Anatolij Tarasov

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Anatolij Tarasov
«Ricerche Storiche» nn. 20 –21/1973 p. 15 –44
LA VITA DEI CERVI NELL'AUTUNNO 1943 VISTA DA ANATOLIJ TARASOV
I parte
Sull'argomento moltissimo è stato scritto: Tuttavia, a trent'anni dalla fucilazione dei sette
fratelli, riteniamo opportuno dare alle stampe la prima parte del libro di Tarasov (1) tradotto. dal
nastro. Riccardo Bertani.
L'autore fu ospite della Casa Cervi dopo 1'8 settembre 1943, coi Cervi e can altri partigiani
stranieri effettuò alcune azioni partigiane in pianura e sulla montagna, e con essi fu catturato il 25
novembre 1943, sfuggendo poi fortunosamente alla morte. La sua è pertanto. ,una testimonianza
preziosa.
Tarasov è morto il 26 aprile 1971. Nella sua ultima lettera inviatami precisava che il suo libro
non lo. soddisfaceva del tutto essendo. stato redatto prevalentemente sulla scorta di ricordi
personali. Mi pregava pertanto, nel caso che fosse tradotto e stampato in italiano, di curarlo dal
punta di vista redazionale e storico. Accolgo questo suo desiderio. dotando. lo. scritto di poche
note, poste dove a mio avviso servono. a precisare dati e circostanze. Ma non è facile scoprire tutte
le eventuali inesattezze: manca al momento il confronto con altre testimonianze dirette. I
protagonisti delle vicende principali sono in gran parte scomparsi o non sono in Italia. Eppure
Tarasov, come straniero, può essere incorso in errori di valutazione o di interpretazione su quanto
avveniva in quei primi momenti della guerriglia. D'altra canto, dato il carattere narrativo della sua
testimonianza, l'Autore procede talora per salti, omettendo forse dei particolari che egli riteneva
poco importanti per il lettore russo.
Precisazioni o integrazioni fornite da chi ebbe contatto coi Cervi, sarebbero. pertanto opportune
e gradite. Alcune note sono del traduttore. In qualche caso sono stati utilizzati documenti dell’ ACS
GUERRINO FRANZINI
PRESENTAZIONE DELL'AUTORE
Nell'estate del 1955, dieci anni dopo la fine della guerra, è venuto ospite da noi nell'Unione
Sovietica, Alcide Cervi, il vecchio contadino ottantenne, padre dei sette fratelli partigiani
eroicamente caduti nel dicembre del 1943.
Durante questo viaggio, il vecchio Alcide ha cercato di incontrarsi con quei compagni e
partigiani russi che fecero parte in Italia al distaccamento partigiano organizzato dai suoi figli.
Egli ricordava che uno di essi si chiamava Mìsa, ed un altro Nikòlaj che era colcòsiano.
Ricordava anche il mio nome e sapeva che abitavo a Leningrado; ma difficile era per il vecchio
ricordare il nome di tutti noi, e ciò rendeva quasi impossibile il nostro incontro. Malgrado ciò, la
venuta di Alcide Cervi nel nostro paese ha avuto il merito di risvegliare la vecchia amicizia ch'era
sorta tra i combattenti russi ed i patrioti italiani durante la lotta di Liberazione, che va dal 1943 al
1945, contro i traditori fascisti e gl'invasori hitleriani. I cittadini sovietici che combatterono a fianco
dei partigiani italiani furono centinaia, molti dei quali caddero valorosamente.
A Genova cadde eroicamente Fedòr Poètan, primo straniero che ha meritato una delle più alte
onorificenze italiane, la «Medaglia d'oro al valor militare.» Ed in molti :paesi del Reggiano e del
Modenese si contano a decine le spoglie di combattenti russi che Vi riposano per sempre. Gli altri,
quelli che riuscirono a scamparla, appena poterono tornarono in Patria.
Così, dodici anni dopo ch'era finita la guerra, assieme a Vladimìr Perieladov (2) mi misi a
cercare Mihàil Almakaiev di Chàrkov, anch'esso appartenente al distaccamento dei fratelli Cervi.
Trovammo anche il mio corregionale Mihài1 Kobijasov, un giovanotto delle parti di Vyborg,
ardito mitragliere del distaccamento. Riuscimmo pure a rintracciare il siberiano Ivan Suslov che,
durante L’estate del 1944, fu uno dei primi ad entrare a Montefiorino occupato dai fascisti.
Cercammo poi notizie di «Nikolaj il colcòsiano» (il suo vero cognome era Armeiev), scomparso,
dopo tanti mesi di dura lotta, il giorno della liberazione di Reggio Emilia; e di tanti altri, con i quali
avevamo vissuto assieme l'aspra lotta partigiana, e dei quali da allora non ho più saputo come
vivevano, che mestiere facevano.
Ora mi è impossibile ricordare tutti i nomi ed i cognomi di quelli che mi furono compagni in
quei tempi terribili ed eroici; ma io credo che quel che più conti è parlare di tutti quelli, e furono
molti, che in quei difficili momenti seppero scegliere la non facile via che avrebbe trasformato il
loro destino.
PARTE PRIMA
Assieme agli altri giovani leningradesi della mia età, fui chiamato alle armi in una nebbiosa
giornata dell'ottobre 1940. Quando ci trovammo sulla banchina della stazione, nessuno di noi
sembrava commosso; solo le lacrime delle madri turbavano un po’ la nostra animazione. Ad un
tratto, il prolungato fischio di una locomotiva lacerò il frastuono della stazione.
I parenti e gli amici si affrettarono a salutarci e a darci consigli sulla nostra futura vita militare;
ma a ben poco essi avrebbero contato, perché dinnanzi a noi stava la terribile minaccia della guerra.
E quel giorno, nel partire, guardammo a lungo la nostra Leningrado che spariva all'orizzonte...
Lo scoppio della guerra mi colse quasi alla frontiera, dove il nostro reggimento di fanteria era
accampato in un bosco. All'indomani avremmo dovuto levare le tende...
Ed ecco che a mezzogiorno vien dato l'allarme a tutto il reggimento: la Germania fascista,
violando perfidamente ogni accordo, aveva aggredito la nostra patria.
Sebbene noi soldati fossimo giovani, capimmo che la cosa era assai seria.
Ma sul momento nessuno di noi ebbe paura. Tutto era tranquillo nel bosco: né rumore di spari,
né sibilo di bombe. Dagli alberi usciva solo il fumo delle nostre cucine militari da campo. Nel
pomeriggio ci esercitammo in manovre e tiri, finché non tornammo in caserma per il rancio della
sera...
Secondo giorno di guerra.
Lontano, si sentiva il rombo del cannone e vedevamo alzarsi fumi di incendi.
E verso sera anche il nostro reggimento ebbe il suo battesimo del fuoco.
La nostra compagnia aveva il compito di difendere con il tiro dei mortai i fucilieri che andavano
all'attacco. I primi lontani bagliori degli incendi si avvicinavano sempre più. Uno dopo l'altro
bruciavano i pacifici villaggi bielorussi, dove la gente, impazzita dalla paura, ruggiva
abbandonando le proprie case.
Ad ogni ora che passava, infuriava sempre più la battaglia. Intorno era un continuo piovere di
granate. «Presto capo, preparatevi al tiro», gridò il nostro comandante. Il capo batteria stava per
rispondergli che tutto era pronto, quando si afferrò con le mani la pancia. Un fiotto di sangue
purpureo gli imbrattò i calzoni; quindi, rantolando, aprì la bocca per l'ultimo respiro. Così la morte
aprì la prima breccia fra le nostre file. Ma ben presto fu la volta del nostro calcolatore di batteria: un
bel giovanotto un po’ più alto di me. Stava chinandosi, quando una pallottola gli perforò l'elmetto,
fulminandolo a terra...
E così accadde a tant'altri nostri compagni ed amici con i quali avevamo lavorato e vissuto, nella
nostra felice giovinezza...
Il fronte ormai sì era spostato verso Minsk, e noi, assieme ad altre migliaia di soldati, eravamo
rimasti accerchiati nei boschi e nelle foreste della Bielorussia. Il mio compito di tiratore mortaista
ora non valeva più niente, perché eravamo rimasti senza munizioni. Tacevano anche i cannoni, ed i
nostri carri armati senza benzina erano come inutili masse di ferraglia. In cielo non si vedeva più un
nostro velivolo ed una fiumana di gente si riversava ovunque per la foresta.
Senz'armi, stanchi ed avviliti, ci aggiravamo per i villaggi bielorussi; la gente ci ristorava e noi
riprendevamo un po’ di coraggio. Gli uni cercavano di organizzare distaccamenti partigiani, gli altri
contavano di aprirsi una breccia tra le linee tedesche, per raggiungere i nostri. lo mi associai a questi
ultimi.
Ed eccomi con gli altri, lungo le polverose vie di Minsk, Borìssov, ÒrSa, Pskov...
Dopo aver fatto circa mille chilometri nel territorio occupato dal nemico, nei pressi di Lùga
udimmo il rombo dell'artiglieria. Dunque erl1vamo giunti vicino al fronte!
In molti erano giunti nei dintorni di questa città, che era piella di soldati tedeschi e quasi
abbandonata dai suoi abitanti.
Ma bisognava pure trovare qualcosa da mangiare; quindi decisi di avviarmi al villaggio di
Novoselle. Ma appena fuori dal bosco mi imbattei in una pattuglia
tedesca che mi sparò contro con i fucili mitragliatori. Siccome io non avevo nessuna arma per
difendermi, mi gettai svelto in un fossato. Ed accadde l'insperato...
I tedeschi, prendendomi per un partigiano, mi picchiarono ben bene, quindi mi misero in un
campo di prigionieri.
