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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
SCIENZE CANONISTICHE ED ECCLESIASTICISTICHE
Tesi di dottorato di ricerca
XXV ciclo
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE
NEL DIRITTO CANONICO MEDIEVALE
Tutor e Coordinatore:
Dottorando:
Chiar.mo Prof. Giuseppe Rivetti
Dott. Matteo Carnì
A. A. 2013/2014
INDICE DELLA TESI DI DOTTORATO
Tavola delle abbreviazioni
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4
Premesse e linee di ricerca
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1. Il principio «Responsabilità»
2. Tra «alterum non laedere» e «regula aurea»
3. Linee di ricerca sulla responsabilità extracontrattuale nel diritto
canonico
4. Explicatio terminorum
Capitolo I – La responsabilità extracontrattuale nel diritto romano
Introduzione
1. Il danno da fatto illecito nella normativa preaquiliana
1.1. Il danno alle cose e alla persona nella legge delle XII tavole
2. Il danno nella posteriore legislazione preaquiliana
3. La lex Aquilia
3.1. Contenuto e caratteristiche dei capitoli I e III della lex Aquilia
3.2. Contenuto e caratteristiche del capitolo II della lex Aquilia
3.3. Permanenza delle azioni anteriori alla lex Aquilia
3.4. Presupposti rilevanti per la configurazione del danno aquiliano
3.4.1.(segue) Significato della condotta tenuta iniuria
4. Lex Aquilia ed interventi giurisprudenziali
4.1. L’espressione «quadrupedem vel pecudes» nel cap. I della lex
Aquilia
4.2. I verbi contemplati nella legge
4.3 «Iniuria» e «culpa»
5. Interventi pretori nella disciplina aquiliana con incidenza sulla
concezione del danno
6. Aestimatio e danno aquiliano
7. L’estensione della legittimazione attiva
8. Il delitto di iniuria e la protezione dell’integrità psicofisica degli
uomini liberi in epoca classica
9. Il danno aquiliano nel diritto giustinianeo
9.1 Il delitto di iniuria in età post-classica e giustinianea
Conclusioni
2
Capitolo II - La responsabilità extracontrattuale in età
altomedievale e nell’età dei comuni
Introduzione
1. Contributi patristici e dello ius canonicum del primo millennio in
tema di responsabilità extracontrattuale
1.1. Responsabilità e imputabilità nella patristica
1.1.1. (segue) Il contributo di Agostino d’Ippona
1.2. Responsabilità e imputabilità nelle fonti canonistiche
1.2.1. (segue) Le collezioni pseudoapostoliche
1.2.2. (segue) I canoni dei concili
1.2.3. (segue) Le collezioni canoniche fino al periodo pre-classico
1.2.4. (segue) I libri penitenziali tra responsabilità e ripazione della colpa
2. Tra diritto romano volgare e diritto germanico
3. L’età dei Comuni
Conclusioni
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Capitolo III – La responsabilità extracontrattuale nel diritto
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canonico classico e post-classico
106
Introduzione
1. L’actio legis Aquiliae tra diritto canonico e scienza canonistica
2. Volontà e cognizione nel Decretum Gratiani
2.1. Residui di responsabilitas ex effectu nel Decretum e nelle decretali
3. Damnum
4. «Iniuria» e «culpa»
4.1. (segue) La decretale «Si culpa tua» di Gregorio IX
4.2. (segue) La gradazione della culpa tra foro esterno e foro interno
4.3. (segue) Il nesso di causalità
5. La legittimazione attiva e passiva
5.1. (segue) La responsabilità dell’erede per il delitto del defunto
6. Rapporti tra teologia e diritto canonico in tema di responsabilità
6.1. Restitutio, aestimatio rei e modalità di riparazione
6.1.1. (segue) «Peccatum non dimittitur, nisi restituatur ablatum»
6.1.2. (segue) Le somme penitenziali
Conclusioni
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Fonti
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166
Bibliografia
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172
Tabula gratulatoria
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194
3
TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI
Abbreviazioni per indicare le fonti e la bibliografia:
BIDR: «Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”»
DBGI: Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. BIROCCHI
– E. CORTESE – A. MATTONE – M. N. MILETTI (Bologna, 2013).
DDC: Dictionnaire de droit canonique (Paris, 1935-1965).
DGDC: Diccionario general de derecho canónico, a cura di J. OTADUY – A. VIANA –
J. SEDANO, (Cizur Menor, 2012).
DSSRN: Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. MELLONI,
(Bologna, 2010).
ED: Enciclopedia del diritto (Milano, 1958- ).
EG: Enciclopedia giuridica (Roma, 1988-).
NSSDI: Novissimo digesto italiano (Torino, 1957-1987).
PG: Patrologiae cursus completus. Series graeca, accurante J.-P. Migne.
PL: Patrologiae cursus completus. Series latina, accurante J.-P. Migne.
RDC: «Revue de droit canonique»
RHDFE: «Revue historique de droit français et de droit étranger»
RIDC: «Rivista internazionale di diritto comune»
RSDI: «Rivista di storia del diritto italiano».
SDHI: «Studia et documenta historiae et iuris».
SG: «Studia Gratiana»
ZSSKA: «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte,
Kanonistische Abteilung»
Abbreviazioni comuni:
can. / cann.: canone / canoni.
cfr.: confer.
cit.: citato.
4
col./coll.: colonna/colonne.
nt.: nota.
num.: numero.
p. / pp.: pagina / pagine.
t. / tt.: tomo / tomi.
vol. /voll.: volume / volumi.
5
PREMESSE E LINEE DI RICERCA
1) Il principio «Responsabilità»
Nello scenario giuridico del XXI secolo il concetto di responsabilità costituisce
ormai una pietra angolare che difficilmente può essere rimossa.
Sembra apparire retorica, a tal proposito, la domanda indiretta posta da Lon Fuller in
una memorabile pagina dell’opera The morality of Law, in cui il filosofo del diritto
americano, consapevole della importanza della predetta categoria giuridica, affermava:
«Vorrei ricordare […] che cosa si verrebbe a perdere se il concetto di
responsabilità scomparisse completamente dalla scena del diritto.
L’intero corpo delle leggi è permeato da due ricorrenti definizionistandards: colpa e intenzione […] senza di essi saremmo privi del filo che
ci guida attraverso il labirinto»1.
Si tratta di un’affermazione densa di significato e carica di suggestioni,
un’affermazione tutt’altro che ovvia giacché, aldilà delle costanti che si rinvengono
nell’intera storia del diritto circa l’obbligo (in diritto civile) di riparare il danno e
l’obbligo (in diritto penale) di subire la pena, lo stesso termine responsabilità, avente
peraltro un’origine abbastanza recente2, ha conosciuto un’utilizzazione variegata e
dispersiva anche sul piano non propriamente giuridico.
Paul Ricoeur ha magistralmente evidenziato lo sconfinamento dell’antica
obbligazione di riparare il danno e di subire la pena in una generica obbligazione di fare
che occupa tutto il terreno dell’agire umano a tal punto che il termine responsabilità,
con il filosofo tedesco Hans Jonas, è diventato «principio»3, il «principio
responsabilità» come contenuto di un’etica per la società tecnologica.
L. L. FULLER, La moralità del diritto, a cura di A. DAL BROLLO, Milano, 1986, p. 216 (trad. di The
morality of Law, Yale, 1969).
2
Fondamentale la lettura di S. SCHIPANI, Schede sull’origine del termine “responsabilità” (contributo
per una riflessione sui problemi dell’elaborazione del concetto sistematico generale designato da tale
termine), in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, vol. I, Milano, 1995, pp. 885-918,
ora anche in ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009,
pp. 1-28.
Si vedano altresì J. HENRIOT, Note sur la date et le sens de l’apparition du mot «responsabilité», in
Archives de philosophie du droit, 22 (1977), pp. 59-62, e M. VILLEY, Esquisse historique sur le mot
responsable, ivi, pp. 45-58.
3
P. RICOEUR, Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, in ID., Il Giusto, vol. 1,
Cantalupa, 2005, pp. 51-52 (trad. di Le Juste 1, Paris, 1995).
Si vedano anche le riflessioni di M. A. FODDAI, Il privilegio della responsabilità: la proposta di Hans
Jonas, in Archivio storico e giuridico sardo di Sassari, n. s., 3 (1996), pp. 187-244.
1
6
È proprio su un passo della celebre opera Das Prinzip Verantwortung che è
doveroso soffermarsi, senza minimamente addentrarsi nella disamina dei profondi
contenuti di essa, dal momento che esula dall’intelaiatura del presente lavoro l’analisi
strettamente filosofica del concetto di responsabilità4.
Trattando della responsabilità come imputazione causale delle azioni compiute
Jonas sostiene che:
«la condizione della responsabilità è il potere causale. L’agente deve
rispondere della sua azione: egli viene ritenuto responsabile delle sue
conseguenze ed eventualmente deve farsene carico. Questo riveste anzitutto
un significato giuridico e non, in senso stretto, morale. Il danno arrecato
deve essere riparato, anche se la causa non fu un’azione cattiva e anche se
la conseguenza non fu né prevista né intenzionale»5.
2) Tra «alterum non laedere» e «regula aurea»
Nell’essenzialità delle affermazioni di Jonas, ed in particolare nell’inciso «il danno
arrecato deve essere riparato», è dato rinvenire uno zoccolo duro di principi giuridici
che possono facilmente ricondursi all’«alterum non laedere», uno dei tre praecepta
iuris ulpianei.
Mentre l’«honeste vivere» si richiama al rapporto tra la morale e il diritto come
prima premessa del vivere sociale, gli altri due imperativi («alterum non laedere» e
«suum cuique tribuere») si rivolgono all’uomo soggetto dell’ordinamento giuridico.
Infatti l’«alterum non laedere» limita l’uso del diritto proprio, coesistente col diritto
altrui, mentre il precetto del «suum cuique tribuere» incita al rispetto pieno del diritto
altrui, che a sua volta soggiace al principio dell’«alterum non laedere»6.
La polemica sorta intorno al principio dell’alterum non laedere è stata ben riassunta
da Salvatore Pugliatti che ha ricondotto le diverse e molteplici posizioni essenzialmente
Si rinvia, sul punto, all’accurato volume di A. ARGIROFFI-L. AVITABILE, Responsabilità, rischio, diritto
e postmoderno. Percorsi di filosofia e fenomenologia giuridica e morale, Torino, 2008.
Cfr. anche F. TUROLDO, Il concetto di responsabilità, in L. MESSINESE-C. GÖBEL (a cura di), Verità e
responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, Roma, 2006, pp. 265-279.
5
H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P. P. PORTINARO,
Torino, 2009, p. 115 (trad. di Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main, 1979).
6
In tal senso F. CALASSO, Alterum non laedere. a) L’esperienza storica, in ED, vol. II, Milano, 1958, p.
94.
Ad avviso di A. LEVI, Teoria generale del diritto, II ed., Padova, 1953, p. 395, la responsabilità giuridica
ha ad oggetto «i doveri giuridici, i quali si assommano in quello del neminem laedere, che col
comportamento illecito si è trasgredito; quella propriamente morale ha per oggetto i doveri morali, che
si assommano in quello, che non è stato adempiuto, dell’honeste vivere».
4
7
ad un problema: quello cioè di «vedere se possa considerarsi veramente esistente e
operante come tale il principio alterum non laedere, o se questa formula non costituisca
una mera sintesi verbale»7.
Fatto è che da un punto di vista rigorosamente tecnico-giuridico i tria praecepta
iuris, anche se concepiti come principi generali, non vanno ad inserirsi organicamente
nel tessuto dell’ordinamento giuridico. Tuttavia non si può negare che siffatti precetti,
in virtù della circolazione costante nei vari secoli in cui rifulse il diritto romano, siano
portatori di una tradizione che non può essere totalmente svalutata.
È infatti nel solco di questa tradizione che il principio pagano dell’«alterum non
laedere» viene recepito dal pensiero giuridico medievale che traduce il concetto
giuridico di lesione in termini più semplici e positivi, plasmando dunque un precetto,
tutto cristiano, con cui Graziano, padre del diritto canonico, apre la sua Concordia
discordantium canonum:
«Humanum genus duobus regitur, naturali videlicet iure et moribus. Ius
naturae est, quod in lege et in evangelio continetur, quo quisque iubetur
alii facere, quod sibi vult fieri, et prohibetur alii inferre, quod sibi nolit
fieri. Unde Christus in evangelio: “Omnia quaecunque vultis ut faciant
vobis homines, et vos eadem facite illis. Haec est enim lex et
prophetae”»8.
Analogamente il giurista Accursio farà suo il precetto cristiano nel testo della
Glossa ordinaria (al verbo laedere), riportando semplicemente: «Quod tibi non vis
fieri, aliis ne feceris»9.
S. PUGLIATTI, Alterum non laedere. c) Il diritto positivo e le dottrine moderne, in ED, vol. II, Milano,
1958, p. 107.
Con riferimento al «neminem laedere» quale deus ex machina della dottrina imperativistica, invocato
ogni qual volta non si conosca il preciso comando che tuteli gli interessi lesi in questione, cfr. C.
MAIORCA, Colpa civile. b) Teoria generale, in ED, vol. VII, Milano, 1960, p. 541.
8
Humanum genus D. 1, c. 1, Gr. a.
Similmente, in piena età moderna, il cardinale IOANNES BAPTISTA DE LUCA, Theatrum veritatis et
iustitiae, vol. XV, pars I, De iudiciis, Romae, 1673, p. 243, disc. XXXV, n. 31, affermerà che il diritto
naturale «[…] in praeceptis decalogi, sive in generico axiomate, ut quid tibi non vis fieri, alteri ne feceris,
scriptum reperitur in sacra pagina veteris, et novi Testamenti, unde propterea pro sinonimis haberi
solent, ius divinum et naturale, adeo ut istud ius primo insit».
Sul celebre giurista si vedano A. ZANOTTI, Cultura giuridica del Seicento e Jus Publicum Ecclesiasticum
nell’opera del Cardinal Giovanni Battista De Luca, Milano, 1983, e da ultimo I. BIROCCHI-E.
FABBRICATORE, De Luca, Giovanni Battista, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 685-689.
9
ACCURSIUS, Glossa laedere ad D. 1, 1, 10, 1: «Et hoc ad proximum, unde illud: Quod tibi non vis fieri,
alij ne feceris». [in Pandectarum seu Digestum Vetus Iuris civilis, tomus primus, Venetiis, 1581, p. 13].
Sulla glossa accursiana «comme témoin de la bonne entente des droits savants et du respect des
romanistes pour le spirituel» si veda G. LE BRAS, Accurse et le droit canon, in G. ROSSI (a cura di), Atti
del Convegno internazionale di Studi Accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), v. I, Milano, 1968, pp.
217-231, in part. p. 224.
7
8
Appare di immediata evidenza che nell’età dello ius commune il principio
dell’alterum non laedere viene riletto alla luce del messaggio di Cristo ossia di quella
«regola aurea»10 contenuta nel vangelo di Matteo (7, 12) e di Luca (6, 31), in ossequio
al suo antecedente veterotestamentario presente nel libro di Tobia (4, 15)11.
È stato giustamente sottolineato che Graziano trasforma il comando evangelico nel
principio fondamentale dello ius naturale col ricavarne il divieto di fare agli altri quel
che non si vuole sia fatto a se stessi. Si tratta di un’integrazione della legge morale,
un’integrazione giuridica «perché soltanto con la determinazione di un limite alla
condotta, e non con la sola enunciazione del criterio o legge interna di essa, si
trapassa dal campo della pura morale in quello del diritto»12.
La Chiesa porterà avanti il «processo di diffusa canonizzazione (quasi di
divinizzazione) degli apporti sapienziali della Giurisprudenza romana»13 arrivando a
conferire un alone di sacralità ai tria praecepta iuris ulpianei, espressamente
menzionati da Gregorio IX nella bolla di promulgazione14 delle sue Decretales.
L’età moderna è caratterizzata invece da un recupero giusnaturalistico dell’«alterum
non laedere» operato da Grozio e soprattutto da Samuel Pufendorf e Christian
Thomasius.
10
Sulla fortuna della regola e le critiche rivolte nella storia filosofica dell’Occidente si vedano le lucide
osservazioni di F. D’AGOSTINO, La «regola aurea» e la logica della secolarizzazione, in L. LOMBARDI
VALLAURI-G. DILCHER (a cura di), Cristianesimo secolarizzazione e diritto moderno, Milano, 1981, pp.
941-955.
11
Circa la formulazione letterale del principio espresso nella Bibbia cfr. C. CARDIA, La Chiesa tra storia
e diritto, Torino, 2010, p. 10, il quale rileva: «Legge suprema dell’etica evangelica è l’amore per il
prossimo, che deve eguagliare l’amore che si deve a Dio. Il primo dovere sta nel non fare agli altri ciò
che non vorremmo fosse fatto a noi, secondo il principio del neminem ledere, proteso ad evitare conflitti
ed egoismi. Ma il secondo dovere allarga l’orizzonte della pacificazione al sostegno dell’altro, perché
dobbiamo fare al prossimo ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Quando cancella l’alterità tra l’io e
l’altro, l’etica cristiana suggerisce un metodo razionale per distinguere il bene dal male, individuare il
meglio rispetto al bene. Nonostante tutti i tentativi, nessuno nella storia del pensiero è riuscito a dir
meglio, e di più».
12
W. CESARINI SFORZA, Alterum non laedere. b) Il problema filosofico, in ED, vol. II, Milano, 1958, p.
96.
13
P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica della Europa
preumanistica, rist., Firenze, 1985, p. 65.
14
GREGORIUS IX, bulla Rex Pacificus, in Corpus Iuris Canonici, editio Lipsiensi secunda post AE. L.
RICHTERI curas ad librorum manu scriptorum et editionis romanae fidem recognovit et adnotatione
critica instruxit AE. FRIEDBERG, pars secunda, Lipsiae, 1881, p. 2: «Ideoque lex proditur, ut appetitus
noxius sub iuris regula limitetur, per quam genus humanum, ut honeste vivat, alterum non laedat, ius
suum unicuique tribuat, informatur».
Il riferimento gregoriano ai precetti ulpianei è stato considerato in termini di «migliore attestato di stima,
di colleganza» nei confronti del diritto romano da C. CALISSE, Influsso del diritto romano e canonico
nella evoluzione delle leggi barbariche e specialmente longobarde nel Regno d’Italia, in Acta congressus
iuridici internationalis VII saeculo a Decretalibus Gregorii IX et XIV a Codice Iustiniano promulgatis,
(Romae 12-17 novembris 1934), vol. II, Romae, 1935, p. 268.
9
Grozio, «mediatore fra la tradizione della teologia morale e l’emergente
Giusnaturalismo laico»15, fissa le basi di una configurazione dogmatica autonoma della
responsabilità per fatto illecito, grazie soprattutto all’influsso esercitato dalla Seconda
Scolastica16.
Con Pufendorf il fondamento del precetto «alterum non laedere» è rintracciato
nell’obbligo di conservare la convivenza umana (socialitas). Dalla violazione di un
simile precetto nasce l’obbligo di riparare il danno. In Thomasius l’indagine sul danno
ruota intorno al precetto dell’«alterum non laedere» (rectius «neminem laedere»), il cui
fondamento viene individuato nell’esigenza di custodire l’aequalitas tra gli uomini17.
L’eco del precetto evangelico supera l’età del giusnaturalismo moderno fino ad
arrivare in pieno Ottocento, durante la vigenza dell’ormai diffuso e imitato Code
Napoléon, che nell’art. 1382 aveva cristallizato il principio della culpa consacrato da
Grozio nella famosa definizione di «maleficium».
Non mancano infatti giuristi che ravvisano nel principio evangelico il fondamento
di quanto disposto dal citato art. 1382 del Code Napoléon18. Ciò trovava del resto un
autorevole appiglio nei lavori preparatori al Codice francese, in particolare
nell’esposizione dei motivi al corpo legislativo operata dal consigliere di Stato JeanBaptiste Treilhard19.
Così F. WIEACKER, Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania, pres. di
U. SANTARELLI, vol. I, Milano, 1980, p. 455 (trad. di Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer
Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, Göttingen, 1967).
16
O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804,
Paris, 2005, pp. 395-411, e da ultimo P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema
di responsabilità civile verso la european civil law, in ID. (a cura di), La responsabilità civile, Milano,
2009, pp. 42-51.
17
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, Napoli, 2010, pp.
155-164.
18
Ad esempio J. L. A. BENOIST, De la responsabilité civile en matière de délits et de quasi-délits, en
droit civil français, Strasbourg, 1859, p. 84, e A. SOURDAT, Traité général de la responsabilité, IV ed., t.
I, Paris, 1887, p. 484.
19
«Les engagements de cette espèce sont fondés sur ces grands principes de morale si profondément
gravés dans le coeur de tous les hommes, qu’il faut faire aus autres ce que nous désirerions qu’ils fissent
pour nous dans le mêmes circonstances, et que nous sommes tenus de réparer les torts et les dommages
que nous avons pu causer». Il testo è tratto da P. A. FENET, Recueil complet des travaux préparatoires du
Code civil, t. XIII, Paris, 1827, p. 465.
Sul giurista francese cfr. P. LENOËL, TREILHARD Jean-Baptiste, in P. ARABEYRE-J. L. HALPÉRIN-J.
KRYNEN (a cura di), Dictionnaire historique des juristes français XIIe-XXe siècle, Paris, 2007, pp. 749750.
15
10
L’invocazione del principio evangelico veniva tuttavia vista, in piena età
positivistica, come un palese esempio di confusione tra l’ambito della morale e quello
del diritto20.
Michel Villey ha parlato invece di errore, in cui caddero i giuristi moderni, di
costituire le obbligazioni giuridiche su massime di moralità soggettiva. Così è accaduto
per la concezione della responsabilità extracontrattuale dedotta dal preteso dovere di
ciascuno di risarcire i danni provocati per colpa sua21.
3) Linee di ricerca sulla responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico
medievale
Viene a questo punto da chiedersi quale sia stato nel corso della storia il contributo
offerto
dallo
ius
canonicum
alla
dogmatica
della
moderna
responsabilità
extracontrattuale.
Si tratta, in sostanza, di analizzare l’apporto del diritto canonico alla fondazione del
moderno illecito aquiliano sull’elemento della culpa, fondazione consacrata da Grozio e
cristallizzata nel Code Napoléon, ma pur sempre
influenzata, in numerose
sfaccettature, anche da ampi «frammenti» del pensiero dei Padri della Chiesa, e dalle
correnti facenti capo alla Scolastica ed alla Seconda Scolastica.
Il primo capitolo della presente dissertazione dottorale verrà dedicato alla
trattazione storica della responsabilità extracontrattuale nel diritto romano. Riteniamo
imprescindibile il riferimento alla disciplina romanistica nella materia de qua giacchè
la Chiesa nel corso dei secoli ebbe come punto di riferimento il diritto romano, modello
In tal senso si veda la critica serrata condotta in Italia da G. BRUNETTI, Il delitto civile, Firenze, 1906,
pp. 39-59. Su quest’opera, che offrì una lettura della responsabilità civile fortemente ispirata al
positivismo giuridico, cfr. G. CAZZETTA, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune
civilistico (1865-1914), Milano, 1991, pp. 393-397.
21
M. VILLEY, Il diritto e i diritti dell’uomo, Siena, 2009, p. 117, nt. 10 (trad. di Le droit et les droits de
l’homme, III ed., Paris, 1998). Per approfondimenti, con particolare riferimento a Grozio, si veda ID., Le
moralisme dans le droit a l’aube de l’epoque moderne (Sur un texte de Grotius), in RDC, 16 (1966), pp.
319-33; ID., La formazione del pensiero giuridico moderno, intr. di F. D’AGOSTINO, Milano, 2007, pp.
528-546 (trad. di La formation de la pensée juridique moderne, III ed., Paris, 1975).
Cfr. anche R. POUND, Introduzione alla filosofia del diritto, intr. di W. CESARINI SFORZA, Firenze, 1963,
p. 140 (trad. di An Introduction to the Philosophy of Law, New Haven, 1954): «La dottrina della
responsabilità per colpa, e soltanto per colpa, ha le sue origini nel periodo dell’equità e del diritto
naturale, quando l’elemento morale e quello giuridico si identificano, e significa che si risponderà di
offese che conseguono ad una condotta moralmente biasimevole».
20
11
di insuperata perfezione alla base della vita dei fedeli in Cristo, di cui è testimone
l’antico adagio «Ecclesia vivit lege romana».
Ciò fungerà da premessa storica necessaria per introdurre la trattazione del secondo
capitolo del lavoro dottorale dedicato alla responsabilità extracontrattuale in età
altomedievale e nell’età dei comuni. Sarà questa la sedes materiae in cui analizzeremo i
contributi patristici e dello ius canonicum del primo millennio in tema di responsabilità
extracontrattuale, con particolare riferimento alla responsabilità ed imputabilità nella
patristica e nelle collezioni pseudoapostoliche, nei concili e nelle collezioni canoniche
fino al perido pre-classico.
Sarà dato spazio alla trattazione della responsabilità e della ripazione della colpa
nei libri penitenziali, così come alla disciplina della danno extra contractum nel diritto
romano volgare e nel diritto germanico, con riferimenti alla normativa statutaria
nell’età dei Comuni.
Nel terzo capitolo tratteremo della responsabilità extracontrattuale nel diritto
canonico dell’epoca classica e post-classica.
Ad apertura di quest’ultimo capitolo verrà evidenziata, dopo una breve introduzione
sui rapporti tra il diritto romano e quello canonico nel sistema dello ius commune,
l’importanza della disciplina dettata dalla lex Aquilia (tramandata dalla riscoperta
compilazione di Giustiniano) per la nuova scienza del diritto canonico. Nella disamina
dei vari aspetti dogmatici dell’illecito aquiliano si procederà sistematicamente
attraverso un’analisi degli innumerevoli punti di contatto tra le leges ed i canones, non
senza evidenziare gli aspetti tipici del diritto della Chiesa.
Questi ultimi imporranno pertanto costanti riferimenti alle peculiarità del diritto
canonico nella materia della responsabilità extracontrattuale.
Si tratta di aspetti che presuppongono lo stretto legame tra diritto canonico e
teologia, e che possono comprendersi soltanto in un ordinamento giuridico «aperto
verso l’alto»22, quale è quello canonico, un «ordinamento peculiare di una comunità di
fedeli affratellati da comuni aspirazioni spirituali: la “societas hominum viatorum in
veritate fidei deambulantium”»23, che partecipano all’economia della salvezza.
L’espressione è di O. GIACCHI, Sostanza e forma nel diritto della Chiesa, in Jus, 1940, pp. 413-414.
Così P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico
con particolare riferimento ai secoli XII e XIII, Milano, 1964, p. 12.
22
23
12
Il presente lavoro verrà condotto partendo dalla consapevolezza che nella materia de
qua il diritto canonico è fortemente debitore al diritto romano. Verrano comunque
evidenziati anche quegli elementi canonistici e teologici che, nel divenire della storia,
hanno influenzato24 la disciplina civilistica, tentando di evitare ogni approccio allo
studio storico del diritto con intenti applicativi modernizzanti.
Siffatti intenti si espongono in maniera naturale a strumentalizzazioni
dell’esperienza passata, specie quando si tratta di comparare diverse esperienze/sistemi
giuridici in chiave sincronica e diacronica.
Ciò non toglie di ravvisare il contributo specifico offerto dal diritto canonico alla
configurazione dell’attuale dogmatica dell’illecito aquiliano, con particolare riferimento
al principio della culpa, il cui antecendete storico è ravvisabile nello ius canonicum
vetus e precisamente nella decretale Si culpa tua di Gregorio IX.
Il lavoro si arresterà agli albori dell’età moderna, periodo nel quale la riflessione
giuridica, filosofica e teologica farà tesoro di quanto espresso in età medievale da
canonisti e teologi. Come avremo modo di precisare nelle coonclusioni al capitolo, il
travaglio legislativo e dottrinale medievale preparerà la strada alla riflessione
giusnaturalistica di Grozio in materia di illecito extracontrattuale fondato sulla colpa,
riflessione che getta le fondamenta per la costruzione del principio che verrà consacrato
definitivamente nella codificazione napoleonica.
4) Explicatio terminorum
Nell’economia del presente contributo è stato volutamente omessa la trattazione
specifica di tematiche particolari, sia pur connesse con l’oggetto da noi studiato, ma la
cui disamina avrebbe di gran lunga ampliato le nostre riflessioni storiche e giuridiche
dedicate alla sola responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico medievale.
Si veda la critica al concetto di influenza nei rapporti tra ius civile e ius canonicum avanzata da M.
BELLOMO, Ius civile, ius canonicum, società medievale, in O. CONDORELLI-F. ROUMY- M. SCHMOECKEL
(a cura di), Der einfluss der kanonistik auf die europäische rechtskultur, Bd. 1: Zivil-und
Zivilprozessrecht, Köln-Weimar-Wien, 2009, pp. 1-6, in part. p. 3: «Non mi riesce di immaginare una
scienza che sta per sé, quella civilistica, e un’altra che sta pure per sé, quella canonistica, né mi riesce di
chiedermi se e in quale misura l’una abbia influenzato l’altra, in astratto, nel confronto, astratto, tra le
figure (o categorie) giuridiche disegnate da una parte e dall’altra. […] L’una scienza e l’altra hanno da
rispondere a problemi che in parte sono comuni e in parte sono di propria esclusiva pertinenza».
24
13
Intendiamo riferirci alle tematiche (totalmente estranee allo ius vetus nel linguaggio
ma non integralmente nei contenuti!) della «responsabilità ecclesiale» e della
«corresponsabilità» sulle quali la dottrina canonistica contemporanea si è recentemente
soffermata25 ed il cui dibattito rimane ancora aperto26.
Abbiamo brevemente ricordato come il termine responsabilità sia un’acquisizione
recente al lessico filosofico e giuridico occidentale. Lo stesso dicasi per il diritto della
Chiesa giacchè «responsabilitas»27, comparirà solamente con il Codex Iuris Canonici
del 1983 ed in una accezione diversa da quella frequente di responsabilità giuridica tout
court, sia essa responsabilità civile (nella triplice declinazione di responsabilità
contrattuale, precontrattuale ed extracontrattuale) o responsabilità penale.
La predetta «responsabilità ecclesiale»28, intesa come dovere di cooperazione,
gravante su ciascun fedele, all’edificazione del Corpo di Cristo, fa pertanto emergere
«un’ulteriore accezione di responsabilità che generalmente non traspare in maniera
evidente nel concetto puramente giuridico: quello del coinvoilgimento pieno, della
dedizione, che si traduce in impegno spirituale e in dovere morale, in tal senso più
ampio del dovere giuridico, e che nel diritto canonico si attua attraverso la
partecipazione alla realizzazione del fine salvifico»29.
Si vedano i contributi raccolti in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e
rappresentanza, (Atti della giornata Canonistica Interdisciplinare), Città del Vaticano, 2010; G. BONI,
Corresponsabilidad, in DGDC, vol. II, Cizur Menor, 2012, pp. 779-785. Indispensabile la lettura delle
considerazioni storiche di J. GAUDEMET, Sur la co-responsabilité, in L’année canonique, 17 (1973), pp.
533-541.
26
Cfr. P. GHERRI, Bilancio canonistico, in ID. (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e
rappresentanza, cit., pp. 381-399.
27
X. OCHOA, Index verborum ac locutionum Codicis iuris canonici, II ed., Città del Vaticano, 1984, p.
417 sub voce Responsabilitas.
28
La formula «responsabilità ecclesiale», al pari della voce «corresponsabilità», evidenzia il
coinvolgimento dell’intero Popolo di Dio nella vita ecclesiale in virtù del sacramento del Battesimo,
coinvolgimento che tocca ogni fedele in Cristo, ciascuno secondo la propria condizione giuridica. In tal
senso A. MONTAN, Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, in P. GHERRI (a cura
di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza, cit., pp. 9-33, in part. pp. 12-13.
29
M. D’ARIENZO, Riflessioni sul concetto giuridico di responsabilità. Aspetti canonistici, in AA. VV.,
Scritti in onore di Franco Bolognini, Cosenza, 2011, p. 238. Per ulteriori approfondimenti si veda EAD., Il
concetto giuridico di responsabilità. Rilevanza e funzione nel diritto canonico, Cosenza, 2012, passim.
25
14
CAPITOLO PRIMO
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE NEL DIRITTO ROMANO
Introduzione
In materia di responsabilità extracontrattuale la scienza canonistica, nel corso dei
secoli, non ha costruito una propria autonoma dottrina.
I canonisti, infatti, hanno risparmiato il loro sforzo costruttivo giacchè si erano
trovati di fronte ad una preesistente e consolidata disciplina normativa in tema di danno
«extra contractum», una disciplina di eccelsa razionalità e di inarrivabile perfezione
tecnica costituita dal diritto romano.
Anche con riferimento a siffatta tematica vale infatti la nota affermazione «Ecclesia
vivit lege romana», la quale sta a significare che il diritto romano, «in conseguenza
della portata del rinvio di ricezione, effettuato dall’autorità prelatizia al diritto dello
Impero, per il regolamento delle materie temporali di propria pertinenza, veniva ad
integrare, salvo espressa disposizione ecclesiastica contraria, il contenuto normativo
del jus canonicum in temporalibus»30.
In ossequio alla natura più intima dello ius canonicum, ed alle sue esigenze
specifiche, che non trovano riscontro negli ordinamenti giuridici statuali31, non sono
mancati, tuttavia, specifici apporti normativi del legislatore canonico, elaborazioni
dottrinali canonistiche e riflessioni teologico-filosofiche che hanno permesso, e tuttora
consentono, di ravvisare un originale contributo dato dal Cristianesimo, ed in particolare
dallo ius canonicum, alla moderna dogmatica del danno aquiliano.
È necessario pertanto ripercorrere, seppur brevemente, la storia della responsabilità
extracontrattuale senza perdere di vista che, con riferimento al sistema giuridicoreligioso romano32 lo studio della responsabilità
extracontrattuale, al pari di
P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, cit., p.
526.
31
Sull’argomento si rinvia alle memorabili pagine di P. FEDELE, Discorso generale sull’ordinamento
canonico, Padova, 1941 [estratto da Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Regia Università di
Perugia, 55 (1941)], e ID., Lo spirito del diritto canonico, Padova, 1962, passim, dedicate ad
approfondimenti mirati su concetti, propri dell’ordinamento canonico, quali ratio peccati, foro interno,
salus animarum ed aequitas canonica.
32
Con riferimento al diritto romano preferiamo utilizzare questa espressione rispetto a quella di
ordinamento giuridico o di esperienza giuridica. Solo il concetto di «sistema giuridico-religioso»
30
15
qualsivoglia moderno istituto giuridico, deve essere condotto tracciando, per quanto
possibile, le linee di continuità e i momenti di frattura tra tradizione antica e l’attuale
sistema di civil law, evitando di leggere il fenomeno del danno aquiliano con gli
occhiali della moderna dogmatica civilistica.
Una siffatta lettura comporterebbe infatti una sovrapposizione concettuale che reca
con sé il rischio di alterare ogni interpretazione della più antiche manifestazioni di
responsabilità extracontrattuale. Ne rimarrebbe alterato, pertanto, il modo di studiare gli
istituti romani sopravvissuti nella nostra esperienza giuridica, modus studendi che
consiste nel collocare gli istituti romani «nella vicenda storica che li ha condotti sino a
noi, in modo da evitare, per quanto possibile, le naturali proiezioni della modernità»33.
1) Il danno da fatto illecito nella normativa preaquiliana
È pacificamente risaputo come la lex Aquilia abbia rappresentato in diritto romano
la norma cardine in materia di danneggiamento. Ancor prima della votazione di siffatto
plebiscito, tuttavia, esisteva nel diritto romano arcaico una disciplina del danno da fatto
illecito, la cui testimonianza è offerta dal giurista di età severiana Ulpiano in un
frammento riprodotto in D. 9, 2, 1:
«Lex Aquilia omnibus legibus, quae ante se de damno iniuria locutae sunt,
derogavit, sive duodecim tabulis, sive alia quae fuit: quas leges nunc
referre non est necesse. 1.Quae lex Aquilia plebiscitum est, cum eam
Aquilius tribunus plebis a plebe rogaverit»34.
permette di comprendere le definizioni romane di ius come «ars boni et aequi» (D. 1, 1, 1) e di
iurisprudentia come «divinarum atque humanarum rerum notitia , iusti atque iniusti scientia», nonché la
dimensione religiosa del diritto. Esso permette altresì di evitare la separazione (o «Isolierung»), tra
diritto, morale e religione. Cfr. in merito P. CATALANO, Diritto e persone, I, Torino, 1990, pp. VII-XII;
99-101; ID., Systema y ordenamientos: el ejemplo de América Latina, in S. SCHIPANI (a cura di), Mundus
Novus. America. Sistema giuridico latino-americano, Roma, 2005, p. 21.
33
Così M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 47.
34
Trad.: «La legge Aquilia derogò a tutte le leggi, che prima di essa hanno parlato del danno
<arrecato> ingiustamente, sia delle Dodici Tavole, sia a qualsiasi altra. Riferire tali leggi non è ora
necessario. 1. Tale legge Aquilia è un plebiscito, avendola proposta alla plebe il tribuno della plebe
Aquilio».
Le traduzioni dei frammenti riguardanti i primi 32 libri del Digesto sono tratte da S. SCHIPANI (a cura di),
Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, Testo e
traduzione, voll. I-V, Milano, 2005-2013. In attesa del compimento della monumentale iniziativa portata
avanti dall’equipe coordinata dal prof. Sandro Schipani, per la traduzione dei restanti libri del Digesto
occorre basarsi sulla classica edizione di G. VIGNALI (a cura di), Corpo del diritto corredato delle note di
Dionisio Gotofredo e di C. E. Freiesleben altrimenti Ferromontano […], voll. I-X, Napoli, 1856-1862,
cui si è anche fatto riferimento nella presente trattazione.
16
1.1) Il danno alle cose e alla persona nella legge delle XII tavole
La legge delle XII Tavole (451-450 a.C.)35 elencava nella sua Tabula 8 alcune
ipotesi di danni causati alle cose altrui e alla persona da una azione umana.
Il quadro che si riesce ad avere dalle notizie molto frammentarie in tema di danno
preaquiliano alle cose «testimonia numerosi interventi negli ambiti più disparati»36.
Si va dall’introduzione del bestiame nel terreno altrui per farlo pascolare (Tab. 8, 7:
actio de pastu pecoris, la cui la pena sarebbe stata determinata in concreto), al taglio
clandestino degli alberi altrui (Tab. 8, 11) vale a dire l’actio arborum furtim
caesarum37.
Altro esempio è costituito dall’incendio non doloso della casa o del frumento
accatastato in vicinanza di essa38 (Tab. 8,10). A tal proposito giova sottolineare che nel
caso di incendio doloso la sanzione è propria del diritto criminale mentre nell’evenienza
della fattispecie non dolosa cioè quando il fatto si sia relizzato «casu, id est negligentia»
è previsto il risarcimento del danno («noxiam sarcire»). Si tratterebbe in sostanza di una
ipotesi di pena privata consistente nel risarcimento del danno, in cui viene in rilievo
l’esigenza di risarcire la perdita patrimoniale subita39.
È stato notato come «il rapporto tra le norme decemvirali e la Lex Aquilia non si
limita solo a un problema di successioni di leggi nel tempo ma interessa anche il
mutamento di prospettiva dalla quale i fenomeni sono osservati nelle diverse fasi della
riflessione giuridica»40. Al riguardo l’esempio concreto è costituito dal ferimento dello
schiavo. Mentre infatti le XII Tavole riconducevano la fattispecie alle lesioni della
Sulla genesi ed il contenuto della celebre legge si vedano V. RAGUSA, Le XII Tavole, Roma, 1925; O.
DILIBERTO, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992; ID., Bibliografia ragionata
delle edizioni a stampa della legge delle XII Tavole (secoli XVIXX), Roma, 2001; ID., Una palingenesi
‘aperta’, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. HUMBERT, Pavia, 2005, pp. 217
ss.
36
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 3 ss.
Si veda anche L. JING, Riparazione del danno extra contrattuale: sistema giuridico romanistico,
elaborazione canonistica e prospettive attuali, (Tesi di dottorato di ricerca in Sistema giuridicoromanistico: unificazione del diritto e diritto dell’integrazione, Univeristà degli studi di Roma Tor
Vergata, XIX ciclo), Roma, 2007, pp. 12 ss.
37
Ad avviso di Gai. 4, 11, l’azione sarebbe stata applicabile a tutte le altre ipotesi di taglio di piante altrui.
Secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist., 17, 1, 7) la pena relativa ammontava al
pagamento di 25 assi per ogni albero tagliato.
38
Stando alla lettura di D. 47, 9, 9 se l’autore dell’illecito era indigente si contemplava una leggera
punzione corporale mentre se si era agito intenzionalmente veniva inflitta al responsabile una forte pena
che consisteva nel legarlo, picchiarlo e bruciarlo.
39
In questo senso A. BURDESE, Manuale del diritto privato romano, IV ed.,Torino, 1993, p. 529.
40
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 6.
35
17
persona, non diversamente dalle lesioni subite dai liberi, nella lex Aquilia l’ipotesi fu
invece ricompresa nel danno patrimoniale.
Oltre alla ossis fractio del libero (sanzionata in 300 assi) o di un servo, la cui pena
era invece stabilita in 150 assi (Tab. 8, 3), ritroviamo in età decemvirale altre due
fattispecie di danno alla persona41 vale a dire il membrum ruptum (Tab. 8, 2)42,
sanzionato con il taglione in mancanza di una composizione pecuniaria, e la iniuria c.d.
semplice, punita con una pena fissa di 25 assi (Tab. 8, 4)43, senza distinguere tra liberi e
servi .
Nella legge delle XII Tavole iniuria acquisì il significato particolare di lesione
fisica lieve al corpo di un uomo libero.
Dall’esame delle figure sopra descritte emerge che in età decemvirale non esiste una
clausola generale che sanzioni il danno alle cose altrui causato da un atto umano, ma
esiste una serie di figure particolari e autonome tra di loro. Siffatte figure tutelavano
una gamma di beni riconducibili ad una economia di tipo agricolo, propria della Roma
del V secolo a. C, quali i campi di foraggio, gli alberi, la casa, gli animali, il grano
accumulato in prossimità di essa e la integrità fisica del servo.
Gai. 3. 223, di cui conviene riportare in integrum la testimonianza: «Poena autem iniuriarum ex lege
XII tabularum propter membrum quidem ruptum talio erat; propter os vero fractum aut conlisum
trecentorum assium poena erat, si libero os fractum erat; at si servo, CL; propter ceteras vero iniurias
XXV assium poena erat constituta. Et videbantur illis temporibus in magna paupertate satis idonae istae
pecuniariae poenae».
Trad. «La pena delle ingiurie per la legge delle XII Tavole nel caso di membro rotto era il taglione; nel
caso invece di osso fratturato o schiacciato era di trecento assi, se l’osso fratturato era di un libero, o di
centocinquanta, se di un servo; per le altre ingiurie era fissata una pena di venticinque assi. E queste
pene pecuniarie, in quei tempi di gran povertà, apparivano abbastanza idonee».
Il testo e la traduzione di Gai institutionum commentarii IV sono tratti da E. NARDI, Istituzioni di diritto
romano, A, Testi, 1, Milano, 1986, utilizzato nella presente trattazione.
42
Sul punto una parte della dottrina ritiene che il membrum ruptum sia l’arto imputato (in tal senso si
vedano U. VON LÜBTOW, Untersuchungen zur lex Aquilia de damno dato, Berlin, 1971, p. 113, ed E.
POLAY, Iniuria Types in Roman Law, Budapest, 1986, p. 17).
Altra dottrina reputa invece che si tratti solamente di una parte del corpo danneggiato (cfr. G. PUGLIESE,
Studi sull’‘iniuria’, Milano, 1941, p. 33).
43
Tab. 8, 4 «Si iniuriam alteri faxsit, XXV poenae sunto».
Una lettura del termine iniuria all’ablativo, anziché all’accusativo, ha avallato la teoria che, pur
riconoscendo autonomia alla fattispecie prevista da Tab. 8, 4, nega l’esistenza di un delitto di iniuria. Per
un’ampia disamina dottrinale cfr. M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del
diritto privato, cit., pp. 16-17.
41
18
2) Il danno nella posteriore legislazione preaquiliana
È nota la testimonianza ulpianea, di cui supra, circa l’esistenza di una legislazione
posteriore alla legge delle XII Tavole, ma anteriore alla lex Aquilia, in materia di
damnum iniuria.
In mancanza di fonti normative dirette, tuttavia, occorre basarsi sulla testimonianza
letteraria di Aulo Gellio, attraverso le parole del filosofo Favorino, per comprendere
l’inadeguatezza della normativa delle XII Tavole a tutelare le lesioni. Lo scrittore latino
afferma che i pretori decisero che la norma decemvirale in tema di lesioni fisiche
dovesse essere abolita e abbandonata e stabilirono di affidare ai recuperatori la stima
della pena da pagare in caso di iniuriae44.
Se la dottrina ha imboccato strade diverse nel descrivere lo sviluppo postdecemvirale dell’iniuria, tuttavia essa è pressochè concorde nel sostenere la tarda
formazione della nuova nozione di iniuria-contumelia, che solitamente è ricondotta alla
giurisprudenza di Labeone.
La lettura di alcuni frammenti della letteratura latina arcaica (databili tra III e II
secolo a. C.) consentirebbe altresì di anticipare a quest’epoca lo sviluppo della nuova
nozione45. Il sostantivo iniuria indicherebbe un comportamento talora materialmente
lesivo, talaltra astrattamente offensivo, altre volte genericamente ingiusto, altre ancora,
invece, riconducibile al delitto sanzionato con l’actio iniuriarium.
Parte della dottrina ha considerato come possibili, nel periodo preaquiliano, nuove
figure di danni, senza giungere naturalmente alla configurazione di una categoria
generale, quali la regolamentazione della morte di uno schiavo o di un animale di
allevamento (nel caso che queste situazioni non siano state gia sanzionate nelle legge
delle XII Tavole) e quella della acceptilatio della obligazione fatta per adstipulator in
pregiudizio del creditore principale46.
Gell. 20, 1, 13: «Propterea – inquit – praetores postea hanc abolescere et relinqui censuerunt
iniuriisque aestumandis recuperatores se daturos edixerunt».
45
Sul punto si veda M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato,
cit., pp. 22-26, con ampia disamina dei frammenti di Cecilio Stazio, Catone, Pacuvio e soprattutto Plauto.
46
Si veda in merito G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, in J. PARICIO (a cura di), Derecho romano de
obligaciones. Homenaje al profesor José Luis Murga Gener, Madrid, 1994 , p. 827.
44
19
3) La lex Aquilia
Nell’evoluzione dell’intera disciplina dei fatti illeciti la votazione della lex Aquilia
rappresenta il momento in cui vengono rielaborate le antiche norme decemvirali e postdecemvirali in materia di danno.
Si tratta di un famoso plebiscito, la cui data di approvazione (tradizionalmente47
indicata nel 286 a.C.) è stata molto dibattuta dalla romanistica48, ma in ogni caso può
essere posto in un periodo che si colloca tra IV sec. a.C e la prima metà del II sec.
a.C.49.
La finalità della lex Aquilia fu quella di abrogare le leggi precedenti e attribuire al
titolare di beni economici il diritto di ottenere il pagamento di una pena pecuniara da
parte di chi avesse distrutto o deteriorato tali beni50.
Per quanto riguarda il testo del plebiscito, esso , come noto, si compone di tre
capitoli contenenti ciascuno specifiche disposizioni. Le fonti che ci hanno restituito il
testo, corrispondente almeno nella sostanza a quello originario, sono le Institutiones di
Gaio e la compilazione di Giustiniano51.
Riportiamo di seguito i riferimenti per il testo dei rispettivi tre capitoli della lex
Aquilia:
47
Ciò sulla base della Parafrasi di Teofilo, oggi ritenuta non più attendibile in merito. Cfr. S. SCHIPANI,
L’interpretazione della lex Aquilia nei giuristi repubblicani e il problema della culpa, ora in ID.,
Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 63-65.
48
Sul problema della data delle lex Aquilia si veda M. F. CURSI, Iniuria cum damno. Antigiuridicità e
colpevolezza nella storia del danno aquiliano, Milano, 2002, pp. 147 ss.
49
In questo senso ID., Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 44
che non condivide la posizione della datazione “bassa” della lex Aquilia (fine del III secolo ed inizi del II
secolo a.C.) sostenuta da ultimo da A. FRANCIOSI, Il problema delle origini del plebiscito Aquilio. Una
messa a punto in tema di datazione, in Philìa. Scritti per Gennaro Franciosi, vol. II, Napoli, 2007, pp.
935 ss.
50
Per una rapida panoramica si veda S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: prospettive sistematiche del
diritto romano e problematiche della responsabilità extracontrattuale, ora in ID., Contributi romanistici
al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 133-137; ID., El sistema romano de la
responsabilidad extracontractual: el principio de la culpa y el método de la tipicidad, in La
responsabilidad. Homenaje H. Goldenberg, Buenos Aires, 1995, pp. 21-36.
51
Si vedano in merito C. A. CANNATA, Sul testo della lex Aquilia e la sua portata originaria, in L. VACCA
(a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, (atti del I
Congresso Internazionale ARISTEC, Madrid, 7-10 ottobre 1993), Torino, 1995, pp. 25-57; ID., Sul testo
originale della lex Aquilia: premesse e ricostruzione del primo capo, in SDHI, 58 (1992), pp. 194-214;
ID., Considerazioni sul testo e la portata originaria del secondo capo della “lex Aquilia”, in Index, 22
(1994), pp. 151-162; S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema
della “culpa”, Torino, 1969, pp. 41-44 e G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., pp. 830-833.
20
D. 9, 2, 2, pr.: «Lege Aquilia capite primo cavetur: “si quis52 servum
servamve alienum alienamve quadrupedem vel pecudem53 iniuria
occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino
damnas esto”»54.
Gai. 3, 215: «Capite secundo adversus adstipulatorem, qui pecuniam in
fraudem stipulatoris acceptam fecerit, quanti ea res est, tanti actio
constituitur»55.
D. 9, 2, 27, 5: «Tertio autem capite ait eadem lex Aquilia: “Ceterarum
rerum, praeter hominem et pecudem occisos, si quis alteri damnum faxit,
quod usserit fregerit ruperit iniuria, quanti ea res erit in diebus triginta
proximis, tantum aes domino dare damnas esto”»56.
3.1) Contenuto e caratteristiche dei capitoli I e III della lex Aquilia
Dalla lettura dei capita riportati emerge che la lex Aquilia ebbe un campo di
applicazione molto ampio sanzionando, nel capo primo, la occisio di uno schiavo o una
schiava altrui e di animali quadrupedi mentre nel capo terzo tutelò il danno che fosse
stato causato alle altre cose, tranne lo schiavo e i capi di bestiame uccisi, per mezzo di
Nell’edizione classica del Digesto curata dal Mommsen e dal Krueger il testo è “ut qui”.
Parte della dottrina ritiene che il testo esatto sia «quadrupedemve pecudem», il che permetterebbe di
limitare la sfera di applicazione della norma a quei casi in cui l’animale fosse un quadrupede, cioè un
animale che avesse più di altri una rilevanza economica per il dominus. Sul punto si veda A. CORBINO, Il
danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, II ed., Padova, 2008, pp. 76-77; M. F. CURSI,
Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp. 27-30.
Vedi infra § 4.1.
54
Trad.: «Il primo capo della legge Aquilia prevede: “SE TALUNO INGIUSTAMENTE ABBIA UCCISO
UN SERVO ALTRUI O UNA SERVA ALTRUI O UN QUADRUPEDE O UN CAPO DI BESTIAME,
QUANTO FU IL MAGGIOR VALORE DI ESSO IN QUELL’ANNO, TANTO DENARO SIA
CONDANNATO A DARE AL PROPRIETARIO”».
55
Trad.: «Nel secondo capo si dà contro il costipulante, che con frode allo stipulante abbia fatto
l’accettilazione del denaro, un’azione per il valore della cosa». Riportiamo di seguito la traduzione
offerta da M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p.
33: «nel secondo capitolo si prevede un’azione per il valore della cosa distrutta contro il creditore
accessorio che in frode al creditore stipulante abbia estinto l’obbligazione a carico del debitore mediante
acceptilatio».
56
Trad. it.: «La stessa legge Aquilia nel terzo capo afferma: “DELLE ALTRE COSE, ECCETTO IL
SERVO O IL CAPO DI BESTIAME UCCISI, SE TALUNO CAGIONÒ DANNO AD UN ALTRO,
PERCHÈ HA BRUCIATO SPEZZATO ROTTO INGIUSTAMENTE <QUALCHE COSA DI QUELLO>,
QUANTO QUELLA COSA VALGA NEGLI ULTIMI TRENTA GIORNI, TANTO DENARO SIA
CONDANNATO A DARE AL PROPRIETARIO”».
52
53
21
una delle azioni materiali indicate vale a dire le condotte di bruciare, spezzare o
rompere con iniuria le cose altrui57.
Occore precisare che le ipotesi di lesione e di morte di schiavi, furono inclusi in
questo capo dal momento che costituiscono beni economici suscettibili di proprietà58.
Nei capitoli I e III la lex Aquilia consacró un sistema di tipicità delle condotte lesive
sanzionate, descrivendo con notevole acribia le modalità necessarie per la
configurazione di tali delitti.
Nel capitolo I viene punita la occisio di uno schiavo, schiava, quadrupede o cosa
altrui fatta con iniuria, mentre nel capo III, si punisce chiunque «arrechi danno ad
altri» con iniuria per mezzo di una azione materiale specifica, consistente in urere,
frangere, rumpere un bene materiale di proprietà del danneggiato.
Giova precisare come il capo III si allontani dal sistema casuistico59 adottato dal
diritto arcaico, per prospettare una formula adatta a «ricomprendere tutti i danni
direttamente cagionati con una certa attività materiale a qualsiasi bene corporale,
eccettuate ovviamente le ipotesi specifiche disciplinate nel primo»60, quasi una sorta di
norma unica «tendenzialmente di chiusura»61.
Altra caratteristica comune ai capi I e III è quella della protezione esclusiva della
proprietà. Ciò deriva dalla constatazione che il danno economico disciplinato va a
coincidere esclusivamente con la perdita di un bene o con la diminuzione del suo valore
come conseguenza della violazione della sua integrità fisica.
Questa antica funzione dell’istituto «ha pesato a lungo nel nostro ordinamento,
dove ancora taluni ritengono che non ci sia responsabilità aquiliana se non v’è stata
lesione d’un “diritto reale, o comunque, assoluto”»62.
Secondo C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, in F. MILAZZO (a cura di), Illecito e pena privata in
età repubblicana, (Atti del convegno internazionale di dirittto romano, Copanello 4-7 Giugno 1990),
Napoli, 1993, pp. 38 ss., il capitolo III della Lex Aquilia sarebbe riferito, in principio, esclusivamente ai
danni causati a cose inanimate.
58
Tali figure furono inoltre penalmente sanzionate nella lex Cornelia de sicariis con deportatio, da cui
deriva una azione cumulabile con l’azione prevista dalla legge Aquilia (Gai. 3, 213; D. 9, 2, 23, 9; D. 48,
8, 1, 2), e, con riferimento alle sole lesioni, esse erano già disciplinate nelle XII Tavole.
59
Tale sistema è conservato nei primi due capitoli, che costituiscono il nucleo centrale della lex Aquilia.
60
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 835.
61
Ivi, p. 838.
In tal senso anche M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato,
cit., p. 39.
62
G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità extracontrattuale attraverso i secoli, in Studi in
onore di Edoardo Volterra, vol. I, Milano, 1969, p. 101.
57
22
Sul piano della legittimazione attiva, essa apparteneva esclusivamente al
proprietario. L’azione Aquiliana era infatti diretta a punire chi avesse attentato alla
proprietà altrui mediante un certo comportamento. Pertanto la reintegrazione del
patrimonio costituiva una conseguenza, in nessun caso la sua finalità. Come azione
penale essa era caratterizzata dal nesso di causalità, dalla intrasmissibilità passiva e
dalla solidarietà cumulativa63
Per tale motivo il damnum iniuria datum era considerato un delictum privato, alla
stessa maniera del furtum e della iniuria.
Il fatto che le sanzioni a cui conducevano i Cap. I e III si calcolassero tenendo conto
del maggiore valore (plurimi) della cosa in un tempo passato (nell’anno o nei 30 giorni
precedenti il danneggiamento) sostiene il carattere penale di questa azione.
3.2) Contenuto e caratteristiche del capitolo II della lex Aquilia
Il secondo capo della lex Aquilia, di cui comunque non ci è pervenuta una versione
testuale che attesti il suo contenuto originale, si caratterizza per la disciplina che detta in
tema di lesione del credito.
Sembra che si trattasse di un’innovazione introdotta a seguito della diffusione
dell’uso della adstipulatio, legata probabilmente all’attività di prestiti bancari e alla
necessità di una azione autonoma di recupero del credito, non esercitabile
concretamente dallo stipulator, (cioè colui che presta denaro), né esperibile all’interno
dell’antico processo per legis actiones da parte dei rappresentanti processuali64.
Il testo gaiano chiarisce che veniva sanzionata la condotta dell’adstipulator che
avesse fatto acceptilatio della obbligazione in frode del creditore principale, obbligando
l’adstipulator a pagare un indennizzo che ammontava al valore del credito estinto o al
duplum in caso di infitatio65.
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, in F. MILAZZO (a cura di), Diritto
romano e terzo millennio. Radici e prospettive dell’esperienza giuridica contemporanea, (Relazioni del
convegno internazionale di dirittto romano, Copanello 3-7 Giugno 2000), Napoli, 2004, p. 176.
Cfr. anche A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 122-123.
64
In tal senso G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 175.
65
Cfr. Gaio. 3. 216: «[…] nisi quod ea lege adversus infitiantem in duplum agitur».
63
23
In epoca classica, stando alle testimonianze giustinianee, la previsione del secondo
capo cadde in desuetudine66. Gaio precisa inoltra come la sanzione non fosse necessaria,
perchè bastava utilizzare l’actio mandati, che alla fine la assimilò.
L’attrazione esercitata dalla actio mandati sulla figura contemplata nel capitolo II si
comprende alla luce del vincolo contrattuale esistente tra stipulator ed il creditore
accessorio (adstipulator)67. Ne deriva pertanto la piena coscienza che già allora si aveva
della distinzione tra due diversi tipi di danno: quello derivante da un’ obbligazione
contrattuale e quello che consegue alla lesione di una posizione giuridica assoluta,
prevista invece dal primo capo della medesima lex68.
Le ragioni dell’inserimento di questo capitolo all’interno della lex Aquilia, la sua
collocazione, la sua connessione con gli altri capita così come il suo contenuto ed il
significato del termine pecunia, sono elementi che hanno generato varie ipotesi in
dottrina.
Grosso fa riferimento alla nozione di «res incorporalis» per trovare le connessione
tra i due primi capitoli della lex Aquilia69. A suo avviso, i citati capitoli regolano
entrambi la distruzione di una cosa, ma di diversa natura: corporale nel primo,
incorporale nel secondo, affermando, a
tal proposito, che «agli effetti del
danneggiamento illecito il credito altrui viene concretamente in considerazione come
una cosa che si distrugge; chi è nella condizione di poterla distruggere è l’adstipulator,
il quale iure civili ha il potere di fare remissione gratuita del credito, ma così facendo
commette un illecito, alla stessa guisa di chi distrugge o danneggia la cosa altrui»70.
Ad avviso di Guarino il punto di incontro tra i due primi capitoli della lex Aquilia
non si deve riscontrare «nel concetto di danneggiamento (un concetto che si formò solo
Come afferma Ulpiano in D. 9, 2, 27, 4: «huius legis secundum quidem capitulum in desuetudinem
abiit», e lo stesso Giustiniano in I. 4, 3, 12: «caput secundum legis Aquiliae in usu non est».
