essa ritroviamo il titolo III del libro IV delle Institutiones giustinianee relativo alla lex Aquilia. Cfr. Rubrica L, 2a De homicidis sponte commissis, e Rubrica L, 2b De his, qui non sponte homicidium commiserunt, in H. MORDEK, Kirchenrecht und Reform in Frenkreich: Die Collectio “Vetus Gallica”, die älteste systematische Kanonensammlung des frankischen Galliens, cit., p. 567. 365 B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 102. 366 L’edizione, peraltro monumentale, è di G. MARTÍNEZ DÍEZ, La colección canónica Hispana, vol. I-II, Madrid, 1966-1976; G. MARTÍNEZ DÍEZ-F. RODRÍGUEZ, La colección canónica Hispana, vol. III-IV, Madrid, 1982-1984. 367 G. MARTÍNEZ DÍEZ-F. RODRÍGUEZ, La colección canónica Hispana, vol. III, Concilios griegos y africanos, Madrid, 1982, pp. 101-102. 368 Per gli studi cfr. J. GAUDEMET, Le sources du droit canonique. VIIIe-XXe siècle, Paris, 1993, p. 26. L’edizione da noi utilizzata è tratta da PL, vol. 67, Lutetiae Parisiorum, 1848, coll. 135-230. 369 È la celebre opera di Dionigi il piccolo che, così come è oggi da noi conosciuta, risulta costituita dall’unione di due collezioni: il Liber Canonum ed il Liber Decretalium, opere originarie e distinte di Dionigi. Sul punto si veda B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp. 87-90. 370 Così B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 122. Per i riferimenti all’omicidio volontario e involontario cfr. § 41-42, in PL, vol. 67, cit., col. 156. 371 Per l’edizione si veda C. G. MOR, Lex romana canonice compta, testo di leggi romano-canoniche del secolo IX, Pavia, 1927. 364 88 Tuttavia questa raccolta romanistica esercitò un influsso limitato sulle collezioni canoniche coeve o successive372. L’unico testo canonistico che si ispira direttamente alla Lex romana canonice compta è la Collectio Anselmo Dedicata373, opera di autore ignoto e dedicata ad Anselmo II arcivescovo di Milano, scritta verso l’anno 882, ad oggi in gran parte inedita. La collezione riprende, nel libro VII, § 30, il capitolo 198 della Lex romana canonice compta dedicato al danno aquiliano374. I due elementi di novitas presentati dalla predetta collezione sono l’ordinamento sistematico e l’inserzione, nel tradizionale schema canonistico, quale si era consolidato nella raccolta pseudoisidoriana, delle lettere di Gregorio Magno e del diritto romano375. Eccetto la parentesi della rievocazione della lex Aquilia nella Collectio Anselmo Dedicata, nelle altre collezioni vi sarà un ritorno ai sopra ricordati canoni dei concili di Worms e Treviri in tema di omicidio. Così accade nei Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis376, sorta di manuale per le visite pastorali (corredato da un questionario al clero e ai laici), opera dell’abate Reginone di Prüm composta intorno al 906 su richiesta di Radboto, vescovo di Treviri377. L’opera riprende infatti la tematica delle due forme di omicidio con un legame particolare tra l’omicidio involontario e la negligenza378. La medesima impostazione si può riscontrare in un altro testo importante, che si inserisce nelle collezioni dell’età della Riforma Pregregoriana: il Decretum Burchardi Wormatiensis379. L’opera, compilata tra l’anno 1008 ed il 1012 da Burcardo vescovo di Worms, è una collezioni metodica ed enciclopedica di grande successo e notevole E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., p. 244. Per le edizioni parziali e gli studi sulla raccolta si veda B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp. 152-153. Cfr. anche J. GAUDEMET, Le sources du droit canonique. VIIIe-XXe siècle, cit., p. 38. 374 C. G. MOR, Lex romana canonice compta, testo di leggi romano-canoniche del secolo IX, cit., p. 26. Il libro VII è dedicato alla trattazione di tematiche attinenti ai laici. Per un quadro d’insieme sulla ripartizione delle materie nell’ Anselmo Dedicata cfr. P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en occident depuis les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, Paris, 1931, p. 236. 375 C. G. MOR, L’età feudale, vol. II, Milano, 1952, p. 428. 376 L’edizione è di F. WASSERCHLEBEN, Reginonis abbatis Prumiensis Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis, Leipzing, 1840. 377 B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp. 149-151. Per approfondamenti P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en occident depuis les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, cit., pp. 244-268. 378 De synodalibus causis, II, 17, De homicidiis non sponte commissis; II, 18, De eadem re, che riprendono rispettivamente il concilio di Worms e quello di Treviri. 379 Per l’edizione si veda PL, vol. 140, Lutetiae Parisiorum, 1853, coll. 537-1058. 372 373 89 prestigio che segna il traguardo finale dell’ideologia della Chiesa carolingia-ottoniana e al contempo è il punto di partenza verso quella gregoriana380. Burcardo dedica l’intero libro VI alla tematica dell’omicidio riprendendo espressamente i canoni dei concilio di Worms e Treviri sull’omicidio volontario ed involontario381. Anche Bonizone di Sutri382 nel libro IX del Liber de vita christiana383, opera scritta tra il 1089 e il 1095384, dedica ampio spazio alla trattazione dell’omicidio volontario385 ed involontario386, mutuando il testo dai relativi canoni dei concili di Ancira ed Elvira, nonché della fattispecie di omicidio commesso «voluntate vel negligentia» dal potatore di alberi387. Nell’opera è altresì inserito un frammento dedicato al danneggiamento dei monasteri, delle chiese e altri luoghi sacri (De his, qui iniuriam inferunt ecclesiis)388. Similmente Ivo vescovo di Chartres389, la cui personalità ed opera sono testimonianze di un convulso crocevia storico per le vicende della Chiesa medievale390, nel libro X del suo Decretum391, composto verso l’anno 1094, tratta De homicidiis variis mantenendo i riferimenti ai citati canoni conciliari di Worms e Treviri392, probabilmente mutuati dal Decretum di Burcardo. 1.2.4) (segue) I libri penitenziali tra responsabilità e ripazione della colpa La necessità di dedicare un’apposita trattazione alle tematiche della responsabilità, imputabilità e riparazione della colpa nei libri penitenziali è suggerita dalla stessa natura di questi importanti testi canonistici. I libri penitenziali infatti sviluppano la teoria della In tal senso B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp.157-159; C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., p. 78. 381 BURCHARDUS WORMATIENSIS, Decretum, VI, 21-22. 382 Sulla figura di Bonizone e sul Liber de vita christiana si veda G. BONI, Matilde di Canossa e i canonisti del suo tempo, in Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, vol. I, Torino, 2011, pp. 79-84, con utili riferimenti alle altre collezioni canoniche gregoriane. 383 L’edizione è stata curata da E. PERELS, Berlin, 1930. 384 B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 176. 385 BONIZO, Liber de vita christiana, IX, 30. 386 BONIZO, Liber de vita christiana, IX, 31. 387 BONIZO, Liber de vita christiana, IX, 34. 388 BONIZO, Liber de vita christiana, X, 30. 389 Per un profilo biografico si veda B. BASDEVANT-GAUDEMET, YVES DE CHARTRES, in P. ARABEYREJ. L. HALPÉRIN-J. KRYNEN (a cura di), Dictionnaire historique des juristes français XIIe-XXe siècle, Paris, 2007, pp. 787-788. 390 In tal senso P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 116-117. 391 L’edizione da noi utilizzata è quella presente in PL, vol. 161, Lutetiae Parisiorum, 1855, coll. 47-1036. 392 IVO CARNOTENSIS, Decretum, X, 150-151. 380 90 responabilità ed imputabilità avviata nella patristica e nelle prime collezioni canonistiche presentando un’interessante applicazione casistica non senza incongruenze o singolarità dovute al peso dei costumi e delle tradizioni dei luoghi di formazione dei testi393. Quanto al genere letterario, i Libri poenitentiales sarebbero indici o tavole o elenchi di vizi con l’indicazione della rispettiva penitenza ecclesiastica da imporre. Essi erano destinati ai sacerdoti per la riconciliazione del penitente e furono concepiti in funzione delle esigenze del peccatore, per cui per ogni peccato viene precisata la penitenza394. Giova ricordare che nella Chiesa dei primi secoli il regime (ordo) della penitenza pubblica seguiva uno schema ben preciso. I penitenti, infatti, costitutivano un coetus fidelium a sé stante, avevano un loro status e addirittura un abito particolare. La modalità di accesso alla penitenza era duplice: si potevano confessare pubblicamente le proprie colpe (petere poenitentiam), oppure si poteva essere chiamati dall’autorità ecclesiastica (quasi sempre il vescovo) a scontare colpe gravi e scandalose, conosciute dalla comunità (accipere poenitentiam). Questa rigorosa procedura penitenziale, che si concludeva con la rimessione dei peccati alla quale si poteva accedere una sola volta dopo il battesimo, era diventata un fatto formale e la maggior parte dei fedeli continuava a vivere secondo le vecchie abitudini395. La pubblicità di siffatta penitenza attiene al processo di riconciliazione e non dunque alla confessione dei peccati. La confessione pubblica dei peccati restò un fatto eccezionale. Sotto l’influsso del monachesimo irlandese la penitenza pubblica inizia a scomparire. Giova ricordare che Irlanda e Inghilterra non conobbero mai la penitenza pubblica come risulta dal Penitenziale di Teodoro vescovo di Canterbury dal 668 al 690396. In epoca carolingia essa permane solamente per le colpe pubbliche. Alla regressione della penitenza pubblica corrisponde lo sviluppo della penitenza privata. L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, in Studi in memoria di Pietro Gismondi, vol. II, Milano, 1991, ora in L. MUSSELLI-E. GRILLO, Matrimonio, trasgressione e responsabilità nei penitenziali. Alle origini del diritto canonico occidentale, cit., p. 43. 394 B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 106. 395 C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 64-65. 396 Poenitentiale Theodori, 1, 13, 4: «reconciliatio ideo in hac provincia publica statuta non est, quia et publica poenitentia statuta non est». Il testo è tratto da F. W. H. WASSERSCHLEBEN, Die Bussordnungen der abendländischen Kirche, Halle, 1851, p. 197. Su Teodoro da Canterbury e la sua epoca si veda G. GARANCINI, Persona, peccato, penitenza. Studi sulla disciplina penitenziale nell’Alto Medio Evo, in RSDI, 47 (1974), pp. 45-47. 393 91 Quest’ultima comportava una confessione segreta seguita di solito da un’assoluzione immediata. Essa imponeva opere penitenziali quali digiuni, preghiere ed elemosine. La rapida diffusione della penitenza privata fu favorita dalla pratica della confessione frequente e dall’ammissione del principio della sua reiterazione. Come efficacemente sottolineato dal Gaudemet, la penitenza «mira al perdono, offrendo il suo aiuto a colui che ha ceduto. Questo perdono esige l’espiazione, il “riscatto” dalla colpa e questo riscatto è “tariffato”, come lo era, nelle leggi secolari dello stesso periodo, il prezzo (“wergeld”) da pagare per ogni infrazione»397. Il sistema delineato dai penitenziali era «debitore in larga parte verso quella cultura barbarica che aveva generato il guidrigildo, anche se allo scopo della soddisfazione e della composizione era almeno uguale quello della ricostruzione – nella sua dignità – dell’uomo e, attraverso esso, dell’intera comunità»398. L’automatismo nella determinazione delle penitenze, tuttavia, non si impose senza reticenze. Infatti la penitenza tariffata venne condannata nel 589 dal can. 11 del concilio di Toledo ( che confermò l’obbligo di seguire la penitenza pubblica), per poi essere approvata dal concilio di Châlon sur Saône nel 644/656, divenendo la regola in epoca carolongia399. La tariffazione non poteva essere lasciata alla valutazione del confessore e venne pertanto fissata nel libri penitenziali i quali per ogni peccato prevedevano un’apposita penitenza. Il contenuto della penitenza da seguire poteva variare dal digiuno alla mortificazione-flagellazione, fino a pratiche a volte amorali o non in sintonia con la visione della Chiesa. Era poi possibile la commutazione, cioè la sostituzione di penitenze leggere per un tempo lungo con penitenze pesanti per un tempo più ridotto, o viceversa. Sussisteva anche la possibilità di “delegare” la penitenza ad un procuratore, J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 308. M. G. FANTINI, La cultura del giurista medievale. Natura , causa, ratio, pref. di G. GARANCINI, Milano, 1998, p. 31. 399 Cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 106. Per approfondimenti si veda il corposo ed accurato studio di O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, in Lex Iustitia Veritas. Per Gaetano Lo Castro. Omaggio degli allievi, Napoli, 2012, pp. 127-129. In merito alla reazione negativa del clero latino della gallia verso la diffurione dei libri penitenziali e della penitenza tariffata cfr. R. SALVARANI, Prassi penitenziali, vita e organizzazione della Chiesa nelle città e nelle campagne, in M. SODI-R. SALVARANI (a cura di), La penitenza tra I e II millennio. Per una comprensione delle origini della Penitenzieria Apostolica, Città del Vaticano, 2012, pp. 53-62. 397 398 92 adeguatamente pagato400. In queste commutazioni, che figuranno nei libri peniteniali unitamente al tariffario delle penitenze, si deve riconoscere – ad avviso di alcuni autori – l’origine delle indulgenze e una delle cause della diffusione della messa privata401. Spesso la penitenza tariffata veniva ad aggiungersi alla composizione legale, come nel caso di tutti i peccati aventi una rilevanza per il foro esterno402. Siffatta idea della penitenza fissata oggettivamente, proporzionata al peccato commesso ed individualizzata, favorisce una concezione della giustizia che passa dal dominio ecclesiastico a quello della società civile403. Potendo il peccatore ricorrere alla penitenza tariffata in ogni occasione di peccato, il penitente, a differenza del passato, non costituisce più un membro dell’ordo poenitentium che pertanto non esiste più. L’attenzione pertanto si pone sulla riparazione della colpa ed eventualmente della compensazione del danno causato, e non dunque sulla figura del peccatore che non indossa più alcun abito specifico né occupa alcun posto speciale nella chiesa. Dalla lettura dei libri poenitentiales risulta prima facie l’anarchia che regna nel sistema delle tariffazioni. Ogni opera mostra l’intera incoerenza del sitema penitenziale tariffato che varia pertanto in base alle tradizioni dei luoghi di formazione dei testi. Aldilà dei difetti e delle caratteristiche di ogni libro penitenziale, rimane il ruolo civilizzatore avuto dai medesimi nell’alto Medioevo404. Ai fini della presente trattazione ciò che merita attenzione sono, invece, alcuni aspetti della responsabilità e imputabilità affrontati in queste importanti opere medievali405. Cfr. J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 309; B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 106. Per approfondimenti si veda C. VOGEL, Composition légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, VIII (1958), pp. 289-318; IX (1959), pp. 1-38; 341-359. 401 In tal senso P. SORCI, Disciplina e prassi penitenziale nei libri liturgici del tempo, in M. SODI-R. SALVARANI (a cura di), La penitenza tra I e II millennio. Per una comprensione delle origini della Penitenzieria Apostolica, cit., p. 165. 402 O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 159. 403 G. PICASSO-G. PIANA-G. MOTTA (a cura di), A pane e acqua: peccati e penitenze nel Medioevo. Il Penitenziale di Burcardo di Worms, Novara, 1986, p. 41. 404 J. LAHACHE, Pénitentiels, in DDC, t. VI, Paris, 1957, col. 1343. 405 Rilevanti sul punto gli studi di L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, cit., pp. 45-50, e di O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 163-167. 400 93 La materia trattata dai penitenziali è eminentemente penale, e comprende più frequentemente i crimini gravi. Eccetto pochissimi casi, rimane indiscusso il carattere personale della responsabilità406. Sarebbe riduttivo però limitare la casistica ai soli crimina senza includere quelle fattispecie corrispondenti ai delicta del diritto romano. Si pensi al caso del potatore di alberi che, «ex incuria vel negligentia», abbia danneggiato o ucciso un uomo407. Ricorrono altresì i principi, già presenti nella tradizione anteriore, della maggiore responsabilità di chi rivesta particolari dignità nella Chiesa, nonché quello della proporzione tra colpa e pena («diversitas culparum diversitatem facit poenitentiarium») e del carattere medicinale408 della pena stessa («ita igitur etiam spirituales medici diversis curationis generibus animarum vulnera, morbos, culpas, dolores, aegretudines, infirmitates sanare debent»)409. Quanto al ruolo della volontà dell’agente, si tratta di uno dei tratti più caratteristici dei penitenziali che, a partire da quello attribuito a Finniano di Clonard410, prevedono una graduazione della pena distinguendo, per quanto riguarda l’omicidio, tra quello premeditato («ex odii meditatione») e quello compiuto invece in un improvviso raptus d’ira («iracundia subita, instinctu diaboli» o altre espressioni). L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, cit., p. 44, nt. 2, individua in Judicium Culparum aut Canones Wallici, XII (15), l’unico esempio di coinvolgimento degli stretti congiunti nella responsabilità dell’omicida. Si tratta di un penitenziale bretone appartenente al primo periodo di sviluppo dei libri penitenziali (cioè dalle origini alla metà del secolo VII). Cfr. sul punto B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 108, in cui non è indicata tra le edizioni del testo quella contenuta in P. CIPROTTI, Penitenziali anteriori al sec. VII, Milano, 1966, opera che viene però citata dal Ferme nella bibliografia generale sui penitenziali (p. 107). 407 BURCHARDUS WORMATIENSIS, Decretum, XIX, 22. Il libro XIX, dedicato alla materia penitenziale, è considerato come l’ultimo di questo genere letterario, ed è noto anche con il titolo di Corrector sive medicus. Cfr. P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en occident depuis les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, cit., pp. 369;414, e O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 146. 408 Sul passaggio dal confessore-medico al confessore giudice cfr. R. RUSCONI, Ordini medievali del peccato. La penitenza tra confessione e tribunale, in M. BORSARI-D. FRANCESCONI, Peccato e pena. Responsabilità degli uomini e castigo divino nelle religioni dell’Occidente, cit., pp. 118-122. 409 Così il prologo del cd. Penitenziale B attribuito a San Colombano (in P. CIPROTTI, Penitenziali anteriori al sec. VII, cit., p. 32). Per le edizioni e gli studi sul penitenziale colombaniano si vedano C. VOGEL, Les «Libri Paenitentiales», (Typologie des sources du Moye Âge occidental, fasc. 27), a cura di A. J. FRANTZEN, Turnhout, 1985, p. 23, e B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp. 109-110. 410 Il Paenitentiale Vinniani è considerato il primo vero libro penitenziale dell’Irlanda. È attribuito a Finniano di Clonard († 549 circa) ma potrebbe essere anche un altro Finniano, di Molville o MagBile. Cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 109. 406 94 Non è da trascurare poi la questione dell’imputabilità degli atti interni. I penitenziali infatti accolgono infatti l’idea affermata, dai Vangeli in poi, dell’imputabilità degli atti interni precisando, tuttavia, che pur non mutando la natura del peccato per il suo estrinsecarsi o meno all’esterno, non necessarimente uguale debba essere la sanzione del medesimo. Il penitenziale di Finniano afferma a tal proposito che «in corde et non in corpore unum est peccatum sed non eadem poenitentia»411. La configurazione del concetto di tentativo è ancora allo stato embrionale ma occorre dire che, a differenza del diritto laico coevo in cui non sono punibili le volizioni interne, nei penitenziali l’intentio, la voluntas peccandi e la cogitatio peccati sono elementi rilevanti, cosicchè l’individuo viene reputato imputabile per il solo fatto di essersi psicologicamente convinto ad operare l’infrazione, senza alcun bisogno di atti esterni412. Si tratta di un aspetto di notevole importanza per la distinzione tra foro interno e foro esterno, e di conseguenza tra l’ordinamento canonico e quello secolare413. Riveste particolare importanza, ai fini della presente trattazione, un’ulteriore caratteristica dei libri penitenziali rappresentata dall’obbligazione, imposta al penitente, di riparare i danni causati. Siamo ancora ai primordi di un principio generale di riparare il danno ingiusto: quello che interessa sottolineare è il fatto che la penitenza tariffata attiene al foro interno, mentre l’obbligo di riparare i danni viene imposto spesso sul piano del foro esterno perché si trattarebbe di un’esigenza di giustizia414. La riparazione assume nei penitenziali una duplice forma. Nel caso di omicidio il colpevole si sostituisce alla vittima per compensare la perdita subita dalla famiglia. Nell’evenienza di lesioni, essa cosiste invece in un risarcimento che, in caso di impossibilità, può tramutarsi in un aiuto materiale da parte del reus gestendo l’attività Paenitentiale Finniani, XVII (in L. BIELER, Irish Penitentials, Dublin, 1963, p. 78. In tal senso L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, cit., pp. 46; 50-51. 413 Insiste su questo aspetto O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 163-164. 414 È questo l’aspetto su cui insisteranno i teologi ed i canonisti del periodo classico con la riflessione sulla restitutio. Cfr. O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., pp. 148-151. 411 412 95 dell’offeso oppure pagando le spese mediche415. Alla riparazione in natura si aggiunge anche la modalità del risarcimento per equivalente. In siffatto clima comincia ad essere sempre più frequente, nei casi di impossibilità di attuare la reparatio, il riscatto penitenziale per commutazione416. Esso implica ad esempio la sostituzione di un periodo di digiuno più lungo con uno più corto. In virtù della soddisfazione vicaria invece una terza persona può sostituire il penitente417. Altre volte è lo stesso penitente ad offrire un quantità di denaro come equivalente della penitenza imposta. La pratica del riscatto penitenziale avvia ovviamente il declino della penitenza tariffata svuotata dei suoi contenuti proprio per le tecniche di commutazione. Nella procedura penitenziale comincia pertanto a trionfare gradualmente la confessione dei peccati. A partire dal IX secolo dottrina e legislazione erano quasi unanimi nel considerare obbligatoria la confessione dei peccati gravi («semel in anno») e nel consigliare la confessione dei peccati veniali. L’XI secolo riprende questa disciplina, in particolare l’analisi di Rabano Mauro. La dottrina vede nella confessione dei peccati la parte fondamentale della penitenza, l’elemento essenziale per l’espiazione dei medesimi418. La remissione dei peccati sarà fondata sulla confessione, la quale, diventando la condizione per il perdono, trionferà sulla stessa satisfactio dovuta alla vittima segnando il declino del sistema della riparazione419. Il cambiamento di prospettiva si comprende per l’erubescentia che provoca la confessione dei peccati nel corpo e nell’anima del penitente, erubescentia che diventa la penitenza per eccellenza. O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 165, con riferimenti al Penitenziale di san Colombano ed a quello di Beda. 416 C. VOGEL, Composition légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, VIII (1958), pp. 299-318. 417 Sulla soddisfazione vicaria, nota come commutazione per terza persona, cfr. C. VOGEL, Composition légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, IX (1959), pp. 34-37. 418 J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 621. 419 In tal senso O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 165-167. 415 96 Al ruolo sempre minore della satisfactio giustificato dall’addolcimento della penitenza tariffata corrisponde il trionfo della confessione, ed in siffatto contesto agli antichi libri penitenziali subentreranno le somme dei confessori420. 2) Tra diritto romano volgare e diritto germanico. Nonostante il rapido declino dell’insegnamento giuridico nella parte occidentale dell’Impero, il diritto romano era sopravvissuto anche grazie alle leggi dei regni romano-barbarici redatte a partire dalla seconda metà del V secolo. Ispirandosi alle fonti romane classiche, il diritto volgare e le prime leggi delle popolazioni barbariche mantennero, non senza qualche rilevante modifica, la sistematica e le nozioni tradizionali anche nella materia del danno extracontrattuale. Valga come esempio la Lex Romana Wisigothorum (risalente al 506), meglio nota come Breviario d’Alarico421, che nell’Occidente franco-iberico integrò la preesistente Lex Visigothorum, di qualche decennio più giovane422. È nel Breviario d’Alarico che confluiscono423 infatti quegli estratti delle Sententiae di Paolo e delle Interpretationes Pauli nei quali è ravvisabile l’alterazione della classificazione crimina/delicta424, nonchè la differenza tra crimen e negligentia425. Altra classificazione che subisce deformazioni è quella relativa a contractus/delictum come fonte delle obbligazioni. Nell’Epitome di Gaio (2, 9, pr.) il sostantivo delictum è sostituito da culpa («omnes obligationes aut ex contractu Sulla differenza tra i libri penitenziali e le Summae poenitentiales, seu confessorum, nonché i semplici elenchi di peccati presenti già in Agostino e Cesario di Arles, ed i canoni penitenziali dei concili dell’antichità cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 107. Sulla portata antropologica della penitenza nelle varie fasi storiche si veda P. LEGENDRE, Aux sources de la culture occidentale: L’ancien droit de la pénitence, in La cultura antica nell’Occidente Latino dal VII all’XI secolo, (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XXII, Spoleto, 18-24 aprile 1974), Spoleto, 1975, pp. 575-595. 421 È un’opera compilatoria che compendia, delle leges, circa un sesto delle costituzioni contenute nel codice Teodosiano e alcune novelle post-teodosiane, mentre degli iura, essa riassume il Liber Gai, alcuni estratti delle Sententiae di Paolo e dei codici Gregoriano ed Ermogeniano (questi, pur contendo leges, venivano classificati tra gli iura dal momento che erano opera di privati), ed infine un frammento dei Libri responsorum di Papiniano. 422 Cfr. E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., pp. 55-64. 423 Sul punto si veda la preziosa indagine di O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgarofranc, cit., pp. 167-174. 424 Paul. Sent. 5, 20, 6. 425 Int. ad Paul. Sent. 5, 3, 6. 420 97 nascuntur, aut ex culpa»), ma si tratta di una scelta non definitiva giacchè lo stesso redattore subito dopo (2, 9, 1) parla di obbligazioni «quae ex delicto nascuntur». Analogo snaturamento subisce l’incendio per caso fortuito, considerato non più delitto ma damnum datum che implica il risarcimento426. L’alterazione degli istituti classici conosce un altro esempio sempre nelle Interpretationes Pauli che sembrerebbero distinguere tra damnmum dare ed iniuriam facere427. Nell’area dominata dai Franchi, in cui la conversione al cattolicesimo rinsaldò i vincoli tra la popolazione gallo-romana ed i Franchi, la cultura latina fu conservata a opera degli ambienti ecclesiastici ma rimasero dei filoni culturali di impronta germanica. Tra questi occorre menzionare il complesso normativo franco in cui spicca sicuramente la legge Salica (Pactus legis Salicae). Siffatta legge presentava una serie di capitoli dedicati alle compositiones cioè le pene pecuniarie per i reati utilizzate dai popoli germanici al fine di placare i danneggiati ed evitare le vendette o faide428. In essa emerge il carattere oggettivo della responsabiltà che tuttavia risulta sfumata in determinati casi in cui l’intenzione costituisce condizione dell’incriminazione429. Nel diritto germanico più antico dominava comunque una concezione unitaria e generica di fatto o atto illecito che si concretizzava in un tortum vale a dire «ogni lesione giuridica idonea a legittimare reazioni di autotutela, dirette a conseguire la riparazione del danno imputabile all’offensore, senza chiara distinzione tra illecito penale e illecito civile,, né tra le diverse forme di quest’ultimo, in rapporto alla natura del diritto leso»430 e si basava «esclusivamente sul risultato esteriore dell’azione criminosa, sul danno che essa ha visibilmente prodotto: l’azione antigiuridica si Paul. Sent. 5, 20, 3. Int. ad Paul. Sent. 2, 31, 23. 