Incitato dalle guardie tedesche, stavo con gli altri prigionieri come me, a cercare mine con un
bastone appuntito. «E che fai?, su cerca!», mi disse rudemente l'irsuto soldato che mi stava vicino.
Ai miei piedi stava proprio una di quelle mine che i nostri soldati avevano posto durante la
ritirata. Diedi di gomito al mio compagno e la raggirammo. Gli altri si accorsero della manovra, ma
nessuno aprì bocca.
(.....)
A notte, quando s'udì lo scoppio, venne da noi la guardia in preda ad evidente paura, ed
indicandoci laggiù, dove pallide fiamme illuminavano l'oscurità della notte, disse: «Paruzanen
farfyuhter, partizanen!». (3)
Il fatto che il tedesco credesse che fossero stati i partigiani a provocare lo scoppio, ci fece
dimenticare in un attimo tutta la paura passata. Con questo capimmo che la lotta contro l'invasore si
sarebbe protratta ovunque sino alla sua completa disfatta. Ed ovunque tu eri, a cercare mine sulle
strade russe, od a scavar fosse per i tuoi ignoti compagni estratti dalle carcasse arse dei carri armati,
od in Germania a sabotar le industrie ed i campi dove lavoravi come prigioniero, sempre ti
sorreggeva il pensiero della libertà.
Durante l'estate del 1943, a seguito di grandi eventi politici, numerose divisioni tedesche si
spostarono in Italia. Per stendere le loro linee telefoniche e telegrafiche, i tedeschi usarono dei
prigionieri, ed io ero tra questi. La prima città italiana in cui ci fermammo fu Verona. Una città che
ci parve stupenda. Ci alzavamo allo spuntar del sole, ma verso mezzodì il sole diventava così
cocente da farci spellare le spalle, con il catrame dei pali che si appiccicava alla pelle. Una sera, ci
trovammo a Pieve Modolena, una frazione vicino a Reggio Emilia. Mentre stavamo tornando alla
nostra tenda stanchi ed affamati, ci avvicinarono alcuni italiani; uno di essi ci porse del pane. Del
pane! Pane bianco! Ed il nostro caso non era unico; succedeva ovunque si trovavano prigionieri
russi. Questa simpatia degli italiani per noi – lo capivamo bene – veniva dal comune desiderio di
libertà, che animava noi e loro. Sentivamo chiaramente che in Italia stavano maturando eventi
eccezionali e drammatici: e infatti non c'eravamo sbagliati.
L'8 settembre il Maresciallo Badoglio, in un discorso alla radio, annunciava al popolo italiano
che l'Italia aveva rotto il patto con Hitler, ed aveva firmato l'armistizio con gli alleati. E questo
giorno segnò l'inizio della lotta di liberazione del popolo italiano.
... Sotto la tenda dove giacevo in branda malato (per modo di dire), venne tutto trafelato il mio
amico Danilo, (4) e si mise a dirmi concitatamente che in città si sparava, che i nostri compagni
erano stati condotti via sotto scorta, che egli aveva appena fatto in tempo a chiedere un permesso
per venirmi a trovare.
– Puoi alzarti? mi chiese.
Altro ché se potevo alzarmi, con la malattia che avevo!... Fu presto sera e cominciarono a levarsi
le fiamme dalla roba che i tedeschi avevano saccheggiato dalle caserme durante il giorno e che
bruciavano, non potendola tener tutta. Il loro concitato tramestìo, somiglava un pò al panico...
Cercai gli occhi di Danilo. Le fiamme crepitavano sinistre, ed illuminavano il rimorchio carico di
pali del telegrafo dietro al quale eravamo nascosti. Sentimmo avvicinarsi dei passi; lo spasimo
divenne più forte. Danilo mi fece segno con la testa... e sgattaiolammo fuori nelle tenebre, dove
nessuno ci poteva vedere...
Il sole sorse splendido. Il cielo era d'un limpido azzurro, e l'erba brillava di rugiada adamantina.
Ci dirigemmo verso una casa che avevamo visto alla nostra destra. Sulla larga aia lastricata stavano
a discutere un gruppo di persone: forse parlavano degli avvenimenti del giorno prima. – Buon
giorno dicemmo loro avvicinandoci.
Risposero al nostro saluto in modo discordante, e ci guardarono con sospetto. Si capì subito che
ci avevano presi per stranieri e che non potevano fidarsi di nessuno, dati i tempi che correvano. Di lì
a poco, uscì una donna che ci fece capire di voler sapere chi eravamo. E quando a stento riuscimmo
a spiegarglielo, il suo viso si rasserenò; ma poco dopo, quasi tutti gli uomini presenti erano
scomparsi. E ciò ci fece capire ch'era meglio andarcene.
Proseguimmo per circa altri due chilometri. La nostra completa ignoranza della lingua italiana, ci
precludeva ogni approccio con gli italiani, e con ciò anche una concreta prospettiva di salvezza.
Ci rendemmo conto che fuggire dalla prigionia in un paese straniero, non era facile come si
credeva.
Ci dirigemmo verso la strada maestra, la via Emilia. Là sarebbe stato più pericoloso; ma d'altro
canto avremmo risolto prima, in un modo o nell'altro, la nostra situazione. Appena sbucati sulla
strada, vedemmo venire dei tedeschi. Ci rifugiammo presto in una trattoria; ma non facemmo ,in
tempo a sederci ad un tavolo, che entrò anche il drappello dei tedeschi. Uno di essi, dai capelli rossi,
allontanando con uno stivale una sedia, gridò con voce rauca: Dateci del vino, se no, sporchi
italiani, vi spaccheremo il muso assieme al vostro duce! –. In quel mentre entrò una ragazza, che
visti i soldati, fece per andarsene; ma quello dai capelli rossi gli sbarrò la porta. Gli altri si alzarono
ed attorniarono la ragazza, che gridò, evidentemente al pizzicotto di qualcuno. Passò più di un'ora
prima che la ragazza riuscisse a liberarsi dagli scherzi osceni e pesanti dei soldati. Quand'essa se ne
fu andata i soldati si misero a discutere animatamente fra di loro quindi, senza badare a noi, se ne
andarono a saccheggiare in qualche posto più lontano. Di lì a poco entrò di nuovo la ragazza, e si
mise a piangere. L'oste, ch'era evidentemente un suo parente, la prese sottobraccio, e l'accompagnò
fuori. Quando tornò ci guardava bieco. Gli facemmo capire che noi eravamo russi, non tedeschi.
Allora cercò di dirci qualcosa; ma noi, purtroppo, non capivamo niente del suo discorso. L'oste
rimase un pò sopra pensiero, quindi andò a chiudere la porta con il catenaccio e fece segno a noi di
seguirlo. Entrammo in una piccola stanzetta semibuia; e qui il padron di casa, un pò a gesti ed un pò
a parole, ci fece capire che quel giorno i tedeschi gli avevano ucciso un parente, e deportato un altro
in Germania. «Ora abbiamo gli stessi nemici da combattere », finì col dire pressappoco.
Così, con l'aiuto dei compagni italiani, riuscimmo verso sera a trovarci un ricovero sicuro.
Eravamo rifugiati presso parenti di Ivano Curti.
Secondo giorno di libertà. Il morale era altissimo e, nella nostra felicità di sentirci uomini liberi,
desideravamo tanto scendere fra la gente; ma il padrone di casa venne a dirci che i tedeschi
presidiavano tutte le strade, che bisognava perciò stare all'erta e farsi vedere il meno possibile.
Verso mezzogiorno, sul fienile dove noi eravamo, salirono due uomini. L'uno era un uomo anziano,
taciturno e dagli occhi attenti e strizzanti: egli era un vecchio antifascista, vicino di casa. L'altro era
un uomo alto e magro che aveva da poco passato la trentina; aveva le spalle puntute lo stomaco
incavato. Il suo magro viso, era simpatico e cordiale. Egli ci disse qualcosa, che capimmo
pressappoco così: «Quel che conta per noi, è di esservi amici!». Questi era Walter Corradini, (5) un
operaio che lavorava in un'officina di Reggio Emilia «Ci porse una pistola, che prese Danilo. «Ma
c'è di più, – ci fece capire Walter con larghi gesti – questa sera vi verremo a prendere per portarvi
presso compagni fidati. Viva la Russia!» (6). Quindi, dopo aver consultato un piccolo dizionario
tascabile che si era appena tolto di tasca, disse in russo: «Pie unyvat!» (7). A sentir ciò, ci
mettemmo a ridere, e Walter, tutto contento anch'egli, mi porse il suo dizionario russo –italiano.
«Bene, ora che avete tutto, vi lascio!», ancora scherzò nel lasciarci. A sera, come egli aveva
promesso, ci vennero a prendere. Il primo a partire fu Danilo, che andò con Walter Corradini. Di lì
a poco, anch'io fui chiamato giù dal fienile. Nel cortile stava ad aspettarmi un uomo che intravidi di
statura un po' inferiore alla media. Sotto la larga fronte, stava un viso calmo ed acceso, ed aveva le
mani robuste da contadino. Ai piedi aveva due scarpe rozze, tutte inzaccherate di letame.
Quell'uomo che avevo dinnanzi a me, non era nient'altri che Aldo Cervi, il futuro organizzatore del
distaccamento partigiano dei fratelli Cervi. Quando
mi misi in bicicletta, una donna mi porse il cappello del marito perché mi proteggessi dal sole
potente, solito in quelle zone d'estate.
Così lasciai la prima casa che mi aveva ospitato. Quindi abbandonammo anche la strada
massicciata, per introdurci in una stretta via ghiaiosa che si inoltrava fra i campi.