67
Sulla figura dell’adstipulator cfr. A. CORBINO, Il secondo capo della “lex Aquilia”, in O. CONDORELLI
(a cura di), “Panta rei”. Studi dedicati a Manlio Bellomo, t. II, Roma, 2004, pp. 9-20.
68
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 175.
69
G. GROSSO, La distinzione fra “res corporales” e “res incorporales” e il secondo capo della “lex
Aquilia”, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, vol. II, Napoli, 1964, pp. 791-795.
Per la distinzione tra i due tipi di res si veda, anche con riferimento alle situazioni unificate, il prezioso
contributo di R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, cit., pp. 144-162.
70
G. GROSSO, La distinzione fra “res corporales” e “res incorporales” e il secondo capo della “lex
Aquilia”, cit., p. 792.
A tal proposito A. GUARINO, Diritto privato romano, XI ed., Napoli, 1997, p. 1018, nt. num. 97.2, ritiene
poco convincente l’ipotesi del Grosso «sia perchè attribuisce ad epoca troppo risalente la concezione
della res incorporalis, sia perché Gaio, cioè l’autore che più chiaramente utilizza il concetto di res
incorporalis, non ricorre affatto a questa spiegazione per giustificare il nesso tra caput primum e caput
secundum».
66
24
più tardi e sulla base dell’interpretazione del caput tertium), ma nel concetto molto più
generico del pregiudizio economico arrecato da taluno a talaltro con alcune specifiche
azioni, esattamente indicate dalla legge: l’uccisione dello schiavo, l’uccisione di
quadrupedes pecus, l’estinzione del credito. Quando, sulla base dell’interpretazione del
caput tertium, emerse e si precisó la nozione giuridica del damnum iniuria datum,
inevitabilmente il caput secundum fu considerato estraneo alla lex de damno»71.
Schipani ha invece sottolineato che, in ogni caso, la organicità delle tre norme e i
suoi elementi di omogeneità si possono ipotizzare solamente se si guarda al risultato
delle condotte da esse previste sulla cosa lesionata, insomma, al momento dell’evento,
inteso con una certa elasticità, dal punto di vista soggettivo. La condotta prevista dal
capitolo secondo (pecuniam in fraudem stipulatoris acceptam facere) si fonderebbe
sulla nozione di fraus che caratterizza la volontà, mentre nei capitoli I e III il requisito
della iniuria costituisce un elemento chiaramente distintivo72.
Da ultimo Corbino ha ritenuto che il termine pecunia non alludesse solamente al
denaro ma anche a una cosa materiale, alla ricchezza mobile costituita innanzitutto da
schiavi e animali quadrupedi73.
Al di là delle dispute dottrinali, e con riguardo alla prospettiva della evoluzione
storica del danno extra contractum, occorre rilevare che, come recentemente e
puntualmente sottolineato, nell’antichità si concepì un’ ipotesi di tutela del credito
connessa alla tematica aquiliana, ipotesi che ha dato avvio ad una problematica che è
venuta a galla in tempi recenti generando un gran dibattito dottrinale e
giurisprudenziale74.
A. GUARINO, Diritto privato romano, cit. pp. 1018-1019.
S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit.,
pp. 45-46; 137.
73
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, cit., pp. 45-54, posizione comunque criticata, per gli
esiti verso i quali necessarimente porta, da M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella
storia del diritto privato, cit., pp. 51-52, giacchè la tutela del credito è l’obiettivo comune sia all’azione
aquiliana si all’actio mandati, indipendentemente dall’oggetto del diritto di credito.
74
Sul punto si veda L. JING, Riparazione del danno extra contrattuale: sistema giuridico romanistico,
elaborazione canonistica e prospettive attuali, cit., pp. 21-22.
71
72
25
3.3) Permanenza delle azioni anteriori alla lex Aquilia.
Stando alla testimonianza di Ulpiano, «la legge Aquilia derogò a tutte le leggi, che
prima di essa hanno parlato del danno <arrecato> ingiustamente, sia delle Dodici
Tavole, sia a qualsiasi altra» (D. 9, 2, 1, pr.). Tuttavia essa lasciò in vigore le azioni
private già esistenti (contemplate anche nelle XII Tavole), destinate alla restituzione o al
risarcimento dei danni causati alla proprietà75.
In primis l’actio de pauperie76, concessa in relazione a danni causati da quadrupedi,
che dava al proprietario la possibilità di scegliere tra il risarcimento del danno o la
consegna nossale dell’animale ( D. 9, 1 )77.
Ritroviamo poi l’actio de pastu pecoris, concessa contro il proprietario dell’animale
che pascola nel fondo altrui e per la quale si deve il risarcimento o la consegna (D. 19,
5, 14, 3).
Vennero altresì mantenute l’actio de arboribus succisis contro chi tagliava
abusivamente alberi altrui, che obbligava l’autore a pagare 25 assi per ogni albero
tagliato (D, 47, 7), ed infine l’actio aedium incensarum, (Tab. 8, 10). Quest’ultima
azione escludeva dal risarcimento le ipotesi di incendio doloso. In questa prospettiva, si
ritiene che la actio legis Aquiliae, (la quale presupponeva un comportamento posto in
essere iniuria), dovette sembrare lo strumento adatto a riempire il vuoto normativo. In
età successiva il rimedio aquiliano si sarebbe trasformato nella via utilizzata
normalmente, includendo le ipotesi colpose e soppiantando l’azione menzionata fino al
punto che alcuni la considerano scomparsa in età classica78.
Da ultimo si consulti A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit.,
pp. 68-69.
76
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 838.
Un ricco quadro sull’azione è offerto da A. M. HONORÉ, Liability for animals: Ulpian and the compilers,
in J. A. ANKUN-J. E. SPRUIT-F. B. J. WUBBE (a cura di), Satura Roberto Feenstra sexagesimum quintum
anuum aetatis complenti ab alumnis collegis amicis oblata, Fribourg, 1985, pp. 239-250.
77
Per una rapida analisi cfr. R. DE RUGGIERO, Azione de pauperie, in Dizionario pratico del diritto
privato, vol. I, Milano, 1900, p. 462; G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità
extracontrattuale attraverso i secoli, cit., pp. 104-106.
Per approfondimenti si veda G. L. FALCHI, Studi sulla legittimazione passiva alle azioni nossali, Milano,
1976, passim.
78
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 838.
75
26
3.4) Presupposti rilevanti per la configurazione del danno aquiliano.
Corbino ha ben sintetizzato i presupposti originari rilevanti per la configurazione del
danno aquiliano affermando che «perché la legge potesse trovare applicazione il danno
doveva risultare “esistente”, “certo” e “stimabile”»79.
Quanto affermato significa che occorreva in primis una distruzione o alterazione o
violazione della sostanza di un oggetto fisico80.
Damnum esprime nel suo significato originario l’idea di rottura causata a un corpo,
e nel suo più antico significato il «danneggiamento di un bene (“Sachbeschädigung”) e
non piuttosto un pregiudizio arrecato al patrimonio del suo proprietario
(“Schaden”)»81.
Il valore specifico inequivoco dei termini occidere, urere, rumpere e frangere fece
si che il danno fosse inteso come la distruzione o lesione materiale di una cosa altrui. In
questo senso in D. 9, 2, 27,14 si afferma con chiarezza che «ut lex Aquilia locum
habeat» è necessario un danno consistente in «ipsum quid corrumpere et mutare»82.
Ciò ha determinato il mancato ingresso, nella sfera della tutela aquiliana, della
semplice perdita della disponibilità di un oggetto, quando non esisteva una alterazione
della sua sostanza fisica83, nochè la dispersione della cosa mobile altrui. Quest’ultima
ipotesi costituiva un vuoto legislativo, dovuto al fatto che in origine dovette configurarsi
un’ ipotesi del furto secondo l’ampia nozione che si aveva di questo delictum.
Si comprendono, pertanto,
le comuni affermazioni secondo cui, per essere in
presenza della disciplina aquiliana, si richiedeva un damnum corpori datum; il damnum
inizialmente era rilevante solo se materiale (corpori illatum), cioè un danno prodotto
alla integrità fisica della cosa (corpori)84; l’alterazione per rilevare a tale fine doveva
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 106-108.
A ciò si riferisce l’espressione mutatio rei che trova le sue radici nelle fonti. Cfr. D. 9, 2, 27, 14.
81
G. VALDITARA, Sulle origini del concetto di damnum, II ed., Torino, 1998, p. 71.
82
B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, in Annali del seminario giuridico Università di Palermo, 21
(1950), pp. 181-182.
83
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 851.
84
L’espressione «damnum corpore corpori datum» è stata coniata per esprimere in modo molto chiaro
l’esigenza della relazione causale fisica tra il delinquente e la persona o la cosa danneggiate.
In tal senso, ex plurimis, V. ARANGIO RUIZ, Istituzioni di Diritto Romano, XIV ed. riv., ristampa
anastatica, Napoli 1989, p. 375; G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità, cit., p. 101; A.
GUARINO, Diritto Privato romano, cit., p. 1023; G. LONGO, Lex Aquilia de damno, in NSSDI, vol. IX,
Torino, 1963, p. 799; C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento,
Catania, 1959, pp. 75-76.
79
80
27
essere dannosa, cioè doveva comportare una diminuzione della funzionalità e del valore
del bene.
Altro presupposto che viene in rilievo è la patrimonialità del danno poiché con la lex
Aquilia si tutelavano esclusivamente ipotesi di distruzione o deterioramento di beni
economici suscettibili di proprietà.
La lesione o la morte di schiavi merita attenzione per il fatto di colpire beni con
siffate caratteristiche. L’identificazione del damnum con un pregiudizio di natura
patrimoniale troverebbe espressa conferma in un passo di Ulpiano contenuto in Coll. 2,
4, 1 e in D. 9, 2, 27, 17 (che presenta una versione alterata) nel quale, per le ipotesi di
lesioni fisiche causate a un servo, si afferma che se esse non hanno arrecato una
diminuzione del valore economico del bene suscettibile di proprietà, non sussiste un
danno rilevante e per questo non si può intentare l’azione aquiliana85.
Proprio perchè non esiste diminuzione patrimoniale si spiega la improcedibilità
della actio legis Aquiliae quando si raccoglie l’uva altrui che già era matura (D. 9, 2, 27,
25) o quando si castra un bambino, servo di un’altra persona, facendone così aumentare
il suo valore (D. 9, 2, 27, 28)86.
Ciò è una conferma dell’esistenza dell’operatività del cosiddetto principio della
compensatio lucri cum damno, dal momento che il bambino schiavo castrato ha
acquisito per questo motivo un prezzo maggiore, e l’uva altrui già matura è stata
raccolta con risparmio pertanto del costo per la raccolta dei frutti.
Dal tenore letterale della legge non risultano tutelati come damnum iniuria datum la
morte, i danni fisici, o la sofferenza morale causati a una persona libera, nè la perdita
del semplice valore affettivo. Questi aspetti saranno protetti in certa misura attraverso il
delitto di iniuria87.
In tal senso G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 201.
Non è corretto fondare la natura patrimoniale del danno aquiliano sul concetto di damnum elaborato da
Paolo e contenuto in D. 39, 2, 3: «Damnum et damnatio ab adeptione et quasi deminutione patrimonii
dicta sunt». Tale frammento si inserisce in un contesto diverso quale quello della cautio damni infecti.
Cfr. sul punto C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., p. 14.
87
In questo senso S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della
“culpa”, cit., p. 86, il quale afferma che: «è comunque da porre in evidenza il fatto che la lex Aquilia
tutela il patrimonio e nei capitoli in esame, si riferisce solo a delle res, opera su un piano la cui rilevanza
è strettamente economica, ed in questo si differenzia in modo profondo dall’iniuria, che considera la
lesione alla persona umana, e la cui repressione è connessa ad esigenze sviluppatesi su un piano
psicologico e culturale in modo più complesso».
85
86
28
In caso di lesioni fisiche, il principio «liberum corpus non tollit aestimationem» era
incompatibile con il metodo estimatorio, e quindi impediva di considerare un danno
risarcibile la lesione del corpo di una persona libera.
Circa la morte di un servo, Paolo (e Sesto Pedio, citato nel frammento), chiariscono
che comunque non si considera il «valore affettivo», ma il valore obiettivo che vale per
tutti:
D. 9, 2, 33 pr. «Si servum meum occidisti, non affectiones aestimandas
esse puto, veluti si filium tuum naturalem quis occiderit, quem tu magno
emptum velles, sed quanti omnibus valeret. Sextus quoque Pedius ait
pretia rerum non ex affectione nec utilitate singulorum, sed communiter
fungi: itaque eum, qui filium naturalem possidet, non eo locupletiorem
esse, quod eum plurimo, si alius possideret, redempturus fuit, nec illum,
qui filium alienum possideat, tantum habere, quanti eum patri vendere
posset. In lege enim Aquilia (damnum) consequimur: et amisisse dicemur,
quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur»88.
Il tipo particolare di aestimatio proprio dell’azione aquiliana (cfr. Gai. 3, 210; 212;
214; 218), che si circoscrive in principio al valore del bene danneggiato (aestimatio rei),
porta a concepire il damnum come la distruzione o la diminuzione del valore di mercato,
del pretium, della cosa stessa.
La concezione del damnum come pregiudizio economico, conseguenza diretta
dell’illecito, portò a negare la legittimazione ad esercitare l’azione aquiliana in tutti i
casi in cui, nonostante si fosse potuto configurare una attività materiale rilevante [cioè
rumpere (D. 9, 2, 27, 17), occidere, urere o frangere], non si era causata una
diminuzione di valore del bene del dominus rei.
Fu altresì negata la risarcibilità di quelli che, con terminologia moderna,
chiameremmo danni morali, in quanto non sono adatti a influire sul valore economico
Trad. it. «Se tu hai uccisso un mio servo, reputo che non si debbano considerare nella stima i valori
d’affezione e morali <per il servo ucciso>, come nel caso in cui uno abbia ucciso un tuo figlio naturale
che tu avresti voluto comprare ad alto prezzo, ma <si deve considerare nella stima> quanto vale per
tutti. Anche Sesto Pedio afferma che i prezzi delle cose non equivalgono al valore di affezione o di utilità
di singoli, ma a quello comune; e così, colui che possiede il suo figlio naturale non per questo è più ricco,
perché, se altri lo possedesse, egli sarebbe disposto a comprarlo per moltissimo, né colui che possieda il
figlio di un altro può avere <da colui che lo uccida> tanto quanto avrebbe conseguito vendendolo al
padre. In base alla legge Aquilia, infatti, conseguiamo il valore del danno, e si dirà che abbiamo perduto
quanto o avremmo potuto conseguire o siamo costretti a spendere».
88
29
del bene. È il caso ad esempio del testatore a seguito di cancellazione delle tabulae o
della divulgazione de loro contenuto89.
Parimenti rilevante risulta poi il presupposto dell’altruità della cosa su cui ricade il
danno90. La circostanza che la cosa danneggiata fosse altrui era indispensabile e
sufficiente perché l’evento lesivo venisse qualificato come violazione di un diritto, e ciò
lo ritroviamo sia nel capitolo I, dove esiste un riferimento espresso in tale senso, sia nel
capitolo III dove si puntualizza che deve trattarsi di un danno a un’altra persona.
In ordine alla distruzione o alterazione dannosa essa doveva essere conseguenza
diretta di un facere di una persona attraverso un contatto del danneggiante con l’oggetto
danneggiato.
L’esistenza di questo presupposto appare chiara se si esamina il tenore letterale
della lex Aquilia giacché per essa aveva rilevanza solamente il danno che fosse
conseguenza di un’azione specifica: occidere nel Cap. I, urere, frangere e rumpere nel
Cap. III.
Non appare concessa, pertanto, l’applicazione dell’actio legis Aquiliae in caso di
comportamenti omissivi91, come risulta da D. 7, 1, 13, 2 in cui si esclude la applicazione
dell’actio in relazione ad una serie di figure di danno conseguenti ad omissioni92.
Questo presupposto implicava l’esigenza di una relazione materiale o fisica,
immediata e diretta, tra la condotta dell’agente e l’effetto dannoso.
All’inizio di Gai. 3, 219 si evidenzia, a questo proposito, che affinchè il danno possa
essere sanzionato dalla legge Aquilia, deve essere causato corpore suo dal
danneggiante: «Ceterum placuit ita demum ex ista lege actionem esse, si quis corpore
suo damnum dederit [...]»93.
Autorevole dottrina ritiene che la interpretatio più antica trovò una via per stabilire
«una presunzione di responsabilità: laddove, in sostanza, ricorrevano il damnum
D. 9, 2, 41, pr., segnalato da A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano,
cit., p. 108. Cfr. anche D. 9, 2, 33 pr; D. 35, 2, 63, pr.
Per approfondimenti si rinvia a G. VALDITARA, A proposito di D. 9, 2, 41, pr. e dell’actio in factum
concessa per il danneggiamento di tavole testamentarie, in SDHI, 60 (1994), pp. 649-657.
90
M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, II ed., Firenze, 1994, p. 532.
91
G. PUGLIESE, Istituzioni di Diritto romano, III ed., Torino 1991, p. 605.
92
D. 7, 1, 13, 2: «[…] nam qui agrum non proscindit, qui vites non subserit, item aquarum ductus
conrumpi patitur, lege Aquilia non tenetur […]».
Trad. it. «[…] Infatti colui che non ara il terreno <in usufrutto>, che non ripianta le viti, che, parimenti,
tollera che l’acquedotto si deteriori,non è tenuto in base alla legge Aquilia […]».
93
Trad. it. «Si reputò peraltro che per detta legge ci fosse azione solo se uno avesse dato il danno col suo
corpo […]».
89
30
corpore datum e il requisito dell’iniuria, il sistema romano più antico di tutela del
danno extracontrattuale dispensava da ogni indagine specifica sulla colpevolezza
dell’agente, ritenendo sufficienti a stabilirla quei due stessi elementi. Ciò spiega anche,
in modo chiaro, il nome tipico del danno aquiliano, nome che si da a tutte le situazioni
nelle quali traspaiono bene questi requisiti: damnum iniuria datum»94.
Tuttavia il tema del nesso di causalità tra il danno verificatosi e il comportamento
attuato dall’agente rimane tra quelli «più tormentati nella letteratura romanistica»
giacchè da un lato troviamo «la ritenuta originaria connotazione strettamente materiale
(in termini cioè di avvenuto “contatto fisico” tra agente e cosa danneggiata)
dell’azione richiesta per la concessione dell’azione aquiliana, che mal si concilia con
una serie di casi nei quali essa appare invece accordata anche in assenza di tale
presupposto», dall’altro sussiste «la difficoltà di comprendere il criterio discretivo
adottato dal pretore per concedere l’azione in factum ovvero quella utilis»95.
3.4.1) (segue) Significato della condotta tenuta iniuria.
Nei suoi capitoli I e III la lex Aquilia esigeva che il danno fosse causato “con
ingiuria” (iniuria)96. La parola iniuria, che aveva diversi usi nel diritto romano97, in
questo specifico contesto significava «senza diritto» o «contro diritto»98.
Stando a Ulpiano «iniuria», in ossequio all’etimologia stessa, «ex eo dicta est,
quod non iure fiat»99.
Ad avviso di Contardo Ferrini, «se «iniuria» significa offesa all’integrità
personale non è incredibile che già apparisse nella legge decemvirale a significare il
danneggiamento delle cose; si avrebbe così «iniuria» degli uomini e delle cose»100.
B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 181.
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 110.
96
Ad avviso di S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”, Criteri di imputazione e problema della
“culpa”, cit., pp. 85-86, anche il capitolo II probabilemente utilizzò il termine iniuria.
97
Sull’uso del sostantivo iniuria si consulti S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”, Criteri di
imputazione e problema della “culpa”, cit., pp. 51-86.
98
M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 532, precisa che «il danno sanzionato dalla legge
Aquilia era il damnum iniuria datum. Il termine iniuria è certamente adoperato nel testo legislativo nel
suo significato più lato, con riguardo ad un comportamento ingiusto, “senza” o “contro” ius (quod non
iure fit: D. 47, 10, 1 pr. Ulp. 46 ad. ed.)».
99
D. 47, 10, 1.
100
C. FERRINI, Diritto penale romano, Milano, 1899, p. 247.
94
95
31
In alcuni testi iniuria parrebbe equivalente a danno, mentre in altri a «culpa et
dolo» come risulta da Gaio 3, 211:
«Iniuria autem occidere intellegitur, cuius dolo aut culpa id acciderit;
nec ulla alia lege damnum, quod sine iniuria datur, reprehenditur;
itaque inpunitus est, qui sine culpa et dolo malo casu quodam damnum
committit»101.
Si richiedeva inoltre un atteggiamento psicologico riprovevole. Il che si aveva non
solo quando l’autore dell’azione lesiva avesse avuto consapevolezza delle conseguenze
dannose del suo operare, ma anche quando egli avrebbe dovuto avere tale
consapevolezza con riferimento alle regole di comportamento sociale correnti.
Ciò risulterebbe confermato dal passo ulpianeo contenuto in D. 9, 1, 1, 3:
«Ait praetor ‘pauperiem fecisse’. Pauperies est damnum sine iniuria
facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu
caret»102.
In coerenza alla sua etimologia iniuria significa l’obbiettività del torto arrecato
dall’agente, il torto obbiettivo che si risolve a sua volta nella violazione di un diritto.
In principio, a questo presupposto si attribuí un significato che conteneva la
«ingiustificatezza della condotta, cioè l’assenza di cause di giustificazione per essa, in
una fattispecie di illecito non di pura condotta, ma in cui la condotta deve
necessariamente provocare un evento tipico, che, come detto, viola il diritto e riverbera
sulla condotta tale qualificazione»103.
In tale modo se la condotta non era “giustificata” e causava una lesione attraverso
alcune delle modalità descritte nella lex, trasformava il soggetto in responsabile104.
Al contrario, non arrecava iniuria, e per questo non commetteva delitto, chi avesse
causato il danno per un giusto motivo105 come l’esercizio di un diritto106, la leggitima
difesa107 o lo stato di necessità108.
Trad.: «Si considera che uccida ingiustamente colui per dolo o colpa del quale l’uccisione avvenga. Il
danno arrecato senza torto non è censurato da alcuna altra legge: è quindi impunito chi per un qualche
accidente, senza colpa e dolo malvagio, cagiona [qualche] danno».
Sui problemi che lascia aperti il testo gaiano si veda S. SCHIPANI, Pluralità di prospettive e ruolo della
culpa come criterio elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, ora in ID.,
Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 52-53.
102
Trad. it.: «Il pretore afferma: ‘ABBIA CAGIONATO pauperies’. La PAUPERIES è il danno arrecato
senza un atto ingiusto dell’autore: infatti, l’animale non può aver agito ingiustamente, dato che manca di
ragione».
103
S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, p.
86; B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 179, che allude alla iniuria come la «antigiuridicità
obiettiva» della condotta del danneggiante.
104
S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criteri di imputazione e problema della “culpa”, cit.,
p. 90.
101
32
Antonio La Torre ha evidenziato come «il primo approccio storico al concetto di
danno ingiusto, quale può desumersi dalla iniuria di cui parla la lex Aquilia, sia
decisamente orientato nella direzione del soggetto attivo. Più precisamente verso la
condotta di colui il quale, operando nel contesto di una situazione valutabile alla
stregua del diritto oggettivo, avendo cagionato un damnum, appunto, era da stabilire se
imputargli o no le conseguenze del fatto dannoso, secondo che egli abbia agito non iure
o iure»109.
Di recente è stato precisato che «il legislatore aquiliano, nel recepire dall’omonimo
delitto la nozione di iniuria, non poteva prescindere da un requisito ad esso tanto
coessenziale quanto il criterio del dolo, della volontarietà della condotta: l’abbandono
di quest’ultimo avrebbe comportato, invece di una recezione, il completo snaturamento
del concetto di iniuria»110. Rimane pertanto inevitabile l’interpretazione secondo cui il
termine iniuria che qualifica la condotta lesiva nel primo e nel terzo capitolo della lex
Aquilia esprime il carattere doloso del comportamento antigiuridico.
L’interpretazione della Cursi supera la tradizionale lettura dell’iniuria aquiliana nel
significato di antigiuridicità oggettiva, basata pressochè su criteri etimologici quale
contrarietà allo ius, e dovuta alla scissione tra antigiuridicità e colpevolezza sostenuta da
Rudolph von Jhering nella sua ipotesi di sviluppo dal torto oggettivo al torto
soggettivo111.
Quanto alle conseguenze delle diverse letture, se l’iniuria aquiliana coincideva alle
origini col dolo, ciò implica che erano punite soltanto le uccisioni volontarie dello
schiavo, mentre se intendiamo iniuria come illiceità oggettiva della condotta, allora
ogni uccisione dello schiavo altrui non giustificata altrimenti avrebbe comportato
l’applicazione della pena prevista.
Sulle singole cause di giustificazione si veda l’ampia analisi svolta da A. CORBINO, Il danno
qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 159-171.
106
Cfr. D. 9, 2, 7, 4; D. 9, 2, 29, 7; D. 47, 10, 13, 1.
107
Cfr. D. 9, 2, 4, pr.; D. 9, 2, 5, pr.; I. 4, 3, 2.
108
Cfr. D. 9, 2, 49, 1; D. 43, 24, 7, 4.
109
A. LA TORRE, Genesi e metamorfosi della responsabilità civile, in Roma e America. Diritto romano
comune, 8 (1999), pp. 61 ss., ora in ID., Cinquant’anni col diritto. (Saggi), vol. I, Milano, 2008, p. 123.
110
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 31.
111
R. VON JHERING, Das Schuldmoment im römischen Privatrecht, Leipzing, 1867, in Vermischte
Schriften; juristischen Inhalts, Leipzing, 1879, pp. 155 ss. (trad. it. Il momento della colpa nel diritto
privato romano, Napoli, 1990, p. 3 ss.
105
33
4) Lex Aquilia ed interventi giurisprudenziali
Il concetto primitivo di danno ha subito profondi cambiamenti ad opera della
giurisprudenza romana la quale interpretò nei suoi diversi aspetti la disciplina Aquiliana
arrivando a porre alcune delle basi su cui poggia la moderna nozione del danno
risarcibile.
4.1) L’espressione «quadrupedem vel pecudes» nel cap. I della lex Aquilia.
Un primo intervento interpretativo è quello avutosi con riferimento alla espressione
«quadrupede o animali che formano gregge» («quadrupedem vel pecudes») utilizzata
nel capitolo I della lex Aquilia. La giurisprudenza precisa che tale espressione non
indica due cose distinte, ma una stessa cosa: il quadrupede (quadrupes) che forma
gregge (pecudes).
Frammento fondamentale risulta essere quello di Gaio contenuto in D. 9, 2, 2, 2:
«Ut igitur apparet, servis nostris exaequat quadrupedes, quae pecudum
numero sunt et gregatim habentur, veluti oves caprae boves equi muli
asini. Sed an sues pecudum appellatione continentur, quaeritur: et recte
Labeoni placet contineri. Sed canis inter pecudes non est. Longe magis
bestiae in eo numero non sunt, veluti ursi leones pantherae elefanti autem
et cameli quasi mixti sunt (nam et iumentorum operam praestant et natura
eorum fera est) et ideo primo capite contineri eos112 oportet»113.
Nelle Institutiones giustinianee si afferma:
I. 4, 3, 1: «Quod autem non praecise de quadrupede, sed de ea tantum
quae pecudum numero est cavetur, eo pertinet, ut neque de feris bestiis
neque de canibus cautum esse intellegamus, sed de his tantum quae
proprie pasci dicuntur, quales sunt equi muli asini boves oves caprae. De
suibus quoque idem placuit: nam et sues pecorum appellatione
112
Nell’edizione classica del Digesto curata dal Mommsen e dal Krueger il termine è “eas”.
Trad.: «Come quindi risulta, essa equipara ai nostri servi i quadrupedi che appartengono al novero
del bestiame e si tengono a mandrie, come pecore, capre, bovini, cavalli, muli, asini. Ma si pone la
questione se i suini siano inclusi nella denominazione di bestiame; e correttamente a Labeone pare bene
che siano inclusi. Il cane invece non è fra il bestiame. A maggior ragione in tal novero non sono le bestie
<selvagge> come orsi, leoni, pantere. Gli elefanti, poi, e i cammelli sono come se fossero misti (infatti
lavorano come giumenti e nel contempo la loro natura è selvaggia) e pertanto è necessario che essi siano
inclusi nel primo capo».
113
34
continentur, quia et hi gregatim pascuntur: sic denique et Homerus in
Odyssea ait, sicut Aelius Marcianus in suis institutionibus refert»114.
Il problema sorgeva dal significato di «pecudes», espressione con la quale si faceva
riferimento non ai quadrupedes, ma a quelli, tra questi, che «gregatim habentur». Una
siffatta limitazione determinava tuttavia alcune difficoltà. Ne derivava di conseguenza
la sicura esclusione dei cani, ma non ne è però chiara la posizione dei suini e nemmeno
quella degli elefanti e dei cammelli. La ragione di dubbio non è chiarita. A tal proposito
viene in soccorso solo la citazione di Omero nel testo giustinianeo e l’accenno al
trattamento da farsi ad elefanti e cammelli (I. 4.3.1).
Gaio sosteneva la natura non solo ferina di elefanti e cammelli, possono essere
addomesticati e perciò utilizzati dall’uomo come le altre bestie da tiro e da soma, ciò
che ne giustifica conseguentemente, a suo giudizio (oportet), la loro inclusione nel
novero degli animali protetti dal primo capitolo.
Si può notare come rilevi non già il fatto “naturale”, ma quello “economico”,
costituito dall’effettiva riduzione degli animali in questione al servizio dell’uomo,
attraverso una loro “organizzazione”, che facendo di essi un «grex»115 ne accresce il
valore perché ne permette uno sfruttamento migliore.
Al pari degli schiavi, anche gli animali costituivano oggetto (con riferimento
all’economia coeva alla legge) di una disciplina che tiene conto dello speciale
pregiudizio che può derivare al proprietario dalla loro uccisione.
Trad. it.: «Il fatto che la norma non parli semplicemente del quadrupede, ma solo di quello rientrante
fra il bestiame, è in relazione col dover noi capire che la disposizione non riguarda né le bestie feroci né
i cani, ma soltanto i quadrupedi di cui si dice propriamente che pascolano, quali sono i cavalli, i muli,
gli asini, i buoi, le pecore e le capre. Anche per i maiali si ritiene questo:anch’essi, infatti, sono compresi
nell’appellativo di bestiame, dato che essi pure pascolano insieme; così appuntodice anche Omero
nell’Odissea, come riferisce Elio Marciano nelle sue Istituzioni».
Il testo e la traduzione delle Iustiniani Institutiones sono tratti da E. NARDI, Istituzioni di diritto romano,
B, Testi, 2, Milano, 1986, utilizzato nella presente trattazione.
115
Sul grex e sugli altri esempi di corpora ex distantibus (vale a dire i corpora in cui i diversi elementi,
anche se materialmente separati, sono uni nomini subiecta, come ad esempio il popolo e la legione) si
veda R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, 1968, pp. 130137.
114
35
4.2) I verbi contemplati nella legge
Ai fini della configurazioe dell’illecito aquiliano, il plebiscito esigeva che il danno
dovesse essere conseguenza di una azione tipica qualificata: servum quadrupedemve
occidere nel capitolo I e rumpere, urere, frangere aliquid nel capitolo III, che viene a
precisare e restringere la più generica espressione damnum faxit.
I verbi usati dal legislatore descrivono una condotta tipica e un evento, in una
maniera «vincolata» (in contrapposizione a una forma «libera»), poichè non si
riferiscono a qualsiasi condotta che provochi quell’evento, ma descrivono
sinteticamente quella condotta che lo causa attraverso un immediato contatto fisico
violento (eccetto per la condotta di «urere») tra il soggetto attivo e il soggetto
passivo116.
Di fronte a queste ristrette ipotesi di azioni qualificate, la giurisprudenza adoperò
uno sforzo interpretativo che contribuí in certa misura a superare la stretta tipicità
originale dell’illecito aquiliano.
Per quanto riguarda il verbo «occidere» i giuristi proposero, relativamente ad esso,
diverse interpretazioni117. Così Giuliano, giurista del II secolo d. C., comincia
distinguendo il concetto comune di occidere da quello riferentesi ai fini della lex
Aquilia:
D. 9, 2, 51, pr.: «Ita vulneratus est servus, ut eo ictu certum esset
moriturum: medio deinde tempore heres institutus est, et postea ab alio
ictus decessit: quaero, an cum utroque de occiso lege Aquilia agi possit.
Respondit: occidisse dicitur vulgo quidem, qui mortis causam quolibet
modo praebuit: sed lege Aquilia is demum teneri visus est, qui adhibita
vi et quasi manu causam mortis praebuisset, tracta videlicet
interpretatione vocis a caedendo et a caede […]»118.
Così fa notare S. SCHIPANI, L’interpretazione della lex Aquilia nei giuristi repubblicani e il problema
della culpa, cit., p. 69.
117
Cfr. la minuziosa analisi di A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano,
cit., pp. 93-98.
118
Trad. «Un servo è stato ferito in modo tale che per tale ferita certamente morirà; nell’intervallo è
stato istituito erede e poi, per un altro colpo, morì; pongo il quesito se nei confronti di entrambi <gli
autori delle ferite> si possa agire per la uccisione in base alla legge Aquilia. Risponde: comunemente
invero si dice che abbia ucciso colui che in qualsiasi modo abbia procurato la causa della morte; ma in
base alla legge Aquilia si considerò che sia tenuto soltanto colui il quale, utilizzando la forza e quasi con
la mano abbia procurato la causa della morte, con una interpretazione manifestamente tratta dalla
parola caedere (percuotere) e caedes (uccisione)».
116
36
Ai fini della legge Aquilia, in ossequio ad una interpretazione restrittiva, fu
considerato «occidere» solo il provocare l’evento morte attraverso determinate modalità
dell’azione. Giuliano riferisce che occidere, nel contesto aquiliano, richiedeva la vis
come presupposto della sua configurazione congiuntamente all’azione fisica in
relazione al corpus.
Ulpiano119 equipara più esplicitamente le ipotesi nelle quali il veleno fu dato dal
danneggiante per «vim» a quelle nelle quali il veleno fu dato «suasum», cioè con la
persuasione.
L’occidere sussiste quando la condotta ha riguardato direttamente l’oggetto (sia che
vi sia stata violenza fisica, sia che l’agente abbia fatto ricorso ad una violenza invece
morale, come avviene nel caso di minacce, sia che abbia agito invece senza violenza,
avendo attuato solo una condotta persuasiva) e può, inoltre, considerarsi causa
dell’evento dannoso.
Nel caso in cui la condotta risulti priva dei predetti caratteri oppure non sia
materialemente configurabile una condotta, come avviene in presenza di un
comportamento
omissivo,
l’evento
non
può
considerarsi
conseguenza
del
comportamento ed è perciò sanzionabile soltanto in factum grazie ad un intervento del
pretore120.
Tra le due situazioni (danno diretto e certamente causato; danno la cui causa è
dubbia) che giustificano le due diverse azioni (azione diretta o azione in fatto) si situa
quella che genera l’azione utile: la condotta è stata causa certa, ma non anche diretta
(come lo è invece la morte causata «fame» ad animali e schiavi reclusi) dell’evento.
Corbino precisa che l’actio utilis «risulta accordata dal pretore al proprietario –
per ragioni legate a questionii di nesso di causalità – nei casi nei quali il danno da lui
sofferto, pur riguardando la cosa oggetto del comportamento attuato, non può dirsene
D. 9, 2, 9, 1: «Si quis per vim vel suasum, medicamentum alicui infundit, vel ora, vel clystere, vel si
eum unxit malo veneno, lege Aquilia eum teneri, quemadmodum obstetrix supponens tenetur».
Trad. «Se taluno a forza o con la persuasione propina ad altri una medicina o per bocca o con clistere o
se gli spalma un unguento velenoso, egli sarà tenuto in base alla legge Aquilia, allo stesso modo di come
è tenuta l’ostetrica che la somministra».
120
Si riferisce D. 9, 2, 9 pr, Labeone era stato sulla stessa linea interpretativa di Giuliano, ma egli era
anche giunto ad individuare un’ipotesi di “morte” in assenza di facere diretto, nella quale invece si
concede l’actio in factum.
119
37
diretta conseguenza, perché esso è derivato da circostanze sopraggiunte e/o
concausanti»121.
Ulpiano, in particolare, descrive taluni fatti in cui vi è una condotta che causa
l’evento e tuttavia essa si presenta in modo indiretto, concorrendo cause ulteriori alla
determinazione di esso evento (D. 9, 2, 11, pr., relativo al caso del barbiere che, mentre
sta radendo il cliente, è violentemente colpito alla mano dal pallole proveniente dagli
atleti che giocavano nei pressi, tanto da perdere il controllo del rasoio che va a tagliare
la gola del cliente).
In relazione ai verbi urere, frangere e rumpere122 un primo sforzo tendente a
superare il sistema di tipicità delle azioni lesive contemplato nel capitolo III della lex
Aquilia può ravvisarsi in D. 9, 2, 27, 22 che pone in relazione la schiava o la cavalla che
abortiscono in conseguenza del colpo ricevuto:
«Si mulier pugno vel equa ictu a te percussa ejecerit, Brutus ait, Aquilia
teneri, quasi rupto»123.
Si è considerato che già negli ultimi decenni del secolo III a. C. si riconosceva al
verbo rumpere un significato tendenzialmente comprensivo di urere e frangere. Dalla
sua collocazione alla fine dell’elenco delle condotte rilevanti, acuta dottrina ha dedotto
che lo stesso legislatore aquiliano attribuì a tale verbo una funzione di chiusura e ciò
spiegherebbe anche l’affermazione contenuta nel commentario di Gaio (Gai. 3, 217)
secondo cui «capite tertio de omni cetero damno cavetur»124.
È chiaro che, nonostante la loro ampiezza, i tre verbi elencati nel capitolo III non
comprendessero tutte le ipotesi dei danni a cose altrui. In particolare rimanevano escluse
quelle che toccavano cose rispetto alle quali era difficile applicare la rigorosa nozione di
rumpere (è il caso del vinum acetum factum, contemplato in D. 9, 2, 27, 15), così come,
più in generale, tutti i tipi di danno nel quale ricorrendo alla mutatio rei non si poteva a
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 138.
Cfr. A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 98-106.
123
Trad.: «Se una serva da te percossa con un pugno o una cavalla con un colpo abbia abortito, Bruto
afferma che sei tenuto con <l’azione della legge> Aquilia come se tu l’abbia “lesa”».
Qui il feto è considerato come se fosse un’unica cosa con la madre. Per cui si tratterebbe di ruptio vera e
propria.
124
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p.847-848.
121
122
38
rigore parlare di rumpere (per esempio, le macchie provocate sui vestiti, ricordate in D.
9, 2, 27, 18)125.
La equiparazione del rumpere a corrumpere fu la via trovata dai giuristi per
apprestare una tutela a situazioni, come quelle sopra menzionate, e superare la stretta
tipicità degli eventi lesivi sanzionati nel capitolo III126.
Con il verbo corrumpere si indicava tutta l’attività che conducesse a una «mutatio in
peius di un qualsiasi oggetto ancorchè questo oggetto non fosse un corpo solido e così
anche se la modifica non fosse corporea»127.
Rumpere includeva così urere e frangere, ma anche qualsiasi pregiudizio, come
tagliare, provocare contusioni, versare e «tutti gli altri effetto di vizio, peggioramento o
deterioramento»128.
Si comprende pertanto come Gaio (3, 217) abbia sostentuto che in questo contesto
rumpere poteva essere sufficiente per comprendere tutte le ipotesi considerate rilevanti
e regolate nel capitolo III della lex Aquilia.
4.3) «Iniuria» e «culpa»
Rispetto all’esigenza del danno arrecato iniuria, richiesta espressamente dalla lex
Aquilia nei suoi capitoli I e III, si può dire che essa si considerò sempre riferita alla
condotta del danneggiante, prima come evocativa del suo carattere ingiustificato (cioè
l’assenza di cause di giustificazione nei suoi confronti) e poi come comprensiva del
dolo e della colpa129.
Appare dunque di tutta evidenza che vi era iniuria quando l’attività lesiva non
trovasse giustificazione in un fatto consentito dal diritto.
In ciascuna delle ipotesi considerate però l’esimente cessava di essere tale quando
l’autore del comportamento lesivo avesse violato le regole della scriminante stessa, cioè
B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 182.
Così si legge D. 9, 2, 27, 13 «Inquit lex: ‘ruperit’; rupisse verbum fere omnes veteres sic intellexerunt,
‘corruperit’». Trad.: «La legge dice ‘ABBIA ROTTO’. Quasi tutti <i giuristi> antichi intesero qui la
parola aver rotto come aver leso».
127
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 849.
128
Gai. 3, 217: «[...] et quoquo modo vitiata aut peremta atque deteriora facta hoc verbo continentur».
129
Per una effica sintesi cfr. S. SCHIPANI, Pluralità di prospettive e ruolo della culpa come criterio
elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, cit., pp. 42-53.
125
126
39
avesse così reagito all’aggressione, tenendo tuttavia un comportamento diverso e molto
più grave da quello che avrebbe semplicemente evitato il danno.
Vengono ad esempio in considerazione i frammenti D. 9, 2, 29, 7, con riferimento
all’esercizio di un’attività lecita come l’esercizio di publica potesta svolta da un
magistrato; D. 48, 8, 9; D. 9, 2, 45, 4; D. 9, 2, 52, 1 con riferimento alla legittima difesa;
D. 9, 2, 7, 4 per la contesa sportiva, anch’essa attività lecita; mentre in D. 9, 2, 39 pr.-1,
il problema invece non si pone per lo stato di necessità, essendo evidente che la
“necessità” non può avere presupposti ulteriori130.
Nella valutazione del comportamento lesivo occorreva
pertanto la doppia
condizione: “positiva”, costituita dal fatto che il comportamento dell’autore potesse
considerarsi “causa certa” dell’evento dannoso; “negativa”, costituita dalla inesistenza
di una causa giustificativa. Il che comportava la necessità di un’analisi delle circostanze
non soltanto oggettiva (che il damnum avesse carattere aquiliano e potesse considerarsi
“datum”) ma anche soggettiva (che fosse stato anche “datum iniuria”).
È stato puntualmente sottolineato che il considerare la “culpa”, quale conquista
della giurisprudenza più evoluta, significa non comprendere che di iniuria non si poteva
parlare presso i Romani di ogni tempo senza tenere conto degli aspetti soggettivi
(psicologici) del comportamento valutati alla stregua di parametri di riferimento (cioè
della culpa)131.
Corbino ha messo in evidenza che in D. 9, 2, 5, 1 sembrerebbe manifestarsi un certo
impaccio descrittivo e un avvicinamento solo progressivo al concetto di iniuria come
connesso alla presenza di una culpa nel comportamento che si valuta (Ulpiano esordisce
dicendo che vi è iniuria quando il comportamento è “non iure”, per proseguire
osservando che ciò vuol dire che è “contra ius” e concludere che esso è insomma
connotato da culpa)132.
Fatto sta che sono costanti i riferimenti alla culpa, termine che nelle fonti assume
cimunque diversi significati133.
In tal senso e per un’ampia disamina delle singole cause di giustificazione cfr. A. CORBINO, Il danno
qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., pp. 159-176.
131
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 172 in posizione
critica verso Valditara.
132
Ibidem.
133
Precisa M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, in Enc. dir., VII, Milano, 1960,
p. 518, che il termine culpa «assume un significato variabile, che si concreta, sostanzialmente, in tre
diverse accezioni […]: quella di illecito, quella di imputabilità e quella di negligenza in senso generico».
130
40
La prima testimonianza ci viene da Quinto Mucio, del quale si sono conservati due
importantissimi contributi alla materia della culpa ( D. 9, 2, 31; D. 9, 2, 39, pr.), ma è
dato comunque rinvenire un fil rouge che passa per Alfeno, rievocato da Gaio in D. 9,
2, 8, 1134, per Proculo, che considerava l’imperitia come sicuro fatto di imputabilità
soggettiva aquiliana (D. 9, 2, 7, 8)135, mentre Pegaso ha trattato casi di neglegentia (D.
9, 2, 7, 2)136.
È proprio Ulpiano a recuperare la citazione di Pegaso, mentre Paolo riprende, a sua
volta, casi già considerati dalla giurisprudenza per inquadrarli in una più ampia visione
sistematica:
D. 9, 2, 30, 3: «In hac quoque actione, quae ex hoc capitulo oritur, dolus
et culpa punitur: ideoque si quis in stipulam suam vel spinam
comburendae eius causa ignem immiserit et ulterius evagatus et
progressus ignis alienam segetem vel vineam laeserit, requiramus, num
imperitia eius aut neglegentia id accidit. Nam si die ventoso id fecit,
culpae reus est (nam et qui occasionem praestat, damnum fecisse videtur):
in eodem crimine est et qui non observavit, ne ignis longius procederet. At
si omnia quae oportuit observavit vel subita vis venti longius ignem
produxit, caret culpa»137.
«Mulionem quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si eae alienum hominem
obtriverint, vulgo dicitur culpae nomine teneri. idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum
impetum non potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur, cum affectare quisque non
debeat, in quo vel intellegit vel intellegere debet infirmitatem suam alii periculosam futuram. Idem iuris
est in persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel infirmitatem retinere non
poterit».
Trad. «Si dice comunemente che è tenuto a titolo di colpa anche il mulattiere, se per imperizia non abbia
potuto trattenere l’impeto delle mule e se esse abbiano schiacciato con gli zoccoli un servo altrui. Lo
stesso si dice anche se egli non abbia potuto trattenere l’impeto delle mule per debolezza; né sembra
iniquo, se la debolezza si ascriva a colpa per il fatto che ciascuno non deve cercare di fare ciò per cui
capisce o deve capire che la sua debolezza sarà pericolosa per altri. Il diritto <da applicare> è il
medesimo nei confronti della persona che non potrà frenare per imperizia o debolezza l’impeto del
cavallo che cavalcava».
135
«Proculus ait, si medicus servum imperite secuerit, vel ex locato vel ex lege Aquilia competere
actionem».
Trad. «Proculo afferma che, se un medico abbia operato senza perizia un servo, compete l’azione o di
locazione o in base alla legge Aquilia».
136
«Sed si quis plus iusto oneratus deiecerit onus et servum occiderit, Aquilia locum habet: fuit enim in
ipsius arbitrio ita se non onerare. Nam et si lapsus aliquis servum alienum onere presserit, Pegasus ait
lege Aquilia eum teneri ita demum, si vel plus iusto se oneraverit vel neglegentius per lubricum
transierit».
Trad. «Se poi taluno, caricato più del giusto, abbia fatto cadere il carico ed ucciso un servo, trova
applicazione la <legge> Aquilia: è stato infatti nell’arbitrio dello stesso non caricarsi così. E
certamente, anche se, una volta caduto, taluno abbia schiacciato con il carico un servo altrui, Pegaso
afferma che è tenuto in base alla legge Aquilia solo quando o si sia caricato più del giusto o sia passato
in modo alquanto negligente in luogo sdrucciolevole».
137
Trad. «In questa azione, che nasce da questo capitolo <della legge>, si punisce il dolo e la colpa; e,
pertanto, se taluno abbia appiccato il fuoco alle sue stoppie o rovi per bruciarli, ed il fuoco, propagatosi
e passati i limiti, abbia danneggiato il campo seminato o la vigna altrui, esaminiamo se ciò accade per
134
41
Occorre ribadire che il termine culpa non sempre è presente nei frammenti sopra
segnalati. Ritenere, tuttavia, che sia frutto di linguaggio “tardoclassico” il parlare di
damnum «culpa» datum (per difendere l’idea di una emersione del rilievo del profilo
soggettivo della responsabilità)138, è contro ogni evidenza.
Non deve essere sottaciuto che di damnum «culpa» datum potrebbe aver parlato già
Labeone, nello sforzo di chiarire il peculiare significato di iniuria nella lex Aquilia. È
quanto sembra emergere da un frammento ulpianeo conservato in
D. 47, 10, 15, 46: «Si quis servo verberato iniuriarum egerit, deinde
postea damni iniuriae agat, Labeo scribit eandem rem non esse, quia
altera actio ad damnum pertineret culpa datum, altera ad
contumeliam»139.
Può considerarsi dunque certo che la giurisprudenza romana si sia preoccupata in
ogni tempo di approfondire l’elemento soggettivo della responsabilità richiesto dalla lex
Aquilia come presupposto della sua applicazione, sforzandosi di chiarire i confini tra
attività “imputabile” e attività “giustificata” al fine di individuarne il nesso eziologico
con l’evento140.
5) Interventi pretori nella disciplina aquiliana con incidenza sulla concezione del
danno
Malgrado gli innegabili progressi raggiunti dalle interpretazioni giurisprudenziali
esaminate, esse non furono sufficenti a superare completamente il sistema della tipicità
delle condotte lesive, contemplato nei capitoli I e III della lex Aquilia.
La materia del danno diventò pertanto una di quelle in cui frequente fu l’intervento
del pretore. Non si dimentichi che, stando alla testimonianza di Papiniano, «il diritto
sua imperizia o negligenza: infatti, se abbia fatto ciò in un giorno di vento, è reo di colpa (giacché anche
colui che offre l’occasione si considera aver cagionato un danno); si può similmente accusare anche
colui che non abbia badato che il fuoco non si estendesse più lontano. Ma manca di colpa, se ha badato a
tutto ciò che era necessario o una improvvisa forza del vento abbia portato il fuoco più lontano».
138
Si invocano, al riguardo, i frammenti di Paolo (D. 44, 7, 34 pr.) e di Ulpiano (D. 47, 6, 1, 2).
139
Trad. «Se taluno agì iniuriarum essendo stato bastonato il servo e poi agisca damni iniuriae, Labeone
scrive non essere la stessa materia di lite, perché la prima azione riguarda il danno dato con colpa, la
seconda la contumelia».
140
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 176.
42
pretorio è quello che i pretori introdussero per aiutare o supplire o correggere, per
pubblica utilità, il diritto civile»141.
In particolare il pretore tendeva a concedere l’azione142 in alcuni casi in cui
l’interesse soggettivo non era tutelato dallo ius civile e tuttavia il magistrato riteneva
equo concedere la tutela giudiziaria all’attore.
L’actio in factum veniva dunque concessa dal magistrato in base ad una valutazione
di merito della fattispecie sottopostagli, nel caso in cui la stessa non fosse prevista
dall’edictum pretorile, non sulla base di presupposti di diritto civile, ma sulla base di
circostanze di fatto giudicate degne di tutela. In sostanza l’azione in factum riguardava i
danni che non solo non erano stati arrecati direttamente (ossia non corpore) ma che non
avevano neppure leso materilmente una res (ossia non corpori). L’azione veniva
concessa pertanto in via residuale, in assenza sia di un damnum corpore corpori datum,
sia di altro danno tutelabile in via utile143.
Le actiones utiles costituivano più in particolare una categoria di azioni utilizzate
per regolare situazioni o casi non disciplinati direttamente dal ius civile, ma analoghi a
quelli che già ricevevano una loro precisa tutela. Così facendo si estendeva utiliter la
tutela di un certo rapporto a rapporti analoghi a quello, sebbene non identici.
Nella primitiva interpretazione che venne data alla lex Aquilia, fu preso in
considerazione solamente il danno che era conseguenza di un’ azione positiva. Quindi
non si concedeva l’actio legis Aquiliae in ipotesi di omissioni dannose144. Grazie alla
decisione del pretore di concedere azioni in factum ad exemplum legis Aquiliae, si potè
141
D. 1, 1, 7, 1.
In merito alla natura delle actiones la terminologia utilizzata dalle fonti non è del tutto chiarificatrice,
in quando si allude in alcuni casi ad actiones in factum, altre volte a quelle in factum ad exemplum legis
Aquiliae, in factum accomodatae legis Aquiliae, ed anche alle actiones utiles.
Cfr. sul punto B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit.; G. LONGO, Lex Aquilia de damno, cit., pp.
799-800; G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di
Diritto Commerciale, 14 (1916), pp. 942-970; G.VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice
civile, cit., pp. 11-12.
143
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 66.
144
A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 137, in relazione al
frammento ulpianeo contenuto in D. 9, 2, 9, 2, sottolinea che «procurare la morte [dello schiavo] per
fame significa causarla attraverso un comportamento omissivo, dunque attraverso una “inattività”, che
non può perciò – in quanto fisicamente “non comportsamento”- né essere considerata causa constatabile
dell’evento né posta in relazione diretta con la cosa che ne subisce le conseguenze».
142
43
configurare la responsabilità in determinate ipotesi di danni derivati da omissioni145
(dove sarebbe esistito un dovere di agire146).
Alla luce di Coll. 12, 7, 4-5, si comprende bene che la responsabilità aquiliana
diretta vada esclusa per le cose che l’autore dell’azione lesiva non aveva assunto ad
“oggetto” della propria attività, anche in presenza di “contiguità”.
Si consideri altresì che l’uomo che intraprendesse un’ azione avrebbe dovuto anche
prendere le precauzioni necessarie per impedire possibili conseguenze dannose (come
sembra risultare da D. 9, 2, 27, 10)147.
Inizialmente la lex Aquilia esigeva la concorrenza di una relazione causale
strettamente materiale o fisica, immediata e diretta, tra la condotta dell’agente e l’effetto
dannoso. Di conseguenza dalla tutela aquiliana rimanevano escluse le condotte che
avevano un’effetto dannoso indiretto.
L’esame delle fonti ci rivela che la protezione per tali situazioni si raggiunge
principalmente attraverso la via pretoria, mediante la concessione di azioni in factum
che seguono il modello della legge, per questo chiamate in alcuni casi actiones ad
exemplum legis Aquiliae.
A questo proposito occorre menzionare in primo luogo l’actio in factum concessa
per quei casi in cui, nonostante non si possa configurare l’occidere richiesto dalla legge,
è stata provocata la causa che ha poi portato alla morte.
Si fa risalire ad Ofilio la concessione di questo tipo di actiones, tenendo in vista il
frammento di Ulpiano contenuto in D. 9, 2, 9, 3148:
«Si servum meum equitantem, concitato equo effeceris in flumen
praecipitari, atque ideo (homo) perierit, in factum esse dandam actionem
145
Come sarebbero quelli contemplati in Coll. 12, 7, 4-7 (dove risulta la opinione favorevore di Celso).
Cfr. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 186.
147
«Si furnum secundum parietem communem haberes, an damni iniuria tenearis? et ait Proculus agi
non posse, quia nec cum eo qui focum haberet: et ideo aequius puto in factum actionem dandam, scilicet
si paries exustus sit: sin autem nondum mihi damnum dederis, sed ita ignem habeas, ut metuam, ne mihi
damnum des, damni infecti puto sufficere cautionem».
Trad. «Se tu avessi un forno addossato ad una parete comune, saresti forse tenuto per danno arrecato
ingiustamente? E Proculo afferma che non si può agire, così come <non si può agire> neppure nei
confronti di colui che vi abbia un focolare; e pertanto reputo più equo che si dia un’azione modellata sul
fatto, evidentemente se la parete sia bruciata; se invece tu non mi abbia ancora cagionato danno, ma
tenga il fuoco in modo tale che io tema che tu mi possa arrecare danno, reputo che basti la stipulazione
di garanzia per il danno temuto».
148
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 845.
146
44
Ofilius scribit: quemadmodum si servus meus ab alio in insidias deductus,
ab alio esset occisus»149.
Celso, in un frammento contenuto in D. 9, 2, 7, 6, lascia intendere con chiarezza che
l’actio legis Aquiliae deriva da un occidere quanto quella concessa in factum dal
«mortis causam praestare»:
«Celsus autem multum interesse dicit, occiderit, an mortis causam
praestiterit, ut, qui mortis causam praestitit, non Aquilia, sed un factum
actione teneatur. Unde affert eum, qui venenum pro medicamento dedit, et
ait, causam mortis praestitisse, quemadmodum eum, qui furenti gladium
porrexit; nam nec hunc lege Aquilia teneri, sed in factum»150.
I concetti di causam damni praestare e causam mortis praestare portano a
considerare responsabile per la legge Aquilia non solo colui che procurò il danno, nel
senso primitivo, ma anche colui che creò una occasione di fatto per cui si producesse
quel danno. Gli esempi contemplati nelle fonti sono vari151.
Il meccanismo della concessione delle azioni in factum (o utile secondo alcuni
autori) si applicò anche a quei casi in cui il danno, se anche non si trasformava in una
Trad.: «Se tu abbia fatto sì che il mio servo che cavalcava, fattogli imbizzarrire il cavallo, precipitasse
nel fiume e di conseguenza l’uomo sia perito, Ofilio scrive che bisogna dare l’azione modellata sul fatto,
allo stesso modo che se il mio servo da uno fosse attratto in un agguato e da un altro fosse ucciso».
150
Trad.: «Celso, poi, dice che è molto diverso se uno abbia ucciso o procurato la causa della morte,
tanto che colui che abbia procurato la causa della morte non <è tenuto in base all’azione della legge>
Aquilia, ma dovrebbe essere tentuo con quella modellata sul fatto. Egli fa l’esempio, perciò, di colui che,
in luogo di una medicina, diede del veleno, e afferma che ha procurato la causa della morte, allo stesso
modo di colui che ha dato una spada in mano ad uno che è fuori di sé: infatti, neppure questi è tenuto in
base alla <azione della> legge Aquilia, ma <in base all’azione modellata> sul fatto».
151
Si vedano ad esempio i frammenti D. 9, 2, 9, 3 e D. 9, 2, 7, 6.
In D. 9, 2, 9 pr. si segnala che risponde secondo la lex Aquilia la levatrice che di proprie mani fece bere
una medicina alla sua paziente, la quale per questo morì, poiché si tratta di un danno corpore corpori
datum, però se consegnò il bicchiere che conteneva la medicina alla schiava e questa la bevve risponde
secondo l’actio in factum perchè anche se non può intendersi propriamente che la uccise, fu causa della
sua morte; D. 9, 2, 9, 2 d’altra parte, stabilisce che «se taluno abbia fatto morire di fame un servo,
Nerazio afferma che è tenuto con l’azione modellata sul fatto»; Gai. 3, 219 stabilisce che in virtù della
legge Aquilia si può agire soltanto se qualcuno «causa il danno direttamente con propria colpa», per cui
«si accordano delle azioni utili, come se uno avesse rinchiuso l’uomo o la bestia altrui perchè morisse di
fame, o avesse così violentemente incalzato un giumento da farlo scoppiare, o avesse tormentato una
bestia al punto di farla precipitare, o se uno avesse indotto il servo altrui a salir su un albero o a
discendere in un pozzo, e quello, salendo o scendendo, fosse morto o si fosse fatto male in qualche parte
del corpo»; D. 9, 2, 11, 1 dispone che «Se uno ha trattenuto ed un altro ha ammazzato, colui che ha
trattenuto è tenuto con l’azione modellata sul fatto come se avesse procurato la causa della morte»
(mentre quello che uccise risponde civilmente); secondo D. 9, 2, 11, 5 si fa rispondere per l’actio in
factum, colui che aizzò un cane facendo in modo che mordesse un altro senza tenerlo legato ( se lo tiene
legato risponde civilmente). Infine D. 9, 1, 1, 7 concede l’actio in factum contro colui che colpì un cavallo
e, in conseguenza di ciò, il cavallo diede un calcio allo schiavo.
149
45
alterazione o violazione della sostanza di un oggetto fisico, implicava la sua perdita
definitiva o almeno irreparabile per il suo proprietario152.
Così avviene quando si gettano in mare una coppa d’argento o un anello nel fiume
(D. 19, 5, 14, 2 e D. 19, 5, 23), oggetti che, anche se si mantengono integri, per il loro
proprietario risultano ormai dispersi; o quando uno schiavo sia stato liberato delle sue
catene per pietà e non per sottrarlo al suo padrone.