428 Cfr. G. SALVIOLI-G DE VERGOTTINI, Composizioni (Sistema delle), in NSSDI, vol. III, Torino, 1959, pp. 779-781. 429 Si veda O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 178-181. L’autore approfondisce anche gli aspetti del danno extracontrattuale nei capitolari carolingi. 430 G. ASTUTI, Obbligazioni (diritto intermedio), in ED, v. XXIX, Milano, 1979, p. 80. 426 427 98 identifica con l’evento dannoso»431, restando del tutto irrilevante il presupposto soggettivo della responsabilità nella totale indistinzione tra risarcimento e pena432. La compositio (vale a dire il versamento di una somma di denaro alla parte offesa a scopo di pacificazione)433 e il guidrigildo (sorta di pena pecuniaria diretta a compensare le offese o danni arrecati ad un uomo libero, incluso l’omicidio)434, difatti, tendevano ad ottenere e ad assicurare il risarcimento del danno oggettivamente provocato435, non rilevando il fatto che esso fosse derivato dall’inadempimento contrattuale ovvero dal delitto436, né il fatto che nel debitore ricorresse o meno la colpa437. Già Francesco Calasso aveva notato che l’ordinamento germanico arcaico, non sollecitato da motivi etici, ma esclusivamente preoccupato di ristabilire la pace tra gruppi parentali nemici, guardò il fatto illecito nella sua materialità, allo scopo di valutare il danno economico arrecato dall’offensore all’offeso e di imporre obbligatoriamente la compositio in misura sempre più larga e conveniente438. L’elemento intenzionale iniziò ad emergere anche nella mentalità del legislatore longobardo, «in una più spiritualizzata configurazione del comportamento umano e della responsabiltà»439. Ciò risulta, ad esempio, nell’Editto di Rotari, risalente all’anno 643 d.C.440, il quale offre una minuziosa casistica di fatti illeciti441, tipica espressione di uno scarso grado di A. CAVANNA, La civiltà giuridica longobarda, in AA.VV., I Longobardi e la Lombardia, Milano, 1978, pp. 27 ss. 432 Sulla concezione oggettiva germanica G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1101. 433 È stato autorevolmente segnalato da G. DIURNI, Pena privata (diritto intermedio), ED, v. XXXII, Milano, 1982, pp. 742; 745, che l’eliminazione degli stati di faida derivanti dall’esercizio della vendetta privata tra i gruppi parentali intervenne in epoca successiva con il rafforzarsi del pubblico potere che legittimò lo strumento della compositio (pagamento di una somma pecuniaria) con funzione afflittiva (pena privata) e satisfattoria (risarcimento del danno). 434 G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1101, nt. num. 16, ha giustamente sottolineato che il guidrigildo è «espressione della mancanza di spiritualizzazione che contrassegna la rappresentazione longobarda della persona umana». 435 F. SCHUPFER, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, v. III, Il diritto delle obbligazioni, Città di Castello-Roma, 1909, p. 25, evidenzia la necessità e sufficienza dell’accertamento del nesso di causalità. 436 «In hac lege “debitor” accipitur tam de maleficio quam de contractu» (Expositio ad Roth. 245). 437 G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1101-1102; P. RASI, L’“actio legis Aquiliae” e la responsabilità extracontrattuale nella “Glossa”, in G. ROSSI (a cura di), Atti del Convegno internazionale di Studi Accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), vol. II, Milano, 1968, p. 726. 438 F. CALASSO, Il negozio giuridico. Lezioni di storia del diritto italiano, II ed., Milano, 1967, p. 116. 439 Così G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1102. 440 Sul piccolo codice longobardo si veda F. CALASSO, Medio Evo del diritto, I, (Le fonti), Milano, 1954, pp. 106-108. 431 99 astrazione, in cui più volte è preso in considerazione l’elemento psichico, anche se diversa è poi la sua incidenza nell’affermazione e nella graduazione della responsabilità. L’attenzione rivolta dal legislatore longobardo all’intenzione dell’agente è dunque un chiaro segnale di come egli si sia allontanato dall’arcaicizzante mentalità barbarica. 3) L’età dei Comuni Nell’età dei Comuni l’impostazione germanica verrà recepita nella legislazione statutaria442 che sovente contemplò fattispecie di responsabilità improntate letteralmente al modello oggettivo. Si pensi alla disciplina statutaria del «danno dato» che costituì fraquentemente un apposito libro degli stessi statuti, oppure semplicemente una rubrica od un capitolo, la quale si caratterizza per la scarsa sensibilità mostrata verso l’elemento soggettivo. La figura del danno dato si pone in una posizione intermedia tra l’illecito civile e quello penale, comprendendo varie fattispecie, oggi tenute separate dal diritto vigente, come il danneggiamento vero e proprio, la turbativa del possesso, lo spigolamento avusivo, l’appropriazione indebita, l’introduzione di animali nel fondo altrui, il pascolo abusivo e l’uccisione o danneggiamento di animali altrui443. Altra disposizione che si rinviene, senza eccezioni territoriali, nella legislazione statutaria è quella relativa alla responsabilità collettiva per danni clandestinamente arrecati, «i cui addentellati con il diritto germanico sono piuttosto evidenti, anche se il principio di solidarietà, che ne è alla base, è ora diversamente sentito, in quanto esso riposa non già su vincoli di sangue e di parentela come nell’età longobarda, quanto piuttosto su vincoli che scaturiscono da quei comuni interessi, economici o di difesa, che legano gli individui dimoranti in uno stesso luogo e costituenti una comunità»444. La giurisprudenza dottrinale cercò di reinterpretare in termini soggettivi le fattispecie statutarie improntate su un modello oggettivo di responsabilità, segnalando Se ne veda un’ampia rassegna in G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1102-1105. 442 Per una dettagliata rassegna di previsioni statutarie G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1106-1118. 443 Sul punto si veda l’ampia ricerca di A. DANI, Il processo per danni dati nello Stato della Chiesa (secoli XVI-XVIII), Bologna, 2006, pp. 45 ss. 444 Così G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1109-1110. 441 100 l’ingiustizia e il carattere retrogrado del fondamento meramente causale che apparve ai giuristi iniquo ed odioso. Siffatto sistema basato sulla legislazione statutaria venne, col trascorrere del tempo, a stemperarsi fino a scomparire quando al concetto di pena privata si sostituì quello di pena pubblica, cioè quando la pena, come sanzione afflittiva esclusivamente pubblica, venne rigorosamente distinta dal risarcimento, inteso come reintegrazione economica e quindi satisfattiva del torto subito. Conclusioni Si è soliti dire che solamente nell’Età di mezzo, iniziò nuovamente e faticosamente il percorso evolutivo di emancipazione della responsabilità civile da quella penale e di generalizzazione del criterio di imputazione fondato sulla colpa, un percorso già intrapreso, più o meno consapevolmente, dai giuristi romani, che fu interrotto dalle invasioni barbariche445. La disamina, nei paragrafi precedenti, dell’eredità patristica e canonistica e quella del diritto volgare e della legislazione barbarica ha mostrato, invece, come questa cesura non sia stata proprio netta ed assoluta, grazie ai rilevanti contributi apportati da entrambi le correnti menzionate. La patristica, e la canonistica ante Gratianum, hanno influenzato notevolmente la materia della responsabilità extracontrattuale in merito al carattere soggettivo della medesima, grazie al valore attribuito alla volontà sia per quanto riguarda la colpa sia per la riparazione del danno causato. Per contro la corrente del diritto volgare e del diritto germanico hanno esercitato un altrettanto consistente influsso nella materia de qua giacchè fino all’età dei comuni rimarranno numerosi casi di responsabilità oggettiva, soprattutto nell’ambito degli iura Secondo P. CERAMI, La responsabilità extracontrattuale dalla compilazione di Giustiniano ad Ugo Grozio, cit., pp. 107 ss., lo sviluppo storico della dottrina della responsabilità extracontrattuale durante il diritto intermedio fu caratterizzato a) dalla marginalizzazione della natura penale dell’actio legis Aquiliae con la correlativa generalizzazione della sua funzione risarcitoria, b) dal ridimensionamento della tipicità del danno aquiliano con la conseguente configurazione dell’actio legis Aquiliae come azione generale per ottenere la damni culpa dati reparatio, c) dalla configurazione della culpa come indeclinabile presupposto soggettivo sia della responsabilità aquiliana per fatto proprio che di quella per fatto altrui. 445 101 propria, che testimoniano l’influenza della tradizione germanica e del modello di responsabilità ex effectu446. Come efficacemente notato dal Massetto, la Chiesa, anche con riferimento alla materia della responsabilità extracontrattuale in siffatto periodo, «appare esercitare la funzione con la quale incise, più in generale, sul terreno della civiltà, una funzione intermediatrice tra la cultura latina e il mondo barbarico e, nel contempo, missionaria in termini di cristianizzazione e di romanizzazione»447. Per mezzo dei penitenziali la Chiesa impregnò tutta la società della propria morale subendo al contempo l’influsso del sistema delle composizioni germaniche con riferimento alla penitenza tariffata448, in una materia che – come sottolineava Francesco Calasso - «parrebbe estranea agli interessi giuridici, e invece, si inserisce in pieno, con l’idea che la domina, del delitto come peccato e della pena come penitenza […]»449. Dalla lettura dei penitenziali emerge che il motivo di fondo della penitenza non fu tanto «la legge da restituire alla sua pienezza, alla sua “dignità”, la norma da osservare, quanto piuttosto la persona da ricostruire, l’equilibrio della vita da ristabilire»450. Lo studio dell’influenza del cristianesimo sul diritto della responsabilità, specie con riferimento ai penitenziali, presenta un ulteriore elemento di complessità costituito dal campo di applicazione delle pene. Vogliamo alludere al complesso problema della distinzione tra foro interno e foro esterno che, per i primi secoli nella storia della Chiesa, non era così netta e chiara come lo è oggi451. Si veda O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 190-191. 447 G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1105. 448 Un siffatto influsso non consiste nella replica pedissequa delle composizioni legali germaniche da parte delle tassazioni presenti nei penitenziali, posizione sostenuta invece da una parte della storiografia. Contro questa impostazione si vedano le giustamente note riflessioni di C. VOGEL, Composition légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, VIII (1958), pp. 294-295. 449 F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., 176. 450 Così G. GARANCINI, Persona, peccato, penitenza. Studi sulla disciplina penitenziale nell’Alto Medio Evo, cit., p. 35. In tal senso anche le pp. 25; 42-43. 451 Sulla distinzione si veda F. SALERNO, Foro canonico, in ED, vol. XVIII, Milano, 1969, pp. 1-4. Per approfondimenti risulta imprescindibile la lettura del celebre studio di G. SARACENI, Riflessioni sul foro interno nel quadro generale della giurisdizione della Chiesa, Padova, 1961. Utili riferimenti si rinvengono anche in M. VENTURA, La precettibilità degli atti interni in Pietro Agostino d’Avack, in J. I. ARRIETA-G. P. MILANO (a cura di), Metodo, fonti e soggetti del diritto canonico, Città del Vaticano, 1999, pp. 354-366, con particolare riferimento al dibattito nella scienza canonistica italiana del Novecento . 446 102 La confusione dei fori fu certamente favorita452 dall’Episcopalis Audentia, istituto voluto da Costantino nel 318 con cui fu riconosciuta la giurisdizione episcopale in materia secolare453, in seguito «giudicata eccessiva, sia nell’ambito del mondo laico, perché poteva esautorare la giurisdizione civile, sia da parte dei vescovi stessi che non volevano alimentare possibili oneri che in concreto li allontanassero dalla missione pastorale»454. Non si dimentichi che l’audentia episcopalis fu una giurisdizione concordemente elettiva, concorrente e aggiuntiva rispetto a quella (secolare) dell’Impero, alla quale tutti, laici ed ecclesiastici, potevano ricorrere e che, pertanto, non va confusa con il privilegium fori che invece importava la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici relativamente a controversie, normalmente attribuite alla ordinaria giurisdizione secolare, che coinvolgessero ecclesiastici o religiosi455. Solamente a partire dal secolo IX si può distinguere tra le materie rientranti nell’ordinaria annuale inquisizione vescovile (attraverso la quale la Chiesa estese la sua cognizione anche a materie latamente connesse con la religione e la morale), da quelle che viceversa venivano condotte per volontà delle parti al vescovo in alternativa al giudice secolare456. In tal senso J. GAUDEMET, L’Église dans l’Empire romain (IV-Ve siècles), Paris, 1958, p. 232, cui aderisce O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 143. 453 Per una ricostruzione storica cfr. J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., pp. 1332-135. G. L. FALCHI, La diffusione della legislazione imperiale ecclesiastica nei secoli IV e V, in J. GAUDEMETP. SINISCALCO-G.L. FALCHI, Legislazione imperiale e religione nel IV secolo, Roma, 2000, pp. 150-151, precisa che: «qualora si trattasse di controversie pertinenti il diritto privato, quello romano sarebbe stato applicato temperato dai principi che discendevano dall’ordinamento canonico (in primo luogo dalle regole evangeliche e dall’aequitas christiana) ovvero disapplicato se in contrato con essi. Diverso fu l’atteggiamento imperiale dopo la proclamazione della confessionalità dello Stato. La episcopalis audentia fu allora subordinata da Arcadio e onorio alla comune richiesta delle parti. Tale orientamento venne confermato in Oriente da Giustiniano, il quale stabilì l’appellabilità della decisione vescovile avanti il magistrato secolare. Diversa fu la tradizione occidentale, ove la tendenza affermata da Arcadio e onorio fu dapprima consolidata da Valentininano III, ma abolita da Maiorino […]. In Occidente pertanto prevalse, anche dopo la caduta dell’Impero, la prospettiva costantiniana. Nell’Alto Medioevo si diffuse sempre e solo tale orientamento, che presso i popoli germanici fondatori dei nuovi Stati era giustificato dal fatto di riflettere una consolidata consuetudine della popolazione romanizzata» . Si vedano altresì le riflessioni di E. DOVERE, “Auctoritas” episcopale e pubbliche funzioni (secc. IV-VI), in Studi sull’Oriente Cristiano, 5 (2001), 2, pp. 25-41. 454 A. CAMPITELLI, Accertamento e tutela dei diritti nei territori italiani nell’età medievale, pref. di N. PICARDI, Torino, 1999, p. 30. 455 In tal senso si veda E. FRANCIOSI, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di giustiniano. Studi su Nov. 13 e Nov. 80, Milano 1998, passim, e, più di recente, S. PULIATTI, L’organizzazione della giustizia dal V al IX secolo, in J. H. A. LOKIN-B. H. STOLTE (a cura di), Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, Pavia, 2011, p. 440. 456 Sul punto risulta fondamentale l’ampia indagine di G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, Roma, 1998, pp. 155-182. 452 103 Nelle prime, stando ai Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis di Reginone di Prüm, figurano ad esempio l’omicidio, l’iniuria romanistica (cioè atti di diversa natura commessi contro l’integrità fisica e morale di un essere umano), il furto ecc. Quanto alle seconde, si tratta di materie secolari pertinenti allo ius privatum (contratti, successioni, donazioni, manomissioni ecc.) che rientravano nella giurisdizione ecclesiastica concorrente con quella secolare (episcopalis audentia). Esse furono recepite dalle Decretali dello Pseudoisidoro, dai Capitolari di Benedetto Levita e successivamente da Ivo di Chartres. Fu proprio Ivo vescovo di Chartres ad accogliere nel suo Decretum due frammenti delle Sententiae Pauli457 relativi al danno cagionato da animali distinguendo tra i danni causati da animali domestici, secondo natura, che generano per il dominus o per chi li abbia in custodia l’obbligo di risarcire il danno o di cedere l’animale stesso al danneggiato458, e danni cagionati da bestie selvagge o contro la natura dell’animale che invece non implicano responsabilità459. La conservazione dei testi giuridici romani nelle raccolte canoniche è giustificato dalla esigenza pratica di apprestare, per gli organi giudicanti della Chiesa, un deposito di materiali giuridici ai quali attingere per i propri giudizi460. Marginale sarà invece la recezione di questo materiale giusprivatistico romano nel Decreto di Graziano. La Concordia discordantium canonum appartiene al Rinascimento giuridico461, epoca che si apre, all’incirca, alla fine del secolo XI, in cui verranno riscoperte le fonti giustinianee, le quali, «sottoposte a fine esegesi, offrono ai glossatori civilisti […] l’opportunità di elaborare una teorica della responsabilità che, fondata sulla Paul. Sent. 1, 14, 1; 3. IVO CARNOTENSIS, Decretum, 16, 253:«Si alienum animal cuiquam damnum intulerit, aut alicujus fructus laeserit, dominus ejus aut aestimationem damni reddat, aut ipsum animal tradat; quod etiam de cane similiter est statutum». 459 IVO CARNOTENSIS, Decretum, 16, 254: «Ei qui irritatu suo feram bestiam vel quamcumque aliam quadrupedem in se irritaverit, eaque damnum dederit, neque in ejus dominum, neque in custodem actio datur». 460 In tal senso G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, cit., p. 170. 461 Per una critica di siffatta denominazione (risalente al grande storico del diritto Francesco Calassso), che recherebbe in sé il rischio di separare qualitativamente i due momenti (dell’unitaria civiltà giuridica medievale) prima o dopo l’XI secolo, si veda P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 28-29. La posizione di Grossi è stata di recente messa in discussione da M. BELLOMO, Elogio delle regole. Crisi sociali e scienza del diritto alle origini dell’Europa moderna, pref. di P. BARCELLONA, Leonforte, 2012, pp. 54-55, il quale preferisce parlare di “doppio medioevo”. 457 458 104 tripartizione della colpa in tre specie, costituirà ancora nel secolo XVIII solido punto di riferimento per la configurazione dell’elemento soggettivo in ordine all’illecito civile»462. I giuristi di siffatta rinascita giuridica avranno un ruolo di primaria importanza nel plurisecolare processo che condusse a configurare il diritto al risarcimento come diritto contemplato e disciplinato da norme del diritto civile in modo del tutto autonomo rispetto a quelle contenenti la sanzione penale. La linfa vitale per questa configurazione sarà costituita dalla lex Aquilia (trasmessa dal riscoperto diritto romano di Giustiniano), e non già dalla legislazione statutaria. Nel predetto plurisecolare processo, sfociante nella creazione di una generale azione di natura civilistica, capace di assicurare il risarcimento del danno conseguente all’illecito, altrettanto ruolo di primo piano avrà la scienza del diritto canonico, una scienza che non perderà mai di vista le fonti romane, al pari della canonistica del primo millennio, ma che apporterà alcuni suoi originali contributi alla dogmatica del risarcimento del danno extracontrattuale463. G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1106. È stato merito del Rotondi riportare l’attenzione sul ruolo delle influenze canonistiche in tema di risarcimento del danno aquiliano (cfr. G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), pp. 236-295, in part. pp. 237-238). Sul celebre romanista, prematuramente scomparso a soli 33 anni, si veda V. MAROTTA, Rotondi, Giovanni Giosafatte, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1745-1747. 462 463 105 CAPITOLO TERZO LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE NEL DIRITTO CANONICO CLASSICO E POSTCLASSICO Introduzione Nella storia dell’Occidente la fine dell’XI secolo rappresenta una svolta epocale464. Si apre un nuovo ciclo vitale per l’Europa romano-cristiana in cui l’Italia, e Bologna in particolare, diventa il centro culturale più attivo e la meta agognata da schiere di studenti desiderosi di apprendere lo ius dalla viva voce dei maestri. È l’epoca definita, a torto o a ragione, del «rinascimento giuridico» (o «rinascimento medievale»)465, un’epoca che, quasi segnando un’impercettibile cesura col passato466, ha permesso a qualcuno di parlare di un «doppio medioevo»467. Le vedute degli storici del diritto rimangono a tutt’oggi diverse. A chi evidenzia il rischio che comporta la divisione dell’(unitaria) esperienza giuridica medievale in due momenti, frutto di una «valutazione manichea» nella lettura della storia giuridica468, si contrappone chi ribadisce l’idea di un’età nuova, di una svolta, di un nuovo medioevo a partire dal secolo XI469. Si veda E. GARIN, L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI secolo, Napoli, 1969. F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., pp. 345-365; ID., Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, II ed., rist., Milano, 1965, pp. 36-39; E. CORTESE, Il rinascimento giuridico medievale, Roma, 1992. 466 Notava F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., pp. 345-346: «Storicamente, l’aprirsi di un’epoca nuova della vita di un popolo non deve concepirsi come il crollo improvviso di un mondo e l’immediato emergere di un ordine di cose nuovissimo. Queste drammatiche rappresentazioni di alcuni momenti particolarmente intensi della vita dei popoli non hanno appoggio nelle fonti, le quali provano piuttosto una continuità che fluisce senza soluzioni, anche se turbata da svolte e sussulti, talvolta violenti, che all’osservatore lontano nel tempo possono dare l’impressione di una fine o di un ricominciamento, e talvolta persino di un ritorno. In realtà, sono visioni storiche deviate dalla sopravvalutazione di alcuni elementi, che genera a sua volta fatali errori di prospettiva e pone quesiti di impossibile soluzione». 467 M. BELLOMO, Il doppio medioevo, Roma, 2011. 468 In tal senso P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 28-29. 469 Si veda M. BELLOMO, Elogio delle regole. Crisi sociali e scienza del diritto alle origini dell’Europa moderna, cit., pp. 54-55, il quale sottolinea che in quest’epoca «al villaggio rupestre e all’abitazione di legno e fango si sostituiscono la città organizzata e la casa in muratura; al posto delle tecniche e degli attrezzi agricoli tradizionali si avviano innovative esperienze; alle chiese dei monasteri disseminati e isolati nelle campagne o rinserrate in grotte poco accessibili si contrappongono le sontuose cattedrali cittadine; dal latino ormai corrotto del primo medioevo si generano le nuove lingue europee; figure residenziali di operatori mercantili cittadini si impongono contro i pellegrinanti negotiatores attivi nelle aree agricole e signorili, dalle scuole monastiche, giudicate fucine dell’ozio e corruttrici dei costumi, si passa alle fiorenti scuole cittadine, legate o meno alla sede vescovile». 464 465 106 La riscoperta dei testi giuridici della compilazione di Giustiniano permette un insegnamento autonomo del diritto (sganciato dalle branche del sapere enciclopedico medievale, vale a dire le sette arti liberali del trivium e del quadrivium), compiuto direttamente sui testi genuini e completi, «mettendo da parte epitomi ed estratti di cui l’età precedente si era compiaciuta»470. Le origini di questo nuovo corso rimangono ancora oscure. Stando al racconto di Odofredo, giurista del XIII secolo, il primo maestro di diritto giustinianeo sarebbe stato un certo Pepo o Pepone471, il cui contributo alla rinascita degli studi giuridici resta, comunque, imprecisato472. Rilevante per la rinascita fu invece l’opera di Irnerio473, giurista definito da Odofredo, «lucerna iuris» e «primus illuminator scientiae nostrae». Irnerio concentrò l’analisi esegetica dei testi di diritto esclusivamente sulla monumentale opera di Giustiniano abbandonando le altre raccolte. Il precedente sistema didattico venne accantonato, e fu predisposto un insegnamento in cui il momento della lezione era legato alla forma letteraria dell’esegesi giuridica, in particolare alla glossa474. Nella vecchia storiografia era dominante l’idea dell’improvviso e miracoloso ritrovamento della raccolta del Digesto di Giustiniano nella sua redazione integra. Oggi si ritiene che Irnerio ed i suoi allievi pervennero gradualmente alla ricostruzione dei testi giustinianei475. Il Cortese ha evidenziato altresì che «è proprio in una cornice canonistica, o teologico-canonistica, se si preferisce, che nacque l’insegnamento specifico del diritto romano», (e di ciò ne sarebbe testimone la Collectio britannica476, opera di età gregoriana contenente ben 93 frammenti del Digesto). Tuttavia ciò non vale per Irnerio né per Bologna giacchè «nulla sembra rilevare ch’egli abbia contratto debiti teorici con Così F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 368. E. CORTESE, Pepo, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1532-1533. 472 Si veda M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., p. 286; E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. II, Roma, 1996, pp. 33-45. 473 E. CORTESE, Irnerio, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 1109-113. 474 Per approfondimenti si veda A. ERRERA, Forme letterarie e metodologie didattiche nella scuola bolognese dei glossatori civilisti: tra evoluzione ed innovazione, in F. LIOTTA (a cura di), Studi di storia del diritto medievale e moderno, Bologna, 1999, pp. 33-106. 475 M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., p. 288. Sulla circolazione del Digesto in età preirneriana cfr. E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., pp. 378-385. 476 Cfr. A. FIORI, La Collectio Britannica e la riemersione del Digesto, in RIDC, 9 (1998), pp. 81-121. 470 471 107 i canonisti, dei quali non dimostra nelle glosse di avere divulgato i principi giuridici»477. Nella stessa città di Bologna, nel cuore del secolo XII, il monaco Graziano478 redige un’opera che costituirà il punto di riferimento insostituibile per i canonisti di ogni epoca: la Concordia discordantium canonum, nota in seguito come Decretum. Si tratta di un’opera che raccoglie le fonti più disparate ed eterogenee, comprese fonti laiche come il Codice Teodosiano e la stessa compilazione giustinianea. Essa rappresenta una fase decisiva del processo di consolidazione delle fonti dell’ordinamento canonico del primo millennio479, e, al pari della compilazione di Giustiniano, fu oggetto di analisi esegetica e di insegnamento da parte di maesti designati con l’aggettivo di «decretisti». Successivamente a Graziano, anche le raccolte, private o ufficiali, di decretali pontificie videro rivolta l’attenzione dei canonisti (chiamati pertanto «decretalisti)», i quali sottoposero a fine esegesi (utilizzando essenzialmente la glossa) siffatti testi giuridici. La nascita di un indirizzo scientifico nello studio del diritto, romano e canonico, è uno dei tanti elementi di novitas che si può ravvisare nell’opera avviata da Irnerio e da Graziano. Alla metodologia dei glossatori e dei decretisti e decretalisti, subentrerà poi quella dei commentatori (sia civilisti che canonisti), basata sull’esigenza del sistema e sulla costruzione dogmatica attraverso i vasti commentari ai testi legislativi. Ciò che caratterizza l’esperienza giuridica del «rinascimento medievale» è l’unità del sistema normativo, tematica a cui Francesco Calasso ha dedicato pagine memorabili480 e che si inserisce nell’animato dibattito, ad oggi non sopito, del concetto di ius commune481 nonché dei rapporti tra ius commune e iura propria. Mario Caravale ha ben sintetizzato le conclusioni a cui è giunta la storiografia del XX secolo e degli ultimi anni in merito al concetto di ius commune: E. CORTESE, La “mondanizzazione” del diritto canonico e la genesi della scienza civilistica, in E. DE LEÓN-N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS (a cura di), La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse per un dialogo ecumenico, Milano, 2003, p. 138. 478 Per un ricco profilo bio-bibliografico si veda da ultimo O. CONDORELLI, Graziano, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 1058-1061. 