Ogni tanto si incontravano qua e là masserie; quale di un bel colore rosso scuro, quale dipinta di
marrone, e quale semplicemente grigia, come la polvere della strada. Me ne stavo pedalando
silenzioso e felice dietro Aldo, quando questi si voltò, e indicandomi con la mano una grande casa
bianca posta in fondo ad un viale di pioppi piramidali, mi disse in russo: «PomeScik!». (8) Dal tono
con il quale pronunciò questa parola, capii che per lui quella gente là era di troppo sulla terra.
La casa dei fratelli Cervi era un grosso fabbricato di mattoni, come se ne vedono spesso nelle
campagne della bassa pianura padana. Un grosso portico divideva la casa in due parti: da una
stavano l'abitazione civile e la cantina; dall'altra, le stalle con sopra il fienile.
Tutt'intorno ad essa si stendevano campi coltivati e attraversati da filari di viti ed olmi. In casa
Cervi ci si alzava presto al mattino. Appena il cielo si schiariva, si sentiva camminare in casa e
nell'aia. Chi andava a governare le bestie, chi aggiogava i buoi per l'aratura... Anche il più giovane
dei fratelli, Ettore, partiva con il trattore nei campi a prendere l'erba fresca. In casa le mogli di
Gelindo, Antenore, Aldo ed Agostino, non erano da meno; ognuna sbrigava le sue faccende, e prova
ne era il fumo del camino. Mentre l'una preparava la colazione, le altre andavano a mungere le
vacche, quindi scremavano il latte...
Cominciava a svegliarsi anche qualche bambino, (ce n'erano undici) e qui a prendersi cura di
loro compariva la nonna. I ragazzi più grandicelli si trovavano ovunque, sempre intenti a far
qualcosa: chi portava pietre nel recinto delle galline, chi era intento a risciacquare un grosso tino
dietro casa; altri miravano attenti il volo delle api, o seguivano il padre che governava il bestiame.
Anch'io non me ne stavo con le mani in mano. Andavo di primo mattino ad aiutare Ettore, a
:falciare e caricare l'erba nei campi.
Andavo con Gelindo ad inzolfare la vite, e con Aldo a raccogliere l'uva, che poi con Ferdinando
spillavo dai tini, trasformata in giovine vino.
Un giorno, stavamo vendemmiando, Ettore mi fece segno con la mano di andarmi a nascondere
presto. Arrivava un forestiero.
Vidi Aldo abbandonare il traliccio d'uva che stava vendemmiando, e recarsi ad incontrare con
l'uomo dietro un campo di granoturco. Venni poi a sapere che quell'uomo era il compagno «Eros»,
(9) futuro commissario politico dei distaccamenti partigiani della provincia di Reggio Emilia.
Una sera Ettore m'invitò ad andare al cinema. Questo era poco lontano, a Caprara. Non mi
sorpresi di trovarmi in mano una pistola. All'indomani seppi che quella sera, nella sala del cinema,
erano stati sparsi dei volantini.
Due giorni dopo, Aldo Cervi mi propose di andare con lui. Anche questa volta egli mi diede una
pistola, che doveva servire per ogni eventuale occasione. Dopo varie giravolte arrivammo ad una
casa di contadini, dalla quale poco dopo Aldo uscì assieme ad altri due: uno era un italiano di nome
Dante; (10) l'altro, di nome Jeppy, era un sudafricano fuggito dalla prigionia.
Da ciò cominciai a comprendere che anche la mia venuta in casa Cervi non era stata solo un caso
fortuito. Dopo aver desinato, d'estate, in campagna, si usa andare a fare un sonnellino. Vi andavo
anch'io e molte volte, durante quelle ore di riposo, veniva nella mia camera Gelindo, il più anziano
dei fratelli. Era un uomo straordinario, dai miti occhi eternamente socchiusi e dall'anima di poeta.
Un giorno mi portò un libro, sul quale stavano foto dei nostri immensi campi colcosiani. E,
dimentico ch'io capivo ancora poco l'italiano, si mise a raccontare con ardore di quando i contadini
italiani erano perennemente sottomessi ai padroni ed i loro figli non potevano andare a scuola...
Da Gelindo appresi tutta la storia dei fratelli Cervi. Sino al 1934 essi non
erano che una povera famiglia di mezzadri. Ma ecco che prendono un podere in affitto. Era un
affare avventato; perché il podere era trascurato e dava magri raccolti. I fratelli si misero con ardore
al lavoro: impiegarono le più moderne invenzioni di tecnica agraria, ed escogitarono un nuovo
sistema di irrigazione.
Dapprima i contadini vicini presero con sfiducia tutte quelle innovazioni;
ma quando videro i fratelli raccoglierne i primi frutti, pian piano cominciarono ad adottarle
anch'essi.
«Vedi, russo!» esclamava talvolta Gelindo mostrandomi con la mano i campi che si stendevano
oltre le finestre «La nostra forza ed energia viene di là, dalla terra...».
Gelindo mi disse pure che ad indirizzare gli altri fratelli alla lotta politica era stato Aldo quando
tornò dal carcere. Durante il servizio di leva, Aldo, posto di guardia a una polveriera, aveva sparato
contro un ufficiale che non aveva risposto alla parola d'ordine e per questo era stato messo in
prigione. Le carceri a quei tempi erano piene di antifascisti. Aldo trovò là i suoi maestri nei
comunisti, dai quali imparò che il fascismo opprimeva le forze più sane e genuine del popolo
italiano e che perciò bisognava combatterlo.
Tornato, trasmise queste idee ai fratelli, che si misero a frequentare le biblioteche, prendendo
libri di agraria, testi di economia politica che il regime sbadatamente aveva permesso, libri di Dante
e di Anatole France. Riuscirono a trovare anche i libri di Gorky, che parlavano con verità della
Russia e della sua rivoluzione.
Nei dintorni, la casa dei Cervi cominciò ad essere chiamata la casa dei «rossi».
Durante i momenti liberi i fratelli si riunivano per discutere assieme il da farsi, e non prendevano
decisioni se non quando erano tutti d'accordo; e a cosa decisa, ognuno la eseguiva sino all'ultimo.
A poco a poco, cominciai a capire di che essi parlavano. Spesso il loro discorso cadeva sulle
armi, ed anche su questo erano tutti d'accordo. Solo uno di essi, Antenore, un uomo pacato e buono,
il più corpulento dei fratelli e padre di numerosi bambini, se ne stava seduto in disparte su uno
stretto sgabello ad ascoltare gli altri con le mani congiunte, senza profferir parola: quali erano mai
le sue idee? Continuava come sempre a tirar su i figli, a far mobili, a seminare e fare i raccolti. Il
suo apporto alla causa, egli lo dava prendendo su di sé il maggior peso dell'azienda.
Spesso, in casa Cervi, si parlava anche della situazione venutasi a creare in Italia, a seguito degli
avvenimenti che in quei tempi inquieti si susseguivano alla velocità di un fulmine. Così venni a
sapere che il Maresciallo Badoglio, assieme a tutta la famiglia reale, era fuggito dagli anglo
–americani, abbandonando il paese e l'esercito (sbandato e demoralizzato) alla mercé dei nazisti,
che in breve tempo occuparono tutto il paese. Fu allora che le forze nuove e migliori del popolo
capirono che la salvezza e la rinascita della patria, stava solo in loro stessi. Sovente, durante queste
riunioni dei fratelli, si sentiva cigolare la porta, e sulla soglia appariva Alcide Cervi, il padre. Era un
vecchio ancor vegeto) con folti capelli bianchi; egli si metteva seduto in disparte ad ascoltare ciò
che dicevano i figli e nel suo sguardo brillava un grande orgoglio di padre, per aver allevato giovani
così forti e coraggiosi.
...Faceva caldo, ed un luccicante miraggio ballava là in fondo ai filari. Quel giorno a
vendemmiare con noi, vi era anche il sud –africano Jeppy. Ronzava il piccolo trattore, ed Aldo
cantava la sua canzone preferita «Vieni da me». Ad un tratto egli smise di cantare e mi chiese:
– Come si dice in russo «compagno»? –
– Tovàrisc, – gli risposi io.
Sulla carrareccia apparve Gelindo, che mi chiamò. Vennero anche gli altri e ci avviammo tutti
verso casa. Gelindo era contento: disse che aveva portato a casa
un prigioniero russo scappato ai tedeschi; era là che non voleva staccarsi dal pezzo di pane duro
che g1i avevano dato. Quando arrivammo, vidi sull'aia un florido giovanotto alle prese con un
pezzo di pane. Accanto a lui stavano un tascapane ed una maschera antigas.
– Anatolio, digli che le nostre donne gli stanno preparando del buon pane bianco e fresco, così
tra mezz'ora egli potrà mangiare sin quanto vuole.
Mi fece molto piacere parlare di nuovo con uno in russo, dopo tanto udire e parlare italiano,
lingua nella quale già cominciavo a sbrigarmela bene. Anche il giovanotto, che si chiamava Misa,
fu assai contento quando mi sentì parlare in russo.
– Quando son fuggito, – mi disse egli poi, – con me v'era un altro russo, che si è preso anche un
mitra. –
Informai della cosa Gelindo, che da instancabile ricercatore di prigionieri fuggiaschi qual'era,
avrebbe certamente trovato anche questi, che era Nikolàj Armeiev, nativo di Pènza.
Non passò molto tempo che anche noi ex prigionieri, prendemmo parte ad una prima azione: si
trattava di andare a liberare dalle carceri di Reggio Emilia, alcuni compagni colà imprigionati dal
regime fascista. Ma per cause ignote l'azione fallì. Per fortuna in città si trovavano gruppi di
clandestini ben organizzati, e Walter riuscì a nascondermi in casa di un contadino, appena fuori
città.