In questo modo, concedendosi l’ actio in factum in quei casi in cui il danno non era
direttamente legato allo sforzo fisico del danneggiante e in quegli altri in cui il danno
non si trasformava in una alterazione o violazione della sostanza di un oggetto fisico, si
tentava di fare un passo avanti nel superare il sistema della tipicità delle condotte
dannose rilevanti.
6) Aestimatio e danno aquiliano
La dottrina romanistica ha sostanzialmente accolto l’ipotesi avanzata da Valditara153
secondo cui tra la originaria aestimatio aquiliana riferita soltanto al prezzo di mercato
del bene danneggiato (aestimatio rei) e quella fondata sull’id quod interest dell’autore
(opera della giurisprudenza imperiale dal I al III secolo d.C.), è esistito uno stadio
evolutivo intermedio, a cui allude con la denominazione “criterio del prezzo formale”,
frutto della interpretazione sviluppata dalla giurisprudenza (traiano-adrianea) e
comprensivo non solo del valore di mercato della res, ma anche dell’utilitas domini154.
In questo senso B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 188.
G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C.Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto
Commerciale, 14 (1916), p. 947, ha sostenuto che «nessun giurista classico ha mai pensato di estendere,
alterandolo, il concetto stesso di damnum datum ossia di lesione materiale della cosa altrui: se questo
elemento di fatto vien meno, si è fuori dal campo della lex Aquilia e delle sue possibili estensioni» -utiles
o in factum-, aggiungendo che in tale caso «si ricorrerà a rimedi d’altra natura, se ricorrono gli estremi
o si riconoscerà l’inesistenza di remedi adeguati».
153
G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione
della tutela ai non domini, Milano, 1992; ID., Dall’aestimatio rei all’id quod interest nell’applicazione
della condemnatio aquiliana, in L. VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella
prospettiva storico-comparatistica, cit., pp. 76-87.
154
Recentemente questa teoria è stata criticata, con mutamento di prospettiva, da A. CORBINO, L’oggetto
della aestimatio damni nella previsione del primo e del terzo capitolo del Plebiscito Aquiliano, in Scritti
in onore di Remo Martini, vol. I, Milano, 2008, pp. 699-710.
152
46
La lex Aquilia superò il sistema di pena fissa in denaro, contemplato in importanti
ipotesi sanzionate dalla legge delle XII Tavole, sicuramente a causa dell’eccessiva
rigidità che comportava, e che produceva crisi in periodi di svalutazione monetaria.
Così, nel capitolo I si condannava a «risarcire al proprietario il maggiore prezzo
che la cosa aveva avuto durante l’anno» (D. 9, 2, 2 pr. «[…] quanti id in eo anno
plurimi fuit, tantum aes dare domino damnas esto […]»). Ciò è quanto risulta
espressamente nelle Istituzioni di Giustiniano (I. 4, 3, ,10), e, come accettato dalla
dottrina romanistica attuale, la clausola «quanti id in eo anno plurimi fuit» fu intesa in
una prima epoca come riferita esclusivamente al maggiore valore di mercato –“valore
comune” per una certa dottrina- che avrebbe ottenuto lo schiavo o il quadrupede che
forma gregge nell’anno precedente155. L’uso della espressione al passato “fuit” fa
riferimento, chiaramente, ad un tempo precedente156.
La fissazione del termine di un anno, d’altra parte, deriverebbe dalla necessità di
considerare i cambiamenti stagionali di prezzo che subivano queste categorie di beni157.
Nel capitolo II, le fonti ci rivelano che si seguì un’altra strada. In effetti, in Gai. 3,
215 si dà notizia dell’uso nella condemnatio della forma verbale al presente “est” (
«[…] quanti ea res est […]»), il che implicherebbe un riferimento «all’acceptilatio
fraudolenta, e più precisamente alla quantità di credito che, in forza dell’acceptilatio,
risulta (attualmente) soppressa»158.
Da ultimo nel capitolo III si condannava a pagare al proprietario il valore della cosa
nei prossimi trenta giorni (D. 9, 2, 27, 5 «...quanti ea res erit in diebustriginta proximis,
tantum aes domino dare damnas esto»).
La coniugazione verbale al passato, “fuit” utilizzata in D. 9, 2, 29, 8159, ha permesso
di concludere che, come nel primo capitolo, esisteva un’allusione chiara a un tempo
passato160.
G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione
della tutela ai non domini, cit., pp. 4-8; ID., Damnum iniuria datum, p. 865.
156
C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, cit., p. 36, ha precisato che l’opzione per il computo di
un’anno precedente «obbedisce ad un’imprescindibile esigenza tecnica: il riferimento al valore di una
cosa perita non può essere che formulato al passato, per alludere ad un momento precedente la
soppressione della cosa: A partir dal momento dell’atto sanzionato, infatti, la cosa – lo schiavo o
l’animale- hanno perso il valore utile al riferimento».
157
Cfr. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 865.
158
C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, cit., p. 37.
159
In D. 9, 2, 27, 5, troviamo invece la coniugazione al futuro «erit».
160
C. A. CANNATA, Delitto e obbligazione, cit., p. 37.
155
47
La giurisprudenza in generale, intese l’aggettivo «proximis» nel senso di passati
prossimi o anteriori. D’altra parte, a differenza del capitolo I, non si include qui la
parola «plurimi»161. Tuttavia, come si legge in Gai 3. 216, l’opinione autorevole di
Sabino portò a ritenere che nel capitolo III il calcolo della condanna era riferito in
considerazione al maggior («plurimi») valore162. Inoltre rimane chiaro che questo
“maggiore valore” era il maggiore valore “commerciale”163 o “di mercato” del bene
danneggiato nei trenta giorni anteriori alla commissione del delitto.
Infine non bisogna dimenticare che, come attestato in D. 9, 2, 2, 1, in caso di
infitatio operava l’istituto della litiscrescenza (cioè l’aumento della pena al duplum).
L’esame della normativa aquiliana e della sua interpretazione iniziale, ci dimostra
che in una epoca precedente i capitoli I e III adottarono un criterio di valutazione che
conduceva alla aestimatio rei, cioè, a calcolare esclusivamente il valore del mercato del
corpo danneggiato (pretium corporis) nel periodo di tempo indicato dalla legge, senza
considerare assolutamente l’interesse del danneggiato164. Ciò, con il fine inizialmente
attribuito alla lex Aquilia, di essere una normativa destinata a proteggere esclusivamente
la proprietà e concordante con il presupposto del corpori richiesto ai danni riparabili165.
In questo modo erano irrilevanti le ripercussioni pregiudizievoli che l’evento
dannoso poteva avere sulla totalità del patrimonio del danneggiato globalmente
considerato166.
Sebbene all’epoca di Labeone la aestimatio fosse circoscritta al semplice valore del
corpus danneggiato, alla fine del I sec. d.C. inizio del II sec. d.C., grazie all’opera dei
giuristi Nerazio, Giavoleno e Giuliano nacque un criterio nuovo e più equo di
Ad avviso di G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 865, «la assenza del plurimi derivava
invero dal fatto che per la gran parte dei beni protetti non rientranti nella categoria del servi e pecude il
riferimento ad un maggior valore non avrebbe avuto alcun senso, posto che tali beni, non essendo il loro
valore correlato ad eventi stagionali, non dovevano normalmente subire periodiche variazioni di prezzo».
162
Sul particolare può vedersi anche D. 9, 2, 29, 8.
163
G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione
della tutela ai non domini, cit., p. 8.
164
Sul particolare si veda, G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 866; ID. Superamento
dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., p.
4 ss, e p. 278 ss.
165
G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione
della tutela ai non domini, cit., p.176.
166
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 866, dichiara in proposito che «la rigida adesione della
aestimatio al valore del corpus era d’altra parte strettamente legata al presupposto stesso della tutela
aquiliana. Questa infatti, conseguiva a ipotesi di danneggiamento materiale, fisico di un determinato
bene realizzate per di più tramite il diretto impiego della forza su quel corpus, spettando detta tutela
esclusivamente al proprietario di quel determinato bene. Era dunque la proprietà su quel bene, nella sua
integrità materiale, oggetto della tutela aquiliana e nulla d’altro».
161
48
valutazione dei danni, denominato “criterio del prezzo formale”, che si caratterizzava
per il fatto di cercare di «ricomprendere nel prezzo complessivo dell’oggetto il valore
relativo agli eventuali commoda che questo era in grado di offrire al suo
propietario»167.
Con l’applicazione del criterio del prezzo formale, al pretium corporis (che
costituiva il punto fondamentale del processo valutativo) si aggiungeva un’entità che le
fonti classiche indicavano come causa rei e che rappresentava «il valore ulteriore che
quel bene aveva per il singolo proprietario»168.
Stando alla ricostruzione del Valditara, a livello cronologico il primo ad adottare
questa soluzione sarebbe stato Nerazio169, a cui sarebbero seguiti Giavoleno170,
Giuliano171 e anche Gaio172. Diversa posizione avrebbe assunto invece Sesto Pedio173.
I passaggi chiari dove si ipotizza l’utilizzo di questo criterio sono quelli contenuti in
D. 9, 2, 37, 1 e in D. 9, 2, 23, 2. In quest’ultimo frammento, per esempio, si considera il
caso di una persona che è istituita erede sotto la condizione che manometta un servo
proprio. Dopo la morte del testatore il servo è morto per altro motivo, per cui la
condizione non potrá verficarsi e di conseguenza gli sará impossibile acquisire l’eredità.
La soluzione originale di Giuliano portava a liquidare in aggiunta al valore dello
schiavo il valore della eredità, che era la causa che si aggiungeva174.
In ogni caso si deve precisare che in base a questo criterio non si considerava ancora
in forma, immediata ed esclusiva, il solo id quod interest del danneggiato175.
Questo criterio innovativo era destinato a conseguire una valutazione comprensiva
della posizione del dominus in riferimento al bene danneggiato.
Il bene non si concepiva come isolato e staticamente, al pari di quanto accadeva
nella primitiva visione legislativa, ma nell’ambito di una considerazione patrimoniale
ID., Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela
ai non domini, cit., p. 63. Per l’uso di questa terminologia l’autore richiama D. 35, 2, 62, 1, dove si parla
di pretium formale contrapposto a praesens pretium, cioè a un valore che Pedio identificava con il “valore
comune” del bene.
168
ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 867.
169
Citato da Ulpiano in D. 9, 2, 23, pr.
170
D. 9, 2, 37, 1.
171
D. 9, 2, 51, 2.
172
Gai. 3, 212.
173
Come appare in D. 9, 2, 33, pr. e D. 35, 2, 63, pr.
174
In tal senso G. VALDITARA, Dall’aestimatio rei all’id quod interest nell’applicazione della
condemnatio aquiliana, cit., p. 81.
175
ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 867.
167
49
più ampia che ipotizzava una funzione strumentale del bene e lo considerava
dinamicamente come possibile oggetto di una serie di relazioni posteriori.
Questo criterio ebbe un’importanza enorme nella evoluzione del danno aquiliano,
poiché per la via della causa rei si giunse a includere nella sua valutazione due nuove
entità che i giuristi medievali avrebbero più tardi identificato con la denominazione di
danno emergente e lucro cessante. La risarcibilità del valore perduto a causa del fatto
illecito (danno emergente) come quella del valore che non si è conseguito per effetto di
esso (lucro cessante), saranno una costante indiscutibile che accompagnerà fino ai nostri
giorni tutta la evoluzione della disciplina dei fatti illeciti.
Le fonti contengono esempi in tal senso. Così, si considera che si configura una
ipotesi di lucro cessante quando di fronte alla morte di uno schiavo istituito erede prima
che accetti l’eredità, si ordina di includere il valore che l’eredità perduta aveva per il
proprietario (D. 9, 2, 23, pr.)176.
Quale esempio di danno emergente si tenga in considerazione il deprezzamento che
causa in una compagnia di buffoni o in una orchestra, la morte di uno schiavo che la
formava, o il deprezzamento che viene causato a una quadriga o a una biga, dalla morte
di un cavallo o di un bue che la componeva (D. 9, 2, 22, 1), così come l’ipotesi di morte
di un quadrupede, la cui consegna noxa, avrebbe evitato il pagamento del danno causato
da questo animale (D. 9, 2, 37, 1)177.
Al di là di una indiscutibile origine medievale della nomenclatura, la dottrina accetta
la sostanziale risarcibilità del danno emergente e del lucro cessante nella disciplina
romana dei fatti illeciti178, anche se con talune sfumature. Così, sebbene per alcuni,
come Voci179 e Valditara180, questa fu una innovazione specifica della giurisprudenza
classica, altri, come il Bove181, ritengono che la risarcibilità del lucro cessante sarebbe
una conquista giustinianea.
Sul punto devono essere considerati i frammenti D. 9, 2, 22, 1; D. 9, 2, 23 pr., D. 9,
2, 23, 2; D. 9, 2, 37, 1 e Gai. 3, 212 e I. 4, 3, 10.
Così si esprime G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 869.
Ibidem.
178
G. CRIFÒ, Danno a) Premessa storica, in ED, vol. XI, Milano, 1962, p. 618; A. GUARINO, Diritto
Privato romano, cit., pp. 1022-1023; G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit.,
p. 202 e P. VOCI, Risarcimento del danno e processo formulare nel diritto romano, Milano, 1938, p. 64.
179
P. VOCI, Risarcimento del danno e processo formulare nel diritto romano, cit., p. 64.
180
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 869.
181
L. BOVE, Danno (diritto romano), in NSSDI, vol. V, Torino, 1960, p. 146.
176
177
50
Più eloquente appare l’inciso di D. 9, 2, 33 pr. che, nella parte finale, stabilisce
espressamente: «[…] In base alla legge Aquilia, infatti, conseguiamo il valore del
danno, e si dirà che abbiamo perduto quanto o avremmo potuto conseguire o siamo
costretti a spendere»182.
D. 9, 2, 7 pr.183 stabilisce che se si rende cieco un figlio, la stima comprenderà il
valore del filgio con i due occhi sani e le spese mediche per la cura dell’occhio lesionato
(«danno emergente»), ma anche tutto il mancato guadagno per il padre a causa della
incapacità lavorativa del figlio («lucro cessante»).
Notevole è il fatto che rispetto a detta categoria di pregiudizio bastava provare un
«alto grado di probabilità circa il suo verificarsi» secondo la logica della esperienza184,
e non la certezza assoluta del suo verificarsi.
Si esclude, in ogni caso, la risarcibilità dei supposti pregiudizi che apparivano
meramente speculativi o eventuali185.
Per mancanza dell’ “alto grado di probabilità” si respingeva anche il risarcimento
della pesca sperata186, dato che la cattura dei pesci («captus piscium») era considerato la
res incerta per eccellenza187 e come tale non suscettibile di aestimatio188.
La grande conquista della giurisprudenza traiano-adrianea consiste dunque nel fatto
che, anche se la valutazione è vincolata al plurimi, ad un tempo anteriore, dovendo
valutare il pretium corporis, si pone come oggetto della aestimatio aquiliana, il danno
sofferto dal dominus rei.
In questo modo «il danno dunque da presupposto dell’azione è diventato oggetto
della stima giudiziale»189. Per il resto, questa evoluzione era conseguenza della
trasformazione stessa del rimedio aquiliano, a cui si iniziava a riconoscere un elemento
«[…] In lege enim Aquilia damnum consequimur, et amisisse dicemur, quod aut consequi potuimus
aut erogare cogimur».
183
D. 9, 2, 7 pr.: «Qua actione patrem consecuturum ait, quod minus ex operis filii sui propter vitiatum
oculum sit habiturus, et impendia, quae pro eius curatione fecerit».
Trad.: «<Giuliano> afferma che con tale azione il padre conseguirà quanto avrà in meno dellìattività
lavorativa di suo figlio a causa della perdita dell’occhio, ed inoltre le spese che abbia sostenuto per la
sua cura».
184
Cfr. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 872.
185
G. CRIFÒ, Danno a) premessa storica, cit., p. 618, sostiene che «per i Romani la privazione di un
occasionale vantaggio economico non rappresenta un danno».
186
D. 9, 2, 29, 3.
187
Così segnala G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 873, citando a tal proposito D. 18, 4, 11;
19, 1, 11, 18; 18, 1, 8, 1; 18, 4, 7; 19, 1, 12.
188
Concetto ribadito anche da A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano,
cit., p. 107.
189
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 196.
182
51
reipersecutorio insieme a quella originaria finalità punitiva, che sanzionava colui che
attentava alla proprietà altrui190.
L’evoluzione dell’ aestimatio aquiliana nel diritto classico romano culmina con
l’adozione del cosidetto “criterio dell’id quod interest”191, che appare a partire dall’età
severiana192, particolarmente, quando Ulpiano intende: «quanti is homo in eo anno
plurimi fuit» nel senso di «quanti interfuit nostra eum hominem non esse occisum»193.
L’interesse si poneva pertanto come oggetto immediato e diretto della aestimatio
aquiliana staccata così da una aestimatio rei.
Con riferimento alla clausola condannatoria ex capite tertio l’evoluzione
interpretativa conduce a un simile risultato194.
In questo modo non si teneva in considerazione il maggior valore della cosa ma il
«maggior danno subito dall’attore» all’interno dei limiti di tempo stabiliti nella lex195.
Tenendo conto di quanto detto e soprattutto dell’idea che Ulpiano aveva del
contenuto dell’azione aquiliana (che risulta espressa principalmente in D. 9, 2, 21, 2),
l’interesse viene a consistere nella «differenza tra quella che sarebbe stata la situazione
patrimoniale del danneggiato senza l’illecito del terzo e la situazione determinatasi a
causa di esso», per cui si tende a risarcire il danno effettivamente sofferto196.
Un dato ulteriore rivela la coerenza che questa nuova interpretazione aveva con la
interpretazione generale sistematica raggiunta allora dal diritto romano in materia.
Dall’età antoniniana, infatti, l’azione aquiliana fu intesa come azione mista197.
ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 869.
G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C.Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto
Commerciale, 14 (1916), p. 967, ha affermato che: «l’a. l. Aquiliae è precisamente l’esempio tipico di
un’azione a cui i classici riconoscono senza esitazione il carattere penale con tutte le relative
conseguenze, mentre riconoscono parimenti […] che essa normalmente realizza la semplice rei
persecutio».
191
Ad avviso di P. VOCI, Risarcimento e pena privata nel diritto romano, cit., pp. 66 ss. l’accoglimento
del metodo dell’ id quod interest risale «ai più antichi giuristi dell’età classica».
192
In D. 9, 2, 2, 23 si trova una allusione ad un supposto pensiero di Labeone, che potrebbe fare collocare
il criterio dell’ id quod interest anteriormente ad Ulpiano.
Sui sospetti di interpolazione del frammento citato cfr. G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei
nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp. 156-175.
193
Come risulta con chiarezza nel classico passaggio di Ulpiano contenuto in D. 9, 2, 21, 2.
194
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 871.
195
P. VOCI, Risarcimento e pena privata nel diritto romano, cit., p. 68.
196
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 872.
Vi è una certa coincidenza tra questa concezione e la moderna differenztheorie (o «Vermögensdifferenz»,
secondo Valditara).
197
ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 198.
Di analogo avviso anche A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Corso di diritto romano, cit.,
p. 203 che testualmente afferma: «l’atteggiamento giurisprudenziale fu (e da subito, il che impedisce di
190
52
In ogni caso, si dovevano eliminare due ostacoli per giungere a una concezione
moderna del danno: il riferimento a un tempo passato nella valutazione del danno (un
anno o un mese) e la neccessaria considerazione del maggiore (plurimi) valore della
cosa nel tempo. Nonostante ciò si deve rilevare come «alla fine dell’età classica si
erano comunque già affermate le premesse per un superamento della concezione
dell’azione aquiliana come rimedio volto a tutelare la proprietà; si poteva insinuare
l’idea che il mezzo processuale derivato dalla lex Aquilia portasse ad una più ampia
protezione della proprietà»198.
7) L’estensione della legittimazione attiva
La legge Aquilia, in ossequio al suo concetto originario di mezzo destinato a
proteggere la proprietà contro determinate azioni lesive, considerava come esclusivo
legittimato attivo per l’esercizio dell’azione civile il dominus rei, cioè il proprietario ex
iure Quiritum della cosa danneggiata199. Le fonti sono chiare a questo proposito200.
Ulpiano infatti afferma che l’azione della legge Aquilia compete al signore cioè al
proprietario201. Herus è il termine arcaico che, probabilmente, veniva in origine usato
nel testo della legge202.
Tuttavia l’adozione del “criterio del prezzo formale” di valutazione dei danni fece
emergere l’idea che l’azione aquiliana fosse uno strumento destinato alla reintegrazione
del patrimonio.
seguire quella dottrina che continua a pensare ad un carattere originariamente solo penale o solo
risarcitorio della disciplina aquiliana) consapevole della particolare natura (mista come poi si dirà)
della normativa in oggetto)».
198
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 872.
199
Ivi, pp. 873-874.
Ad avviso di C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., pp. 8; 76,
requisito imprenscindibile per applicabilità della lex Aquilia era la lesione del diritto del proprietario ex
iure Quiritum, unico legittimato ad agire con l’actio legis Aquiliae.
Sull’uso ed il significato dell’espressione ex iure Quiritium si veda P. CATALANO, Populus Romanus
Quirites, Torino, 1974, pp. 145-154.
200
Cfr. Gai. 3, 210; D. 9, 2, 2, 2; D. 9, 2, 27, 5.
201
D. 9, 2, 11, 6: «legis autem Aquiliae actio hero competit, hoc est domino».
202
Ad avviso di G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., pp. 873-874, sebbene il frammento ulpianeo
sia riferito al capitolo I, si giunse alla stessa conclusione in relazione al capitolo III.
Esclude invece la diversità di terminologia tra i e III capitolo A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex
Aquilia, Corso di diritto romano, cit., p. 84.
53
In connessione con questa nuova interpretazione della aestimatio aquiliana, inizia a
prospettarsi la possibilità di estendere la legittimazione attiva203 a soggetti non
proprietari che potevano anche avere sofferto un pregiudizio economico, in
conseguenza del fatto di un terzo che teneva sotto di sè dei beni che non erano di sua
proprietà o perfino persone che non erano schiave, da cui però otteneva o pensava di
ottenere qualche tipo di utilità. Inoltre, in particolare si trattava di verificare la
possibilità di estendere la tutela non solo ai titolari di diritti reali su una cosa altrui e al
possessore di buona fede, ma anche di concepire una eventuale tutela extracontrattuale
del credito, così come di porre al centro della prospettiva risarcitoria i danni sofferti da
una persona libera204.
Autorevole dottrina205 ha segnalato testimonianze che fanno risalire a Giuliano le
prime riflessioni sulla possibilità di estendere la tutela aquiliana al pater per le ferite
causate al figlio206, al comodatario207 e all’usufrutuario, essendo verosimile pensare che
si dovette porre un analogo problema in relazione al caso del liber homo posseduto in
buona fede come schiavo (al quale lo stesso Giuliano aveva riconosciuto legittimazione
passiva con riferimento al dominus apparente208).
Sebbene l’estensione della legittimazione attiva rispetto ai non proprietari si sia
potuta raggiungere facilmente concedendosi loro azioni utili (che si modellavano in
relazione alla actio directa di cui seguivano il regime), ostacolava questa soluzione la
circostanza che la legge presupponeva una aestimatio rei.
Tale ostacolo non poteva essere superato neanche con la interpretazione che portò a
liquidare il prezzo formale del bene danneggiato, e anche per essa il prezzo del corpus,
Su questo tema si veda in generale: G. VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione
del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp. 302 e ss.; ID., Dalla lex Aquilia
all’art. 2043 del Codice civile, cit., pp. 203-208.
Per approfondimenti cfr. B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., pp. 221 ss.; C. ARNÒ, Legis
Aquiliae actio directa ero competit, in BIDR, 42 (1934), pp. 195-218; A. DE MEDIO, La legittimazione
attiva nell’actio Legis Aquiliae in diritto romano classico, in Studi di diritto romano, di diritto moderno e
di storia del diritto pubblicati in onore di Vittorio Scialoja, vol. I, Milano, 1905, pp. 29 ss; C. SANFILIPPO,
Il risarcimento del danno per l’uccisione di un uomo libero nel diritto romano, in Annali del Seminario
Giuridico Università di Catania, 5 (1950-1951), pp. 118-131.
204
Cfr. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, pp. 203-204.
205
ID., Damnum iniuria datum, cit., p. 874.
206
Cfr. D. 9, 2, 5, 3; D. 19, 2, 13, 4.
207
Cfr. D. 9, 2, 11, 9.
208
Cfr. D. 9, 2, 13, 1.
203
54
cioè di quella entità su cui si doveva necessariamente sviluppare l’azione lesiva per
potersi concedere un’ actio ex lege Aquilia, era un’ entità irrinunciabile209.
In questo modo era impossibile concepire una legittimazione attiva aquiliana a
favore del pater familias o del liber homo posseduto in buona fede, per quanto ciò
avrebbe implicato esperire l’azione per danni causati a un bene non suscettibile di
valutazione economica, secondo il principio romano «liberum corpus non recipit
aestimationem»210.
Era
parimenti
impossibile
in
questa
ottica
accedere
al
risarcimento
dell’usufruttuario, comodatario, titolare di una servitù o creditore pignoratizio per i
“danni propri” sofferti, poiché, esigendo la clausola condannatoria aquiliana la
considerazione del valore totale del corpus danneggiato (ed eventualmente della causa
rei), si sarebbe giunti oltre i limiti dei propri diritti. E in verità, una cosa è il valore di
mercato del corpus (della eventuale causa rei ) e un’altra il valore del credito o la
somma capitalizzata dei frutti che si sarebbero potuti ricavare (che costituisce il “danno
proprio” di questi non proprietari)211.
Una volta sostituito il criterio della aestimatio rei con quello dell’id quod interest, la
prospettiva cambia radicalmente, non esistendo ostacoli per estendere la tutela ex lege
Aquilia ai non proprietari attraverso le azioni utili.
Giova evidenziare che le estensioni della titolarità attiva aquiliana in favore del liber
homo per lesione alla sua integrità psicofisica furono limitate alle due specifiche ipotesi
già riportate (in favore del padre per le lesioni causate al figlio e dell’uomo libero
posseduto in buona fede come schiavo), e che avevano come elemento in comune la
circostanza che per esse non era possibile agire mediante actio iniuriarum. Sebbene
questo dimostri che non esisteva un’ enunciazione di carattere generale per danni
causati alla persona del libero, ciò non ha impedito ad autorevole dottrina di affermare
che «si erano in ogni caso create le premesse per la tutela di qualunque persona libera
sui iuris»212.
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 874.
Cfr. D. 9, 1, 3; D. 9, 3, 7; D. 14, 2, 2, 2; D. 50, 17, 106; D. 50, 17, 176, 1. Sul principio si consulti C.
SANFILIPPO, Corso di Diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., pp. 112 ss.; ID., Il
risarcimento del danno per l’uccisione di un uomo libero nel diritto romano, cit., pp. 122 ss.
Recentemente è tornato sul tema A. D. MANFREDINI, “Liberum corpus nullam recepit aestimationem”.
Morte ferite cicatrici libertà arti e mestieri, in SDHI, 71 (2010), pp. 335-382.
211
G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 874.
212
ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208.
209
210
55
La progressiva estensione della tutela della legittimazione attiva è di grandissima
importanza per valutare le trasformazioni che il danno aquiliano va sperimentando, per
quanto ci conferma che la disciplina aquiliana viene vista come un mezzo per tutelare
non solo la proprietà ma anche altri diritti reali, diritti di credito, compresi alcuni danni
sofferti dalle persone libere.
Come evidenziato dal Valditara, «l’estensione della tutela ai non proprietari appare
dunque coerente con la trasformazione del rimedio aquiliano da azione volta a
proteggere la proprietà a strumento per una più ampia protezione del patrimonio. La
connessione fra criterio dell’interesse ed estensione della legittimazione ad agire
appare come una ulteriore conferma di questa chiave di lettura»213.
Da quanto sinora detto e, soprattutto, in virtù dell’idea che Ulpiano e Paolo avevano
del contenuto dell’azione aquiliana (quale risulta fra l’altro da D. 9, 2, 21, 2), l’interesse
come criterio per la stima dei danni risarcibili coincide pertanto con una
“Vermögensdifferenz”, cioè con la differenza fra quella che sarebbe stata la situazione
patrimoniale del danneggiato senza l’illecito del terzo e la situazione detereminatasi a
causa di esso.
Si può pertanto ritenere come la prospettiva tardo-classica abbia anticipato la
moderna visione risarcitoria e ben può definirsi come tendente al risarcimento del danno
effettivamente subito. Per una più piena aderenza alla concezione risarcitoria comune
alla gran parte dei moderni sistemi di diritto continentale, occorreva ancora che cadesse
il riferimento temporale della valutazione all’anno o al mese anteriori e il
condizionamento nella determinazione della stima svolto dall’avverbio plurimi.
Proprio questi due elementi impedivano in alcune circostanze di limitare la
liquidazione dei danni al pregiudizio economico realmente volto a tutelare la proprietà,
anche se si poteva insinuare l’idea che il mezzo processuale derivato dalla lex Aquilia
portasse ad una più ampia protezione del patrimonio214.
A tal proposito S. SCHIPANI, Responsabilità “ex lege Aquilia”. Criterio di imputazione e problema della
“culpa”, cit., p. 86, nt. 1, ha sottolineato accuratamente che «l’estensione della tutela aquiliana alle
lesioni al corpo di una persona libera, fa sì che ne risultino cointeressati tutti i soggetti, anche quelli
sprovvisti di patrimonio».
213
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208.
214
ID., Dall’aestimatio rei all’id quod interest l’applicazione della condemnatio aquiliana, cit., p. 87.
56
8) Il delitto di iniuria e la protezione dell’integrità psicofisica degli uomini liberi in
epoca classica
Il damnum iniuria datum originariamente faceva riferimento ad una condotta
contraria al ius, cioè ingiustificata, per acquisire più tardi una valenza soggettiva che ha
permesso di prendere in considerazione la colpa e il dolo.
Iniuria tout court indicava invece un delitto particolare, consistente in atti di diversa
natura commessi contro l’integrità fisica e morale di un essere umano215.
La differenza tra le due accezioni dello stesso termine è molto marcata, come del
resto ricordano le stessi fonti216.
La promulgazione della legge Aquilia non determinò un progresso nella tutela della
integrità psicofisica delle persone libere, poichè essa si riferiva unicamente ai danni alle
cose e considerava le persone schiave da un punto di vista di beni che avevano un
valore di mercato. Solo un processo successivo di estensione della legittimazione attiva,
significò proteggere in ipotesi determinate alcuni danni e lesioni sofferti da uomini
liberi nei limiti ristretti già analizzati.
D’altra parte, con il passare del tempo le pene stabilite nella legge delle XII Tavole
venivano considerate insufficienti217. Ciò portò il pretore a creare un’azione generale,
tendente a reprimere le lesioni o le offese alla dignità, chiamata actio iniuriarum218.
Così, in epoca classica questo delitto privato si identificava con una contumelia o
offesa219, comprendendo non solo i danni fisici, ma anche la offese alla reputazione o
E. VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1967, p. 561.
In effetti D. 9, 2, 5, 1 distingue chiaramente tra le due accezioni annotate quando segnala che «Poi qui
è necessario intendere “ingiustizia”, non, come nell’azione per atti ingiusti <contro la persona>, una
qualche offesa, ma così: ciò che è stato fatto non in conformità al diritto, è questo contro il diritto, cioè se
taluno abbia ucciso per colpa; e pertanto talvolta concorrono entrambe le azioni, sia quella della legge
Aquilia, sia quella per atti ingiusti <contro la persona>, ma due saranno le stime fatte dal giudice <del
valore dell’oggetto della lite>, una per il danno, l’altra per l’offesa. Quindi, qui intendiamo
“ingiustizia” il danno arrecato con colpa anche da colui che non voleva nuocere».
217
Si allude in questo punto alla storia del cavaliere Lucio Verazio, che secondo Gellio (Noctes Atticae,
20, 1, 13) si sarebbe divertito in giro per la città schiaffeggiando la gente, munito di una borsa di denaro
che utilizzava per pagare immediatamente la pena di 25 assi.
Per approfondimenti sul punto cfr. A. D. MANFREDINI, Quod edictum autem praetorum de aestimandis
iniuriis, in F. MILAZZO (a cura di), Illecito e pena privata in età repubblicana, cit., pp. 76 ss.; F.
CASAVOLA, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, pp. 18 ss.
218
Per ulteriori approfondimenti sull’ iniuria si consultino V. DEVILLA, Iniuria, in NSSDI, vol. VIII,
Torino, 1962, pp. 705-706; A. D. MANFREDINI, Contributi allo studio dell’ “iniuria” in età repubblicana,
Milano, 1977; M. MARRONE, Considerazioni in tema di “iniuria”, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz,
vol. I, Napoli, 1964, pp. 475-485.
215
216
57
all’onore di una persona. In quest’epoca il delitto di iniuria comprende qualsiasi offesa
all’integrità morale di una persona libera, della sua buona fama, onore, dignità o onestà,
con parole, azioni e anche con lesioni fisiche dirette all’offesa220.
In questo senso in D. 47, 10, 1, 2 è contenuto un frammento ulpianeo che stabilisce:
«Omnemque iniuriam aut in corpus inferri, aut ad dignitatem, aut ad
infamiam pertinere; in corpus fit, quum quis pulsatur, ad dignitatem,
quum comes matronae abducitu, ad infamiam quum pudicitia
attentatur»221.
L’album pretorio conteneva cinque precetti sulla materia: un edictum generale222,
che tipicizzava genericamente l’iniuria e quattro precetti che regolavano iniuria
speciali.
Gli appositi editti che regolavano le iniuriae speciali erano i seguenti223:
a) l’editto relativo al convicium adversus bonos mores, cioè il riunirsi in gruppo o
presentarsi qualcuno da solo davanti alla dimora di un’altro per offenderlo e insultarlo a
voce alta e con gesti224;
In questo senso si veda D. 47, 10, 1. pr.: «Iniuria ex eo dicta est, quod non iure fiat: omne enim, quod
non iure fit, iniuria fieri dicitur. hoc generaliter. Specialiter autem iniuria dicitur contumelia. interdum
iniuriae appellatione damnum culpa datum significatur, ut in lege Aquilia dicere solemus: interdum
iniquitatem iniuriam dicimus, nam cum quis inique vel iniuste sententiam dixit, iniuriam ex eo dictam,
quod iure et iustitia caret, quasi non iuriam, contumeliam autem a contemnendo».
Trad.: «Iniuria è detto così dal perchè una cosa si fa non iure, perchè tutto ciò che si fa non legalmente,
si dice farsi non iure; e questo in generale. Con ispecialità poi una contumelia si dice ingiuria; talvolta
col nome d’ingiuria si accenna ad un danno cagionato con colpa, come sogliamo dire nella legge
Aquilia. Talvolta una iniquità la diremo ingiuria; perchè, quando uno iniquamente o ingiustamente
profferì sentenza, dicesi ingiuria, da che è privo di diritto e di giustizia, come se dicesse non iuria:
contumelia poi deriva a contemnendo».
220
Il contenuto della iniuria si ricava dalla lettura di Gai. 3, 220, frammento in cui è segnalato che la
iniuria (offesa alle persone) si commette non solo quando si colpisce qualcuno con il pugno o con un
bastone o quando flagellato, ma anche quendo si insulta qualcuno, e se qualcuno abbia pubblicamente
notificato i beni di un altro come debitore pur sapendo che quello nulla gli doveva, o se uno abbia scritto
un libello o una poesia per infamare un altro, o se uno abbia assiduamente seguito una madre di famiglia
o un adolescente, e, in fine, di altri molti modi.
221
Trad. «Ogni ingiuria poi o si usa al corpo o è relativa alla dignità o alla infamia. Si fa al corpo,
quando uno viene percosso. Alla dignità quando ad una matrona si toglie il codazzo; alla infamia,
quando si attenta alla pudicizia».
222
In D. 47, 10, 7 pr. si afferma che: «Praetor edixit: ‘qui agit iniurarium, certum dicat, quid iniuriae
factum sit’: quia qui famosam actionem intendit, non debet vagari cum discrimine alienae existimationis,
sed designare et certum specialiter dicere, quam se iniuriam passum contendit».
Trad.: «Il pretore ordinò; chi agisce per ingiurie, dica determinatamente quale ingiuria si fece, perchè
chi intenta un’azione infamante non deve vagamente col pericolo della stima altrui, ma designare e
specificatamente dire quale ingiuria sostiene di aver sofferto».
223
Cfr. A. BURDESE, Manuale di diritto romano, cit., p. 526.
224
Gai. 3, 220; D. 47, 10, 15, 2.
219
58
b) l’editto de adtemptata pudicitia, il quale reprimeva l’attività diretta a far
commettere a taluno atti contrari alla purezza dei costumi, soprattutto nei confronti di
donne sposate e di minori;
c) l’editto ne quid infamandi causa fiat, relativo alla diffamazione di parola o di
azione225;
d) l’editto relativo alle condotte di frustare un servo altrui, sottometterlo a tormenti
(questio) o vessarlo in altro modo senza autorizzazione del suo padrone226.
Nell’edictum generale si includevano condotte come: colpire con il pugno o con
qualche strumento, frustare, insultare, divulgare il fatto che si siano venduti i beni di
qualcuno in subasta pubblica senza che il danneggiato sia debitore del diffamatore (Gai.
3, 220).
Ritroviamo altresì il chiedere a qualcuno di vessarlo (D. 47, 10, 13, 3); impedirgli
l’ingresso in luogo pubblico come un teatro o il suo uso, come pescare in acque
pubbliche (D. 47, 10, 13, 7); chiedere ai «fideiussores» quando il debitore è disposto a
pagare il debito (D. 47, 10, 19); fare sigillare la casa di un debitore assente (D. 47, 10,
20); rincorrere un uomo libero come se fosse uno schiavo fuggitivo (D. 47, 10, 22);
entrare in una casa altrui contro la volontà del suo padrone (D. 47, 10, 23); dirigere fumi
contro la casa del vicino per vessarlo (D. 47, 10, 44); stracciare i vestiti di qualcuno (D.
47, 10, 9, pr.).
Inoltre possono costituire iniuria le lesioni fisiche, come una ferita o una
mutilazione e anche la morte, se furono inferte vessatoriamente. Labeone (D. 47, 10,
11) distingue tra iniuria re (quando si usarono le mani) e verbis (quando si usarono le
parole).
Occorre poi considerare che gli editti particolari si sarebbero conservati in epoca
classica per la semplice forza della tradizione, dovuta al fatto che il concetto di iniuria
avrebbe raggiunto attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, «un’estensione
talmente ampia da ricomprendere in generale ogni ipotesi di lesione della personalità
anche morale o sociale altrui (contumelia)»227.
La iniuria, seguendo la regola generale, era un delitto doloso, però si richiedeva
un elemento soggettivo particolare e specifico: l’animus iniuriandi (o iniuriae
225
D. 47, 10, 25-33.
D. 47, 10, 34-49.
227
A. BURDESE, Manuale di diritto romano, cit., p. 527.
226
59
faciendae)228. In tale modo non si configura la iniuria quando qualcuno aveva dato un
colpo a un altro per scherzo229 o nel mezzo di una gara di lotta230 o quando qualcuno
aveva creduto che il colpito era uno schiavo proprio senza esserlo veramente o per
incidente231.
Aspetto imprescindibile è il fatto che l’iniuria poteva essere arrecata al
danneggiato non solo direttamente ma anche indirettamente, per mezzo di un’azione che
colpiva una persona sottoposta al suo potere come quando si colpisce il figlio, la moglie
o uno schiavo232, rispetto a cui (tranne l’ultima ipotesi) l’azione sorgeva pure in favore
del diretto danneggiato.
L’iniuria poteva essere aggravata (iniuria atrox) sia in relazione al fatto (ex facto),
come quando la persona è ferita o azzoppata, sia in relazione al luogo (ex loco), quando
si verifica a teatro o nel foro; sia in riferimento allo status della persona, come quando si
colpisce un senatore, o un uomo di riconosciuta autorità (Gai. 3, 225)233.
Sebbene le azioni classiche della iniuria fossero onorarie234, il delitto in sé
continuò ad essere considerato come civile. Tutte le figure specificate nell’editto del
pretore (cioè l’edicto generale e gli editti particolari) furono raggruppati sotto il nome
comune di actio iniuriarum.
Legittimato attivo per l’esercizio di questa azione è quello che ha subito l’iniuria,
sia sulla sua stessa persona (proprio nome), sia nella persona di altro, ma in maniera tale
che costituisca iniuria per lui (alieno nomine), senza escludere che colui che subì
228
Così si stabilisce in D. 47, 10, 3, 1-2.
D. 47, 10, 3, 3.
230
D. 47, 10, 3, 4.
231
D. 47, 10, 4.
232
Gai. 3, 221: «Pati autem iniuriam videmur non solum per nosmet ipsos, sed etiam per liberos nostros
quos in potestate habemus; item per uxores nostras, quamvis in manu nostra non sint. Itaque si filiae
meae quae Titio nupta est iniuriam feceris, non solum filiae nomine tecum agi iniuriarum potest, verum
etiam meo quoque et Titii nomine».
Trad.: «Si considera che soffriamo ingiuria, non solo direttamente, ma anche tramite i nostri discendenti
che abbiamo in potestà; e, analogamente, tramite le nostre mogli, anche se non siano in nostra mano.
Pertanto, se avrai recato ingiuria a mia figlia sposata a Tizio, non solo si può agire contro di te per
ingiurie a nome della figlia, ma anche a nome pure mio e di Tizio»
Cfr. anche D. 47, 10, 1, 3; D. 47, 10,1, 9.
233
D. 47, 10, 7, 8.
234
Onorario è sinonimo di pretorio. Cfr. D. 1, 1, 7, 1: «Ius praetorium […] et honorarium dicitur ab
honore praetorem sic nominatum».
229
60
direttamente la iniuria possa, a sua volta, agire proprio nomine235. Soggetti passivi sono
colui o coloro che recano iniuria, i suoi complici ed istigatori236.
Un aspetto nuovo e importante è che l’offeso faceva da solo o direttamente la
valutazione dell’ammontare del risarcimento pecuniario, che poteva o non poteva essere
accettata dal giudice, che alla fine fissava l’ammontare della pena arbitrariamente, con
la formula di «quanto (denaro) sembrasse buono ed equo»237, con riferimento al tempo
in cui fu commesso il delitto238, per cui questa azione si chiama aestimatoria.
La valutazione della pena non si poteva riferire a un danno materiale, neppure
quando si trattava di lesione corporale, giacchè l’integrità fisica di una persona libera,
come la sua stessa libertà, è qualcosa di inestimabile, ma doveva essere riferita
all’offesa morale prodotta da iniuria (contumelia), e in conseguenza che si aumentasse
la valutazione in proporzione alla dignità della vittima o alla gravità dello scandalo.
Sul versante passivo questa azione era intrasmissibile (come la generalità delle
azioni penali), al pari di quanto avveniva dal punto di vista della titolarità attiva, perchè
si trattava di quelle azioni che gridavano vendetta (vindictam spirantes), stando alla
terminologia usata dai commentatori del sec. XIV239.
Inoltre, l’azione si estingueva quando c’era stato un patto remissorio o di
transazione tra le parti, così come quando l’offesa era stata perdonata (dissimulatio)
dalla vittima240.
235
Al riguardo si vedano D. 47, 10, 1, 9 e D. 47, 10, 41.
Cfr. D. 47, 10, 11 pr.: «Non solum is iniuriarum tenetur, qui fecit iniuriam, hoc est qui percussit,
verum ille quoque continetur, qui dolo fecit, vel qui curavit, ut qui mala pugno percuteretur».
Trad.: «Non solo è tenuto d’ingiurie colui che commise ingiuria, cioè colui che percosse, ma vi si
comprende anche colui che dolosamente fece, o chi procurò che alcuno fosse percosso alla faccia col
pugno».
237
D. 47, 10, 17, 5.
238
D. 47, 10, 21.
239
Ad avviso di C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., p. 84,
siffatta particolarità si spiega dal momento che, «secondo la concezione romana, l’actio iniuriarum
mirava più ad una riparazione morale che non ad un arricchimento patrimoniale; tendeva più ad una
soddisfazione intimamente personale dell’offeso per l’ingiuria patita, che non ad un vantaggio per il suo
patrimonio».
240
D. 47, 10, 11, 1: «Iniuriarum actio ex bono et aequo est et dissimulatione aboletur. Si quis enim
iniuram dereliquerit, hoc est statim passus ad animum suum non revocaverit, postea ex paenitentia
remissam iniuriam non poterit recolere. secundum haec ergo aequitas actionis omnem metum eius
abolere videtur, ubicunque contra aequum quis venit. proinde et si pactum de iniuria intercessit et si
transactum et si iusiurandum exactum erit, actio iniuriarum non tenebit».
Trad.: «L’azione di ingiurie è secondo il buono e l’equo, e colla dissimulazione viene abolita: perchè se
uno abbia abbandonata l’ingiuria, cioè tosto che la soffrì non dimostrò risentimento, poscia per
pentimento non potrà suscitare la rimessa ingiuria. Secondo ciò dunque l’equità sembra a coloro togliere
ogni timore dell’azione, ovunque uno viene contro dell’equità a dolersi. Quindi anche se vi sarà stato
giuramento, l’azione d’ingiurie non terrà».
236
61
9) Il danno aquiliano nel diritto giustinianeo.
L’evoluzione dalla disciplina aquiliana nel diritto romano classico permise, sia
mediante l’azione civile della legge Aquilia sia mediante quella delle azioni in factum
(e/o utili, per altri), di fare rispondere del danno (inteso come pregiudizio patrimoniale)
causato, direttamente o indirettamente, con un comportamento doloso o colposo241.
Nei Digesta la costruzione del libro D. 9 ruota intorno al titolo sulla legge Aquilia,
dove è contenuto il riferimento alla colpa secondo la famosa definizione di Quinto
Mucio:
D. 9, 2, 31: «Si putator ex arbore ramum cum deiceret vel machinarius
hominem praetereuntem occidit nec ille proclamavit, ut casus eius evitari
possit. Sed Mucius dixit, etiam si in privato idem accidisset, posse de
culpa agi: culpam autem esse, quod cum a diligente provideri poterit, non
esset provisum aut tum denuntiatum esset, cum periculum evitari non
possit. Secundum quam rationem non multum refert, per publicum an per
privatum iter fieret, cum plerumque per privata loca volgo iter fiat. Quod
si nullum iter erit, dolum dumtaxat praestare debet, ne immittat in eum,
quem viderit transeuntem: nam culpa ab eo exigenda non est, cum
divinare non potuerit, an per eum locum aliquis transiturus sit»242.
Le tematiche della remissio iniuriae e della dissimulatio saranno alla base di una copiosa letteratura
(civilistica e canonistica) in età medievale. Sul punto si rinvia a H. DONDORP, Remissio Iniuriae, in R. H.
HELMHOLZ – P. MIKAT – J. MÜLLER – M. STOLLEIS (a cura di), Grundlagen des Rechts. Festschrift für
Peter Landau zum 65. Geserbustag, Paderborn – München – Wien – Zürich, 2000, pp. 655-675.
241
In tale senso vedi B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia, cit., p. 183, dove indica che la nozione di
danno aquiliano «si trova, in conseguenza, alla fine dell’età classica, già pronta alla rielaborazione che,
incompletamente e dato il sistema e i fini del loro lavoro, operarono già i compilatori giustinianei; e che,
più compiutamente e soprattutto più liberamente, si venne operando nell’interpretazione medievale e
moderna, allorchè si rinunziò, anche formalmente, alla fedeltà agli schemi interpretativi romani. Tale
rielaborazione, di cui, ripetiamo, tutti i dati fondamentali sono già presenti nell’interpretazione classica,
conduce ad una nozione generalissima di danno, inteso come pregiudizio patrimoniale in qualunque
modo arrecato».
242
Trad.: «Se un potatore lasciando cadere un ramo dall’albero, o un operaio <lasciando cadere
qualcosa da una impalcatura>, uccide un servo che passa, è tenuto così, se tagli in luogo pubblico né
gridò in modo che potesse essere evitato l’oggetto che cadeva. Ma <Quinto> Mucio disse che si poteva
agire per la colpa anche se fosse accaduta la stessa cosa in luogo privato: infatti, è colpa non aver
provveduto a ciò che da una persona diligente si sarebbe potuto provvedere, od aver avvisato, quando
<ormai> il pericolo non poteva essere evitato. Secondo questa ratio non interessa molto se uno passasse
in luogo pubblico o privato, poiché spesso comunemente si passa per luoghi privati. Se non vi era alcun
passaggio, dovrà rispondere solo per dolo, cioè di non far cadere apposta su colui che abbia visto che sta
passando: infatti, rispetto a lui non si deve pretendere <che sia tenuto per> la colpa <cioè per non aver
provveduto o avvisato>, poiché non avrebbe potuto indovinare se per quel luogo sarebbe passato
qualcuno».
62
Avendo come punto di riferimento il criterio: «culpa autem esse, quod a diligenti
provideri poterit non esset provisum aut tum denuntiatum esset» (è colpa non aver
provveduto a ciò che da una persona diligente avrebbe potuto provvedere, od aver
avvisato), viene operata la selezione e interpretazione dei contributi dei giuristi classici,
concorrendo così in modo determinante all’ulteriore superamento della tipicità delle
condotte prese in considerazione.
La richiamata definizione di Quinto Mucio, posta al centro del titolo del Digesto,
indica il dovere di “providere” che significa sia “prevedere”, sia “provvedere”, cioè,
anche senza aver concretamente previsto, osservare quelle regole di diligenza, perizia,
prudenza ecc. che sono maturate per le varie circostanze al fine di evitare che dalle
condotte umane derivino effetti nocivi. In altre parole, si ascrivono a colpa l’imperizia,
la negligenza, l’imprudenza, la inosservanza di norme la cui inosservanza per lo più di
per sé non comporta una propria sanzione, ma quando da tale inosservanza derivi un
danno, una lesione, una offesa.
Nelle Istituzioni di Giustiniano la colpa è esaminata in I. 4, 3, 4-8, da cui risulta una
nozione di culpa quale condotta volontaria che viola delle norme per cui è direttamente
riprovevole, secondo una prospettiva più ampia di quella di negligenza o imprudenza243.
Con riferimento più specifico all’imputazione soggettiva, Schipani ha approfondito
l’esame dei rapporti fra culpa et iniuria, in relazione a I. 4, 3, 2-3, affermando che: «il
concetto di iniuria viene spiegato e poi semplificato; la spiegazione è del tutto generale:
essa viene puntualizzata sul profilo del nullo iure agere, e l’esempio conferma e precisa
la portata di questa indicazione rifacendosi alla legittima difesa, la più tipica delle
scriminanti». Egli rileva che allorchè «si introduce il casus come ipotesi di esclusione
della responsabilità, non vi è dubbio che ci troviamo al di fuori della precedente analisi
del concetto di iniuria» e che «secondo questo schema espositivo, il dolo e la colpa si
pongono come indipendenti dal requisito dell’iniuria posto dalle parole della legge;
unico punto di contatto è la rilevanza:tenetur – non tenetur. La culpa poi si presenta
come un’ipotesi in cui, pur essendosi l’evento verificato casu, impedisce che si
concluda che non tenetur. Emerge quindi la contrapposizione tra casus e dolo: per dolo
In tal senso cfr. S. SCHIPANI, Analisi di culpa in J. 4,3, ora in ID., Contributi romanistici al sistema
della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 89-101.
243
63
si risponde sempre; quando invece l’evento si verifica casu bisogna accertare se vi sia
stata o no culpa»244.
Quanto alla nozione del danno aquiliano risarcibile, la compilazione giustinianea
continua a concepirlo fondamentalmente come pregiudizio di contenuto patrimoniale.
Prova di ciò si riscontra, per esempio, in D. 9, 2, 27, 17 dove, regolando l’ipotesi di
lesione corporale di uno schiavo che non si traduce in una diminuzione del suo valore,
si ammette solo il risarcimento delle spese fatte «per la sua guarigione», e datone il
carattere di entità economica245, ciò era costitutivo, come è detto, di danni patrimoniali
indiretti.
In ordine alle categorie dei danni risarcibili in diritto giustinianeo, possiamo dire che
sebbene si accetti pacificamente il risarcimento del danno emergente e del lucro
cessante246, vi sono delle discussioni per quelli che vengono chiamati (con terminologia
moderna) danni morali, poichè, se da una parte si afferma che «la sofferenza
psicologica così come del resto la sofferenza fisica non vennero mai prese in
considerazione nell’ambito del damnum iniuria datum»247 altri difendono la risarcibilità
di questo diritto248.
Nel Codex la trattazione della lex Aquilia è contenuta nel libro III, titolo 35,
contenente solamente sei frammenti.
Grande novità attribuita a Giustinano è la concessione di un’azione utile a tutti gli
uomini liberi per le ferite causate al corpo249. Così risulta da D. 9, 2, 13 pr.:
«Liber homo suo nomine utilem aquiliae habet actionem: directam enim
non habet, quoniam dominus membrorum suorum nemo videtur. Fugitivi
autem nomine dominus habet»250.
ID., Pluralità di prospettive e ruolo della culpa come criterio elaborato dalla scienza del diritto
nell’interpretazione della lex Aquilia, cit., p. 55.
245
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., p. 201, dove precisa che la
identificazione del damnum con un pregiudizio di natura patrimoniale non soffre alterazione con
Giustiniano «che pur adotta una versione alterata del citato passo di Ulpiano (D. 9, 2, 27, 17) e liquida,
non è chiaro se per ragioni umanitarie o se per una più attenta considerazione delle operae servorum e
dunque dell’utilità economica del servo provvisoriamente pregiudicata, le spese fatte in salutem eius et
sanitatem; in queste entità economiche Giustiniano ravvisa ora il danno».
246
In tal senso ID., Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 20.
247
Ivi, p. 201.
248
Ad esempio U. RATTI, Il risarcimento del danno nel diritto giustinianeo, in BIDR, 40 (1932), p. 189.
F. M. DE ROBERTIS, Sulla risarcibilità del danno morale nel diritto giustinianeo, ora in ID., Scritti varii di
diritto romano, vol. I, Bari 1987, pp. 515-516.
249
Cfr. G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208; ID., Superamento
dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini, cit., pp.
422 ss.
244
64
In ogni caso, va considerato che non era prevista un’azione per la morte di una
persona libera, dato che scomparendo il possibile titolare di questa «non poteva sorgere
in capo ad alcuno nè poteva trasmettersi agli eredi»251.
D’altra parte, Giustiniano si incaricó di ripetere che la actio legis Aquiliae
presupponeva l’esistenza di un damnum corpore corpori datum252. In I. 4, 3, 16 concede
azioni utili contro chi abbia causato danno in assenza del primo requisito (cioè del
corpore).
La portata rivoluzionaria del contributo giustinianeo è comunque la previsione di
un’azione in factum in generale. L’imperatore dispose che nel caso in cui il danno non
fosse stato causato direttamente (corpore) nè mediante una lesione all’integrità fisica di
un bene (corpori), ma in qualche «altro modo», sarebbe stata concessa un’actio in
factum generale contro il colpevole.
Ecco quanto indicato in I. 4, 3, 16:
«Ceterum placuit, ita demum ex hac lege actionem esse, si quis praecipue
corpore suo damnum dederit. Ideoque in eum qui alio modo damnum
dederit, utiles actiones dari solent: veluti si quis hominem alienum aut
pecus ita incluserit ut fame necaretur, aut iumentum tam vehementer
egerit ut rumperetur, aut pecus in tantum exagitaverit ut praecipitaretur,
aut si quis alieno servo persuaserit ut in arborem ascenderet vel in puteum
descenderet, et is ascendendo vel descendendo aut mortuus fuerit aut
aliqua parte corporis laesus erit, utilis in eum actio datur. Sed si quis
alienum servum de ponte aut ripa in flumen deiecerit et is suffocatus
fuerit, eo quod proiecerit corpore suo damnum dedisse non difficiliter
intellegi poterit ideoque ipsa lege Aquilia tenetur. Sed si non corpore
damnum fuerit datum neque corpus laesum fuerit, sed alio modo damnum
alicui contigit, cum non sufficit neque directa neque utilis Aquilia, placuit
eum qui obnoxius fuerit in factum actione teneri: veluti si quis,
misericordia ductus, alienum servum compeditum solverit, ut fugeret»253.
Trad.: «Un uomo libero, in proprio nome <per un danno a lui arrecato>, ha l’azione della legge
Aquilia in via utile: infatti egli non ha l’azione diretta, poiché nessuno si considera proprietario delle sue
membra. Il padrone, invece, ha <l’azione in base alla legge Aquilia> in nome di un servo fuggitivo».
251
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208.
Ad avviso di A. MARCHI, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto romano, in BIDR, 16
(1904), p. 234, l’actio utilis per danni causati alla persona dell’uomo libero si concedeva solo in caso di
lesioni e non già in caso di morte.
252
La convinzione, largamente condivisa dalla dottrina romanistica, che i giuristi romani avessero
elaborato un’idea assolutamente materialistica del nesso di causalità, basata sul contatto fisico tra
soggetto agente e res danneggiata, è stata messa in crisi recentemente da I. PIRO, Damnum “corpore suo”
dare. Rem “corpore” possidere: l’oggettiva riferibilità del comportamento lesivo e della possessio nella
riflessione e nel linguaggio dei giuristi romani, Napoli, 2004.
253
Trad.: «Si reputò peraltro che in base a detta legge ci fosse azione solo se uno avesse arrecato il
danno principalmente col suo corpo. Di conseguenza, contro colui che abbia cagionato il danno
250
65
A sua volta D. 9, 2, 33, 1, frammento ritenuto opera dei compilatori, ripete che: «In
damnis, quae lege Aquilia non tenentur, in factum datur actio»254.
Con Giustiniano si abbandonava il sistema classico di concessione di azioni in
factum particolari, e veniva concessa una actio in factum generalis; in questo modo la
actio in factum cessava di essere concepita come una azione decretale255 e si
trasformava in un «rimedio di natura generale, integrativo per tutte quelle ipotesi in cui
non risultasse applicabile un’azione aquiliana, era dunque ufficialmente attratta nel
contesto aquiliano, venendo in sostanza assimilata all’azione di legge di cui
rappresentava lo strumento integrativo e complementare»256.
Per capire questa grande innovazione si deve considerare il riconoscimento che
contemporaneamente si faceva dell’actio legis Aquilia (e quindi delle azioni utili e in
factum che rapresentavano la sua estensione) come azione essenzialmente
reipersecutoria (almeno rispetto alla sua finalità, che non era altro che ottenere il
risarcimento del danno)257.
diversamente sogliono darsi delle azioni utili: ad esempio, se uno avesse rinchiuso l’uomo o la bestia
altrui perchè morisse di fame, o avesse così violentemente incalzato un giumento da farlo scoppiare, o
avesse tormentato una bestia al punto di farla precipitare, o se uno avesse indotto il servo altrui a salir
su un albero o a discendere in un pozzo, e quello, salendo o scendendo, fosse morto o si fosse fatto male
in qualche parte del corpo, si dà contro di lui un’azione utile. Ma se uno avesse da un ponte o da una
riva gettato in un fiume un servo altrui, e questo fosse affogato, non sarà difficile poter capire che, in
quanto l’aveva buttato giù, gli aveva cagionato il danno col suo corpo, per cui risponde in base alla
legge Aquilia direttamente. Se viceversa il danno non sia stato arrecato col corpo, nè un corpo sia stato
leso, ma uno abbia avuto danno in un modo, poiché in tal caso non è sufficiente nè l’Aquilia diretta nè la
utile, si è ritenuto che il colpevole debba rispondere in base ad un’azione in rapporto al fatto: ad
esempio nel caso di chi, mosso da pietà, abbia slegato l’altrui servo in ceppi, perché fuggisse».