479 C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., p. 95. 480 F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., pp. 469-501. 481 Si veda di recente la ricca sintesi fornita da M. BELLOMO, Ius commune, in DSSRN, vol. II, Bologna, 2010, pp. 1026-1034. Cfr. altresì O. CONDORELLI, “Corpus Iuris Civilis”, in DGDC, vol. II, Cizur Menor, 2012, pp. 765-775, in part. pp. 771-774. 477 108 «il diritto giustinianeo, in virtù dell’autorità che gli veniva riconosciuta dalla dottrina giuridica a motivo della sua natura di diritto dell’Impero, oppure della sua derivazione dalla volontà divina, oppure, ancora, della sua incorporazione in testi di eccezionale rilevanza o, comunque, di stesura tradizionalmente tramandata, venne considerato a partire dagli ultimi secoli del Medioevo diritto comune a tutti i soggetti che vivevano nelle regioni dell’Italia comunale, quanto meno nelle materie per le quali le norme romane erano giudicate ancora utili dai giuristi medievali. Tale autorità del diritto comune era, poi, condivisa dal diritto canonico cui era riconosciuto il compito di disciplinare le materie che la Chiesa rivendicava alla propria competenza. E la funzione del diritto comune era quella di colmare le lacune dei diritti propri, statutari o consuetudinari che fossero, operando rispetto ad essi come diritto sussidiario ed a sua volta risultando da questi integrato e completato»482. Ai fini della presente trattazione, dedicata alla responsabilità extracontrattuale, merita attenzione la posizione del Calasso che, alla base della propria ricostruzione storica sullo ius commune, inserisce, quale premessa prima e fondamentale, la subordinazione di tutto il diritto umano – ecclesiastico (rectius canonico) e civile – al diritto divino, subordinazione che è certamente un aspetto della religiosità medievale ma che va posta sul piano della storia della civiltà483. Il diritto romano, lex mundana per eccellenza, era il diritto che la Chiesa comunque aveva mantenuto in vita contro il dilagare della barbarie, piegandolo alle nuove esigenze della società cristiana484. Ai tria praecepta iuris di Ulpiano questa civiltà cristiana guarda criticamente perché, come afferma, con toni forse abbastanza duri, Calasso: «quanto all’“honeste vivere”, che era dei tre il precetto morale, sappiamo bene come l’ordinamento giuridico non riuscisse a comporre sostanzialmente il dissidio fra l’onesto morale e il lecito giuridico; e d’altra parte, il “suum cuique” e il concetto del “laedere” potevano anche rispondere a una concezione individualistica angusta e scarsamente sociale. Nulla di tutto questo la civiltà cristiana poteva accettare. È uno M. CARAVALE, Alle origini del diritto europeo. Ius commune, droit commun, common law nella dottrina giuridica della prima età moderna, Bologna, 2005, p. 21. 483 F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 470. A questa legittimazione religiosa del diritto comune aderisce P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 229, il quale, pur sempre critico verso alcune teorie di Calasso (ad es. il diritto comune come sistema legislativo e come scienza testuale), afferma: «una legge sola il diritto comune aveva invece al suo fondo come legittimazione ultima e sostanziale, una legge che era – questa sì – atto di volontà suprema: intendiam dire il diritto divino, munito nella società medievale d’una indubbia positività e proveniente dall’unico sovrano che la civiltà medievale riconosce nell’assolutezza potestativa. Solo in questo senso potremmo sottoscrivere anche noi come caratterizzante per il diritto comune la qualificazione di “legislativo”». 484 Sempre utile la lettura di P. LEGENDRE, La pénétration du droit romain dans le droit canonique classique de Gratien a Innocent IV (1140-1254), Paris, 1964, in part. pp. 17-24. 482 109 solo il precetto, secondo essa, al quale ogni genere di norme, siano religiose o morali o giuridiche, debbono obbedire; ed è quello evangelico che Graziano formula sulle soglie dell’opera sua: “quo quisque iubetur alii facere, quod sibi vult fieri, et prohibetur alii inferre, quod sibi nolit fieri”»485. È anche nel solco di questa rilettura, in termini cristiani, dell’«alterum non laedere», e dei restanti due principi, che si inserisce buona parte della riflessione medievale, civilistica e canonistica, sulla responsabilità extracontrattuale, partendo sempre dal dato testuale della compilazione giustinianea che aveva trasmesso la disciplina del damnum iniuria datum, la quale presenteva, rispetto all’originario regime della lex Aquilia, profonde modificazioni dovute all’incisiva attività svolta dalla giurisprudenza e dal pretore in funzione integrativa ed evolutiva. L’eco della regola evangelica sarà percepibile in Francia, all’indomani della codificazione napoleonica, in alcuni trattati dedicati alla responsabilità civile486. Senza addentrarci nella disamina approfondita delle posizioni della scienza civilistica medievale, ci soffermeremo invece sulla canonistica classica e postclassica la quale non ha comunque costruito una propria autonoma dottrina della responsabilità extracontrattuale, giacchè, anche con riferimento a siffatta tematica, vale infatti la nota affermazione «Ecclesia vivit lege romana». Come sottolineato dal Bellini, la massima sta a significare che il diritto romano, «in conseguenza della portata del rinvio di ricezione, effettuato dall’autorità prelatizia al diritto dello Impero, per il regolamento delle materie temporali di propria pertinenza, veniva ad integrare, salvo espressa disposizione ecclesiastica contraria, il contenuto normativo del jus canonicum in temporalibus»487. È proprio in virtù della natura più intima dello ius canonicum, e del fine ultraterreno della «salus animarum»488, che ritroviamo specifici apporti normativi, disseminati nel Corpus iuris canonici, ed elaborazioni dottrinali di decretisti e decretalisti in materia di responsabilità e danno extra contractum. F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 471. Si veda G. CAZZETTA, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (18651914), cit., pp. 79-80, con riferimento all’opera del Sourdat. 487 P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, cit., p. 526. 488 Si vedano le classiche pagine di P. FEDELE, Lo spirito del diritto canonico, cit., pp. 823-1013. 485 486 110 Siffati elementi, unitamente alle speculazioni della scolastica medievale, permettono di individuare l’originale contributo dato dallo ius canonicum alla storia della responsabilità extracontrattuale ed alla moderna dogmatica del danno aquiliano489. Siamo in presenza di una materia in cui si riversano le riflessioni di canonisti e teologi, una materia in cui si avverte quella commistione tra diritto, morale e religione che, nel periodo oggetto della nostra indagine, non risultano poi così separate e autonome ma che offrono, ciascuna con le proprie peculiarità, diversi angoli visuali490. Sul tema si riflettono le incertezze che investono alcuni problemi pregiudiziali, di ben più vasto respiro, quali il rapporto tra qualificazione etica e qualificazione giuridica dei medesimi fatti o atti individuali all’origine dell’illecito aquiliano, nonché la relazione formale e sostanziale tra il diritto secolare e quello canonico. In ordine al primo aspetto, nei giuristi e teologi del tempo è ben precisa la distinzione tra valutazione «etica», di rilevanza intrasubiettiva, afferente all’esigenza dell’ individuale salvezza di ciascun fedele, e valutazione «giuridico-canonica», di rilevanza intersoggettiva, rispondente ad una ragione sociale, cioè l’esigenza del mantenimento e della restaurazione della «quies fidelium» avverso gli attentati che possono a questa derivare dalla notizia o dalla visione del peccato. Alle due valutazioni corrispondono, rispettivamente, le norme etico-religiose, che sono norme individuali in quanto attendono al bene spirituale di ogni singolo fedele, e le norme disciplinari, che sono invece di carattere sociale491. Per quanto riguarda il secondo aspetto si tratta di analizzare il modo ed i limiti entro i quali al diritto canonico è dato interferire, a fianco o in sostituzione del diritto civile, nel campo di rilievo strettamente temporale e non spirituale. Per un’efficace sintesi si veda il recente P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema di responsabilità civile verso la European Civil Law, cit., pp. 30-41. 490 Anche con riferimento al diritto canonico, al pari del diritto romano, l’espressione «sistema giuridicoreligioso», rispetto a quelle di ordinamento giuridico o di esperienza giuridica, permette di comprendere la dimensione religiosa del diritto e di evitare la separazione (o «Isolierung»), tra diritto, morale e religione. Cfr. in merito P. CATALANO, Diritto e persone, cit.; ID., Systema y ordenamientos: el ejemplo de América Latina, cit. Per una disamina della categoria «sistemi giuridici religiosi» si veda S. FERRARI, Religioni, diritto, comparazione, in S. FERRARI-G. MORI (a cura di), Religioni, diritti, comparazione, Brescia, 2003, pp. 3841. 491 Sulla qualificazione etica e giuridica, in generale, si veda P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, cit., p. 8; ID., Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica della Europa preumanistica, rist., Firenze, 1985, p. 32. 489 111 1) Actio legis Aquiliae tra diritto canonico e scienza canonistica La riscoperta della compilazione giustinianea permise ai glossatori civilisti di analizzare il regime della lex Aquilia, dando avvio ad una ricca riflessione che avrebbe condotto ad una nuova configurazione dogmatica della responsabilità per fatto illecito espressa in un principio civilistico di portata generale492, sancito nelle moderne codificazioni, capace di assicurare il risarcimento del danno conseguente all’illecito. In siffatto processo non fu per nulla marginale il ruolo dello ius canonicum e della scienza canonistica classica e postclassica. La riflessione dei canonisti non perse mai di vista le fonti romane, come del resto era accaduto nella canonistica del primo millennio. Ciò non significa una pedissequa venerazione del diritto romano sfociante in una sterile e poco originale riflessione canonistica in materia di danno extra contractum. Al contrario, tutta una serie di studi nel corso del Novecento hanno evidenziato gli originali contributi offerti dal diritto canonico alla dogmatica del risarcimento del danno extracontrattuale493. Nella Concordia discordantium canonum del monaco Graziano, opera che nasce come raccolta privata ma che rappresenta nella storia del diritto canonico «terminus ad quem, finis, et terminus a quo, initium»494, furono utilizzati circa quattromila testi, appartenenti ai più diversi generi. Tra le fonti utilizzate da Graziano confluirono anche materiali normativi romanistici ed in particolare giustinianei. Le fonti di origine giustinianea furono utilizzate nel Decretum con prevalenza su quelle recepite nelle precedenti collezioni canoniche soprattutto attraverso il Breviarium e le epitomi di esso ed eccezionalmente il Codice Teodosiano495. La tematica della ricezione del diritto romano nel diritto canonico, stando all’eccellente ricostruzione fornita dal Viejo-Ximénez, si riduce essenzialmente nel dare risposta a tre interrogativi: «quali sono gli elementi del “nuovo” Diritto canonico In merito si rinvia all’accurato studio di O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804, cit., passim. 493 Tra i primi in Italia occorre ricordare il romanista G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), pp. 236-295, e lo storico E. BUSSI, La formazione dei dogmi di diritto privato nel diritto comune, (diritti reali e diritti di obbligazione), Padova, 1937, pp. 191-216. 494 Così A. M. STICKLER, Historia iuris canonici latini. Institutiones academicae, I, Historia fontium, Augustae Taurinorum, 1950, p. 201. 495 G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, cit., p. 184. 492 112 medievale che dipendono dall’antico Diritto romano? In quale misura la nascente scienza dei decretisti (e tutti i suoi successivi sviluppi) è vincolata alla costruzione di un Diritto secolare estraneo al genuino spirito degli antichi canoni? E ancora: possiamo dire che la simbiosi consolidata dell’utrunque ius, nello ius cammune, ha alterato il vero volto della primitiva Chiesa cristiana?»496. Sin dalle ricerche avviate da Adam Vetulani497 e Stephan Kuttner498, risultò chiaro che l’enorme massa di testi romani non arrivò nel Decretum grazianeo nello stesso tempo e nello stesso momento e che l’incorporazione dei frammenti giustinianei avvenne in diverse tappe. Siffatta incorporazione sarebbe pertanto il risultato dell’utilizzo del Decretum in un ambiente accademico499, di cui oggi possiamo comprenderne pienamente il processo di formazione, rispetto agli studi del passato, grazie ad una più attenta conoscenza dei più antichi manoscritti che ci hanno tramandato il testo500. Questa linea ricostruttiva della formazione per tappe diverge da quella che ha preso avvio dalle ricerche di Anders Winroth501, secondo cui è possibile identificare due redazioni del Decreto, ciascuna attribuibile ad un diverso autore, il quale avrebbe lavorato su due diversi gruppi di fonti. Si dovrebbe pertanto distinguere un Graziano che sostanzialmente ignora i testi giustinianei utilizzati dai giuristi bolognesi, ed un Graziano che invece conosce e utilizza il diritto romano. Gli studi di Carlos Larraizar, José Miguel Viejo-Ximénez, ed Enrique de León consentono tuttavia di non propendere per la ricostruzione offerta da Anders Winroth502. J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, La ricezione del diritto romano nel diritto canonico, in E. DE LEÓN-N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS (a cura di), La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse per un dialogo ecumenico, cit., p. 158. 497 A. VETULANI, Gratien et le droit romain, in RHDFE, 24-25 (1946-1947), pp. 11-48; 498 S. KUTTNER, New Studies on the roman Law in Gratian’s Decretum, in Seminar, 11 (1953), pp. 12-50. 499 J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, La ricezione del diritto romano nel diritto canonico, cit., pp. 158-159. 500 Si vedano gli studi di C. LARRAINZAR, La formación del Decreto de Graciano por etapas, in ZSSKA, 87 (2001), pp. 67-83; ID., La ricerca attuale sul “Decretum Gratiani”, in E. DE LEÓN-N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS (a cura di), La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse per un dialogo ecumenico, cit., pp. 45-88. 501 A. WINROTH, The Two Recensions of Gratian’s Decretum, in ZSSKA, 83 (1997), pp. 22-31; ID., Les deux Gratien et le droit romain, in RDC, 48 (1998), pp. 285-299; ID., The making of Gratian’s Decretum, Cambridge, 2000. 502 Una rassegna completa degli studi sul Decretum si può leggere nell’aggiornatissimo contributo di O. CONDORELLI, Graziano, cit. Si vedano anche le considerazioni di M. H. EICHBAUER, From the First to the Second Recension: The Progressive Evolution of the Decretum, in Bulletin of Medieval Canon Law, 29 (2011-2012), pp. 119167. 496 113 Per quanto riguarda la ricezione di materiale giusprivatistico romano nel Decretum di Graziano, essa risulta marginale503. Senza addentrarci nella disamina approfondita di tale aspetto, ed al fine di rimanere nell’ambito circoscritto della tematica da noi affrontata nel presente lavoro, occorre per il momento rilevare che, nella Concordia grazianea, non ricorre alcun riferimento al damnum iniuria datum, disciplinato dalla lex Aquilia che i riscoperti testi giustinianei avevano trasmesso alla nascente scienza civilistica medievale504. Crediamo che l’assenza di riferimenti, nel Decretum grazianeo, alla disciplina aquiliana, così come tramandataci nelle Institutiones, nei Digesta e nel Codex giustinianei, sia da ravvisarsi nel metodo proprio di Graziano che, ad avviso di José Miguel Viejo-Ximénez, è la reale novità dell’importante opera grazianea: «una riflessione metodica e critica sulla tradizione antica che porta ad un uso dialettico dei frammenti romani al servizio costruttivo di una particolare visione della republica [sic!] christiana; in questo “progetto” religioso, politico e sociale, “i due diritti” si supportano reciprocamente: le leges civili [sic!] meritano ogni rispetto ubi evangelicis atque canonicis decretis non obviaverint»505. Fu proprio questo principio che, usato metodicamente, provocò un esteso e intenso moto di «romanizzazione»/«mondanizzazione» del diritto canonico, almeno durante i decenni in cui esso non fu rimodellato attraverso un deciso e sistematico intervento del legislatore universale506. G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, cit., pp. 170; 208-210. Ricorrono comunque frammenti in cui sono enunciati i concetti di risarcimento / riparazione / restituzione del danno. Si pensi al canone 18 del concilio Lateranense (anno 1139) confluito in C. 23, q. 8, c. 32 Pessimam quidem, relativo alla condotta dell’ incendiario per il quale viene disposto: «[…] et si mortuus fuerit incendiarius, Christianorum careat sepultura, nec absolvatur, nisi prius, dampno cui intulit secundum facultatem suam resarcito, iuret, se ulterius ignem non appositurum. Penitencia autem ei detur […]. Si quis autem archiepiscopus vel episcopus hoc relaxaverit, dampnum restituat, et per annum ab offitio episcopali abstineat. […]». Giova altresì sottolineare come il Decretum Gratiani abbia invece recepito numerosi frammenti della disciplina giustinianea in tema di delitto di iniuria. Sul punto si rinvia a G. L. FALCHI-B. E. FERME, Introduzione allo studio delle fonti dell’Utrumque Ius, Città del Vaticano, 2006, p. 378, in cui vengono indicati D. 47, 10, 3 (recepito in C. 15, q. 1, c. 2 Illud relatum); D. 47, 10, 9-11 (recepito in de poen., D. 1, c. 12 Si quis tam masculum); D. 47, 10, 15 (recepito in de poen., D. 1, c. 13 Si quis pulsatus). 505 J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, La ricezione del diritto romano nel diritto canonico, cit., p. 190. 506 P. LANDAU, Ius commune und ius proprium aus der Sicht des klassischen kanonischen Rechts, in G. HAMZA (a cura di), Studien zum Römischen Recht in Europa, I, Budapest, 1992, pp. 338-360. 503 504 114 Come notato dal Cortese, il rilancio delle fonti giustinianee originali fu avviato in età carolingia, segnata dallo stimolo della riapparizione del l’Impero romano nell’Europa occidentale507. Tuttavia è nel Decreto di Graziano che l’assimilazione reale dei concetti e delle istituzioni dell’antico diritto romano trovò il suo culmine giacchè solamente da Graziano in poi si può parlare di una nuova scienza giuridica unitaria, canonica e secolare, che diverrà ben presto l’utrumque ius. Quel favor ricettivo verso il diritto di Giustiniano sarà ben compendiato nella Summa Coloniensis, risalente al 1170, che afferme al riguardo: «quidquid in lege dicitur, si a canone non contradicitur, pro canone habeatur»508. Saranno i canonisti esegeti del testo Grazianeo, chiamati appunto decretisti, a porre in relazione i frammenti riportati nel Decretum ed attinenti perlopiù a materia penale, con la lex Aquilia. Nel frattempo lo ius canonicum si arricchisce di una raccolta ufficiale di lettere decretali che comprende un apposito titolo De injuriis et dampno dato. Si tratta dell’ultima delle Quinque compilationes antiquae509, composta da Tancredi da Bologna su mandato di papa Onorio III, che le conferì carattere legislativo con la bolla Novae causarum del 1226510. Il titolo De injuriis et dampno dato della quinta compilatio verrà ripreso dal Liber Extra, vale a dire le celebri decretali di Gregorio IX, commissionate dal pontefice al canonista spagnolo Raimondo de Peñafort511, frate domenicano già docente a Bologna e poi penitenziere e consigliere del papa. Sarà proprio il titolo De iniuriis et damno dato (X. 5, 36) delle Decretali di Gregorio IX a costituire oggetto delle più raffinate riflessioni da parte di quella schiera di canonisti definiti «decretalisti», i quali non perderanno mai di vista la lex Aquilia. E. CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, 2000, p. 145. Summa “Elegantius in iure divino” seu Coloniensis, vol. I, a cura di G. FRANSEN-S. KUTTNER, New York, 1969, p. 19. 509 Sulle cinque compilazioni si veda B. E. FERME, Quinque Compilationes Antiquae: A turning point in the history of canon law, in J. J. CONN-L. SABBARESE (a cura di), Iustitia in caritate. Miscellanea di studi in onore di Velasio De Paolis, Città del Vaticano, 2005, pp. 41-55. 510 Si veda A. BETTETINI, Tancredi da Bologna, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1930-1931. 511 Per un ricco profilo biografico si veda F. VALLS I TABERNER, San Raimondo di Penyafort padre del Diritto canonico, Bologna, 2000 [trad. it. di Raimondo Sorgia]. Sulla produzione giuridica cfr. S. PACIOLLA, Aspetti dell’opera giuridica di Raimondo de Penyafort, maestro bolognese, in D. ANDRÉS GUTIÉRREZ, Escritos en honor del prof. rvmo P. José Castaño, O.P., Roma, 2001, pp. 145-162. 507 508 115 Si pensi ad Enrico da Susa, meglio noto come il cardinale Ostiense, che nella Summa aurea, completata quand’era vescovo di Embrun (1250-1262), esponendo la rubrica De damno dato (tratta dal titolo 36 del libro V delle Decretali di Gregorio IX) afferma quanto segue: «hic videndum est, quid sit damnum, quae actio competat ex damno dato, quando locum habet haec actio, quibus detur, contra quos competat. In quantum detur. Et qualis sit haec actio»512. A ben guardare si tratta del medesimo impianto espositivo adottato dal civilista Azzone513 nel suo commento al titolo del Codex di Giustiniano dedicato alla lex Aquilia (C. 3, 35): «[…] ideo apponit de lege Aquilia et quando locum habeat actio legis Aquiliae, quibus detur, et contra quos, et in quantum, et qualis sit»514. 2) Volontà e cognizione nel Decretum di Graziano La raffinata analisi agostiniana della colpa e della responsabilità basata sul suo carattere personale, sull’imputabilità e sulla qualificazione dell’atto umano confluì in gran parte nel Decretum di Graziano, in cui Agostino è tra le fonti patristiche privilegiate. Agostino, in ossequio alla propria teoria in materia di libero arbitrio, aveva ricondotto ogni responsabilità morale o penale ad un comportamento malvagio consapevolmente tenuto dal soggetto agente, affermando che «nullius crimen maculat nescientem»515. Graziano inserisce questo frammento dell’epistolario agostiniano nella seconda parte della Concordia (C. 23, q. 4, c. 37 Nimium). L’ignoranza, tuttavia, non vale a scusare completamente il peccatore, anche se rende la mancanza meno grave come traspare dalla parole secondo cui «sunt enim peccata ignorantium quamvis minora quam scientium»516, recepito da Graziano in C. 32, q. 7, c. 10 Quemadmodum. HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, Venetiis, 1574, col. 1724. Sulla Summa di Azzone quale fonte principale per l’Ostiense cfr. K. PENNINGTON, Enrico da Susa, cardinale Ostiense, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, p. 796. 514 AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, Venetiis, 1566, col. 229, pr. 515 AUGUSTINUS, Epistulae, 93, 15 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 34, Vindobonae, 1895, p. 459). 516 AUGUSTINUS, De adulterinis coniugiis, 1, 9 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 41, Vindobonae, 1900, p. 356). 512 513 116 Nel dictum ante c. 1 Merito, C. 15, q. 1, Graziano inserisce il frammento in cui emerge l’importanza della volontà per l’imputabilità dell’atto dannoso: «peccatum voluntarium malum est, ut ullo modo sit peccatum, si non sit voluntarium»517, precisando altrove che «nemo trahitur ad culpam nisi ductus propria voluntate» (C. 15, q. 1, c. 10 Non est), ed invocando l’auctoritas di Ambrogio che al riguardo aveva affermato: «nemo tenetur ad culpam, nisi voluntate propria deflexerit»518. L’importanza dell’elemento volitivo/psichico emerge anche in C. 22, q. 2. c. 3 Homines (tratto ancora una volta da Agostino519) in cui si afferma che «interest, quemadmodum verbum procedat ex animo. Ream linguam non facit nisi mens rea». Accanto alla volontà520, quale primo pilastro dell’imputabilità dell’atto umano, ritroviamo la cognizione ossia la conoscenza del fatto che si commette. Ancora una volta viene invocato Agostino521 nell’affermare che «non sunt peccata nolentium, nisi nescentium, quae discernuntur a peccatis volentium»522. Graziano analizza altresì tutta una serie di cause che diminuiscono o elidono completamente la responsabilità523. In primis l’ignoranza524 la quale determina la diminuzione di responsabilità se è vincibilis. Quanto all’ignoranza invincibilis, essa toglie colpevolezza all’atto cioè determina la non imputabilità quando, usata la debita diligenza, non si è riusciti a rimueverla, come viene messo in rilievo in C. 22, q. 2, c. 3, Gr. p., in cui Graziano, AUGUSTINUS, Retractationum libri II, 13, 1, 5 (= PL, vol. 32, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 603). AMBROSIUS, De Jacob et vita beata, 1, 3, 10 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 602). 519 AUGUSTINUS, Sermones, Classis prima, 180 (De verbis apostoli Jacobi, Ante omnia nolite jurare), § 2 (= PL, vol. 38, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 975) 520 Si veda quanto affermato dalla glossa Quod propter ad C. 15, q. 1.: «Id est in diffinitione voluntatis, ideo ponitur affirmatio, et negatio, ut ostendatur qua voluntate quis dicatur volens: et qua voluntate dicatur nolens, nam voluntate ad aliquid faciendum dicitur quis volens: et voluntate ad aliquid non faciendum dicitur quis nolens: et sic omnis nolens dicitur volens: et eadem qualitas dici potest voluntas, et noluntas. Nam nolle facere idem est quod non velle facere» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 925]. Cfr. anche F. THANER, Die Summa Magistri Rolandi, Innsbruck, 1874, p. 32, ad C. 15, q. 1: «Omne peccatum, adeo est voluntarium quod, si non fuerit voluntarium, non est peccatum». 521 AUGUSTINUS, Quaestionum in Pentatheucum, 4, 24 (in Numeros 15, 24-29) (= PL, vol. 34, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 728). 522 C. 15, q. 1, c. 1 Merito. 523 Sull’argomento rimane tuttora fondamentale l’analisi di P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, cit., pp. 458-460, ripresa anche da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1105-1106. 524 Sul punto si vedano S. KUTTNER, Kanonistische Schuldlehre von Gratian bis auf die Dekretalen Gregors IX. Systematisch auf Grund der handschriftlichen Quellen dargestellt, Città del Vaticano, 1935, pp. 133 ss.; E. CORTESE, Ignoranza della legge b) Diritto intermedio, in ED, vol. XX, Milano, 1970, p. 10; M. JASONNI, Contributo allo studio della «ignorantia iuris» nel diritto penale canonico, Milano, 1983, pp. 63 ss. 517 518 117 trattando il caso di colui che dice il falso stimandolo vero, osserva: «quia ergo mens huius non erat rea (nesciebat esse falsum quod iuravit verum), nec temere nec negligenter, sed cum magna diligentia videbatur sibi deprehendisse verum quod iurabit falsum, periurii reus nequaquam est iudicandus». In merito alla violenza abbiamo riportato supra il frammento di Ambrogio in cui si afferma che «nemo tenetur ad culpam, nisi voluntate propria deflexerit. Non habent crimen quae inseruntur reluctantibus»525. Le passioni possono sopprimere ogni avvertenza del male come risulta dal dictum grazianeo a C. 15, q. 1, c. 2 Illud relatum: «[…] que illis perturbantibus fiunt, nulli imputantur ad penam». Nello stesso dictum è sancita l’esclusione totale dell’imputabilità per tutti quei soggetti «non compotes sui», come i bambini, i pazzi e gli ubriachi: «mens vero alienata furore, cum sui compos non sit, eorum, que admittit, reatum non contrahit, quia facultatem deliberandi non habuit. Unde pupillo et furioso in maleficiis subvenitur, ut non eis inputentur ad penam que ex mentis deliberatione non processerunt». Come sottolineato dal Palazzini, con un linguaggio tipicamente tomista526, ricorrendo tali cause «l’atto non è più umano, ma hominis, quasi simile agli atti degli animali, che non sono rationabilia»527. Inoltre non è soggetto a responsabilità colui che arrechi danno “ex officio”, come risulta da C. 23, q. 5, c. 8 De occidendis, contenente un frammento agostiniano528 dedicato all’omicidio commesso dal miles o da chi «pubblica functione teneatur». 