A me sembrava che quel contadino, che non mi rivolse parola mentre sbrigava i suoi lavori,
fosse comunista. Ma quando glielo chiesi, egli mi fece segno con la testa di no.
– Perché allora mi tenete nascosto? –
– Solo perché è stato Walter a portarvi qui; a lui non nego mai niente, perché so che è un onesto
e bravo ragazzo. E so anche, che Walter e Ferrari aiutano la causa dei contadini.
In questa casa vidi per la prima volta Lucia Sarzi, (11) la ragazza che aveva stampato quei
volantini, sparsi quella sera da Ettore Cervi, nella sala del cinema. Non molto alta, con un piacevole
viso ovale, Lucia Sarzi, senza accorgersene, si mise a raccontare con foga, velocemente, di come
loro comunisti facevano a lavorare in clandestinità. Attrice di una compagnia teatrale ambulante,
essa cercava con le parole di Shakespeare, di Goethe e di Gorkj, di infondere nell'anima degli
italiani la fiducia nella verità e felicità, prospettando loro come speranza di libertà, il primo stato
socialista del mondo: l'Unione Sovietica. Ed io per lei figuravo uno di quei russi che erano venuti ad
accrescere le file degli italiani che stavano lottando per realizzare quegli ideali di libertà, che l'uomo
aveva sognato da sempre.
Tale amore per il nostro paese, stimolava anche me a tener fede, con le azioni e col pensiero, agli
ideali della mia gente e della mia patria. Ma nei primi tempi che ci trovavamo in Italia, all'infuori
della casa dei fratelli Cervi, erano ancora poche le persone decise ad organizzate la lotta di
liberazione. Così, a poco a poco, la casa dei Cervi divenne un centro di organizzazione, dove la
gente veniva preparata anche per una eventuale fuga in montagna. Anche l'opera di livellamento
delle terre nel loro podere, diede ai fratelli un buon successo di migliori e più abbondanti raccolti.
La stessa opera attiva e concorde dei fratelli, servì come buon mezzo di propaganda per i contadini
del vicinato.
I Cervi avevano compreso che il livellamento dei solchi e dei colmi, non era solo una migliore
sistemazione dei campi, ma anche una vittoria sulle concezioni retrograde che lo stato fascista
aveva del mondo contadino. E questo esempio attirò alla lotta per un effettivo rinnovamento delle
campagne, molti altri contadini illuminati.
Aldo Cervi organizzò una biblioteca a Campegine. In essa si trovavano anche libri come «La
Madre» di Gorkj. Qualche tempo dopo il comitato clandestino inviò presso Aldo, per mantenere i
collegamenti, una famiglia di attori ambulanti, i Sarzi. Così i fratelli Cervi poterono avere
collegamenti con Bologna, Parma e Modena, e diffondere «1'Unità », giornale questo che diceva la
verità sulla Russia, tra l'altro che sotto Stalingrado era cominciata la disfatta dei nazisti e, di
conseguenza, anche quella dei fascisti italiani.
Così passò il mese di settembre. Ora, quasi ogni giorno, a casa Cervi giungevano prigionieri
fuggiaschi. Alcuni restavano, mentre gli altri, riforniti di vestiti e denari, proseguivano per cercare
di passare le linee del fronte.
A sera, attorno ad un piccolo tavolo di casa Cervi, stava riunita una grande famiglia
internazionale: russi, inglesi, americani. Tutti amici ed uniti da un unico odio contro il fascismo.
C'era chi cantava, e chi si raccontava l'un l'altro del suo paese.
Se per noi questa vita sembrava facile e comoda, non era così per la famiglia Cervi, che per un
mese dovette mantenere circa ottanta giovanotti dall'appetito robusto, bisognosi di scarpe e vestiti, e
di essere indirizzati lontano, oltre le linee del fronte.
Di essi, non tutti erano decisi a riprendere in pugno le armi; ma su questo
fratelli non sforzarono nessuno.
Finalmente giunse il tempo di entrare in azione.
Un mattino presto, sull'aia di Casa Cervi, era pronto a partire un carro carico di armi ed
approvvigionamenti, diretto in montagna. Guidava il carro Agostino Cervi, un giovane di ventisette
anni, che amava cantare. Ma ora egli era triste; a casa lasciava la giovane moglie con due bambine.
Egli le salutò con la mano, e, per coprire la commozione che gli serrava la gola, si mise a cantare
forte un ritornello; ed il carro partì stridendo verso gli azzurri Appennini lontani... A fare quel
viaggio eravamo in trenta: chi stava sul carro, chi lo seguiva in bicicletta, e chi a piedi attraverso i
campi.
Per preparare quel viaggio, i fratelli avevano percorso instancabilmente tutta la provincia, per
procurarsi biciclette, trovare guide fidate, ed assicurarsi rifugi sicuri da usarsi in caso di pericolo
imprevisto.
Noi stranieri, senza conoscere la lingua ed i costumi del paese, da soli non avremmo potuto fare
un solo passo...
Ma che succedeva là avanti? Il calabrese Dante aveva scorto due carabinieri e voleva disarmarli,
ma Agostino non fu d’accordo. Difatti i carabinieri, pur sapendo chi eravamo, si strinsero
istintivamente intimoriti al bordo della strada, senza chiederci i documenti.
Giunti a Compiano, trovammo già le montagne.
Il Monte Ventasso spiccava bene tra gli altri monti: la sua rocciosa vetta compariva e scompariva
tra le nubi. Eravamo da cinque giorni a Cervarezza, ma bisognava andarsene perché i fascisti erano
venuti a sapere della nostra presenza. Prima di lasciare il paese, devastammo il circolo dei fascisti.
Ed eccoci sul Monte Ventasso, presso una piccola chiesetta di pietra.
Il giorno era bello, non pareva che il giorno prima fosse spirato vento ed il cielo fosse stato
coperto da una coltre compatta di nubi grigio –lattee. I figli di Russia, Inghilterra, Sud –Africa e
Canadà, non usi a questo clima, si scaldavano al sole.
In un gruppo separato stavano seduti gli inglesi: alcuni di loro, evidentemente poco avvezzi a
quella vita dura, brontolavano con quelli che avevano preparato il cibo e guardavano con speranza
in direzione del fronte; ma esso era ancora lontano, oltre Napoli.
Un po' più distanti da loro stavano i canadesi ed i sud –africani, vicino ai quali Nikolàj il
«colcosiano» si aggiustava bofochiando gli stivali: dai colpi rabbiosi di martello e dall'attenzione
che ci metteva, si vedeva che proprio la vita di montagna non era fatta per lui. A dargli il
soprannome di «colcosiano», era stato Gelindo quando lo prese a lavorare con lui nei campi e lo
vide alquanto esperto in questo mestiere. Benché Nikolà.i non fosse stato mai in montagna,
sorprendentemente si adattò ben presto; s'arrampicava agilmente su per le montagne, aveva un forte
senso d'orientamento, ed era un infallibile scopritore di capanne di pastori. Accanto a me, sul
materasso preso dal circolo fascista che avevamo distrutto, russava beato e tranquillo MiSa. Quel
giorno egli doveva andare in cerca di pane, proprio in quel paese dove giorni prima avevamo
incontrato i carabinieri. E MiSa partì sicuro di farcela. L'altro Nikolàj, (12) che in seguito sarà
ucciso dai partigiani, aveva la tendenza a schivare i suoi per stare con gli inglesi. Si recava sovente
in chiesa e, chissà mai perché, aveva l'abitudine di tingersi i capelli di nero...
Tenemmo consiglio nella stanza posta di fianco alla chiesa, dove Lucia Sarzi cucinava le ultime
provviste.
Ormai era giunto l'autunno, ed i nostri vestiti non erano più adatti ad affrontare la stagione, e
tantomeno le scarpe ad affrontare la vita di montagna. Le armi erano poche; d'altra parte non si
poteva pensare di disfare il distaccamento.
Ma ecco, proprio nel bel mezzo della discussione, precipitarsi dentro un ragazzetto ansimante. Ci
disse, tutto trafelato, che a Cervarezza erano arrivati i fascisti per prendere i giovani del paese e
spedirli in Germania.
Ci mettemmo subito in cammino, tra pietre e ruscelli, senza badare a niente.
Ma a metà strada ci venne incontro un rappresentante del comitato comunista clandestino, che ci
ordinò di fermarci. (13)
– Fermatevi, compagni! –
E ci disse che, senza l'ordine del comitato, non potevamo attaccare i fascisti.
E perché mai? Noi andavamo a difendere dei giovani, tra i quali vi erano molti
nostri amici!
Allora ci spiegò i motivi della fermata.
– Lo so ragazzi che è duro per voi, lo sappiamo tutti! ...Ma la gioventù ad un nostro appello ha
già abbandonato il paese, quindi è assolutamente assurdo rischiare così il nostro primo
distaccamento. Non ne abbiamo il diritto. Sapete voi, ciò che succederà se per caso veniste
sconfitti? No, ora non vale la pena di correre tanto rischio; ci vuole più disciplina ragazzi! –
A sera Aldo e Lucia scesero a valle per incontrarsi con i compagni del comitato clandestino. (14)
Durante la notte, anche noi, affamati ed infradiciti, ci mettemmo in cammino per Cerré Sologno,
(15) dove dovevamo aspettare il ritorno di Aldo... Stavamo tutti in silenzio in un piccolo
seminterrato di una casa di contadini, a vedere se Aldo tornava. Tornò accigliato.