254
Trad.: «Per i danni per i quali non si è tenuti in base alla legge Aquilia, si può dare l’azione modellata
sul fatto».
255
Cioè concessa di volta in volta sulle caratteristiche del caso concreto.
256
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 192.
G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto
Commerciale, 14 (1916), p. 951, ha notato che «per i bizantini quest’azione in factum, pur essendo per
necessità sistematiche strettamente collegata all’a. l. Aquiliae da cui prende il nome è nella realtà
un’azione generale diretta a ottenere il risarcimento del danno […] con funzione integratrice e
sussidiaria di fronte ai singoli rimedi specifici, sia l’a. l. Aquiliae (diretta od utile) siano altri d’altra
natura e su presupposti diversi».
257
In questo senso M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 533.
Cfr. anche G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del codice civile, cit., pp. 199-200, secondo cui
«si potrebbe pertanto concludere che la finalità dell’azione era quindi ormai risarcitoria; la penalità
dell’azione era piuttosto conservata unicamente nel carattere, pur se anche qui la funzione risarcitoria
aveva portato a significativi temperamenti. Così persisteva la solidarietà cumulativa in modo che quod
alius praestitit alium non relevat, la nossalità, peraltro legata al regime schiavista destinato ad
estinzione, e la intrasmissibilità passiva, pur ormai derogata dal principio dell’esperibilità nei limiti
dell’arricchimento e con la disponibilità ad ammettere la trasmissibilità ove fossero venuti meno i
caratteri legati all’infitiatio e al plurimi. Per concludere, la natura penale dell’azione appare con
Giustiniano poggiare ormai solo sul “ramo secco” rappresentato essenzialmente dalla presenza del
66
In questo modo l’actio in factum generale di origine giustinianea, fu lo strumento
che permise di infrangere la tipicità dell’illecito aquiliano. In essa affonda le proprie
radici la non tipicità dell’atto illecito sancita in molti codici attualmente vigenti258, ed è
per questo che «si continua ancor oggi a parlare di danno aquiliano e di responsabilità
aquiliana»259.
Soltanto le Istituzioni di Giustiniano, depositarie della tradizione giurisprudenziale
classica, tentano di risistemare la complessa materia secondo una logica che conserva le
forme classiche a sostanzialmente corrisponde all’elaborazione bizantina. Ne risulta un
quadro in cui emerge l’azione generale posta a tutela di ogni tipo di danneggiamento.
Siffatta costruzione di strumenti di tutela generali «favorisce l’assorbimento entro
schemi più fluidi dei rimedi classici tipici, anticipando la tendenza successiva alla
costruzione di clausole generali di responsabilità»260.
La persistenza in sede privata di azioni come l’actio furti, l’actio de effusis vel
deiectis261, l’actio de pauperie, etc. era un forte limite alla conquista della piena atipicità
e alla costruzione di una categoria unitaria del fatto illecito.
Le offese all’onore o i furti, non avevano una rilevanza autonoma nella concezione
aquiliana, e non erano comunque risarcibili i danni derivati dalla morte di una persona
libera per la impossibilità di individuare un soggetto a cui attribuire la titolarità
dell’azione262.
Tutto questo non diminuisce la grande importanza che, come si è visto, ebbe il
diritto giustinianeo nella evoluzione della disciplina aquiliana.
plurimi, tagliato il quale anche il carattere penale del rimedio sarebbe venuto meno, come già
l’imperatore in I. 4, 3, 9 bene dimostrava di intendere».
258
Così per esempio M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 133, e G. VALDITARA, Dalla lex
Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 193, che cita in proposito l’art. 1382 del Code Napoléon,
l’art. 2043 del c.c. vigente e l’art. 1151 del codice Pisanelli del 1865.
259
M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 133.
260
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., p. 91.
261
Per questa azione cfr. F. SERRAO, La responsabilità per fatto altrui in diritto romano, ora in ID.,
Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989, pp. 98-99, e S. SCHIPANI, Il
contributo dell’edictum de his qui deiecerint vel effunderint e dell’edictum ne quis in suggrunda ai
principi della responsabilità civile dal Corpus iuris ai codici civili europei e latinoamericani, ora in ID.,
Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 105-109.
262
G. VALDITARA, Dalla lex Aquilia all’art. 2043 del Codice civile, cit., p. 208.
67
9.1) (segue) Il delitto di iniuria in età post-classica e giustinianea.
Nelle Institutiones di Giustiniano (I. 4, 1-4) vengono trattate le quattro fattispecie di
delitto, fonte di obbligazione, già esaminate da Gaio, vale a dire il furto, la rapina, il
damnum iniuria datum e le lesioni e offese ingiustificate alle persone (iniuriae).
Nei Digesta vediamo però anche la costruzione del libro 9 che comporta una rottura
rispetto al quarto delle serie delitti privati che Gaio e Giustiniano avevano elencato
(furto, rapina, danno, iniuria). Il danno arrecato senza giustificazione previsto dalla
legge Aquilia, viene a costituire il nucleo di una composizione nuova, che include il
danno arrecato da animali, il danno arrecato da persone che sono sotto la sorveglianza o
direzione di altri, il danno per cose che cadono da una cosa. Da ciò si potrebbe dedurre
una apertura verso una prospettiva che cancelli il carattere penale e che, quindi, può
anche svolgersi come puramente risarcitoria del danno, con tutto il mutamento di
impostazione che ciò può comportare.
È stato puntualmente sottolineato come l’unità dei delitti privati e delle fattispecie
assimilate, presente nelle istituzioni di Giustiniano e mutuata da Gaio, si spezza invece
nei Digesta, dove il furto, la rapina e l’iniuria sono attratti entro un quadro di coerenze
che accentua il profilo della riprovevolezza sociale e concorrono a formare un blocco di
materia costituito dai libri D. 47-48, libri in cui i predetti delitti privati vengono
affiancati ai delitti pubblici (crimina), costituendo il nuovo e articolato del diritto
penale263. Il quarto delitto, vale a dire il damnum iniuria datum viene invece a costituire
il nucleo del libro D. 9.
Per quanto riguarda la valutazione in rapporto alla categoria romana del delitto, e
della correlativa pena privata, essa include la tutela di cose e persone, e queste ultime
non per la loro rilevanza patrimoniale, ma per la loro rilevanza personale, da valutare
secondo ciò che è buono ed equo con riferimento al delitto di lesione e all’offesa
ingiustificata alla persona.
Quanto al delitto di iniuria, invece, occorre ricordare che in età post-classica e
giustinianea assieme alla condanna nel privato dell’iniuria, vi fu anche la condanna
pubblica regolata da una legge di Silla (Lex Cornelia de iniuriis, 81 a. C.), di cui si
In tal senso S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: prospettive sistematiche del diritto romano e
problematiche della responsabilità extracontrattuale, cit., p. 147.
263
68
discorre in D. 47, 10, 5, e relativa ai casi di pulsatio, verberatio e di ingresso violento
nella casa altrui264.
In età postclassica prevarrà questo punire pubblicamente l’iniuria265. Giustiniano, da
parte sua, lascia la scelta tra i due tipi di condanna266. A questo proposito bisogna tenere
presente che con il procedimento penale imposto dalla legge di Silla si pretende
l’imposizione di una pena fisica al reo, mentre con la actio iniuriarum si tendeva alla
condanna ad una pena pecuniaria in favore delle vittime.
Alla luce di quanto esposto, possiamo notare che dall’epoca imperiale (più
particolamente da Diocleziano) il diritto romano estende nuovamente il concetto
d’iniuria, giungendo sia ad includere le più lievi lesioni fisiche che le violazioni minori
dei diritti della personalità, essendo perseguiti penalmente extra-ordinem.
Conclusioni
La disamina storica dalle XII Tavole alla compilazione Giustinianea, ha mostrato
una contrapposizione tra delitti privati (delicta) e delitti pubblici (crimina).
Sotto la categoria dei delitti privati in diritto romano sono stati raggruppati diverse
fattispecie quali il furto, il taglio degli alberi, le lesioni personali e le offese
ingiustificate alla persona, il danno arrecato da animali, le ipotesi di danneggiamenti poi
in parte abrogate e sostituite dalla lex Aquilia sul danno ingiustificato e la rapina.
In riferimento D. 47, 10, 5, pr. stabirisce che: «la legge Cornelia sulle ingiurie compete a colui il quale
vorrà agire d’ingiurie per il [nel testo originario del Vignali è “lo”] motivo che dice di essere stato
battuto o percosso e di essersi con violenza entrato in sua casa. Colla quale legge viene disposto, che non
giudichi colui il quale a quello che agisce sia genero, o suocero, padrigno, figliastro, o consobrino, o che
toccherà più da vicino alcuno di coloro in tale parentela od affinità, o chi di essi sarà patrono di lui e del
suo genitore. Sicchè la legge Cornelia diede l’azione per tre motivi, perchè uno sia stato battuto o
percosso, o perchè si entrò nella sua casa con violenza. Apparisce dunque che ogni ingiuria la quale si
faccia con mano, contengasi nella legge Cornelia».
265
A. BURDESE, Manuale di diritto romano, cit., p. 528.
266
In tale senso, cfr. I. 4, 4, 10: «Bisogna infine sapere che per ogni ingiuria chi l’ha subita può agire o
in penale o in civile. E se agisca civilmente, fatta la stima secondo il già detto, si fissa la pena. Se invece
agisca penalmente, si irroga al colpevole una pena fuor del sistema, che rientra nei poteri del giudice:
nel rispetto, si capisce, del criterio introdotto dalla costituzione di Zenone (C. 9. 35. 11 del 478), per cui
gli uomini della categoria degli illustri e quelli più in su possono, a norma del suo tenore che dalla stessa
più chiaramente appare, muovere o subire in sede penale un’azione per ingiurie anche tramite
procuratori».
264
69
Trattasi di categoria distinta da quella dei delitti pubblici (crimina)267 come ad
esempio il danneggiamento notturno, l’incendio delle messi, l’omicidio, la sovversione
dell’ordine costituito ecc.
Nucleo comune ai delitti privati fu la lesione, per dolo o colpa, senza cause di
giustificazione, di beni giuridici di natura ora patrimoniale ora personale, lesione
sanzionata attraverso l’utilizzazione dell’obbligazione pecuniaria.
Rispetto al passato abbiamo assistito ad un mutamento sanzionatorio giacché esso
non consisteva più nella morte o in una sofferenza fisica inflitta al reo dalla lesione.
La composizione pecuniaria e l’estizione di responsabilità da parte del reo in
origine era volontaria, come risulta dalla legge delle XII Tavole, mentre
successivamente assunse carattere coercitivo ed obbligatorio per legge.
Caratteristiche dell’obbligazione pecuniaria furono268:
a) la determinazione della somma di denaro dovuto sulla base di parametri
rapportati all’interesse e al danno e, nelle lesioni ingiustificate alla persona, al buono e
l’equo in funzione della corretta e attenta parità di trattamento;
b) la solidarietà cumulativa, cioè l’obbligazione sorgeva a carico di tutte le persone
che si rendevano responsabili del fatto delittuoso, ciascuna obbligata a versare l’intera
somma dovuta e il pagamento di una di esse che non estingueva l’obbligazione per gli
altri autori269;
c) il concorso cumulativo con le pretese reipersecutorie aventi funzione di
reintegrare il danno patrimoniale da inadempimento;
d) l’intrasmissibilità passiva nei confronti degli eredi del reo;
e) la nossalità, quale alternativa fra pagamento della pena e consegna dell’autore del
delitto (delitto commesso da una persona sottoposta alla potestà di altri). Da siffatta
alternativa emerge il carattere personale della responsabilità.
Cfr. F. BELLINI, Delicta e crimina nel sistema quiritario, Padova, 2012, passim.
In chiave comparatistica si veda H. S. MAINE, Diritto antico, a cura di V. FERRARI, Milano, 1998, pp.
274-298 (trad. it. di Ancient Law, London, 1917).
268
È questa l’impostazione offerta da S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche
del diritto romano e problemi della responsabilità extracontrattuale, in ID., Contributi romanistici al
sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, pp. 140-141.
269
Si vedano i frammenti di Ulpiano in D. 9, 2, 11, 2 e D. 9, 2, 11, 4, e di Giuliano in D. 9, 2, 51, 2.
267
70
Gaio raccoglierà il frutto di questo sviluppo già maturato da oltre due secoli,
unificando in base al concetto di “delitto” le quattro fattispecie di responsabilità, e
sottolineando come esse siano fonte di obbligazione contrapposte al contratto270.
Quanto ai rapporti tra obbligazioni delittuali e contrattuali l’opinione maggioritaria
ha sostenuto l’antecedenza storica dell’obligatio ex delicto271, pur se la composizione272
col pagamento di una somma di denaro (o con la consegna di altre res) si affermò solo
in una fase più evoluta, con il superamento delle concezioni originarie fondate sulla
vendetta privata praticata dal danneggiato o dal suo gruppo nei confronti della persona
fisica del reo danneggiante.
La fattispecie degli illeciti extracontrattuali non costituenti dei crimini pubblici273,
arricchitasi delle figure costruite e delle azioni concesse di volta in volta dal pretore,
ebbe una disciplina che si intese in primo luogo come strumento diretto a tutelare
fondamentalmente la proprietà274, funzione alla quale sembra collegata direttamente la
normativa decemvirale oltre che la lex Aquilia ed il criterio di valutazione della
aestimatio rei che in principio si usò nell’applicazione di quest’ultima.
Fu proprio la lex Aquilia, con la previsione di alcune fattispecie piuttosto limitate
(secondo cui se una o più persone distruggevano o deterioravano una cosa altrui, ne
scaturiva un’obbligazione al pagamento di una somma di denaro a titolo di pena), a
costituire la base sulla quale sarà elaborato il principio generale della responsabilità
extracontrattuale nel sitema di civil law.
La scienza giuridica repubblicana e classica aveva rielaborato le fattispecie di cui ai
capi I e III della lex Aquilia, ricostruendole in relazione a cinque elementi costitutivi
vale a dire:
270
Gai. 3, 88; 182-225.
Per l’opinione favorevole all’anteriorità storica delle obbligazioni ex delicto cfr. P. BONFANTE,
Istituzioni di diritto romano, Roma, 1934, p. 374 e G. PACCHIONI, Corso di diritto romano, vol. II, Le
istituzioni del diritto privato, Torino, 1910, p. 378.
Di avviso contrario B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1946, pp. 247 ss., secondo cui il
problema dell’origine dell’obbligazione si concreterebbe nel rintracciare quale sia la figura primitiva di
obligatio, che l’autore identifica nella sponsio.
272
Sul punto cfr. P. VOCI, Istituzioni di diritto romano, III ed., Milano, 1954, p. 301, secondo cui la
composizione legale si trovava già nelle XII tavole, sebbene la legislazione decemvirale non fosse riuscita
ad imporla come pratica esclusiva, in quanto la stessa permetteva, in alcuni casi, la composizione
volontaria e l’esercizio della difesa privata.
273
Anche i crimini pubblici possono comportare una sanzione costituita dal pagamento di una somma di
denaro, ma questa è una “multa”, non una obbligazione a favore della parte lesa (cfr. D. 50, 16, 131, 1; D.
50, 16, 244).
274
Tuttavia non bisogna dimenticare che nel cap. II della Lex Aquilia vi fu originariamente una ipotesi di
tutela del credito che, tuttavia, cadde in disuso.
271
71
a) l’evento di danno costituito dalla distruzione, incendio, rottura lesione di
una cosa cui viene affiancata la lesione del corpo di una persona libera che sia in
potestà del suo padre di famiglia;
b) la condotta, che viene a includere ogni azione od omissione considerata
causa del danno;
c) nesso di causalità tra condotta ed evento;
d) violazione del diritto di proprietà;
e) assenza di cause di giustificazione .
Gaio, da parte sua, fissa nelle sue Institutiones (3, 211) le regole con le quali
reinterpreta alcuni punti essenziali della legge, cosi sintetizzate da Schipani275:
a) chi agisce con dolo o colpa agisce in modo ingiustificato e deve pagare;
b) le leggi non puniscono colui che, nell’esercizio di una causa di
giustificazione, provoca un danno;
c) non è punito colui che senza dolo o colpa provoca un danno.
La reinterpretazione della lex Aquilia si completa con la codificazione giustinianea.
Nei Digesta, al centro del titolo sulla legge Aquilia, viene messo in evidenza il
riferimento alla colpa secondo una famosa definizione di Quinto Mucio (D. 9, 2, 13 pr.).
Nelle Institutiones (4, 3), invece, la fattispecie del damnum iniuria datum viene riscritta
fondandola sui seguenti punti:
a) evento di danno;
b) condotta;
c) rapporto di causalità;
d) dolo o colpa;
e) violazione dell’altrui diritto;
f) assenza di cause di giustificazione.
Sempre nelle Institutiones, sive Elementa (4, 3, 16) Giustiniano inserisce
quell’elemento di novitas costituito dall’actio in factum generalis, vale a dire l’azione
che veniva concessa nel caso in cui il danno non fosse stato causato mediante una
relazione di causalità diretta (corpore) nè mediante una lesione all’integrità fisica di un
bene (corpori), ma in qualche «altro modo»276.
S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della
responsabilità extracontrattuale, cit., p. 134.
276
Cfr. anche D. 9, 2, 33, 1.
275
72
Accanto ad essa rimane l’antica actio legis Aquiliae di cui tuttavia viene dichiarata
la natura mixta, cioè penale e simultanemante reipersecutoria.
Giustiniano, tuttavia, «ligio alla tradizione e nel timore di infrangerla, […] “non
può e non osa dichiarare indiscriminatamente la natura reipersecutoria dell’actio legis
Aquiliae”, rinunciado così al traguardo, già lambito, di un’evoluzione destinata a
culminare nella figura autonoma dell’“illecito civile”»277.
Se leggiamo in combinato disposto D. 9, 2 e I. 4, 3, ne risulta un principio, valido
anche per i secoli successivi, che trova pur sempre la sua origini nelle elaborazione
precedenti, ben sintetizzato da Schipani nei seguenti termini: «chiunque, non per caso,
con dolo o colpa, senza causa di giustificazione, uccide, o lede, o comunque arreca un
danno a persona altrui, è tenuto a pagare una somma di denaro a titolo di pena»278.
Siffatta linea interpretativa si discosta palesemente da quella sostenuta, all’inizio del
XX secolo, dal Rotondi279 il quale attribuì al giusnaturalismo moderno il sorgere del
principio secondo cui il danno come tale genera l’obbligazione al risarcimento280 o,
altrimenti detto, “la colpa, che produca un danno ad altri, deve essere punita”281.
La riforma di Giustiniano, nell’ambito di una revisione legislativa a carattere
prettamente compilatorio, tuttavia non si spingerà oltre i limiti che abbiamo visto, e non
compirà pertanto l’ultimo passo vale a dire quello di «eliminare del tutto ogni
concezione penale dall’ambito del diritto privato»282.
A. LA TORRE, Genesi e metamorfosi della responsabilità civile, cit., p. 141. La citazione interna al
passo di La Torre appartiene a B. ALBANESE, Illecito a) Storia, in ED, vol. XX, Milano, 1970, p. 85.
278
S. SCHIPANI, Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della
responsabilità extracontrattuale, cit., p. 136.
279
G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto
Commerciale, 14 (1916), pp. 942-970; 15 (1917), pp. 236-295.
280
Una disamina approfondita è contenuta in S. SCHIPANI, Pluralità di prospettive e ruolo della culpa
come criterio elaborato dalla scienza del diritto nell’interpretazione della lex Aquilia, cit., pp. 32-35.
281
ID., Dalla legge Aquilia a D. 9: Prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della
responsabilità extracontrattuale, cit., p. 136, nt. 15.
282
Così B. ALBANESE, Illecito a) Storia, cit., p. 65.
277
73
CAPITOLO SECONDO
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE IN ETÀ ALTOMEDIEVALE E
NELL’ETÀ DEI COMUNI
Introduzione
Con l’Editto di Tessalonica283 del 380 d.C. il cristianesimo da religio licita divenne
religione dell’Impero284, raggiungendo una notevole diffusione nei vari territori
imperiali285.
Quello cristiano è un annuncio rivoluzionario, basato sulla predicazione di Gesù
contenuta nei Vangeli. I testi del Nuovo Testamento, nella loro nitidezza, contengono
anche un messaggio generale sulla responsabilità che, riecheggiando le parole
veterotestamentarie di Tobia (4, 15)286, viene compendiato nel precetto evangelico:
«omnia ergo, quaecunque vultis ut faciant vobis homines, ita et vos facite eis; haec est
enim Lex et Prophetae» (Matteo 7, 12; Luca 6, 31: «et prout vultis, ut faciant vobis
homines, facite illis similiter»)287.
Si tratta di una rilettura, in termini, cristiani, di quell’antico praeceptum iuris
ulpianeo costituito dall’alterum non laedere.
È stata sottolienata, con riguardo al danno extracontrattuale, una differenza tra i
giuristi romani di età classica, concentrati tutti sull’antigiuridicità della condotta
compendiata nel termine iniuria, ed il diritto di Giustiniano che, influenzato dal
Si tratta della famosa costituzione Cunctos populos di Teodosio II trádita nel Codex Theodosianus (16,
1, 2) ed in quello di Giustiniano (1, 1, 1).
284
E non dunque religione di Stato, come ancora si continua a dire da più parti. Per una critica del
concetto di religione di Stato si veda M. P. BACCARI, Cittadini, popoli e comunione nella legislazione dei
secoli IV-VI, Torino, 1996, pp. 4-5.
285
Per una rapida sintesi degli avvenimenti che vanno dall’Editto di Nicomedia (311 d.C.) a quello di
Tessalonica passando per l’Editto costantiniano di Milano (313 d.C.) cfr. G. GROSSO, Lezioni di storia
del diritto romano, V ed., Torino, 1965, pp. 432-435.
Per approfondimenti si veda A. SAGGIORO, La religione e lo stato. Cristianesimo e alterità religiose nelle
leggi di Roma imperiale, Roma, 2011, pp. 39-43.
286
«[…] et, quod oderis, nemini feceris».
287
Tutti i testi biblici citati sono tratti da Nova vulgata Bibliorum Sacrorum editio, Sacrosanti
Oecumenici Concilii Vaticani II ratione habita iussu Pauli PP. VI recognita auctoritate Ioannis Pauli PP.
II promulgata, II ed. Città del Vaticano, 1998, passim.
283
74
cristianesimo, sembrerebbe dare più importanza al danno in sé stesso, giacchè la caritas
non può tollerare il torto subito dal prossimo288.
I risultati cui era giunta l’opera interpretativa della
giurisprudenza classica e
postclassico-giustinianea in materia di responsabilità extracontrattuale, refluiti
nell’elaborazione di una «nozione di damnum iniuria ben più generale e vicina a quella
moderna che non quella originariamente prevista dal plebiscito aquiliano»289,
attraverso la sostanziale estensione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’actio legis
Aquiliae e il superamento del concetto oggettivo di iniuria290, furono vanificati dalle
invasioni barbariche che determinarono, per certi aspetti, un ritorno agli originari
modelli di imputazione oggettiva.
Giova precisare sin da ora che le invasioni barbariche, stando alla storiografia più
recente, non rappresentano più la “tradizionale” causa della scomparsa del diritto, né
tantomeno la causa di un presunto periodo di incertezza giuridica e di violenza
generalizzata291.
Al contrario, fu proprio grazie ai contatti con le locali popolazioni romane che
vennero redatte, dai sovrani barbari, le prime leggi destinate ai sudditi romani abitanti
nei territori occidentali conquistati dalle ondate germaniche.
Si assiste insomma, durante il dilagare della presenza germanica, alla creazione di
un nuovo diritto facente capo alla tradizione del diritto romano.
La dottrina ha parlato, a tal proposito, di «diritto romano volgare»292, espressione
con la quale «si mettono spesso insieme cose diversissime tra loro: prodotti di dottrina
come le Pauli Sententiae o il Liber Gai; fenomeni legislativi come la Lex Romana
In tal senso B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, vol. III, (La famiglia, rapporti patrimoniali, diritto
pubblico), Milano, 1954, pp. 261-262. Già S. RICCOBONO, L’influsso del cristianesiomo sul diritto
romano, in Atti del congresso internazionale di diritto romano, vol. II, Pavia, 1935, p. 68, aveva avuto
modo di sottolineare l’influsso dell’etica cristiana su tutti i rami del diritto romano, in particolare sul
diritto privato.
289
B. ALBANESE, Damnum iniuria datum, in NSSDI, vol. V, Torino, 1960, p. 111.
290
Sulla svolta progressiva dal modello di imputazione oggettiva a quello fondato sull’elemento
soggettivo si vedano U. BRASIELLO, Delitto b) diritto romano, in ED, vol. XII, Milano, 1964, pp. 5-8; P.
CERAMI, La responsabilità extracontrattuale dalla compilazione di Giustiniano ad Ugo Grozio, in L.
VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, cit.,
p. 105; G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, in ED, vol. XXXIX,
Milano, 1988, pp. 1118-1139; G. ROTONDI, Dalla “Lex Aquilia” all’art. 1151 cod. civ. Ricerche storicodogmatiche, in Riv. dir. comm., 1916, pp. 942-970; 1917, pp. 236-295.
291
E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, Roma, 1996, pp. 52-56.
292
Per una rassegna storiografica si vedano F. CALASSO, Diritto volgare, diritti romanzi, diritto comune,
in ID., Introduzione al diritto comune, rist. in., Milano, 1970, pp. 207-232, e R. ORESTANO, Introduzione
allo studio storico del diritto romano, Bologna, 1987, p. 568 nt. num. 54, con riferimento ai lavori di
Ernst Levy, Franz Wieacker, Jean Gaudemet, Bruno Paradisi, Antonio Guarino et alii.
288
75
Wisigothorum […]; atteggiamenti della prassi di valore disparato, ora conformi alla
politica legislativa degli imperatori, ora invece in contrasto irrimediabile con
l’ordinamento ufficiale»293.
Il fenomeno del diritto volgare non deve essere considerato una mera
degenerazione294 del diritto romano bensì un quid novi nel campo giuridico. Si tratta di
un fenomeno la cui quintessenza è stata giustamente individuata nei «momenti di
contraddizione con il diritto ufficiale», contraddizione che si concretizza nell’irrompere
del Medio Evo nella romanità del basso impero295, e che è conseguenza «del ricorso a
forze alternative per colmare il vuoto lasciato dallo sfacelo politico […attraverso…]
istituti vecchi che si deformarno, istituti nuovi che si creano, con un libero attingimento
dal grande serbatoio della vita quotidiana»296.
Nello studio storico della responsabilità extracontrattuale, la storiografia giuridica
ha da sempre insistito sull’approfondimento dell’eredità romana, fondata prettamente
sulla lex Aquilia, trascurando però una trattazione sistematica delle altre due eredità alla
base della moderna responsabilità extracontrattuale vale a dire l’eredità patristica e
canonistica e quella del diritto volgare e della legislazione barbarica, oppure ha relegato
la trattazione dei due aspetti in specifici e settoriali contributi scientifici297.
Solo di recente si è pervenuto ad una pregevole trattazione unitaria di queste tre
eredità grazie agli studi condotti in Francia da Olivier Descamps298.
E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., p. 96, il quale, nelle pagine successive tratta
anche del «volgarismo», problematica diversa da quella del diritto volgare.
Ad avviso di M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna, 1994, p. 32: «oggi
[…] il diritto volgare è correntemente considerato come il diritto affermatosi nella pratica delle regioni
occidentali in un periodo di sensibile trasformazione sociale sociale e di notevole involuzione economica
quale du quello del tardo Impero: un diritto, cioè, disciplinato esclusivamente dalla prassi, dato che né
leggi imperiali, né opinioni di giuristi riuscivano a star dietro in maniera significativa agli usi che si
andavano affermando presso le singole comunità».
294
Questa è la visione di H. BRUNNER, Zur Rechtsgeschichte der römischen un germanischen Urkunden,
Berlin, 1880, pp. 113; 139, primo autore ad evidenziare siffatto fenomeno ma la cui posizione non fu
accolta da L. MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des römischen
Kaiserreichs, Leipzing, 1891, il quale riteneva invece il diritto volgare come prodotto dell’incontro tra il
diritto ufficiale e quello originario dei popoli sottoposti all’autorità di Roma.
295
In tal senso E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., p. 98.
296
P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari, 2006 (I ed. 1995), p. 53.
297
Da noi indicati di volta in volta nel prosieguo della trattazione.
298
O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804,
cit., passim; ID., Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage
fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, in R. FIORI (a cura di), Modelli teorici e
metodologici nella storia del diritto privato, 3, Napoli, 2008, pp. 139-191; ID., L’influence du droit
canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, in O. CONDORELLI-F. ROUMY- M.
SCHMOECKEL (a cura di), Der einfluss der kanonistik auf die europäische rechtskultur, Bd. 1: Zivil-und
Zivilprozessrecht, Köln-Weimar-Wien, 2009, pp. 137-167.
293
76
1) Contributi patristici e dello ius canonicum del primo millennio in tema di
responsabilità extracontrattuale
Una matrice che non deve essere assolutamente sottovalutata nello studio della
responsabilità extracontrattuale e, soprattutto, nella disamina del principio della culpa299
è quella facente capo al pensiero patristico300 e al diritto canonico del primo millenio301.
Abbiamo visto che il messaggio di Gesù Cristo, contenuto nei Vangeli, prevede
anche un riferimento generale alla responsabilità tout court che si sostanzia nel precetto
di non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facciano a te (Matteo 7, 12; Luca 6,
31), rilettura cristiana dell’ulpianeo alterum non laedere.
Questo principio, posto alla base delle vita di ogni fedele in Cristo, viene ad essere
immerso nella vita quotidiana dei singoli cristiani che, purificati dal peccato originale
per mezzo del battesimo, «ianua sacramentorum», si trovano a vivere nella realtà
temporale di questo mondo con la consapevolezza di essere cittadini di due città, quella
terrena e quella celeste.
Al riguardo la Lettera a Diogneto, noto testo del cristianesimo primitivo, è
eloquente nel descrivere la situazione dei cristiani302: «abitano la loro patria, ma come
pellegrini […], camminano sulla terra, ma sono concittadini del cielo» (5, 1-6, 1).
L’uomo è soggetto alle debolezze che derivano dalla sua natura di creatura
contrapposta al Dio creatore. La salvezza della propria anima impone pertanto di
Sulla culpa come «categoria analogica, che può essere usata come registro morale, come categoria
giuridica e come categoria psicologica, configurandosi quindi come molto complessa e problematica al
contempo» si veda A. BONDOLFI, Colpa e pena. La responsabilità umana tra teologia e diritto, in M.
BORSARI-D. FRANCESCONI, Peccato e pena. Responsabilità degli uomini e castigo divino nelle religioni
dell’Occidente, Modena, 2007, pp. 153-183.
300
Rilevava l’importanza della patristica per lo studio del diritto privato G. LE BRAS, Naissance et
croissance du droit privé de l’Église, in Études d’histoire du droit privé offertes à Pierre Petot, Paris,
1959, p. 331. Con particolare riferimento al principio di diritto naturale ed evangelico dell’alterum non
laedere si veda, nello stesso saggio, p. 341 nt. 14.
301
Una rapida rassegna della scienza canonistica nel primo millennio si può leggere a chiusura
dell’accurato volume di B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, I, Il diritto antico fino
al Decretum di Graziano, Roma, 1998, pp. 195-202.
Per un bilancio storiografico, anche con riferimenti all’età grazianea ed a quelle successive, si veda O.
CONDORELLI, Il contributo delle ricerche canonistiche alla storia del pensiero medievale: aspetti e
problemi, in E. CONTE-M. MIGLIO (a cura di), Il diritto per la storia. Gli studi storici nella ricerca
medievistica, Roma, 2010, pp. 65-90.
302
Si veda, anche per approfondimenti sul principio dualista cristiano, G. DALLA TORRE, La città sul
monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni tra Chiesa e Comunità politica, III ed., Roma,
2007, pp. 28-30.
299
77
riparare le colpe commesse e ristabilire, sul piano dei rapporti umani intersoggettivi, il
violato ordine di giustizia.
I primi Padri della Chiesa sentirono viva l’esigenza morale di elevare la giustizia
pagana traducendola in termini di amore cristiano303. Possiamo notare tuttavia come
sussistano forti analogie tra la definizione di giustizia304 data da Ulpiano, seguita
dall’elenco dei famosi tria praecepta iuris, e le riflessioni offerte dai Padri della
Chiesa.
Si pensi, ad esempio, al passo del De officiis di Ambrogio secondo cui: «[…]
iustitiam, quae suum cuique tribuit, alienum non vindicat, utilitatem propriam neglegit,
ut communem aequitatem custodiat»305.
Quanto al principio dell’«alterum non laedere» si consideri invece l’inciso, in cui il
vescovo di Milano, parlando del sensus della giustizia, la quale si concretizza nel vivere
secondo natura, afferma che l’uomo, creatura con una inclinazione naturale, perché
obbedisca alla stessa non può danneggiare il suo prossimo («nocere non possit
alteri»)306. Cambia il verbo (nocere, anziche laedere) ma la sostanza del principio è
immutato.
Nell’arduo cammino che caratterizza la vita del cristiano, la debolezza umana non
riesce ad evitare le numerose insidie di cui è disseminata la strada per arrivare alla vita
eterna. La Chiesa pertanto elabora gradualmente una disciplina penitenziale che implica
una valutazione delle colpe, delle condizioni poste per ottenerne il perdono,
dell’opzione sulla possibilità della sua reiterazione307. Siffatta valutazione si basava
sull’assunto di considerare in primo luogo l’animo e le motivazioni interiori dell’agente,
come attestato in numerosi passi del Nuovo Testamento. Ciò era stato infatti il germe
per la costruzione della nuova morale cristiana la quale, si contrapporrà presto, grazie
all’elaborazione teologica e culturale dei Padri della Chiesa, alla moralità
Cfr. l’ampio studio di R. PIZZORNI, Giustizia e carità, Bologna, 1995, pp. 465-589.
D, 1, 1, 10, pr: «Iustitia est constans et pepetua voluntas ius suum cuique tribuendi».
305
AMBROSIUS, De officiis, I, 24, 115 (= PL, vol. 16, Parisiis, 1845, col. 57).
306
AMBROSIUS, De officiis, III, 4, 24 (= PL, vol. 16, Parisiis, 1845, col. 152): «hinc ergo colligitur quod
homo, qui secundum naturae formatus est directionem, ut obediat ei, nocere non possit alteri: quod si cui
noceat, naturam violet».
307
Cfr. in tal senso J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, Cinisello Balsamo,
1998, pp. 305-306 (trad. it. di Église et Cité. Histoire de droit canonique, Paris, 1994).
303
304
78
eminentemente formale (e ricca di numerosi casi di responsabilità oggettiva) della
tradizione giudaica308.
1.1) Responsabilità e imputabilità nella patristica309
I padri della Chiesa ben conoscevono la concezione romana, intrisa di stoicismo, del
peccare/peccatum inteso come “caduta”, “deviazione”, spesse volte messa in
riferimento a espressioni o verbi simili quali iniuriam facere o delinquere310.
L’influenza del linguaggio giuridico e di quello biblico si ravvisa, nell’ambito della
patristica latina, in Tertulliano che utilizza peccatum e delictum nello stesso senso311,
ma al di fuori del contesto giuridico. L’illustre apologeta distingue poi i peccati in
carnali, o corporali, e spirituali. L’uomo infatti può peccare servendosi del corpo
oppure con moti dell’animo che diventano peccaminiosi quando ad essa aderisca la
volontà (peccata voluntatis). Tutti questi peccati sono imputabili e per tutti è stata
stabilita la penitenza, né giova ricordare come i peccati dello spirito non vengano
perseguiti dalle leggi civili, per l’impossibilità della giustizia umana di rendersi conto di
essi e punirli, giacchè ciò che rimane nascosto agli uomini è invece palese agli occhi di
Dio312.
In tal senso L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, in SDHI,
1979, ora in L. MUSSELLI-E. GRILLO, Matrimonio, trasgressione e responsabilità nei penitenziali. Alle
origini del diritto canonico occidentale, Padova, 2007, pp. 5-12.
309
Patristica e patrologia sono termini coniati in ambito protestante nel XVII secolo. La Patristica è la
disciplina che si occupa del pensiero teologico dei Padri della Chiesa ed ha carattere dottrinale nonché
presenta legami con la teologia dogmatica, morale e spirituale. La Patrologia invece ha ad oggetto la vita
e gli scritti dei Padri, muovendosi sul livello dell’indagine storica e dell’informazione biografica e
letteraria. Per il loro carattere teologico, Patristica e Patrologia si distinguono dalla letteratura cristiana
antica che invece è una disciplina non teologica. Cfr. E. VALERIANI, Patrologia e letteratura cristiana
antica, in DSSRN, vol. II, Bologna, 2010, pp. 1217-1232.
310
B. ALBANESE, Illecito a) Storia, cit., p. 69, afferma che, con riferimento a peccatum, facinus, flagitium
e altri termini generalissimi, i giuristi romani non diedero mai alcuna rigorosa utilizzazione tecnica.
Ad avviso di G. CRIFÒ, Illecito (diritto romano), in NSSDI, vol. VIII, Torino, 1962, p. 160, nelle fonti
romane ricorre un uso sinonimico di termini come scelus, fraus, maleficium, delictum, flagitium, facinus,
peccatum, delictum, probrum, crimen, ecc., ciascuno dei quali deve aver avuto, però, almeno all’origine,
un ambito specifico di applicazione, in ciò ricollegandosi all’opinione di Contardo Ferrini.
311
TERTULLIANUS, De pudicitia, 19 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, n. s., vol. V,
Mediolani, 1890, pp. 261-266); De oratione, 7(= PL, vol. 1, Parisiis, 1844, col. 1163); De paenitentia, 4,
1-3 (=Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 76, Vindobonae, 1957, pp. 147-148).
312
TERTULLIANUS, De paenitentia, 3, 3-9 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 76,
Vindobonae, 1957, pp. 144-145).
308
79
Anche negli altri padri risultano più frequenti i termini crimen e delictum, sempre in
contesti non giuridici.
Così Cipriano313, il quale mette in risalto altresì l’importanza del fattore volontà per
la valutazione della gravità della colpa nel caso della condotta dei lapsi e dei
libellatici314.
Lo stesso dicasi per Ambrogio315, autore importante per il ruolo dato alla volontà. Il
vescovo di Milano afferma che «nemo tenetur ad culpam, nisi voluntate propria
deflexerit»316, marcando un concetto importantissimo che verrà ripreso dal Decretum di
Graziano317. Altra conseguenza poi di questa riconduzione della colpevolezza ad un atto
di libera scelta riferibile alla volontà dell’agente è l’esclusione della responsabilità del
furiosus e, in linea di massima, del coactus318.
Quanto alla patristica greca319 risultano di notevole importanza le posizioni di
Clemente d’Alessandria e di Basilio Magno. In diversi luoghi degli Stromata, Clemente
afferma che i peccati che non derivano da una libera determinazione della volontà non
sono, proprio in quanto involontari, imputabili, né sottoponibili a giudizio, anche se di
fatto vengono in essere per ignoranza o per necessità a causa dell’imperfezione
umana320.
Interessante è la tripartizioni delle varie mancanze dell’uomo in
τύχημα (cioè
disgrazia, definita come peccato non intenzionale e pertanto non imputabile all’autore),
μαρτία (peccato, definito crimine involontario, in quanto commesso per debolezza di
carattere e di giudizio od incapacità di nresistere alle tentazioni) ed infine
δικία,
CYPRIANUS, Epistulae, 16, 2, 2 (= Corpus christianorum, Series latina, vol. III B, Turnholti, 1994, pp.
91-92).
314
CYPRIANUS, De Lapsis, 3 (= PL, vol. 4, Lutetiae Parisiorum, 1844, col. 467); Epistulae, 55, 13, 2 (=
Corpus christianorum, Series latina, vol. III B, Turnholti, 1994, pp. 270-271)..
315
AMBROSIUS, De poenitentia, 1, 10, 45(= PL, vol. 16, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 480); 1, 16, 90(=
PL, vol. 16, Lutetiae Parisiorum, 1845, coll. 493-494).
Circa le distinzioni dei peccati in Ambrogio si veda R. MARCHIORO, La prassi penitenziale nel IV secolo
a Milano secondo S. Ambrogio, Roma, 1975, pp. 33-35.
316
AMBROSIUS, De Jacob et vita beata, 1, 3, 10 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 602).
317
C. 15, q. 1, c. 10.
318
AMBROSIUS, Exameron, 1, 8, 31 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 140).
319
Risulta indispensabile sul punto l’analisi dettagliata offerta da L. MUSSELLI, La imputabilità nelle
fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., pp. 21-23, e ID., Imputabilità e responsabilità penale nella
patristica del IV e V secolo, in AA. VV., Diritto, persona e vita sociale. Scritti in memoria di Orio
Giacchi, vol. I, Milano, 1984, ora in L. MUSSELLI-E. GRILLO, Matrimonio, trasgressione e responsabilità
nei penitenziali. Alle origini del diritto canonico occidentale, cit., pp. 29-32.
320
CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata, II, 14, (= PG, vol. 8, Parisiis, 1891, coll. 997-1000).
313
80
(costituita da un comportamento che sia frutto di una malvagità pienamente consapevole
e volontaria)321.
L’analisi di Basilio il Grande322 rileva non solo per la teoria generale
dell’imputabilità ma anche per la graduazione della responsabilità in caso di omicidio,
settore, quest’ultimo, in cui le soluzioni basiliane eserciteranno un durevole influsso
sulla canonistica posteriore323.
Dalla breve disamina del pensiero patristico emerge come il termine peccatum
indichi a volte una nozione teologica cioè il peccato, altre volte indica una nozione
giuridica cioè la colpa intesa in un senso ampio come atto illecito.
Culpa, come ben sottolineato dal Talamanca, ha diverse accezioni e può indicare
l’illecito, l’imputabilità e la negligenza in senso generico324. Nell’accezione di illecito
culpa è comprensiva sia degli illeciti penali (crimina, atti illeciti penali di diritto
pubblico) si di quelli che chiameremmo illeciti civili (delicta/maleficia, atti illeciti
penali dello ius civile)325.
Si nota tuttavia una preminenza della responsabilità morale sulla responsabiltà
penale. Valgano come esempio gli elenchi di peccati, in cui vengono inseriti
indifferentemente atti che rilevano nel foro interno ed atti che costitutisco veri e propri
reati, con la conseguente confusione tra peccatum e crimen326.
Il rilievo dato alla volontà interna e all’elemento intenzionale327 consente una analisi
approfondita della colpa dando luogo a diverse distinzioni in ordine ai peccati. Si va
dalla dicotomia peccata capitalia e peccata minora/minuta, introdotta da Giovanni
Cassiano, alla distinzione di Agostino tra peccata malitiae, peccata infirmitatis e
CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata, II, 15 (= PG, vol. 8, Parisiis, 1891, coll. 999-1012).
BASILIUS CAESARIENSIS, Moralia, Reg. IX (= PG, vol. 31, Parisiis, 1885, coll. 715-718); Epistolarum
Classis, 188, 11 (= PG, vol. 32, Parisiis, 1886, col. 682).
323
L. MUSSELLI, Imputabilità e responsabilità penale nella patristica del IV e V secolo, cit., 30-31
324
M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, cit., p. 518.
325
B. ALBANESE, Illecito a) Storia, cit., p. 70.
326
In tal senso O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité
civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 145.
Di avviso contrario fu invece M. ROBERTI, “Delictum” e “peccatum” nelle fonti romane e cristiane.
Contributo allo studio dell’influenza del cristianesimo sul diritto romano, in Studi in onore di Carlo
Calisse, vol. I, Milano, 1940, pp. 168-169, secondo cui: «Mentre il diritto romano pagano non ha preso
mai in considerazione il peccato in senso cristiano, […] la Chiesa fino dalle più antiche fonti distinse
nettamente il delitto dal peccato. Non si può infatti accettare l’opinione, per lo meno inesatta, di coloro
che nella contraria dimostrazione si valgono di talune fonti dove manca una netta distinzione fra i due
termini».
327
Sottolinea l’importanza dei padri della Chiesa circa l’intenzione e la volontà come fondamenti della
responsabilità J. GAUDEMET, Le problème de la responsabilité penale dans l’antiquité, in Studi in onore
di Emilio Betti, vol. II, Milano, 1962, pp. 506-508.
321
322
81
peccata imperitiae328. La confusione tra il peccato e il delitto non permette ai Padri della
Chiesa di offrire una chiara definizione di ogni singolo illecito, per i quali essi operano
un rinvio al diritto romano classico329.
Il travaglio intellettuale dei Padri conduce alla individualizzazione del peccato ed
alla
sua
espiazione,
«elementi
culturali»,
quest’ultimi,
che
unitamente
all’individualismo greco-orientale e cristiano, sono alla base dell’«affinamento del
concetto» di culpa che ritroviamo nel diritto romano postclassico330.
1.1.1) (segue) Il contributo di Agostino d’Ippona.
Tra i padri della Chiesa sant’Agostino è il pensatore a cui più di frequente ricorre il
diritto canonico medievale. Nel pensiero331 del vescovo di Ippona è dato rinvenire una
raffinata analisi della colpa e della responsabilità basata sul suo carattere personale,
sull’imputabilità e sulla qualificazione dell’atto umano.
Agostino, in ossequio alla propria teoria in materia di libero arbitrio, riconduce ogni
responsabilità in materia morale o penale ad un comportamento malvagio
consapevolmente tenuto dal soggetto agente, affermando che «nullius crimen maculat
nescientem»332. Tuttavia, l’ignoranza non vale a scusare completamente il peccatore,
anche se rende la mancanza meno grave come traspare dalla parole secondo cui «sunt
enim peccata ignorantium quamvis minora quam scientium»333. Entrambi i frammenti
saranno recepiti da Graziano nel Decretum334, opera in cui ritroviamo anche un altro
frammento importante in cui emerge l’importanza della volontà per l’imputabilità
AUGUSTINUS, De diversis quaestionibus, 26 (De differentia peccatorum), (= PL, vol. 40, Lutetiae
Parisiorum, 1861, coll. 17-18).
329
J. GAUDEMET, L’Église dans l’Empire romain (IV-Ve siècles), Paris, 1958, pp. 272-273.
Si veda anche ID., Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au IVe siècle, Milano,
1978, p. 38 (per i riferimenti a Cipriano); p. 74 (per Ambrogio); pp. 125-126 (per Girolamo).
330
Così G. BRANCA, Struttura constante della responsabilità extracontrattuale attraverso i secoli, cit., p.
102.
331
Sulla conoscenza del diritto romano di Agostino si veda A. DI BERARDINO, Diritto romano, in A. D.
FITZGERALD, Agostino. Dizionario enciclopedico, edizione it. a cura di L. ALICI-A. PIERETTI, Roma,
2007, pp. 570-575.
332
AUGUSTINUS, Epistulae, Classis II, 93, 15 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 34,
Vindobonae, 1895, p. 459; PL, vol. 33, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 327).
333
AUGUSTINUS, De adulterinis coniugiis, 1, 9 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 41,
Vindobonae, 1900, p. 356).
334
Rispettivamente in C. 23, q. 4, c. 37, e C. 32, q. 7, c. 10.
Sull’influenza del pensiero agostiniano in materia di imputabilità nel Decretum Gratiani cfr. P.
PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, in
SG, VII (1959), pp. 447-460.
328
82
dell’atto dannoso: «peccatum voluntarium malum est, ut ullo modo sit peccatum, si non
sit voluntarium»335.
Il ruolo precipuo della volontà e la natura libera dell’uomo compare anche in uno
scritto, attribuito anticamente ad Agostino ma già da molto tempo ritenuto apocrifo. Si
tratta del Liber de vera ac falsa poenitentia, composto in epoca posteriore ad Agostino e
confluito altresì in Ivo di Chartres e Graziano. L’anonimo autore afferma in merito che
«omnis poenitentia est de mala usa libertate»336.
Di particolare importanza è la distinzione agostiniana tra il semplice peccatum ed il
crimen, anche se bisogna subito dire che si tratta di due species appartenente allo stesso
genus. Infatti nel solco della precedente elaborazione patristica, anche il crimen viene
definito peccatum ma Agostino lo qualifica «grave peccatum, accusatione et
damnatione dignissimum»337, segnando una significativa demarcazione tra foro interno
e foro esterno giudiziale338.
Ne risulta una teoria della responsabilità e del peccato che mette in grande evidenza
il carattere personale della colpa (per cui ciascuno è responsabile dei propri atti339),
esalta la volontà e la scientia dell’agente, ed infine tiene in considerazione sia i
comportamenti commissivi che quelli omissivi, lasciando fuori le intenzioni che sono
prive di manifestazione esterna che come tali sono fuori dal campo giuridico.
Si pensi all’equiparazione, fatta nella prima epistola di Giovanni340, tra l’omicida e
l’uomo che prova ira od odio per il fratello, che Agostino svaluta relegandola nella
dimensione extragiuridica341.
AUGUSTINUS, Retractationum libri II, 13, 1, 5 (= PL, vol. 32, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 603),
anche in C. 15, q. 1, d. a. c. 1.
336
PSEUDO-AUGUSTINUS, Liber de vera ac falsa poenitentia, 1, 8, 22 (= A. COSTANZO, Il trattato De vera
et falsa poenitentia: verso una nuova confessione. Guida alla lettura, testo e traduzione, Roma, 2011, pp.
262-263).
337
AUGUSTINUS, In Johannis Evangelium tractatus, 41, 9 (= PL, vol. 35, Lutetiae Parisiorum, 1861, col.
1697).
338
Così L. MUSSELLI, Imputabilità e responsabilità penale nella patristica del IV e V secolo, cit., 36.
339
Pe riferimenti all’Antico Testamento e allaconcezione greca cfr. L. MUSSELLI, La imputabilità nelle
fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., pp. 5-10; O. DESCAMPS, Modèles théoriques et
méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et
du droit vulgaro-franc, cit., pp. 147-149.
340
1 Gv, 3, 15.
341
AUGUSTINUS, Contra Faustum, 19, 23, (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 25,
pars I, Vindobonae, 1991, pp. 521-522).
335
83
1.2) Responsabilità e imputabilità nelle fonti canonistiche
Alla base del diritto canonico nascente342, in un’epoca segnata dal passaggio
«dall’esortazione al diritto»343, troviamo la Sacra Scrittura. In primis l’Antico
Testamento di cui spiccano i documenti normativi come la legge di Mosè, il Codice
dell’Alleanza, il Deuteronomio ed il Levitico, normativa che Cristo non è venuto ad
abrogare.
Più direttamente ritroviamo i Vangeli e le Lettere accolte nel canone del Nuovo
Testamento, che verrà fissato tra il II e IV secolo344.
È proprio sulla base delle concezioni e degli spunti rinvenibili nei testi sacri che si
tenta di costruire e precisare i concetti di responsabilità e imputabilità345.
1.2.1) (segue) Le collezioni pseudoapostoliche
Considerato il valore rivestito, nei primi secoli del cristianesimo, dalla Tradizione
scritta e orale, è facilmente intuibile come i primi testi normativi si siano sforzati di
apparire di derivazione apostolica, almeno in ordine ai propri contenuti, ed abbiano
trasmesso, in maniera più o meno fedele, la prassi di vita e l’iniziale ordinamento delle
chiese locali.
Siffatti testi, compilati prevalentemente in Siria nel periodo compreso tra la fine del
I e del III secolo, sono un chiaro segnale della necessità di un diritto per regolare la vita
dei cristiani. Verso la fine del IV secolo essi furono accorpati in raccolte denominate
collezioni pseudoapostoliche, giacchè sono state falsamente attribuite agli apostoli o ai
loro discepoli o ad altri successori immediati346. Principio di queste collezioni, infatti, è
342
Tralasciamo volutamente l’analisi del rapporto tra Chiesa nascente e diritto, e tutta la polemica sui
tentativi di delegittimazione del diritto canonico compiuti tra la fine dell’Ottocento e i nostri giorni, in
particolare quella originata dai contributi di R. SOHM, Kirchenrecht, I, Die geistlichen Grundlagen,
Berlin, 1892; ID., Wesen und Ursprung des Katholizismus, Leipzing, 1909.
Per un bilancio si veda A. MELLONI, Diritto canonico, in DSSRN, vol. II, Bologna, 2010, p. 647, nonché
C. FANTAPPIÈ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Bologna, 2011, pp. 28-33.
343
Così J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 47.
344
Cfr. C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, Bologna, 2003, pp. 32-33.
345
L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., p. 13.
346
C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., p. 34.
84
quello della traditio apostolica, che caratterizza la grande autorevolezza ed
obbligatorietà della norma347.
La compilazione anonima denominata Didachè348, testo più antico che
probabilmente assemblea documenti ancora più vetusti, mutua dalla sacre scritture
l’esortazione a non nuocere al prossimo (Tobia, 4, 15)349, inserendola nella prima parte
del testo dedicata alle “Due vie, della vita e della morte”, sorta di catechesi sullo stile
delle due vie: la via del peccato e quella della virtù, della morte e della vita, della luce e
delle tenebre.
Nella Didachè viene altresì messa in rilievo «la ratio dell’imputabilità anche per
fatti meramenti interni, in quanto dotati di una pericolosità potenziale, poiché alla
volizione del male segue facilmente un’azione esterna estrinsecativa di essa»350.
Risulta fondamentale anche quanto contenuto in un’altra celebre collezione, la
Didascalia Apostolorum351, composta nel patriarcato di Antiochia in Siria verso l’anno
230352.
Essa ribadisce il principio secondo cui la sanzione va applicata non in modo
automatico ma tenendo conto della gravità del fatto: «judicetis igitur secundum
magnitudinem delicti cuiuscumque cum misericordia multa»353.
Quanto all’imputabilità, riconducibile ad un atteggiamento doloso o colposo, si
registra una reazione dura contro tentativi e tendenze, emerse probabilmente in
comunità cristiane di origine ebraica, tesi a reintrodurre situazioni di impurità e concetti
di contaminazione di tipo giudaico354.
B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 46.
Per l’edizione critica cfr. W. RORDORF-A. TUILIER, La doctrine des douze Apôtres (Didaché), Paris,
1978 (trad. it. La dottrina dei dodici apostoli (Didachè), Roma-Bologna, 2009, a cura di Maria Benedetta
Artioli).
349
Preziosa, per la conoscenza dei passi biblici citati nell’opera, lo studio di J. GAUDEMET, La bible dans
les collections canoniques, in P. RICHÉ-G. LOBRICHON, Le Moyen Âge et la Bible, La Bible de tous les
temps, Paris, 1984, ora in J. GAUDEMET, Formation du droit canonique et gouvernement de l’Église de
l’antiquité à l’âge classique, Recueil d’articles, Strasbourg, 2008, p. 96.
350
L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., p. 13, con
riferimento a Didachè, II, 1-3.
351
L’edizione del testo si può leggere in F. X. FUNK, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, I,
Paderborn, 1905. Per le altre edizioni e gli studi in materia cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del
diritto canonico, cit., 50-51.
352
J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 51.
353
Didascalia Apostolorum, II, 43, 5.
354
In tal senso L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., p. 15.
347
348
85
1.2.2) (segue) I canoni dei concili
Decisamente più importante è l’apporto fornito dai canoni dei concili355 che verrano
a costituire una parte consistente della normativa contenuta nei penitenziali e nelle
collezioni canonistiche ante Gratianum.
L’apporto conciliare alla teoria della responsabilità è pur sempre nell’ottica penale,
in particolare attraverso la disamina dell’omicidio.
In ordine cronologico troviamo il concilio di Elvira, celebrato in Spagna nel primo
lustro del IV secolo, che distingue, a livello di sanzione, tra l’omicidio volontario e
quello preterintenzionale o colposo, prevedendo sette anni di penitenza nel primo caso e
cinque nel secondo356.
Nei canoni 22 e 23 del concilio di Ancira, celebrato nell’anno 314, troviamo invece
un criterio più rigoroso giacchè l’assise prevede per l’omicidio volontario (sponte) una
penitenza per tutta la vita mentre per quello involontario per la penitenza è di sette anni
(non sponte)357.
Una disposizione importante è quella contenuta nel concilio di Neocesarea,
celebrato tra il 314-319, relativa alla esclusione della punizione qualora il desiderio di
fornicazione e la relativa intentio fornicandi non trovino realizzazione sul piano
concreto358. Come puntualmente sottolineato dal Musselli, «si sottrae in pratica
l’ambito dei comportamenti interni alla sanzione canonica, che viene vista solo come
applicabile alle trasgressioni poste in essere concretamente sul piano dell’azione
esterna. Ha così origine, con questo testo che apporta una deroga, per ragioni pratiche,
all’equiparazione evangelica tra peccatum e desiderium peccandi, un’impostazione ed
una corrente di pensiero, che seppur con alterne vicende e fortuna, troverà la sua
continuità per tutto il periodo pregrazianeo fino alla precisazione del concetto di delitto
attuato nell’ambito della canonistica classica»359.
Per la datazione dei concili ci siamo basati sul Dizionario dei concili, diretto da P. Palazzini, voll. I-VI,
Roma, 1963-1967.
356
CONCILIUM ELIBERITANUM, can. 5 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. II [Ab anno CCCV ad annum CCCXLVI], Florentiae, 1759, col. 6).
357
CONCILIUM ANCYRANUM, can. 22; 23 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. II, cit., coll. 519-522).
358
CONCILIUM NEOCESARIENSE, can. 4 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. II, cit., col. 540).
359
L. MUSSELLI, La imputabilità nelle fonti canonistiche del periodo preniceno, cit., pp. 18-19.
355
86
Per le epoche successive bisogna aspettare gli inizi del IX secolo per avere
disposizioni normative che arricchiscono la riflessione sulla responsabilità incentrando
l’attenzione sempre sul delitto di omicidio. La persistenza del modello di imputabilità
oggettiva dell’ordinamento germanico spinge a dare alcune precisazioni in tema di atto
imputabile.
Il canone 29 del concilio di Worms, convocato nell’ anno 868, mantiene infatti la
distinzione tra homicidium sponte / homicidium non sponte e contempla anche l’ipotesi
del potatore di alberi che, per negligenza, non si accorge della caduta di rami che
causano l’omicidio di un individuo360.
Il concilio di Treviri, tenutosi nell’ anno 895, riproduce la stessa dicotomia riportata
ed afferma l’innocenza di colui che, non avendo mancato alla dovuta diligenza, avesse
determinato la morte del fratello in occasione del taglio di alberi361.
Siffatto concilio rappresenta una reazione al principio della responsabilitas ex
effectu, che conduce all’imputazione dell’effetto dannoso dell’azione anche al di fuori
del concorso della volontà libera e deliberata dell’agente, accogliendo invece il
principio della responsabilitas ex voluntatis consensu362.
Il Decretum Gratiani raccoglierà una ampia gamma di canoni conciliari eterogenei
offrendo una singolare testimonianza della difficoltà che incontrò la tesi volontaristica
propugnata dalla dottrina ecclesiastica tradizionale.
1.2.3) (segue) Le collezioni canoniche fino al periodo pre-classico
La dicotomia omicidio volontario / omicidio involontario è attestata nella Vetus
Gallica363, collezione, elaborata in tre fasi diverse
(600-721), che
riprende
espressamente il concilio ancirano, distinguendo tra la rubrica De homicidis sponte
CONCILIUM WORMATIENSE, can. 29 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. XV[Ab anno DCCCLV usque ad annum DCCCLXVIII incl.], Venetiis, 1770, col. 874).
361
CONCILIUM TRIBURIENSE, can. 36 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. XVIII [Ab anno DCCCLXXXV usque ad ann. DCCCCLXVII iam inceptum],, Venetiis,
1773, col. 150).
362
In tal senso P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’
di Graziano, cit., p. 453; G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p.
1105, nt. 50.
363
L’edizione critica è quella di H. MORDEK, Kirchenrecht und Reform in Frenkreich: Die Collectio
“Vetus Gallica”, die älteste systematische Kanonensammlung des frankischen Galliens, Berlin, 1975, pp.