2.1) Residui di responsabilitas ex effectu nel Decretum e nelle decretali. Il Decretum Gratiani riproduce un’ ampia serie di canoni conciliari del primo millennio che testimoniano la difficoltà che incontrò la tesi volontaristica, propugnata AMBROSIUS, De Jacob et vita beata, 1, 3, 10 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 602). Cfr. THOMA AQUINAS, Summa theologica, I/IIae, q. 1, art. 1, in cui si distingue tra actus humanus, proprio dell’uomo in quanto uomo, ossia consapevole e libero, e actus hominis, cioè un atto compiuto dall’uomo, ma inconsapevolmente. 527 P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, cit., p. 460. 528 AUGUSTINUS, Epistolae, classis II, 47 (ad Publicolam), § 5 (= PL, 33, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 186) 525 526 118 dalla dottrina ecclesiastica tradizionale risalente ad Agostino, a predominare sulla tesi oggettiva di derivazione germanica. Ritroviamo, ad esempio, il canone Saepe contingit (D. 50, c. 50), vale a dire il can. 29 del concilio di Worms, contemplante l’ipotesi del potatore di alberi che, per negligenza, non si accorge della caduta di rami che causano l’omicidio di un individuo529. Il canone immediatamente successivo (D. 50, c. 51) è tratto invece dal concilio di Treviri, tenutosi nell’ anno 895, il quale afferma l’innocenza di colui che, non avendo mancato alla dovuta diligenza, avesse determinato la morte del fratello in occasione del taglio di alberi530. Siffatto concilio rappresentò una reazione al principio della responsabilitas ex effectu, che conduce all’imputazione dell’effetto dannoso dell’azione anche al di fuori del concorso della volontà libera e deliberata dell’agente, accogliendo invece il principio della responsabilitas ex voluntatis consensu531. Abbiamo già visto come i canoni del concilio di Worms e Treviri siano confluiti nelle collezioni pregrazianee. Olivier Descamps532 ha di recente ribadito, a tal proposito, la forte dipendenza di Graziano dalla Tripartita di Ivo di Chartres non solo per quanto riguarda i canoni 50533 e 51534 della Distinctio 50, ma anche per i canoni 48535, 49 (relativo ad una lettera di papa Nicola I in tema di omicidio commesso da un potatore di alberi)536 e 52537 della medesima Distinctio. Il frammento D. 50, c. 48 prospetta una delle tante fattispecie in cui la lettura prima facie del testo sembra propendere per la tesi della responsabilità ex effectu, ma il lavoro CONCILIUM WORMATIENSE, can. 29 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. XV, Venetiis, 1770, col. 874). 530 CONCILIUM TRIBURIENSE, can. 36 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, t. XVIII, Venetiis, 1773, col. 150). 531 Cfr. P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, cit., p. 453. 532 O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804, cit., pp. 22-26. 533 IVO CARNOTENSIS, Tripartita, III, 21, 43, intitolato De ille qui in opere necessario casu homicidium perpetravit. La Tripartita risulta ancora inedita ma è in fieri un’edizione critica sulla base dei manoscritti esistenti. Abbiamo utilizzato l’edizione in corso d’opera, curata da Bruce Brasington, Martin Brett e Przemyslaw Nowak, reperibile sul sito http://project.knowledgeforge.net/ivo/tripartita.html , consultato in data 29 settembre 2013. 534 IVO CARNOTENSIS, Tripartita, III, 21, 44, intitolato De eadem rem ex concilio Triburiensi cap XVII. 535 IVO CARNOTENSIS, Tripartita, I, 54, 10, intitolato De muliere que inter caballos collisa fuit. 536 IVO CARNOTENSIS, Tripartita, I, 62, 21, intitolato De his qui arborem incidunt. 537 IVO CARNOTENSIS, Tripartita, II, 34, 5, intitolato De his qui altario serviunt. 529 119 dell’interprete la sostituisce, attraverso distinzioni che verranno ulteriormente perfezionate, con la tesi della responsabilitas ex voluntate. Il testo riportato nel Decretum afferma: «Quantum dicit iste Placidus, anno praeterito dictum est de uxore ipsius, quia subito inter caballos inventa, et dum traherentur caballi, collisa est illa, et abortum fecit. Quod si ita est, forte si caballos alienos tulit, inde est culpabilis. Nam de muliere, que casu inter caballos confracta est, ubi voluntas illius non agnoscitur perniciosa fuisse, non potest nec debet addici per leges». Un siffato testo poteva prestarsi a due interpretazioni differenti: nel senso che colui che ha posto l’azione necessariamente e lecitamente, può essere liberato dalla responsabilità circa l’effetto cattivo causale; ma anche nel senso che l’effetto cattivo proveniente da un’azione non necessaria, superflua ed illecita, è imputabile all’agente, anche se non avrà voluto l’effetto, ma l’ha causato per negligenza. Pietro Palazzini ha ritenuto che proprio da queste due interpretazioni, a cui si prestavano fattispecie simili a quella riportata, venne fuori la famosa distinzione tra il versari in re (actione) licita seu illicita538. Il principio della responsabilità ex effectu non fu comunque del tutto superato. Nel Liber Extra ritroviamo infatti due decretali di papa Alessandro III inviate all’arcivescovo di Cosenza539 ed al vescovo di Exeter540, relative a casi di omicidio accaduti in occasione di attività ludica tra chierici. 3) Damnum Nell’età dello ius commune i due fondamenti, oggettivo e soggetivo, dell’actio legis Aquilia vengono individuati rispettivamente nel «damnum» e nell’ «iniuria». Azzone, commentando il giustinianeo C. 3, 35, a tal proposito scriveva che «si ergo damnum nullo modo sit datum […] cessat Aquilia […] Culpa autem omnino necesse est intervenire: alioquin non agetur Aquilia»541. Cosa intesero però i giuristi medievali per «damnum»? P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, cit., p. 455. 539 X. 5, 12, 8 Continebatur in literis. 540 X. 5, 12, 9 Lator praesentium P. 541 AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, Venetiis, 1566, coll. 229-230, §§ 1-2. 538 120 Gian Paolo Massetto ha evidenziato come da Piacentino al Richeri la definizione di damnum offerta dal giurista Paolo nel Digesto542 («damnum et damnatio ab ademptione et quasi diminutione patrimonii dicta sunt») avesse costituito un indiscusso punto di riferimento543. Furono offerti anche significati più ristretti che facevano riferimento alla corruptio, alla deterioratio rei, ecc. in maniera tale da ricomprendere tutte le ipotesi di danno ricadenti nel primo e nel terzo capitolo della lex Aquilia. Il glossatore Rogerio considerò anche il caso del danno che incidesse su una «res, quam non habeo sed habere spero»544, prendendo in tal modo in considerazione il lucro cessante, la cui nozione risultò determinante, insieme con quella di danno emergente, ai fini della configurazione della teoria del risarcimento. Per quanto riguarda i danni arrecati al corpo di un uomo libero esso, stando ai principi romanistici, non rientravano nell’ambito della lex Aquilia. L’uomo libero, stante il principio «dominus membrorum suorum nemo videtur», non poteva agire con l’actio directa, tuttavia al dominus era concessa l’azione in via utile per la perdita della capacità lavorativa nonché per le spese di cura. Nel caso di ferite mortali che avessero comportato la morte dell’uomo libero subentrava un altro ditterio, vale a dire «liberum corpus nullam recepit aestimationem», che si traduceva nell’impossibilità di esperire l’azione da parte della vedova e dei figli della vittima e nella irrilevanza di cicatrici e di deformità. Tra i glossatori civilisti inizialmente non ci fu uniformità di vedute. Se Bulgaro545 interpretava rigidamente la massima dell’impossibilità di stimare in denaro l’integrità fisica o la vita dell’uomo libero, Azzone546 e Rogerio547 D. 39, 2, 3. Il frammento tuttavia si inserisce nel diverso contesto della cautio damni infecti. Cfr. sul punto C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., p. 14. Sulla disciplina del damnum infectum, contrapposta a quella in tema di lex Aquilia, si veda O. DESCAMPS, Le damnum infectum dans la doctrine juridique médiévale (XIIe-XVe siècle), in B. D’ALTEROCHE - F. DEMOULIN-AUZARY - O. DESCAMPS – F. ROUMY (a cura di), Mélanges en l’honneur d’Anne LefebvreTeillard, Paris, 2009, pp. 359-374. 543 G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1120. 544 ROGERIUS, Summa Codicis, 3, 24 De lege Aquilia, § 1, in Scripta anecdota glossatorum, curante I. B. PALMERIO, (Bibliotheca iuridica medii aevi), I, Bononiae, 1913, p. 94. 545 BULGARUS, Ad Digestorum titulum De diversis regulis iuris antiqui commentarius, edidit F. G. C. BECKHAUS, Bonnae, 1856, p. 88, sub regula CVI. 546 AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, Venetiis, 1566, col. 231, § 15[ad C. 3, 35]. 547 ROGERIUS, Summa Codicis, 3, 24 De lege Aquilia, § 3, cit., p. 94: «Utilis datur usufructuario, et omnibus qui habent ius in re. Similiter libero homini, si membrum ei iniuria ruptum sit, datur utilis legis Aquilie actio». 542 121 riconoscevano al libero ferito l’azione in via utile per il conseguimento delle spese sostenute nella cura medica e per il risarcimento della perduta capacità lavorativa, mentre non si poteva tenere conto della eventuale deformità fisica. Sempre Azzone sembrò favorevole verso la possibilità per l’erede di agire con la lex Aquilia. Questa soluzione, pur costituendo una violazione del principio che vietava l’aestimatio del corpo, in questo caso, del de cuius, costituiva l’unica forma di tutela per l’erede, una tutela che, stando al diritto romano, non sarebbe stata accordata invece dall’actio legis Aquiliae. Roffredo da Benevento548, pur riconoscendo che l’opinione di Bulgaro fosse più aderente ai principi del diritto romano, difese la posizione del maestro Azzone. Dunque l’esperibilità dell’azione aquiliana per lesione o uccisione di persona libera fu ammessa con una notevole larghezza, tenendo conto delle spese mediche e di cura, e del lucro cessante identificato nella privazione di quei vantaggi che, in assenza di lesione, il danneggiato o il suo erede avrebbero conseguito, in riferimento all’attività concretamente svolta in vita. Come giustamente evidenziato da recente dottrina549, Roffredo contribuì ad accrescere l’ambito dell’indagine che trova una più compiuta articolazione nello Speculum iuris di Guglielmo Durante550, opera che, pur dipendendo grandemente da quella di Roffredo, fornisce una prima sistemazione dei diversi tipi di danno e dei suoi criteri di risarcimento. Il risarcimento del danno emergente551 e del lucro cessante552 fu uno dei tanti punti di sostanziale convergenza tra civilisti e canonisti, unitamente all’impossibilità di aestimatio delle cicatrici553 e della deformitas fisica554. ROFFREDUS BENEVENTANUS, Libelli iuris civilis, pars I, De actione in factum subsidiaria l. Aquiliae, et de utili actione l. Aquiliae, § Item constat. ff. 24 r.-v., in Corpus glossatorum iuris civilis, vol. VI, Torino, 1968, p. 48. 549 M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit. 103. 550 GULIELMUS DURANDUS, Speculum iuris, Venetiis, 1576, t. III, lib. IV, part. IV, De iniuriis et damno dato, pp. 512-516. Sul celebre giurista cfr. F. ROUMY, DURAND (Durant, Durandi) Guillaume, l’Ancien, in P. ARABEYRE-J. L. HALPÉRIN-J. KRYNEN (a cura di), Dictionnaire historique des juristes français XIIe-XXe siècle, Paris, 2007, pp. 290-292. 551 BERNARDUS PAPIENSIS, Summa Decretalium, edidit E. A. T. LASPEYRES, Ratisbonae, 1860, p. 263, V, 31 De damno dato: «[…] resarcientur laeso impensae medicorum et operae, quibus caruit vel cariturus […]». 552 Glossa operas eius et impensas ad X. 5, 36, 1: «operas autem amissas, et impensas in curatione praestabit […]»[in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1308]. 553 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quartum et quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, p. 95 v.[comm. ad X. 5, 36, 1]; ABBAS PANORMITANUS (NICOLAUS DE 548 122 4) «Iniuria» e «culpa» Accanto al «damnum», elemento oggettivo, a fondamento dell’actio legis Aquilia nell’età dello ius commune ritroviamo, quale elemento soggettivo, l’ «iniuria». Come affermato da Odofredo, l’azione era concessa nel caso in cui il danno fosse stato arrecato «iniuria», termine, quest’ultimo, «quod […] equivoce in iure nostro sumitur: uno modo quod non iure fit, secundo modo pro contumelia, sic sumitur in actione iniuriarum, tertio modo dicitur damnum culpa datum […]». Il glossatore bolognese continuava distinguendo tra un significato «largissime, ut dicatur iniuria omne quod non iure fit» ed uno più ristretto per cui il termine iniuria «sumitur pro culpa»555. Già la glossa di Accursio ad verbum «iniuria» in D. 9, 1, 1, 3, aveva del resto specificato che: «iniuria id est culpa. Et sic bene sequitur, itaque quia in fine dicit quando culpa fuit in homine»556. Dell’equivocità di significato del termine iniuria vi sono chiari riferimenti anche nell’opera del grammatico e canonista Uguccio da Pisa557. Se i giuristi erano concordi nel prendere le distanze dalla legislazione statutaria che, nella configurazione della responsabilità prescindeva dalla considerazione dell’animus, difformità di opinioni sussistevano sul significato da attribuire al termine «culpa», considerata da Donello come il «locus, in quo maxima pars disputationum juris auctorum his titulis versatur»558. Nelle fonti giustinianee culpa, come ha ben evidenziato Mario Talamanca, ha diverse accezioni e può indicare l’illecito, l’imputabilità e la negligenza in senso TUDESCHIS), In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f. 196 r. [comm. ad X. 5, 36, 1]. 554 Glossa operas eius et impensas ad X. 5, 36, 1: «deformitatis autem ratio non habebitur, quia liberum corpus non recepit aestimationem […]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1308]. 555 ODOFREDUS, Interpretatio in undecim primos pandectarum libros, Lugduni, 1550, interpretatio Ad legem aquiliam, Sed et si § iniurarium autem, p. 272. Cfr. anche ROGERIUS, Summa Codicis, 3, 24 De lege Aquilia, § 1, cit., p. 94: «Injuria accipitur pro culpa»; AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, cit., col. 231, § 15 [ad C. 3, 35]: «[per injuriam] id est culpam». 556 ACCURSIUS, Glossa iniuria ad D. 9, 1, 1, 3 [in Pandectarum seu Digestum Vetus Iuris civilis, tomus primus, Venetiis, 1581, p. 693]. 557 HUGUCCIO [GRAMMATICUS], Vocabularium, in BNP, ms. lat. 7622 A, f. 101 v., Vis Injuria: «Cum fit aliquid contra ordinem juris»; Injuriae: «Sunt quae aut pulsationem corpus aut aliqua turpitudine»; Injuriis: «Injustus. Injurium contra jus contrarium», segnalato da O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, cit., p. 143, nt. 35 558 HUGO DONELLUS, Commentarius ad tit. dig. ad legem Aquiliam, cap. I, n. 5, in ID., Opera omnia, t. X, Maceratae, 1832, col. 3. 123 generico559. Questa pluralità di accezioni la rinveniamo anche nei giuristi di ius commune560. I glossatori ebbero sempre presente la tripartizione romanistica della culpa in lata, levis e levissima. La scuola del commento, invece, effettuò il tentativo di innovare il sistema della gradazione della culpa proprio della scuola della glossa, aderando alla speculazione dei dottori oltremontani. Nell’ambito della culpa in genere i commentatori distinsero sei gradi: «alia est latissima, alia latior, alia lata […] et alia levis, alia levior, alia levissima»561, mentre Bartolo non considerò come specie autonoma la culpa levior. La dottrina civilistica era concorde nel sostenere, «almeno in linea di principio»562 che la responsabilità aquiliana abbracciasse ogni specie di colpa, compresa la culpa levissima che consiste, secondo la Glossa di Accursio, nel non prevedere ciò che «quocunque modo» un uomo «diligentissimus» avrebbe previsto563. In questo sistema, fondato sulla configurazione della culpa come criterio generico in cui ricomprendere anche il dolo, il termine culpa assumeva pertanto il significato generico di elemento soggettivo. Similmente nella letteratura canonistica ritroviamo analoghe prospettive di riflessione, in particolare l’assimilazione dell’iniuria alla culpa. Sinibaldo dei Fieschi nel commentare il titolo De iniuriis et damno dato del Liber Extra così rilevava: «aliter dicitur iniuria, id est, culpa ut in hac lege Aquilia»564. Altre volte ricorre l’identificazione dell’iniuria con l’iniquità o ingiustizia, come sostiene ad esempio Goffredo da Trani: «generaliter iniuria dicitur omne quod non iure iure fit. Specialiter autem dicitur iniuria iniquitas vel iustitia iudicantis quasi ius iniquum ex eo dicta M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, cit., p. 518. Per una rassegna di frammenti cfr. G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1127. Si veda anche l’efficace sintesi, con utili riferimenti comparatistici, proposta da V. FERRARI, Le radici semantiche della colpa civile, in G. DALLA TORRE (a cura di), Studi in onore di Giovanni Giacobbe, t. II, Milano, 2010, pp. 1458-1473. 561 BARTHOLOMAEUS A SALICETO, Super Digesto Veteri, Lugduni, 1541, f. 88 v. [comm. ad D. 16, 3, 32]. 562 Così G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1135, che rileva, al riguardo, le oscillazioni della stessa dottrina circa la rilevanza tra culpa in committendo e culpa in omittendo e quella inerente ad un preesistente rapporto contrattuale. 563 M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, cit., p. 525. 564 INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 645, [comm. ad X. 5, 36, 9, sub verbo iniuria]. 559 560 124 quia iusticia et iure caret. Dicitur et iniuria culpa ut in lege Aquilia. Dicitur injuria contumelia […]»565. Recentissima ed acuta dottrina566 ha posto l’attenzione su due correnti della canonistica divergenti tra di loro in merito alla soglia a partire dalla quale l’autore del danno è esposto all’obbligo di riparazione. Una prima corrente dottrinale imposta la propria riflessione sull’idea di dovere. L’autore dell’atto dovrà pertanto applicare tutta la diligenza alla quale è tenuto («adhibere diligentiam debitam»567). In tal senso militano quei frammenti canonistici (e le relative glosse) che analizzano fattispecie di danni causati da animali568 o derivanti da incendio569. La seconda corrente invece mette in risalto il concetto di potere. L’individuo dovrà di conseguenza fare tutto quello che gli è possibile per evitare che il danno venga a realizzarsi («adhibere diligentiam potuit»570). GOFFREDUS TRANENSIS, Summa in titulos Decretalium, Venetiis, 1564, De iniuriis et damno dato, p. 469. Cfr. in termini analoghi HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, cit., col. 1717 [liber V, tit. De iniuriis, et damno dato, § Quot modis dicatur]: «Specialiter autem dicitur iniuria, iniquitas et iniusticia iudicantis, quasi sit ius iniquum sive iniustum: ex eo sic dicta quia iure et iusticia caret. Dicitur etiam iniuria culpa ut il lege Aquilia. Sed et iniuria dicitur, contumelia alicui facta, vel dicta […]». 566 O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, cit., pp. 148-149. 567 BERNARDUS PAPIENSIS, Summa Decretalium, edidit E. A. T. LASPEYRES, Ratisbonae, 1860, p. 222 [V, 10, 5 De homicidio voluntario vel casuali]: «Circa illud quod fit casu, distingue, an ille qui casu occidit instabat licito operi et adhibuit illam diligentiam quam debuit, aut non: primo casu non imputatur sibi, sed casui et fato et fortunae ut Di. L. Hi qui (c. 49), Saepe (c. 50), Si duo (c. 51) et Cod. ad L. Corn. de sicar. L. 1[C. 9, 16, 1]; alioquin si vel non instabat operi licito vel non adhibuit illam diligentiam quam debuit, sibi debet imputari». Cfr. IOANNES ANDREAE, In quintum Decretalium librum Novella Commentaria, Venetiis, 1581, f. 59 r., n. 1 [comm. in X. 5, 12, 8 Continebatur]: «Homicidium casuale imputatur ei, qui dabat operam rei illicitae, vel licitae, si non adhibuit diligentiam, quam debuit». 568 X. 5, 36, 3, di cui si veda la Glossa Non custodivit: «Supple, et alterius bovem occiderit: unde tenetur, quia culpa, sive negligentia ipsius, damnum datum est, est qui debuit diligentiam adhibere» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1309]; X. 5, 36, 9, di cui si veda la Glossa Quod si animalia: «Item qui occasionem damni dat damnum dedisse videtur, cum diligentiam non adhibuit quam debuit»[in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1311]. 569 X. 5, 36, 5, di cui si veda la Glossa Reddet damnum: «Si fuerit in culpa dum apposuit istum ignem, nec adhibuit diligentiam quam debuit ff. Ad legem Auiliam Qui occidit § In hac [D. 9, 2, 30, 3]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1309]. 570 STEPHANUS TORNACENSIS, Summa ad D. 50, c. 49, ad verbum innoxii: «si tantam cautelam adhibuerunt, quantum potuerunt». [STEPHAN VON DOORNICK (ÉTIENNE DE TOURNAI, STEPHANUS TORNACENSIS), Die Summa über das Decretum Gratiani, a cura di J.F. VON SCHULTE, Giessen, 1891, p. 74]. 565 125 L’applicazione del predetto criterio si ha nella materia riguardante l’esercizio della professione medica, laddove la diligenza che viene in rilievo è quella propria dell’ars medica571. 4.1) (segue) La decretale «Si culpa tua» di Gregorio IX Nella storia dei contributi offerti dalla scienza canonistica alla dogmatica della responsabilità extracontrattuale riveste una particolare importanza la decretale «Si culpa tua» inserita nel titolo De iniuriis et damno dato del Liber Extra di Gregorio IX572. Si tratta di un testo importantissimo573 che compendia, al suo interno, alcuni elementi costitutitvi della categoria giuridica della responsabilità extracontrattuale vale a dire il nesso di causalità e l’elemento soggettivo: «Si culpa tua datum est damnum vel iniuria irrogata, seu aliis irrogantibus opem forte tulisti, aut haec imperitia tua sive negligentia evenerunt: iure super his satisfacere te oportet, nec ignorantia te excusat, si scire debuisti, ex facto tuo iniuriam verisimiliter posse contingere vel iacturam. Quodsi animalia tua nocuisse proponas, nihilominus ad satisfactionem teneris, nisi ea dando passis damunm velis liberare te ipsum; quod tamen ad liberationem non proficit, si fera aninalia, vel quae consuevetunt nocere, fuissent, et quam debueras non curasti diligentiam adhibere. Sane, licet qui occasionem damni dat damnum videatur dedisse: secus est tamen in illo dicendum, qui, ut non accideret, de contigentibus nil omisit»574. INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 611, n. 2, [ad. X. 5, 12, 19 Tua nos]: «Sed quid si medicus bene novit medicinam, quam dedit bonam esse, et in veritate bona erat, sed contingit quod species positae inmedicina fuerunt malae, vel propter nimiam vetustatem, vel quia falsam similitudinem gerebant verarum specierum, vel propter aliam quamcunque causam male fuerint. Responsio: quod si medicus diligentiam quam debuit adhibere in speciebus eligendis, quod quicquid inde contingerit inculpabilis est medicus, quia probabilis ignorantia, imo solicita diligentia eum excusat». Cfr. anche la posizione, più flessibile, di HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 49 r., n. 5 [comm. ad X. 5, 12, 19 Tua nos]: «Quid si medicus bene peritus bonam medicinam proponavit quantum ad artem, sed quantum ad materiam mala erat, propter nimiam vetustatem specierum, vel falsa similitudinem, quam gerebat variarum specierum, vel aliam quancunque causam? Respondeo si omnem diligentiam quam potuit, adhibuit in speciebus eligendis, inculpabilis est quia semper est probabilis ignorantia excusata […]. Immo et solicita diligentiam eum excusat. […] Quid si chirurgicus dubitat de incisore? Abstineat tam ipse, quam incisor, nisi sit talis, de quo non dubitatur communiter quin bene sciat incidere». 572 Sulle decretali gregoriane si veda F. LIOTTA, I papi anagnini e lo sviluppo del diritto canonico classico: tratti salienti, in ID. (a cura di), Studi di storia del diritto medievale e moderno, Bologna, 1999, pp. 107-128, in part. pp. 120-122. 573 Come già evidenziò lo storico E. BUSSI, La formazione dei dogmi di diritto privato nel diritto comune, (diritti reali e diritti di obbligazione), cit., pp. 205-207. 574 X. 5, 36, 9. 571 126 La decretale gregoriana disciplina nella prima parte il danno arrecato con fatto proprio, mentre nella seconda parte è contemplato il danno cagionato dalle proprie cose, nel caso di specie dagli animali. Limitando la trattazione al danno arrecato con fatto proprio, il testo gregoriano ne fonda la responsabilità sul fatto che il danno sia stato arrecato culpa, ovvero iniuria cioè contra ius e che l’agente non abbia previsto le conseguenze dannose che verisimiliter potevano derivare dal suo comportamento. L’agente pertanto è tenuto a sapere che la sua azione era verosimilmente, quindi anche non necessariamente, dannosa. Egli non sarà responsabile nel caso in cui non abbia omesso, nella situazione specifica, nulla di quanto fosse necessario perché il danno non accadesse. I principi espressi dalla decretale sono in armonia con quelli romanistici e permisero ai canonisti di pervenire alle medesime conclusioni della dottrina civilistica. Seguendo la glossa ordinaria a X. 5, 36, 9, notiamo infatti che l’infans ed il furiosus non sono responsabili in quanto «iudicium animi non habent»; la legittima difesa scrimina il comportamento di chi «ad sui defensionem, et incontinenti, et eodem modo damnum dedit»; altresì non è responsabile chi abbia agito costretto dal fatto altrui («alterius impulsu») oppure da un fatto naturale irresistibile («violentia ventorum») o chi abbia arrecato un danno «ex officio». Il richiamo, nella decretale Si culpa tua, alla negligenza ed all’imperizia furono l’occasione per gli stessi canonisti di affrontare il discorso di quella che oggi chiamiamo responsabilità professionale, con particolare riferimento al danno cagionato dal medico e dall’avvocato575. A tal proposito valga quanto riportato dall’Abbas Panormitanus in alcuni frammenti della sua grandiosa opera. Il canonista afferma che «[…] in foro animae Doctor consulens ex ignorantia vel imperitia non sequens traditiones artis, tenetur pro eo quod alterum consulendo laeserit»576. Nel commento ad altro frammento delle decretali gregoriane, dopo aver ribadito che «contra medicos et alios artifices ut si per eorum Si noti l’utilizzo dell’ablativo modale «culpa tua», che dovrebbe implicare la traduzione del medesimo in «con tua colpa». Ciò tuttavia non toglie che lo stesso ablativo possa configurarsi come causale e pertanto la traduzione diventerebbe «per tua colpa». 575 Il tema è stato magistralmente trattato da G. LE BRAS, Velut splendor firmamenti: le Docteur dans le droit de l’Église Médiévale, in Mélanges offerts a Étienne Gilson de l’Académie française, Toronto-Paris, 1959, pp. 386-388. 576 ABBAS PANORMITANUS, Secunda interpretationum in primum Decretalium librum pars, Lugduni, 1547, f. 58 v., n. 3 [ad X. 1, 14, 7 Ad aures]. 127 imperitiam alicui damnum illatum est, qui tenentur ad aestimationem damni», il Panormitano prosegue affermando: «Idem dicerem in doctore cuius imperitia damnum illatum est, ut quia perdidit causam, ut tunc teneatur doctor ad emendam damni»577. Quanto affermato è in sintonia con il parere dei civilisti nella materia de qua e costituisce un’ulteriore conferma dello spirito romanistico che anima la disciplina canonica dell’illecito extracontrattuale. 4.2) (segue) La gradazione della culpa tra foro esterno e foro interno L’originalità della visione canonistica (o, se si vuole, il contrasto con la posizione dei civilisti) risiede invece nell’intensità cioè nel grado della colpa che valeva a fondare la responsabilità nel foro interno e nel foro esterno. Sul punto la posizione dei canonisti è riconducibile essenzialmente a quella di Sinibaldo dei Fieschi, asceso al soglio pontificio col nome di Innocenzo IV578, secondo cui in foro conscientiae dalla culpa levis o levissima non sorge responsabilità extracontrattuale essendo sufficiente la penitenza imposta dal confessore: «Sed tamen in foro poenitentiali non videtur, quod teneatur ad emendam damni et poena est ei imponenda de negligentia, non poena de damno argumento 15, q. 2 c. Inebriaverunt [corr. C. 15, q. 1, c. 9]. Lex autem civilis quae intendit circa conservationem patrimoniorum, constituit quod etiam ad restitutionem damni tenerentur. Item bene fatemur quod si aliquo modo intenderet per ignem dare damnum, quod etiam in foro poenitentiali condemneretur, et idem dico si non intenderet, sed culpa esset, ut si ignem proijceret in domum plenam stipula. Hoc autem generaliter teneas, quod quicunque satisfecerit ad plenum laeso, alii ulterius in foro poenitentiali satisfacere non coguntur, sed ei compensare debent qui pro omnibus satisfecit et hoc idem sic obtinet in consilio animae; sed in foro judiciali, si potest discerni damnum, vel factum unius a damno, vel facto alterius nullus tenebitur nisi de suo damno, vel facto, et sic videtur dicere ff. Ad legem Aquiliam, l. Item Mela, § Sed si plures [D. 9, 2, 11, 2] […] si autem non possunt discerni, quilibet tenetur in solidum […]»579. ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f. 198 v., n. 3 [comm. ad X. 5, 36, 9 Si culpa tua]. 578 Per un profilo bio-bibliografico si veda da ultimo A. MELLONI, Sinibaldo Fieschi (Innocenzo IV), in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1872-1874. 579 INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 609, n. 5 [ad X. 5, 12, 6 sicut dignum]. 577 128 Il principio innocenziano, accolto pressochè concordemente dalla dottrina canonistica580, divenne communis opinio anche se suscitò un animato dibattito il cui più illustre esponente fu Niccolò (dei) Tedeschi, noto anche come Abbas Panormitanus581. L’atteggiamento del Panormitano verso il celebre dictum di Innocenzo IV non fu univoco. Il canonista siciliano, infatti, ne accetta la ratio ispiratrice per la quale nel caso di culpa levis o levissima, mancando l’animus nocendi, non deriva il risarcimento del danno in foro conscientiae, sebbene sia imposta una penitenza582. FELINUS SANDEUS, Commentaria in Decretalium libros V, pars III, Venetiis, 1584, col. 1023, n. 16-17 [ad X. 5, 12, 6 sicut dignum]: «Subdit postea Innocentius valde singulariter quod ista procedunt, ubi per dolum aliquis damnificat proximum sed si ex negligentia, vel levi culpa, quamvis tunc teneretur in foro civili ad damnum l. 3, ff. Ad legem Aquiliam [D. 9, 2, 3], cum similiter tamen in foro conscientiae non imponitur sibi poenitentia pro illa inadvetentia: puta, quia neglexit cooperire ignem unde domus sua cum vicinis est incensa; vel posuit ignem in sua stipula, non advertens principium ventorum ex quibus postea segetis vicini arserunt. Et idem in similibus, quia de hac levi culpa valde lata, etiam circa dolum, hoc fecisset, quia quo ad restitutionem, tenebitur ut de dolo;, puta si prope domum de facili combustibilem posuisset fucinam vel magnum ignem fecisset, quia non est culpa levis sed est adeo lata, quae aequiparatur dolo». ANTONIUS DE BUTRIO, In Librum Quintum Decretalium commentarij, Venetiis, 1578, f. 49 v., n. 19 [ad X. 5, 12, 6 Sicut dignum]: «[…] In foro animae solum est de negligentia puniendus, et ad emendationem damni non tenetur […]». FRANCISCUS ZABARELLA, Super IV et V Decretalium, subtilissima commentaria, Venetiis, 1602, f. 73 v., n. 4 [ad X. 5, 12, 6, § 5 Eos insuper]: «[…] non ita tenetur quis de omni culpa in foro poenitentiali, sicut in iudiciali. Ratio: in poenitentiali tenetur de prava mente tantum. Ergo de culpa quae processit de mente, quod signa. Quaero si in foro poenitentiali satisfcatum plene fuit laeso, an tenetrur alter satisfacere. Dicit Innocentius quod non: sed tenetur compensare satisfacienti. Vult Innocentius denotare differentiam fori contentiosi ad poenitentiale: quia in contentioso uno malefactore satisfaciente, non per hoc alii liberantur […]. Sed in poenitentiale secus: tamen etiam in contentioso quo ad restitutionem laesi uno satisfacente, omnes liberantur, sed non quo ad penam publicam […] et idem dico de penitentiali quo ad hoc. Unde etiam dicit Innocentius quod non sufficit delinquenti, quod laeso satisfacerit, immo spiritualis penitentia debet sibi iniungi pro peccato». Tra i sommisti si vedano: SYLVESTER PRIERATE, Summa silvestrina, Venetiis, 1569, pars I, p. 59, ad verbum Advocatus, § 24: «quia Innocentius […] de hoc dicit, quod in foro animae non punitur quis ad satisfactionem damni, si intulit illud praeter propositionem: sed punitur neglegentia, quasi velit, quia in foro animae habeatur respectus ad voluntatem delinquentis»; p. 379, ad verbum Culpa, § 4: «Sed […] dictum Innocentii placet magis: et est opinio communior […]»; pars II, pp. 614-615, ad verbum Restitutio II, § 12: «Et in foro contentioso venit hic etiam culpa levissima […] sed in foro poenitentiali seundum Innocentium […] non teneatur quis, nisi ex dolo vel lata culpa»; p. 616, § 17: «Sed in foro conscientiae non tenetur quis in huiusmodi, nisi de dolo et lata culpa […]. In foro vero contentioso actione legis Aquiliae tenetur damnificans de culpa levissima». ANGELUS DE CLAVASIO, Summa angelica de casibus conscientialibus, Venetiis, 1628, p. 279, § 6 [sub verbo Culpa]: «Utrum in foro animae teneatur quis restituere damnum, quod dedit proximo ex culpa sua? Respondeo quod licet Innocentius in capitulo Quia plerique, de immunitate ecclesiarum [X. 3, 49, 8] velit quod solum de dolo, et lata culpa teneatur, et multi doctores pro singulari dicto habeant. Tamen eo credo quod teneatur de omni damno ex quacunque culpa sua, de qua tenetur tamen de iure civili, quam canonico […]». 581 Per un profilo bio-bibliografico si veda da ultimo O. CONDORELLI, Niccolò Tedeschi (Abbas Modernus, Panormitanus), in DBGI, vol. II, Bologna, 2013,, pp. 1426-1429. 582 ABBAS PANORMITANUS, Prima interpretationum in primum Decretalium librum pars, Lugduni, 1547, f. 20 r., n. 11[ad X. 1, 2, 1 Canonum]: «Hinc singulariter dicit Innocentius in capitolum sicut dignum de homicidio [X. 5, 12, 6] quod si quis infert damnum proximo ex culpa levi, vel levissima non ex proposito, nec lata culpa, non tenetur resarcire damnum in foro poenitentiae. Sed satis est pro delicto agere 580 129 Altre volte vengono nutriti dubbi circa la validità della posizione di Innocenzo IV, come è dato riscontrare nel commento al passo dell’Esodo (22,5) relativo alla responsabilità di colui che abbia acceso un fuoco nel suo campo, poi propagatosi al campo altrui danneggiandone le messi583. Lo stesso dicasi per il commento alla decretale Si culpa tua584, in cui il Panormitano sostiene che, sia per il diritto canonico che per quello civile, l’azione aquiliana può essere esperita nel foro contenzioso, così come in quello interno, anche in caso di colpa lieve e lievissima: «nota primo ex testu, quod ex sola culpa, seu negligentia, tenetur quis ad satisfactionem damni, etiam de iure canonico, quantocunque non habuit voluntatem damnificandi. Et cum haec litera loquatur indistincte de culpa seu negligentia, debet intellegi de qualibet culpa, quia indefinita aequipollet universali […] Infertur ergo, quod in hac actione legis Auiliae, venit levissima culpa de iure canonico sicut de iure civili ut l. Aquilia, ff., Ad legem Aquiliam [D. 9, 2, 44]. […] Et facit iste textus sic intellectus contra opinionem Innocentii in capitolum Sicut dignum, De homicidio [X. 5, 12, 6], et dixi in capitolum Si egressus, supra eodem [X. 5, 36, 5]. Ut etiam in foro animae teneatur ad emendam, licet ex levissima culpa damnum illatum sit quia cum haec sit lex principis, et valde rationabilis, et non sit mera poena ex parte damnum passi, deberet observari etiam in foro animae […]. Nec obstat c. Inaebriaverunt 15, q. 1 [C. 15, q. 1, c. 9] super quo fundat Innocentius quia ibi est mera poena, sed hic est interesse ex parte patientis damnum»585. Le osservazioni del Panormitano, come messo in rilievo dal Massetto, vanno a toccare anche un «un punto delicato, vale a dire il fondamento e la natura stessa del risarcimento»586 che, nel passo riportato, viene configurato, per la parte danneggiata (ex parte damnum passi), come interesse e non come poena. In materia di damnum iniuria datum costituiva principio indiscusso il fatto che la sanzione conseguente al danno arrecato per colpa lieve o lievissima dovesse essere intesa come una pena diretta a colpire la negligenza587. Parimenti indiscusso era il poenitentiam: secus est in foro contentioso […]»; ID., Secunda interpretationum in primum decretalium librum pars, Lugduni, 1547, f. 218 v., n. 12 [ad X. 1, 43, 4 Dilecti filii]: «[…] sed adde tu Innocentium in capitolum sicut dignum de homicidio [X. 5, 12, 6] ubi plenus non voluit quod in foro poenitentiali non tenetur quis ad emendationem delicti seu damni dati nisi fuerit in dolo, seu lata culpa: secus si fuit in culpa levissima, vel levi, unde previsio legis Aquiliae super resartione damnorum non habet locum foro animae, nisi modo praedicto. Quod est singulariter notandum». 583 X. 5, 36, 5 Si egressus: «Si egressus ignis invenerit spinas, et comprehenderit acervos frugum sive stantes segetes in agris, reddet damnum qui ignem succenderit». 584 X. 5, 36, 9 Si culpa tua. 585 ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f. 198 r., n. 1 [comm. ad X. 5, 36, 9 Si culpa tua]. 586 G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1132. 587 Siffatto principio trova il suo fondamento nel frammento grazianeo C. 15, q. 1, c. 9 Inebriaverunt, relativo all’episodio biblico di Loth e sua figlia. Ambedue ebbri, si congiunsero carnalmente. Loth fu 130 principio per cui la pena imposta da una norma di diritto positivo canonico o civile non fosse da osservare nel foro interno giacchè in foro animae è sufficiente che il sacerdote imponga poenitentiam pro delicto588. L’Abbas Panormitanus tentò di conciliare il dictum di Innocenzo IV, poggiante sul Decretum di Graziano (C. 15, q. 1, c. 9), con la decretale Si culpa tua di Gregorio IX ed il giustinianeo D. 9, 2, 44, in modo da evitare la discrasia tra foro esterno e foro interno. Dunque il risarcimento viene configurato come interesse rispetto al danneggiato (respectu damnum passi) e come poena rispetto al danneggiante (respectu inferentis), pena che in coscienza non deve trovare applicazione quando si è al di fuori delle ipotesi di dolo e culpa lata589. Il tentativo, pur autorevole, del Panormitano venne tuttavia criticato da Filippo Decio, autore di commentari al Liber Extra in cui emerge «una preferenza spiccata per l’interpretazione di Nicolò de Tedeschi»590. Ad avviso del giurista milanese il ricorso del Panormitano alla glossa cum augmento a C. 12, q. 2, c. 11 non era accettabile in quanto essa si riferisce alla pena ex parte colpevole non tanto per l’incesto quanto per per l’ubriachezza. Quest’ultima costituisce il titolo per cui Loth deve essere punito. In tal senso cfr. ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f. 198 r., n. 1 [comm. ad X. 5, 36, 9 Si culpa tua]. 588 Cfr. in tal senso glossa cum augmento ad C. 12, q. 2, c. 11 Fraternitas: «[…] ecclesia non petet poenam, sed iudex ex officio suo eam infliget, et dabit ecclesiae cui sanctitas ignoscendi gloriam dereliquit» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 921]. Questa glossa attirò l’attenzione dell’ABBAS PANORMITANUS, Prima interpretationum in primum Decretalium librum pars, Lugduni, 1547, ff. 19 v.-20 r., n. 10 [ad X. 1, 2, 1 Canonum]: «Item addo glossa non quam nescio alibi XII q. II fraternitas in glossa finali in fine ubi dicit, quod poena imposita per legem positivam, non est servanda in foro animae, seu poenitentiae: sed satis est, quod sacerdos imponat poenitentiam pro delicto. Et duplex illius dicti potest esse ratio. Prima: quia poena imponitur per iudicem in foro contentioso […]. Secunda ratio: quia poena imponitur ut coeteri metum habeant […]». Il Panormitano fu criticato da PHILIPPUS DECIUS, I Decretalium Volumen perspicua Commentaria, Venetiis, 1593, f. 7 v., n. 72 [prima lectura ad X. 1, 2, 1 canonum], secondo cui la prima ratio esposta dal Panormitano «parum valet, quia […] lex civilis licet in foro civili, et contentioso dirigatur ad iudicem, habet tamen locum in foro conscientiae si iusta sit». Circa la seconda ratio, il Decio prosegue dicendo che «immo poena imponitur, ut delictum puniatur, et regulariter poena delicto commensuratur». 589 ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f. 197r. [comm. ad X. 5, 36, 5 Si egressus]: «[…] sed in levi, et levissima non tenetur ad aestimationem, sed imponitur poenitentia argumento XV q. 1 inebriaverunt. Secus est in foro contentioso: quia in aquiliana actione venit etiam levissima culpa […] Et hoc dictum Innocentii est valde singulare de quo multo dubito. Quare forus animae debeat discrepare a foro contentioso cum hic lex sit valde rationabilis: nisi dicatur quod licet ista aestimatio sit interesse respectu damnum passi. Respectu tamen inferentis est poena quae in foro animae non debet habere locum: ex quo est extra dolum et latam culpam: quinimo ubi subest dolus: licet in foro animae teneatur ad aestimationem non tamen tenetur ad poenam. Glossa est singularis in c. fraternitas XII q. II». 590 M. G. DI RENZO VILLATA, Decio, Filippo, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 729-731. 131 utriusque, non già al caso in cui si tratti di pena ex parte solventis, al quale pertanto non può essere estesa591. Filippo Decio criticò anche la posizione di altri auterevoli canonisti, come Felino Sandeo592, secondo cui le norme che obbligano per colpa lieve o lievissima si fondano su una presunzione593 di negligenza che viene disattesa nel foro della coscienza. Il dibattito sorto intorno al dictum di Innocenzo IV vide l’affermazione del principio secondo cui nel foro interno non sono osservate quelle norme che sanciscono la responsabilità per colpa lieve o lievissima poiché tali specie di colpa prescindono dalla volontà di arrecare un danno. Ciò obbediva del resto alla diversa finalità del foro interno e del foro contenzioso, sia esso civile o canonico. Avendo di mira la salus dell’anima, il foro interno tiene in considerazione l’animus nocendi. Nel caso del dolo o della culpa lata questa volontà ricorre e pertanto si risponderà del danno anche nel foro interno. Nel caso invece di colpa lieve e lievissima nel foro interno sarà sufficiente una penitenza considerata la mancanza di voluntas nocendi. Queste conclusioni conobbero in dottrina degli avversari la cui posizione, favorevole alla responsabilità anche in foro interno per culpa levis e levissima, rimase tuttavia minoritaria594. PHILIPPUS DECIUS, I Decretalium Volumen perspicua Commentaria, Venetiis, 1593, ff. 9 v.-10 r., n. 36 [secunda lectura ad X. 1, 2, 1 canonum]: «Sed advertendum est , quia de illo dicto Innocentii Abbas [Panormitanus] dubitavit in capitolum Si egressus […] ibi lex canonica obligat in foro contentioso dantes damnum ex culpa levi, vel levissima. Ergo videtur hot etiam habere locum in foro conscientiae […] Abbas in dicto capitulo Si egressus conatur respondere, et dicit quod emendatio damni est poena ex parte solvenits, et poena in foro conscientiae non debetur». Viene a questo punto menzionato il ricorso del Panormitano alla glossa ad C. XII, q. 2, c. 11 Fraternitas, ma a Filippo Decio «ista responsio non placet duplici ratione. Prima est, quia talis ratio etiam militaret in lata culpa, quae etiam ex parte solventis esset poena, et tamen illa in foro conscientiae peti potest […]. Secunda quia glossa in dicto capitulo Fraternitas, dato quod sit vera, intelligitur de poena propria ex parte utriusque, et non habet locum in poena solum ex parte solventis […]». 592 FELINUS SANDEUS, Commentaria in Decretalium libros V, pars III, Venetiis, 1584, col. 1024, n. 17: «Unde dici posset, quod immo ista lex civilis non ligat in conscientiam, quia fundat se in quadam presumptionem, quam videtur in se habere illa negligentia». [X. 5, 12, 6 sicut dignum]. 593 Il Sandeo fa rimerimento alla celebre theorica Baldi secondo cui, stando al dato testuale del Sandeo, «lex civilis fundans se super praesumptione, non ligat in foro conscientiae […]». La Theorica cui si fa riferimento si può leggere in BALDUS, Commentaria in primum, secundum et tertium Codicis lib., Venetiis, 1572, ff. 81 v.-82 r., n. 19 [ in C. 1, 18, 10]. 594 Come ad esempio A. BARBATIA, Utilissima scripta in titulum de testamentis, Papiae, 1504, in c. Raynutius, versiculus Item in quantum, segnalato da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. p. 1132, nota 307. Cfr. anche I. CLARUS, Practica criminalis sive sententiarum receptarum liber V, in ID., Opera omnia, sive practica civilis atque criminalis, Genevae, 1666, p. 826 [q. 80, versiculus Sed hic incidenter]. 591 132 4.3) (segue) Il nesso di causalità Ulteriore elemento di vicinanza tra il diritto civile e quello canonico è costituito dal nesso di causalità tra il fatto che ha provocato il danno e l’evento dannoso, riassunto nel celebre brocardo secondo cui «qui causa damni dat damnum dedisse videtur»595. È questo un principio che trova il suo fondamento in numerosi frammenti dell’utrumque ius596. Il fatto che ha provocato il danno, per rilevare a livello eziologico, deve configurarsi come causa proxima597, non già remota. Il sintagma causa proxima indica il fatto che ha prodotto il danno mentre causa remota rappresenta il fatto che, nella catena causale, ha avviato l’iter dell’azioni che hanno avuto, come ultimo momento, il fatto dannoso. Tuttavia il principio conosce delle eccezioni giacchè anche l’occasio remota può determinare la responsabilità, qualora si sia agito «animo nocendi […] vel minori diligentia»598. Ne deriva dunque la necessità di distinguere tra la liceità e l’illiceità del fine cui tende l’azione. Siffatta distinzione viene in rilievo nella canonistica attraverso il diverso regime cui soggiacciono qui dat operam rei licitae e colui che invece dat operam rei illicitae599. Nel primo caso infatti l’aver usato della debita diligenza non comporta il sorgere della responsabilità600 la quale invece sussiste ove non si sia fatto uso di tale Glossa redundare ad C. 31, q. 2, c. 3 de neptis: «Nota regulam: qui occasionem damni dat, damni dedisse videtur»[in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 1485]; glossa causam dedisse ad X. 5, 12, 11 De caetero: «Et est argumentum quod qui occasionem damni dat, damni dedisse videtur» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1206]. 596 Si veda la rassegna puntualmente fornita da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1129, nt. n. 275. 597 Glossa eorum ad C. 1, q. 1, c. 103: «et qui damni causam vel occasionem dat, et qui damnum dedisse videtur […] hoc intelligendum est de causa proxima […]» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 518]. 598 Glossa causam dedisse ad X. 5, 12, 11, De caetero [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1206]. 599 Con riferimento all’omicidio involontario conseguenza di un’azione lecita od illecita si veda L. KÉRY, Non enim homines de occultis, sed de manifestis iudicant. La culpabilité dans le droit pénal de l’Église à l’époque classique, in RDC, 53 (2003), 2, pp. 334-335. 600 Si può vedere in tal senso C. 23, q. 5, c. 8 De occidendis, riportante un frammento agostiniano. 595 133 diligenza601. Nel caso invece in cui sia stata data operam rei illicitae, l’agente è sempre responsabile602. La predetta dicotomia, risalente al grande canonista Simone da Bisignano603, permette altresì ai giuristi di risolvere un numero non esiguo di fattispecie tramandate dai testi giustinianei ma che generavano dubbi negli interpreti considerato il distacco temporale tra i frammenti romanistici e la nuova epoca del rinascimento giuridico604. La decretale Si culpa tua ribadisce sostanzialmente il principio di cui alla regola «qui causa damni dat damnum dedisse videtur». Giova ricordare tuttavia che non si tratta di un principio assoluto, stante il regime (già visionato supra § 4.1) della non imputabilità di infantes e furiosi, nonché delle scriminanti. Alla luce di quanto affermato ben si comprende la riformulazione del principio che, nelle parole della glossa, diventa «non omnis qui occasionem damni dat, damnum dedisse videtur»605. 5) La legittimazione attiva e passiva Nella dottrina civilistica medievale è dato riscontrare la tendenza a vanificare la reale portata ed efficacia della tripartizione dell’actio legis Aquiliae in directa, utilis ed in factum. Come si è avuto modo di vedere nel primo capitolo, l’actio directa era 601 D. 50, c. 50. Per il diritto romano si veda D. 9, 2, 30, 4. Si veda il celebre frammento D. 50, c. 48 Placidus; X. 5, 19, 19 Naviganti; glossa dederunt ad X. 2, 20, 9 Sicut nobis: «Qui dat occasionem damni, si dat operam rei licitae, et adhibet diligentiam quam potest, non tenetur de ijs quae inde sequuntur […] si dat operam illicitae rei, semper imputatur ei quod inde sequitur […]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 504]; glossa bonum ad C. 23, q. 5, c. 8: «si aliquis dat operam rei licitae quod non est imputandum, si aliquid mali indi sequatur […]. Nam Deus est inspector cordis, non operis […]» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 1255]. Per il diritto romano cfr. D. 9, 2, 11, pr. 603 Come riferisce S. KUTTNER, Kanonistische Schuldlehre von Gratian bis auf die Dekretalen Gregors IX. Systematisch auf Grund der handschriftlichen Quellen dargestellt, cit., p. 204, in cui cita l’apparato del decretista ad C. 15, q. 1, c. 13: «[…] et quidem credimus, quod si rei licite dabam operam […] quod michi non debet imputari; […] si vero illicite rei dabam operam […], est quod michi debeat imputari […]» [ms. Cod. Bamb. Can. 38]. Sul celebre decretista calabrese cfr. A. FIORI, Simone da Bisignano, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, p. 1869. 604 In tal senso si veda G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1130. 605 Glossa bonum ad C. 23, q. 5, c. 8: «Item est hic argumentum quod non omnis, qui occasionem damni dat, damnum dedisse videtur […]» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 1255]. 602 134 esperibile in caso di lesione materiale di una cosa altrui direttamente determinata dall’attività fisica del soggetto attivo («damnum corpore corpori datum»); l’azione utilis era invece esperibile nel caso di danno «non corpore at corpori datum»; infine l’actio in factum riguardava un danno arrecato «nec corpore nec corpori». Risultò comune ai civilisti medievali «fare delle tre azioni, per così dire, una cosa sola»606, quasi a voler creare un’azione da concedere, per utilizzare le parole del giurista settecentesco Heinecke, «ob damnum qualecumque iniuria datum»607. Del resto già Donello aveva rilevato che «directa et in factum actio et utilis eandem vim habent, quoties idem persequantur: formula enim tantum interest, res eadem est»608. Si tratta comunque di una tendenza percepibile, sostanzialmente, in alcune affermazioni di celebri giuristi609, i quali ebbero sempre presente, sotto il profilo formale, la tripartizione romanistica dell’azione. Un'altra ipoteca romanistica che ritroviamo nel pensiero dei giuristi medievali fu quella relativa alla natura penale dell’actio legis Aquiliae. Fu proprio la penalità dell’azione l’ostacolo al processo di ampliamento del campo di applicazione della lex Aquilia dal momento che, come notato dal Rasi, «una azione penale mai assume carattere generale»610. Che la depenalizzazione dell’actio legis Aquiliae fosse iniziata già con Giustiniano lo ha dimostrato il Rotondi nel suo celebre, e ancora valido, studio611. I doctores medievali si trovarono tuttavia di fronte ai testi del Corpus di Giustiniano da cui traspariva numerosi indici (e conseguenze) della penalità dell’azione quali la litiscrescenza ex infitiatatione, la stima del maggior valore che la res danneggiata abbia avuto nell’anno o nel mese antecedente al fatto dannoso, l’intrasmissibilità passiva, la solidarietà cumulativa e l’applicabilità dell’azione nossale. Un disagio era tuttavia creato nei giuristi dal carattere penale dell’azione, quasi esistesse la volontà in essi di distaccarsi da esso. Ponzio da Lerida qualificò l’actio legis L’espressione è di G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1140. 607 HEINECCIUS, Elementa iuris civilis, secundum ordinem Pandectarum, VI ed., Genevae, 1747, p. 212, [liber IX, tit. II, § 194]. 608 HUGO DONELLUS, Commentarius ad tit. dig. ad legem Aquiliam, cap. III, n. 3, in ID., Opera omnia, t. X, Maceratae, 1832, col. 11. 609 Si veda la ragionata rassegna fatta da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1140-1141. 610 P. RASI, L’ actio legis Aquiliae e la responsabilità extracontrattuale nella “Glossa”, cit., p. 734. 611 G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C.Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 14 (1916), pp. 967-970. 606 135 Aquiliae sive damni come «rei persecutoria», «pene persecutoria» ed anche «mixta»612, nel senso che l’azione può tendere al conseguimento talora del valore della res danneggiata, talaltra della pena. E della distinzione tra le due “funzioni” dell’actio legis Aquiliae, penale (che tende appunto alla pena, passivamente intrasmissibile agli eredi se non nei limiti di quanto sia loro pervenuto, oppure nel caso in cui «lis sit contestata») e civile (che tende alla rei persecutio cioè all’aestimatio damni, trasmissibile sul lato passivo), vi è traccia in Odofredo, ma anche in Bartolo e Baldo613. In merito al problema della legittimazione attiva l’actio directa continuò a competere al dominus o al suo erede e successore, rimanendo esclusi il comodatario, l’usufruttuario, il bonae fidei emptor ai quali invece spettava l’actio utilis o quella in factum. Sul versante della legittimazione passiva l’azione diretta era esperibile contro colui che avesse arrecato il danno «suo corpore». Nel caso invece di danno arrecato «alio modo» si dava luogo all’actio utilis o a quella in factum. In presenza di una pluralità di danneggianti i civilisti furono concordi nel ritenere punibili tutti i partecipanti all’azione nell’incertezza del vero auctor del danneggiamento. Similmente i canonisti tra cui spicca il raffinato Giovanni d’Andrea che, in merito, affermò: «si non apparet qui ex pluribus percussoribus servi illum occiderit, omnes tenetur: alias ille solus»614. Quanto al problema della solidarietà i Glossatori ne sostennero la portata cumulativa, essendo giuristi più legati al testo giustinianeo e riconoscendo pertanto la natura penale dell’actio legis Aquiliae. I doctores iuris che operarono nei tempi successivi all’età della Glossa, più affrancati dalla littera legis di Giustiniano, affermarono invece il principio della solidarietà liberativa. Si è già visto che dalla natura penale della lex Aquilia derivò anche la intrasmissibilità dell’azione sul piano passivo, che è la conseguenza più tipica della penalità in ossequio a D. 9, 2, 23, 8615, celebre frammento ulpianeo a cui la dottrina civilistica medievale rimase a lungo fedele. PONTIUS DE YLERDA, Summa arboris actionum, Tertia divisio, (edidit G. ROSSI, La Summa arboris actionum di Ponzio da Ylerda. Edizione critica con studio introduttivo, Milano, 1951, pp. 59-60). 613 Sul punto si rinvia a G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1155-1156. 614 IOANNES ANDREAE, In quintum Decretalium librum Novella Commentaria, Venetiis, 1581, f. 62 v., n. 12, comm. in X. 5, 12, 18, ad verba si plures. 615 «Hanc actionem et heredi ceterisque successoribus dari constat: sed in heredem vel ceteros haec actio non dabitur, cum sit poenalis, nisi forte ex damno locupletior heres factus sit». 612 136 Diversamente avvenne per il diritto canonico616. In alcuni frammenti del Decretum di Graziano e del Liber Extra, riguardanti fattispecie di omicidio, furto, rapina, usura e incendio piuttosto che di damnum iniuria datum, vengono enunciate regole particolari secondo le quali, in diritto canonico, gli eredi del damnificans sono obbligati e quindi responsabili per i delitti del defunto, sebbene la lite non sia stata contestata e dal delitto non sia pervenuto alcunchè agli eredi. Il cardinale Ostiense ben sintetizzò questa peculiarità del diritto della Chiesa con le seguente parole: «[…] secundum ius canonicum haeredes, obligantur ex delictis defunctorum, ex quo tenent bona haereditaria, quamvis lis cum defuncto non fuerit contestata, et quamvis ex delicto nihil pervenerit ad eosdem»617. È questo uno degli aspetti più interessanti della storia del diritto canonico, che ha da sempre attirato l’attenzione della dottrina, anche civilistica, antica e moderna, fino ad arrivare al dibattito nella scuola canonistica laica italiana del XX secolo innescato dalle memorabili pagine di Pio Fedele618. 5.1.) (segue) Responsabilità dell’erede per il delitto del defunto Nel Corpus Iuris Canonici troviamo disseminati numerosi frammenti che sanciscono la regola secondo cui, in diritto canonico, gli eredi del danneggiante sono responsabili per i delitti del defunto, sebbene la lite non sia stata contestata e dal delitto non sia ad essi pervenuto alcunchè. Ebbe modo di soffermarsi su questo aspetto G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), p. 251, secondo cui «i civilisti avevano, a questo proposito l’esempio del diritto canonico, in cui la trasmissibilità era stata riconosciuta […], salvo ad oscillare i canonisti quanto alla giustificazione che si dovesse dare», [proseguendo il Rotondi nella relativa nota], «o in base a un presunto mandato del defunto, o ad exonerandam conscientiam defuncti […]». Per un inquadramento generale delle differenze tra diritto romano e diritto canonico circa le materie privatistiche e pubblicistiche cfr. J. PORTEMER, Recherches sur les “Differentiae juris civilis et canonici” au temps du Droit classique de l’Eglise, I, L’Expression des “Differentiae”, Paris, 1946. 