– Ho riferito al comitato che il nostro distaccamento è già pronto per entrare in azione; ed esso ci
ha dato il compito di saccheggiare la caserma dei carabinieri di Toano. – Ci disse Aldo guardandoci
attentamente ognuno. Io sul momento pensai, che andare a fare un'azione così lontano, sarebbe stato
ancor più difficile... Perciò, prima di muoverci, era meglio sentire il parere di tutti...
Bisognava decidersi presto! Tutto era calmo intorno, solo il vento faceva sbatacchiare sulla
finestra un pezzo di latta arrugginita. Dal semicerchio di gente silenziosa, si levò la voce di Danilo.
(Quello che più tardi in provincia di Reggio Emilia sarebbe stato chiamato col nome di battaglia di
«Modena») – Andiamo Mac –Sid, – cominciò egli rivolgendosi al gruppo degli inglesi.– Che?
Dobbiamo andarcene ancora? No, noi restiamo!– Quando sentì ciò, il viso di Danilo ebbe una
smorfia di collera.
Tornò di nuovo il silenzio, si sentiva solo il noioso frusciare del vento.
– Noi russi, – riprese Danilo – pur non avendo intenzioni di dividere il distaccamento... Abbiamo
deciso di andare, perché questa azione ci sembra giusta. Abbiamo assoluto bisogno di armi... – poi,
volgendo lo sguardo sulle scarpe sdrucite di Misa, aggiunse sorridendo – Ed anche di buone scarpe.
–
Il sentiero sassoso, si snodava tra grige e ripide rocce muschiose e a volte sui pendii era così
ripido, che anche i muli carichi ogni tanto dovevano sedersi sulle gambe posteriori. Tirava un rorte
vento; una pioggia fine e gelida, filtrava dalle nubi basse e dense che solcavano il cielo. Ed ecco
laggiù, diviso dal tumultuoso Secchiello, appariva il borgo di Gatta.
In testa alla colonna, con Aldo e la guida, stava anche Jeppy, l'inglese del Sud –Africa. Un buono
e solerte giovanotto venuto con altri due inglesi, che pure avevano rinunciato a passare le linee del
fronte.
– Aldo, per arrivare a Toano ci vogliono cinque ore buone di marcia, e per di più di notte:
arriveremo stanchi morti. Che ne dici, se ci procurassimo una macchina? – chiese Jeppy ad Aldo.
La colonna si fermò e s'uni tutta attorno a loro.
Aldo acconsentì; una macchina in quel caso sarebbe stata proprio quella che ci voleva.
– Laggiù sulla strada ne passano molte, – ci disse allora la guida. Jeppy Dante e Danilo, si
nascosero in una macchia, mentre noi pensavamo a sciogliere la balla delle armi. Quali armi
avevamo! Parevano state prese dal ripostiglio di un teatro. Un vecchio moschetto, una carabina
d'artiglieria, un fucile con baionetta, ma senza otturatore... E le pistole? Andavano da una piccola
rivoltella per signora, ad una enorme pistola del tipo di quelle che usava il Conte di Montecristo.
L'unica vera arma efficiente, era il mitra russo che Nikolaj il «colcosiano» aveva preso ai tedeschi
quand'era fuggito.
Dalla parte opposta si senti giungere il rumore di una macchina. Veniva veloce, ed eccola
imboccare il ponte... Vedemmo l'autista scendere con le mani alzate, e Danilo ritto sulla predella
che gli diceva qualcosa. Il motore si fermò. Jeppy si mise al volante e noi salimmo tutti sulla
vettura.
Da qualche parte cominciava già a giungere gente, ed il padrone della macchina dava segni di
impazienza. Ad un tratto il motore diede uno scoppio e s'avviò: Jeppy era riuscito a metterlo in
moto.
– Vi dico che è un vecchio carrozzone, che non va... – si mise a dire il proprietario – Vi avverto
che è una carcassa... – Lascia andare, hai un'altra bombola di gas piuttosto? – gli tagliò corto
Danilo.
–.Oh, madonna!... – balbettò l'italiano – Oh, Sant'Ambrogio! Sono solo un povero diavolo che
commercia di vino, ed oggi commerciar di vino è una miseria. Tutti bevono e nessuno paga!... Oh,
santi aiutatemi...
– E che ti possono fare ora i santi? – I santi signore, quando vogliono aiutano. L'ultima bombola,
l'ho... –
Venne presto sera, la gola dove noi eravamo cominciò ad oscurarsi, e sui pendii cominciarono ad
apparire qua e là timidi fuochi. Ad un tratto udimmo il leggero ronzio di un'altra macchina venire a
noi: la fermammo.
– Che volete? – chiese l'uomo al volante.
– La vostra macchina! –
– Ma voi, cari, scherzate! –
– A nu, vylezaj! – («Dai su, presto, scendi!»), gli disse allora in puro russo Misa; la frase fu poi
pronunciata con accento ancor più duro in inglese. Qui il proprietario della macchina comprese che
ad insistere aveva tutto da perdere, e decise di portarci a Toano.
Lo lasciammo al volante; ma con accanto Aldo Cervi.
– Quando tornate da Toano, – ci consigliò egli, – è meglio che prendiate la strada di Tapignola –
(16). Prima di giungere a Villa Minozzo, ad una svolta della strada dove era facile nascondersi,
fermammo la macchina, che sussultò.
Entrati a Villa Minozzo, scorgemmo nella piazza la caserma dei carabinieri. Sul portone di essa
stavano alcuni carabinieri, nelle loro eleganti divise nere, con le loro bandoliere bianche... Ad un
tratto l'autista, si mise ad andare velocemente con la macchina verso la caserma; ma Danilo svelto
gli puntò la pistola fra le costole, e con l'altra mano libera raddrizzò il volante.
– Ah, è questa la tua amicizia, eh! Ferma! –
La macchina aveva ormai oltrepassato il paese e si fermò.
– Ragazzi! Disse allora il grassone, padrone della macchina, con le labbra tremanti tra le gote
flaccide e pallide, poiché si vedeva già morto: Io scherzavo... – Un'altra volta quando vuoi
scherzare, va da tua suocera. Dai su, monta dietro! Jeppy si pose al volante e accese i fari. La luce
illuminò gli arbusti ai bordi della strada, che scendeva serpeggiando verso Toano.
Vicino a Toano, incontrammo due uomini in bicicletta; capimmo che le due cose che gli
balenavano ai fianchi, erano pistole. Di nuovo carabinieri! Passatigli dinnanzi, scendemmo facendo
finta di riparare il motore; e di lì a poco, i due carabinieri furono disarmati e caricati in macchina.
Entrammo in Toano con i fari spenti. L'osteria era piena di gente; ma nessuno badò a noi, che in
macchina stavamo preparandoci all'azione. Le finestre della caserma erano illuminate: sulla strada
vi era solo una donna con due secchie. Dante e il fratello di Lucia, Otello, andarono a bussare al
portone della caserma. Dopo un po', allo spioncino apparve un viso baffuto che chiese:
– Che volete? –
– Aprite, siamo soldati che siamo venuti a presentarci –
– Mostrate i documenti! –
– E quali documenti?
– Ma, ma... E basta, mostrateli! –
– Ma che vuoi, vecchio stupido! –
E siccome per lo più la gente non gradisce sentirsi dire dello «stupido» stridette il catenaccio e
sulla soglia della porta apparve tutto adirato il comandante; ma quando fece l'atto di afferrare la
pistola, era ormai troppo tardi. Anche carabinieri che si trovavano al piano di sopra furono disarmati
e portati giù.
– Non avete altre armi, sono tutte qui? – chiedemmo al comandante.
– Le altre sono nell'ufficio, dentro le casse. –
Andò Dante a prenderle. Egli vestiva un corto pastrano da cavalleria e sul berretto aveva una
stella rossa, da autentico partigiano!
Tutti quegli indumenti se li era procurati dal guardaroba teatrale della famiglia Sarzi. Quindi
Dante, mettendo una gamba in avanti ed una mano sulla fondina della pistola, in posa marziale,
disse ai carabinieri:
– Sapete voi chi servite? Voi servite una nuova repubblica sempre governata dai vecchi
parassiti... Ma ora siete in nostre mani... Via, march!, andatevene alla svelta! –.
Prendemmo tutte le armi e, distrutti i cavi del telefono, uscimmo in strada.
I forestieri che venivano a Toano erano subito notati dalla gente; soprattutto da quelli che
stavano seduti fuori, dinnanzi ai caffè. Noi immaginavamo ciò ch'essi pensavano: chi credeva che
fossimo badogliani; chi tedeschi; ed altri...
Ad ogni modo molte erano le congetture, ed eravamo certi che all'indomani, la notizia della
prima azione eseguita da un distaccamento partigiano, si sarebbe divulgata in un baleno per tutta la
provincia.
Dopo un'ora eravamo a Ca' Vecchi. (17)
... La strada dove avevamo lasciato la macchina era ormai lontana; ora camminavamo a piedi su
per un sentiero erto e sassoso. Lontano si vedevano brillare le luci di un paese. Dovevamo
raggiungere Aldo al più presto.
– C'è ancora molto ad arrivare?
– Ci vorranno ancora circa sei ore –
Tutti portavamo qualcosa sulle spalle; chi l'apparecchio radio, chi cassette di munizioni, che ogni
tanto ci passavamo l'un l'altro per riposare un po' le nostre schiene indolenzite. Era estremamente
faticoso camminare in quel modo, e per di più di notte, quando è difficile orientarsi e ti sembra di
cadere ogni momento. Ma non potevamo desistere, perché uno stava là ad aspettarci.
Giù, sul versante dell'altra montagna, vedemmo muoversi una fila di luci: che ci avessero
inseguiti? Arrivati in cima al monte, decidemmo di passare il resto della notte là; trovato un piccolo
valloncello accendemmo il fuoco. Al mattino ci trovammo immersi in una fitta e compatta coltre di
nebbia. Dante, Otello e Danilo, erano andati con la guida (18) a vedere se potevano
trovare il sentiero, e non erano ancora tornati. Noi nell'attenderli, ci mettemmo a pulire le armi.