341-617.
360
87
commissis e quella De homicidis non sponte commissis364. L’opera ebbe un’ampia
diffusione anche al di fuori della Gallia e fu usata in numerose collezioni canoniche
posteriori ed in penitenziali di epoca carolingia365.
Lo stesso dicasi per un’altra importante collezione, la Hispana366, la quale è il
risultato di un lungo processo di redazione e aggiornamento che comincia nel 633, al
tempo di Isidoro, vescovo di Simiglia a cui è generalmente attribuita, e giunge fino al
702. Nella predetta raccolta viene pertanto mantenuta la dicotomia risalente al concilio
di Ancira ma vengono modificate le rubriche che disciplinano invece De his qui
volentes homicidium fecerunt e De his qui nolentes homicidium fecerunt367.
In siffatta tradizione si inserisce anche la collezione Dionysiana-Hadriana368,
edizione aggiornata della celebre collezione Dionysiana369 offerta da papa Adriano I a
Carlo Magno nel 774, e divenuta di fatto «il codice dei canoni del regno dei Franchi e
di tutta la riforma [carolingia]»370.
Fino a questo periodo possiamo notare come nelle fonti conciliari e nelle collezioni
canonistiche non ci sia alcun riferimento al diritto romano in materia di responsabilità.
Bisogna attendere una raccolta di testi di diritto romano, ma destinati agli
ecclesiastici, per rivedere un riferimento alla lex Aquilia. Si tratta della Lex romana
canonice compta371, opera anonima risalente alla prima metà del secolo IX e redatta
nell’Italia settentrionale, ove circolò fino al XII secolo. Al capitolo 198 di essa
ritroviamo il titolo III del libro IV delle Institutiones giustinianee relativo alla lex
Aquilia.
Cfr. Rubrica L, 2a De homicidis sponte commissis, e Rubrica L, 2b De his, qui non sponte homicidium
commiserunt, in H. MORDEK, Kirchenrecht und Reform in Frenkreich: Die Collectio “Vetus Gallica”, die
älteste systematische Kanonensammlung des frankischen Galliens, cit., p. 567.
365
B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 102.
366
L’edizione, peraltro monumentale, è di G. MARTÍNEZ DÍEZ, La colección canónica Hispana, vol. I-II,
Madrid, 1966-1976; G. MARTÍNEZ DÍEZ-F. RODRÍGUEZ, La colección canónica Hispana, vol. III-IV,
Madrid, 1982-1984.
367
G. MARTÍNEZ DÍEZ-F. RODRÍGUEZ, La colección canónica Hispana, vol. III, Concilios griegos y
africanos, Madrid, 1982, pp. 101-102.
368
Per gli studi cfr. J. GAUDEMET, Le sources du droit canonique. VIIIe-XXe siècle, Paris, 1993, p. 26.
L’edizione da noi utilizzata è tratta da PL, vol. 67, Lutetiae Parisiorum, 1848, coll. 135-230.
369
È la celebre opera di Dionigi il piccolo che, così come è oggi da noi conosciuta, risulta costituita
dall’unione di due collezioni: il Liber Canonum ed il Liber Decretalium, opere originarie e distinte di
Dionigi. Sul punto si veda B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp. 87-90.
370
Così B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 122.
Per i riferimenti all’omicidio volontario e involontario cfr. § 41-42, in PL, vol. 67, cit., col. 156.
371
Per l’edizione si veda C. G. MOR, Lex romana canonice compta, testo di leggi romano-canoniche del
secolo IX, Pavia, 1927.
364
88
Tuttavia questa raccolta romanistica esercitò un influsso limitato sulle collezioni
canoniche coeve o successive372. L’unico testo canonistico che si ispira direttamente
alla Lex romana canonice compta è la Collectio Anselmo Dedicata373, opera di autore
ignoto e dedicata ad Anselmo II arcivescovo di Milano, scritta verso l’anno 882, ad oggi
in gran parte inedita. La collezione riprende, nel libro VII, § 30, il capitolo 198 della
Lex romana canonice compta dedicato al danno aquiliano374. I due elementi di novitas
presentati dalla predetta collezione sono l’ordinamento sistematico e l’inserzione, nel
tradizionale schema canonistico, quale si era consolidato nella raccolta pseudoisidoriana, delle lettere di Gregorio Magno e del diritto romano375.
Eccetto la parentesi della rievocazione della lex Aquilia nella Collectio Anselmo
Dedicata, nelle altre collezioni vi sarà un ritorno ai sopra ricordati canoni dei concili di
Worms e Treviri in tema di omicidio.
Così accade nei Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis376, sorta
di manuale per le visite pastorali (corredato da un questionario al clero e ai laici), opera
dell’abate Reginone di Prüm composta intorno al 906 su richiesta di Radboto, vescovo
di Treviri377.
L’opera riprende infatti la tematica delle due forme di omicidio con un legame
particolare tra l’omicidio involontario e la negligenza378.
La medesima impostazione si può riscontrare in un altro testo importante, che si
inserisce nelle collezioni dell’età della Riforma Pregregoriana: il Decretum Burchardi
Wormatiensis379. L’opera, compilata tra l’anno 1008 ed il 1012 da Burcardo vescovo di
Worms, è una collezioni metodica ed enciclopedica di grande successo e notevole
E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., p. 244.
Per le edizioni parziali e gli studi sulla raccolta si veda B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto
canonico, cit., pp. 152-153. Cfr. anche J. GAUDEMET, Le sources du droit canonique. VIIIe-XXe siècle,
cit., p. 38.
374
C. G. MOR, Lex romana canonice compta, testo di leggi romano-canoniche del secolo IX, cit., p. 26.
Il libro VII è dedicato alla trattazione di tematiche attinenti ai laici. Per un quadro d’insieme sulla
ripartizione delle materie nell’ Anselmo Dedicata cfr. P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections
canoniques en occident depuis les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, Paris, 1931, p.
236.
375
C. G. MOR, L’età feudale, vol. II, Milano, 1952, p. 428.
376
L’edizione è di F. WASSERCHLEBEN, Reginonis abbatis Prumiensis Libri duo de synodalibus causis et
disciplinis ecclesiasticis, Leipzing, 1840.
377
B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp. 149-151.
Per approfondamenti P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en occident depuis
les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, cit., pp. 244-268.
378
De synodalibus causis, II, 17, De homicidiis non sponte commissis; II, 18, De eadem re, che
riprendono rispettivamente il concilio di Worms e quello di Treviri.
379
Per l’edizione si veda PL, vol. 140, Lutetiae Parisiorum, 1853, coll. 537-1058.
372
373
89
prestigio che segna il traguardo finale dell’ideologia della Chiesa carolingia-ottoniana e
al contempo è il punto di partenza verso quella gregoriana380.
Burcardo dedica l’intero libro VI alla tematica dell’omicidio riprendendo
espressamente i canoni dei concilio di Worms e Treviri sull’omicidio volontario ed
involontario381.
Anche Bonizone di Sutri382 nel libro IX del Liber de vita christiana383, opera scritta
tra il 1089 e il 1095384, dedica ampio spazio alla trattazione dell’omicidio volontario385
ed involontario386, mutuando il testo dai relativi canoni dei concili di Ancira ed Elvira,
nonché della fattispecie di omicidio commesso «voluntate vel negligentia» dal potatore
di alberi387. Nell’opera è altresì inserito un frammento dedicato al danneggiamento dei
monasteri, delle chiese e altri luoghi sacri (De his, qui iniuriam inferunt ecclesiis)388.
Similmente Ivo vescovo di Chartres389, la cui personalità ed opera sono
testimonianze di un convulso crocevia storico per le vicende della Chiesa medievale390,
nel libro X del suo Decretum391, composto verso l’anno 1094, tratta De homicidiis variis
mantenendo i riferimenti ai citati canoni conciliari di Worms e Treviri392, probabilmente
mutuati dal Decretum di Burcardo.
1.2.4) (segue) I libri penitenziali tra responsabilità e ripazione della colpa
La necessità di dedicare un’apposita trattazione alle tematiche della responsabilità,
imputabilità e riparazione della colpa nei libri penitenziali è suggerita dalla stessa natura
di questi importanti testi canonistici. I libri penitenziali infatti sviluppano la teoria della
In tal senso B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., pp.157-159; C. FANTAPPIÈ,
Introduzione storica al diritto canonico, cit., p. 78.
381
BURCHARDUS WORMATIENSIS, Decretum, VI, 21-22.
382
Sulla figura di Bonizone e sul Liber de vita christiana si veda G. BONI, Matilde di Canossa e i
canonisti del suo tempo, in Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, vol. I, Torino, 2011,
pp. 79-84, con utili riferimenti alle altre collezioni canoniche gregoriane.
383
L’edizione è stata curata da E. PERELS, Berlin, 1930.
384
B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 176.
385
BONIZO, Liber de vita christiana, IX, 30.
386
BONIZO, Liber de vita christiana, IX, 31.
387
BONIZO, Liber de vita christiana, IX, 34.
388
BONIZO, Liber de vita christiana, X, 30.
389
Per un profilo biografico si veda B. BASDEVANT-GAUDEMET, YVES DE CHARTRES, in P. ARABEYREJ. L. HALPÉRIN-J. KRYNEN (a cura di), Dictionnaire historique des juristes français XIIe-XXe siècle, Paris,
2007, pp. 787-788.
390
In tal senso P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 116-117.
391
L’edizione da noi utilizzata è quella presente in PL, vol. 161, Lutetiae Parisiorum, 1855, coll. 47-1036.
392
IVO CARNOTENSIS, Decretum, X, 150-151.
380
90
responabilità ed imputabilità avviata nella patristica e nelle prime collezioni
canonistiche presentando un’interessante applicazione casistica non senza incongruenze
o singolarità dovute al peso dei costumi e delle tradizioni dei luoghi di formazione dei
testi393.
Quanto al genere letterario, i Libri poenitentiales sarebbero indici o tavole o elenchi
di vizi con l’indicazione della rispettiva penitenza ecclesiastica da imporre. Essi erano
destinati ai sacerdoti per la riconciliazione del penitente e furono concepiti in funzione
delle esigenze del peccatore, per cui per ogni peccato viene precisata la penitenza394.
Giova ricordare che nella Chiesa dei primi secoli il regime (ordo) della penitenza
pubblica seguiva uno schema ben preciso. I penitenti, infatti, costitutivano un coetus
fidelium a sé stante, avevano un loro status e addirittura un abito particolare. La
modalità di accesso alla penitenza era duplice: si potevano confessare pubblicamente le
proprie colpe (petere poenitentiam), oppure si poteva essere chiamati dall’autorità
ecclesiastica (quasi sempre il vescovo) a scontare colpe gravi e scandalose, conosciute
dalla comunità (accipere poenitentiam). Questa rigorosa procedura penitenziale, che si
concludeva con la rimessione dei peccati alla quale si poteva accedere una sola volta
dopo il battesimo, era diventata un fatto formale e la maggior parte dei fedeli continuava
a vivere secondo le vecchie abitudini395.
La pubblicità di siffatta penitenza attiene al processo di riconciliazione e non
dunque alla confessione dei peccati. La confessione pubblica dei peccati restò un fatto
eccezionale.
Sotto l’influsso del monachesimo irlandese la penitenza pubblica inizia a
scomparire. Giova ricordare che Irlanda e Inghilterra non conobbero mai la penitenza
pubblica come risulta dal Penitenziale di Teodoro vescovo di Canterbury dal 668 al
690396. In epoca carolingia essa permane solamente per le colpe pubbliche. Alla
regressione della penitenza pubblica corrisponde lo sviluppo della penitenza privata.
L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, in Studi in memoria di Pietro
Gismondi, vol. II, Milano, 1991, ora in L. MUSSELLI-E. GRILLO, Matrimonio, trasgressione e
responsabilità nei penitenziali. Alle origini del diritto canonico occidentale, cit., p. 43.
394
B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 106.
395
C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 64-65.
396
Poenitentiale Theodori, 1, 13, 4: «reconciliatio ideo in hac provincia publica statuta non est, quia et
publica poenitentia statuta non est». Il testo è tratto da F. W. H. WASSERSCHLEBEN, Die Bussordnungen
der abendländischen Kirche, Halle, 1851, p. 197.
Su Teodoro da Canterbury e la sua epoca si veda G. GARANCINI, Persona, peccato, penitenza. Studi sulla
disciplina penitenziale nell’Alto Medio Evo, in RSDI, 47 (1974), pp. 45-47.
393
91
Quest’ultima
comportava
una
confessione
segreta
seguita
di
solito
da
un’assoluzione immediata. Essa imponeva opere penitenziali quali digiuni, preghiere ed
elemosine.
La rapida diffusione della penitenza privata fu favorita dalla pratica della
confessione frequente e dall’ammissione del principio della sua reiterazione.
Come efficacemente sottolineato dal Gaudemet, la penitenza «mira al perdono,
offrendo il suo aiuto a colui che ha ceduto. Questo perdono esige l’espiazione, il
“riscatto” dalla colpa e questo riscatto è “tariffato”, come lo era, nelle leggi secolari
dello stesso periodo, il prezzo (“wergeld”) da pagare per ogni infrazione»397.
Il sistema delineato dai penitenziali era «debitore in larga parte verso quella cultura
barbarica che aveva generato il guidrigildo, anche se allo scopo della soddisfazione e
della composizione era almeno uguale quello della ricostruzione – nella sua dignità –
dell’uomo e, attraverso esso, dell’intera comunità»398.
L’automatismo nella determinazione delle penitenze, tuttavia, non si impose senza
reticenze. Infatti la penitenza tariffata venne condannata nel 589 dal can. 11 del
concilio di Toledo ( che confermò l’obbligo di seguire la penitenza pubblica), per poi
essere approvata dal concilio di Châlon sur Saône nel 644/656, divenendo la regola in
epoca carolongia399.
La tariffazione non poteva essere lasciata alla valutazione del confessore e venne
pertanto fissata nel libri penitenziali i quali per ogni peccato prevedevano un’apposita
penitenza.
Il contenuto della penitenza da seguire poteva variare dal digiuno alla
mortificazione-flagellazione, fino a pratiche a volte amorali o non in sintonia con la
visione della Chiesa. Era poi possibile la commutazione, cioè la sostituzione di
penitenze leggere per un tempo lungo con penitenze pesanti per un tempo più ridotto, o
viceversa. Sussisteva anche la possibilità di “delegare” la penitenza ad un procuratore,
J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 308.
M. G. FANTINI, La cultura del giurista medievale. Natura , causa, ratio, pref. di G. GARANCINI,
Milano, 1998, p. 31.
399
Cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 106.
Per approfondimenti si veda il corposo ed accurato studio di O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica
alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, in Lex
Iustitia Veritas. Per Gaetano Lo Castro. Omaggio degli allievi, Napoli, 2012, pp. 127-129.
In merito alla reazione negativa del clero latino della gallia verso la diffurione dei libri penitenziali e della
penitenza tariffata cfr. R. SALVARANI, Prassi penitenziali, vita e organizzazione della Chiesa nelle città e
nelle campagne, in M. SODI-R. SALVARANI (a cura di), La penitenza tra I e II millennio. Per una
comprensione delle origini della Penitenzieria Apostolica, Città del Vaticano, 2012, pp. 53-62.
397
398
92
adeguatamente pagato400. In queste commutazioni, che figuranno nei libri peniteniali
unitamente al tariffario delle penitenze, si deve riconoscere – ad avviso di alcuni autori
– l’origine delle indulgenze e una delle cause della diffusione della messa privata401.
Spesso la penitenza tariffata veniva ad aggiungersi alla composizione legale, come
nel caso di tutti i peccati aventi una rilevanza per il foro esterno402. Siffatta idea della
penitenza
fissata
oggettivamente,
proporzionata
al
peccato
commesso
ed
individualizzata, favorisce una concezione della giustizia che passa dal dominio
ecclesiastico a quello della società civile403.
Potendo il peccatore ricorrere alla penitenza tariffata in ogni occasione di peccato, il
penitente, a differenza del passato, non costituisce più un membro dell’ordo
poenitentium che pertanto non esiste più. L’attenzione pertanto si pone sulla riparazione
della colpa ed eventualmente della compensazione del danno causato, e non dunque
sulla figura del peccatore che non indossa più alcun abito specifico né occupa alcun
posto speciale nella chiesa.
Dalla lettura dei libri poenitentiales risulta prima facie l’anarchia che regna nel
sistema delle tariffazioni. Ogni opera mostra l’intera incoerenza del sitema penitenziale
tariffato che varia pertanto in base alle tradizioni dei luoghi di formazione dei testi.
Aldilà dei difetti e delle caratteristiche di ogni libro penitenziale, rimane il ruolo
civilizzatore avuto dai medesimi nell’alto Medioevo404.
Ai fini della presente trattazione ciò che merita attenzione sono, invece, alcuni
aspetti della responsabilità e imputabilità affrontati in queste importanti opere
medievali405.
Cfr. J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 309; B. E. FERME,
Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 106.
Per approfondimenti si veda C. VOGEL, Composition légale et commutations dans le système de la
pénitence tarifée, in RDC, VIII (1958), pp. 289-318; IX (1959), pp. 1-38; 341-359.
401
In tal senso P. SORCI, Disciplina e prassi penitenziale nei libri liturgici del tempo, in M. SODI-R.
SALVARANI (a cura di), La penitenza tra I e II millennio. Per una comprensione delle origini della
Penitenzieria Apostolica, cit., p. 165.
402
O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage
fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 159.
403
G. PICASSO-G. PIANA-G. MOTTA (a cura di), A pane e acqua: peccati e penitenze nel Medioevo. Il
Penitenziale di Burcardo di Worms, Novara, 1986, p. 41.
404
J. LAHACHE, Pénitentiels, in DDC, t. VI, Paris, 1957, col. 1343.
405
Rilevanti sul punto gli studi di L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, cit.,
pp. 45-50, e di O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile:
l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 163-167.
400
93
La materia trattata dai penitenziali è eminentemente penale, e comprende più
frequentemente i crimini gravi. Eccetto pochissimi casi, rimane indiscusso il carattere
personale della responsabilità406. Sarebbe riduttivo però limitare la casistica ai soli
crimina senza includere quelle fattispecie corrispondenti ai delicta del diritto romano. Si
pensi al caso del potatore di alberi che, «ex incuria vel negligentia», abbia danneggiato
o ucciso un uomo407.
Ricorrono altresì i principi, già presenti nella tradizione anteriore, della maggiore
responsabilità di chi rivesta particolari dignità nella Chiesa, nonché quello della
proporzione tra colpa e pena («diversitas culparum diversitatem facit poenitentiarium»)
e del carattere medicinale408 della pena stessa («ita igitur etiam spirituales medici
diversis curationis generibus animarum vulnera, morbos, culpas, dolores, aegretudines,
infirmitates sanare debent»)409.
Quanto al ruolo della volontà dell’agente, si tratta di uno dei tratti più caratteristici
dei penitenziali che, a partire da quello attribuito a Finniano di Clonard410, prevedono
una graduazione della pena distinguendo, per quanto riguarda l’omicidio, tra quello
premeditato («ex odii meditatione») e quello compiuto invece in un improvviso raptus
d’ira («iracundia subita, instinctu diaboli» o altre espressioni).
L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, cit., p. 44, nt. 2, individua in
Judicium Culparum aut Canones Wallici, XII (15), l’unico esempio di coinvolgimento degli stretti
congiunti nella responsabilità dell’omicida.
Si tratta di un penitenziale bretone appartenente al primo periodo di sviluppo dei libri penitenziali (cioè
dalle origini alla metà del secolo VII). Cfr. sul punto B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto
canonico, cit., p. 108, in cui non è indicata tra le edizioni del testo quella contenuta in P. CIPROTTI,
Penitenziali anteriori al sec. VII, Milano, 1966, opera che viene però citata dal Ferme nella bibliografia
generale sui penitenziali (p. 107).
407
BURCHARDUS WORMATIENSIS, Decretum, XIX, 22.
Il libro XIX, dedicato alla materia penitenziale, è considerato come l’ultimo di questo genere letterario, ed
è noto anche con il titolo di Corrector sive medicus. Cfr. P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des
collections canoniques en occident depuis les fausses décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, cit.,
pp. 369;414, e O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e
oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 146.
408
Sul passaggio dal confessore-medico al confessore giudice cfr. R. RUSCONI, Ordini medievali del
peccato. La penitenza tra confessione e tribunale, in M. BORSARI-D. FRANCESCONI, Peccato e pena.
Responsabilità degli uomini e castigo divino nelle religioni dell’Occidente, cit., pp. 118-122.
409
Così il prologo del cd. Penitenziale B attribuito a San Colombano (in P. CIPROTTI, Penitenziali
anteriori al sec. VII, cit., p. 32). Per le edizioni e gli studi sul penitenziale colombaniano si vedano C.
VOGEL, Les «Libri Paenitentiales», (Typologie des sources du Moye Âge occidental, fasc. 27), a cura di
A. J. FRANTZEN, Turnhout, 1985, p. 23, e B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit.,
pp. 109-110.
410
Il Paenitentiale Vinniani è considerato il primo vero libro penitenziale dell’Irlanda. È attribuito a
Finniano di Clonard († 549 circa) ma potrebbe essere anche un altro Finniano, di Molville o MagBile.
Cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 109.
406
94
Non è da trascurare poi la questione dell’imputabilità degli atti interni. I penitenziali
infatti accolgono infatti l’idea affermata, dai Vangeli in poi, dell’imputabilità degli atti
interni precisando, tuttavia, che pur non mutando la natura del peccato per il suo
estrinsecarsi o meno all’esterno, non necessarimente uguale debba essere la sanzione
del medesimo.
Il penitenziale di Finniano afferma a tal proposito che «in corde et non in corpore
unum est peccatum sed non eadem poenitentia»411.
La configurazione del concetto di tentativo è ancora allo stato embrionale ma
occorre dire che, a differenza del diritto laico coevo in cui non sono punibili le volizioni
interne, nei penitenziali l’intentio, la voluntas peccandi e la cogitatio peccati sono
elementi rilevanti, cosicchè l’individuo viene reputato imputabile per il solo fatto di
essersi psicologicamente convinto ad operare l’infrazione, senza alcun bisogno di atti
esterni412.
Si tratta di un aspetto di notevole importanza per la distinzione tra foro interno e
foro esterno, e di conseguenza tra l’ordinamento canonico e quello secolare413.
Riveste particolare importanza, ai fini della presente trattazione, un’ulteriore
caratteristica dei libri penitenziali rappresentata dall’obbligazione, imposta al penitente,
di riparare i danni causati.
Siamo ancora ai primordi di un principio generale di riparare il danno ingiusto:
quello che interessa sottolineare è il fatto che la penitenza tariffata attiene al foro
interno, mentre l’obbligo di riparare i danni viene imposto spesso sul piano del foro
esterno perché si trattarebbe di un’esigenza di giustizia414.
La riparazione assume nei penitenziali una duplice forma. Nel caso di omicidio il
colpevole si sostituisce alla vittima per compensare la perdita subita dalla famiglia.
Nell’evenienza di lesioni, essa cosiste invece in un risarcimento che, in caso di
impossibilità, può tramutarsi in un aiuto materiale da parte del reus gestendo l’attività
Paenitentiale Finniani, XVII (in L. BIELER, Irish Penitentials, Dublin, 1963, p. 78.
In tal senso L. MUSSELLI, La responsabilità penale e morale nei penitenziali, cit., pp. 46; 50-51.
413
Insiste su questo aspetto O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de
responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp.
163-164.
414
È questo l’aspetto su cui insisteranno i teologi ed i canonisti del periodo classico con la riflessione
sulla restitutio. Cfr. O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino
e oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., pp. 148-151.
411
412
95
dell’offeso oppure pagando le spese mediche415. Alla riparazione in natura si aggiunge
anche la modalità del risarcimento per equivalente. In siffatto clima comincia ad essere
sempre più frequente, nei casi di impossibilità di attuare la reparatio, il riscatto
penitenziale per commutazione416. Esso implica ad esempio la sostituzione di un
periodo di digiuno più lungo con uno più corto. In virtù della soddisfazione vicaria
invece una terza persona può sostituire il penitente417.
Altre volte è lo stesso penitente ad offrire un quantità di denaro come equivalente
della penitenza imposta.
La pratica del riscatto penitenziale avvia ovviamente il declino della penitenza
tariffata svuotata dei suoi contenuti proprio per le tecniche di commutazione. Nella
procedura penitenziale comincia pertanto a trionfare gradualmente la confessione dei
peccati. A partire dal IX secolo dottrina e legislazione erano quasi unanimi nel
considerare obbligatoria la confessione dei peccati gravi («semel in anno») e nel
consigliare la confessione dei peccati veniali. L’XI secolo riprende questa disciplina, in
particolare l’analisi di Rabano Mauro. La dottrina vede nella confessione dei peccati la
parte fondamentale della penitenza, l’elemento essenziale per l’espiazione dei
medesimi418. La remissione dei peccati sarà fondata sulla confessione, la quale,
diventando la condizione per il perdono, trionferà sulla stessa satisfactio dovuta alla
vittima segnando il declino del sistema della riparazione419.
Il cambiamento di prospettiva si comprende per l’erubescentia che provoca la
confessione dei peccati nel corpo e nell’anima del penitente, erubescentia che diventa la
penitenza per eccellenza.
O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile: l’héritage
fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 165, con riferimenti al
Penitenziale di san Colombano ed a quello di Beda.
416
C. VOGEL, Composition légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, VIII
(1958), pp. 299-318.
417
Sulla soddisfazione vicaria, nota come commutazione per terza persona, cfr. C. VOGEL, Composition
légale et commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, IX (1959), pp. 34-37.
418
J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., p. 621.
419
In tal senso O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile:
l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 165-167.
415
96
Al ruolo sempre minore della satisfactio giustificato dall’addolcimento della
penitenza tariffata corrisponde il trionfo della confessione, ed in siffatto contesto agli
antichi libri penitenziali subentreranno le somme dei confessori420.
2) Tra diritto romano volgare e diritto germanico.
Nonostante il rapido declino dell’insegnamento giuridico nella parte occidentale
dell’Impero, il diritto romano era sopravvissuto anche grazie alle leggi dei regni
romano-barbarici redatte a partire dalla seconda metà del V secolo.
Ispirandosi alle fonti romane classiche, il diritto volgare e le prime leggi delle
popolazioni barbariche mantennero, non senza qualche rilevante modifica, la
sistematica e le nozioni tradizionali anche nella materia del danno extracontrattuale.
Valga come esempio la Lex Romana Wisigothorum (risalente al 506), meglio nota
come Breviario d’Alarico421, che nell’Occidente franco-iberico integrò la preesistente
Lex Visigothorum, di qualche decennio più giovane422.
È nel Breviario d’Alarico che confluiscono423 infatti quegli estratti delle Sententiae
di Paolo e delle Interpretationes Pauli nei quali è ravvisabile l’alterazione della
classificazione crimina/delicta424, nonchè la differenza tra crimen e negligentia425.
Altra
classificazione
che
subisce
deformazioni
è
quella
relativa
a
contractus/delictum come fonte delle obbligazioni. Nell’Epitome di Gaio (2, 9, pr.) il
sostantivo delictum è sostituito da culpa («omnes obligationes aut ex contractu
Sulla differenza tra i libri penitenziali e le Summae poenitentiales, seu confessorum, nonché i semplici
elenchi di peccati presenti già in Agostino e Cesario di Arles, ed i canoni penitenziali dei concili
dell’antichità cfr. B. E. FERME, Introduzione alla storia del diritto canonico, cit., p. 107.
Sulla portata antropologica della penitenza nelle varie fasi storiche si veda P. LEGENDRE, Aux sources de
la culture occidentale: L’ancien droit de la pénitence, in La cultura antica nell’Occidente Latino dal VII
all’XI secolo, (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XXII, Spoleto, 18-24
aprile 1974), Spoleto, 1975, pp. 575-595.
421
È un’opera compilatoria che compendia, delle leges, circa un sesto delle costituzioni contenute nel
codice Teodosiano e alcune novelle post-teodosiane, mentre degli iura, essa riassume il Liber Gai, alcuni
estratti delle Sententiae di Paolo e dei codici Gregoriano ed Ermogeniano (questi, pur contendo leges,
venivano classificati tra gli iura dal momento che erano opera di privati), ed infine un frammento dei
Libri responsorum di Papiniano.
422
Cfr. E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I, cit., pp. 55-64.
423
Sul punto si veda la preziosa indagine di O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en
matière de responsabilité civile: l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgarofranc, cit., pp. 167-174.
424
Paul. Sent. 5, 20, 6.
425
Int. ad Paul. Sent. 5, 3, 6.
420
97
nascuntur, aut ex culpa»), ma si tratta di una scelta non definitiva giacchè lo stesso
redattore subito dopo (2, 9, 1) parla di obbligazioni «quae ex delicto nascuntur».
Analogo snaturamento subisce l’incendio per caso fortuito, considerato non più
delitto ma damnum datum che implica il risarcimento426.
L’alterazione degli istituti classici conosce un altro esempio sempre nelle
Interpretationes Pauli che sembrerebbero distinguere tra damnmum dare ed iniuriam
facere427.
Nell’area dominata dai Franchi, in cui la conversione al cattolicesimo rinsaldò i
vincoli tra la popolazione gallo-romana ed i Franchi, la cultura latina fu conservata a
opera degli ambienti ecclesiastici ma rimasero dei filoni culturali di impronta
germanica.
Tra questi occorre menzionare il complesso normativo franco in cui spicca
sicuramente la legge Salica (Pactus legis Salicae). Siffatta legge presentava una serie di
capitoli dedicati alle compositiones cioè le pene pecuniarie per i reati utilizzate dai
popoli germanici al fine di placare i danneggiati ed evitare le vendette o faide428. In essa
emerge il carattere oggettivo della responsabiltà che tuttavia risulta sfumata in
determinati casi in cui l’intenzione costituisce condizione dell’incriminazione429.
Nel diritto germanico più antico dominava comunque una concezione unitaria e
generica di fatto o atto illecito che si concretizzava in un tortum vale a dire «ogni
lesione giuridica idonea a legittimare reazioni di autotutela, dirette a conseguire la
riparazione del danno imputabile all’offensore, senza chiara distinzione tra illecito
penale e illecito civile,, né tra le diverse forme di quest’ultimo, in rapporto alla natura
del diritto leso»430 e si basava «esclusivamente sul risultato esteriore dell’azione
criminosa, sul danno che essa ha visibilmente prodotto: l’azione antigiuridica si
Paul. Sent. 5, 20, 3.
Int. ad Paul. Sent. 2, 31, 23.
428
Cfr. G. SALVIOLI-G DE VERGOTTINI, Composizioni (Sistema delle), in NSSDI, vol. III, Torino, 1959,
pp. 779-781.
429
Si veda O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile:
l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 178-181. L’autore
approfondisce anche gli aspetti del danno extracontrattuale nei capitolari carolingi.
430
G. ASTUTI, Obbligazioni (diritto intermedio), in ED, v. XXIX, Milano, 1979, p. 80.
426
427
98
identifica con l’evento dannoso»431, restando del tutto irrilevante il presupposto
soggettivo della responsabilità nella totale indistinzione tra risarcimento e pena432.
La compositio (vale a dire il versamento di una somma di denaro alla parte offesa a
scopo di pacificazione)433 e il guidrigildo (sorta di pena pecuniaria diretta a compensare
le offese o danni arrecati ad un uomo libero, incluso l’omicidio)434, difatti, tendevano ad
ottenere e ad assicurare il risarcimento del danno oggettivamente provocato435, non
rilevando il fatto che esso fosse derivato dall’inadempimento contrattuale ovvero dal
delitto436, né il fatto che nel debitore ricorresse o meno la colpa437.
Già Francesco Calasso aveva notato che l’ordinamento germanico arcaico, non
sollecitato da motivi etici, ma esclusivamente preoccupato di ristabilire la pace tra
gruppi parentali nemici, guardò il fatto illecito nella sua materialità, allo scopo di
valutare il danno economico arrecato dall’offensore all’offeso e di imporre
obbligatoriamente la compositio in misura sempre più larga e conveniente438.
L’elemento intenzionale iniziò ad emergere anche nella mentalità del legislatore
longobardo, «in una più spiritualizzata configurazione del comportamento umano e
della responsabiltà»439.
Ciò risulta, ad esempio, nell’Editto di Rotari, risalente all’anno 643 d.C.440, il quale
offre una minuziosa casistica di fatti illeciti441, tipica espressione di uno scarso grado di
A. CAVANNA, La civiltà giuridica longobarda, in AA.VV., I Longobardi e la Lombardia, Milano,
1978, pp. 27 ss.
432
Sulla concezione oggettiva germanica G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto
intermedio, cit., p. 1101.
433
È stato autorevolmente segnalato da G. DIURNI, Pena privata (diritto intermedio), ED, v. XXXII,
Milano, 1982, pp. 742; 745, che l’eliminazione degli stati di faida derivanti dall’esercizio della vendetta
privata tra i gruppi parentali intervenne in epoca successiva con il rafforzarsi del pubblico potere che
legittimò lo strumento della compositio (pagamento di una somma pecuniaria) con funzione afflittiva
(pena privata) e satisfattoria (risarcimento del danno).
434
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1101, nt. num. 16, ha
giustamente sottolineato che il guidrigildo è «espressione della mancanza di spiritualizzazione che
contrassegna la rappresentazione longobarda della persona umana».
435
F. SCHUPFER, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, v. III, Il diritto
delle obbligazioni, Città di Castello-Roma, 1909, p. 25, evidenzia la necessità e sufficienza
dell’accertamento del nesso di causalità.
436
«In hac lege “debitor” accipitur tam de maleficio quam de contractu» (Expositio ad Roth. 245).
437
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1101-1102; P. RASI,
L’“actio legis Aquiliae” e la responsabilità extracontrattuale nella “Glossa”, in G. ROSSI (a cura di), Atti
del Convegno internazionale di Studi Accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), vol. II, Milano, 1968, p.
726.
438
F. CALASSO, Il negozio giuridico. Lezioni di storia del diritto italiano, II ed., Milano, 1967, p. 116.
439
Così G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1102.
440
Sul piccolo codice longobardo si veda F. CALASSO, Medio Evo del diritto, I, (Le fonti), Milano, 1954,
pp. 106-108.
431
99
astrazione, in cui più volte è preso in considerazione l’elemento psichico, anche se
diversa è poi la sua incidenza nell’affermazione e nella graduazione della responsabilità.
L’attenzione rivolta dal legislatore longobardo all’intenzione dell’agente è dunque
un chiaro segnale di come egli si sia allontanato dall’arcaicizzante mentalità barbarica.
3) L’età dei Comuni
Nell’età dei Comuni l’impostazione germanica verrà recepita nella legislazione
statutaria442 che sovente contemplò fattispecie di responsabilità improntate letteralmente
al modello oggettivo. Si pensi alla disciplina statutaria del «danno dato» che costituì
fraquentemente un apposito libro degli stessi statuti, oppure semplicemente una rubrica
od un capitolo, la quale si caratterizza per la scarsa sensibilità mostrata verso l’elemento
soggettivo. La figura del danno dato si pone in una posizione intermedia tra l’illecito
civile e quello penale, comprendendo varie fattispecie, oggi tenute separate dal diritto
vigente, come il danneggiamento vero e proprio, la turbativa del possesso, lo
spigolamento avusivo, l’appropriazione indebita, l’introduzione di animali nel fondo
altrui, il pascolo abusivo e l’uccisione o danneggiamento di animali altrui443.
Altra disposizione che si rinviene, senza eccezioni territoriali, nella legislazione
statutaria è quella relativa alla responsabilità collettiva per danni clandestinamente
arrecati, «i cui addentellati con il diritto germanico sono piuttosto evidenti, anche se il
principio di solidarietà, che ne è alla base, è ora diversamente sentito, in quanto esso
riposa non già su vincoli di sangue e di parentela come nell’età longobarda, quanto
piuttosto su vincoli che scaturiscono da quei comuni interessi, economici o di difesa,
che legano gli individui dimoranti in uno stesso luogo e costituenti una comunità»444.
La giurisprudenza dottrinale cercò di reinterpretare in termini soggettivi
le
fattispecie statutarie improntate su un modello oggettivo di responsabilità, segnalando
Se ne veda un’ampia rassegna in G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto
intermedio, cit., p. 1102-1105.
442
Per una dettagliata rassegna di previsioni statutarie G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale.
a) Diritto intermedio, cit., pp. 1106-1118.
443
Sul punto si veda l’ampia ricerca di A. DANI, Il processo per danni dati nello Stato della Chiesa
(secoli XVI-XVIII), Bologna, 2006, pp. 45 ss.
444
Così G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1109-1110.
441
100
l’ingiustizia e il carattere retrogrado del fondamento meramente causale che apparve ai
giuristi iniquo ed odioso.
Siffatto sistema basato sulla legislazione statutaria venne, col trascorrere del tempo,
a stemperarsi fino a scomparire quando al concetto di pena privata si sostituì quello di
pena pubblica, cioè quando la pena, come sanzione afflittiva esclusivamente pubblica,
venne rigorosamente distinta dal risarcimento, inteso come reintegrazione economica e
quindi satisfattiva del torto subito.
Conclusioni
Si è soliti dire che solamente nell’Età di mezzo, iniziò nuovamente e faticosamente
il percorso evolutivo di emancipazione della responsabilità civile da quella penale e di
generalizzazione del criterio di imputazione fondato sulla colpa, un percorso già
intrapreso, più o meno consapevolmente, dai giuristi romani, che fu interrotto dalle
invasioni barbariche445.
La disamina, nei paragrafi precedenti, dell’eredità patristica e canonistica e quella
del diritto volgare e della legislazione barbarica ha mostrato, invece, come questa
cesura non sia stata proprio netta ed assoluta, grazie ai rilevanti contributi apportati da
entrambi le correnti menzionate.
La patristica, e la canonistica ante Gratianum, hanno influenzato notevolmente la
materia della responsabilità extracontrattuale in merito al carattere soggettivo della
medesima, grazie al valore attribuito alla volontà sia per quanto riguarda la colpa sia per
la riparazione del danno causato.
Per contro la corrente del diritto volgare e del diritto germanico hanno esercitato un
altrettanto consistente influsso nella materia de qua giacchè fino all’età dei comuni
rimarranno numerosi casi di responsabilità oggettiva, soprattutto nell’ambito degli iura
Secondo P. CERAMI, La responsabilità extracontrattuale dalla compilazione di Giustiniano ad Ugo
Grozio, cit., pp. 107 ss., lo sviluppo storico della dottrina della responsabilità extracontrattuale durante il
diritto intermedio fu caratterizzato a) dalla marginalizzazione della natura penale dell’actio legis Aquiliae
con la correlativa generalizzazione della sua funzione risarcitoria, b) dal ridimensionamento della tipicità
del danno aquiliano con la conseguente configurazione dell’actio legis Aquiliae come azione generale per
ottenere la damni culpa dati reparatio, c) dalla configurazione della culpa come indeclinabile
presupposto soggettivo sia della responsabilità aquiliana per fatto proprio che di quella per fatto altrui.
445
101
propria, che testimoniano l’influenza della tradizione germanica e del modello di
responsabilità ex effectu446.
Come efficacemente notato dal Massetto, la Chiesa, anche con riferimento alla
materia della responsabilità extracontrattuale in siffatto periodo, «appare esercitare la
funzione con la quale incise, più in generale, sul terreno della civiltà, una funzione
intermediatrice tra la cultura latina e il mondo barbarico e, nel contempo, missionaria
in termini di cristianizzazione e di romanizzazione»447.
Per mezzo dei penitenziali la Chiesa impregnò tutta la società della propria morale
subendo al contempo l’influsso del sistema delle composizioni germaniche con
riferimento alla penitenza tariffata448, in una materia che – come sottolineava Francesco
Calasso - «parrebbe estranea agli interessi giuridici, e invece, si inserisce in pieno, con
l’idea che la domina, del delitto come peccato e della pena come penitenza […]»449.
Dalla lettura dei penitenziali emerge che il motivo di fondo della penitenza non fu
tanto «la legge da restituire alla sua pienezza, alla sua “dignità”, la norma da
osservare, quanto piuttosto la persona da ricostruire, l’equilibrio della vita da
ristabilire»450.
Lo studio dell’influenza del cristianesimo sul diritto della responsabilità, specie con
riferimento ai penitenziali, presenta un ulteriore elemento di complessità costituito dal
campo di applicazione delle pene.
Vogliamo alludere al complesso problema della distinzione tra foro interno e foro
esterno che, per i primi secoli nella storia della Chiesa, non era così netta e chiara come
lo è oggi451.
Si veda O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile:
l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., pp. 190-191.
447
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1105.
448
Un siffatto influsso non consiste nella replica pedissequa delle composizioni legali germaniche da
parte delle tassazioni presenti nei penitenziali, posizione sostenuta invece da una parte della storiografia.
Contro questa impostazione si vedano le giustamente note riflessioni di C. VOGEL, Composition légale et
commutations dans le système de la pénitence tarifée, in RDC, VIII (1958), pp. 294-295.
449
F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., 176.
450
Così G. GARANCINI, Persona, peccato, penitenza. Studi sulla disciplina penitenziale nell’Alto Medio
Evo, cit., p. 35. In tal senso anche le pp. 25; 42-43.
451
Sulla distinzione si veda F. SALERNO, Foro canonico, in ED, vol. XVIII, Milano, 1969, pp. 1-4. Per
approfondimenti risulta imprescindibile la lettura del celebre studio di G. SARACENI, Riflessioni sul foro
interno nel quadro generale della giurisdizione della Chiesa, Padova, 1961.
Utili riferimenti si rinvengono anche in M. VENTURA, La precettibilità degli atti interni in Pietro
Agostino d’Avack, in J. I. ARRIETA-G. P. MILANO (a cura di), Metodo, fonti e soggetti del diritto canonico,
Città del Vaticano, 1999, pp. 354-366, con particolare riferimento al dibattito nella scienza canonistica
italiana del Novecento .
446
102
La confusione dei fori fu certamente favorita452 dall’Episcopalis Audentia, istituto
voluto da Costantino nel 318 con cui fu riconosciuta la giurisdizione episcopale in
materia secolare453, in seguito «giudicata eccessiva, sia nell’ambito del mondo laico,
perché poteva esautorare la giurisdizione civile, sia da parte dei vescovi stessi che non
volevano alimentare possibili oneri che in concreto li allontanassero dalla missione
pastorale»454. Non si dimentichi che l’audentia episcopalis fu una giurisdizione
concordemente elettiva, concorrente e aggiuntiva rispetto a quella (secolare)
dell’Impero, alla quale tutti, laici ed ecclesiastici, potevano ricorrere e che, pertanto, non
va confusa con il privilegium fori che invece importava la competenza esclusiva dei
tribunali ecclesiastici relativamente a controversie, normalmente attribuite alla ordinaria
giurisdizione secolare, che coinvolgessero ecclesiastici o religiosi455.
Solamente a partire dal secolo IX si può distinguere tra le materie rientranti
nell’ordinaria annuale inquisizione vescovile (attraverso la quale la Chiesa estese la sua
cognizione anche a materie latamente connesse con la religione e la morale), da quelle
che viceversa venivano condotte per volontà delle parti al vescovo in alternativa al
giudice secolare456.
In tal senso J. GAUDEMET, L’Église dans l’Empire romain (IV-Ve siècles), Paris, 1958, p. 232, cui
aderisce O. DESCAMPS, Modèles théoriques et méthodologiques en matière de responsabilité civile:
l’héritage fondateur du droit canonique naissant et du droit vulgaro-franc, cit., p. 143.
453
Per una ricostruzione storica cfr. J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, cit., pp.
1332-135.
G. L. FALCHI, La diffusione della legislazione imperiale ecclesiastica nei secoli IV e V, in J. GAUDEMETP. SINISCALCO-G.L. FALCHI, Legislazione imperiale e religione nel IV secolo, Roma, 2000, pp. 150-151,
precisa che: «qualora si trattasse di controversie pertinenti il diritto privato, quello romano sarebbe stato
applicato temperato dai principi che discendevano dall’ordinamento canonico (in primo luogo dalle
regole evangeliche e dall’aequitas christiana) ovvero disapplicato se in contrato con essi. Diverso fu
l’atteggiamento imperiale dopo la proclamazione della confessionalità dello Stato. La episcopalis
audentia fu allora subordinata da Arcadio e onorio alla comune richiesta delle parti. Tale orientamento
venne confermato in Oriente da Giustiniano, il quale stabilì l’appellabilità della decisione vescovile
avanti il magistrato secolare. Diversa fu la tradizione occidentale, ove la tendenza affermata da Arcadio
e onorio fu dapprima consolidata da Valentininano III, ma abolita da Maiorino […]. In Occidente
pertanto prevalse, anche dopo la caduta dell’Impero, la prospettiva costantiniana. Nell’Alto Medioevo si
diffuse sempre e solo tale orientamento, che presso i popoli germanici fondatori dei nuovi Stati era
giustificato dal fatto di riflettere una consolidata consuetudine della popolazione romanizzata» .
Si vedano altresì le riflessioni di E. DOVERE, “Auctoritas” episcopale e pubbliche funzioni (secc. IV-VI),
in Studi sull’Oriente Cristiano, 5 (2001), 2, pp. 25-41.
454
A. CAMPITELLI, Accertamento e tutela dei diritti nei territori italiani nell’età medievale, pref. di N.
PICARDI, Torino, 1999, p. 30.
455
In tal senso si veda E. FRANCIOSI, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di
giustiniano. Studi su Nov. 13 e Nov. 80, Milano 1998, passim, e, più di recente, S. PULIATTI,
L’organizzazione della giustizia dal V al IX secolo, in J. H. A. LOKIN-B. H. STOLTE (a cura di),
Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, Pavia, 2011, p. 440.
456
Sul punto risulta fondamentale l’ampia indagine di G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici,
Roma, 1998, pp. 155-182.
452
103
Nelle prime, stando ai Libri duo de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis
di Reginone di Prüm, figurano ad esempio l’omicidio, l’iniuria romanistica (cioè atti di
diversa natura commessi contro l’integrità fisica e morale di un essere umano), il furto
ecc.
Quanto alle seconde, si tratta di materie secolari pertinenti allo ius privatum
(contratti,
successioni,
donazioni,
manomissioni
ecc.)
che
rientravano
nella
giurisdizione ecclesiastica concorrente con quella secolare (episcopalis audentia). Esse
furono recepite dalle Decretali dello Pseudoisidoro, dai Capitolari di Benedetto Levita
e successivamente da Ivo di Chartres.
Fu proprio Ivo vescovo di Chartres ad accogliere nel suo Decretum due frammenti
delle Sententiae Pauli457 relativi al danno cagionato da animali distinguendo tra i danni
causati da animali domestici, secondo natura, che generano per il dominus o per chi li
abbia in custodia l’obbligo di risarcire il danno o di cedere l’animale stesso al
danneggiato458, e danni cagionati da bestie selvagge o contro la natura dell’animale che
invece non implicano responsabilità459.
La conservazione dei testi giuridici romani nelle raccolte canoniche è giustificato
dalla esigenza pratica di apprestare, per gli organi giudicanti della Chiesa, un deposito
di materiali giuridici ai quali attingere per i propri giudizi460.
Marginale sarà invece la recezione di questo materiale giusprivatistico romano nel
Decreto di Graziano.
La Concordia discordantium canonum appartiene al Rinascimento giuridico461,
epoca che si apre, all’incirca, alla fine del secolo XI, in cui verranno riscoperte le fonti
giustinianee, le quali, «sottoposte a fine esegesi, offrono ai glossatori civilisti […]
l’opportunità di elaborare una teorica della responsabilità che, fondata sulla
Paul. Sent. 1, 14, 1; 3.
IVO CARNOTENSIS, Decretum, 16, 253:«Si alienum animal cuiquam damnum intulerit, aut alicujus
fructus laeserit, dominus ejus aut aestimationem damni reddat, aut ipsum animal tradat; quod etiam de
cane similiter est statutum».
459
IVO CARNOTENSIS, Decretum, 16, 254: «Ei qui irritatu suo feram bestiam vel quamcumque aliam
quadrupedem in se irritaverit, eaque damnum dederit, neque in ejus dominum, neque in custodem actio
datur».
460
In tal senso G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, cit., p. 170.
461
Per una critica di siffatta denominazione (risalente al grande storico del diritto Francesco Calassso),
che recherebbe in sé il rischio di separare qualitativamente i due momenti (dell’unitaria civiltà giuridica
medievale) prima o dopo l’XI secolo, si veda P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 28-29.
La posizione di Grossi è stata di recente messa in discussione da M. BELLOMO, Elogio delle regole. Crisi
sociali e scienza del diritto alle origini dell’Europa moderna, pref. di P. BARCELLONA, Leonforte, 2012,
pp. 54-55, il quale preferisce parlare di “doppio medioevo”.
457
458
104
tripartizione della colpa in tre specie, costituirà ancora nel secolo XVIII solido punto di
riferimento per la configurazione dell’elemento soggettivo in ordine all’illecito
civile»462.
I giuristi di siffatta rinascita giuridica avranno un ruolo di primaria importanza nel
plurisecolare processo che condusse a configurare il diritto al risarcimento come diritto
contemplato e disciplinato da norme del diritto civile in modo del tutto autonomo
rispetto a quelle contenenti la sanzione penale. La linfa vitale per questa configurazione
sarà costituita dalla lex Aquilia (trasmessa dal riscoperto diritto romano di Giustiniano),
e non già dalla legislazione statutaria.
Nel predetto plurisecolare processo, sfociante nella creazione di una generale azione
di natura civilistica, capace di assicurare il risarcimento del danno conseguente
all’illecito, altrettanto ruolo di primo piano avrà la scienza del diritto canonico, una
scienza che non perderà mai di vista le fonti romane, al pari della canonistica del primo
millennio, ma che apporterà alcuni suoi originali contributi alla dogmatica del
risarcimento del danno extracontrattuale463.
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1106.
È stato merito del Rotondi riportare l’attenzione sul ruolo delle influenze canonistiche in tema di
risarcimento del danno aquiliano (cfr. G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche
storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), pp. 236-295, in part. pp. 237-238).
Sul celebre romanista, prematuramente scomparso a soli 33 anni, si veda V. MAROTTA, Rotondi,
Giovanni Giosafatte, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1745-1747.
462
463
105
CAPITOLO TERZO
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE NEL DIRITTO CANONICO
CLASSICO E POSTCLASSICO
Introduzione
Nella storia dell’Occidente la fine dell’XI secolo rappresenta una svolta epocale464.
Si apre un nuovo ciclo vitale per l’Europa romano-cristiana in cui l’Italia, e Bologna in
particolare, diventa il centro culturale più attivo e la meta agognata da schiere di
studenti desiderosi di apprendere lo ius dalla viva voce dei maestri.
È l’epoca definita, a torto o a ragione, del «rinascimento giuridico» (o
«rinascimento medievale»)465, un’epoca che, quasi segnando un’impercettibile cesura
col passato466, ha permesso a qualcuno di parlare di un «doppio medioevo»467.
Le vedute degli storici del diritto rimangono a tutt’oggi diverse. A chi evidenzia il
rischio che comporta la divisione dell’(unitaria) esperienza giuridica medievale in due
momenti, frutto di una «valutazione manichea» nella lettura della storia giuridica468, si
contrappone chi ribadisce l’idea di un’età nuova, di una svolta, di un nuovo medioevo a
partire dal secolo XI469.
Si veda E. GARIN, L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI secolo, Napoli, 1969.
F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., pp. 345-365; ID., Gli ordinamenti giuridici del rinascimento
medievale, II ed., rist., Milano, 1965, pp. 36-39; E. CORTESE, Il rinascimento giuridico medievale, Roma,
1992.
466
Notava F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., pp. 345-346: «Storicamente, l’aprirsi di un’epoca
nuova della vita di un popolo non deve concepirsi come il crollo improvviso di un mondo e l’immediato
emergere di un ordine di cose nuovissimo. Queste drammatiche rappresentazioni di alcuni momenti
particolarmente intensi della vita dei popoli non hanno appoggio nelle fonti, le quali provano piuttosto
una continuità che fluisce senza soluzioni, anche se turbata da svolte e sussulti, talvolta violenti, che
all’osservatore lontano nel tempo possono dare l’impressione di una fine o di un ricominciamento, e
talvolta persino di un ritorno. In realtà, sono visioni storiche deviate dalla sopravvalutazione di alcuni
elementi, che genera a sua volta fatali errori di prospettiva e pone quesiti di impossibile soluzione».
467
M. BELLOMO, Il doppio medioevo, Roma, 2011.
468
In tal senso P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 28-29.
469
Si veda M. BELLOMO, Elogio delle regole. Crisi sociali e scienza del diritto alle origini dell’Europa
moderna, cit., pp. 54-55, il quale sottolinea che in quest’epoca «al villaggio rupestre e all’abitazione di
legno e fango si sostituiscono la città organizzata e la casa in muratura; al posto delle tecniche e degli
attrezzi agricoli tradizionali si avviano innovative esperienze; alle chiese dei monasteri disseminati e
isolati nelle campagne o rinserrate in grotte poco accessibili si contrappongono le sontuose cattedrali
cittadine; dal latino ormai corrotto del primo medioevo si generano le nuove lingue europee; figure
residenziali di operatori mercantili cittadini si impongono contro i pellegrinanti negotiatores attivi nelle
aree agricole e signorili, dalle scuole monastiche, giudicate fucine dell’ozio e corruttrici dei costumi, si
passa alle fiorenti scuole cittadine, legate o meno alla sede vescovile».
464
465
106
La riscoperta dei testi giuridici della compilazione di Giustiniano permette un
insegnamento autonomo del diritto (sganciato dalle branche del sapere enciclopedico
medievale, vale a dire le sette arti liberali del trivium e del quadrivium), compiuto
direttamente sui testi genuini e completi, «mettendo da parte epitomi ed estratti di cui
l’età precedente si era compiaciuta»470.
Le origini di questo nuovo corso rimangono ancora oscure. Stando al racconto di
Odofredo, giurista del XIII secolo, il primo maestro di diritto giustinianeo sarebbe stato
un certo Pepo o Pepone471, il cui contributo alla rinascita degli studi giuridici resta,
comunque, imprecisato472.
Rilevante per la rinascita fu invece l’opera di Irnerio473, giurista definito da
Odofredo, «lucerna iuris» e «primus illuminator scientiae nostrae». Irnerio concentrò
l’analisi esegetica dei testi di diritto esclusivamente sulla monumentale opera di
Giustiniano abbandonando le altre raccolte. Il precedente sistema didattico venne
accantonato, e fu predisposto un insegnamento in cui il momento della lezione era
legato alla forma letteraria dell’esegesi giuridica, in particolare alla glossa474.
Nella vecchia storiografia era dominante l’idea dell’improvviso e miracoloso
ritrovamento della raccolta del Digesto di Giustiniano nella sua redazione integra. Oggi
si ritiene che Irnerio ed i suoi allievi pervennero gradualmente alla ricostruzione dei
testi giustinianei475.
Il Cortese ha evidenziato altresì che «è proprio in una cornice canonistica, o
teologico-canonistica, se si preferisce, che nacque l’insegnamento specifico del diritto
romano», (e di ciò ne sarebbe testimone la Collectio britannica476, opera di età
gregoriana contenente ben 93 frammenti del Digesto). Tuttavia ciò non vale per Irnerio
né per Bologna giacchè «nulla sembra rilevare ch’egli abbia contratto debiti teorici con
Così F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 368.
E. CORTESE, Pepo, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1532-1533.
472
Si veda M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., p. 286; E. CORTESE, Il
diritto nella storia medievale, vol. II, Roma, 1996, pp. 33-45.
473
E. CORTESE, Irnerio, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 1109-113.
474
Per approfondimenti si veda A. ERRERA, Forme letterarie e metodologie didattiche nella scuola
bolognese dei glossatori civilisti: tra evoluzione ed innovazione, in F. LIOTTA (a cura di), Studi di storia
del diritto medievale e moderno, Bologna, 1999, pp. 33-106.
475
M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., p. 288.
Sulla circolazione del Digesto in età preirneriana cfr. E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. I,
cit., pp. 378-385.
476
Cfr. A. FIORI, La Collectio Britannica e la riemersione del Digesto, in RIDC, 9 (1998), pp. 81-121.
470
471
107
i canonisti, dei quali non dimostra nelle glosse di avere divulgato i principi
giuridici»477.
Nella stessa città di Bologna, nel cuore del secolo XII, il monaco Graziano478 redige
un’opera che costituirà il punto di riferimento insostituibile per i canonisti di ogni
epoca: la Concordia discordantium canonum, nota in seguito come Decretum. Si tratta
di un’opera che raccoglie le fonti più disparate ed eterogenee, comprese fonti laiche
come il Codice Teodosiano e la stessa compilazione giustinianea. Essa rappresenta una
fase decisiva del processo di consolidazione delle fonti dell’ordinamento canonico del
primo millennio479, e, al pari della compilazione di Giustiniano, fu oggetto di analisi
esegetica e di insegnamento da parte di maesti designati con l’aggettivo di «decretisti».
Successivamente a Graziano, anche le raccolte, private o ufficiali, di decretali
pontificie videro rivolta l’attenzione dei canonisti (chiamati pertanto «decretalisti)», i
quali sottoposero a fine esegesi (utilizzando essenzialmente la glossa) siffatti testi
giuridici.
La nascita di un indirizzo scientifico nello studio del diritto, romano e canonico, è
uno dei tanti elementi di novitas che si può ravvisare nell’opera avviata da Irnerio e da
Graziano. Alla metodologia dei glossatori e dei decretisti e decretalisti, subentrerà poi
quella dei commentatori (sia civilisti che canonisti), basata sull’esigenza del sistema e
sulla costruzione dogmatica attraverso i vasti commentari ai testi legislativi.
Ciò che caratterizza l’esperienza giuridica del «rinascimento medievale» è l’unità
del sistema normativo, tematica a cui Francesco Calasso ha dedicato pagine
memorabili480 e che si inserisce nell’animato dibattito, ad oggi non sopito, del concetto
di ius commune481 nonché dei rapporti tra ius commune e iura propria.
Mario Caravale ha ben sintetizzato le conclusioni a cui è giunta la storiografia del
XX secolo e degli ultimi anni in merito al concetto di ius commune:
E. CORTESE, La “mondanizzazione” del diritto canonico e la genesi della scienza civilistica, in E. DE
LEÓN-N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS (a cura di), La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse
per un dialogo ecumenico, Milano, 2003, p. 138.
478
Per un ricco profilo bio-bibliografico si veda da ultimo O. CONDORELLI, Graziano, in DBGI, vol. I,
Bologna, 2013, pp. 1058-1061.
479
C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., p. 95.
480
F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., pp. 469-501.
481
Si veda di recente la ricca sintesi fornita da M. BELLOMO, Ius commune, in DSSRN, vol. II, Bologna,
2010, pp. 1026-1034. Cfr. altresì O. CONDORELLI, “Corpus Iuris Civilis”, in DGDC, vol. II, Cizur Menor,
2012, pp. 765-775, in part. pp. 771-774.
477
108
«il diritto giustinianeo, in virtù dell’autorità che gli veniva riconosciuta
dalla dottrina giuridica a motivo della sua natura di diritto dell’Impero,
oppure della sua derivazione dalla volontà divina, oppure, ancora, della
sua incorporazione in testi di eccezionale rilevanza o, comunque, di
stesura tradizionalmente tramandata, venne considerato a partire dagli
ultimi secoli del Medioevo diritto comune a tutti i soggetti che vivevano
nelle regioni dell’Italia comunale, quanto meno nelle materie per le quali
le norme romane erano giudicate ancora utili dai giuristi medievali. Tale
autorità del diritto comune era, poi, condivisa dal diritto canonico cui era
riconosciuto il compito di disciplinare le materie che la Chiesa
rivendicava alla propria competenza. E la funzione del diritto comune era
quella di colmare le lacune dei diritti propri, statutari o consuetudinari
che fossero, operando rispetto ad essi come diritto sussidiario ed a sua
volta risultando da questi integrato e completato»482.