617 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In tertium Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, p. 94 r., n. 10, comm. ad X. 3, 28, 14. 618 Cfr. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano, 2000, pp. 266-273 [cap. VI, § 9. Fioritura canonistica], ora in ID., Scritti canonistici, a cura di C. FANTAPPIÈ, Milano, 2013, pp. 183-191; C. FANTAPPIÈ, Diritto canonico codificato, in DBGI, vol. II, Bologna, 2010, pp. 654-700, in part. pp. 678-679. Di recente è tornato sul tema M. NACCI, La cultura giuridica del Diritto canonico: il “laboratorio” degli anni Trenta del Novecento in Italia, in Apollinaris, 2012, 1, pp. 73-147. 616 137 In tal senso sembrano deporre i frammenti C. 12, q. 2, c. 34619 e C. 16, q. 6, c. 3 contenuti nel Decretum di Graziano. Quest’ultimo frammento, in particolare, cristallizza la regula, di fondamentale importanza, per cui «delictum personae in dampnum ecclesiae non est convertendum», vale a dire dall’azione delittuosa di una persona non deve, in ogni caso, conseguire un depauperamento dell’ente a cui essa appartiene: «si episcopum (quod absit) talem culpam conmisisse constiterit, ut constet eum non irrationabiliter esse depositum, eadem eius depositio confirmetur, et omnes res suae ecclesiae que ablatae fuerant, restituantur, quia delictum personae in dampnum ecclesiae non est convertendum. Si autem dicitur, quia Comitiolus defunctus est, ab herede eius que ab illo iniuste ablata sunt sine excusatione reddantur»620. Sempre in tema di responsabilità dell’erede ex maleficio ritroviamo alcune testimonianze riportate dalle Decretales di Gregorio IX, tra cui spiccano i frammenti X. 3, 21, 3621, X. 3, 28, 14622, X. 5, 17, 5623, e X. 5, 39, 28624 mentre per la responsabilità ex contractu emerge X. 5, 19, 9 (in tema di usura)625. «Episcopus, qui filios aut nepotes non habens, alium quam ecclesiam relinquit heredem, si quid de ecclesia non in ecclesiae causa aut necessitate presumpsit, quod distraxit aut donavit irritum habeatur. Qui vero filios habet, de bonis, que reliquit, ab heredibus eius indempnitatibus ecclesiae consulatur». 620 Come precisato da V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. I, La discussione del problema in Graziano e nella decretistica, Milano, 1971, p. 78, la fattispecie riguarda «[…] un vescovo che, deposto per i suoi delitti, è tenuto a restituire, personalmente o tramite i suoi eredi, tutto quanto appartiene alla chiesa, affinchè questa non soffra alcun svantaggio in seguito all’attività furtiva del suo ministro». 621 Lettera decretale di Alessandro III così intitolata: «Si rector ecclesiae pro facto proprio rem ecclesiae obligavit, cogitur eius heres rem redimere, et ecclesiae restituere». 622 «Parochiano tuo, qui excommunicatus pro manifestis excessibus, videlicet homicidio, incendio, violenta manuum iniectione in personas ecclesiasticas, ecclesiarum violatione vel incestu fuit, dum ageret in extremis, per presbyterum suum iuxta formam ecclesiae absolutus, non debent coemeterium et alia ecclesiae suffragia denegari, sed eius heredes et propinqui, ad quos bona pervenerunt ipsius, ut pro eodem satisfaciant, censura sunt ecclesiastica compellendi». 623 «In literis tuis, quas I. lator praesentium exhibuit, continebatur, quod, quum H. multis fuisset criminibus irretitus, qui ecclesiarum incendium diabolo instigante commiserat, tandem in ultima aegritudine constitutus, se confessus est peccatorem, et, accepta poenitentia de commissis, per manum capellani sui fuit a sententia anathematis absolutus, sed moriens ecclesiasticam sepolturam habere nequivit. Quapropter, si ita res se habet, fraternitati tuae per apostolica scripta praecipiendo mandamus, ut corpus eiusdem patris I. supra dicti appellatione cessante facias in coemeterio sepeliri, et haeredes eius moneas et compellas, ut his, quibus ille per incendium vel alio modo damna contra iustitiam irrogaverat, iuxta facultates suas condigne satisfaciant, ut sic a peccato valeat liberari». 624 Lettera decretale di Innocenzo III risalente al 1199 così intitolata «Excommunicato, decedenti in excommunicatione, quantocunque contritus decesserit, non est communicandum ante absolutionem, nec pro eo orandum, licet sit quoad Deum absolutus. Sed si constat ecclesiae de contritione praecedenti, absolvetur etiam post mortem ab eo, a quo vivus fuerat absolvendus; et heredes eius compelluntur per ecclesiam ad satisfaciendum pro eo». 625 «Tua nos duxit fraternitas consulendos, quid sit de usurariorum filiis observandum, qui eis, in crimine usurarum defunctis, succedunt, aut de extraneis, ad quos bona usurariorum asseris devoluta. Tuae igitur quaestioni literis praesentibus respondemus, quod filii ad restituendas usuras ea sunt districtione cogendi, qua parentes sui, si viverent, cogerentur. Id ipsum etiam contra heredes extraneos credimus exercendum». 619 138 Nella dottrina canonistica non vi fu uniformità di vedute circa gli elementi necessari a far sorgere la responsabilità dell’erede per i delitti del de cuius626. Per quanto riguarda la necessità della contestazione della lite col defunto essa fu negata da Innocenzo IV627 e dall’Ostiense628. Tuttavia già la Glossa di Giovanni Teutonico al Decretum aveva mostrato una posizione rigida nei confronti degli eredi, ritenendo non necessaria la contestazione della lite per le obbligazioni ex maleficio dal momento che sorge una presunzione di arricchimento contro l’erede629. Questa posizione, chiaro segnale della rigidità canonica nella materia de qua, non aveva però riscontro nel diritto civile che, per i delitti, richiedeva la contestazione della lite per poter rivalersi sull’erede. Ugualmente controversa fu la questione se la responsabilità dovesse essere estesa ultra vires haereditatis. Si deve al ricco studio condotto da Vito Piergiovanni l’aver sottolineato l’esigenza di distinguere tra quanto affermato da Graziano nel Decretum e l’elaborazione successiva di decretisti e decretalisti, certamente più vasta e approfondita, in merito alla predetta questione. Contrariamente a quanto sostenuto dal Salvioli630, si ritiene che nell’opera grazianea non sia prevista per l’erede una responsabilità illimitata, non ristretta cioè all’eventuale arrichimento derivato dall’azione dannosa del de cuius, per cui egli sarebbe tenuto anche «ultra vires haereditatis». Al contrario la lettura del testo grazianeo sembrerebbe richiedere la semplice restituzione631. Per approfondimenti in merito si rinvia a L. SICILIANO VILLANUEVA, Leggi e canoni in materia di diritto privato secondo i principali canonisti e legisti del secolo XIII, in Studi di diritto romano, di diritto moderno e di storia del diritto pubblicati in onore di Vittorio Scialoja nel XXV anniversario del suo insegnamento, vol. II, Milano, 1905 , pp. 419-421. 627 INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 615, [comm. ad X. 5, 17, 5 In literis tuis, sub verbis Et haeredes]: «Vel dic, quod secundum canones bene datur actio in haeredem ex maleficio defuncti 16 q. 6 c. si episcopum [C. 16, q. 6, c. 3], nec attenditur si sit lis contestata cum defuncto, an non, vel pervenerit, an non, dummodo defunctus teneatur, et vires matrimonij [sic! corrige: patrimonij] defuncti sufficiat». 628 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In tertium Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 94 r., n. 10 [comm. ad X. 3, 28, 17 Parochiano tuo]: «[…] secundum ius canonicum haeredes obligantur ex delictis defunctorum, ex quo tenent bona haereditaria, quamvis lis cum defuncto non fuerit contestata […]». HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 54 v., n. 1 [comm. ad X. 5, 17, 5 In literis tuis, sub verbis Et haeredes eius ]: «[…] secundum canones tenetur haeres ex delicto defuncti, etiam si cum ipso lis non fuerit contestata […]». 629 Cfr. V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. II, Le «penae» e le «causae» nella dottrina del sec. XIII, Milano, 1974, pp. 176-177 riportante anche il testo latino dell’apparatus del Teutonico a C. 16, q. 6, c. 3 ed a C. 12, q. 2, c. 34. 630 G. SALVIOLI, La responsabilità dell’erede e della famiglia pel delitto del defunto nel suo svolgimento storico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1886, pp. 3-46; 173-210. 631 Cfr. V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. I, cit., 87-89. 626 139 Per quanto riguarda la dottrina decretistica e decretalistica militarono per l’estensione della responsabilità ultra vires haereditatis la Glossa ordinaria al Decreto632 ed Uguccione da Pisa633, mentre la esclusero Innocenzo IV634, l’Ostiense635 e Bernardo di Parma636. Merita attenzione altresì la posizione di Raimondo de Peñafort in cui emerge il contrasto tra legge civile e legge canonica e la consequenziale particolarità della situazione in cui si trova l’erede che, nel diritto della Chiesa, si trova spesso obbligato a dover soccorrere l’anima del defunto: «[…] Ut autem circa heredes materia latior habeatur, nota quod quilibet here, sive filius sive extraneus non distincto utrum raptoris vel alterius, tenetur iure canonico ad omnia debita defuncti persolvenda, sive fuerint ex contractu vel quasi, sive ex maleficio vel quasi; sive pervenit res illa, pro qua debitum fuit contractum, ad eum sive non, sive lis fuerit contestata cum defuncto sive non. Hanc opinionem tenuerunt omnes doctores mei, videlicet Laurentius, Tancredus, Ioannes et alii quamplures. Alanus vero distinxit secundum leges; quod non approbo, maxime in iudicio animae. Quid si non sufficit hereditas ad debita persolvenda? Videtur quod si non fecit inventarium, nihilominus teneatur ad omnia; si vero fecit, tunc non teneatur nisi in quantum hereditas sufficit. Ego credo, quod in iudicio animae non tenetur nisi quantum sufficit haereditas […]»637. Dell’intero ventaglio di frammenti canonistici sopra riportati quello che più destava preoccuazione era la decretale di Alessandro III relativa all’incendiarius ecclesiae, già presente nella Prima Compilatio (5, 14, 6) e poi confluita nel Liber Extra (5, 17, 5). Il testo della decretale alessandrina fu ritenuto molto rigido e non interpretabile in maniera favorevole. Tuttavia gli accostamenti alle più eque norme romane «inconsciamente Glossa reddantur ad C. 16, q. 6, c. 3 Si episcopum: «[…] et bene convenitur haeres, licet ad eum nihil pervenerit» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 1080]. 633 Cfr. V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. I, cit.,p. 213. 634 INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 615, [comm. ad X. 5, 17, 5, sub verbis Et haeredes]: «[…] dummodo defunctus teneatur, et vires matrimonij [sic! corrige: patrimonij] defuncti sufficiat». 635 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 54 v., n. 1 [comm. ad X. 5, 17, 5 In literis tuis, sub verbis Iuxta facultates]: «[…] nam ultra vires haereditatis non tenentur haeredes, dummodo inventarium fecerint». 636 Glossa Iuxta facultates suas ad X. 5, 17, 5 In litteris tuis: «[haeredes] ultra vires haereditatis non tenentur, si fecerint inventarium […]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1223]. 637 RAIMUNDUS DE PENNAFORTE, Summa de paenitentia, II, 5, 24, [ed. curantibus X. OCHOA-A. DIEZ, Roma, 1976, coll. 498-499]. 632 140 falsarono l’intendimento morale e dogmatico dei canoni»638, inclusa la decretale di Alessandro III, in un più vasto processo di avvicinamento tecnico e concettuale tra i due diritti, frutto di studi ed elaborazioni spesso comuni639. Il contrasto tra diritto canonico e diritto secolare (e di conseguenza quello tra legisti640 e canonisti) in tema di trasmissibilità passiva dell’actio legis aquiliae fu abbastanza netto anche se non mancarono posizioni intermedie tese alla conciliazione tra i due estremi. Ancora una volta ritroviamo l’Abbas Panormitanus, canonista che riteneva l’erede obbligato al risarcimento del danno arrecato dal de cuius in virtù della promessa ovvero dell’ordine in tal senso impartitogli in punto di morte quale segno di contrizione e pentimento. In questo modo la responsabilità dell’erede non sarebbe sorta ex delicto, ma per la tacita promessa o per il precetto imposto dal defunto641. Quanto affermato dal Panormitano verrà valorosamente contestato nel XVI secolo da Diego Covarruvias, vescovo di Segovia, attraverso un’argomentazione che faceva tesoro della distinzione, nell’ambito dell’actio legis Aquiliae, tra azione reipersecutoria, tendente al risarcimento, ed azione penale, tendente alla pena. In virtù della predetta distinzione era dunque possibile che l’erede fosse tenuto al risarcimento del danno arrecato dal delitto del defunto anche iure civili e non solamente iure canonico, e ciò non solo nel caso in cui l’erede nessun vantaggio avesse tratto dal delitto ma anche nell’evenienza in cui il defunto non avesse contestato la lite642. Così G. SALVIOLI, La responsabilità dell’erede e della famiglia pel delitto del defunto nel suo svolgimento storico, cit., p. 181. 639 V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. II, cit., p. 180. 640 Per le dottrine dei civilisti utili spunti si rinvengono in M. BELLOMO, Problemi di diritto familiare nell’età dei comuni. Beni paterni e «pars filii», Milano, 1968, pp. 94-178, pietra miliare per la conoscenza della problematica medievale riguardante la responsabilità solidale nel campo civilistico e penalistico. 641 ABBAS PANORMITANUS, In tertium Decretalium librum interpretationes, Lugduni, 1547, f. 177 r., n. 5, interpretatio ad X. 3, 28, 14. 642 DIDACUS COVARRUVIAS, Variarum ex iure pontificio, regio et cesareo resolutionum, liber tertius, caput III, n. 7, in ID., Opera omnia, t. II, Lugduni, 1574, pp. 244-245: «[…] mihi profecto non placet haec Panormitani sententia cum ex eo dicto capitulo tua nos, de usuris [X. 5, 19, 9] deduci possit, haeredes usurarij teneri ad restitutionem usurarum, etiam si is impoenitens decesserit […] Nec oberit, si quis Panormitano responderit eam decisionem in usurariis specialem esse, ideo quia usurarius non tenetur ex delicto, sed ex quasi contractu, nempe condictione indebiti […] Nam, ut ipse opinor, idem erit in haerede furis, in haerede incendiarij, in haerede raptoris: hi siquidem tenebuntur ad damni illati satisfactionem: etiam si defunctus impoenitens decesserit, saltem in foro conscientiae, et exteriori ecclesiastico […] Nec ullus erit mediocri eruditione praeditus, qui audeat haeredem furis iure pontificio, aut in interiori foro defendere a reparatione damni illati proximo per furtum commisum ab eo cuius haeres extitit. Quam ob rem non est recipienda Panormitani sententia. Quo sit, ut vel communis differentia inter ius pontificium et civile observanda sit . Vel quod forsan verius est, asseverari poterit , etiam iure civili haeredem teneri ad satisfactionem damni illati ex delicto defuncti actione rei persecutoria, quamvis nihil ex eo crimine ad haeredem pervenerit, nec lis fuerit a defuncto contestata, quaemadmodum in interiori iudicio ad id 638 141 Il dibattito intorno alla responsabilità dell’erede per i delitti del defunto sembra essere sopravvissuto al decorrere dei tanti secoli che separano l’età classica e postclassica dal periodo immediatamente successivo alla codificazione canonica del 1917. Nell’agone dottrinale che vide schierate le più vive intelligenze giuridiche della scuola canonistica laica del XX secolo il problema della responsabilità dell’erede per i delitti del de cuius ritornò in auge quale ennesimo argumentum che testimonia la peculiarità del diritto canonico rispetto ai diritti secolari. Fu il genio precoce di Pio Fedele a rispolverare dal glorioso passato dello ius vetus un tipico istituto canonistico che dimostra, ad avviso del grande canonista, il collegamento tra la funzione dell’aequitas canonica e la considerazione del peccato. Ad avviso del Fedele «nel presente tema tutto dipende dalla considerazione del peccato, non già della volontà del defunto. Invero, anche qui si coglie la tendenza, così diffusa tra i canonisti e manifesta nelle materie più disparate, di categorizzare sotto gli schemi del diritto civile, cioè del diritto romano, perfino gli istituti che, come quello in parola, nessun riscontro trovano in questo diritto». Si allude alla categoria del quasi-contratto che per Pio Fedele non può essere posta alla base della responsabilità dell’erede di cui ben altro è il fondamento: «non una presunta volontà del de cuius, ma un’esigenza peculiare dell’ordinamento canonico rende ragione di quest’istituto: l’esigenza di “relevare animam defuncti”; l’erede è tenuto a rispondere del delitto del defunto non già prestare osservanza alla di lui volontà, ma “ut a peccato valeat liberari”» 643. Quanto affermato dal Fedele attirò l’attenzione di Ermanno Graziani, grande Maestro del novecento giuridico, che non risparmiò argute critiche al Discorso fedeliano ed al frequente richiamo alla ratio peccati: «Che nel considerare, l’essenza di taluni istituti, si debba aver riguardo alla “ratio peccati” è una facile concessione che si può fare all’A., ma non certo, per esempio, quando a proposito della responsabilità dell’erede pei delitti del defunto […], afferma che si pone a carico dell’erede l’obbligazione “de satisfaciendo” derivante dalla promessa del de cuius pentitosi prima di morire, non già in forza della volontà del de cuius, ma per la necessità di “relevare animam” del reo dopo la morte. Non è questa haeres tenetur. Nam et iura Caesarum, quibus statutum est, haeredem non posse ex delicto defuncti conveniri, intelligenda sunt, quo ad actionem poenalem, ut poenam criminis solvat, non autem quo ad damni illati persecutionem: actione etenim persecutoria rei, et damni illati conveniri haeres propter crimen defuncti poterit, adhuc in foro civili et saeculari […]». 643 P. FEDELE, Discorso generale sull’ordinamento canonico, cit., p. 83. 142 una concezione tutta legalistica e antivolontaristica del peccato? Quasi che la volontà de satisfaciendo, impedita nella sua esecuzione da un accadimento, la morte, non fosse stata di per sé sufficiente a liberare il peccatore dal peccato!»644. A distanza di anni il Fedele ebbe modo di rispondere alle obiezioni delle Graziani nelle pagine de Lo Spirito del diritto canonico (ulteriore opera memorabile nello scenario canonistico del Novecento, che consacrerà definitivamente la fama del Fedele) limitandosi a dire come la responsabilità dell’erede fosse stata affermata dalla comune dottrina canonistica ed a ribadire l’infondatezza del ricorso alla categoria del quasicontratto giacchè essa sarebbe priva dell’elemento volitivo645. 6) Rapporti tra teologia e diritto canonico in tema di responsabilità È noto come alla metà del XII secolo diritto canonico e teologia cominciassero a strutturarsi con propri e differenti strumenti didattici costituiti sostanzialmente dal Decretum di Graziano e dai Libri Sententiarum di Pietro Lombardo646. La dissociazione delle due scienze, tra le quali è dato comunque riscontrare metodologie comuni, non deve tuttavia far pensare ad ogni assenza di reciproci influssi e continui contatti. Senza entrare nel vivo del dibattito circa i rapporti tra teologia e diritto canonico e lo statuto epistemologico di entrambe647, giova in questa sede ricordare la posizione del grande canonista Enrico da Susa il quale fu un convinto sostenitore del forte legame che intercorre tra teologia, diritto romano e diritto canonico, ricorrendo all’icastica E. GRAZIANI, Postilla al “Discorso generale sull’ordinamento canonico” di Pio Fedele, in Dir. eccl., 1941, p. 153. 645 P. FEDELE, Lo spirito del diritto canonico, cit., pp. 769-770. 646 Su rapporti tra diritto e teologia nell’età grazianea si veda l’efficace sintesi di C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 90-100. 647 La letteratura sul tema è molto ricca. Si consultino in particolare G. RENARD, Contributo allo studio dei rapporti tra diritto e teologia. La posizione del diritto canonico, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 16 (1936), pp. 477-521; A. M. LANDGRAF, Diritto canonico e teologia nel secolo XII, in SG, 1 (1953), pp. 373-413; G. LE BRAS, Pierre Lombard, prince du droit canon, in Miscellanea Lombardiana, Novara, 1957, pp. 245-252; G. FRANSEN, Derecho canónico y teología, in Revista espagñola de derecho canónico, 20 (1965), pp. 37-46; G. DALLA TORRE, Diritto canonico e teologia. Annotazioni su alcune costanti nella storia della Chiesa, in Archivio Giuridico, CXCII (1977), pp. 99-111; J. GAUDEMET, Théologie et droit canon, in Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte, 80 (1985), 1-4, pp. 160-166; ID., Théologie et droit canon: les leçons de l’histoire, in RDC, 39 (1989), pp. 3-13. Utili spunti si rinvengono anche in A. PADOVANI, Perché chiedi il mio nome? Dio, natura e diritto nel secolo XII, Torino, 1997, passim. 644 143 comparazione del diritto canonico ad un mulo, animale ibrido nato da un cavallo (la teologia) ed un asina (il diritto romano)648. Nonostante lo stretto contratto tra teologia e diritto canonico, non mancarono nel corso dei secoli i punti di disaccordo tra i cultori di ambedue le scienze. Testimonianza di siffatti contrasti è un testo pubblicato nel secolo scorso dal Congar649, dedicato alle materie in cui «differunt et discordant canoniste et theologi» , tra cui figura il caso del «judex qui bene judicavit post tunc credidit sed postea cum melius studiverit perpendit quod maleficit». L’anonimo autore affronta sostanzialmente la questione dell’obbligo di riparazione nel foro interno del danno arrecato con colpa lieve o lievissima. Il testo ha tramandato solamente la posizione dei canonisti che, come noto, è rionducibile alla teoria di Sinibaldo dei Fieschi (espressamente richiamata dall’anonimo autore), secondo cui in foro conscientiae dalla culpa levis o levissima non sorge responsabilità extracontrattuale essendo sufficiente la penitenza imposta dal confessore. Un ragionamento a contrario permette di individuare pacificamente la posizione dei teologi sul punto, per i quali sussiste l’obbligo di riparare il danno, sia nel foro interno che nel foro esterno, indipendentemente dal grado della culpa650. La differenza tra foro interno e foro esterno (civile e canonico) in merito alla responsabilità per culpa levis e levissiva fu ben riassunta dal giurista siciliano Antonio Corsetti facendo (quasi letteralmente) tesoro dell’insegnamento di Innocenzo IV e del conterraneo Niccolò Tedeschi: «in foro animae quis tenetur ad emendam damni, quando fuit in dolo vel lata culpa, quae aequiparatur dolo […] secus si fuit in levi vel levissima culpa, licet enim tunc posset agi ad emendam damni in foro contentioso lege Aquilia, quae tendit ad conservationem patrimonij […] secus in foro animae, quia imponeretur poenitentia iuxta modum culpae […]»651. Quanto prescriveva lo ius canonicum nel foro contenzioso non trovava pertanto diretta ed immediata applicazione anche in foro animae. Nel foro della coscienza operavano Si rinvia sul tema a G. LE BRAS, Théologie et Droit romain dans l’oeuvre d’Henri de Suse, in Études historiques à la mémoire de Noël Didier, Paris, 1960, pp. 195-204. 649 Y. M. CONGAR, Un témoignage des désaccords entre Canonistes et Théologiens, in Études d’histoire du droit canonique dédiées à Gabriel Le Bras, t. II, Paris, 1965, pp. 861-884. 650 Cfr. O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, cit., p. 153. 651 A. CORSETUS, Singularia, sub voce Forum conscientiae, in Singularia doctorum, t. I, Venetiis, 1578, f. 313 v. Sulle additiones del Corsetto e del Barbazza ai commentari del Panormitano e sulla loro successione nella cattedra bolognese cfr. M. TEDESCHI, La fortuna del Panormitanus, in Filosofia dei diritti umani, II, 1, ora in ID., Scritti di diritto ecclesiastico, III ed., Milano, 2000, pp. 447-448. 648 144 infatti principi che, elaborati dalla dottrina teologica, divergevano da quelli propriamente giuscanonistici i quali subirono, nella materia risarcitoria, l’influsso del diritto romano. Senza volerci addentrare nella disamina dei rapporti tra teologia e diritto canonico, giova in questa sede rilevare come la divergenza nella materia de qua tra ricostruzione dottrinale teologica e quella canonistica si fondi precipuamente sulla differente nozione di culpa, nitidamente illustrata nel XVIII secolo dal francescano osservante Lucio Ferraris652: «culpa alia est theologica, alia est iuridica: culpa theologica est offensa Dei, id est peccatum, sive sit mortale, sive sit veniale. Culpa iuridica est omissio diligentiae debitae, ex qua omissione sequitur aliquod damnum proximo»653. L’obbligo morale di risarcire il danno sorge nel foro penitenziale solo quando ricorra la colpa teologica, la quale non sussiste in caso di culpa iuridica lieve e lievissima. Diversamente la colpa lata è simultaneamente giuridica e teologica: «[…] culpa lata juridica, seu civilis ordinarie est etiam simul theologica, ordinarie enim late culpabilis, omittens scilicet diligentiam et circuspectionem communiter ab hominibus suae conditionis adhiberi solitam, circa res proximi, advertit, vel saltem advertere debuisset damnum proximi secuturum, et hoc ipso theologice fit culpabilis»654. Altrove il Ferraris, cambiando terminologia, contrappone alla culpa theologica la colpa civile: «damnificatio culpata culpa civili, vel politica tantum dicitur, qua seclusa omni voluntate nocendi proximo, omnique actione, vel omissione culpabili coram Deo, ac in conscientia , nihilominus damnum proximo infertur ex actione, vel omissione culpabili, vel defectuosa contra exactum modum agendi humanum. Et ex hac damnificatione culpata culpa civili, seu juridica tantum, oritur pro foro externo obligatio resarciendi damnum, etiamsi culpa esset levissima […]»655. I teologi ammettevano l’obbligo morale al risarcimento del danno in presenza di colpa lieve o lievissima, nel caso in cui fosse stata pronunciata una giusta sentenza giudiziale Cfr. A. LUPANO, La Prompta bibliotheca di Lucio Ferraris: un dizionario canonistico del Settecento, in M. BELLOMO-O. CONDORELLI (a cura di), Proceedings of the Eleventh International Congress of Medieval Canon Law, Catania, 30 July-6 August 2000, Città del Vaticano, 2006, pp. 341-352. 653 L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. II, Lutetiae Parisiorum, 1852, col. 1531, § 1 (sub voce Culpa). 654 L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. II, Lutetiae Parisiorum, 1852, col. 1531, § 9 (sub voce Culpa). 655 L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. III, Lutetiae Parisiorum, 1852, col. 9, §§ 6-7 (sub voce Damnificatio, damnum). 652 145 di condanna al risarcimento, e ciò in virtù del fatto che la sentenza non dovesse essere vanificata ed il raggiungimento del fine della legge essere frustrato: «post sententiam judicis est obligatio in conscientia ad reparandum damnum etiam sine ulla culpa theologica illatum […] et ratio est, quia alias sententia judicis esset frustranea, damnificans enim posset non parere judici, et sententiam eludere; tum quia non obtineretur finis legum, qui est major cautela, diligentia, et circumspectio pro evitandis hujusmodi damnificationibus»656. Ante sententiam, invece, nessuno è tenuto in coscienza a risarcire il danno (eccetto in caso di danno ex contractu) per colpa lieve e lievissima giacchè, in caso contrario, le norme di legge positiva che imponessero tale obbligo apparirebbero troppo rigorose in relazione alla debolezza e fragilità umane: «[…] neminem (praescindendo a contractu) teneri in coscientia ante sententiam judicis ad resarciendum damnum alteri illatum per damnificationem civilem, seu juridicam solum levem, et levissimam. Et ratio est, quia si leges, et maxime [D. 9, 2, 44] aliaeque consimiles imponerent obligationem in conscientia solvendi ante sententiam judicis, essent nimis rigidae, attenta hominum fragilitate; et cum nemo reperiatur, qui propter culpam juridicam solum levem, et levissimam sponte sua restituat, innumeros laqueos injiceret conscientiis absque necessitate boni communis, cui sufficienter, et abunde satis fit obligando ad damna resarcienda post sententiam»657. Quanto affermato nel Settecento dal Ferraris riassume magistralmente il pensiero di Tommaso d’Aquino che verrà ripreso ed approfondito alle soglie dell’età moderna dal movimento della Seconda Scolastica. Come puntualmente messo in rilievo da autorevole dottrina (in un discorso di ben più ampio respiro e non limitato alla materia oggetto della presente dissertazione), «che invero alla contritio si accompagni la riparazione del torto fatto al prossimo, è esigenza spirituale dello stesso peccatore “ut excusetur”. Per costui è “da necessitate salutis” provvedere […] al risarcimento del “damnum injuste illatum”[…]»658. Anche in questo campo la riflessione di Tommaso d’Aquino è esemplare: «[…] quicumque damnificat aliquem, videtur ei auferre id in quo ipsum damnificat; damnum enim dicitur ex eo quod aliquis minus habet quam L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. II, Lutetiae Parisiorum, 1852, col. 1535, § 12 (sub voce Culpa). 