Qualcosa volò via nella nebbia dai rami secchi di un albero.
– Non è successo come pensavamo... – si mise a dire come parlasse tra se Nikolaj il
«colcosiano» – Pareva che in un mese le montagne si dovessero empire di partigiani, ed invece
all'infuori di noi non se ne vede uno –. Voleva continuare, ma vedendo che gli altri tacevano, tacque
anch'egli e si mise a pulire la pistola.
Dopo poco si alzò Misa che, tutto assonnato, si mise sbadigliando a frugare nel suo tascapane,
dal quale non si era mai separato, né durante la prigionia, né dopo. Ne trasse fuori del pane ed un
piccolo pezzo di formaggio che rappresentavano le sue ultime riserve; e da buon compagno le spartì
con Jeppy.
Tornò la guida e ci disse che aveva smarrito il sentiero e non riusciva più a trovarlo, quindi
bisognava ancora tornare alla casa di contadini da dove eravamo partiti. Là trovammo anche Aldo
Cervi, che ci aveva cercato invano tutta la notte.
Andammo a riposarci in un piccolo fienile costruito con pietre, posto un po' più a monte della
casa; e siccome eravamo stanchi morti, crollammo subito in un sonno profondo.
La sera di quel giorno passammo qualche minuto di apprensione. I fascisti erano venuti a sapere
dove ci trovavamo, e partirono in colonna da Reggio per venirci a catturare. Scesi dalle macchine
con cui erano venuti, cominciarono a rastrellare i monti intorno: a Sologno, presso una casa,
trovarono le ceneri di un nostro bivacco, e arrestarono il contadino che ci aveva ospitati.
Intanto noi continuavamo a dormire...
Balzammo su tutti confusi, al risuono di parecchi spari. Il contadino, bloccato in casa dai fascisti
con i suoi, non aveva fatto in tempo ad avvisarci. Aldo allora ci disse di praticare parecchie feritoie
nel muro, dalle quali vedemmo i fascisti scendere dal monte proprio verso di noi. Ci preparammo a
dar battaglia; ma i fascisti non fecero caso al piccolo fienile, e si diressero verso la casa.
Ora eravamo padroni della situazione. Decisi ad entrare in azione, spalancammo la porta del
fienile; ma qui da un angolo sbucò il contadino, che ci disse tutto impaurito:
– Fermatevi. Restate dentro, che vi vedono! –
Qualcuno gli diede uno spintone, ma egli si mise ad implorare:
– Non lo fate... là ho la mia famiglia... lo so, e non sapete quanto me ne dispiaccia! – C’è ne
andammo di là, appena l'ultima macchina dei fascisti era scomparsa dietro una svolta. Questa volta
ci guidava Aldo Cervi. Dopo circa sette ore di viaggio arrivammo a Tapignola, che raggirammo per
giungere più presto alla chiesa di don Pasquino Borghi. Il prete, chiuso in una lunga sottana nera,
che pareva l'impacciasse alquanto nei suoi movimenti, ci accolse chinando un po' il capo a mo' di
saluto. Entrammo tutti in silenzio. Quel che mi colpì di più nel viso di don Pasquino, furono gli
occhi: essi ci studiavano attentamente da dietro le lenti degli occhiali, mostrando tutta la espressione
di un uomo aperto ed intelligente. La sua domestica, per nulla turbata della nostra presenza, si mise
a mettere in tavola, vino e polenta... Eccola che versa su una tavola d'assi, da un paiolo di rame, una
tonda gialla polenta, l'odore della quale stuzzicò ancor di più la nostra fame, aggravata dal lungo
viaggio.
Don Pasquino non si sedette a tavola, ma si affacendava anch'egli, per servirci nel migliore dei
modi. – Poveretti, quanto hanno fame! – continuava a dire; poi rivolgendosi alla domestica, disse:
– Porta ancora del formaggio, ed un'altra bottiglia di vino... Va a prendere anche quel salame che
è rimasto là... Quindi, chinandosi alla spalla di Aldo, gli sussurrò piano in un orecchio:
– Questi sarebbero russi, eh! Santa Madonna! Proprio quelli che i .fascisti dicevano barbari
asiatici; ora san qui con noi!... Non ti par strano tutto questo, Aldo? –
– Niente nella vita è impossibile don Pasquino. I cristiani sono assai più amici dei lavoratori, che
non i fascisti... La nostra amicizia esiste in tutto il mondo... –
Lo so, lo so dove tu vuoi arrivare... Be' oggi Aldo, t'ascolterò – e qui gli occhi di don Pasquino
brillarono maliziosi – Ma ora quel che è più evidente è l'appetito di questi russi... Non ti sembra? –
Noi, pur non afferrando tutte le parole del discorso, ne capimmo il concetto e ci mettemmo a
ridere; e così fece don Pasquino. Dopo cena egli ci invitò a seguirlo, ed ecco che ci troviamo in
chiesa; qui qualcuno tossicchiò imbarazzato. – I russi non credono in Dio, eh? – disse lui sorridendo
– Ciò è un grande peccato, perciò li mando via...
Qui sparì tutto il nostro momentaneo imbarazzo.
Don Pasquino si sedette quindi all'organo, da dove si levò un triste e solenne corale. Ai primi
accordi, lo vidi rivolgere il viso verso l'alto, e gli occhi farglisi umidi... Di tanto in tanto stringeva le
labbra in preda a tanta commozione. Quindi, piegando un po' di lato la testa, smorzò con le dita, la
finale sui tasti.
Dopo una breve pausa, riprese con vigore a suonare: ed io di botto mi sovvenni che quelle erano
le note della vecchia canzone dei proletari italiani: «Bandiera rossa», che avevo udito spesso cantare
in casa Cervi. Questo prete, che prima di pensare a se stesso, si rivolgeva ai giusti bisogni degli
altri, pagò poi con la vita la sua devozione al popolo: difatti, il trenta gennaio, una scarica fascista
fermò per sempre il suo cuore generoso.
Notte, in una camera posta al piano superiore della canonica. Sdraiato sulla paglia, con la mano
sotto il capo a mo' di guanciale, russava leggermente Danilo: la sua camicia quadrettata ormai quasi
senza bottoni, era tutta bucata e stinta dall'uso e dal tempo.
Accanto a lui stavano Nikolaj il «colcosiano», e tranquillo come sempre, con la testa appoggiata
al suo inseparabile tascapane, dormiva Misa. Otello, il fratello di Lucia, si frugava attorno
assonnato, in cerca di una cintura per la rivoltella; quindi tornò di nuovo la calma.
Nessuno allora si immaginava che presto,in quella stessa casa dove quel giorno avevamo
ascoltato le dolci note dell'organo,sarebbe risuonati il sibilo delle granate ed il fischio delle
pallottole.
A dormire là, c'era anche Dante, dal destino simile al mio: di fatti tutti e due saremmo stati
portati al carcere di Parma, da dove lui poi fuggito. La morte l'avrebbe incontrata dopo, tra i monti
di un'altra provincia.
Jeppy tornò dal turno di guardia, e s'andò a coricare vicino all’altro inglese,di nome Basti. Ora
era il mio turno. Nella camera tornò di nuovo la calma. Là stavano gente di varie
nazionalità,ideologie, credenze religiose; ma eravamo uniti da un solo spirito, quello della libertà.
Dopo la guerra,ci saremmo ricordati di questa amicizia, nata durante la, lotta su questi monti?
Tornò Aldo Cervi; se n'era andato per allacciare collegamenti con gruppi di altre zone,
Anche adesso, a volte, mi pongo questa domanda: – Se noi non ci fossimo stati; sarebbe stata
bruciata lo stesso, casa Cervi? –. Ma poi mi sovvengo di quel che diceva Aldo a proposito dei
compagni si trovavano nel bisogno: così, come i fratelli Cervi avevano visto noi, nella nostra
situazione Aldo diceva: – A che valgono allora gli anni di preparazione clandestina, costruita giorno
per giorno, se quando è ora di agire ci si ritira?! –. Aldo vedeva più lontano di noi. Egli solo,
contadino rivoluzionario, aveva capito il mondo era fatto di gente che, presto o tardi, sarebbe
entrata in lotta anch'essa per avere una vita più libera e felice.
Aldo non pensava al suo avvenire, ma all'avvenire di tutta l'Italia, dove non ci sarebbero state più
fame miseria e morte; ma solo il diritto di ogni cittadino di vivere secondo le sue aspirazioni in
giustizia e libertà.
Ecco perché il distaccamento partigiano dei contadini emiliani fratelli Cervi, si trovava là sui
monti, nella casa di don Pasquino Borghi.
Il vento della strada faceva sbattere le finestre, dove le gocce di pioggia, rotolavano giù per i
vetri, come lacrime. Si spense la candela, del tutto consumata. Fuori, qualcosa infuriava nel vento;
di sicuro un albero.
Sui monti era giunto il pieno autunno.
Per agire meglio, il nostro distaccamento aveva deciso di dividersi in due gruppi: del primo che
doveva scendere a valle facevano parte: Jeppy, gli altri due inglesi. Dante ed io; dell'altro, per il
momento rimaneva in montagna, facevano parte Otello Sarzi e tutti i rimanenti russi e italiani.
Partimmo dal prete in una sera d'ottobre; lo salutammo là accanto alla Madonna di pietra, vicino
alla sonante sorgentedal1'acqua limpida e fresca.