Ai fini della presente trattazione, dedicata alla responsabilità extracontrattuale,
merita attenzione la posizione del Calasso che, alla base della propria ricostruzione
storica sullo ius commune, inserisce, quale premessa prima e fondamentale, la
subordinazione di tutto il diritto umano – ecclesiastico (rectius canonico) e civile – al
diritto divino, subordinazione che è certamente un aspetto della religiosità medievale
ma che va posta sul piano della storia della civiltà483.
Il diritto romano, lex mundana per eccellenza, era il diritto che la Chiesa comunque
aveva mantenuto in vita contro il dilagare della barbarie, piegandolo alle nuove esigenze
della società cristiana484. Ai tria praecepta iuris di Ulpiano questa civiltà cristiana
guarda criticamente perché, come afferma, con toni forse abbastanza duri, Calasso:
«quanto all’“honeste vivere”, che era dei tre il precetto morale, sappiamo
bene come l’ordinamento giuridico non riuscisse a comporre
sostanzialmente il dissidio fra l’onesto morale e il lecito giuridico; e
d’altra parte, il “suum cuique” e il concetto del “laedere” potevano anche
rispondere a una concezione individualistica angusta e scarsamente
sociale. Nulla di tutto questo la civiltà cristiana poteva accettare. È uno
M. CARAVALE, Alle origini del diritto europeo. Ius commune, droit commun, common law nella
dottrina giuridica della prima età moderna, Bologna, 2005, p. 21.
483
F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 470.
A questa legittimazione religiosa del diritto comune aderisce P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale,
cit., p. 229, il quale, pur sempre critico verso alcune teorie di Calasso (ad es. il diritto comune come
sistema legislativo e come scienza testuale), afferma: «una legge sola il diritto comune aveva invece al
suo fondo come legittimazione ultima e sostanziale, una legge che era – questa sì – atto di volontà
suprema: intendiam dire il diritto divino, munito nella società medievale d’una indubbia positività e
proveniente dall’unico sovrano che la civiltà medievale riconosce nell’assolutezza potestativa. Solo in
questo senso potremmo sottoscrivere anche noi come caratterizzante per il diritto comune la
qualificazione di “legislativo”».
484
Sempre utile la lettura di P. LEGENDRE, La pénétration du droit romain dans le droit canonique
classique de Gratien a Innocent IV (1140-1254), Paris, 1964, in part. pp. 17-24.
482
109
solo il precetto, secondo essa, al quale ogni genere di norme, siano
religiose o morali o giuridiche, debbono obbedire; ed è quello evangelico
che Graziano formula sulle soglie dell’opera sua: “quo quisque iubetur
alii facere, quod sibi vult fieri, et prohibetur alii inferre, quod sibi nolit
fieri”»485.
È anche
nel solco di questa rilettura, in termini cristiani, dell’«alterum non
laedere», e dei restanti due principi, che si inserisce buona parte della riflessione
medievale, civilistica e canonistica, sulla responsabilità extracontrattuale, partendo
sempre dal dato testuale della compilazione giustinianea che aveva trasmesso la
disciplina del damnum iniuria datum, la quale presenteva, rispetto all’originario regime
della lex Aquilia, profonde modificazioni dovute all’incisiva attività svolta dalla
giurisprudenza e dal pretore in funzione integrativa ed evolutiva.
L’eco della regola evangelica sarà percepibile in Francia, all’indomani della
codificazione napoleonica, in alcuni trattati dedicati alla responsabilità civile486.
Senza addentrarci nella disamina approfondita delle posizioni della scienza
civilistica medievale, ci soffermeremo invece sulla canonistica classica e postclassica la
quale non ha comunque costruito una propria autonoma dottrina della responsabilità
extracontrattuale, giacchè, anche con riferimento a siffatta tematica, vale infatti la nota
affermazione «Ecclesia vivit lege romana». Come sottolineato dal Bellini, la massima
sta a significare che il diritto romano, «in conseguenza della portata del rinvio di
ricezione, effettuato dall’autorità prelatizia al diritto dello Impero, per il regolamento
delle materie temporali di propria pertinenza, veniva ad integrare, salvo espressa
disposizione ecclesiastica contraria, il contenuto normativo del jus canonicum in
temporalibus»487.
È proprio in virtù della natura più intima dello ius canonicum, e del fine ultraterreno
della «salus animarum»488, che ritroviamo specifici apporti normativi, disseminati nel
Corpus iuris canonici, ed elaborazioni dottrinali di decretisti e decretalisti in materia di
responsabilità e danno extra contractum.
F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 471.
Si veda G. CAZZETTA, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (18651914), cit., pp. 79-80, con riferimento all’opera del Sourdat.
487
P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico, cit.,
p. 526.
488
Si vedano le classiche pagine di P. FEDELE, Lo spirito del diritto canonico, cit., pp. 823-1013.
485
486
110
Siffati elementi, unitamente alle speculazioni della scolastica medievale, permettono
di individuare l’originale contributo dato dallo ius canonicum alla storia della
responsabilità extracontrattuale ed alla moderna dogmatica del danno aquiliano489.
Siamo in presenza di una materia in cui si riversano le riflessioni di canonisti e
teologi, una materia in cui si avverte quella commistione tra diritto, morale e religione
che, nel periodo oggetto della nostra indagine, non risultano poi così separate e
autonome ma che offrono, ciascuna con le proprie peculiarità, diversi angoli visuali490.
Sul tema si riflettono le incertezze che investono alcuni problemi pregiudiziali, di
ben più vasto respiro, quali il rapporto tra qualificazione etica e qualificazione giuridica
dei medesimi fatti o atti individuali all’origine dell’illecito aquiliano, nonché la
relazione formale e sostanziale tra il diritto secolare e quello canonico.
In ordine al primo aspetto, nei giuristi e teologi del tempo è ben precisa la
distinzione tra valutazione «etica», di rilevanza intrasubiettiva, afferente all’esigenza
dell’ individuale salvezza di ciascun fedele, e valutazione «giuridico-canonica», di
rilevanza intersoggettiva, rispondente ad una ragione sociale, cioè l’esigenza del
mantenimento e della restaurazione della «quies fidelium» avverso gli attentati che
possono a questa derivare dalla notizia o dalla visione del peccato. Alle due valutazioni
corrispondono, rispettivamente, le norme etico-religiose, che sono norme individuali in
quanto attendono al bene spirituale di ogni singolo fedele, e le norme disciplinari, che
sono invece di carattere sociale491.
Per quanto riguarda il secondo aspetto si tratta di analizzare il modo ed i limiti entro
i quali al diritto canonico è dato interferire, a fianco o in sostituzione del diritto civile,
nel campo di rilievo strettamente temporale e non spirituale.
Per un’efficace sintesi si veda il recente P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del
sistema di responsabilità civile verso la European Civil Law, cit., pp. 30-41.
490
Anche con riferimento al diritto canonico, al pari del diritto romano, l’espressione «sistema giuridicoreligioso», rispetto a quelle di ordinamento giuridico o di esperienza giuridica, permette di comprendere
la dimensione religiosa del diritto e di evitare la separazione (o «Isolierung»), tra diritto, morale e
religione. Cfr. in merito P. CATALANO, Diritto e persone, cit.; ID., Systema y ordenamientos: el ejemplo
de América Latina, cit.
Per una disamina della categoria «sistemi giuridici religiosi» si veda S. FERRARI, Religioni, diritto,
comparazione, in S. FERRARI-G. MORI (a cura di), Religioni, diritti, comparazione, Brescia, 2003, pp. 3841.
491
Sulla qualificazione etica e giuridica, in generale, si veda P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con
oggetto temporale nel sistema canonistico classico, cit., p. 8; ID., Respublica sub Deo. Il primato del
Sacro nella esperienza giuridica della Europa preumanistica, rist., Firenze, 1985, p. 32.
489
111
1) Actio legis Aquiliae tra diritto canonico e scienza canonistica
La riscoperta della compilazione giustinianea permise
ai glossatori civilisti di
analizzare il regime della lex Aquilia, dando avvio ad una ricca riflessione che avrebbe
condotto ad una nuova configurazione dogmatica della responsabilità per fatto illecito
espressa in un principio civilistico di portata generale492, sancito nelle moderne
codificazioni, capace di assicurare il risarcimento del danno conseguente all’illecito.
In siffatto processo non fu per nulla marginale il ruolo dello ius canonicum e della
scienza canonistica classica e postclassica.
La riflessione dei canonisti non perse mai di vista le fonti romane, come del resto
era accaduto nella canonistica del primo millennio. Ciò non significa una pedissequa
venerazione del diritto romano sfociante in una sterile e poco originale riflessione
canonistica in materia di danno extra contractum.
Al contrario, tutta una serie di studi nel corso del Novecento hanno evidenziato gli
originali contributi offerti dal diritto canonico alla dogmatica del risarcimento del danno
extracontrattuale493.
Nella Concordia discordantium canonum del monaco Graziano, opera che nasce
come raccolta privata ma che rappresenta nella storia del diritto canonico «terminus ad
quem, finis, et terminus a quo, initium»494, furono utilizzati circa quattromila testi,
appartenenti ai più diversi generi. Tra le fonti utilizzate da Graziano confluirono anche
materiali normativi romanistici ed in particolare giustinianei.
Le fonti di origine giustinianea furono utilizzate nel Decretum con prevalenza su
quelle recepite nelle precedenti collezioni canoniche soprattutto attraverso il Breviarium
e le epitomi di esso ed eccezionalmente il Codice Teodosiano495.
La tematica della ricezione del diritto romano nel diritto canonico, stando
all’eccellente ricostruzione fornita dal Viejo-Ximénez, si riduce essenzialmente nel dare
risposta a tre interrogativi: «quali sono gli elementi del “nuovo” Diritto canonico
In merito si rinvia all’accurato studio di O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute
personnelle dans le Code Civil de 1804, cit., passim.
493
Tra i primi in Italia occorre ricordare il romanista G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ.
Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), pp. 236-295, e lo storico E.
BUSSI, La formazione dei dogmi di diritto privato nel diritto comune, (diritti reali e diritti di
obbligazione), Padova, 1937, pp. 191-216.
494
Così A. M. STICKLER, Historia iuris canonici latini. Institutiones academicae, I, Historia fontium,
Augustae Taurinorum, 1950, p. 201.
495
G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, cit., p. 184.
492
112
medievale che dipendono dall’antico Diritto romano? In quale misura la nascente
scienza dei decretisti (e tutti i suoi successivi sviluppi) è vincolata alla costruzione di un
Diritto secolare estraneo al genuino spirito degli antichi canoni? E ancora: possiamo
dire che la simbiosi consolidata dell’utrunque ius, nello ius cammune, ha alterato il
vero volto della primitiva Chiesa cristiana?»496.
Sin dalle ricerche avviate da Adam Vetulani497 e Stephan Kuttner498, risultò chiaro
che l’enorme massa di testi romani non arrivò nel Decretum grazianeo nello stesso
tempo e nello stesso momento e che l’incorporazione dei frammenti giustinianei
avvenne in diverse tappe. Siffatta incorporazione sarebbe pertanto il risultato
dell’utilizzo del Decretum in un ambiente accademico499, di cui oggi possiamo
comprenderne pienamente il processo di formazione, rispetto agli studi del passato,
grazie ad una più attenta conoscenza dei più antichi manoscritti che ci hanno tramandato
il testo500.
Questa linea ricostruttiva della formazione per tappe diverge da quella che ha preso
avvio dalle ricerche di Anders Winroth501, secondo cui è possibile identificare due
redazioni del Decreto, ciascuna attribuibile ad un diverso autore, il quale avrebbe
lavorato su due diversi gruppi di fonti. Si dovrebbe pertanto distinguere un Graziano
che sostanzialmente ignora i testi giustinianei utilizzati dai giuristi bolognesi, ed un
Graziano che invece conosce e utilizza il diritto romano. Gli studi di Carlos Larraizar,
José Miguel Viejo-Ximénez, ed Enrique de León consentono tuttavia di non propendere
per la ricostruzione offerta da Anders Winroth502.
J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, La ricezione del diritto romano nel diritto canonico, in E. DE LEÓN-N.
ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS (a cura di), La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse per un
dialogo ecumenico, cit., p. 158.
497
A. VETULANI, Gratien et le droit romain, in RHDFE, 24-25 (1946-1947), pp. 11-48;
498
S. KUTTNER, New Studies on the roman Law in Gratian’s Decretum, in Seminar, 11 (1953), pp. 12-50.
499
J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, La ricezione del diritto romano nel diritto canonico, cit., pp. 158-159.
500
Si vedano gli studi di C. LARRAINZAR, La formación del Decreto de Graciano por etapas, in ZSSKA,
87 (2001), pp. 67-83; ID., La ricerca attuale sul “Decretum Gratiani”, in E. DE LEÓN-N. ÁLVAREZ DE
LAS ASTURIAS (a cura di), La cultura giuridico-canonica medioevale. Premesse per un dialogo
ecumenico, cit., pp. 45-88.
501
A. WINROTH, The Two Recensions of Gratian’s Decretum, in ZSSKA, 83 (1997), pp. 22-31; ID., Les
deux Gratien et le droit romain, in RDC, 48 (1998), pp. 285-299; ID., The making of Gratian’s Decretum,
Cambridge, 2000.
502
Una rassegna completa degli studi sul Decretum si può leggere nell’aggiornatissimo contributo di O.
CONDORELLI, Graziano, cit.
Si vedano anche le considerazioni di M. H. EICHBAUER, From the First to the Second Recension: The
Progressive Evolution of the Decretum, in Bulletin of Medieval Canon Law, 29 (2011-2012), pp. 119167.
496
113
Per quanto riguarda la ricezione di materiale giusprivatistico romano nel Decretum
di Graziano, essa risulta marginale503. Senza addentrarci nella disamina approfondita di
tale aspetto, ed al fine di rimanere nell’ambito circoscritto della tematica da noi
affrontata nel presente lavoro, occorre per il momento rilevare che, nella Concordia
grazianea, non ricorre alcun riferimento al damnum iniuria datum, disciplinato dalla lex
Aquilia che i riscoperti testi giustinianei avevano trasmesso alla nascente scienza
civilistica medievale504.
Crediamo che l’assenza di riferimenti, nel Decretum grazianeo, alla disciplina
aquiliana, così come tramandataci nelle Institutiones, nei Digesta e nel Codex
giustinianei, sia da ravvisarsi nel metodo proprio di Graziano che, ad avviso di José
Miguel Viejo-Ximénez, è la reale novità dell’importante opera grazianea: «una
riflessione metodica e critica sulla tradizione antica che porta ad un uso dialettico dei
frammenti romani al servizio costruttivo di una particolare visione della republica [sic!]
christiana; in questo “progetto” religioso, politico e sociale, “i due diritti” si
supportano reciprocamente: le leges civili [sic!] meritano ogni rispetto ubi evangelicis
atque canonicis decretis non obviaverint»505.
Fu proprio questo principio che, usato metodicamente, provocò un esteso e intenso
moto di «romanizzazione»/«mondanizzazione» del diritto canonico, almeno durante i
decenni in cui esso non fu rimodellato attraverso un deciso e sistematico intervento del
legislatore universale506.
G. L. FALCHI, Fragmenta iuris romani canonici, cit., pp. 170; 208-210.
Ricorrono comunque frammenti in cui sono enunciati i concetti di risarcimento / riparazione /
restituzione del danno. Si pensi al canone 18 del concilio Lateranense (anno 1139) confluito in C. 23, q.
8, c. 32 Pessimam quidem, relativo alla condotta dell’ incendiario per il quale viene disposto: «[…] et si
mortuus fuerit incendiarius, Christianorum careat sepultura, nec absolvatur, nisi prius, dampno cui
intulit secundum facultatem suam resarcito, iuret, se ulterius ignem non appositurum. Penitencia autem
ei detur […]. Si quis autem archiepiscopus vel episcopus hoc relaxaverit, dampnum restituat, et per
annum ab offitio episcopali abstineat. […]».
Giova altresì sottolineare come il Decretum Gratiani abbia invece recepito numerosi frammenti della
disciplina giustinianea in tema di delitto di iniuria. Sul punto si rinvia a G. L. FALCHI-B. E. FERME,
Introduzione allo studio delle fonti dell’Utrumque Ius, Città del Vaticano, 2006, p. 378, in cui vengono
indicati D. 47, 10, 3 (recepito in C. 15, q. 1, c. 2 Illud relatum); D. 47, 10, 9-11 (recepito in de poen., D.
1, c. 12 Si quis tam masculum); D. 47, 10, 15 (recepito in de poen., D. 1, c. 13 Si quis pulsatus).
505
J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, La ricezione del diritto romano nel diritto canonico, cit., p. 190.
506
P. LANDAU, Ius commune und ius proprium aus der Sicht des klassischen kanonischen Rechts, in G.
HAMZA (a cura di), Studien zum Römischen Recht in Europa, I, Budapest, 1992, pp. 338-360.
503
504
114
Come notato dal Cortese, il rilancio delle fonti giustinianee originali fu avviato in
età carolingia, segnata dallo stimolo della riapparizione del l’Impero romano
nell’Europa occidentale507.
Tuttavia è nel Decreto di Graziano che l’assimilazione reale dei concetti e delle
istituzioni dell’antico diritto romano trovò il suo culmine giacchè solamente da
Graziano in poi si può parlare di una nuova scienza giuridica unitaria, canonica e
secolare, che diverrà ben presto l’utrumque ius.
Quel favor ricettivo verso il diritto di Giustiniano sarà ben compendiato nella
Summa Coloniensis, risalente al 1170, che afferme al riguardo: «quidquid in lege
dicitur, si a canone non contradicitur, pro canone habeatur»508.
Saranno i canonisti esegeti del testo Grazianeo, chiamati appunto decretisti, a porre
in relazione i frammenti riportati nel Decretum ed attinenti perlopiù a materia penale,
con la lex Aquilia.
Nel frattempo lo ius canonicum si arricchisce di una raccolta ufficiale di lettere
decretali che comprende un apposito titolo De injuriis et dampno dato. Si tratta
dell’ultima delle Quinque compilationes antiquae509, composta da Tancredi da Bologna
su mandato di papa Onorio III, che le conferì carattere legislativo con la bolla Novae
causarum del 1226510. Il titolo De injuriis et dampno dato della quinta compilatio verrà
ripreso dal Liber Extra, vale a dire le celebri decretali di Gregorio IX, commissionate
dal pontefice al canonista spagnolo Raimondo de Peñafort511, frate domenicano già
docente a Bologna e poi penitenziere e consigliere del papa. Sarà proprio il titolo De
iniuriis et damno dato (X. 5, 36) delle Decretali di Gregorio IX a costituire oggetto delle
più raffinate riflessioni da parte di quella schiera di canonisti definiti «decretalisti», i
quali non perderanno mai di vista la lex Aquilia.
E. CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, 2000, p. 145.
Summa “Elegantius in iure divino” seu Coloniensis, vol. I, a cura di G. FRANSEN-S. KUTTNER, New
York, 1969, p. 19.
509
Sulle cinque compilazioni si veda B. E. FERME, Quinque Compilationes Antiquae: A turning point in
the history of canon law, in J. J. CONN-L. SABBARESE (a cura di), Iustitia in caritate. Miscellanea di studi
in onore di Velasio De Paolis, Città del Vaticano, 2005, pp. 41-55.
510
Si veda A. BETTETINI, Tancredi da Bologna, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1930-1931.
511
Per un ricco profilo biografico si veda F. VALLS I TABERNER, San Raimondo di Penyafort padre del
Diritto canonico, Bologna, 2000 [trad. it. di Raimondo Sorgia].
Sulla produzione giuridica cfr. S. PACIOLLA, Aspetti dell’opera giuridica di Raimondo de Penyafort,
maestro bolognese, in D. ANDRÉS GUTIÉRREZ, Escritos en honor del prof. rvmo P. José Castaño, O.P.,
Roma, 2001, pp. 145-162.
507
508
115
Si pensi ad Enrico da Susa, meglio noto come il cardinale Ostiense, che nella
Summa aurea, completata quand’era vescovo di Embrun (1250-1262), esponendo la
rubrica De damno dato (tratta dal titolo 36 del libro V delle Decretali di Gregorio IX)
afferma quanto segue:
«hic videndum est, quid sit damnum, quae actio competat ex damno dato,
quando locum habet haec actio, quibus detur, contra quos competat. In
quantum detur. Et qualis sit haec actio»512.
A ben guardare si tratta del medesimo impianto espositivo adottato dal civilista
Azzone513 nel suo commento al titolo del Codex di Giustiniano dedicato alla lex Aquilia
(C. 3, 35):
«[…] ideo apponit de lege Aquilia et quando locum habeat actio legis
Aquiliae, quibus detur, et contra quos, et in quantum, et qualis sit»514.
2) Volontà e cognizione nel Decretum di Graziano
La raffinata analisi agostiniana della colpa e della responsabilità basata sul suo
carattere personale, sull’imputabilità e sulla qualificazione dell’atto umano confluì in
gran parte nel Decretum di Graziano, in cui Agostino è tra le fonti patristiche
privilegiate.
Agostino, in ossequio alla propria teoria in materia di libero arbitrio, aveva
ricondotto ogni responsabilità morale o penale ad un comportamento malvagio
consapevolmente tenuto dal soggetto agente, affermando che «nullius crimen maculat
nescientem»515. Graziano inserisce questo frammento dell’epistolario agostiniano nella
seconda parte della Concordia (C. 23, q. 4, c. 37 Nimium).
L’ignoranza, tuttavia, non vale a scusare completamente il peccatore, anche se rende
la mancanza meno grave come traspare dalla parole secondo cui «sunt enim peccata
ignorantium quamvis minora quam scientium»516, recepito da Graziano in C. 32, q. 7, c.
10 Quemadmodum.
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, Venetiis, 1574, col. 1724.
Sulla Summa di Azzone quale fonte principale per l’Ostiense cfr. K. PENNINGTON, Enrico da Susa,
cardinale Ostiense, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, p. 796.
514
AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, Venetiis, 1566, col. 229, pr.
515
AUGUSTINUS, Epistulae, 93, 15 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 34,
Vindobonae, 1895, p. 459).
516
AUGUSTINUS, De adulterinis coniugiis, 1, 9 (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol. 41,
Vindobonae, 1900, p. 356).
512
513
116
Nel dictum ante c. 1 Merito, C. 15, q. 1, Graziano inserisce il frammento in cui
emerge l’importanza della volontà per l’imputabilità dell’atto dannoso: «peccatum
voluntarium malum est, ut ullo modo sit peccatum, si non sit voluntarium»517,
precisando altrove che «nemo trahitur ad culpam nisi ductus propria voluntate» (C. 15,
q. 1, c. 10 Non est), ed invocando l’auctoritas di Ambrogio che al riguardo aveva
affermato: «nemo tenetur ad culpam, nisi voluntate propria deflexerit»518.
L’importanza dell’elemento volitivo/psichico emerge anche in C. 22, q. 2. c. 3
Homines (tratto ancora una volta da Agostino519) in cui si afferma che «interest,
quemadmodum verbum procedat ex animo. Ream linguam non facit nisi mens rea».
Accanto alla volontà520, quale primo pilastro dell’imputabilità dell’atto umano,
ritroviamo la cognizione ossia la conoscenza del fatto che si commette. Ancora una
volta viene invocato Agostino521 nell’affermare che «non sunt peccata nolentium, nisi
nescentium, quae discernuntur a peccatis volentium»522.
Graziano analizza altresì tutta una serie di cause che diminuiscono o elidono
completamente la responsabilità523.
In primis l’ignoranza524 la quale determina la diminuzione di responsabilità se è
vincibilis. Quanto all’ignoranza invincibilis, essa toglie colpevolezza all’atto cioè
determina la non imputabilità quando, usata la debita diligenza, non si è riusciti a
rimueverla, come viene messo in rilievo in C. 22, q. 2, c. 3, Gr. p., in cui Graziano,
AUGUSTINUS, Retractationum libri II, 13, 1, 5 (= PL, vol. 32, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 603).
AMBROSIUS, De Jacob et vita beata, 1, 3, 10 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 602).
519
AUGUSTINUS, Sermones, Classis prima, 180 (De verbis apostoli Jacobi, Ante omnia nolite jurare), § 2
(= PL, vol. 38, Lutetiae Parisiorum, 1861, col. 975)
520
Si veda quanto affermato dalla glossa Quod propter ad C. 15, q. 1.: «Id est in diffinitione voluntatis,
ideo ponitur affirmatio, et negatio, ut ostendatur qua voluntate quis dicatur volens: et qua voluntate
dicatur nolens, nam voluntate ad aliquid faciendum dicitur quis volens: et voluntate ad aliquid non
faciendum dicitur quis nolens: et sic omnis nolens dicitur volens: et eadem qualitas dici potest voluntas,
et noluntas. Nam nolle facere idem est quod non velle facere» [in Decretum Gratiani emendatum, et
notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 925].
Cfr. anche F. THANER, Die Summa Magistri Rolandi, Innsbruck, 1874, p. 32, ad C. 15, q. 1: «Omne
peccatum, adeo est voluntarium quod, si non fuerit voluntarium, non est peccatum».
521
AUGUSTINUS, Quaestionum in Pentatheucum, 4, 24 (in Numeros 15, 24-29) (= PL, vol. 34, Lutetiae
Parisiorum, 1861, col. 728).
522
C. 15, q. 1, c. 1 Merito.
523
Sull’argomento rimane tuttora fondamentale l’analisi di P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano
nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di Graziano, cit., pp. 458-460, ripresa anche da G. P.
MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp. 1105-1106.
524
Sul punto si vedano S. KUTTNER, Kanonistische Schuldlehre von Gratian bis auf die Dekretalen
Gregors IX. Systematisch auf Grund der handschriftlichen Quellen dargestellt, Città del Vaticano, 1935,
pp. 133 ss.; E. CORTESE, Ignoranza della legge b) Diritto intermedio, in ED, vol. XX, Milano, 1970, p.
10; M. JASONNI, Contributo allo studio della «ignorantia iuris» nel diritto penale canonico, Milano,
1983, pp. 63 ss.
517
518
117
trattando il caso di colui che dice il falso stimandolo vero, osserva: «quia ergo mens
huius non erat rea (nesciebat esse falsum quod iuravit verum), nec temere nec
negligenter, sed cum magna diligentia videbatur sibi deprehendisse verum quod iurabit
falsum, periurii reus nequaquam est iudicandus».
In merito alla violenza abbiamo riportato supra il frammento di Ambrogio in cui si
afferma che «nemo tenetur ad culpam, nisi voluntate propria deflexerit. Non habent
crimen quae inseruntur reluctantibus»525.
Le passioni possono sopprimere ogni avvertenza del male come risulta dal dictum
grazianeo a C. 15, q. 1, c. 2 Illud relatum: «[…] que illis perturbantibus fiunt, nulli
imputantur ad penam».
Nello stesso dictum è sancita l’esclusione totale dell’imputabilità per tutti quei
soggetti «non compotes sui», come i bambini, i pazzi e gli ubriachi: «mens vero alienata
furore, cum sui compos non sit, eorum, que admittit, reatum non contrahit, quia
facultatem deliberandi non habuit. Unde pupillo et furioso in maleficiis subvenitur, ut
non eis inputentur ad penam que ex mentis deliberatione non processerunt».
Come sottolineato dal Palazzini, con un linguaggio tipicamente tomista526,
ricorrendo tali cause «l’atto non è più umano, ma hominis, quasi simile agli atti degli
animali, che non sono rationabilia»527.
Inoltre non è soggetto a responsabilità colui che arrechi danno “ex officio”, come
risulta da C. 23, q. 5, c. 8 De occidendis, contenente un frammento agostiniano528
dedicato all’omicidio commesso dal miles o da chi «pubblica functione teneatur».
2.1) Residui di responsabilitas ex effectu nel Decretum e nelle decretali.
Il Decretum Gratiani riproduce un’ ampia serie di canoni conciliari del primo
millennio che testimoniano la difficoltà che incontrò la tesi volontaristica, propugnata
AMBROSIUS, De Jacob et vita beata, 1, 3, 10 (= PL, vol. 14, Lutetiae Parisiorum, 1845, col. 602).
Cfr. THOMA AQUINAS, Summa theologica, I/IIae, q. 1, art. 1, in cui si distingue tra actus humanus,
proprio dell’uomo in quanto uomo, ossia consapevole e libero, e actus hominis, cioè un atto compiuto
dall’uomo, ma inconsapevolmente.
527
P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di
Graziano, cit., p. 460.
528
AUGUSTINUS, Epistolae, classis II, 47 (ad Publicolam), § 5 (= PL, 33, Lutetiae Parisiorum, 1861, col.
186)
525
526
118
dalla dottrina ecclesiastica tradizionale risalente ad Agostino, a predominare sulla tesi
oggettiva di derivazione germanica.
Ritroviamo, ad esempio, il canone Saepe contingit (D. 50, c. 50), vale a dire il can.
29 del concilio di Worms, contemplante l’ipotesi del potatore di alberi che, per
negligenza, non si accorge della caduta di rami che causano l’omicidio di un
individuo529.
Il canone immediatamente successivo (D. 50, c. 51) è tratto invece dal concilio di
Treviri, tenutosi nell’ anno 895, il quale afferma l’innocenza di colui che, non avendo
mancato alla dovuta diligenza, avesse determinato la morte del fratello in occasione del
taglio di alberi530.
Siffatto concilio rappresentò una reazione al principio della responsabilitas ex
effectu, che conduce all’imputazione dell’effetto dannoso dell’azione anche al di fuori
del concorso della volontà libera e deliberata dell’agente, accogliendo invece il
principio della responsabilitas ex voluntatis consensu531.
Abbiamo già visto come i canoni del concilio di Worms e Treviri siano confluiti
nelle collezioni pregrazianee. Olivier Descamps532 ha di recente ribadito, a tal proposito,
la forte dipendenza di Graziano dalla Tripartita di Ivo di Chartres non solo per quanto
riguarda i canoni 50533 e 51534 della Distinctio 50, ma anche per i canoni 48535, 49
(relativo ad una lettera di papa Nicola I in tema di omicidio commesso da un potatore di
alberi)536 e 52537 della medesima Distinctio.
Il frammento D. 50, c. 48 prospetta una delle tante fattispecie in cui la lettura prima
facie del testo sembra propendere per la tesi della responsabilità ex effectu, ma il lavoro
CONCILIUM WORMATIENSE, can. 29 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. XV, Venetiis, 1770, col. 874).
530
CONCILIUM TRIBURIENSE, can. 36 (= J. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima
collectio, t. XVIII, Venetiis, 1773, col. 150).
531
Cfr. P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di
Graziano, cit., p. 453.
532
O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de 1804,
cit., pp. 22-26.
533
IVO CARNOTENSIS, Tripartita, III, 21, 43, intitolato De ille qui in opere necessario casu homicidium
perpetravit.
La Tripartita risulta ancora inedita ma è in fieri un’edizione critica sulla base dei manoscritti esistenti.
Abbiamo utilizzato l’edizione in corso d’opera, curata da Bruce Brasington, Martin Brett e Przemyslaw
Nowak, reperibile sul sito http://project.knowledgeforge.net/ivo/tripartita.html , consultato in data 29
settembre 2013.
534
IVO CARNOTENSIS, Tripartita, III, 21, 44, intitolato De eadem rem ex concilio Triburiensi cap XVII.
535
IVO CARNOTENSIS, Tripartita, I, 54, 10, intitolato De muliere que inter caballos collisa fuit.
536
IVO CARNOTENSIS, Tripartita, I, 62, 21, intitolato De his qui arborem incidunt.
537
IVO CARNOTENSIS, Tripartita, II, 34, 5, intitolato De his qui altario serviunt.
529
119
dell’interprete la sostituisce, attraverso distinzioni che verranno ulteriormente
perfezionate, con la tesi della responsabilitas ex voluntate.
Il testo riportato nel Decretum afferma:
«Quantum dicit iste Placidus, anno praeterito dictum est de uxore ipsius,
quia subito inter caballos inventa, et dum traherentur caballi, collisa est
illa, et abortum fecit. Quod si ita est, forte si caballos alienos tulit, inde est
culpabilis. Nam de muliere, que casu inter caballos confracta est, ubi
voluntas illius non agnoscitur perniciosa fuisse, non potest nec debet
addici per leges».
Un siffato testo poteva prestarsi a due interpretazioni differenti: nel senso che colui che
ha posto l’azione necessariamente e lecitamente, può essere liberato dalla responsabilità
circa l’effetto cattivo causale; ma anche nel senso che l’effetto cattivo proveniente da
un’azione non necessaria, superflua ed illecita, è imputabile all’agente, anche se non
avrà voluto l’effetto, ma l’ha causato per negligenza.
Pietro Palazzini ha ritenuto che proprio da queste due interpretazioni, a cui si
prestavano fattispecie simili a quella riportata, venne fuori la famosa distinzione tra il
versari in re (actione) licita seu illicita538.
Il principio della responsabilità ex effectu non fu comunque del tutto superato. Nel
Liber Extra ritroviamo infatti due decretali di papa Alessandro III inviate
all’arcivescovo di Cosenza539 ed al vescovo di Exeter540, relative a casi di omicidio
accaduti in occasione di attività ludica tra chierici.
3) Damnum
Nell’età dello ius commune i due fondamenti, oggettivo e soggetivo, dell’actio legis
Aquilia vengono individuati rispettivamente nel «damnum» e nell’ «iniuria».
Azzone, commentando il giustinianeo C. 3, 35, a tal proposito scriveva che «si ergo
damnum nullo modo sit datum […] cessat Aquilia […] Culpa autem omnino necesse est
intervenire: alioquin non agetur Aquilia»541.
Cosa intesero però i giuristi medievali per «damnum»?
P. PALAZZINI, L’imputabilità dell’atto umano nel pensiero pre-grazianeo e nel ‘Decretum’ di
Graziano, cit., p. 455.
539
X. 5, 12, 8 Continebatur in literis.
540
X. 5, 12, 9 Lator praesentium P.
541
AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, Venetiis, 1566, coll. 229-230, §§ 1-2.
538
120
Gian Paolo Massetto ha evidenziato come da Piacentino al Richeri la definizione di
damnum offerta dal giurista Paolo nel Digesto542 («damnum et damnatio ab ademptione
et quasi diminutione patrimonii dicta sunt») avesse costituito un indiscusso punto di
riferimento543.
Furono offerti anche significati più ristretti che facevano riferimento alla corruptio,
alla deterioratio rei, ecc. in maniera tale da ricomprendere tutte le ipotesi di danno
ricadenti nel primo e nel terzo capitolo della lex Aquilia.
Il glossatore Rogerio considerò anche il caso del danno che incidesse su una «res,
quam non habeo sed habere spero»544, prendendo in tal modo in considerazione il lucro
cessante, la cui nozione risultò determinante, insieme con quella di danno emergente, ai
fini della configurazione della teoria del risarcimento.
Per quanto riguarda i danni arrecati al corpo di un uomo libero esso, stando ai
principi romanistici, non rientravano nell’ambito della lex Aquilia. L’uomo libero,
stante il principio «dominus membrorum suorum nemo videtur», non poteva agire con
l’actio directa, tuttavia al dominus era concessa l’azione in via utile per la perdita della
capacità lavorativa nonché per le spese di cura. Nel caso di ferite mortali che avessero
comportato la morte dell’uomo libero subentrava un altro ditterio, vale a dire «liberum
corpus nullam recepit aestimationem», che si traduceva nell’impossibilità di esperire
l’azione da parte della vedova e dei figli della vittima e nella irrilevanza di cicatrici e di
deformità.
Tra i glossatori civilisti inizialmente non ci fu uniformità di vedute.
Se Bulgaro545 interpretava rigidamente la massima dell’impossibilità di stimare in
denaro l’integrità fisica o la vita dell’uomo libero, Azzone546 e Rogerio547
D. 39, 2, 3. Il frammento tuttavia si inserisce nel diverso contesto della cautio damni infecti. Cfr. sul
punto C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti, pena e risarcimento, cit., p. 14.
Sulla disciplina del damnum infectum, contrapposta a quella in tema di lex Aquilia, si veda O. DESCAMPS,
Le damnum infectum dans la doctrine juridique médiévale (XIIe-XVe siècle), in B. D’ALTEROCHE - F.
DEMOULIN-AUZARY - O. DESCAMPS – F. ROUMY (a cura di), Mélanges en l’honneur d’Anne LefebvreTeillard, Paris, 2009, pp. 359-374.
543
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1120.
544
ROGERIUS, Summa Codicis, 3, 24 De lege Aquilia, § 1, in Scripta anecdota glossatorum, curante I. B.
PALMERIO, (Bibliotheca iuridica medii aevi), I, Bononiae, 1913, p. 94.
545
BULGARUS, Ad Digestorum titulum De diversis regulis iuris antiqui commentarius, edidit F. G. C.
BECKHAUS, Bonnae, 1856, p. 88, sub regula CVI.
546
AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, Venetiis, 1566, col. 231, § 15[ad C. 3, 35].
547
ROGERIUS, Summa Codicis, 3, 24 De lege Aquilia, § 3, cit., p. 94: «Utilis datur usufructuario, et
omnibus qui habent ius in re. Similiter libero homini, si membrum ei iniuria ruptum sit, datur utilis legis
Aquilie actio».
542
121
riconoscevano al libero ferito l’azione in via utile per il conseguimento delle spese
sostenute nella cura medica e per il risarcimento della perduta capacità lavorativa,
mentre non si poteva tenere conto della eventuale deformità fisica. Sempre Azzone
sembrò favorevole verso la possibilità per l’erede di agire con la lex Aquilia. Questa
soluzione, pur costituendo una violazione del principio che vietava l’aestimatio del
corpo, in questo caso, del de cuius, costituiva l’unica forma di tutela per l’erede, una
tutela che, stando al diritto romano, non sarebbe stata accordata invece dall’actio legis
Aquiliae. Roffredo da Benevento548, pur riconoscendo che l’opinione di Bulgaro fosse
più aderente ai principi del diritto romano, difese la posizione del maestro Azzone.
Dunque l’esperibilità dell’azione aquiliana per lesione o uccisione di persona libera
fu ammessa con una notevole larghezza, tenendo conto delle spese mediche e di cura, e
del lucro cessante identificato nella privazione di quei vantaggi che, in assenza di
lesione, il danneggiato o il suo erede avrebbero conseguito, in riferimento all’attività
concretamente svolta in vita.
Come giustamente evidenziato da recente dottrina549, Roffredo contribuì ad
accrescere l’ambito dell’indagine che trova una più compiuta articolazione nello
Speculum iuris di Guglielmo Durante550, opera che, pur dipendendo grandemente da
quella di Roffredo, fornisce una prima sistemazione dei diversi tipi di danno e dei suoi
criteri di risarcimento.
Il risarcimento del danno emergente551 e del lucro cessante552 fu uno dei tanti punti
di sostanziale convergenza tra civilisti e canonisti, unitamente all’impossibilità di
aestimatio delle cicatrici553 e della deformitas fisica554.
ROFFREDUS BENEVENTANUS, Libelli iuris civilis, pars I, De actione in factum subsidiaria l. Aquiliae,
et de utili actione l. Aquiliae, § Item constat. ff. 24 r.-v., in Corpus glossatorum iuris civilis, vol. VI,
Torino, 1968, p. 48.
549
M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit. 103.
550
GULIELMUS DURANDUS, Speculum iuris, Venetiis, 1576, t. III, lib. IV, part. IV, De iniuriis et damno
dato, pp. 512-516.
Sul celebre giurista cfr. F. ROUMY, DURAND (Durant, Durandi) Guillaume, l’Ancien, in P. ARABEYRE-J.
L. HALPÉRIN-J. KRYNEN (a cura di), Dictionnaire historique des juristes français XIIe-XXe siècle, Paris,
2007, pp. 290-292.
551
BERNARDUS PAPIENSIS, Summa Decretalium, edidit E. A. T. LASPEYRES, Ratisbonae, 1860, p. 263, V,
31 De damno dato: «[…] resarcientur laeso impensae medicorum et operae, quibus caruit vel cariturus
[…]».
552
Glossa operas eius et impensas ad X. 5, 36, 1: «operas autem amissas, et impensas in curatione
praestabit […]»[in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis,
1600, p. 1308].
553
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quartum et quintum Decretalium librum
Commentaria, Venetiis, 1581, p. 95 v.[comm. ad X. 5, 36, 1]; ABBAS PANORMITANUS (NICOLAUS DE
548
122
4) «Iniuria» e «culpa»
Accanto al «damnum», elemento oggettivo, a fondamento dell’actio legis Aquilia
nell’età dello ius commune ritroviamo, quale elemento soggettivo, l’ «iniuria». Come
affermato da Odofredo, l’azione era concessa nel caso in cui il danno fosse stato
arrecato «iniuria», termine, quest’ultimo, «quod […] equivoce in iure nostro sumitur:
uno modo quod non iure fit, secundo modo pro contumelia, sic sumitur in actione
iniuriarum, tertio modo dicitur damnum culpa datum […]». Il glossatore bolognese
continuava distinguendo tra un significato «largissime, ut dicatur iniuria omne quod
non iure fit» ed uno più ristretto per cui il termine iniuria «sumitur pro culpa»555.
Già la glossa di Accursio ad verbum «iniuria» in D. 9, 1, 1, 3, aveva del resto
specificato che: «iniuria id est culpa. Et sic bene sequitur, itaque quia in fine dicit
quando culpa fuit in homine»556.
Dell’equivocità di significato del termine iniuria vi sono chiari riferimenti anche
nell’opera del grammatico e canonista Uguccio da Pisa557.
Se i giuristi erano concordi nel prendere le distanze dalla legislazione statutaria che,
nella configurazione della responsabilità prescindeva dalla considerazione dell’animus,
difformità di opinioni sussistevano sul significato da attribuire al termine «culpa»,
considerata da Donello come il «locus, in quo maxima pars disputationum juris
auctorum his titulis versatur»558.
Nelle fonti giustinianee culpa, come ha ben evidenziato Mario Talamanca, ha
diverse accezioni e può indicare l’illecito, l’imputabilità e la negligenza in senso
TUDESCHIS), In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f. 196 r. [comm. ad
X. 5, 36, 1].
554
Glossa operas eius et impensas ad X. 5, 36, 1: «deformitatis autem ratio non habebitur, quia liberum
corpus non recepit aestimationem […]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum
glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1308].
555
ODOFREDUS, Interpretatio in undecim primos pandectarum libros, Lugduni, 1550, interpretatio Ad
legem aquiliam, Sed et si § iniurarium autem, p. 272.
Cfr. anche ROGERIUS, Summa Codicis, 3, 24 De lege Aquilia, § 1, cit., p. 94: «Injuria accipitur pro
culpa»; AZO, Summa […], locuples iuris civilis thesaurus, cit., col. 231, § 15 [ad C. 3, 35]: «[per
injuriam] id est culpam».
556
ACCURSIUS, Glossa iniuria ad D. 9, 1, 1, 3 [in Pandectarum seu Digestum Vetus Iuris civilis, tomus
primus, Venetiis, 1581, p. 693].
557
HUGUCCIO [GRAMMATICUS], Vocabularium, in BNP, ms. lat. 7622 A, f. 101 v., Vis Injuria: «Cum fit
aliquid contra ordinem juris»; Injuriae: «Sunt quae aut pulsationem corpus aut aliqua turpitudine»;
Injuriis: «Injustus. Injurium contra jus contrarium», segnalato da O. DESCAMPS, L’influence du droit
canonique médiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité, cit., p. 143, nt. 35
558
HUGO DONELLUS, Commentarius ad tit. dig. ad legem Aquiliam, cap. I, n. 5, in ID., Opera omnia, t.
X, Maceratae, 1832, col. 3.
123
generico559. Questa pluralità di accezioni la rinveniamo anche nei giuristi di ius
commune560.
I glossatori ebbero sempre presente la tripartizione romanistica della culpa in lata,
levis e levissima. La scuola del commento, invece, effettuò il tentativo di innovare il
sistema della gradazione della culpa proprio della scuola della glossa, aderando alla
speculazione dei dottori oltremontani.
Nell’ambito della culpa in genere i commentatori distinsero sei gradi: «alia est
latissima, alia latior, alia lata […] et alia levis, alia levior, alia levissima»561, mentre
Bartolo non considerò come specie autonoma la culpa levior. La dottrina civilistica era
concorde nel sostenere, «almeno in linea di principio»562 che la responsabilità aquiliana
abbracciasse ogni specie di colpa, compresa la culpa levissima che consiste, secondo la
Glossa di Accursio, nel non prevedere ciò che «quocunque modo» un uomo
«diligentissimus» avrebbe previsto563.
In questo sistema, fondato sulla configurazione della culpa come criterio generico in
cui ricomprendere anche il dolo, il termine culpa assumeva pertanto il significato
generico di elemento soggettivo.
Similmente nella letteratura canonistica ritroviamo analoghe prospettive di
riflessione, in particolare l’assimilazione dell’iniuria alla culpa.
Sinibaldo dei Fieschi nel commentare il titolo De iniuriis et damno dato del Liber
Extra così rilevava: «aliter dicitur iniuria, id est, culpa ut in hac lege Aquilia»564.
Altre volte ricorre l’identificazione dell’iniuria con l’iniquità o ingiustizia, come
sostiene ad esempio Goffredo da Trani:
«generaliter iniuria dicitur omne quod non iure iure fit. Specialiter autem
dicitur iniuria iniquitas vel iustitia iudicantis quasi ius iniquum ex eo dicta
M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, cit., p. 518.
Per una rassegna di frammenti cfr. G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto
intermedio, cit., p. 1127.
Si veda anche l’efficace sintesi, con utili riferimenti comparatistici, proposta da V. FERRARI, Le radici
semantiche della colpa civile, in G. DALLA TORRE (a cura di), Studi in onore di Giovanni Giacobbe, t. II,
Milano, 2010, pp. 1458-1473.
561
BARTHOLOMAEUS A SALICETO, Super Digesto Veteri, Lugduni, 1541, f. 88 v. [comm. ad D. 16, 3, 32].
562
Così G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1135, che rileva,
al riguardo, le oscillazioni della stessa dottrina circa la rilevanza tra culpa in committendo e culpa in
omittendo e quella inerente ad un preesistente rapporto contrattuale.
563
M. TALAMANCA, Colpa civile. a) Diritto romano e intermedio, cit., p. 525.
564
INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 645,
[comm. ad X. 5, 36, 9, sub verbo iniuria].
559
560
124
quia iusticia et iure caret. Dicitur et iniuria culpa ut in lege Aquilia.
Dicitur injuria contumelia […]»565.
Recentissima ed acuta dottrina566 ha posto l’attenzione su due correnti della canonistica
divergenti tra di loro in merito alla soglia a partire dalla quale l’autore del danno è
esposto all’obbligo di riparazione.
Una prima corrente dottrinale imposta la propria riflessione sull’idea di dovere.
L’autore dell’atto dovrà pertanto applicare tutta la diligenza alla quale è tenuto
(«adhibere diligentiam debitam»567). In tal senso militano quei frammenti canonistici (e
le relative glosse) che analizzano fattispecie di danni causati da animali568 o derivanti
da incendio569.
La seconda corrente invece mette in risalto il concetto di potere. L’individuo dovrà
di conseguenza fare tutto quello che gli è possibile per evitare che il danno venga a
realizzarsi («adhibere diligentiam potuit»570).
GOFFREDUS TRANENSIS, Summa in titulos Decretalium, Venetiis, 1564, De iniuriis et damno dato, p.
469.
Cfr. in termini analoghi HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, cit., col. 1717
[liber V, tit. De iniuriis, et damno dato, § Quot modis dicatur]: «Specialiter autem dicitur iniuria,
iniquitas et iniusticia iudicantis, quasi sit ius iniquum sive iniustum: ex eo sic dicta quia iure et iusticia
caret. Dicitur etiam iniuria culpa ut il lege Aquilia. Sed et iniuria dicitur, contumelia alicui facta, vel
dicta […]».
566
O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la
responsabilité, cit., pp. 148-149.
567
BERNARDUS PAPIENSIS, Summa Decretalium, edidit E. A. T. LASPEYRES, Ratisbonae, 1860, p. 222 [V,
10, 5 De homicidio voluntario vel casuali]: «Circa illud quod fit casu, distingue, an ille qui casu occidit
instabat licito operi et adhibuit illam diligentiam quam debuit, aut non: primo casu non imputatur sibi,
sed casui et fato et fortunae ut Di. L. Hi qui (c. 49), Saepe (c. 50), Si duo (c. 51) et Cod. ad L. Corn. de
sicar. L. 1[C. 9, 16, 1]; alioquin si vel non instabat operi licito vel non adhibuit illam diligentiam quam
debuit, sibi debet imputari».
Cfr. IOANNES ANDREAE, In quintum Decretalium librum Novella Commentaria, Venetiis, 1581, f. 59 r.,
n. 1 [comm. in X. 5, 12, 8 Continebatur]: «Homicidium casuale imputatur ei, qui dabat operam rei
illicitae, vel licitae, si non adhibuit diligentiam, quam debuit».
568
X. 5, 36, 3, di cui si veda la Glossa Non custodivit: «Supple, et alterius bovem occiderit: unde tenetur,
quia culpa, sive negligentia ipsius, damnum datum est, est qui debuit diligentiam adhibere» [in
Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1309];
X. 5, 36, 9, di cui si veda la Glossa Quod si animalia: «Item qui occasionem damni dat damnum dedisse
videtur, cum diligentiam non adhibuit quam debuit»[in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati
una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1311].
569
X. 5, 36, 5, di cui si veda la Glossa Reddet damnum: «Si fuerit in culpa dum apposuit istum ignem, nec
adhibuit diligentiam quam debuit ff. Ad legem Auiliam Qui occidit § In hac [D. 9, 2, 30, 3]» [in
Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1309].
570
STEPHANUS TORNACENSIS, Summa ad D. 50, c. 49, ad verbum innoxii: «si tantam cautelam
adhibuerunt, quantum potuerunt». [STEPHAN VON DOORNICK (ÉTIENNE DE TOURNAI, STEPHANUS
TORNACENSIS), Die Summa über das Decretum Gratiani, a cura di J.F. VON SCHULTE, Giessen, 1891, p.
74].
565
125
L’applicazione del predetto criterio si ha nella materia riguardante l’esercizio della
professione medica, laddove la diligenza che viene in rilievo è quella propria dell’ars
medica571.
4.1) (segue) La decretale «Si culpa tua» di Gregorio IX
Nella storia dei contributi offerti dalla scienza canonistica alla dogmatica della
responsabilità extracontrattuale riveste una particolare importanza la decretale «Si culpa
tua» inserita nel titolo De iniuriis et damno dato del Liber Extra di Gregorio IX572. Si
tratta di un testo importantissimo573 che compendia, al suo interno, alcuni elementi
costitutitvi della categoria giuridica della responsabilità extracontrattuale vale a dire il
nesso di causalità e l’elemento soggettivo:
«Si culpa tua datum est damnum vel iniuria irrogata, seu aliis
irrogantibus opem forte tulisti, aut haec imperitia tua sive negligentia
evenerunt: iure super his satisfacere te oportet, nec ignorantia te
excusat, si scire debuisti, ex facto tuo iniuriam verisimiliter posse
contingere vel iacturam. Quodsi animalia tua nocuisse proponas,
nihilominus ad satisfactionem teneris, nisi ea dando passis damunm
velis liberare te ipsum; quod tamen ad liberationem non proficit, si fera
aninalia, vel quae consuevetunt nocere, fuissent, et quam debueras non
curasti diligentiam adhibere. Sane, licet qui occasionem damni dat
damnum videatur dedisse: secus est tamen in illo dicendum, qui, ut non
accideret, de contigentibus nil omisit»574.
INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 611, n. 2,
[ad. X. 5, 12, 19 Tua nos]: «Sed quid si medicus bene novit medicinam, quam dedit bonam esse, et in
veritate bona erat, sed contingit quod species positae inmedicina fuerunt malae, vel propter nimiam
vetustatem, vel quia falsam similitudinem gerebant verarum specierum, vel propter aliam quamcunque
causam male fuerint. Responsio: quod si medicus diligentiam quam debuit adhibere in speciebus
eligendis, quod quicquid inde contingerit inculpabilis est medicus, quia probabilis ignorantia, imo
solicita diligentia eum excusat».
Cfr. anche la posizione, più flessibile, di HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum
Decretalium librum Commentaria, Venetiis, 1581, f. 49 r., n. 5 [comm. ad X. 5, 12, 19 Tua nos]: «Quid si
medicus bene peritus bonam medicinam proponavit quantum ad artem, sed quantum ad materiam mala
erat, propter nimiam vetustatem specierum, vel falsa similitudinem, quam gerebat variarum specierum,
vel aliam quancunque causam? Respondeo si omnem diligentiam quam potuit, adhibuit in speciebus
eligendis, inculpabilis est quia semper est probabilis ignorantia excusata […]. Immo et solicita
diligentiam eum excusat. […] Quid si chirurgicus dubitat de incisore? Abstineat tam ipse, quam incisor,
nisi sit talis, de quo non dubitatur communiter quin bene sciat incidere».
572
Sulle decretali gregoriane si veda F. LIOTTA, I papi anagnini e lo sviluppo del diritto canonico
classico: tratti salienti, in ID. (a cura di), Studi di storia del diritto medievale e moderno, Bologna, 1999,
pp. 107-128, in part. pp. 120-122.
573
Come già evidenziò lo storico E. BUSSI, La formazione dei dogmi di diritto privato nel diritto comune,
(diritti reali e diritti di obbligazione), cit., pp. 205-207.
574
X. 5, 36, 9.
571
126
La decretale gregoriana disciplina nella prima parte il danno arrecato con fatto
proprio, mentre nella seconda parte è contemplato il danno cagionato dalle proprie
cose, nel caso di specie dagli animali.
Limitando la trattazione al danno arrecato con fatto proprio, il testo gregoriano ne
fonda la responsabilità sul fatto che il danno sia stato arrecato culpa, ovvero iniuria
cioè contra ius e che l’agente non abbia previsto le conseguenze dannose che
verisimiliter potevano derivare dal suo comportamento. L’agente pertanto è tenuto a
sapere che la sua azione era verosimilmente, quindi anche non necessariamente,
dannosa. Egli non sarà responsabile nel caso in cui non abbia omesso, nella situazione
specifica, nulla di quanto fosse necessario perché il danno non accadesse.
I principi espressi dalla decretale sono in armonia con quelli romanistici e permisero
ai canonisti di pervenire alle medesime conclusioni della dottrina civilistica. Seguendo
la glossa ordinaria a X. 5, 36, 9, notiamo infatti che l’infans ed il furiosus non sono
responsabili in quanto «iudicium animi non habent»; la legittima difesa scrimina il
comportamento di chi «ad sui defensionem, et incontinenti, et eodem modo damnum
dedit»; altresì non è responsabile chi abbia agito costretto dal fatto altrui («alterius
impulsu») oppure da un fatto naturale irresistibile («violentia ventorum») o chi abbia
arrecato un danno «ex officio».
Il richiamo, nella decretale Si culpa tua, alla negligenza ed all’imperizia furono
l’occasione per gli stessi canonisti di affrontare il discorso di quella che oggi chiamiamo
responsabilità professionale, con particolare riferimento al danno cagionato dal medico
e dall’avvocato575.
A tal proposito valga quanto riportato dall’Abbas Panormitanus in alcuni frammenti
della sua grandiosa opera. Il canonista afferma che «[…] in foro animae Doctor
consulens ex ignorantia vel imperitia non sequens traditiones artis, tenetur pro eo quod
alterum consulendo laeserit»576. Nel commento ad altro frammento delle decretali
gregoriane, dopo aver ribadito che «contra medicos et alios artifices ut si per eorum
Si noti l’utilizzo dell’ablativo modale «culpa tua», che dovrebbe implicare la traduzione del medesimo in
«con tua colpa». Ciò tuttavia non toglie che lo stesso ablativo possa configurarsi come causale e pertanto
la traduzione diventerebbe «per tua colpa».
575
Il tema è stato magistralmente trattato da G. LE BRAS, Velut splendor firmamenti: le Docteur dans le
droit de l’Église Médiévale, in Mélanges offerts a Étienne Gilson de l’Académie française, Toronto-Paris,
1959, pp. 386-388.
576
ABBAS PANORMITANUS, Secunda interpretationum in primum Decretalium librum pars, Lugduni,
1547, f. 58 v., n. 3 [ad X. 1, 14, 7 Ad aures].
127
imperitiam alicui damnum illatum est, qui tenentur ad aestimationem damni», il
Panormitano prosegue affermando: «Idem dicerem in doctore cuius imperitia damnum
illatum est, ut quia perdidit causam, ut tunc teneatur doctor ad emendam damni»577.
Quanto affermato è in sintonia con il parere dei civilisti nella materia de qua e
costituisce un’ulteriore conferma dello spirito romanistico che anima
la disciplina
canonica dell’illecito extracontrattuale.
4.2) (segue) La gradazione della culpa tra foro esterno e foro interno
L’originalità della visione canonistica (o, se si vuole, il contrasto con la posizione
dei civilisti) risiede invece nell’intensità cioè nel grado della colpa che valeva a fondare
la responsabilità nel foro interno e nel foro esterno. Sul punto la posizione dei canonisti
è riconducibile essenzialmente a quella di Sinibaldo dei Fieschi, asceso al soglio
pontificio col nome di Innocenzo IV578, secondo cui in foro conscientiae dalla culpa
levis o levissima non sorge responsabilità extracontrattuale essendo sufficiente la
penitenza imposta dal confessore:
«Sed tamen in foro poenitentiali non videtur, quod teneatur ad emendam
damni et poena est ei imponenda de negligentia, non poena de damno
argumento 15, q. 2 c. Inebriaverunt [corr. C. 15, q. 1, c. 9]. Lex autem
civilis quae intendit circa conservationem patrimoniorum, constituit quod
etiam ad restitutionem damni tenerentur. Item bene fatemur quod si aliquo
modo intenderet per ignem dare damnum, quod etiam in foro poenitentiali
condemneretur, et idem dico si non intenderet, sed culpa esset, ut si ignem
proijceret in domum plenam stipula. Hoc autem generaliter teneas, quod
quicunque satisfecerit ad plenum laeso, alii ulterius in foro poenitentiali
satisfacere non coguntur, sed ei compensare debent qui pro omnibus
satisfecit et hoc idem sic obtinet in consilio animae; sed in foro judiciali,
si potest discerni damnum, vel factum unius a damno, vel facto alterius
nullus tenebitur nisi de suo damno, vel facto, et sic videtur dicere ff. Ad
legem Aquiliam, l. Item Mela, § Sed si plures [D. 9, 2, 11, 2] […] si autem
non possunt discerni, quilibet tenetur in solidum […]»579.
ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f.
198 v., n. 3 [comm. ad X. 5, 36, 9 Si culpa tua].
578
Per un profilo bio-bibliografico si veda da ultimo A. MELLONI, Sinibaldo Fieschi (Innocenzo IV), in
DBGI, vol. II, Bologna, 2013, pp. 1872-1874.
579
INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 609, n. 5 [ad
X. 5, 12, 6 sicut dignum].
577
128
Il principio innocenziano, accolto pressochè concordemente dalla dottrina
canonistica580, divenne communis opinio anche se suscitò un animato dibattito il cui più
illustre esponente fu Niccolò (dei) Tedeschi, noto anche come Abbas Panormitanus581.
L’atteggiamento del Panormitano verso il celebre dictum di Innocenzo IV non fu
univoco. Il canonista siciliano, infatti, ne accetta la ratio ispiratrice per la quale nel caso
di culpa levis o levissima, mancando l’animus nocendi, non deriva il risarcimento del
danno in foro conscientiae, sebbene sia imposta una penitenza582.