657 L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. III, Lutetiae Parisiorum, 1852, col. 13, § 11 (sub voce Damnificatio, damnum). 658 P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico con particolare riferimento ai secoli XII e XIII, cit., p. 399. 656 146 debet habere, secundum Philosophum. Et ideo homo tenetur ad restitutionem eius in quo aliquem damnificavit»659. Essa si inserisce nella trattazione del tema della restitutio, una delle parti della Summa Theologiae660 che più ha influenzato la dottrina giusnaturalistica moderna in tema di risarcimento del danno extracontrattuale. 6.1) Restitutio, aestimatio rei e modalità di riparazione. Alla base della costruzione dottrinale civilistica e canonistica in tema di riparazione del danno ritroviamo numerosi spunti e suggestioni derivanti dalla teoria della «restituzione»661. Con il termine di «restitutio» si è inteso nel corso della storia il ristabilimento di una cosa qualunque nel suo ordine primitivo. In campo morale restituzione assume il significato (tipicamente tomista) di mettere per una seconda volta una persona nel possesso o nel dominio di ciò che gli appartiene. Sia i moralisti che i giuristi, partendo dalla constazione per cui esistono cose il cui dominio non si può rendere a coloro ai quali furono tolte (come la vita o un membro del corpo), hanno inteso per restituzione ogni riparazione del torto che fu fatto, un’azione della giustizia commutativa per la quale si rende la cosa che fu ingiustamente tolta, o si ripara il danno che si è ad altri ingiustamente arrecato662. Le teoria della «restitutio», «croce e delizia di tutti i casisti dall’età medievale in poi»663, trova i suoi pilastri in numerosi passi dell’Antico e Nuovo Testamento e delle opere dei Padri della Chiesa. Vengono in mente, a livello di Sacra Scrittura, il precetto del Decalogo «furtum non facias» ed i frammenti di Ezechiele 33, 14-15: «Si autem dixero impio: Morte morieris: et egerit poenitentiam a peccato suo, fecerit iudicium et iustitiam, et pignus restituerit THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 4, concl. Circa l’influsso della Summa theologica sulla formazione dei dogmi giuridici cfr. P. VACCARI, Teologia e diritto canonico nel XIII secolo, in Scritti in onore di Contardo Ferrini pubblicati in occasione della sua beatificazione, Milano, 1947, pp. 418-428. 661 Si veda lo studio di K. WEINZIERL, Die Restitutionslehre der Frühscholastik, München, 1937, alla base delle recenti riflessioni di O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, cit., pp. 160-165. 662 I. TAROCCHI, Restituzione, in Dizionario di teologia morale, diretto da F. ROBERTI, II ed., Roma, 1957, pp. 1235-1236. 663 Così M. TURRINI, “Culpa theologica” e “culpa iuridica”: il foro interno all’inizio dell’età moderna, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, 12 (1986), p. 155. 659 660 147 ille impius, rapinamque reddiderit, in mandatis vitae ambulaverit, nec fecerit quidquam iniustum, vita vivet et non morietur», e di San Paolo ai Romani (13, 7): «Reddite ergo omnibus debita». Per la patristica valga il pensiero di Agostino espresso nella lettera a Macedonio664, su cui ci soffermeremo nel paragrafo successivo della presente trattazione. La scienza teologica e quella canonistica sono pervenute nel corso dei secoli ad un concetto di restitutio che va ben oltre la materiale restituzione di una cosa ingiustamente sottratta. Siffatto concetto di restituzione si amplia a tal punto da significare, in termini generali, un ripristino della situazione sconvolta dalla condotta lesiva. Il Palazzini ha riassunto magistralmente i significati della restituzione in siffatti termini: «Restitutio sensu lato est repositio in pristinum statum. Senso strictu definitor a S. Thoma […]: “iterato aliquem statuere in possessionem vel dominium rei suae”. […] Sensu strictissimo, prout hic accipitur, est: reparatio damni proximo iniuste illati»665. È proprio Tommaso d’Aquino ad offrire una trattazione organica della tematica dedicando un’intera quaestio alla restituzione666, in un discorso più ampio sulla virtù della giustizia667. Per il Doctor Angelicus restituire non è niente altro che ristabilire un individuo nuovamente nel possesso, o nel dominio di una cosa sua. Nella restituzione si mira infatti ad una giusta equivalenza impostata sulla recompensatio di cosa a cosa. Ciò appartiene alla giustizia commutativa668. AUGUSTINUS, Epistolae, Classis III, 153 (ad Macedonium), § 20 (= PL, 33, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 662): «Si enim res aliena, propter quam peccatum est, cum reddi possit, non redditur, non agitur poenitentia, sed fingitur: si autem veraciter agitur, non remittetur peccatum, nisi restituatur ablatum». 665 P. PALAZZINI, Restitutio, in ID. (a cura di), Dictionarium morale et canonicum, vol. IV, Romae, 1968, p. 114. 666 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62 De restitutione, in octo articulos divisa. 667 Sull’argomento si rinvia da ultimo a M. F. CARNEA, Concetto di giustizia in S. Tommaso d’Aquino. Approdo alla virtù della giustizia attraverso l’intelligenza umana, Monopoli, 2013. 668 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 1, concl.: «[…] restituere nihil aliud esse videtur quam iterato aliquem statuere in possessionem vel dominium rei suae; et ita in restitutione attenditur aequalitas justitiae secundum recompensationem rei ad rem; quod pertinet ad justitiam commutativam». 664 148 La restituzione ha funzione compensativa in quanto è funzionale al ripristino dell’uguaglianza causata dall’illecito669 e, sotto questo profilo, è atto della giustizia commutativa670, che si riferisce ai doveri reciproci esistenti tra due persone671. Come messo recentemente in rilievo da acuta dottrina, San Tommaso distingue chiaramente il dovere di compensare i danni cagionati (in relazione al quale opera la regola della stretta equivalenza) da quello di espiare la pena che potrebbe venire in considerazione nell’ipotesi in cui il fatto sia rilevante a livello penale o nel foro interno e che potrebbe essere definita attraverso la tecnica del multiplo del pregiudizio prodotto672. La restituzione deve essere equivalente al danno cagionato in quanto eventuali eccedenze contrasterebbero con il principio compensativo e non determinerebbero il ripristino dell’eguaglianza, ma una nuova sperequazione673. Sulla misura del risarcimento la posizione dell’Aquinate appare estremamente moderna, anticipando l’idea del risarcimento da perdita di chance. Nella parte in cui afferma la necessità di compensare una persona per il danno derivante dalla mancata acquisizione di un risultato vantaggioso (esempio del seminatore che possiede una raccolta solo in potenza e non in atto), precisa che il risarcimento (rectius la restituzione) non deve essere commisurato alla raccolta mancata ma, onde evitare effetti THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 61, art. 4, concl.: «[…] debet fieri secundum rationem justitiae commutativae recompensatio secundum aequalitatem, ut scilicet passio recompensata sit aequalis actioni». 670 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 1, concl.: «[…]in restitutione attenditur aequalitas justitiae secundum recompensationem rei ad rem; quod pertinet ad justitiam commutativam»; art. 2, concl.: «Respondeo dicendum quod restitutio […] est actus justitiae commutativae, quae in quadam aequalitate consistit»; art. 5, concl.: «Respondeo dicendum quod per restitutionem fit reductio ad aequalitatem commutativae justitiae, quae consistit in rerum adaequatione […]». 671 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 61, art. 1, concl.: «Potest autem ad aliquam partem duplex ordo attendi: unus quidem partis ad partem; cui similis est ordo unius privatae personae ad aliam; et hunc ordinem dirit commutativa justitia, quae consistit in his quae mutuo fiunt inter duas personas ad invicem». 672 In tal senso P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema di responsabilità civile verso la European Civil Law, cit., p. 37, che rinvia a THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 6. 673 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 3, concl.: «[…] sufficit quod restituat tantum quantum habuerit de alieno». Con riferimento al pensiero dell’Aquinate G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), p. 250, notava che «limitando la pretesa della parte lesa al puro e semplice ristabilimento dell’equilibrio patrimoniale, si ha una condanna implicita del sistema romano delle “pene private”». 669 149 moltiplicativi, ma corrispondere ad una somma di denaro determinata in relazione alle circostanze concrete e all’attività svolta674. Il principio compensativo è sancito anche in relazione alle ipotesi di pregiudizio cagionato da più autori. Viene infatti ribadito che la restituzione è ordinata principalmente a riparare il danno anche nell’ipotesi di rilevanza penale della condotta (Tommaso tratta, nella fattispecie, del furto). Il ristoro integrale effettuato da uno dei concorrenti implica che gli altri non son tenuti ad ulteriori compensi, ma piuttosto son tenuti a rifondere a colui che ha restituito: questi però può condonare675. Anche in tema di «aestimatio» il pensiero di Tommaso è nitido nel delineare quegli elementi che la riflessione canonistica676 farà suoi: «[…] quando id quod est ablatum, non est restituibile per aliquid aequale, debet fieri recompensatio qualis possibilis est; puta cum aliquis alicui abstulit membrum, debet ei recompensare vel in pecunia vel in aliquo honore, con siderata conditione utriusque personae, secundum arbitrium boni viri»677. Si tratta di un aspetto della teoria tomista della restitutio che va a configurare un ulteriore elemento di diversità tra il diritto civile e quello canonico: in iure canonico vale infatti il principio secondo cui la aestimatio rei ha una funzione secondaria rispetto alla restitutio. Siffatto postulato, espresso specificamente per le ipotesi di furto, comporta che il risarcimento ha luogo solo quando non sia possibile la restituzione. In materia di danneggiamento le decretali di Gregorio IX avevano accolto un frammento del libro dell’Esodo che prevedeva espressamente la possibilità di agire, nel caso in cui il bue fosse stato ferito o fosse morto in seguito alle ferite, al fine di ottenere un bue di eguale valore («[…] dominus suus: reddet bovem pro bove […]»)678. Si tratta In tal senso P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema di responsabilità civile verso la European Civil Law, cit., p. 37. Il pensiero dell’Aquinate è contenuto in Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 4. 675 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 6, ad tertium: «[…] quia restitutio principaliter ordinatur ad removendum damnum ejus a quo est aliquid injuste ablatum, ideo postquam ei restitutio sufficiens facta est per unum, alii non tenentur ei ulterius restituere, sed magis refusionem facere ei qui restituit; qui tamen potest condonare». 676 Glossa peccatum ad VI. De regulis iuris [5, 13], 4: «[…] quod autem dicitur in hac regula, verum intelligas, si illud ablatum restitui non potest […] si autem restitui non potest, restituetur eius aestimatio, etiam si res illa perierit sine culpa sua , quia in ipso instanti fuit in mora […]» [in Liber Sextus Decretalium D. Bonifacii Papae VIII Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes tum viginti D. Ioannis Papae XXII tum communes. Haec omnia cum suis glossis […] recognita, Venetiis, 1600, p. 537]. 677 THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 2, ad primum. 678 X. 5, 36, 3 Si bos alienus. 674 150 di un testo già presente nella Compilatio (5, 31, 4) di Bernardo Balbi da Pavia679, opera nota anche come Breviarium extravagantium, che costituisce la Prima delle Quinque compilationes antiquae. Il passo mutuato dall’Esodo dettava una disciplina ricalcante alcuni tratti salienti dell’actio de pauperie romana680, in particolare la consegna nossale dell’animale, come risulta anche nella Summa di Goffredo da Trani681 ed in quella di Enrico da Susa682. L’impostazione data dai canonisti suscitò l’intervento di Cino da Pistoia secondo cui in virtù del diritto civile il danneggiato non poteva richiedere che gli venisse dato «bovem pro bove» né poteva richiedere la restituzione in pristino se non quando ciò fosse possibile (e nel caso in questione non era possibile in quanto l’animale era stato ferito o ucciso). La ratio consisteva nel fatto che «aliud pro alio non debet dari, nisi res functionem recipiant». Il celebre giurista a tal proposito proseguiva con tono sarcastico: «sed Canonistae non consideraverunt hanc rationem, quia moris eorum est rationes subtiles non attendere»683, lanciando senza mezzi termini quella che Massetto ha definito «la dura stoccata ai canonisti»684! Per quanto riguarda il risarcimento del danno emergente685 e del lucro cessante686, esso fu uno dei tanti punti di sostanziale convergenza tra civilisti e canonisti. In Per un profilo bio-bibliografico si veda da ultimo A. FIORI, Bernardo da Pavia, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 231-232. 680 In merito si veda la ricca analisi di P. LANDAU, Alttestamentliches recht in der «Compilatio Prima» und sein einfluss auf da kanonische recht, in SG, 1976, pp. 129-133. 681 GOFFREDUS TRANENSIS, Summa in titulos Decretalium, Venetiis, 1564, De iniuriis et damno dato, p. 470: «Quomodo autem animal alicuius damnum dat si motum sit ad damnum dandum contra naturam sui generis, tenetur dominus vel dare quod nocuit pro noxa vel restituere damnum […]». 682 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, cit., col. 1731 [liber V, tit. De iniuriis, et damno dato, § In quantum detur]: «Quod si bos meus cornupeta, quia bene non custodieram, ipsum tuum interfecerit, reddam bovem pro bove […]. Haec autem sic intelligenda sunt, si animal meum contra naturam sui generis motum sit ad damnum dandum, puta bos cornupeta est, qui consuevit esse domesticus, tunc reddam aestimationem vel animal pro noxa tradam […]». 683 CYNUS PISTORIENSIS, In Codicem, et aliquot titulos primi Pandectorum tomi, id est, Digesti veteris, doctissima commentaria, Francofurti ad Moenum, 1578, p. 177 v. [comm. in C. 3, 35 De lege Aquilia]. Cfr anche H. LANGE, Schadensersatz und privatstrafe in der mittelalterlichen rechtstheorie, MünsterKöln, 1955, pp. 70-71. 684 G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1151. 685 BERNARDUS PAPIENSIS, Summa Decretalium, edidit E. A. T. LASPEYRES, Ratisbonae, 1860, p. 263, V, 31 De damno dato: «[…] resarcientur laeso impensae medicorum et operae, quibus caruit vel cariturus […]». 686 Glossa operas eius et impensas ad X. 5, 36, 1: «operas autem amissas, et impensas in curatione praestabit […]»[in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1308]. 679 151 particolar modo l’Ostiense sostenne in capo al giudice il potere officioso di includere nell’indennizzo tutto quello che avrebbe ritenuto buono687. I canonisti si soffermarono altresì sulla distinzione, fondata su un criterio materiale, tra interesse circa rem ed interesse extra rem688, propendendo per la risarcibilità del primo689. 6.1.1) (segue) «Peccatum non dimittitur, nisi restituatur ablatum» Il tema della restitutio costituì un importante aspetto giuridico della satisfactio come parte della penitenza. Nella tradizione canonica occidentale la soddisfazione costituisce l’atto o complesso di atti di riparazione per il peccato commesso, attraverso i quali il peccatore guadagna la remissione dei peccati. Come evidenziato dal Condorelli690 l’origine della parola è giuridica e rimanda al Digesto di Giustiniano, in cui satisfactio equivale a solutio, cioè esprime il concetto della soluzione di un debito691. La riflessione canonistica prende avvio da un frammento agostiniano692 contenuto nel Decretum Gratiani relativo alla restitutio ablati, cioè alla restituzione della cosa ingiustamente sottratta: «si res aliena, propter quam peccatum est, reddi possit, et non redditur, penitencia non agitur, sed simulatur. Si autem veraciter agitur, non remittetur peccatum, nisi restituatur ablatum […]»693. HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 95 v., ad verba Operas eius, et impensas [comm. ad X. 5, 36, 1 Si rixati]: «Operas enim, quas potuisset fecisse, et non fecit, nec facere potuit propter impedimentum vulneris, sive percussionis, nec non et id, quod dedit in medicinis, vel medicis, et eadem ratione omne aliud interesse suum aestimabit bonus iudex, et faciet resarciri […]». 688 Si veda la glossa Damnorum ad X. 5, 36, 8 In nostra: «Quoddam dicitur extra rem: puta, debui tibi frumentum, et quia non dedi suo tempore, familia tua fame periit; illud damnum non consequeris, sed pretium frumenti, vel vini […]». 689 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 96 r., ad verba Aliud sit damnorum restauratio [comm. ad X. 5, 36, 8 In nostra]: «Circa quod notandum, quod quoddam damnum, sive interesse dicitur circa rem, quoddam extra rem. Circa rem dicitur, quando subtraxisti mihi instrumenta, per quae poteram probare, qualiter possessio aliqua fuerat acquisita per me vel praedecessores meos, si ergo tractus in causam non potui probare defensionem meam propter subtractionem instromentorum, et iam succubui , teneris mihi de interesse illo […]. Interesse vero extra rem, ubi debes mihi frumentum, et non reddis tempore suo et ideo familia mea famae periit, istund interesse non semper potest peti sed praetium frumenti tantum». 690 O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 149. 691 D. 46, 3, 52: «satisfactio pro solutione est». 692 AUGUSTINUS, Epistolae, Classis III, 153 (ad Macedonium), § 20 (= PL, 33, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 662): «Si enim res aliena, propter quam peccatum est, cum reddi possit, non redditur, non agitur poenitentia, sed fingitur: si autem veraciter agitur, non remittetur peccatum, nisi restituatur ablatum». 687 152 La scienza teologica e canonistica elaborano un concetto di restitutio che va ben oltre la materiale restituzione di una cosa ingiustamente sottratta, e si amplia fino a significare, in termini generali, una ricomposizione dell’equilibrio sconvolto dall’azione delittuosa e peccaminosa694. A livello giuridico il principio espresso da Agostino assurge, nel Liber Sextus di Bonifacio VIII a vera e propria regula iuris: «peccatum non dimittitur, nisi restituatur ablatum»695. La collocazione di questo principio, avente una notevole rilevanza per la teologia morale e sacramentale, nel titolo de regulis iuris, «testimonia in modo esemplare la connessione tra morale e diritto che connota l’universo antropologico medievale»696. Come ha giustamente notato il Bellini, «direttamente riferita alle “res furtivae vel violentae”, la regula finiva con l’essere applicata – per similitudine di ratio- a tutte le “res alienae iniuste quaesitae”. Essa veniva estesa a includere tanto i casi di “damnum iniurie illatum”, quando quelli nei quali il pregiudizio materiale consistesse nel mancato adempimento d’un qualcosa di dovuto. E veniva a ricomprendere anche i casi in cui si lamentasse (e dovesse quindi essere rimossa) una qualche situazione di fatto riprovevole: “factum peccati enutritivum”, “turpe lucrum”. Lungi dall’essere ordinato “per se ipsum” all’interesse materiale d’una qualsiasi “controparte” – questo assieme di gravami risarcitori va veduto come un che di rispondente con tutta immediatezza alla “utilitas animae”» dello stesso peccatore. Costituisce un “onere coscienziale” di costui: affinchè maturi realmente nel suo intimo una “sufficiens poenitentia”, tanto intensa [“efficax”] da porre la precedente colpa nel “non esse”»697. Tra i canonisti chi meglio ha riassunto il carattere satisfattorio della penitenza e la portata della restitutio è Enrico da Susa. Ad avviso del cardinale Ostiense, la restituzione delle cose male acquisite, o il risarcimento dei danni arrecati ad altri, deve essere pienamente fatta a coloro che sono stati lesi dall’azione peccaminosa. Il sacerdote C. 14, q. 6, c. 1 Si res aliena. O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 150. 695 VI. De regulis iuris [5, 13], 4. Nel Liber Sextus ricorrono altre regulae iuris che attengono alle tematiche del danno e della responsabilità. Si vedano ad esempio VI. De regulis iuris [5, 13], 19: «Non est sine culpa, qui rei, quae ad eum non pertinet, se immiscet»; 23: «Sine culpa, nisi subsit causa, non est aliquis puniendus»; 48: «Locupletari non debet aliquis cum alterius iniuria vel iactura»; 76: «Delictum personae non debet in detrimentum ecclesiae redundare». 696 O. CONDORELLI, Norma giuridica e norma morale, giustizia e salus animarum secondo Diego de Covarrubias. Riflessioni a margine della Relectio super regula “Peccatum”, in RIDC, 2008, p. 165. 697 P. BELLINI, Influenze del diritto canonico sul diritto pubblico europeo, in Diritto canonico e comparazione, Torino, 1992, ora in ID., Saeculum Christianum. Sui modi di presenza della Chiesa nella vicenda politica degli uomini, Torino, 1995, pp. 89-90, nt. 11. 693 694 153 non può fare grazia, al confitente, della predetta restituzione giacchè trattasi di un’esigenza di giustizia e perché il peccato non può essere rimesso se non viene restituito il mal tolto: «sequitur satisfactio, quae est sacerdotis arbitrio imponenda […] Haec quandoque consistit in pecunia, quandoque in aliis [...] Tu tamen scias, quod restitutio male acquisitorum vel damnorum datorum, sive iniuriarum irrogatarum omnino facienda est laesis, si reperiantur, de quo sacerdotes non possunt gratiam facere, quia nec dimittitur peccatum etc. […]»698. La disciplina della restitutio come consolidatasi tra il Decretum del maestro Graziano ed il Liber Sextus fu ben compendiata nella glossa ordinaria di Giovanni d’Andrea alle decretali di Bonifacio VIII. L’apparato offerto dal celebre giurista, non a caso definito da Baldo «iuris canonici fons et tuba»699, si sofferma sull’aestimatio, nel caso in cui non possa essere effettuata la restituzione700, e sull’equiparazione dell’obbligo di risarcire il danno ingiusto all’obbligo di restitutio: «pone, nihil abstuli, sed iniuste damnum dedi, ex quo nichil ad me pervenit. Idem, teneor enim damnum passo, alias non remittitur peccatum […]»701. Una siffatta equiparazione era stata già messa in rilievo dall’Ostiense nella Summa, con particolare riguardo alle relative legittimazioni attive e passive: «Quibus et qualiter, a quibus et in quantum facienda est restitutio male acquisitorum. Breviter respondeas, quod damnum passis, vel haeredibus sive successoribus eorum, si extant. Ab his qui damnum dederunt, vel heredibus eorum. Et in solidum si facultas suppetit, facienda est restitutio, alioquin frustratoria est poenitentia, quia secundum Augustinum non dimittitur peccatum nisi restituatur ablatum […]»702. Tra i concetti di restitutio ablati, di damnum resarcire e di iniuriis satisfacere susstistono comunque delle differenze che è dato percepire nel testo di alcune decretali pontificie. Il Liber Extra contiene una decretale di papa Celestino III all’arcivescovo di Tours ed al vescovo di Angers in cui si afferma: HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, p. 103 r., n. 35, comm. ad X. 5, 38, 12, V.is Sed, si prudentiori. 699 Sul punto cfr. A. BARTOCCI, Giovanni d’Andrea, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, p. 1010. 700 Glossa peccatum ad VI. De regulis iuris [5, 13], 4: «si autem restitui non potest, restituetur eius estimatio, etiam si res illa perierit sine culpa sua , quia in ipso instanti fuit in mora […] Si autem nec estimationem potest solvere, quia evidenter est inops, tunc bene dimittitur peccatum: remanet tamen obligatio, et si postea ad pinguiorem fortunam perveniret, teneretur» [in Liber Sextus Decretalium D. Bonifacii Papae VIII Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes tum viginti D. Ioannis Papae XXII tum communes. Haec omnia cum suis glossis […] recognita, Venetiis, 1600, p. 537]. 701 Glossa ablatum ad VI. De regulis iuris [5, 13], 4 [in Liber Sextus Decretalium D. Bonifacii Papae VIII Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes tum viginti D. Ioannis Papae XXII tum communes. Haec omnia cum suis glossis […] recognita, Venetiis, 1600, p. 538]. 702 HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, Venetiis, 1574, V, De poenitentijs et remissionibus, coll. 1844, n. 61. 698 154 «mandamus firmiterque praecipimus, quatenus, partibus convocatis, si vobis constiterit de praemissis, praedictum archidiaconum ablata praenominati monasterii fratribus cum integritate restituere, et damna plenarie resarcire, et de illatis iniuriis competenter satisfacere […]»703. In termini analoghi si esprime una decretale di Alessandro III ai vescovi di Exeter e Worcester non compresa nel Corpus Iuris Canonici: «[…] ut […] dampna illata resarciat, et ablata restituat universa atque de tanta iniuria satisfactionem exibeat competentem»704. 6.1.2) (segue) Le somme penitenziali Il legame tra diritto e teologia si può avvertire notevolmente con riguardo alla pratica della penitenza. Tra il XI e XIII secolo si assiste all’emersione graduale del ruolo della confessione nella remissione del peccato. A ciò corrisponde l’abbandono dei libri penitenziali (carichi di quell’automatismo tariffario che assegnava al sacerdote un ruolo meramente passivo), che vengono rimpiazzati dalle summae penitenziali o confessorum. La diffusione delle nuove summae fu favorita dall’obbligo della confessione annuale per tutti i fedeli sancita dalla constitutio 21 (Omnis utriusque sexus)705 del IV concilio lateranense (1215, anno che è il «momento della svolta»706, anche se non era stata ancora scritta alcuna Summa mentre nel 1520 il genere può dirsi finito). Il testo del predetto canone, come puntualmente messo in rilievo da autorevole dottrina, «ha riflettuto l’approccio e il modo di comprendere la confessione così come essa si è andata definendo negli scritti e nel lavoro accademico sia dei canonisti che dei teologi durante l’ultima parte del dodicesimo secolo e l’inizio del tredicesimo»707, traducendo in linguaggio giuridico l’obbligo della confessione annuale e fornendo una norma giuridica ed una struttura X. 2, 13, 11 Gravis ad nos, contenente comunque solo un frammento della decretale. Il testo completo e collazionato può invece leggersi in W. HOLTZMANN, Decretales ineditae saeculi XII, a cura di S. CHODOROW-C. DUGGAN, Città del Vaticano, 1982, pp. 50-53. 704 W. HOLTZMANN, Decretales ineditae saeculi XII, cit., p. 93. 705 Il testo si può leggere in A. GARCIA Y GARCIA (a cura di), Constitutiones Concilii quarti Lateranensis una cum commentariis glossatorum, Città del Vaticano, 1981, pp. 67-68. 706 Così M. G. MUZZARELLI, Per una ricostruzione ed una interpretazione della penitenza medievale, in M. C. DE MATTEIS (a cura di), A Ovidio Capitani. Scritti degli allievi bolognesi, Bologna, 1990, p. 113. 707 B. FERME, Dal Decretum Gratiani al Lateranense IV: origine dell’obbligo della confessione, in R. RUSCONI-A. SARACO-M. SODI (a cura di), La penitenza tra Gregorio VII e Bonifacio VIII. Teologia – Pastorale – Istituzioni, Città del Vaticano, 2013, p. 147. 