Scendeva il crepuscolo, e sulle case si stendeva un lieve filo di fumo. La sera era serena e senza
vento, meravigliosa, Nel paese v'era gente, e dei ragazzi sì rincorrevano. Uno stava sbraitando ad un
asino sovraccarico. I contadini stavano tornando dai campi, ed un monaco procedeva solenne, come
astratto dalle cose intorno. Dal campanile suonò dolce e lenta « 1'Ave Maria», ed in cielo s'accesero
le prime stelle.
Il nostro piano era quello di procurarci un'automobile, e con questa scendere a valle senza fard
notare.
Ma purtroppo l'unica macchina che incontrammo quella sera fu quella del medico del luogo. Ci
scusammo con lui e continuammo a proseguire a piedi. Verso la mezzanotte arrivammo alla casa di
un contadino che già conoscevamo (era quello che ospitò nei primi tempi in montagna il
distaccamento Cervi).
– Avete sentito? – ci disse egli appena fummo entrati nella stalla – I badogliani sono apparsi in
montagna, ed hanno disarmato e preso tutto ai nostri carabinieri... – E si mise a raccontare,
esagerandone molti particolari, nient'altro che l'incursione che noi avevamo fatto alla caserma dei
carabinieri.
Ad un tratto vidi Dante porre mano alla pistola. Era entrata la figlia del padrone di casa. Il
vecchio le prese di mano la roba da mangiare che aveva portato, e spingendola verso la porta le
disse: – Vattene, che qui non son cose per te – quindi rivolgendosi a noi: – E voi che pensate di
fare? Passare al di là del fronte? –
– No! –
– Ed allora dove? –
– A valle –
– In pianura?–
– Si, ma in Svizzera–
– È una cosa ben pensata... Ma sarà difficile... Beh, speriamo che Dio vi aiuti... Quando ci
mettemmo a mangiare, il padrone di casa chiamò in disparte Dante. Andò Jeppy, che gli disse: –
Non preoccuparti padrone, domani ce ne andremo... –
– Il brutto è che cominciano a muoversi le camicie nere, e so che esse non sono tanto dolci, con
quelli che danno asilo e da mangiare ai prigionieri... Ed ho tanta, tanta paura! – Quindi dopo averci
dato la buonanotte, uscì, borbottando una preghiera.
Molti guai doveva poi subire in seguito quel montanaro, a causa dell'aiuto che ci porgeva. Ma
passata la paura del primo momento, si abituò in seguito alla nostra presenza, e cominciò anch'egli a
maledire i fascisti ed i tedeschi, che venivano spesso a saccheggiare il suo paese.
Appena fu l'alba, ci accingemmo a lasciare la sua casa.
– State attenti... – ci disse egli nel salutarci – Oggi qui da noi è grande festa, è il giorno dei morti;
perciò per le strade vi sarà molta gente... – Era ormai quasi mezzogiorno e non avevamo ancora
trovato una macchina che facesse per noi.
A Ciano vedemmo una bella e lussuosa «Alfa Romeo», ma dovemmo pasarle accanto senza
toccarla, e per di più uno alla volta, perché poco lontano sostavano alcuni carabinieri: e noi
dovevamo innanzi a tutto pensare alla nostra salvezza personale.
Finito l'ultimo agglomerato di case, cominciammo a vedere ricche ville con folti parchi, dinnanzi
alle quali stava gente tutta vestita festa, che al nostro passare ci guardava con sospetto e subito si
metteva a bisbigliare.
Qui accadde un piccolo contrattempo: Dante voleva chiedere a un gruppo di giovani vestiti
elegantemente che incontrammo, dove portava quella strada; e per galanteria si rivolse ad una
ragazza del gruppo: qui un bellimbusto, che evidentemente voleva far bella mostra di sé, prese la
ragazza sottobraccio e la tirò via da Dante che, italiano anch'egli e per di più calabrese, prese
immediatamente fuoco, e s'avventò sul giovanotto. Visto ciò, accorremmo anche noi, ed
evidentemente, anche se i nostri vestiti erano laceri e sporchi da farci figurare vagabondi, le nostre
spalle larghe e robuste fecero effetto sui damerini, che si placarono all'istante.
E così anche quell'episodio ·finì romanticamente, con gli occhioni delle ragazze che ci
guardavano ammirati.
Ma quell'insignificante fatto, ci fece anche capire quanto a volte vale esser ben vestiti. Ed i nostri
cinque vestiti erano così malandati, che a cucirli assieme era difficile ricavarne tre decenti.
Jeppy, Dante ed io camminavamo al centro della strada; Basti e l'altro inglese ai bordi.
Non avevamo ancora lasciato Montecchio, che udimmo venire il rumore di una macchina; ed
eccola svoltare velocemente proprio verso di noi. Noi avremmo preferito che andasse a benzina, e
quella aveva le bombole del gas; ma che si doveva fare... E di lì a poco, il padrone dell'automobile,
s'affrettò a darci il volante in mano.
S'avvicinava il XXXVI anniversario della Grande Rivoluzione d'Ottobre. Così noi decidemmo di
commemorare questo grande giorno, con una azione partigiana. Il nostro intento era di dare l'assalto
ad un'altra caserma di carabinieri, per arricchire la nostra provvista di armi. Quest'era la prima
azione che nostro gruppo faceva di sua iniziativa, perciò bisognava prepararsi bene. Quindi Aldo
Cervi, Dante ed io, ci mettemmo in viaggio di perlustrazione per vedere dove svolgere meglio
l'operazione.
Verso mezzogiorno io e Dante, in bicicletta, arrivammo ad una piccola frazione vicino a Reggio.
(19) E siccome per strada non avevamo incontrato nessuna pattuglia, lasciammo le biciclette in riva
alla strada, ed entrammo in un caffè. Pochi furono gli avventori che ci prestarono attenzione,
quando sedemmo a un tavolino.
Dante si chinò a me, e mi sussurrò in un orecchio: – Il padrone qui è uno dei nostri –. Mi rivolsi
e lo guardai furtivo. Egli, come tutti i padrini di caffè del mondo, là al banco pareva un re sul trono,
e pareva che considerasse i clienti Suoi sudditi.
Sul vano della porta si stagliò la magra figura di un vecchio. Salve! – diss'egli al padrone del
caffè. – Ogni giorno diventi più grasso oh! Se tu avessi la testa sviluppata come la pancia, tutto
andrebbe bene in Italial –
Poi il vecchio, che evidentemente aveva un carattere allegro e burlone, si mise nella posa
preferita da Mussolini, con il petto in fuori ed il mento alzato; quindi levò il braccio in un saluto
romano. Nella sala s'udi ridere.
Quel vecchio mi portava alla memoria un vecchio cosacco ucraino di un racconto di Gogol:
anch'egli burlone e sagace.
Ed ecco, come se ci avesse notato solo allora, si stiracchiò i baffi e venne a noi:
– Oh, guarda chi si vede qui, Dante!... ed allora come va? Andiamo bene?
– Vieni, siedi che beviamo. –
– Va bene, ma pago io. –
Intanto il vecchio pareva che chiedesse con lo sguardo a Dante: Chi è costui con te?
– Non aver paura, – gli disse Dante, – questo è un mio amico russo –
– Un russo dell'Unione Sovietica? –
Evidentemente al vecchio la cosa fece effetto perché restò lì incredulo, senza finire di vuotare il
bicchiere. Solo quando Dante gli spiegò meglio chi ero io, tornò il sorriso sul suo volto e cominciò
a dire:
– Le armi ci sono. Nella Caserma prestano servizio sette uomini; ma a sera rimangono solo
quelli di guardia. A volte vengono anche tedeschi; ma quelli vengono più che altro per bere vino...
Al momento nessuno vuol entrare nella «Repubblica di Salò»... Agite pure ragazzi con tranquillità,
perché all'evenienza, noi siamo pronti a venirvi in aiuto! –
Dopo aver sentito ciò che ci interessava, uscimmo dal caffè e facemmo ancora una volta il giro
dell'abitato. Volevamo vedere bene come era fatta la caserma: ess'era un edificio a due piani, con
basse finestre sbarrate da inferriate, e sulla porta massiccia s'apriva uno spioncino. Poi, sempre
pedalando piuttosto veloci, prendemmo la via del ritorno.
Qui incontrammo un milite. Dante, senza dir parola, si fermò e lo prese di mira: evidentemente
egli, con quel guerriero fasullo, voleva saldar vecchi conti che aveva con i fascisti. Quando io vidi
che il suo caldo sangue calabrese stava per avere il sopravvento, tentai di persuaderlo dicendogli
che questo non entrava nel nostro piano d'azione.
La sera del 6 novembre, tutto era pronto per agire. Io e Jeppy muniti di documenti falsi, eravamo
vestiti da tedeschi. Sulla macchina,per il caso che non andasse a benzina, avevamo installato anche
una bombola di gas.
Nostra intenzione era quella di schivare Reggio; (20) ma non avevamo fatto ancora in tempo a
lanciarci in velocità, che incontrammo una ronda di militi.
– Non fermiamoci! – gridò Jeppy, ed accelerò.
I militi si posero in mezzo alla strada con i fucili spianati, ma quando videro che sulla macchina
vi erano dei tedeschi, non osarono fermarci. – Cosi va bene, molto bene! – disse ridendo Dante.
Tutti sentimmo un gran sollievo in cuore. La velocità faceva sibilare le
cose a cui passavamo accanto: gente, alberi, case. Svoltati in una strada laterale, diminuimmo la
velocità e, giunti su di un ponte da dove si scorgevano l'abitato e la caserma da assalire, ci
fermammo. Scesero Dante, Basti e l'altro inglese: essi ci dovevano aspettare qui in un posto
convenuto, quando noi saremmo tornati con la macchina piena di armi e carabinieri.