FELINUS SANDEUS, Commentaria in Decretalium libros V, pars III, Venetiis, 1584, col. 1023, n. 16-17
[ad X. 5, 12, 6 sicut dignum]: «Subdit postea Innocentius valde singulariter quod ista procedunt, ubi per
dolum aliquis damnificat proximum sed si ex negligentia, vel levi culpa, quamvis tunc teneretur in foro
civili ad damnum l. 3, ff. Ad legem Aquiliam [D. 9, 2, 3], cum similiter tamen in foro conscientiae non
imponitur sibi poenitentia pro illa inadvetentia: puta, quia neglexit cooperire ignem unde domus sua cum
vicinis est incensa; vel posuit ignem in sua stipula, non advertens principium ventorum ex quibus postea
segetis vicini arserunt. Et idem in similibus, quia de hac levi culpa valde lata, etiam circa dolum, hoc
fecisset, quia quo ad restitutionem, tenebitur ut de dolo;, puta si prope domum de facili combustibilem
posuisset fucinam vel magnum ignem fecisset, quia non est culpa levis sed est adeo lata, quae
aequiparatur dolo».
ANTONIUS DE BUTRIO, In Librum Quintum Decretalium commentarij, Venetiis, 1578, f. 49 v., n. 19 [ad
X. 5, 12, 6 Sicut dignum]: «[…] In foro animae solum est de negligentia puniendus, et ad emendationem
damni non tenetur […]».
FRANCISCUS ZABARELLA, Super IV et V Decretalium, subtilissima commentaria, Venetiis, 1602, f. 73 v.,
n. 4 [ad X. 5, 12, 6, § 5 Eos insuper]: «[…] non ita tenetur quis de omni culpa in foro poenitentiali, sicut
in iudiciali. Ratio: in poenitentiali tenetur de prava mente tantum. Ergo de culpa quae processit de
mente, quod signa. Quaero si in foro poenitentiali satisfcatum plene fuit laeso, an tenetrur alter
satisfacere. Dicit Innocentius quod non: sed tenetur compensare satisfacienti. Vult Innocentius denotare
differentiam fori contentiosi ad poenitentiale: quia in contentioso uno malefactore satisfaciente, non per
hoc alii liberantur […]. Sed in poenitentiale secus: tamen etiam in contentioso quo ad restitutionem laesi
uno satisfacente, omnes liberantur, sed non quo ad penam publicam […] et idem dico de penitentiali quo
ad hoc. Unde etiam dicit Innocentius quod non sufficit delinquenti, quod laeso satisfacerit, immo
spiritualis penitentia debet sibi iniungi pro peccato».
Tra i sommisti si vedano: SYLVESTER PRIERATE, Summa silvestrina, Venetiis, 1569, pars I, p. 59, ad
verbum Advocatus, § 24: «quia Innocentius […] de hoc dicit, quod in foro animae non punitur quis ad
satisfactionem damni, si intulit illud praeter propositionem: sed punitur neglegentia, quasi velit, quia in
foro animae habeatur respectus ad voluntatem delinquentis»; p. 379, ad verbum Culpa, § 4: «Sed […]
dictum Innocentii placet magis: et est opinio communior […]»; pars II, pp. 614-615, ad verbum
Restitutio II, § 12: «Et in foro contentioso venit hic etiam culpa levissima […] sed in foro poenitentiali
seundum Innocentium […] non teneatur quis, nisi ex dolo vel lata culpa»; p. 616, § 17: «Sed in foro
conscientiae non tenetur quis in huiusmodi, nisi de dolo et lata culpa […]. In foro vero contentioso
actione legis Aquiliae tenetur damnificans de culpa levissima».
ANGELUS DE CLAVASIO, Summa angelica de casibus conscientialibus, Venetiis, 1628, p. 279, § 6 [sub
verbo Culpa]: «Utrum in foro animae teneatur quis restituere damnum, quod dedit proximo ex culpa sua?
Respondeo quod licet Innocentius in capitulo Quia plerique, de immunitate ecclesiarum [X. 3, 49, 8] velit
quod solum de dolo, et lata culpa teneatur, et multi doctores pro singulari dicto habeant. Tamen eo credo
quod teneatur de omni damno ex quacunque culpa sua, de qua tenetur tamen de iure civili, quam
canonico […]».
581
Per un profilo bio-bibliografico si veda da ultimo O. CONDORELLI, Niccolò Tedeschi (Abbas
Modernus, Panormitanus), in DBGI, vol. II, Bologna, 2013,, pp. 1426-1429.
582
ABBAS PANORMITANUS, Prima interpretationum in primum Decretalium librum pars, Lugduni, 1547,
f. 20 r., n. 11[ad X. 1, 2, 1 Canonum]: «Hinc singulariter dicit Innocentius in capitolum sicut dignum de
homicidio [X. 5, 12, 6] quod si quis infert damnum proximo ex culpa levi, vel levissima non ex proposito,
nec lata culpa, non tenetur resarcire damnum in foro poenitentiae. Sed satis est pro delicto agere
580
129
Altre volte vengono nutriti dubbi circa la validità della posizione di Innocenzo IV,
come è dato riscontrare nel commento al passo dell’Esodo (22,5) relativo alla
responsabilità di colui che abbia acceso un fuoco nel suo campo, poi propagatosi al
campo altrui danneggiandone le messi583. Lo stesso dicasi per il commento alla
decretale Si culpa tua584, in cui il Panormitano sostiene che, sia per il diritto canonico
che per quello civile, l’azione aquiliana può essere esperita nel foro contenzioso, così
come in quello interno, anche in caso di colpa lieve e lievissima:
«nota primo ex testu, quod ex sola culpa, seu negligentia, tenetur quis ad
satisfactionem damni, etiam de iure canonico, quantocunque non habuit
voluntatem damnificandi. Et cum haec litera loquatur indistincte de culpa
seu negligentia, debet intellegi de qualibet culpa, quia indefinita
aequipollet universali […] Infertur ergo, quod in hac actione legis
Auiliae, venit levissima culpa de iure canonico sicut de iure civili ut l.
Aquilia, ff., Ad legem Aquiliam [D. 9, 2, 44]. […] Et facit iste textus sic
intellectus contra opinionem Innocentii in capitolum Sicut dignum, De
homicidio [X. 5, 12, 6], et dixi in capitolum Si egressus, supra eodem [X.
5, 36, 5]. Ut etiam in foro animae teneatur ad emendam, licet ex levissima
culpa damnum illatum sit quia cum haec sit lex principis, et valde
rationabilis, et non sit mera poena ex parte damnum passi, deberet
observari etiam in foro animae […]. Nec obstat c. Inaebriaverunt 15, q. 1
[C. 15, q. 1, c. 9] super quo fundat Innocentius quia ibi est mera poena,
sed hic est interesse ex parte patientis damnum»585.
Le osservazioni del Panormitano, come messo in rilievo dal Massetto, vanno a toccare
anche un «un punto delicato, vale a dire il fondamento e la natura stessa del
risarcimento»586 che, nel passo riportato, viene configurato, per la parte danneggiata (ex
parte damnum passi), come interesse e non come poena.
In materia di damnum iniuria datum costituiva principio indiscusso il fatto che la
sanzione conseguente al danno arrecato per colpa lieve o lievissima dovesse essere
intesa come una pena diretta a colpire la negligenza587. Parimenti indiscusso era il
poenitentiam: secus est in foro contentioso […]»; ID., Secunda interpretationum in primum decretalium
librum pars, Lugduni, 1547, f. 218 v., n. 12 [ad X. 1, 43, 4 Dilecti filii]: «[…] sed adde tu Innocentium in
capitolum sicut dignum de homicidio [X. 5, 12, 6] ubi plenus non voluit quod in foro poenitentiali non
tenetur quis ad emendationem delicti seu damni dati nisi fuerit in dolo, seu lata culpa: secus si fuit in
culpa levissima, vel levi, unde previsio legis Aquiliae super resartione damnorum non habet locum foro
animae, nisi modo praedicto. Quod est singulariter notandum».
583
X. 5, 36, 5 Si egressus: «Si egressus ignis invenerit spinas, et comprehenderit acervos frugum sive
stantes segetes in agris, reddet damnum qui ignem succenderit».
584
X. 5, 36, 9 Si culpa tua.
585
ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f.
198 r., n. 1 [comm. ad X. 5, 36, 9 Si culpa tua].
586
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1132.
587
Siffatto principio trova il suo fondamento nel frammento grazianeo C. 15, q. 1, c. 9 Inebriaverunt,
relativo all’episodio biblico di Loth e sua figlia. Ambedue ebbri, si congiunsero carnalmente. Loth fu
130
principio per cui la pena imposta da una norma di diritto positivo canonico o civile non
fosse da osservare nel foro interno giacchè in foro animae è sufficiente che il sacerdote
imponga poenitentiam pro delicto588.
L’Abbas Panormitanus tentò di conciliare il dictum di Innocenzo IV, poggiante sul
Decretum di Graziano (C. 15, q. 1, c. 9), con la decretale Si culpa tua di Gregorio IX ed
il giustinianeo D. 9, 2, 44, in modo da evitare la discrasia tra foro esterno e foro interno.
Dunque il risarcimento viene configurato come interesse rispetto al danneggiato
(respectu damnum passi) e come poena rispetto al danneggiante (respectu inferentis),
pena che in coscienza non deve trovare applicazione quando si è al di fuori delle ipotesi
di dolo e culpa lata589.
Il tentativo, pur autorevole, del Panormitano venne tuttavia criticato da Filippo
Decio, autore di commentari al Liber Extra in cui emerge «una preferenza spiccata per
l’interpretazione di Nicolò de Tedeschi»590.
Ad avviso del giurista milanese il ricorso del Panormitano alla glossa cum augmento
a C. 12, q. 2, c. 11 non era accettabile in quanto essa si riferisce alla pena ex parte
colpevole non tanto per l’incesto quanto per per l’ubriachezza. Quest’ultima costituisce il titolo per cui
Loth deve essere punito. In tal senso cfr. ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib.
interpretationes, Lugduni, 1547, f. 198 r., n. 1 [comm. ad X. 5, 36, 9 Si culpa tua].
588
Cfr. in tal senso glossa cum augmento ad C. 12, q. 2, c. 11 Fraternitas: «[…] ecclesia non petet
poenam, sed iudex ex officio suo eam infliget, et dabit ecclesiae cui sanctitas ignoscendi gloriam
dereliquit» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis,
1600, p. 921].
Questa glossa attirò l’attenzione dell’ABBAS PANORMITANUS, Prima interpretationum in primum
Decretalium librum pars, Lugduni, 1547, ff. 19 v.-20 r., n. 10 [ad X. 1, 2, 1 Canonum]: «Item addo glossa
non quam nescio alibi XII q. II fraternitas in glossa finali in fine ubi dicit, quod poena imposita per legem
positivam, non est servanda in foro animae, seu poenitentiae: sed satis est, quod sacerdos imponat
poenitentiam pro delicto. Et duplex illius dicti potest esse ratio. Prima: quia poena imponitur per iudicem
in foro contentioso […]. Secunda ratio: quia poena imponitur ut coeteri metum habeant […]».
Il Panormitano fu criticato da PHILIPPUS DECIUS, I Decretalium Volumen perspicua Commentaria,
Venetiis, 1593, f. 7 v., n. 72 [prima lectura ad X. 1, 2, 1 canonum], secondo cui la prima ratio esposta dal
Panormitano «parum valet, quia […] lex civilis licet in foro civili, et contentioso dirigatur ad iudicem,
habet tamen locum in foro conscientiae si iusta sit». Circa la seconda ratio, il Decio prosegue dicendo
che «immo poena imponitur, ut delictum puniatur, et regulariter poena delicto commensuratur».
589
ABBAS PANORMITANUS, In quartum et quintum Decretalium lib. interpretationes, Lugduni, 1547, f.
197r. [comm. ad X. 5, 36, 5 Si egressus]: «[…] sed in levi, et levissima non tenetur ad aestimationem, sed
imponitur poenitentia argumento XV q. 1 inebriaverunt. Secus est in foro contentioso: quia in aquiliana
actione venit etiam levissima culpa […] Et hoc dictum Innocentii est valde singulare de quo multo dubito.
Quare forus animae debeat discrepare a foro contentioso cum hic lex sit valde rationabilis: nisi dicatur
quod licet ista aestimatio sit interesse respectu damnum passi. Respectu tamen inferentis est poena quae
in foro animae non debet habere locum: ex quo est extra dolum et latam culpam: quinimo ubi subest
dolus: licet in foro animae teneatur ad aestimationem non tamen tenetur ad poenam. Glossa est
singularis in c. fraternitas XII q. II».
590
M. G. DI RENZO VILLATA, Decio, Filippo, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, pp. 729-731.
131
utriusque, non già al caso in cui si tratti di pena ex parte solventis, al quale pertanto non
può essere estesa591.
Filippo Decio criticò anche la posizione di altri auterevoli canonisti, come Felino
Sandeo592, secondo cui le norme che obbligano per colpa lieve o lievissima si fondano
su una presunzione593 di negligenza che viene disattesa nel foro della coscienza.
Il dibattito sorto intorno al dictum di Innocenzo IV vide l’affermazione del principio
secondo cui nel foro interno non sono osservate quelle norme che sanciscono la
responsabilità per colpa lieve o lievissima poiché tali specie di colpa prescindono dalla
volontà di arrecare un danno. Ciò obbediva del resto alla diversa finalità del foro
interno e del foro contenzioso, sia esso civile o canonico. Avendo di mira la salus
dell’anima, il foro interno tiene in considerazione l’animus nocendi. Nel caso del dolo o
della culpa lata questa volontà ricorre e pertanto si risponderà del danno anche nel foro
interno. Nel caso invece di colpa lieve e lievissima nel foro interno sarà sufficiente una
penitenza considerata la mancanza di voluntas nocendi.
Queste conclusioni conobbero in dottrina degli avversari la cui posizione,
favorevole alla responsabilità anche in foro interno per culpa levis e levissima, rimase
tuttavia minoritaria594.
PHILIPPUS DECIUS, I Decretalium Volumen perspicua Commentaria, Venetiis, 1593, ff. 9 v.-10 r., n.
36 [secunda lectura ad X. 1, 2, 1 canonum]: «Sed advertendum est , quia de illo dicto Innocentii Abbas
[Panormitanus] dubitavit in capitolum Si egressus […] ibi lex canonica obligat in foro contentioso
dantes damnum ex culpa levi, vel levissima. Ergo videtur hot etiam habere locum in foro conscientiae
[…] Abbas in dicto capitulo Si egressus conatur respondere, et dicit quod emendatio damni est poena ex
parte solvenits, et poena in foro conscientiae non debetur».
Viene a questo punto menzionato il ricorso del Panormitano alla glossa ad C. XII, q. 2, c. 11 Fraternitas,
ma a Filippo Decio «ista responsio non placet duplici ratione. Prima est, quia talis ratio etiam militaret
in lata culpa, quae etiam ex parte solventis esset poena, et tamen illa in foro conscientiae peti potest […].
Secunda quia glossa in dicto capitulo Fraternitas, dato quod sit vera, intelligitur de poena propria ex
parte utriusque, et non habet locum in poena solum ex parte solventis […]».
592
FELINUS SANDEUS, Commentaria in Decretalium libros V, pars III, Venetiis, 1584, col. 1024, n. 17:
«Unde dici posset, quod immo ista lex civilis non ligat in conscientiam, quia fundat se in quadam
presumptionem, quam videtur in se habere illa negligentia». [X. 5, 12, 6 sicut dignum].
593
Il Sandeo fa rimerimento alla celebre theorica Baldi secondo cui, stando al dato testuale del Sandeo,
«lex civilis fundans se super praesumptione, non ligat in foro conscientiae […]».
La Theorica cui si fa riferimento si può leggere in BALDUS, Commentaria in primum, secundum et
tertium Codicis lib., Venetiis, 1572, ff. 81 v.-82 r., n. 19 [ in C. 1, 18, 10].
594
Come ad esempio A. BARBATIA, Utilissima scripta in titulum de testamentis, Papiae, 1504, in c.
Raynutius, versiculus Item in quantum, segnalato da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale.
a) Diritto intermedio, cit., p. p. 1132, nota 307.
Cfr. anche I. CLARUS, Practica criminalis sive sententiarum receptarum liber V, in ID., Opera omnia, sive
practica civilis atque criminalis, Genevae, 1666, p. 826 [q. 80, versiculus Sed hic incidenter].
591
132
4.3) (segue) Il nesso di causalità
Ulteriore elemento di vicinanza tra il diritto civile e quello canonico è costituito dal
nesso di causalità tra il fatto che ha provocato il danno e l’evento dannoso, riassunto nel
celebre brocardo secondo cui «qui causa damni dat damnum dedisse videtur»595. È
questo un principio che trova il suo fondamento in numerosi frammenti dell’utrumque
ius596.
Il fatto che ha provocato il danno, per rilevare a livello eziologico, deve configurarsi
come causa proxima597, non già remota.
Il sintagma causa proxima indica il fatto che ha prodotto il danno mentre causa
remota rappresenta il fatto che, nella catena causale, ha avviato l’iter dell’azioni che
hanno avuto, come ultimo momento, il fatto dannoso. Tuttavia il principio conosce delle
eccezioni giacchè anche l’occasio remota può determinare la responsabilità, qualora si
sia agito «animo nocendi […] vel minori diligentia»598.
Ne deriva dunque la necessità di distinguere tra la liceità e l’illiceità del fine cui
tende l’azione. Siffatta distinzione viene in rilievo nella canonistica attraverso il diverso
regime cui soggiacciono qui dat operam rei licitae e colui che invece dat operam rei
illicitae599.
Nel primo caso infatti l’aver usato della debita diligenza non comporta il sorgere
della responsabilità600 la quale invece sussiste ove non si sia fatto uso di tale
Glossa redundare ad C. 31, q. 2, c. 3 de neptis: «Nota regulam: qui occasionem damni dat, damni
dedisse videtur»[in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis,
1600, p. 1485]; glossa causam dedisse ad X. 5, 12, 11 De caetero: «Et est argumentum quod qui
occasionem damni dat, damni dedisse videtur» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una
cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1206].
596
Si veda la rassegna puntualmente fornita da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a)
Diritto intermedio, cit., p. 1129, nt. n. 275.
597
Glossa eorum ad C. 1, q. 1, c. 103: «et qui damni causam vel occasionem dat, et qui damnum dedisse
videtur […] hoc intelligendum est de causa proxima […]» [in Decretum Gratiani emendatum, et
notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 518].
598
Glossa causam dedisse ad X. 5, 12, 11, De caetero [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae
integritati una cum glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1206].
599
Con riferimento all’omicidio involontario conseguenza di un’azione lecita od illecita si veda L. KÉRY,
Non enim homines de occultis, sed de manifestis iudicant. La culpabilité dans le droit pénal de l’Église à
l’époque classique, in RDC, 53 (2003), 2, pp. 334-335.
600
Si può vedere in tal senso C. 23, q. 5, c. 8 De occidendis, riportante un frammento agostiniano.
595
133
diligenza601. Nel caso invece in cui sia stata data operam rei illicitae, l’agente è sempre
responsabile602.
La predetta dicotomia, risalente al grande canonista Simone da Bisignano603,
permette altresì ai giuristi di risolvere un numero non esiguo di fattispecie tramandate
dai testi giustinianei ma che generavano dubbi negli interpreti considerato il distacco
temporale tra i frammenti romanistici e la nuova epoca del rinascimento giuridico604.
La decretale Si culpa tua ribadisce sostanzialmente il principio di cui alla regola
«qui causa damni dat damnum dedisse videtur».
Giova ricordare tuttavia che non si tratta di un principio assoluto, stante il regime
(già visionato supra § 4.1) della non imputabilità di infantes e furiosi, nonché delle
scriminanti.
Alla luce di quanto affermato ben si comprende la riformulazione del principio che,
nelle parole della glossa, diventa «non omnis qui occasionem damni dat, damnum
dedisse videtur»605.
5) La legittimazione attiva e passiva
Nella dottrina civilistica medievale è dato riscontrare la tendenza a vanificare la
reale portata ed efficacia della tripartizione dell’actio legis Aquiliae in directa, utilis ed
in factum. Come si è avuto modo di vedere nel primo capitolo, l’actio directa era
601
D. 50, c. 50. Per il diritto romano si veda D. 9, 2, 30, 4.
Si veda il celebre frammento D. 50, c. 48 Placidus; X. 5, 19, 19 Naviganti; glossa dederunt ad X. 2,
20, 9 Sicut nobis: «Qui dat occasionem damni, si dat operam rei licitae, et adhibet diligentiam quam
potest, non tenetur de ijs quae inde sequuntur […] si dat operam illicitae rei, semper imputatur ei quod
inde sequitur […]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae,
Venetiis, 1600, p. 504]; glossa bonum ad C. 23, q. 5, c. 8: «si aliquis dat operam rei licitae quod non est
imputandum, si aliquid mali indi sequatur […]. Nam Deus est inspector cordis, non operis […]» [in
Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis, 1600, p. 1255].
Per il diritto romano cfr. D. 9, 2, 11, pr.
603
Come riferisce S. KUTTNER, Kanonistische Schuldlehre von Gratian bis auf die Dekretalen Gregors
IX. Systematisch auf Grund der handschriftlichen Quellen dargestellt, cit., p. 204, in cui cita l’apparato
del decretista ad C. 15, q. 1, c. 13: «[…] et quidem credimus, quod si rei licite dabam operam […] quod
michi non debet imputari; […] si vero illicite rei dabam operam […], est quod michi debeat imputari
[…]» [ms. Cod. Bamb. Can. 38].
Sul celebre decretista calabrese cfr. A. FIORI, Simone da Bisignano, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, p.
1869.
604
In tal senso si veda G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p.
1130.
605
Glossa bonum ad C. 23, q. 5, c. 8: «Item est hic argumentum quod non omnis, qui occasionem damni
dat, damnum dedisse videtur […]» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una
cum glossis, Venetiis, 1600, p. 1255].
602
134
esperibile in caso di lesione materiale di una cosa altrui direttamente determinata
dall’attività fisica del soggetto attivo («damnum corpore corpori datum»); l’azione
utilis era invece esperibile nel caso di danno «non corpore at corpori datum»; infine
l’actio in factum riguardava un danno arrecato «nec corpore nec corpori».
Risultò comune ai civilisti medievali «fare delle tre azioni, per così dire, una cosa
sola»606, quasi a voler creare un’azione da concedere, per utilizzare le parole del giurista
settecentesco Heinecke, «ob damnum qualecumque iniuria datum»607. Del resto già
Donello aveva rilevato che «directa et in factum actio et utilis eandem vim habent,
quoties idem persequantur: formula enim tantum interest, res eadem est»608.
Si tratta comunque di una tendenza percepibile, sostanzialmente, in alcune
affermazioni di celebri giuristi609, i quali ebbero sempre presente, sotto il profilo
formale, la tripartizione romanistica dell’azione.
Un'altra ipoteca romanistica che ritroviamo nel pensiero dei giuristi medievali fu
quella relativa alla natura penale dell’actio legis Aquiliae. Fu proprio la penalità
dell’azione l’ostacolo al processo di ampliamento del campo di applicazione della lex
Aquilia dal momento che, come notato dal Rasi, «una azione penale mai assume
carattere generale»610.
Che la depenalizzazione dell’actio legis Aquiliae fosse iniziata già con Giustiniano
lo ha dimostrato il Rotondi nel suo celebre, e ancora valido, studio611. I doctores
medievali si trovarono tuttavia di fronte ai testi del Corpus di Giustiniano da cui
traspariva numerosi indici (e conseguenze) della penalità dell’azione quali la
litiscrescenza ex infitiatatione, la stima del maggior valore che la res danneggiata abbia
avuto nell’anno o nel mese antecedente al fatto dannoso, l’intrasmissibilità passiva, la
solidarietà cumulativa e l’applicabilità dell’azione nossale.
Un disagio era tuttavia creato nei giuristi dal carattere penale dell’azione, quasi
esistesse la volontà in essi di distaccarsi da esso. Ponzio da Lerida qualificò l’actio legis
L’espressione è di G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p.
1140.
607
HEINECCIUS, Elementa iuris civilis, secundum ordinem Pandectarum, VI ed., Genevae, 1747, p. 212,
[liber IX, tit. II, § 194].
608
HUGO DONELLUS, Commentarius ad tit. dig. ad legem Aquiliam, cap. III, n. 3, in ID., Opera omnia, t.
X, Maceratae, 1832, col. 11.
609
Si veda la ragionata rassegna fatta da G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto
intermedio, cit., pp. 1140-1141.
610
P. RASI, L’ actio legis Aquiliae e la responsabilità extracontrattuale nella “Glossa”, cit., p. 734.
611
G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C.Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto
Commerciale, 14 (1916), pp. 967-970.
606
135
Aquiliae sive damni come «rei persecutoria», «pene persecutoria» ed anche
«mixta»612, nel senso che l’azione può tendere al conseguimento talora del valore della
res danneggiata, talaltra della pena. E della distinzione tra le due “funzioni” dell’actio
legis Aquiliae, penale (che tende appunto alla pena, passivamente intrasmissibile agli
eredi se non nei limiti di quanto sia loro pervenuto, oppure nel caso in cui «lis sit
contestata») e civile (che tende alla rei persecutio cioè all’aestimatio damni,
trasmissibile sul lato passivo), vi è traccia in Odofredo, ma anche in Bartolo e Baldo613.
In merito al problema della legittimazione attiva l’actio directa continuò a
competere al dominus o al suo erede e successore, rimanendo esclusi il comodatario,
l’usufruttuario, il bonae fidei emptor ai quali invece spettava l’actio utilis o quella in
factum.
Sul versante della legittimazione passiva l’azione diretta era esperibile contro colui
che avesse arrecato il danno «suo corpore». Nel caso invece di danno arrecato «alio
modo» si dava luogo all’actio utilis o a quella in factum. In presenza di una pluralità di
danneggianti i civilisti furono concordi nel ritenere punibili tutti i partecipanti all’azione
nell’incertezza del vero auctor del danneggiamento. Similmente i canonisti tra cui
spicca il raffinato Giovanni d’Andrea che, in merito, affermò: «si non apparet qui ex
pluribus percussoribus servi illum occiderit, omnes tenetur: alias ille solus»614.
Quanto al problema della solidarietà i Glossatori ne sostennero la portata
cumulativa, essendo giuristi più legati al testo giustinianeo e riconoscendo pertanto la
natura penale dell’actio legis Aquiliae. I doctores iuris
che operarono nei tempi
successivi all’età della Glossa, più affrancati dalla littera legis di Giustiniano,
affermarono invece il principio della solidarietà liberativa.
Si è già visto che dalla natura penale della lex Aquilia derivò anche la
intrasmissibilità dell’azione sul piano passivo, che è la conseguenza più tipica della
penalità in ossequio a D. 9, 2, 23, 8615, celebre frammento ulpianeo a cui la dottrina
civilistica medievale rimase a lungo fedele.
PONTIUS DE YLERDA, Summa arboris actionum, Tertia divisio, (edidit G. ROSSI, La Summa arboris
actionum di Ponzio da Ylerda. Edizione critica con studio introduttivo, Milano, 1951, pp. 59-60).
613
Sul punto si rinvia a G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., pp.
1155-1156.
614
IOANNES ANDREAE, In quintum Decretalium librum Novella Commentaria, Venetiis, 1581, f. 62 v., n.
12, comm. in X. 5, 12, 18, ad verba si plures.
615
«Hanc actionem et heredi ceterisque successoribus dari constat: sed in heredem vel ceteros haec actio
non dabitur, cum sit poenalis, nisi forte ex damno locupletior heres factus sit».
612
136
Diversamente avvenne per il diritto canonico616. In alcuni frammenti del Decretum
di Graziano e del Liber Extra, riguardanti fattispecie di omicidio, furto, rapina, usura e
incendio piuttosto che di damnum iniuria datum, vengono enunciate regole particolari
secondo le quali, in diritto canonico, gli eredi del damnificans sono obbligati e quindi
responsabili per i delitti del defunto, sebbene la lite non sia stata contestata e dal delitto
non sia pervenuto alcunchè agli eredi. Il cardinale Ostiense ben sintetizzò questa
peculiarità del diritto della Chiesa con le seguente parole:
«[…] secundum ius canonicum haeredes, obligantur ex delictis
defunctorum, ex quo tenent bona haereditaria, quamvis lis cum defuncto
non fuerit contestata, et quamvis ex delicto nihil pervenerit ad eosdem»617.
È questo uno degli aspetti più interessanti della storia del diritto canonico, che ha da
sempre attirato l’attenzione della dottrina, anche civilistica, antica e moderna, fino ad
arrivare al dibattito nella scuola canonistica laica italiana del XX secolo innescato dalle
memorabili pagine di Pio Fedele618.
5.1.) (segue) Responsabilità dell’erede per il delitto del defunto
Nel Corpus Iuris Canonici troviamo disseminati numerosi frammenti che
sanciscono la regola secondo cui, in diritto canonico, gli eredi del danneggiante sono
responsabili per i delitti del defunto, sebbene la lite non sia stata contestata e dal delitto
non sia ad essi pervenuto alcunchè.
Ebbe modo di soffermarsi su questo aspetto G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ.
Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), p. 251, secondo cui «i civilisti
avevano, a questo proposito l’esempio del diritto canonico, in cui la trasmissibilità era stata riconosciuta
[…], salvo ad oscillare i canonisti quanto alla giustificazione che si dovesse dare», [proseguendo il
Rotondi nella relativa nota], «o in base a un presunto mandato del defunto, o ad exonerandam
conscientiam defuncti […]».
Per un inquadramento generale delle differenze tra diritto romano e diritto canonico circa le materie
privatistiche e pubblicistiche cfr. J. PORTEMER, Recherches sur les “Differentiae juris civilis et canonici”
au temps du Droit classique de l’Eglise, I, L’Expression des “Differentiae”, Paris, 1946.
617
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In tertium Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, p. 94 r., n. 10, comm. ad X. 3, 28, 14.
618
Cfr. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano, 2000, pp. 266-273
[cap. VI, § 9. Fioritura canonistica], ora in ID., Scritti canonistici, a cura di C. FANTAPPIÈ, Milano, 2013,
pp. 183-191; C. FANTAPPIÈ, Diritto canonico codificato, in DBGI, vol. II, Bologna, 2010, pp. 654-700, in
part. pp. 678-679. Di recente è tornato sul tema M. NACCI, La cultura giuridica del Diritto canonico: il
“laboratorio” degli anni Trenta del Novecento in Italia, in Apollinaris, 2012, 1, pp. 73-147.
616
137
In tal senso sembrano deporre i frammenti C. 12, q. 2, c. 34619 e C. 16, q. 6, c. 3
contenuti nel Decretum di Graziano. Quest’ultimo frammento, in particolare, cristallizza
la regula, di fondamentale importanza, per cui
«delictum personae in dampnum
ecclesiae non est convertendum», vale a dire dall’azione delittuosa di una persona non
deve, in ogni caso, conseguire un depauperamento dell’ente a cui essa appartiene:
«si episcopum (quod absit) talem culpam conmisisse constiterit, ut constet
eum non irrationabiliter esse depositum, eadem eius depositio
confirmetur, et omnes res suae ecclesiae que ablatae fuerant, restituantur,
quia delictum personae in dampnum ecclesiae non est convertendum. Si
autem dicitur, quia Comitiolus defunctus est, ab herede eius que ab illo
iniuste ablata sunt sine excusatione reddantur»620.
Sempre in tema di responsabilità dell’erede ex maleficio ritroviamo alcune
testimonianze riportate dalle Decretales di Gregorio IX, tra cui spiccano i frammenti X.
3, 21, 3621, X. 3, 28, 14622, X. 5, 17, 5623, e X. 5, 39, 28624 mentre per la responsabilità
ex contractu emerge X. 5, 19, 9 (in tema di usura)625.
«Episcopus, qui filios aut nepotes non habens, alium quam ecclesiam relinquit heredem, si quid de
ecclesia non in ecclesiae causa aut necessitate presumpsit, quod distraxit aut donavit irritum habeatur.
Qui vero filios habet, de bonis, que reliquit, ab heredibus eius indempnitatibus ecclesiae consulatur».
620
Come precisato da V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età
classica, vol. I, La discussione del problema in Graziano e nella decretistica, Milano, 1971, p. 78, la
fattispecie riguarda «[…] un vescovo che, deposto per i suoi delitti, è tenuto a restituire, personalmente o
tramite i suoi eredi, tutto quanto appartiene alla chiesa, affinchè questa non soffra alcun svantaggio in
seguito all’attività furtiva del suo ministro».
621
Lettera decretale di Alessandro III così intitolata: «Si rector ecclesiae pro facto proprio rem ecclesiae
obligavit, cogitur eius heres rem redimere, et ecclesiae restituere».
622
«Parochiano tuo, qui excommunicatus pro manifestis excessibus, videlicet homicidio, incendio,
violenta manuum iniectione in personas ecclesiasticas, ecclesiarum violatione vel incestu fuit, dum ageret
in extremis, per presbyterum suum iuxta formam ecclesiae absolutus, non debent coemeterium et alia
ecclesiae suffragia denegari, sed eius heredes et propinqui, ad quos bona pervenerunt ipsius, ut pro
eodem satisfaciant, censura sunt ecclesiastica compellendi».
623
«In literis tuis, quas I. lator praesentium exhibuit, continebatur, quod, quum H. multis fuisset
criminibus irretitus, qui ecclesiarum incendium diabolo instigante commiserat, tandem in ultima
aegritudine constitutus, se confessus est peccatorem, et, accepta poenitentia de commissis, per manum
capellani sui fuit a sententia anathematis absolutus, sed moriens ecclesiasticam sepolturam habere
nequivit. Quapropter, si ita res se habet, fraternitati tuae per apostolica scripta praecipiendo mandamus,
ut corpus eiusdem patris I. supra dicti appellatione cessante facias in coemeterio sepeliri, et haeredes
eius moneas et compellas, ut his, quibus ille per incendium vel alio modo damna contra iustitiam
irrogaverat, iuxta facultates suas condigne satisfaciant, ut sic a peccato valeat liberari».
624
Lettera decretale di Innocenzo III risalente al 1199 così intitolata «Excommunicato, decedenti in
excommunicatione, quantocunque contritus decesserit, non est communicandum ante absolutionem, nec
pro eo orandum, licet sit quoad Deum absolutus. Sed si constat ecclesiae de contritione praecedenti,
absolvetur etiam post mortem ab eo, a quo vivus fuerat absolvendus; et heredes eius compelluntur per
ecclesiam ad satisfaciendum pro eo».
625
«Tua nos duxit fraternitas consulendos, quid sit de usurariorum filiis observandum, qui eis, in crimine
usurarum defunctis, succedunt, aut de extraneis, ad quos bona usurariorum asseris devoluta. Tuae igitur
quaestioni literis praesentibus respondemus, quod filii ad restituendas usuras ea sunt districtione
cogendi, qua parentes sui, si viverent, cogerentur. Id ipsum etiam contra heredes extraneos credimus
exercendum».
619
138
Nella dottrina canonistica non vi fu uniformità di vedute circa gli elementi necessari
a far sorgere la responsabilità dell’erede per i delitti del de cuius626. Per quanto riguarda
la necessità della contestazione della lite col defunto essa fu negata da Innocenzo IV627
e dall’Ostiense628. Tuttavia già la Glossa di Giovanni Teutonico al Decretum aveva
mostrato una posizione rigida nei confronti degli eredi, ritenendo non necessaria la
contestazione della lite per le obbligazioni ex maleficio dal momento che sorge una
presunzione di arricchimento contro l’erede629. Questa posizione, chiaro segnale della
rigidità canonica nella materia de qua, non aveva però riscontro nel diritto civile che,
per i delitti, richiedeva la contestazione della lite per poter rivalersi sull’erede.
Ugualmente controversa fu la questione se la responsabilità dovesse essere estesa
ultra vires haereditatis. Si deve al ricco studio condotto da Vito Piergiovanni l’aver
sottolineato l’esigenza di distinguere tra quanto affermato da Graziano nel Decretum e
l’elaborazione successiva di decretisti e decretalisti, certamente più vasta e
approfondita, in merito alla predetta questione.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Salvioli630, si ritiene che nell’opera
grazianea non sia prevista per l’erede una responsabilità illimitata, non ristretta cioè
all’eventuale arrichimento derivato dall’azione dannosa del de cuius, per cui egli
sarebbe tenuto anche «ultra vires haereditatis». Al contrario la lettura del testo
grazianeo sembrerebbe richiedere la semplice restituzione631.
Per approfondimenti in merito si rinvia a L. SICILIANO VILLANUEVA, Leggi e canoni in materia di
diritto privato secondo i principali canonisti e legisti del secolo XIII, in Studi di diritto romano, di diritto
moderno e di storia del diritto pubblicati in onore di Vittorio Scialoja nel XXV anniversario del suo
insegnamento, vol. II, Milano, 1905 , pp. 419-421.
627
INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 615,
[comm. ad X. 5, 17, 5 In literis tuis, sub verbis Et haeredes]: «Vel dic, quod secundum canones bene
datur actio in haeredem ex maleficio defuncti 16 q. 6 c. si episcopum [C. 16, q. 6, c. 3], nec attenditur si
sit lis contestata cum defuncto, an non, vel pervenerit, an non, dummodo defunctus teneatur, et vires
matrimonij [sic! corrige: patrimonij] defuncti sufficiat».
628
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In tertium Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, f. 94 r., n. 10 [comm. ad X. 3, 28, 17 Parochiano tuo]: «[…] secundum ius canonicum haeredes
obligantur ex delictis defunctorum, ex quo tenent bona haereditaria, quamvis lis cum defuncto non fuerit
contestata […]».
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, f. 54 v., n. 1 [comm. ad X. 5, 17, 5 In literis tuis, sub verbis Et haeredes eius ]: «[…] secundum
canones tenetur haeres ex delicto defuncti, etiam si cum ipso lis non fuerit contestata […]».
629
Cfr. V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. II, Le
«penae» e le «causae» nella dottrina del sec. XIII, Milano, 1974, pp. 176-177 riportante anche il testo
latino dell’apparatus del Teutonico a C. 16, q. 6, c. 3 ed a C. 12, q. 2, c. 34.
630
G. SALVIOLI, La responsabilità dell’erede e della famiglia pel delitto del defunto nel suo svolgimento
storico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1886, pp. 3-46; 173-210.
631
Cfr. V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. I, cit.,
87-89.
626
139
Per quanto riguarda la dottrina decretistica e decretalistica militarono per
l’estensione della responsabilità ultra vires haereditatis la Glossa ordinaria al Decreto632
ed Uguccione da Pisa633, mentre la esclusero Innocenzo IV634, l’Ostiense635 e Bernardo
di Parma636.
Merita attenzione altresì la posizione di Raimondo de Peñafort in cui emerge il
contrasto tra legge civile e legge canonica e la consequenziale particolarità della
situazione in cui si trova l’erede che, nel diritto della Chiesa, si trova spesso obbligato a
dover soccorrere l’anima del defunto:
«[…] Ut autem circa heredes materia latior habeatur, nota quod quilibet
here, sive filius sive extraneus non distincto utrum raptoris vel alterius,
tenetur iure canonico ad omnia debita defuncti persolvenda, sive fuerint
ex contractu vel quasi, sive ex maleficio vel quasi; sive pervenit res illa,
pro qua debitum fuit contractum, ad eum sive non, sive lis fuerit contestata
cum defuncto sive non. Hanc opinionem tenuerunt omnes doctores mei,
videlicet Laurentius, Tancredus, Ioannes et alii quamplures. Alanus vero
distinxit secundum leges; quod non approbo, maxime in iudicio animae.
Quid si non sufficit hereditas ad debita persolvenda? Videtur quod si non
fecit inventarium, nihilominus teneatur ad omnia; si vero fecit, tunc non
teneatur nisi in quantum hereditas sufficit. Ego credo, quod in iudicio
animae non tenetur nisi quantum sufficit haereditas […]»637.
Dell’intero ventaglio di frammenti canonistici sopra riportati quello che più destava
preoccuazione era la decretale di Alessandro III relativa all’incendiarius ecclesiae, già
presente nella Prima Compilatio (5, 14, 6) e poi confluita nel Liber Extra (5, 17, 5). Il
testo della decretale alessandrina fu ritenuto molto rigido e non interpretabile in maniera
favorevole. Tuttavia gli accostamenti alle più eque norme romane «inconsciamente
Glossa reddantur ad C. 16, q. 6, c. 3 Si episcopum: «[…] et bene convenitur haeres, licet ad eum nihil
pervenerit» [in Decretum Gratiani emendatum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Venetiis,
1600, p. 1080].
633
Cfr. V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. I, cit.,p.
213.
634
INNOCENTIUS QUARTUS, In quinque libros Decretalium Commentaria, Venetiis, 1610, p. 615, [comm.
ad X. 5, 17, 5, sub verbis Et haeredes]: «[…] dummodo defunctus teneatur, et vires matrimonij [sic!
corrige: patrimonij] defuncti sufficiat».
635
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, f. 54 v., n. 1 [comm. ad X. 5, 17, 5 In literis tuis, sub verbis Iuxta facultates]: «[…] nam ultra vires
haereditatis non tenentur haeredes, dummodo inventarium fecerint».
636
Glossa Iuxta facultates suas ad X. 5, 17, 5 In litteris tuis: «[haeredes] ultra vires haereditatis non
tenentur, si fecerint inventarium […]» [in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum
glossis restitutae, Venetiis, 1600, p. 1223].
637
RAIMUNDUS DE PENNAFORTE, Summa de paenitentia, II, 5, 24, [ed. curantibus X. OCHOA-A. DIEZ,
Roma, 1976, coll. 498-499].
632
140
falsarono l’intendimento morale e dogmatico dei canoni»638, inclusa la decretale di
Alessandro III, in un più vasto processo di avvicinamento tecnico e concettuale tra i due
diritti, frutto di studi ed elaborazioni spesso comuni639.
Il contrasto tra diritto canonico e diritto secolare (e di conseguenza quello tra
legisti640 e canonisti) in tema di trasmissibilità passiva dell’actio legis aquiliae fu
abbastanza netto anche se non mancarono posizioni intermedie tese alla conciliazione
tra i due estremi. Ancora una volta ritroviamo l’Abbas Panormitanus, canonista che
riteneva l’erede obbligato al risarcimento del danno arrecato dal de cuius in virtù della
promessa ovvero dell’ordine in tal senso impartitogli in punto di morte quale segno di
contrizione e pentimento. In questo modo la responsabilità dell’erede non sarebbe sorta
ex delicto, ma per la tacita promessa o per il precetto imposto dal defunto641.
Quanto affermato dal Panormitano verrà valorosamente contestato nel XVI secolo
da Diego Covarruvias, vescovo di Segovia, attraverso un’argomentazione che faceva
tesoro della distinzione, nell’ambito dell’actio legis Aquiliae, tra azione reipersecutoria,
tendente al risarcimento, ed azione penale, tendente alla pena.
In virtù della predetta distinzione era dunque possibile che l’erede fosse tenuto al
risarcimento del danno arrecato dal delitto del defunto anche iure civili e non solamente
iure canonico, e ciò non solo nel caso in cui l’erede nessun vantaggio avesse tratto dal
delitto ma anche nell’evenienza in cui il defunto non avesse contestato la lite642.
Così G. SALVIOLI, La responsabilità dell’erede e della famiglia pel delitto del defunto nel suo
svolgimento storico, cit., p. 181.
639
V. PIERGIOVANNI, La punibilità degli innocenti nel diritto canonico dell’età classica, vol. II, cit., p.
180.
640
Per le dottrine dei civilisti utili spunti si rinvengono in M. BELLOMO, Problemi di diritto familiare
nell’età dei comuni. Beni paterni e «pars filii», Milano, 1968, pp. 94-178, pietra miliare per la conoscenza
della problematica medievale riguardante la responsabilità solidale nel campo civilistico e penalistico.
641
ABBAS PANORMITANUS, In tertium Decretalium librum interpretationes, Lugduni, 1547, f. 177 r., n. 5,
interpretatio ad X. 3, 28, 14.
642
DIDACUS COVARRUVIAS, Variarum ex iure pontificio, regio et cesareo resolutionum, liber tertius,
caput III, n. 7, in ID., Opera omnia, t. II, Lugduni, 1574, pp. 244-245: «[…] mihi profecto non placet haec
Panormitani sententia cum ex eo dicto capitulo tua nos, de usuris [X. 5, 19, 9] deduci possit, haeredes
usurarij teneri ad restitutionem usurarum, etiam si is impoenitens decesserit […] Nec oberit, si quis
Panormitano responderit eam decisionem in usurariis specialem esse, ideo quia usurarius non tenetur ex
delicto, sed ex quasi contractu, nempe condictione indebiti […] Nam, ut ipse opinor, idem erit in haerede
furis, in haerede incendiarij, in haerede raptoris: hi siquidem tenebuntur ad damni illati satisfactionem:
etiam si defunctus impoenitens decesserit, saltem in foro conscientiae, et exteriori ecclesiastico […] Nec
ullus erit mediocri eruditione praeditus, qui audeat haeredem furis iure pontificio, aut in interiori foro
defendere a reparatione damni illati proximo per furtum commisum ab eo cuius haeres extitit. Quam ob
rem non est recipienda Panormitani sententia. Quo sit, ut vel communis differentia inter ius pontificium
et civile observanda sit . Vel quod forsan verius est, asseverari poterit , etiam iure civili haeredem teneri
ad satisfactionem damni illati ex delicto defuncti actione rei persecutoria, quamvis nihil ex eo crimine ad
haeredem pervenerit, nec lis fuerit a defuncto contestata, quaemadmodum in interiori iudicio ad id
638
141
Il dibattito intorno alla responsabilità dell’erede per i delitti del defunto sembra
essere sopravvissuto al decorrere dei tanti secoli che separano l’età classica e
postclassica dal periodo immediatamente successivo alla codificazione canonica del
1917.
Nell’agone dottrinale che vide schierate le più vive intelligenze giuridiche della
scuola canonistica laica del XX secolo il problema della responsabilità dell’erede per i
delitti del de cuius ritornò in auge quale ennesimo argumentum che testimonia la
peculiarità del diritto canonico rispetto ai diritti secolari.
Fu il genio precoce di Pio Fedele a rispolverare dal glorioso passato dello ius vetus
un tipico istituto canonistico che dimostra, ad avviso del grande canonista, il
collegamento tra la funzione dell’aequitas canonica e la considerazione del peccato. Ad
avviso del Fedele «nel presente tema tutto dipende dalla considerazione del peccato,
non già della volontà del defunto. Invero, anche qui si coglie la tendenza, così diffusa
tra i canonisti e manifesta nelle materie più disparate, di categorizzare sotto gli schemi
del diritto civile, cioè del diritto romano, perfino gli istituti che, come quello in parola,
nessun riscontro trovano in questo diritto». Si allude alla categoria del quasi-contratto
che per Pio Fedele non può essere posta alla base della responsabilità dell’erede di cui
ben altro è il fondamento: «non una presunta volontà del de cuius, ma un’esigenza
peculiare dell’ordinamento canonico rende ragione di quest’istituto: l’esigenza di
“relevare animam defuncti”; l’erede è tenuto a rispondere del delitto del defunto non
già prestare osservanza alla di lui volontà, ma “ut a peccato valeat liberari”» 643.
Quanto affermato dal Fedele attirò l’attenzione di Ermanno Graziani, grande
Maestro del novecento giuridico, che non risparmiò argute critiche al Discorso
fedeliano ed al frequente richiamo alla ratio peccati:
«Che nel considerare, l’essenza di taluni istituti, si debba aver riguardo
alla “ratio peccati” è una facile concessione che si può fare all’A., ma non
certo, per esempio, quando a proposito della responsabilità dell’erede pei
delitti del defunto […], afferma che si pone a carico dell’erede
l’obbligazione “de satisfaciendo” derivante dalla promessa del de cuius
pentitosi prima di morire, non già in forza della volontà del de cuius, ma
per la necessità di “relevare animam” del reo dopo la morte. Non è questa
haeres tenetur. Nam et iura Caesarum, quibus statutum est, haeredem non posse ex delicto defuncti
conveniri, intelligenda sunt, quo ad actionem poenalem, ut poenam criminis solvat, non autem quo ad
damni illati persecutionem: actione etenim persecutoria rei, et damni illati conveniri haeres propter
crimen defuncti poterit, adhuc in foro civili et saeculari […]».
643
P. FEDELE, Discorso generale sull’ordinamento canonico, cit., p. 83.
142
una concezione tutta legalistica e antivolontaristica del peccato? Quasi
che la volontà de satisfaciendo, impedita nella sua esecuzione da un
accadimento, la morte, non fosse stata di per sé sufficiente a liberare il
peccatore dal peccato!»644.
A distanza di anni il Fedele ebbe modo di rispondere alle obiezioni delle Graziani nelle
pagine de Lo Spirito del diritto canonico (ulteriore opera memorabile nello scenario
canonistico del Novecento, che consacrerà definitivamente la fama del Fedele)
limitandosi a dire come la responsabilità dell’erede fosse stata affermata dalla comune
dottrina canonistica ed a ribadire l’infondatezza del ricorso alla categoria del quasicontratto giacchè essa sarebbe priva dell’elemento volitivo645.
6) Rapporti tra teologia e diritto canonico in tema di responsabilità
È noto come alla metà del XII secolo diritto canonico e teologia cominciassero a
strutturarsi con propri e differenti strumenti didattici costituiti sostanzialmente dal
Decretum di Graziano e dai Libri Sententiarum di Pietro Lombardo646. La dissociazione
delle due scienze, tra le quali è dato comunque riscontrare metodologie comuni, non
deve tuttavia far pensare ad ogni assenza di reciproci influssi e continui contatti.
Senza entrare nel vivo del dibattito circa i rapporti tra teologia e diritto canonico e
lo statuto epistemologico di entrambe647, giova in questa sede ricordare la posizione del
grande canonista Enrico da Susa il quale fu un convinto sostenitore del forte legame che
intercorre tra teologia, diritto romano e diritto canonico, ricorrendo all’icastica
E. GRAZIANI, Postilla al “Discorso generale sull’ordinamento canonico” di Pio Fedele, in Dir. eccl.,
1941, p. 153.
645
P. FEDELE, Lo spirito del diritto canonico, cit., pp. 769-770.
646
Su rapporti tra diritto e teologia nell’età grazianea si veda l’efficace sintesi di C. FANTAPPIÈ,
Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 90-100.
647
La letteratura sul tema è molto ricca. Si consultino in particolare G. RENARD, Contributo allo studio
dei rapporti tra diritto e teologia. La posizione del diritto canonico, in Rivista internazionale di filosofia
del diritto, 16 (1936), pp. 477-521; A. M. LANDGRAF, Diritto canonico e teologia nel secolo XII, in SG, 1
(1953), pp. 373-413; G. LE BRAS, Pierre Lombard, prince du droit canon, in Miscellanea Lombardiana,
Novara, 1957, pp. 245-252; G. FRANSEN, Derecho canónico y teología, in Revista espagñola de derecho
canónico, 20 (1965), pp. 37-46; G. DALLA TORRE, Diritto canonico e teologia. Annotazioni su alcune
costanti nella storia della Chiesa, in Archivio Giuridico, CXCII (1977), pp. 99-111; J. GAUDEMET,
Théologie et droit canon, in Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und
Kirchengeschichte, 80 (1985), 1-4, pp. 160-166; ID., Théologie et droit canon: les leçons de l’histoire, in
RDC, 39 (1989), pp. 3-13. Utili spunti si rinvengono anche in A. PADOVANI, Perché chiedi il mio nome?
Dio, natura e diritto nel secolo XII, Torino, 1997, passim.
644
143
comparazione del diritto canonico ad un mulo, animale ibrido nato da un cavallo (la
teologia) ed un asina (il diritto romano)648.
Nonostante lo stretto contratto tra teologia e diritto canonico, non mancarono nel
corso dei secoli i punti di disaccordo tra i cultori di ambedue le scienze. Testimonianza
di siffatti contrasti è un testo pubblicato nel secolo scorso dal Congar649, dedicato alle
materie in cui «differunt et discordant canoniste et theologi» , tra cui figura il caso del
«judex qui bene judicavit post tunc credidit sed postea cum melius studiverit perpendit
quod maleficit». L’anonimo autore affronta sostanzialmente la questione dell’obbligo di
riparazione nel foro interno del danno arrecato con colpa lieve o lievissima. Il testo ha
tramandato solamente la posizione dei canonisti che, come noto, è rionducibile alla
teoria di Sinibaldo dei Fieschi (espressamente richiamata dall’anonimo autore), secondo
cui in foro conscientiae dalla culpa levis o levissima non sorge responsabilità
extracontrattuale essendo sufficiente la penitenza imposta dal confessore.
Un ragionamento a contrario permette di individuare pacificamente la posizione
dei teologi sul punto, per i quali sussiste l’obbligo di riparare il danno, sia nel foro
interno che nel foro esterno, indipendentemente dal grado della culpa650.
La differenza tra foro interno e foro esterno (civile e canonico) in merito alla
responsabilità per culpa levis e levissiva fu ben riassunta dal giurista siciliano Antonio
Corsetti facendo (quasi letteralmente) tesoro dell’insegnamento di Innocenzo IV e del
conterraneo Niccolò Tedeschi:
«in foro animae quis tenetur ad emendam damni, quando fuit in dolo vel
lata culpa, quae aequiparatur dolo […] secus si fuit in levi vel levissima
culpa, licet enim tunc posset agi ad emendam damni in foro contentioso
lege Aquilia, quae tendit ad conservationem patrimonij […] secus in foro
animae, quia imponeretur poenitentia iuxta modum culpae […]»651.
Quanto prescriveva lo ius canonicum nel foro contenzioso non trovava pertanto diretta
ed immediata applicazione anche in foro animae. Nel foro della coscienza operavano
Si rinvia sul tema a G. LE BRAS, Théologie et Droit romain dans l’oeuvre d’Henri de Suse, in Études
historiques à la mémoire de Noël Didier, Paris, 1960, pp. 195-204.
649
Y. M. CONGAR, Un témoignage des désaccords entre Canonistes et Théologiens, in Études d’histoire
du droit canonique dédiées à Gabriel Le Bras, t. II, Paris, 1965, pp. 861-884.
650
Cfr. O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un droit de la
responsabilité, cit., p. 153.
651
A. CORSETUS, Singularia, sub voce Forum conscientiae, in Singularia doctorum, t. I, Venetiis, 1578, f.
313 v.
Sulle additiones del Corsetto e del Barbazza ai commentari del Panormitano e sulla loro successione nella
cattedra bolognese cfr. M. TEDESCHI, La fortuna del Panormitanus, in Filosofia dei diritti umani, II, 1,
ora in ID., Scritti di diritto ecclesiastico, III ed., Milano, 2000, pp. 447-448.
648
144
infatti principi che, elaborati dalla dottrina teologica, divergevano da quelli
propriamente giuscanonistici i quali subirono, nella materia risarcitoria, l’influsso del
diritto romano.
Senza volerci addentrare nella disamina dei rapporti tra teologia e diritto canonico,
giova in questa sede rilevare come la divergenza nella materia de qua tra ricostruzione
dottrinale teologica e quella canonistica si fondi precipuamente sulla differente nozione
di culpa, nitidamente illustrata nel XVIII secolo dal francescano osservante Lucio
Ferraris652:
«culpa alia est theologica, alia est iuridica: culpa theologica est offensa
Dei, id est peccatum, sive sit mortale, sive sit veniale. Culpa iuridica est
omissio diligentiae debitae, ex qua omissione sequitur aliquod damnum
proximo»653.
L’obbligo morale di risarcire il danno sorge nel foro penitenziale solo quando ricorra la
colpa teologica, la quale non sussiste in caso di culpa iuridica lieve e lievissima.
Diversamente la colpa lata è simultaneamente giuridica e teologica:
«[…] culpa lata juridica, seu civilis ordinarie est etiam simul theologica,
ordinarie enim late culpabilis, omittens scilicet diligentiam et
circuspectionem communiter ab hominibus suae conditionis adhiberi
solitam, circa res proximi, advertit, vel saltem advertere debuisset
damnum proximi secuturum, et hoc ipso theologice fit culpabilis»654.
Altrove il Ferraris, cambiando terminologia, contrappone alla culpa theologica la colpa
civile:
«damnificatio culpata culpa civili, vel politica tantum dicitur, qua seclusa
omni voluntate nocendi proximo, omnique actione, vel omissione culpabili
coram Deo, ac in conscientia , nihilominus damnum proximo infertur ex
actione, vel omissione culpabili, vel defectuosa contra exactum modum
agendi humanum. Et ex hac damnificatione culpata culpa civili, seu
juridica tantum, oritur pro foro externo obligatio resarciendi damnum,
etiamsi culpa esset levissima […]»655.
I teologi ammettevano l’obbligo morale al risarcimento del danno in presenza di colpa
lieve o lievissima, nel caso in cui fosse stata pronunciata una giusta sentenza giudiziale
Cfr. A. LUPANO, La Prompta bibliotheca di Lucio Ferraris: un dizionario canonistico del Settecento,
in M. BELLOMO-O. CONDORELLI (a cura di), Proceedings of the Eleventh International Congress of
Medieval Canon Law, Catania, 30 July-6 August 2000, Città del Vaticano, 2006, pp. 341-352.
653
L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. II, Lutetiae Parisiorum,
1852, col. 1531, § 1 (sub voce Culpa).
654
L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. II, Lutetiae Parisiorum,
1852, col. 1531, § 9 (sub voce Culpa).
655
L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. III, Lutetiae
Parisiorum, 1852, col. 9, §§ 6-7 (sub voce Damnificatio, damnum).
652
145
di condanna al risarcimento, e ciò in virtù del fatto che la sentenza non dovesse essere
vanificata ed il raggiungimento del fine della legge essere frustrato:
«post sententiam judicis est obligatio in conscientia ad reparandum
damnum etiam sine ulla culpa theologica illatum […] et ratio est, quia
alias sententia judicis esset frustranea, damnificans enim posset non
parere judici, et sententiam eludere; tum quia non obtineretur finis legum,
qui est major cautela, diligentia, et circumspectio pro evitandis hujusmodi
damnificationibus»656.
Ante sententiam, invece, nessuno è tenuto in coscienza a risarcire il danno (eccetto in
caso di danno ex contractu) per colpa lieve e lievissima giacchè, in caso contrario, le
norme di legge positiva che imponessero tale obbligo apparirebbero troppo rigorose in
relazione alla debolezza e fragilità umane:
«[…] neminem (praescindendo a contractu) teneri in coscientia ante
sententiam judicis ad resarciendum damnum alteri illatum per
damnificationem civilem, seu juridicam solum levem, et levissimam. Et
ratio est, quia si leges, et maxime [D. 9, 2, 44] aliaeque consimiles
imponerent obligationem in conscientia solvendi ante sententiam judicis,
essent nimis rigidae, attenta hominum fragilitate; et cum nemo reperiatur,
qui propter culpam juridicam solum levem, et levissimam sponte sua
restituat, innumeros laqueos injiceret conscientiis absque necessitate boni
communis, cui sufficienter, et abunde satis fit obligando ad damna
resarcienda post sententiam»657.
Quanto affermato nel Settecento dal Ferraris riassume magistralmente il pensiero di
Tommaso d’Aquino che verrà ripreso ed approfondito alle soglie dell’età moderna dal
movimento della Seconda Scolastica.
Come puntualmente messo in rilievo da autorevole dottrina (in un discorso di ben
più ampio respiro e non limitato alla materia oggetto della presente dissertazione), «che
invero alla contritio si accompagni la riparazione del torto fatto al prossimo, è
esigenza spirituale dello stesso peccatore “ut excusetur”. Per costui è “da necessitate
salutis” provvedere […] al risarcimento del “damnum injuste illatum”[…]»658.
Anche in questo campo la riflessione di Tommaso d’Aquino è esemplare:
«[…] quicumque damnificat aliquem, videtur ei auferre id in quo ipsum
damnificat; damnum enim dicitur ex eo quod aliquis minus habet quam
L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. II, Lutetiae Parisiorum,
1852, col. 1535, § 12 (sub voce Culpa).