703 155 istituzionale a ciò che nel tempo sarebbe risultato di una certa uniformità per quanto riguarda il bisogno della confessione708. Con riferimento alle somme penitenziali la vecchia critica storica ha parlato di letteratura per il foro interno, di moralisti, di deontologia cattolica senza penetrare nell’intima natura delle summae, le quali nascono e si sviluppano nel clima più maturo del Medio Evo, rispecchiando il consolidamento di ansie, esigenze, idealità e concezioni tipicamente medievali709. Le prime summae confessorum nascono in Occidente alla fine del secolo XII nella forma e nella struttura dei «libri poenitentiales» di Alano da Lilla e di Roberto di Flamborough710. Come affermato da Paolo Grossi, essi non potevano nascere prima, giacchè è nel XII secolo che il problema della penitenza si pone al centro della vita della Chiesa ed inizia il rinnovamento della riflessione teologica711. Si comprende pertanto come il libro XIX del Decretum di Burcardo vescovo di Worms, dedicato alla materia penitenziale e noto anche con il titolo di Corrector sive medicus, sia stato considerato come l’ultimo dei penitenziali altomedievali712. Le summae confessorum, oltre che dai penitenziali altomedievali, devono essere tenuti distinti dalle somme post-tridentine che costituiscono la fossilizzazione di una letteratura esclusivamente moralistica713. La trattazione dei caratteri e delle finalità delle somme penitenziali meriterebbe un discorso più approfondito che certamente esula dall’economia della presente trattazione. Giova in questa sede rimarcare come nelle summae confessorum sia realmente tangibile l’ordine giuridico medievale, in cui l’homo è al contempo civis e fidelis, la morale cristiana è l’elemento invisibile e vitale della stessa esperienza giuridica, il diritto si include nella morale e la morale si esteriorizza, la distinzione tra foro interno e Si veda per approfondimenti P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, 2000, pp. 79-86. 709 È quanto rileva P. GROSSI, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, in Annali della Facoltà giuridica. Università di Macerata, 1966, ora in ID., Scritti canonistici, a cura di C. FANTAPPIÈ, Milano, 2013, pp. 116-117, con utili riferimenti dottrinali. 710 Si vedano P. MICHAUD-QUENTIN, A propos des premières Summae Confessorum. Théologie et Droit canonique, in Recherches de théologie ancienne et médiévale, 26 (1959), pp. 264-306; R. NAZ, Somme, in DDC, t. 7, Paris, 1965, coll. 1072-1073. 711 P. GROSSI, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, cit., p. 117-118. 712 Cfr. P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en occident depuis les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, cit., pp. 369;414, e O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 146. 713 Cfr. C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 172-176. 708 156 foro esterno si attenua, la salus animarum e la ratio peccati vitandi sono i principi che animano il diritto della Chiesa714. Quanto alle problematiche attinenti alla responsabilità extracontrattuale, già in Alano da Lilla, Roberto di Flamborough e Tommaso di Chobham ricorrono riferimenti alla dicotomia res licitae / res illicitae715, alla diligentia716, al damnum e damnificatio717, ed alla restitutio718. È tuttavia solo con la produzione coeva o successiva al IV concilio lateranense che viene a delinearsi nitidamente il genere letterario delle summae confessorum, genere che comprende una sterminata e variegata serie di opere tutte fondate sul medesimo modo di concepire il problema della penitenza ed il rapporto confessore-penitente. Spesso gli autori di queste Summae sono celebri giuristi, come nel caso di Giovanni de Deo e di Raimondo de Peñafort, il frate domenicano artefice del Liber Extra. È proprio nella Summa de poenitentia del canonista spagnolo che si percepisce l’influsso del diritto (canonico e civile) sul predetto nuovo genere letterario. Valga come esempio quanto affermato a proposito dell’omicidio involontario, in cui ricorrono le tesi formulate dai decretisti a proposito del dare operam rei illicitae, aut licitae: È questo il leitmotiv che si percepisce nella produzione storico-canonistica di Pio Fedele, Piero Bellini e Paolo Grossi, solo a voler citare alcuni tra i maiores nello scenario giuridico del Novecento. 715 ROBERTUS FLAMESBURIENSIS, Liber poenitentialis, [ed. J.-J. F. FIRTH, Toronto, 1971] III, 3, 107: «Si casualiter interfecisti hominem, si omnem adhibuisti diligentiam et rei licitae institisti, licite promoveberis; si autem debitam non adhibuisti diligentiam, licet rei licitae institeris, non promoveberis. Si rei illicitae institisti et aliquem interfecisti, quamcumque adhibuisti diligentiam, non promoveberis. Haec est Huguccio distinctio». 716 THOMAS DE CHOBHAM, Summa confessorum, [ed. F. BROOMFIELD, Louvain, 1968], D. 4, q. 8, c. 1: «De casuali homicidio dicendum est, in quo duo sunt semper attenda sacerdoti, utrum scilicet ille qui casu occidit dedit operam operi necessario et utrum adhibuit diligentiam necessariam, veluti si quis volens edificare domum arborum succidat et diligenter consideret ne aliquis sit sub ruina et alta voce clamet ut fugiat si quis est propinquus, non peccat si arbor obruat aliquem ibi stulte occultatum et fugere nolentem. Si autem alterum istorum defuerit, scilicet opus necessarium vel diligentia necessaria vel utrumque, homicida est et debet ei injungi penitentia sicut homicide […]». 717 ALANUS DE INSULIS, Liber poenitentialis, [ed. J. LONGÈRE, Louvain, 1965], II, 31: «[…] damno cui intulit resarcito secundum suam facultatem […]». ROBERTUS FLAMESBURIENSIS, Liber poenitentialis, cit., IV, 6: «Si fuisti judex corruptus vel testes vel advocatus vel assessor vel arbiter, et per te damnificatus est aliquis, satisfacere ei teneris de damno et de expensis et de vexatione». 718 ALANUS DE INSULIS, Liber poenitentialis, cit., II, 22: «Si quis per iram ictum dederit et hominem deformem, vel debilem reddiderit, reddat impensas medici et medium poenitat. Si laicus per dolum sanguinem effuderit, reddat illi tantum quamdiu nocuit: et si non habet unde reddat, solvat in opere proximi sui quamdiu ille infirmus est, et post ea quadraginta dies in pane et aqua poenitat». ROBERTUS FLAMESBURIENSIS, Liber poenitentialis, cit., V, 2: «Si quis ecclesiam igne comburit, quindecim annos poeniteat, et eam sedule restituat et pretium suum distribuat pauperibus […]. Si quis domus vel aream cujuscumque voluntate igne cremaverit sublata vel incensa omnia restituat et tribus annis poenitentia agat». 714 157 «Casu: ut cum aliquis projecitlapidem ad avem vel animal, et alius transiens ex insperato percutitur et moritur; vel incidit arborem, et casu arboris aliquis opprimitur, et similia. Hic distingue: aut dabat operam illicitae rei, aut licitae. Si illicitae, ut puta projeciebat lapidem versus loca unde consueverunt homines transitum facere, vel dum furabatur equum vel bovem, aliquis a bove vel equo percussus est, et similia, hoc indistincte imoutatur. Si vero licitae rei dabat operam, ut quia magister causa disciplinae verberabat discipulum, vel deponat fenum de curru, vel arborem propriam sibi necessariam incidebat, et similia, hic, si adhibuit diligentiam quam potuit, videlicet respiciendo, et proclamando non nimis tarde vel demisse, sed tempore congruo et alte, ita quod si aliquis erat ibi vel veniebat poterat fugere et sibi cavere, vel magister non excedendo modum in verberando discipulum, non imputatur ei; alias, si dabat operam rei licitae et non adhibuit diligentiam debitam, ut dictum est, imputatur ei»719. La Summa raimondina inaugura altresì un ulteriore genere letterario che è la summa giuridica, vale a dire un trattato di morale giuridicizzata720. In questo solco si inserisce l’opera di Giovanni d’Erfurt721 in cui ritroveremo diretti riferimenti alla lex Aquilia ed al titolo De iniuriis et damno dato delle Decretali di Gregorio IX. Conclusioni L’analisi della responsabilità extracontrattuale nel Corpus iuris canonici e nelle riflessioni dei canonisti e teologi medievali, è un’ulteriore conferma del connubio tra il diritto romano, lex mundana per eccellenza, e la lex ecclesiastica. Essa si configura altresi come una prospettiva privilegiata attestante che «il diritto canonico non intese RAIMUNDUS DE PENNAFORTE, Summa de paenitentia, II, 1, [ed. curantibus X. OCHOA-A. DIEZ, Roma, 1976, col. 444. 720 In tal senso P. MICHAUD-QUENTIN, Sommes de casuistiques et manuels de confession au Moyen Âge (XIIe-XIVe siècle), Louvain, 1962, p. 39. 721 JOHANNES ERFORDIENSIS, Summa confessorum, [ed. N. BRIESKORN, vol. III, Frankfurt am Main, 1980], II, 6, 25: «De prima nota: de dampno tenetur qui - dampnum irrogavit ex: culpa, sed si culpa non intervenit, non tenetur ad dampnum; inde infantes non tenentur; negligentia, puta diligentiam debitam non adhibuit circa candelam; ignorantia, quando scire debuit ex facto suo injuriam verisimiliter posse contingere vel jacturam; puta licet mihi percutere percutientem me, sed si cum vellem eum percutere alium percusse, imputatur mihi D., Ad legem Auiliam Scientam, § ult. [D. 9, 2, 45, 5]. - opem irrogantibus tulit, ut si minus tenuit et alter occidit: Extra, De injuriis. Nota: qui per culpam vel negligentiam dampnum dederit succedendo, tenetur lege Aquiliae in foro contentioso, sed in foro poenitentiali non tenetur ad emendam dampni, sed est poenitentia ei imponenda de negligentia, nisi dampnum intendisset vel illata culpa esset, ut si projecit ignem in domum plenam pallea: argumento 15, q. 2, Inebriaverint, hoc in Innocentio [X. 5, 12, 6, n. 4] et Hostiensi, Extra , De homicidio [X, 5, 12]». 719 158 mai di regolare per intero e da solo la condotta umana: esso divideva questo compito col diritto civile, limitando la propria missione alla regolamentazione degli atti umani spirituali, riguardanti cioè la coscienza e la fede, e lasciando al diritto civile quella dei negozi temporali»722. Ciò tuttavia non rappresentò mai una meccanica separazione di materie, che si sarebbe posta in contrasto con la concezione integrale della vita umana propria della Chiesa sin dall’età apostolica. Teologi e canonisti seppero inquadrare le fattispecie di volta in volta prospettate al loro esame attraverso determinati schemi ordinativi (o categorie giuridiche che dir si voglia) «sia che si trovassero a distinguere il momento disciplinare dei rapporti di vita reale dal momento spirituale della edificazione religiosa di ogni singola persona umana […] sia che dovessero occuparsi delle specialissime esigenze del foro interno, affrancando la cura delle anime dalla più grezza economia del foro esterno»723. Nell’ analizzare le varie peculiarità dell’ordinamento canonico in materia di responsabilità extracontrattuale sono stati messi in risalto gli aspetti dello ius ecclesiae, così come della riflessione patristica e teologica medievale che hanno esercitato un qualche influsso sul diritto secolare. Lo studio della responsabilità extra contractum nel diritto canonico medievale ha mostrato come il diritto romano (lex romana) abbia costituito per ogni cristiano medievale un sostrato normativo capace di delineare e disciplinare i rapporti umani intersoggettivi. Il cristianesimo, come pacificamente risaputo, ha determinato con l’irrompere dei suoi principi etici, determinati influssi sul diritto romano. È nota la ricostruzione di Biondo Biondi in tema di “diritto romano cristiano”724, opera carica di suggestioni e di lucide intuizioni, in cui «l’ampiezza degli argomenti discussi e l’enormità delle fonti considerate, costituirono per l’epoca in cui tali studi furono svolti, un importante punto di riferimento»725. Il celebre romanista, anche in tema di actio legis Aquiliae, seppe rinvenire quegli elementi estranei al diritto romano F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 407. P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica della Europa preumanistica, cit., p. 33. 724 B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, vol. I, Orientamento religioso della legislazione, Milano, 1952; ID., Il diritto romano cristiano, vol. II, La giustizia-Le persone, Milano, 1952; ID., Il diritto romano cristiano, vol. III, La famiglia-Rapporti patrimoniali-Diritto pubblico, Milano, 1954. 725 Così M. NARDOZZA, Biondi, Biondo, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, p. 261. 722 723 159 classico e postclassico, riconducibili pertanto all’asserito intervento “cristiano” di Giustiniano e dei suoi stretti collaboratori726. L’incidenza della religione cristiana e dei suoi principi nello sviluppo del diritto privato romano non deve tuttavia essere sopravvalutata727. Sul punto riteniamo condivisibili le considerazioni espresse dal Bellini (seppure in una diversa sedes materiae) secondo cui «non irragionevole è desumerne (rispetto a queste “ordinarie fattispecie”: quali soggette al ius privatum) che una parte almeno delle innovazioni normative, in cui l’entusiasmo di questi o quei moderni interpreti suole senz’altro ravvisare un’influenza della novella Religione, debbano piuttosto essere ascritte al progressivo aprirsi – per sua parte – del pensiero giuridico romano verso quel medesimo suffragio filosofico che così a fondo agiva (“in parallelo”) sulla sostanza deontologica del movimento cristiano principale»728. In tema di danno aquiliano la disciplina dettata dal diritto romano fu un modello insostibuibile per la Chiesa che, nella materia de qua, continuò a vivere, per lungo tempo, della legge romana. Il bagaglio di principi fondati sia sullo ius romanum, come filtrato da glossatori e commentatori, sia su quello canonico dell’età classica e postclassica, costituirà di gran lunga l’armamentario giuridico utilizzato dagli operatori del diritto nell’età moderna. La nuova era, caratterizzata dal venir meno della Respublica gentium christianarum e dal sorgere degli Stati nazionali, conoscerà altresì le nuove riflessioni di teologi, soprattutto spagnoli, alle prese con i poderosi commentari De iustitia et iure729. Il nuovo movimento, rettamente definito della Seconda Scolastica, unitamente al pensiero canonistico medievale, sarà alla base delle opere scritte da Diego de Covarrubias, vescovo di Segovia. Nel 1554 uscirà alle stampe la relectio730 sulla regula B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, vol. III, cit., pp. 271-275. Si vedano al riguardo le puntuali osservazioni di G. CRIFÒ, Romanizzazione e cristianizzazione. Certezze e dubbi in tema di rapporto tra cristiani e istituzioni, in F. DE GREGORIO (a cura di), Temi scelti di storia e diritto tra cultura e istituzioni, Roma, 2004, pp. 185-210. 728 P. BELLINI, Palingenesi evangelica e assetto giuridico romano, in F. DE GREGORIO (a cura di), Temi scelti di storia e diritto tra cultura e istituzioni, cit., p. 97. 729 Si vedano i vari contributi raccolti in P. GROSSI (a cura di), La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, Milano, 1973. Cfr. P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, cit., pp. 339-344. 730 Si veda in merito l’approfondito studio di O. CONDORELLI, Norma giuridica e norma morale, giustizia e salus animarum secondo Diego de Covarrubias. Riflessioni a margine della Relectio super regula “Peccatum”, cit., pp. 163-202. 726 727 160 «Peccatum non dimittitur nisi restituatur ablatum», quarta tra le regulae iuris che concludono il Liber Sextus di Bonifacio VIII. Abbiamo avuto modo di esaminare la restitutio ablati, evidenziando come sia una materia al crocevia tra morale, diritto e teologia. Il giurista spagnolo affronterà siffatta tematica in maniera esemplare dedicando un ampio proemio in cui spiccano alcuni periodi in materia di responsabilità extracontrattuale: «Divus Augustinus […] quo […] Christianam plebem erudiret, ne proximus, iniuria aut damno effectus, lesionem adversus institutam a Christo Iesu et natura ipsa charitatem patiatur […]. Nam cum iustitia ipsa, que potissima moralium virtutum est, manifeste violetur, cum quis proximo damnum intulerit, palam consequitur peccatum istud minime dimitti nisi damni illati compensatio fiat: aliter non servatur ipsius iustitie lex»731. Sarà proprio Covarrubias ad influenzare un pensatore rivoluzionario come Ugo Grozio, padre del giusnaturalismo moderno e grande estimatore del vescovo di Segovia per aver saputo coniugare la scholastica subtilitas unitamente alla legum et canonum cognitio732. Grazie all’influsso del Covarrubias e dei teologi Domingo Soto e Leonardus Lessius, Grozio supererà la tradizionale lettura civilista dell’iniuria. Quest’ultima verrà ad assumere una nozione coincidente con il concetto di ingiustizia sganciandosi dal concetto di culpa e creando le premesse per la moderna distinzione tra antigiuridicità e colpevolezza733. Nel De Iure belli ac pacis Grozio fonderà le basi teoriche per l’autonomizzazione dell’illecito civile da quello penale, fondando la sua ricostruzione sul «maleficium», categoria che si concreta in qualunque condotta che, cagionando un pregiudizio, obbliga il danneggiante al risarcimento in favore della vittima: «Maleficium hic appellamus culpam omnem, sive in faciendo sive in non faciendo, pugnantem cum eo quod aut nomine communiter aut pro ratione certae qualitatis facere debent. Ex tali culpa obligatio naturaliter oritur, si damnum datum est, nempe ut resarciatur»734. DIDACUS COVARRUVIAS, Regulae Peccatum De Regul. Iur. Lib. VI Relectio, Lugduni, 1560, pp. 1-2. HUGO GROTIUS, De iure belli ac pacis, Prolegomena, § 55. L’edizione di Grozio utilizzata è quella curata da B. J. A. DE KANTER-VAN HETTINGA TROMP, con annotazioni di R. FEENSTRA e C. E. PERSENAIRE, Aalen, 1993. 733 Cfr. M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 135-137. 734 HUGO GROTIUS, De iure belli ac pacis, II, 17, 1. Sui contributi di Grozio al moderno illecito extracontrattuale si vedano R. FEENSTRA, Théories sur la responsabilité civile en cas d’homicide et en cas de lésion corporelle avant Grotius, in Études d’histoire du droit privé offertes à Pierre Petot, Paris, 1959, pp. 157-171; ID., Grotius’ doctrine of liability for negligence: its origin and its influence in Civil Law countries until modern codifications, in E. J. H. 731 732 161 Rimane tuttora dibattuto in dottrina quanto abbia influito effettivamente il patrimonio giuridico della Chiesa sulla configurazione della responsabilità generale per fatto illecito, avviata dalla scuola del diritto naturale735 e consacrata definitivamente nell’art. 1382 Code Napoléon736. L’analisi del diritto della Chiesa, dalle origini alle soglie dell’età moderna, unitamente a quella della scientia canonum, ha mostrato i contributi, diretti ed indiretti, offerti dallo ius canonicum alla moderna dogmatica della responsabilità extracontrattuale. Ciò non significa leggere l’esperienza giuridica della Chiesa con gli occhiali delle moderne categorie giuridiche ma si configura solamente come un tentativo di ravvisare alcune costanti, in materia di responsabilita extra contractum, che arrivano fino ai nostri giorni. Già il Rotondi, pur sostenendo la paternità della responsabilità generale per fatto illecito in capo alla scuola del diritto naturale, ebbe modo di evidenziare le peculiarità canonistiche nella storia della responsabilità aquiliana arrivando a sostenere che «il diritto canonico asside la responsabilità generale sul semplice elemento della colpa»737. Il che null’altro significa che riconoscere una matrice canonistica nel trionfo dell’imputazione fondata sull’elemento soggettivo. Fu appunto la decretale Si culpa tua di Gregorio IX a sancire il principio dell’obbligo di risarcire il danno ogniqualvolta lo stesso fosse stato cagionato con colpa. Quanto affermato da Gregorio IX costituirà il principio cardine alla base della responsabilità extracontrattuale della Chiesa sino alla codificazione del 1917, pur in assenza di un apposito canone in tema di disciplina generale dell’illecito aquiliano738. I principi sanciti dallo ius vetus in tema di danno aquiliano riemergeranno espressamente nella codificazione giovanneo-paolina. Il legislatore canonico del 1983, sancendo l’obbligo del risarcimento del danno ingiustamente arrecato con dolo o colpa, ha positivizzato nel can. 128 quel «principio di diritto naturale che ha la sua conferma SCHRAGE (a cura di), Negligence: The comparative legal history of the law of torts, Berlin, 2001, pp. 129171. 735 Cfr. B. KUPISCH, La responsabilità da atto illecito nel diritto naturale, in L. VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, cit., pp. 123-148. 736 Cfr. O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804, cit., pp. 395-411, 737 G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), p. 256. 738 Il codice pio-benedettino contemplò solamente alcune fattispecie di danno disseminate in diversi canoni. Sul punto cfr. P. CIPROTTI, Danno c) diritto canonico, in ED, v. XI, Milano, 1962, pp. 632-634. 162 in tutte le legislazioni civili»739. Mentre il codice pio-benedettino del 1917 contemplava, nel can. 1681, la responsabilità per danni solo nell’ipotesi di un atto giuridico invalido, la normativa vigente allarga la sua portata prevedendo nel can. 128 che «chiunque, con atto giuridico, anzi con qualsiasi atto posto con dolo o colpa, causa illegittimamente del danno a un altro, ha l’obbligo di riparare il danno arrecato»740. Dal tenore letterale del canone 128 risulta evidente l’influsso della decretale Si culpa tua di Gregorio IX741. Il citato canone, pertanto, più che costituire «une innovation législative»742, come è stato invece sostenuto da Jean Gaudemet, ha la parvenza di essere «una transcipción, casi literal, de un fragmento del Corpus Iuris Canonici, lo cual demuenstra que la legislación actual recoge un concepto de daño resarcible propio de la tradición canónica»743. Il canone 128 enuncia l’obbligo di riparazione del danno744 «partendo dal postulato giusnaturalistico che impone tale obbligo precisandone, però, il significato canonistico quanto: al requisito oggettivo della ingiustizia de danno (damnum illegitime illatum); al suo momento causale ([illatum] actu iuridico, immo quovis alio actu dolo vel culpa posito); alla conseguente sua imputabilità correlata all’atto e/o comportamento da cui scaturisce il danno (quicumque illegitime […] alteri damnum infert); al modo ed ai mezzi della reparatio (obligatione tenetur damnum illatum reparandi), ed implicitamente alla responsabilità patrimoniale per la copertura della reparatio»745. L. CHIAPPETTA, Il codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, II ed., vol. I, Roma, 1996, p. 199. Secondo M. THÉRIAULT, Commento al c. 128, in A. MARZOA - J. MIRAS - R. RODRÍGUEZ-OCAÑA (a cura di), Comentario exegético al código de derecho canónico, I, Pamplona, EUNSA, 1996, p. 835: «el c. 128 no hace otra cosa que plasmar en forma de Derecho positivo un principio básico de la moral natural: la reparacíon del daño causado». 740 Il testo latino afferma che «Quicumque illegitime actu iuridico, immo quovis alio actu dolo vel culpa posito, alteri damnum infert, obligatione tenetur damnum illatum reparandi». 741 Evidenzia l’importanza della tradizione romanistica nella formulazione del can. 128 c.i.c. A.-M. GAUTHIER, On the Use of Roman Law in Canon Law, in M. THÉRIAULT-J. THORN (a cura di), Unico Ecclesiae Servitio. Canonical studies presented to Germain Lesage, O.M.I., on the occasion of his 75th birthday and of the 50th anniversary of his presbyteral ordination, Ottawa, 1991, p. 66. 742 J. GAUDEMET, Reflexions sur le Livre I “De normis Generalibus” du Code de Droit Canonique de 1983, in RDC, 1984, p. 109. 743 G. REGOJO BACARDÍ, Pautas para una concepción canónica del risarcimiento de daños, in Fidelium iura (supplemento – Persona y derecho), 1994, p. 117. 744 Il danno «alteri illatum» è dunque una fonte, anche canonica, di obbligazione. Cfr. sul punto P. A. BONNET, Obbligazione XI) Diritto canonico, in EG, vol. XXI, Roma, 1990, p. 5. 745 F. SALERNO, La responsabilità per l’atto giuridico illegittimo (can. 128 c.j.c.), in L’atto giuridico nel diritto canonico, Città del Vaticano, 2002, p. 330. 739 163 Esulando dall’economia del presente lavoro ripercorrere la disciplina della responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico vigente (sia latino che orientale), giova a conclusione del nostro discorso rilevare come nella storia del diritto canonico medievale la tutela delle posizioni giuridiche di ciascun fedele, ed il rispetto del suum cuique tribuere, non abbiano mai tentato di dissociare il bene individuale (cioè l’utilitas dei singoli fedeli) dal bonum Ecclesiae. È questa una delle tante ragioni che ha consentito ad illustri canonisti746 di poter sostenere la natura completamente pubblicistica del diritto canonico, ritenendo estranea all’ordinamento della Chiesa la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico747. Il risarcimento del danno extracontrattuale costituisce pertanto uno dei numerosi esempi di «diritti privati dei fedeli» la cui esistenza tuttavia «non consente la costruzione di una scienza del diritto privato […] come sistema, come scienza, con una propria autonomia»748. L’analisi dei molteplici frammenti del Corpus iuris canonici ha mostrato come il risarcimento del danno, in tutti i suoi aspetti sostanziali e processuali, richiedesse, e Come ad esempio P. FEDELE, Discorso generale sull’ordinamento canonico, cit., pp. 109 ss.; ID., Lo spirito del diritto canonico, cit., pp. 823-1013; ID., Introduzione al diritto canonico, II ed., Roma, 1979, p. 23. 747 Un’articolata ricostruzione storica sul tema è stata offerta da G. LO CASTRO, “Pubblico” e “privato” nel diritto canonico, in R. BERTOLINO-S. GHERRO-G. LO CASTRO (a cura di), Diritto “per valori”e ordinamento costituzionale della Chiesa, Giornate canonistiche di studio (Venezia 6-7 giugno 1994), Torino, 1996, pp. 119-149. Sul punto si veda quanto espresso da G. BONI-A. ZANOTTI, La Chiesa tra nuovo paganesimo e oblio. Un ritorno alle origini per il diritto canonico del terzo millennio?, Torino, 2012, p. 22 secondo cui: «Molto si è discusso nella canonistica alla metà del secolo scorso se l’ordinamento della Chiesa fosse di matrice eminentemente privatistica o pubblicistica: se la salus oltremondana dell’anima fosse un fatto solamente privato o avesse una valenza generale tale da far assumere a tutto l’ordinamento una coloritura pubblicistica. Era, quella, una stagione del pensiero canonistico che mutuava – sovente senza soverchia circospezione – le categorie ed anche i topoi dalla dogmatica laica, tendendo a posporre ad una logica giuridico-formale le ragioni di una prospettiva storico-teologica, così fitta, invece, di chiavi di lettura e di conseguenze metodologiche di fondamentale rilevanza». 748 G. FORCHIELLI, Il concetto di “pubblico” e “privato” nel diritto canonico. (Appunti di storia e di critica della sistematica), in Studi di storia e diritto in onore di Carlo Calisse, vol. II, Milano, 1940, pp. 552-553. Argomento connesso è quello della configurazione del diritto al risarcimento del danno, derivante da altrui dolo o colpa, in termine di diritto soggettivo. A favore della predetta configurazione si schierò P. CIPROTTI, Considerazioni sul “Discorso generale sull’ordinamento canonico” di Pio Fedele, Firenze, 1941, p. 45 [estratto da Archivio di diritto ecclesiastico, 1941]. Ciprotti negò pertanto la ratio peccati come fondamento principale delle norme del Codex Iuris Canonici del 1917 in tema di risarcimento del danno, in aperta polemica con Pio Fedele deciso sostenitore dell’assenza di diritti soggettivi nell’ordinamento della Chiesa. 746 164 tuttora richieda, di «prendere norma dall’aequitas canonica»749 senza perdere mai di vista la salvezza delle anime, vale a dire quella «suprema lex»750 che la sapienza giuridica romana ignorava ma che è stata posta da Cristo a fondamento e fine del diritto nel mistero della Chiesa751. H. PREE, La responsabilità giuridica dell’amministrazione ecclesiastica, in E. BAURA-J. CANOSA (a cura di), La giustizia nell’attività amministrativa della Chiesa: il contenzioso amministrativo, Milano, Giuffrè, 2006, p. 97. 750 Cfr., anche con riferimento all’aequitas canonica, P. BELLINI, Suprema lex Ecclesiae: salus animarum (critical report), in R. COPPOLA (a cura di), Incontro fra canoni d’Oriente e d’Occidente, Bari, 1994, pp. 317-347. 751 Sulla salus animarum come suprema lex vedi però la posizione critica di P. GHERRI, Lezioni di teologia del diritto canonico, Città del Vaticano, 2004, p. 314, in part. nt. 249. 749 165 FONTI Fonti romanistiche: Pandectarum seu Digestum Vetus Iuris civilis, tomus primus, Venetiis, 1581. VIGNALI G. (a cura di), Corpo del diritto corredato delle note di Dionisio Gotofredo e di C. E. Freiesleben altrimenti Ferromontano […], voll. I-X, Napoli, 1856-1862 Gai institutionum commentarii IV, in E. NARDI, Istituzioni di diritto romano, A, Testi, 1, Milano, 1986. Iustiniani Institutiones, in E. NARDI, Istituzioni di diritto romano, B, Testi, 2, Milano, 1986. Corpus Iuris Civilis, vol. II, Codex Iustinianus, recognovit et retractavit P. KRÜGER, Hildesheim, 1997. Corpus Iuris Civilis, vol. I, Novellae institutiones recognovit P. KRUEGER, Digesta recognovit T. MOMMSEN, rectractavit P. 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