657
L. FERRARIS, Prompta bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. III, Lutetiae
Parisiorum, 1852, col. 13, § 11 (sub voce Damnificatio, damnum).
658
P. BELLINI, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico con
particolare riferimento ai secoli XII e XIII, cit., p. 399.
656
146
debet habere, secundum Philosophum. Et ideo homo tenetur ad
restitutionem eius in quo aliquem damnificavit»659.
Essa si inserisce nella trattazione del tema della restitutio, una delle parti della Summa
Theologiae660 che più ha influenzato la dottrina giusnaturalistica moderna in tema di
risarcimento del danno extracontrattuale.
6.1) Restitutio, aestimatio rei e modalità di riparazione.
Alla base della costruzione dottrinale civilistica e canonistica in tema di riparazione
del danno ritroviamo numerosi spunti e suggestioni derivanti dalla teoria della
«restituzione»661.
Con il termine di «restitutio» si è inteso nel corso della storia il ristabilimento di una
cosa qualunque nel suo ordine primitivo. In campo morale restituzione assume il
significato (tipicamente tomista) di mettere per una seconda volta una persona nel
possesso o nel dominio di ciò che gli appartiene. Sia i moralisti che i giuristi, partendo
dalla constazione per cui esistono cose il cui dominio non si può rendere a coloro ai
quali furono tolte (come la vita o un membro del corpo), hanno inteso per restituzione
ogni riparazione del torto che fu fatto, un’azione della giustizia commutativa per la
quale si rende la cosa che fu ingiustamente tolta, o si ripara il danno che si è ad altri
ingiustamente arrecato662.
Le teoria della «restitutio», «croce e delizia di tutti i casisti dall’età medievale in
poi»663, trova i suoi pilastri in numerosi passi dell’Antico e Nuovo Testamento e delle
opere dei Padri della Chiesa.
Vengono in mente, a livello di Sacra Scrittura, il precetto del Decalogo «furtum non
facias» ed i frammenti di Ezechiele 33, 14-15: «Si autem dixero impio: Morte morieris:
et egerit poenitentiam a peccato suo, fecerit iudicium et iustitiam, et pignus restituerit
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 4, concl.
Circa l’influsso della Summa theologica sulla formazione dei dogmi giuridici cfr. P. VACCARI,
Teologia e diritto canonico nel XIII secolo, in Scritti in onore di Contardo Ferrini pubblicati in occasione
della sua beatificazione, Milano, 1947, pp. 418-428.
661
Si veda lo studio di K. WEINZIERL, Die Restitutionslehre der Frühscholastik, München, 1937, alla base
delle recenti riflessioni di O. DESCAMPS, L’influence du droit canonique médiéval sur la formation d’un
droit de la responsabilité, cit., pp. 160-165.
662
I. TAROCCHI, Restituzione, in Dizionario di teologia morale, diretto da F. ROBERTI, II ed., Roma, 1957,
pp. 1235-1236.
663
Così M. TURRINI, “Culpa theologica” e “culpa iuridica”: il foro interno all’inizio dell’età moderna,
in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, 12 (1986), p. 155.
659
660
147
ille impius, rapinamque reddiderit, in mandatis vitae ambulaverit, nec fecerit quidquam
iniustum, vita vivet et non morietur», e di San Paolo ai Romani (13, 7): «Reddite ergo
omnibus debita».
Per la patristica valga il pensiero di Agostino espresso nella lettera a Macedonio664,
su cui ci soffermeremo nel paragrafo successivo della presente trattazione.
La scienza teologica e quella canonistica sono pervenute nel corso dei secoli ad un
concetto di restitutio che va ben oltre la materiale restituzione di una cosa
ingiustamente sottratta. Siffatto concetto di restituzione si amplia a tal punto da
significare, in termini generali, un ripristino della situazione sconvolta dalla condotta
lesiva.
Il Palazzini ha riassunto magistralmente i significati della restituzione in siffatti
termini:
«Restitutio sensu lato est repositio in pristinum statum. Senso strictu
definitor a S. Thoma […]: “iterato aliquem statuere in possessionem vel
dominium rei suae”. […] Sensu strictissimo, prout hic accipitur, est:
reparatio damni proximo iniuste illati»665.
È proprio Tommaso d’Aquino ad offrire una trattazione organica della tematica
dedicando un’intera quaestio alla restituzione666, in un discorso più ampio sulla virtù
della giustizia667.
Per il Doctor Angelicus restituire non è niente altro che ristabilire un individuo
nuovamente nel possesso, o nel dominio di una cosa sua. Nella restituzione si mira
infatti ad una giusta equivalenza impostata sulla recompensatio di cosa a cosa. Ciò
appartiene alla giustizia commutativa668.
AUGUSTINUS, Epistolae, Classis III, 153 (ad Macedonium), § 20 (= PL, 33, Lutetiae Parisiorum,
1861, col. 662): «Si enim res aliena, propter quam peccatum est, cum reddi possit, non redditur, non
agitur poenitentia, sed fingitur: si autem veraciter agitur, non remittetur peccatum, nisi restituatur
ablatum».
665
P. PALAZZINI, Restitutio, in ID. (a cura di), Dictionarium morale et canonicum, vol. IV, Romae, 1968,
p. 114.
666
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62 De restitutione, in octo articulos divisa.
667
Sull’argomento si rinvia da ultimo a M. F. CARNEA, Concetto di giustizia in S. Tommaso d’Aquino.
Approdo alla virtù della giustizia attraverso l’intelligenza umana, Monopoli, 2013.
668
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 1, concl.: «[…] restituere nihil aliud esse
videtur quam iterato aliquem statuere in possessionem vel dominium rei suae; et ita in restitutione
attenditur aequalitas justitiae secundum recompensationem rei ad rem; quod pertinet ad justitiam
commutativam».
664
148
La restituzione ha funzione compensativa in quanto è funzionale al ripristino
dell’uguaglianza causata dall’illecito669 e, sotto questo profilo, è atto della giustizia
commutativa670, che si riferisce ai doveri reciproci esistenti tra due persone671.
Come messo recentemente in rilievo da acuta dottrina, San Tommaso distingue
chiaramente il dovere di compensare i danni cagionati (in relazione al quale opera la
regola della stretta equivalenza) da quello di espiare la pena che potrebbe venire in
considerazione nell’ipotesi in cui il fatto sia rilevante a livello penale o nel foro interno
e che potrebbe essere definita attraverso la tecnica del multiplo del pregiudizio
prodotto672.
La restituzione deve essere equivalente al danno cagionato in quanto eventuali
eccedenze contrasterebbero con il principio compensativo e non determinerebbero il
ripristino dell’eguaglianza, ma una nuova sperequazione673.
Sulla misura del risarcimento la posizione dell’Aquinate appare estremamente
moderna, anticipando l’idea del risarcimento da perdita di chance. Nella parte in cui
afferma la necessità di compensare una persona per il danno derivante dalla mancata
acquisizione di un risultato vantaggioso (esempio del seminatore che possiede una
raccolta solo in potenza e non in atto), precisa che il risarcimento (rectius la
restituzione) non deve essere commisurato alla raccolta mancata ma, onde evitare effetti
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 61, art. 4, concl.: «[…] debet fieri secundum rationem
justitiae commutativae recompensatio secundum aequalitatem, ut scilicet passio recompensata sit
aequalis actioni».
670
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 1, concl.: «[…]in restitutione attenditur
aequalitas justitiae secundum recompensationem rei ad rem; quod pertinet ad justitiam commutativam»;
art. 2, concl.: «Respondeo dicendum quod restitutio […] est actus justitiae commutativae, quae in
quadam aequalitate consistit»; art. 5, concl.: «Respondeo dicendum quod per restitutionem fit reductio ad
aequalitatem commutativae justitiae, quae consistit in rerum adaequatione […]».
671
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 61, art. 1, concl.: «Potest autem ad aliquam partem
duplex ordo attendi: unus quidem partis ad partem; cui similis est ordo unius privatae personae ad
aliam; et hunc ordinem dirit commutativa justitia, quae consistit in his quae mutuo fiunt inter duas
personas ad invicem».
672
In tal senso P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema di responsabilità civile
verso la European Civil Law, cit., p. 37, che rinvia a THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62,
art. 6.
673
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 3, concl.: «[…] sufficit quod restituat tantum
quantum habuerit de alieno».
Con riferimento al pensiero dell’Aquinate G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche
storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto Commerciale, 15 (1917), p. 250, notava che «limitando la
pretesa della parte lesa al puro e semplice ristabilimento dell’equilibrio patrimoniale, si ha una
condanna implicita del sistema romano delle “pene private”».
669
149
moltiplicativi, ma corrispondere ad una somma di denaro determinata in relazione alle
circostanze concrete e all’attività svolta674.
Il principio compensativo è sancito anche in relazione alle ipotesi di pregiudizio
cagionato da più autori. Viene infatti ribadito che la restituzione è ordinata
principalmente a riparare il danno anche nell’ipotesi di rilevanza penale della condotta
(Tommaso tratta, nella fattispecie, del furto). Il ristoro integrale effettuato da uno dei
concorrenti implica che gli altri non son tenuti ad ulteriori compensi, ma piuttosto son
tenuti a rifondere a colui che ha restituito: questi però può condonare675.
Anche in tema di «aestimatio» il pensiero di Tommaso è nitido nel delineare quegli
elementi che la riflessione canonistica676 farà suoi:
«[…] quando id quod est ablatum, non est restituibile per aliquid aequale,
debet fieri recompensatio qualis possibilis est; puta cum aliquis alicui
abstulit membrum, debet ei recompensare vel in pecunia vel in aliquo
honore, con siderata conditione utriusque personae, secundum arbitrium
boni viri»677.
Si tratta di un aspetto della teoria tomista della restitutio che va a configurare un
ulteriore elemento di diversità tra il diritto civile e quello canonico: in iure canonico
vale infatti il principio secondo cui la aestimatio rei ha una funzione secondaria rispetto
alla restitutio. Siffatto postulato, espresso specificamente per le ipotesi di furto,
comporta che il risarcimento ha luogo solo quando non sia possibile la restituzione.
In materia di danneggiamento le decretali di Gregorio IX avevano accolto un
frammento del libro dell’Esodo che prevedeva espressamente la possibilità di agire, nel
caso in cui il bue fosse stato ferito o fosse morto in seguito alle ferite, al fine di ottenere
un bue di eguale valore («[…] dominus suus: reddet bovem pro bove […]»)678. Si tratta
In tal senso P. FAVA, Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema di responsabilità civile
verso la European Civil Law, cit., p. 37. Il pensiero dell’Aquinate è contenuto in Summa theologica,
II/IIae, q. 62, art. 4.
675
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 6, ad tertium: «[…] quia restitutio principaliter
ordinatur ad removendum damnum ejus a quo est aliquid injuste ablatum, ideo postquam ei restitutio
sufficiens facta est per unum, alii non tenentur ei ulterius restituere, sed magis refusionem facere ei qui
restituit; qui tamen potest condonare».
676
Glossa peccatum ad VI. De regulis iuris [5, 13], 4: «[…] quod autem dicitur in hac regula, verum
intelligas, si illud ablatum restitui non potest […] si autem restitui non potest, restituetur eius aestimatio,
etiam si res illa perierit sine culpa sua , quia in ipso instanti fuit in mora […]» [in Liber Sextus
Decretalium D. Bonifacii Papae VIII Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes tum viginti D.
Ioannis Papae XXII tum communes. Haec omnia cum suis glossis […] recognita, Venetiis, 1600, p. 537].
677
THOMA AQUINAS, Summa theologica, II/IIae, q. 62, art. 2, ad primum.
678
X. 5, 36, 3 Si bos alienus.
674
150
di un testo già presente nella Compilatio (5, 31, 4) di Bernardo Balbi da Pavia679, opera
nota anche come Breviarium extravagantium, che costituisce la Prima delle Quinque
compilationes antiquae.
Il passo mutuato dall’Esodo dettava una disciplina ricalcante alcuni tratti salienti
dell’actio de pauperie romana680, in particolare la consegna nossale dell’animale, come
risulta anche nella Summa di Goffredo da Trani681 ed in quella di Enrico da Susa682.
L’impostazione data dai canonisti suscitò l’intervento di Cino da Pistoia secondo cui
in virtù del diritto civile il danneggiato non poteva richiedere che gli venisse dato
«bovem pro bove» né poteva richiedere la restituzione in pristino se non quando ciò
fosse possibile (e nel caso in questione non era possibile in quanto l’animale era stato
ferito o ucciso). La ratio consisteva nel fatto che «aliud pro alio non debet dari, nisi res
functionem recipiant».
Il celebre giurista a tal proposito proseguiva con tono sarcastico: «sed Canonistae
non consideraverunt hanc rationem, quia moris eorum est rationes subtiles non
attendere»683, lanciando senza mezzi termini quella che Massetto ha definito «la dura
stoccata ai canonisti»684!
Per quanto riguarda il risarcimento del danno emergente685 e del lucro cessante686,
esso fu uno dei tanti punti di sostanziale convergenza tra civilisti e canonisti. In
Per un profilo bio-bibliografico si veda da ultimo A. FIORI, Bernardo da Pavia, in DBGI, vol. II,
Bologna, 2013, pp. 231-232.
680
In merito si veda la ricca analisi di P. LANDAU, Alttestamentliches recht in der «Compilatio Prima»
und sein einfluss auf da kanonische recht, in SG, 1976, pp. 129-133.
681
GOFFREDUS TRANENSIS, Summa in titulos Decretalium, Venetiis, 1564, De iniuriis et damno dato, p.
470: «Quomodo autem animal alicuius damnum dat si motum sit ad damnum dandum contra naturam sui
generis, tenetur dominus vel dare quod nocuit pro noxa vel restituere damnum […]».
682
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, cit., col. 1731 [liber V, tit. De iniuriis, et
damno dato, § In quantum detur]: «Quod si bos meus cornupeta, quia bene non custodieram, ipsum tuum
interfecerit, reddam bovem pro bove […]. Haec autem sic intelligenda sunt, si animal meum contra
naturam sui generis motum sit ad damnum dandum, puta bos cornupeta est, qui consuevit esse
domesticus, tunc reddam aestimationem vel animal pro noxa tradam […]».
683
CYNUS PISTORIENSIS, In Codicem, et aliquot titulos primi Pandectorum tomi, id est, Digesti veteris,
doctissima commentaria, Francofurti ad Moenum, 1578, p. 177 v. [comm. in C. 3, 35 De lege Aquilia].
Cfr anche H. LANGE, Schadensersatz und privatstrafe in der mittelalterlichen rechtstheorie, MünsterKöln, 1955, pp. 70-71.
684
G. P. MASSETTO, Responsabilità extracontrattuale. a) Diritto intermedio, cit., p. 1151.
685
BERNARDUS PAPIENSIS, Summa Decretalium, edidit E. A. T. LASPEYRES, Ratisbonae, 1860, p. 263, V,
31 De damno dato: «[…] resarcientur laeso impensae medicorum et operae, quibus caruit vel cariturus
[…]».
686
Glossa operas eius et impensas ad X. 5, 36, 1: «operas autem amissas, et impensas in curatione
praestabit […]»[in Decretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis,
1600, p. 1308].
679
151
particolar modo l’Ostiense sostenne in capo al giudice il potere officioso di includere
nell’indennizzo tutto quello che avrebbe ritenuto buono687.
I canonisti si soffermarono altresì sulla distinzione, fondata su un criterio materiale,
tra interesse circa rem ed interesse extra rem688, propendendo per la risarcibilità del
primo689.
6.1.1) (segue) «Peccatum non dimittitur, nisi restituatur ablatum»
Il tema della restitutio costituì un importante aspetto giuridico della satisfactio come
parte della penitenza. Nella tradizione canonica occidentale la soddisfazione costituisce
l’atto o complesso di atti di riparazione per il peccato commesso, attraverso i quali il
peccatore guadagna la remissione dei peccati. Come evidenziato dal Condorelli690
l’origine della parola è giuridica e rimanda al Digesto di Giustiniano, in cui satisfactio
equivale a solutio, cioè esprime il concetto della soluzione di un debito691.
La riflessione canonistica prende avvio da un frammento agostiniano692 contenuto
nel Decretum Gratiani relativo alla restitutio ablati, cioè alla restituzione della cosa
ingiustamente sottratta:
«si res aliena, propter quam peccatum est, reddi possit, et non redditur,
penitencia non agitur, sed simulatur. Si autem veraciter agitur, non
remittetur peccatum, nisi restituatur ablatum […]»693.
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, f. 95 v., ad verba Operas eius, et impensas [comm. ad X. 5, 36, 1 Si rixati]: «Operas enim, quas
potuisset fecisse, et non fecit, nec facere potuit propter impedimentum vulneris, sive percussionis, nec non
et id, quod dedit in medicinis, vel medicis, et eadem ratione omne aliud interesse suum aestimabit bonus
iudex, et faciet resarciri […]».
688
Si veda la glossa Damnorum ad X. 5, 36, 8 In nostra: «Quoddam dicitur extra rem: puta, debui tibi
frumentum, et quia non dedi suo tempore, familia tua fame periit; illud damnum non consequeris, sed
pretium frumenti, vel vini […]».
689
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, f. 96 r., ad verba Aliud sit damnorum restauratio [comm. ad X. 5, 36, 8 In nostra]: «Circa quod
notandum, quod quoddam damnum, sive interesse dicitur circa rem, quoddam extra rem. Circa rem
dicitur, quando subtraxisti mihi instrumenta, per quae poteram probare, qualiter possessio aliqua fuerat
acquisita per me vel praedecessores meos, si ergo tractus in causam non potui probare defensionem
meam propter subtractionem instromentorum, et iam succubui , teneris mihi de interesse illo […].
Interesse vero extra rem, ubi debes mihi frumentum, et non reddis tempore suo et ideo familia mea famae
periit, istund interesse non semper potest peti sed praetium frumenti tantum».
690
O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente
bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 149.
691
D. 46, 3, 52: «satisfactio pro solutione est».
692
AUGUSTINUS, Epistolae, Classis III, 153 (ad Macedonium), § 20 (= PL, 33, Lutetiae Parisiorum,
1861, col. 662): «Si enim res aliena, propter quam peccatum est, cum reddi possit, non redditur, non
agitur poenitentia, sed fingitur: si autem veraciter agitur, non remittetur peccatum, nisi restituatur
ablatum».
687
152
La scienza teologica e canonistica elaborano un concetto di restitutio che va ben oltre la
materiale restituzione di una cosa ingiustamente sottratta, e si amplia fino a significare,
in termini generali, una ricomposizione dell’equilibrio sconvolto dall’azione delittuosa
e peccaminosa694.
A livello giuridico il principio espresso da Agostino assurge, nel Liber Sextus di
Bonifacio VIII a vera e propria regula iuris: «peccatum non dimittitur, nisi restituatur
ablatum»695.
La collocazione di questo principio, avente una notevole rilevanza per la teologia
morale e sacramentale, nel titolo de regulis iuris, «testimonia in modo esemplare la
connessione tra morale e diritto che connota l’universo antropologico medievale»696.
Come ha giustamente notato il Bellini,
«direttamente riferita alle “res furtivae vel violentae”, la regula finiva
con l’essere applicata – per similitudine di ratio- a tutte le “res alienae
iniuste quaesitae”. Essa veniva estesa a includere tanto i casi di “damnum
iniurie illatum”, quando quelli nei quali il pregiudizio materiale
consistesse nel mancato adempimento d’un qualcosa di dovuto. E veniva a
ricomprendere anche i casi in cui si lamentasse (e dovesse quindi essere
rimossa) una qualche situazione di fatto riprovevole: “factum peccati
enutritivum”, “turpe lucrum”. Lungi dall’essere ordinato “per se ipsum”
all’interesse materiale d’una qualsiasi “controparte” – questo assieme di
gravami risarcitori va veduto come un che di rispondente con tutta
immediatezza alla “utilitas animae”» dello stesso peccatore. Costituisce
un “onere coscienziale” di costui: affinchè maturi realmente nel suo
intimo una “sufficiens poenitentia”, tanto intensa [“efficax”] da porre la
precedente colpa nel “non esse”»697.
Tra i canonisti chi meglio ha riassunto il carattere satisfattorio della penitenza e la
portata della restitutio è Enrico da Susa. Ad avviso del cardinale Ostiense, la
restituzione delle cose male acquisite, o il risarcimento dei danni arrecati ad altri, deve
essere pienamente fatta a coloro che sono stati lesi dall’azione peccaminosa. Il sacerdote
C. 14, q. 6, c. 1 Si res aliena.
O. CONDORELLI, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente
bizantino: percorsi e concezioni a confronto, cit., p. 150.
695
VI. De regulis iuris [5, 13], 4.
Nel Liber Sextus ricorrono altre regulae iuris che attengono alle tematiche del danno e della
responsabilità. Si vedano ad esempio VI. De regulis iuris [5, 13], 19: «Non est sine culpa, qui rei, quae
ad eum non pertinet, se immiscet»; 23: «Sine culpa, nisi subsit causa, non est aliquis puniendus»; 48:
«Locupletari non debet aliquis cum alterius iniuria vel iactura»; 76: «Delictum personae non debet in
detrimentum ecclesiae redundare».
696
O. CONDORELLI, Norma giuridica e norma morale, giustizia e salus animarum secondo Diego de
Covarrubias. Riflessioni a margine della Relectio super regula “Peccatum”, in RIDC, 2008, p. 165.
697
P. BELLINI, Influenze del diritto canonico sul diritto pubblico europeo, in Diritto canonico e
comparazione, Torino, 1992, ora in ID., Saeculum Christianum. Sui modi di presenza della Chiesa nella
vicenda politica degli uomini, Torino, 1995, pp. 89-90, nt. 11.
693
694
153
non può fare grazia, al confitente, della predetta restituzione giacchè trattasi di
un’esigenza di giustizia e perché il peccato non può essere rimesso se non viene
restituito il mal tolto:
«sequitur satisfactio, quae est sacerdotis arbitrio imponenda […] Haec
quandoque consistit in pecunia, quandoque in aliis [...] Tu tamen scias,
quod restitutio male acquisitorum vel damnorum datorum, sive iniuriarum
irrogatarum omnino facienda est laesis, si reperiantur, de quo sacerdotes
non possunt gratiam facere, quia nec dimittitur peccatum etc. […]»698.
La disciplina della restitutio come consolidatasi tra il Decretum del maestro Graziano
ed il Liber Sextus fu ben compendiata nella glossa ordinaria di Giovanni d’Andrea alle
decretali di Bonifacio VIII. L’apparato offerto dal celebre giurista, non a caso definito
da Baldo «iuris canonici fons et tuba»699, si sofferma sull’aestimatio, nel caso in cui
non possa essere effettuata la restituzione700, e sull’equiparazione dell’obbligo di
risarcire il danno ingiusto all’obbligo di restitutio:
«pone, nihil abstuli, sed iniuste damnum dedi, ex quo nichil ad me
pervenit. Idem, teneor enim damnum passo, alias non remittitur
peccatum […]»701.
Una siffatta equiparazione era stata già messa in rilievo dall’Ostiense nella Summa, con
particolare riguardo alle relative legittimazioni attive e passive:
«Quibus et qualiter, a quibus et in quantum facienda est restitutio male
acquisitorum. Breviter respondeas, quod damnum passis, vel haeredibus
sive successoribus eorum, si extant. Ab his qui damnum dederunt, vel
heredibus eorum. Et in solidum si facultas suppetit, facienda est
restitutio, alioquin frustratoria est poenitentia, quia secundum
Augustinum non dimittitur peccatum nisi restituatur ablatum […]»702.
Tra i concetti di restitutio ablati, di damnum resarcire e di iniuriis satisfacere
susstistono comunque delle differenze che è dato percepire nel testo di alcune decretali
pontificie. Il Liber Extra contiene una decretale di papa Celestino III all’arcivescovo di
Tours ed al vescovo di Angers in cui si afferma:
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, In quintum Decretalium librum Commentaria, Venetiis,
1581, p. 103 r., n. 35, comm. ad X. 5, 38, 12, V.is Sed, si prudentiori.
699
Sul punto cfr. A. BARTOCCI, Giovanni d’Andrea, in DBGI, vol. II, Bologna, 2013, p. 1010.
700
Glossa peccatum ad VI. De regulis iuris [5, 13], 4: «si autem restitui non potest, restituetur eius
estimatio, etiam si res illa perierit sine culpa sua , quia in ipso instanti fuit in mora […] Si autem nec
estimationem potest solvere, quia evidenter est inops, tunc bene dimittitur peccatum: remanet tamen
obligatio, et si postea ad pinguiorem fortunam perveniret, teneretur» [in Liber Sextus Decretalium D.
Bonifacii Papae VIII Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes tum viginti D. Ioannis Papae
XXII tum communes. Haec omnia cum suis glossis […] recognita, Venetiis, 1600, p. 537].
701
Glossa ablatum ad VI. De regulis iuris [5, 13], 4 [in Liber Sextus Decretalium D. Bonifacii Papae VIII
Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes tum viginti D. Ioannis Papae XXII tum communes.
Haec omnia cum suis glossis […] recognita, Venetiis, 1600, p. 538].
702
HENRICUS DE SEGUSIO CARDINAL HOSTIENSIS, Summa Aurea, Venetiis, 1574, V, De poenitentijs et
remissionibus, coll. 1844, n. 61.
698
154
«mandamus firmiterque praecipimus, quatenus, partibus convocatis, si
vobis constiterit de praemissis, praedictum archidiaconum ablata
praenominati monasterii fratribus cum integritate restituere, et damna
plenarie resarcire, et de illatis iniuriis competenter satisfacere […]»703.
In termini analoghi si esprime una decretale di Alessandro III ai vescovi di Exeter e
Worcester non compresa nel Corpus Iuris Canonici:
«[…] ut […] dampna illata resarciat, et ablata restituat universa atque
de tanta iniuria satisfactionem exibeat competentem»704.
6.1.2) (segue) Le somme penitenziali
Il legame tra diritto e teologia si può avvertire notevolmente con riguardo alla
pratica della penitenza. Tra il XI e XIII secolo si assiste all’emersione graduale del
ruolo della confessione nella remissione del peccato.
A ciò corrisponde l’abbandono dei libri penitenziali (carichi di quell’automatismo
tariffario che assegnava al sacerdote un ruolo meramente passivo), che vengono
rimpiazzati dalle summae penitenziali o confessorum. La diffusione delle nuove
summae fu favorita dall’obbligo della confessione annuale per tutti i fedeli sancita dalla
constitutio 21 (Omnis utriusque sexus)705 del IV concilio lateranense (1215, anno che è
il «momento della svolta»706, anche se non era stata ancora scritta alcuna Summa mentre
nel 1520 il genere può dirsi finito). Il testo del predetto canone, come puntualmente
messo in rilievo da autorevole dottrina, «ha riflettuto l’approccio e il modo di
comprendere la confessione così come essa si è andata definendo negli scritti e nel
lavoro accademico sia dei canonisti che dei teologi durante l’ultima parte del
dodicesimo secolo e l’inizio del tredicesimo»707, traducendo in linguaggio giuridico
l’obbligo della confessione annuale e fornendo una norma giuridica ed una struttura
X. 2, 13, 11 Gravis ad nos, contenente comunque solo un frammento della decretale. Il testo completo
e collazionato può invece leggersi in W. HOLTZMANN, Decretales ineditae saeculi XII, a cura di S.
CHODOROW-C. DUGGAN, Città del Vaticano, 1982, pp. 50-53.
704
W. HOLTZMANN, Decretales ineditae saeculi XII, cit., p. 93.
705
Il testo si può leggere in A. GARCIA Y GARCIA (a cura di), Constitutiones Concilii quarti Lateranensis
una cum commentariis glossatorum, Città del Vaticano, 1981, pp. 67-68.
706
Così M. G. MUZZARELLI, Per una ricostruzione ed una interpretazione della penitenza medievale, in
M. C. DE MATTEIS (a cura di), A Ovidio Capitani. Scritti degli allievi bolognesi, Bologna, 1990, p. 113.
707
B. FERME, Dal Decretum Gratiani al Lateranense IV: origine dell’obbligo della confessione, in R.
RUSCONI-A. SARACO-M. SODI (a cura di), La penitenza tra Gregorio VII e Bonifacio VIII. Teologia –
Pastorale – Istituzioni, Città del Vaticano, 2013, p. 147.
703
155
istituzionale a ciò che nel tempo sarebbe risultato di una certa uniformità per quanto
riguarda il bisogno della confessione708.
Con riferimento alle somme penitenziali la vecchia critica storica ha parlato di
letteratura per il foro interno, di moralisti, di deontologia cattolica senza penetrare
nell’intima natura delle summae, le quali nascono e si sviluppano nel clima più maturo
del Medio Evo, rispecchiando il consolidamento di ansie, esigenze, idealità e concezioni
tipicamente medievali709.
Le prime summae confessorum nascono in Occidente alla fine del secolo XII nella
forma e nella struttura dei «libri poenitentiales» di Alano da Lilla e di Roberto di
Flamborough710. Come affermato da Paolo Grossi, essi non potevano nascere prima,
giacchè è nel XII secolo che il problema della penitenza si pone al centro della vita della
Chiesa ed inizia il rinnovamento della riflessione teologica711.
Si comprende pertanto come il libro XIX del Decretum di Burcardo vescovo di
Worms, dedicato alla materia penitenziale e noto anche con il titolo di Corrector sive
medicus, sia stato considerato come l’ultimo dei penitenziali altomedievali712.
Le summae confessorum, oltre che dai penitenziali altomedievali, devono essere
tenuti distinti dalle somme post-tridentine che costituiscono la fossilizzazione di una
letteratura esclusivamente moralistica713.
La trattazione dei caratteri e delle finalità delle somme penitenziali meriterebbe un
discorso più approfondito che certamente esula dall’economia della presente trattazione.
Giova in questa sede rimarcare come nelle summae confessorum sia realmente
tangibile l’ordine giuridico medievale, in cui l’homo è al contempo civis e fidelis, la
morale cristiana è l’elemento invisibile e vitale della stessa esperienza giuridica, il
diritto si include nella morale e la morale si esteriorizza, la distinzione tra foro interno e
Si veda per approfondimenti P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno
dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, 2000, pp. 79-86.
709
È quanto rileva P. GROSSI, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, in Annali della
Facoltà giuridica. Università di Macerata, 1966, ora in ID., Scritti canonistici, a cura di C. FANTAPPIÈ,
Milano, 2013, pp. 116-117, con utili riferimenti dottrinali.
710
Si vedano P. MICHAUD-QUENTIN, A propos des premières Summae Confessorum. Théologie et Droit
canonique, in Recherches de théologie ancienne et médiévale, 26 (1959), pp. 264-306; R. NAZ, Somme, in
DDC, t. 7, Paris, 1965, coll. 1072-1073.
711
P. GROSSI, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, cit., p. 117-118.
712
Cfr. P. FOURNIER-G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en occident depuis les fausses
décrétales jusqu’au Décret de Gratien, vol. I, cit., pp. 369;414, e O. CONDORELLI, Dalla penitenza
pubblica alla penitenza privata, tra occidente latino e oriente bizantino: percorsi e concezioni a
confronto, cit., p. 146.
713
Cfr. C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, cit., pp. 172-176.
708
156
foro esterno si attenua, la salus animarum e la ratio peccati vitandi sono i principi che
animano il diritto della Chiesa714.
Quanto alle problematiche attinenti alla responsabilità extracontrattuale, già in
Alano da Lilla, Roberto di Flamborough e Tommaso di Chobham ricorrono riferimenti
alla dicotomia res licitae / res illicitae715, alla diligentia716, al damnum e damnificatio717,
ed alla restitutio718.
È tuttavia solo con la produzione coeva o successiva al IV concilio lateranense che
viene a delinearsi nitidamente il genere letterario delle summae confessorum, genere che
comprende una sterminata e variegata serie di opere tutte fondate sul medesimo modo di
concepire il problema della penitenza ed il rapporto confessore-penitente.
Spesso gli autori di queste Summae sono celebri giuristi, come nel caso di Giovanni
de Deo e di Raimondo de Peñafort, il frate domenicano artefice del Liber Extra. È
proprio nella Summa de poenitentia del canonista spagnolo che si percepisce l’influsso
del diritto (canonico e civile) sul predetto nuovo genere letterario.
Valga come esempio quanto affermato a proposito dell’omicidio involontario, in cui
ricorrono le tesi formulate dai decretisti a proposito del dare operam rei illicitae, aut
licitae:
È questo il leitmotiv che si percepisce nella produzione storico-canonistica di Pio Fedele, Piero Bellini
e Paolo Grossi, solo a voler citare alcuni tra i maiores nello scenario giuridico del Novecento.
715
ROBERTUS FLAMESBURIENSIS, Liber poenitentialis, [ed. J.-J. F. FIRTH, Toronto, 1971] III, 3, 107: «Si
casualiter interfecisti hominem, si omnem adhibuisti diligentiam et rei licitae institisti, licite
promoveberis; si autem debitam non adhibuisti diligentiam, licet rei licitae institeris, non promoveberis.
Si rei illicitae institisti et aliquem interfecisti, quamcumque adhibuisti diligentiam, non promoveberis.
Haec est Huguccio distinctio».
716
THOMAS DE CHOBHAM, Summa confessorum, [ed. F. BROOMFIELD, Louvain, 1968], D. 4, q. 8, c. 1:
«De casuali homicidio dicendum est, in quo duo sunt semper attenda sacerdoti, utrum scilicet ille qui
casu occidit dedit operam operi necessario et utrum adhibuit diligentiam necessariam, veluti si quis
volens edificare domum arborum succidat et diligenter consideret ne aliquis sit sub ruina et alta voce
clamet ut fugiat si quis est propinquus, non peccat si arbor obruat aliquem ibi stulte occultatum et fugere
nolentem. Si autem alterum istorum defuerit, scilicet opus necessarium vel diligentia necessaria vel
utrumque, homicida est et debet ei injungi penitentia sicut homicide […]».
717
ALANUS DE INSULIS, Liber poenitentialis, [ed. J. LONGÈRE, Louvain, 1965], II, 31: «[…] damno cui
intulit resarcito secundum suam facultatem […]».
ROBERTUS FLAMESBURIENSIS, Liber poenitentialis, cit., IV, 6: «Si fuisti judex corruptus vel testes vel
advocatus vel assessor vel arbiter, et per te damnificatus est aliquis, satisfacere ei teneris de damno et de
expensis et de vexatione».
718
ALANUS DE INSULIS, Liber poenitentialis, cit., II, 22: «Si quis per iram ictum dederit et hominem
deformem, vel debilem reddiderit, reddat impensas medici et medium poenitat. Si laicus per dolum
sanguinem effuderit, reddat illi tantum quamdiu nocuit: et si non habet unde reddat, solvat in opere
proximi sui quamdiu ille infirmus est, et post ea quadraginta dies in pane et aqua poenitat».
ROBERTUS FLAMESBURIENSIS, Liber poenitentialis, cit., V, 2: «Si quis ecclesiam igne comburit,
quindecim annos poeniteat, et eam sedule restituat et pretium suum distribuat pauperibus […]. Si quis
domus vel aream cujuscumque voluntate igne cremaverit sublata vel incensa omnia restituat et tribus
annis poenitentia agat».
714
157
«Casu: ut cum aliquis projecitlapidem ad avem vel animal, et alius
transiens ex insperato percutitur et moritur; vel incidit arborem, et casu
arboris aliquis opprimitur, et similia. Hic distingue: aut dabat operam
illicitae rei, aut licitae. Si illicitae, ut puta projeciebat lapidem versus loca
unde consueverunt homines transitum facere, vel dum furabatur equum vel
bovem, aliquis a bove vel equo percussus est, et similia, hoc indistincte
imoutatur. Si vero licitae rei dabat operam, ut quia magister causa
disciplinae verberabat discipulum, vel deponat fenum de curru, vel
arborem propriam sibi necessariam incidebat, et similia, hic, si adhibuit
diligentiam quam potuit, videlicet respiciendo, et proclamando non nimis
tarde vel demisse, sed tempore congruo et alte, ita quod si aliquis erat ibi
vel veniebat poterat fugere et sibi cavere, vel magister non excedendo
modum in verberando discipulum, non imputatur ei; alias, si dabat
operam rei licitae et non adhibuit diligentiam debitam, ut dictum est,
imputatur ei»719.
La Summa raimondina inaugura altresì un ulteriore genere letterario che è la summa
giuridica, vale a dire un trattato di morale giuridicizzata720.
In questo solco si inserisce l’opera di Giovanni d’Erfurt721 in cui ritroveremo diretti
riferimenti alla lex Aquilia ed al titolo De iniuriis et damno dato delle Decretali di
Gregorio IX.
Conclusioni
L’analisi della responsabilità extracontrattuale nel Corpus iuris canonici e nelle
riflessioni dei canonisti e teologi medievali, è un’ulteriore conferma del connubio tra il
diritto romano, lex mundana per eccellenza, e la lex ecclesiastica. Essa si configura
altresi come una prospettiva privilegiata attestante che «il diritto canonico non intese
RAIMUNDUS DE PENNAFORTE, Summa de paenitentia, II, 1, [ed. curantibus X. OCHOA-A. DIEZ, Roma,
1976, col. 444.
720
In tal senso P. MICHAUD-QUENTIN, Sommes de casuistiques et manuels de confession au Moyen Âge
(XIIe-XIVe siècle), Louvain, 1962, p. 39.
721
JOHANNES ERFORDIENSIS, Summa confessorum, [ed. N. BRIESKORN, vol. III, Frankfurt am Main,
1980], II, 6, 25: «De prima nota: de dampno tenetur qui
- dampnum irrogavit ex: culpa, sed si culpa non intervenit, non tenetur ad dampnum; inde infantes non
tenentur; negligentia, puta diligentiam debitam non adhibuit circa candelam; ignorantia, quando scire
debuit ex facto suo injuriam verisimiliter posse contingere vel jacturam; puta licet mihi percutere
percutientem me, sed si cum vellem eum percutere alium percusse, imputatur mihi D., Ad legem Auiliam
Scientam, § ult. [D. 9, 2, 45, 5].
- opem irrogantibus tulit, ut si minus tenuit et alter occidit: Extra, De injuriis.
Nota: qui per culpam vel negligentiam dampnum dederit succedendo, tenetur lege Aquiliae in foro
contentioso, sed in foro poenitentiali non tenetur ad emendam dampni, sed est poenitentia ei imponenda
de negligentia, nisi dampnum intendisset vel illata culpa esset, ut si projecit ignem in domum plenam
pallea: argumento 15, q. 2, Inebriaverint, hoc in Innocentio [X. 5, 12, 6, n. 4] et Hostiensi, Extra , De
homicidio [X, 5, 12]».
719
158
mai di regolare per intero e da solo la condotta umana: esso divideva questo compito
col diritto civile, limitando la propria missione alla regolamentazione degli atti umani
spirituali, riguardanti cioè la coscienza e la fede, e lasciando al diritto civile quella dei
negozi temporali»722.
Ciò tuttavia non rappresentò mai una meccanica separazione di materie, che si
sarebbe posta in contrasto con la concezione integrale della vita umana propria della
Chiesa sin dall’età apostolica.
Teologi e canonisti seppero inquadrare le fattispecie di volta in volta prospettate al
loro esame attraverso determinati schemi ordinativi (o categorie giuridiche che dir si
voglia) «sia che si trovassero a distinguere il momento disciplinare dei rapporti di vita
reale dal momento spirituale della edificazione religiosa di ogni singola persona umana
[…] sia che dovessero occuparsi delle specialissime esigenze del foro interno,
affrancando la cura delle anime dalla più grezza economia del foro esterno»723.
Nell’ analizzare le varie peculiarità dell’ordinamento canonico in materia di
responsabilità extracontrattuale sono stati messi in risalto gli aspetti dello ius ecclesiae,
così come della riflessione patristica e teologica medievale che hanno esercitato un
qualche influsso sul diritto secolare.
Lo studio della responsabilità extra contractum nel diritto canonico medievale ha
mostrato come il diritto romano (lex romana) abbia costituito per ogni cristiano
medievale un sostrato normativo capace di delineare e disciplinare i rapporti umani
intersoggettivi.
Il cristianesimo, come pacificamente risaputo, ha determinato con l’irrompere dei
suoi principi etici, determinati influssi sul diritto romano.
È nota la ricostruzione di Biondo Biondi in tema di “diritto romano cristiano”724,
opera carica di suggestioni e di lucide intuizioni, in cui «l’ampiezza degli argomenti
discussi e l’enormità delle fonti considerate, costituirono per l’epoca in cui tali studi
furono svolti, un importante punto di riferimento»725. Il celebre romanista, anche in
tema di actio legis Aquiliae, seppe rinvenire quegli elementi estranei al diritto romano
F. CALASSO, Medio Evo del diritto, cit., p. 407.
P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica della Europa
preumanistica, cit., p. 33.
724
B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, vol. I, Orientamento religioso della legislazione, Milano, 1952;
ID., Il diritto romano cristiano, vol. II, La giustizia-Le persone, Milano, 1952; ID., Il diritto romano
cristiano, vol. III, La famiglia-Rapporti patrimoniali-Diritto pubblico, Milano, 1954.
725
Così M. NARDOZZA, Biondi, Biondo, in DBGI, vol. I, Bologna, 2013, p. 261.
722
723
159
classico e postclassico, riconducibili pertanto all’asserito intervento “cristiano” di
Giustiniano e dei suoi stretti collaboratori726.
L’incidenza della religione cristiana e dei suoi principi nello sviluppo del diritto
privato romano non deve tuttavia essere sopravvalutata727. Sul punto riteniamo
condivisibili le considerazioni espresse dal Bellini (seppure in una diversa sedes
materiae) secondo cui «non irragionevole è desumerne (rispetto a queste “ordinarie
fattispecie”: quali soggette al ius privatum) che una parte almeno delle innovazioni
normative, in cui l’entusiasmo di questi o quei moderni interpreti suole senz’altro
ravvisare un’influenza della novella Religione, debbano piuttosto essere ascritte al
progressivo aprirsi – per sua parte – del pensiero giuridico romano verso quel
medesimo suffragio filosofico che così a fondo agiva (“in parallelo”) sulla sostanza
deontologica del movimento cristiano principale»728.
In tema di danno aquiliano la disciplina dettata dal diritto romano fu un modello
insostibuibile per la Chiesa che, nella materia de qua, continuò a vivere, per lungo
tempo, della legge romana.
Il bagaglio di principi fondati sia sullo ius romanum, come filtrato da glossatori e
commentatori, sia su quello canonico dell’età classica e postclassica, costituirà di gran
lunga l’armamentario giuridico utilizzato dagli operatori del diritto nell’età moderna. La
nuova era, caratterizzata dal venir meno della Respublica gentium christianarum e dal
sorgere degli Stati nazionali, conoscerà altresì le nuove riflessioni di teologi, soprattutto
spagnoli, alle prese con i poderosi commentari De iustitia et iure729.
Il nuovo movimento, rettamente definito della Seconda Scolastica, unitamente al
pensiero canonistico medievale, sarà alla base delle opere scritte da Diego de
Covarrubias, vescovo di Segovia. Nel 1554 uscirà alle stampe la relectio730 sulla regula
B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, vol. III, cit., pp. 271-275.
Si vedano al riguardo le puntuali osservazioni di G. CRIFÒ, Romanizzazione e cristianizzazione.
Certezze e dubbi in tema di rapporto tra cristiani e istituzioni, in F. DE GREGORIO (a cura di), Temi scelti
di storia e diritto tra cultura e istituzioni, Roma, 2004, pp. 185-210.
728
P. BELLINI, Palingenesi evangelica e assetto giuridico romano, in F. DE GREGORIO (a cura di), Temi
scelti di storia e diritto tra cultura e istituzioni, cit., p. 97.
729
Si vedano i vari contributi raccolti in P. GROSSI (a cura di), La Seconda Scolastica nella formazione
del diritto privato moderno, Milano, 1973.
Cfr. P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e
diritto, cit., pp. 339-344.
730
Si veda in merito l’approfondito studio di O. CONDORELLI, Norma giuridica e norma morale, giustizia
e salus animarum secondo Diego de Covarrubias. Riflessioni a margine della Relectio super regula
“Peccatum”, cit., pp. 163-202.
726
727
160
«Peccatum non dimittitur nisi restituatur ablatum», quarta tra le regulae iuris che
concludono il Liber Sextus di Bonifacio VIII.
Abbiamo avuto modo di esaminare la restitutio ablati, evidenziando come sia una
materia al crocevia tra morale, diritto e teologia. Il giurista spagnolo affronterà siffatta
tematica in maniera esemplare dedicando un ampio proemio in cui spiccano alcuni
periodi in materia di responsabilità extracontrattuale:
«Divus Augustinus […] quo […] Christianam plebem erudiret, ne
proximus, iniuria aut damno effectus, lesionem adversus institutam a
Christo Iesu et natura ipsa charitatem patiatur […]. Nam cum iustitia
ipsa, que potissima moralium virtutum est, manifeste violetur, cum quis
proximo damnum intulerit, palam consequitur peccatum istud minime
dimitti nisi damni illati compensatio fiat: aliter non servatur ipsius iustitie
lex»731.
Sarà proprio Covarrubias ad influenzare un pensatore rivoluzionario come Ugo Grozio,
padre del giusnaturalismo moderno e grande estimatore del vescovo di Segovia per aver
saputo coniugare la scholastica subtilitas unitamente alla legum et canonum cognitio732.
Grazie all’influsso del Covarrubias e dei teologi Domingo Soto e Leonardus
Lessius, Grozio supererà la tradizionale lettura civilista dell’iniuria. Quest’ultima verrà
ad assumere una nozione coincidente con il concetto di ingiustizia sganciandosi dal
concetto di culpa e creando le premesse per la moderna distinzione tra antigiuridicità e
colpevolezza733.
Nel De Iure belli ac pacis Grozio fonderà le basi teoriche per l’autonomizzazione
dell’illecito civile da quello penale, fondando la sua ricostruzione sul «maleficium»,
categoria che si concreta in qualunque condotta che, cagionando un pregiudizio, obbliga
il danneggiante al risarcimento in favore della vittima:
«Maleficium hic appellamus culpam omnem, sive in faciendo sive in non
faciendo, pugnantem cum eo quod aut nomine communiter aut pro ratione
certae qualitatis facere debent. Ex tali culpa obligatio naturaliter oritur, si
damnum datum est, nempe ut resarciatur»734.
DIDACUS COVARRUVIAS, Regulae Peccatum De Regul. Iur. Lib. VI Relectio, Lugduni, 1560, pp. 1-2.
HUGO GROTIUS, De iure belli ac pacis, Prolegomena, § 55. L’edizione di Grozio utilizzata è quella
curata da B. J. A. DE KANTER-VAN HETTINGA TROMP, con annotazioni di R. FEENSTRA e C. E.
PERSENAIRE, Aalen, 1993.
733
Cfr. M. F. CURSI, Danno e responsabilità extracontrattuale nella storia del diritto privato, cit., pp.
135-137.
734
HUGO GROTIUS, De iure belli ac pacis, II, 17, 1.
Sui contributi di Grozio al moderno illecito extracontrattuale si vedano R. FEENSTRA, Théories sur la
responsabilité civile en cas d’homicide et en cas de lésion corporelle avant Grotius, in Études d’histoire
du droit privé offertes à Pierre Petot, Paris, 1959, pp. 157-171; ID., Grotius’ doctrine of liability for
negligence: its origin and its influence in Civil Law countries until modern codifications, in E. J. H.
731
732
161
Rimane tuttora dibattuto in dottrina quanto abbia influito effettivamente il
patrimonio giuridico della Chiesa sulla configurazione della responsabilità generale per
fatto illecito, avviata dalla scuola del diritto naturale735 e consacrata definitivamente
nell’art. 1382 Code Napoléon736.
L’analisi del diritto della Chiesa, dalle origini alle soglie dell’età moderna,
unitamente a quella della scientia canonum, ha mostrato i contributi, diretti ed indiretti,
offerti
dallo
ius
canonicum
alla
moderna
dogmatica
della
responsabilità
extracontrattuale. Ciò non significa leggere l’esperienza giuridica della Chiesa con gli
occhiali delle moderne categorie giuridiche ma si configura solamente come un
tentativo di ravvisare alcune costanti, in materia di responsabilita extra contractum, che
arrivano fino ai nostri giorni.
Già il Rotondi, pur sostenendo la paternità della responsabilità generale per fatto
illecito in capo alla scuola del diritto naturale, ebbe modo di evidenziare le peculiarità
canonistiche nella storia della responsabilità aquiliana arrivando a sostenere che «il
diritto canonico asside la responsabilità generale sul semplice elemento della colpa»737.
Il che null’altro significa che riconoscere una matrice canonistica nel trionfo
dell’imputazione fondata sull’elemento soggettivo. Fu appunto la decretale Si culpa tua
di Gregorio IX a sancire il principio dell’obbligo di risarcire il danno ogniqualvolta lo
stesso fosse stato cagionato con colpa.
Quanto affermato da Gregorio IX costituirà il principio cardine alla base della
responsabilità extracontrattuale della Chiesa sino alla codificazione del 1917, pur in
assenza di un apposito canone in tema di disciplina generale dell’illecito aquiliano738.
I principi sanciti dallo ius vetus
in tema di danno aquiliano riemergeranno
espressamente nella codificazione giovanneo-paolina. Il legislatore canonico del 1983,
sancendo l’obbligo del risarcimento del danno ingiustamente arrecato con dolo o colpa,
ha positivizzato nel can. 128 quel «principio di diritto naturale che ha la sua conferma
SCHRAGE (a cura di), Negligence: The comparative legal history of the law of torts, Berlin, 2001, pp. 129171.
735
Cfr. B. KUPISCH, La responsabilità da atto illecito nel diritto naturale, in L. VACCA (a cura di), La
responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica, cit., pp. 123-148.
736
Cfr. O. DESCAMPS, Les origines de la responsabilité pour faute personnelle dans le Code Civil de
1804, cit., pp. 395-411,
737
G. ROTONDI, Dalla lex Aquilia all’art. 1151 C. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Rivista di Diritto
Commerciale, 15 (1917), p. 256.
738
Il codice pio-benedettino contemplò solamente alcune fattispecie di danno disseminate in diversi
canoni. Sul punto cfr. P. CIPROTTI, Danno c) diritto canonico, in ED, v. XI, Milano, 1962, pp. 632-634.
162
in tutte le legislazioni civili»739.
Mentre il
codice pio-benedettino del 1917
contemplava, nel can. 1681, la responsabilità per danni solo nell’ipotesi di un atto
giuridico invalido, la normativa vigente allarga la sua portata prevedendo nel can. 128
che «chiunque, con atto giuridico, anzi con qualsiasi atto posto con dolo o colpa, causa
illegittimamente del danno a un altro, ha l’obbligo di riparare il danno arrecato»740.
Dal tenore letterale del canone 128 risulta evidente l’influsso della decretale Si culpa
tua di Gregorio IX741.
Il citato canone, pertanto, più che costituire «une innovation législative»742, come è
stato invece sostenuto da Jean Gaudemet, ha la parvenza di essere «una transcipción,
casi literal, de un fragmento del Corpus Iuris Canonici, lo cual demuenstra que la
legislación actual recoge un concepto de daño resarcible propio de la tradición
canónica»743.
Il canone 128 enuncia l’obbligo di riparazione del danno744 «partendo dal postulato
giusnaturalistico che impone tale obbligo precisandone, però, il significato canonistico
quanto: al requisito oggettivo della ingiustizia de danno (damnum illegitime illatum); al
suo momento causale ([illatum] actu iuridico, immo quovis alio actu dolo vel culpa
posito); alla conseguente sua imputabilità correlata all’atto e/o comportamento da cui
scaturisce il danno (quicumque illegitime […] alteri damnum infert); al modo ed ai
mezzi della reparatio (obligatione tenetur damnum illatum reparandi), ed
implicitamente alla responsabilità patrimoniale per la copertura della reparatio»745.
L. CHIAPPETTA, Il codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, II ed., vol. I, Roma,
1996, p. 199.
Secondo M. THÉRIAULT, Commento al c. 128, in A. MARZOA - J. MIRAS - R. RODRÍGUEZ-OCAÑA (a cura
di), Comentario exegético al código de derecho canónico, I, Pamplona, EUNSA, 1996, p. 835: «el c. 128
no hace otra cosa que plasmar en forma de Derecho positivo un principio básico de la moral natural: la
reparacíon del daño causado».
740
Il testo latino afferma che «Quicumque illegitime actu iuridico, immo quovis alio actu dolo vel culpa
posito, alteri damnum infert, obligatione tenetur damnum illatum reparandi».
741
Evidenzia l’importanza della tradizione romanistica nella formulazione del can. 128 c.i.c. A.-M.
GAUTHIER, On the Use of Roman Law in Canon Law, in M. THÉRIAULT-J. THORN (a cura di), Unico
Ecclesiae Servitio. Canonical studies presented to Germain Lesage, O.M.I., on the occasion of his 75th
birthday and of the 50th anniversary of his presbyteral ordination, Ottawa, 1991, p. 66.
742
J. GAUDEMET, Reflexions sur le Livre I “De normis Generalibus” du Code de Droit Canonique de
1983, in RDC, 1984, p. 109.
743
G. REGOJO BACARDÍ, Pautas para una concepción canónica del risarcimiento de daños, in Fidelium
iura (supplemento – Persona y derecho), 1994, p. 117.
744
Il danno «alteri illatum» è dunque una fonte, anche canonica, di obbligazione. Cfr. sul punto P. A.
BONNET, Obbligazione XI) Diritto canonico, in EG, vol. XXI, Roma, 1990, p. 5.
745
F. SALERNO, La responsabilità per l’atto giuridico illegittimo (can. 128 c.j.c.), in L’atto giuridico nel
diritto canonico, Città del Vaticano, 2002, p. 330.
739
163
Esulando dall’economia del presente lavoro ripercorrere la disciplina della
responsabilità extracontrattuale nel diritto canonico vigente (sia latino che orientale),
giova a conclusione del nostro discorso rilevare come nella storia del diritto canonico
medievale la tutela delle posizioni giuridiche di ciascun fedele, ed il rispetto del suum
cuique tribuere, non abbiano mai tentato di dissociare il bene individuale (cioè l’utilitas
dei singoli fedeli) dal bonum Ecclesiae.
È questa una delle tante ragioni che ha consentito ad illustri canonisti746 di poter
sostenere la natura completamente pubblicistica del diritto canonico, ritenendo estranea
all’ordinamento della Chiesa la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico747. Il
risarcimento del danno extracontrattuale costituisce pertanto uno dei numerosi esempi
di «diritti privati dei fedeli» la cui esistenza tuttavia «non consente la costruzione di una
scienza del diritto privato […] come sistema, come scienza, con una propria
autonomia»748.
L’analisi dei molteplici frammenti del Corpus iuris canonici ha mostrato come il
risarcimento del danno, in tutti i suoi aspetti sostanziali e processuali, richiedesse, e
Come ad esempio P. FEDELE, Discorso generale sull’ordinamento canonico, cit., pp. 109 ss.; ID., Lo
spirito del diritto canonico, cit., pp. 823-1013; ID., Introduzione al diritto canonico, II ed., Roma, 1979,
p. 23.
747
Un’articolata ricostruzione storica sul tema è stata offerta da G. LO CASTRO, “Pubblico” e “privato”
nel diritto canonico, in R. BERTOLINO-S. GHERRO-G. LO CASTRO (a cura di), Diritto “per valori”e
ordinamento costituzionale della Chiesa, Giornate canonistiche di studio (Venezia 6-7 giugno 1994),
Torino, 1996, pp. 119-149.
Sul punto si veda quanto espresso da G. BONI-A. ZANOTTI, La Chiesa tra nuovo paganesimo e oblio. Un
ritorno alle origini per il diritto canonico del terzo millennio?, Torino, 2012, p. 22 secondo cui: «Molto si
è discusso nella canonistica alla metà del secolo scorso se l’ordinamento della Chiesa fosse di matrice
eminentemente privatistica o pubblicistica: se la salus oltremondana dell’anima fosse un fatto solamente
privato o avesse una valenza generale tale da far assumere a tutto l’ordinamento una coloritura
pubblicistica. Era, quella, una stagione del pensiero canonistico che mutuava – sovente senza soverchia
circospezione – le categorie ed anche i topoi dalla dogmatica laica, tendendo a posporre ad una logica
giuridico-formale le ragioni di una prospettiva storico-teologica, così fitta, invece, di chiavi di lettura e
di conseguenze metodologiche di fondamentale rilevanza».
748
G. FORCHIELLI, Il concetto di “pubblico” e “privato” nel diritto canonico. (Appunti di storia e di
critica della sistematica), in Studi di storia e diritto in onore di Carlo Calisse, vol. II, Milano, 1940, pp.
552-553.
Argomento connesso è quello della configurazione del diritto al risarcimento del danno, derivante da
altrui dolo o colpa, in termine di diritto soggettivo. A favore della predetta configurazione si schierò P.
CIPROTTI, Considerazioni sul “Discorso generale sull’ordinamento canonico” di Pio Fedele, Firenze,
1941, p. 45 [estratto da Archivio di diritto ecclesiastico, 1941]. Ciprotti negò pertanto la ratio peccati
come fondamento principale delle norme del Codex Iuris Canonici del 1917 in tema di risarcimento del
danno, in aperta polemica con Pio Fedele deciso sostenitore dell’assenza di diritti soggettivi
nell’ordinamento della Chiesa.
746
164
tuttora richieda, di «prendere norma dall’aequitas canonica»749 senza perdere mai di
vista la salvezza delle anime, vale a dire quella «suprema lex»750 che la sapienza
giuridica romana ignorava ma che è stata posta da Cristo a fondamento e fine del diritto
nel mistero della Chiesa751.
H. PREE, La responsabilità giuridica dell’amministrazione ecclesiastica, in E. BAURA-J. CANOSA (a
cura di), La giustizia nell’attività amministrativa della Chiesa: il contenzioso amministrativo, Milano,
Giuffrè, 2006, p. 97.
750
Cfr., anche con riferimento all’aequitas canonica, P. BELLINI, Suprema lex Ecclesiae: salus animarum
(critical report), in R. COPPOLA (a cura di), Incontro fra canoni d’Oriente e d’Occidente, Bari, 1994, pp.
317-347.
751
Sulla salus animarum come suprema lex vedi però la posizione critica di P. GHERRI, Lezioni di
teologia del diritto canonico, Città del Vaticano, 2004, p. 314, in part. nt. 249.
749
165
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Vindobonae, 1895; PL, vol. 33, Lutetiae Parisiorum, 1861).
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1861, coll. 1579-1976).
AUGUSTINUS, Quaestionum in Pentatheucum, (= PL, vol. 34, Lutetiae Parisiorum, 1861,
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AUGUSTINUS, Retractationum libri II, (= PL, vol. 32, Lutetiae Parisiorum, 1861, coll.
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BASILIUS CAESARIENSIS, Moralia, (= PG, vol. 31, Parisiis, 1885, coll. 691-870).
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CYPRIANUS, De Lapsis, (= PL, vol. 4, Lutetiae Parisiorum, 1844, coll. 463-494).
CYPRIANUS, Epistulae, (= Corpus christianorum, Series latina, vol. III B, Turnholti,
1994).
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De vera et falsa poenitentia: verso una nuova confessione. Guida alla lettura, testo e
traduzione, Roma, 2011).
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TERTULLIANUS, De paenitentia, (=Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, vol.
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TERTULLIANUS, De pudicitia, (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, n. s.,
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1600.
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1600.
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TABULA GRATULATORIA
Prof. Ennio Cortese, Roma
Prof. Giuseppe Dalla Torre, Roma
Prof. Olivier Descamps, Paris
Prof. Avv. Pasquale Fava, Roma
P. Sebastiano Paciolla, O. Cist., Città del Vaticano
Prof. Giuseppe Rivetti, Macerata
S. E. mons. Francesco Salerno, Città del Vaticano
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