Rimasti in due, io e Jeppy, procedemmo; entrati nell'abitato con i fari spenti, ci andammo a
fermare proprio dinnanzi alla caserma. Saliti i gradini che portavano alla porta, bussai. Dal di dentro
s'udirono venire dei passi. Qui Jeppy, lasciando il motore della macchina acceso, venne su con me.
– Chi è là? – s'udì gridare dietro la porta.
– Ohé, apri! Dov'è il maresciallo? – chiesi io facendo di proposito la voce gutturale. – Non
capisco niente di quel che dite, – disse il carabiniere aprendo il –finestrino dello spioncino, e
quando vide le nostre divise tedesche, si mise a dire: – Oh, signore... scusatemi, ma io non capisco
il tedesco... Il maresciallo ora è al cinema, ma tornerà presto.
– Ci siete solo voi in caserma? –
– No, ci siamo in due, io e il brigadiere. –Vallo a chiamare, e digli che venga con noi in
macchina e ci porti presto dal maresciallo. Su, svelto! – Di lì a poco, il brigadiere che aveva l'ordine
di mettersi ad ogni momento a disposizione dei tedeschi, era sulla nostra macchina.
Quando arrivammo al centro, dinnanzi al cinema, la proiezione era appena finita e la gente stava
riversandosi sulla piazza. Qui il brigadiere, visto il suo superiore, lo chiamò.Il maresciallo
s'avvicinò a noi con fare altero; ma quando vide le nostre divise, il suo fare divenne subito
mansueto ed il suo dire servile.
– In che posso servirvi, signori? –
– Oh, in niente, o molto poco – gli dissi io – Ci accorrerebbero i vostri
uomini per sorvegliare le strade. Lo saprete che domani è la ricorrenza di una grande festa per i
comunisti, vero? –
– Oh no, signore... non lo sapevo. Ma quali comunisti vuole che ci siano qui?! – Intorno a noi
cominciava a radunarsi una folla di curiosi, che il maresciallo smarrì presto. E noi due, intanto,
cominciavamo ad entrare nella parte. Quando tornammo alla caserma e fummo entrati nell'ufficio, il
maresciallo riprese il suo fare altero da superiore.
– Avrete certo dei documenti di testimonianza? –
– Sicuro, abbiamo l'ordine firmato dal nostro comando. –
Mentre il maresciallo guardava attentamente i nostri documenti, nella stanza si fece silenzio. Poi,
evidentemente persuaso alla vista del timbro con l'aquila tedesca, chiese:
– Allora, che volevate dalla mia guarnigione? –
– Ve l'ho già detto: tutti voi, sino a domattina, dovete restare a nostra disposizione. Ho l'ordine di
condurvi sani e salvi al nostro comando di Reggio. – Capisco, ma prima devo avvisare della cosa i
miei superiori. – Non preoccupatevi di ciò, maresciallo! A questo ci penserò io, dato che l'Italia ora
dipende dal nostro führer! –
Passammo quindi tutti e tre nell'anticamera dove si trovava l'apparecchio telefonico. Si udì
rispondere una voce femminile; evidentemente quella della telefonista che passava la linea al
comando. I nervi erano tesi allo spasimo. Ad un tratto, quando ogni cosa sembrava perduta, mi volsi
al maresciallo chiedendogli di portarmi i nostri documenti che aveva lasciato sul tavolo della
cancelleria. Ed intanto che il maresciallo andava solerte, ancor più svelto Jeppy staccò i fili
dell'apparecchio.
Il maresciallo, convinto che io nel frattempo avessi «parlato» al suo comandante, tornò a:quanto
sereno. Intanto giunsero anche gli altri carabinieri.
– Ah, ecco la vostra armata! Bravo maresciallo! – gli dissi io: Jeppy uscì un istante,poi rientrò e
mi sussurrò in un orecchio:
– Si è fermato il motore della macchina –. Il nostro attimo di smarrimento fu notato dal
maresciallo, che da vecchio militare come era, divenne sospettoso, e cavò fuori la pistola.
– Oh, che ottima pistola che avete, – lo prevenni io, fingendomi sorpreso, – Ne abbiamo due
anche noi, tutte e due «Berretta» un regalo di nostri amici italiani! –
– Scusate signor sottotenente, ma vi vorrei un'ultima cosa; che mi faceste una dichiarazione su
carta, del prelievo dei miei uomini. –
Ciò lo feci con molto piacere, ed il motivo ce lo scrissi in russo.
Egli prese il foglio e lo pose con cura nel cassetto suo tavolo.
Eravamo già in macchina pronti a partire,che il motore non volle saperne di mettersi in moto;
nemmeno uno scoppio partì da esso. Qui il maresciallo espresse l'opinione di andare a chiamare un
meccanico.
–Abita lontano? –
– No, qui all'angolo... Svelto lo vada a chiamare! –
Io nel frattempo, vedendo che se il motore non partiva vi era il pericolo di restare là, mi ero
messo a bestemmiare ed a imprecare in tedesco. Dopo circa sei sette minuti, giunse il meccanico.
Egli senza tener conto della mia fretta, si mise con calma a guardare il motore quindi, capito dove
era il guasto, alzò il cofano.
– Aprite l'aria! – disse a Jeppy, che subito lo fece.
Il meccanico intanto sempre con calma, prese di tasca le sigarette ed i fiammiferi, ne accese uno,
e lo avvicinò al carburatore; il gas arrivava, ma la fiamma era debole.
– Aspettate tre minuti, e tutto sarà a posto. –
Difatti, poco dopo provò con un altro fiammifero, e la fiamma nel carburatore s'accese,
azzurrognola e perfetta. – Mettete in moto! – Ed il motore partì scoppiettando. Quindi dopo aver
percorso circa due chilometri, con buona maniera chiedemmo ai carabinieri di darci i loro vestiti e
le loro armi. (21)
Più tardi venni a sapere che il meccanico, che ci aveva aggiustato la macchina quella sera, era un
nostro compagno. Gli amici di Aldo Cervi si trovavano ovunque. Senza di loro non avremmo potuto
far nulla, proprio come quella volta che eravamo rimasti bloccati con la macchina.
L'assalto dei partigiani alle caserme dei carabinieri ed il sequestro delle macchine, spaventarono i
fascisti, che cominciarono a prendere severe misure contro di noi.
Quel giorno Aldo tornò tardi. Era stanco, ed era evidentemente preoccupato di qualcosa,
perché stette allungo sulla minestra prima di mettersi a mangiare. Quindi socchiudendo un po' gli
occhi scuri, disse:
– Oggi in città, i compagni mi hanno detto che un nuovo distaccamento è già pronto per andare
in montagna. –
– Quindi, dobbiamo tornare anche noi lassù? – gli chiedemmo.
– Ora la cosa non è così facile come prima, – disse Aldo, parlando un po' lento – in montagna
adesso ci sono molti fascisti. Essi hanno ricevuto l'ordine dai tedeschi di reprimere spietatamente
con ogni mezzo. E dappertutto in provincia vi sono dei provocatori che fanno la spia... Mi sono
procurato un buon carburatore, perché domani bisogna andare in montagna a prendere le armi dove
le abbiamo lasciate, da consegnare poi al nuovo distaccamento –. Dopo una breve pausa, egli
riprese con volto più sorridente: – Ci sono anche buone notizie: in Piemonte i partigiani controllano
già alcune zone della montagna, e nelle provincie di Bologna, Modena e Parma, si stanno formando
dei distaccamenti partigiani.
Queste notizie ci rianimarono dal cupo sconforto portato dalle prime: perché se lotti solo, il
significato delle tue azioni non può essere che marginale, ma se il fuoco della lotta si spande
ovunque, anche la tua fiamma acquista un valore particolare.
All'indomani, quando partimmo, sulle montagne v'era già la neve. Appena passato il paese, le
montagne cambiarono aspetto: le alte vette si perdevano nel cielo fosco dove a tratti appariva la
luna. Spirava un forte vento, che sibilava facendo vorticare la neve. Sembrava di andare su una tetra
senza confini. Ed eccoci a Cervarezza. Svoltati per un piccolo viottolo, Dante smontò e si diresse
verso la casa del compagno che ci aveva tenute nascoste le armi. Di li a poco tornò e ci disse:
– Ci sono i fascisti in paese... – Caricate alla svelta le armi, riprendemmo subito la strada. Alla
nostra destra si vedevano brillare luci di lanterne, e s'udivano grida... Siccome questa volta la
macchina andava a benzina, Jeppy accelerò al massimo. Inseguiti da continui spari, senza pensate
che potevamo precipitare in un burrone, riuscimmo a nasconderei dietro la prima svolta. Il nostro
pensiero era uno solo: quello di evitare imboscate a Castelnuovo; quindi con pistole e bombe a
mano fuori dagli sportelli della macchina, ci lanciammo a tutta velocità per il paese. E quel gesto
disperato ebbe un esito felice.
Quel viaggio movimentato, ci fece riflettere: se dovevamo tornare di nuovo in montagna, ci
volevano scarpe e vestiti più adatti ai rigori della stagione. E per procurarci tutta questa roba ci
volevano dei soldi. Così il nostro gruppo si mise all'opera.
Una sera ci mettemmo di nuovo in macchina; questa volta io e Jeppy eravamo vestiti da ufficiali
inglesi. Dovevamo far credere ad un ricco signore, che eravamo due ufficiali inglesi paracadutati
per prendere collegamenti con i patrioti, e che ci eravamo trovati in ristrettezze di mezzi.
... La villa del signore prescelto... Io e Jeppy lo seguimmo attraverso un piazzale che portava al
suo studio. Dante, Basti e l'altro inglese rimasero alla villa. La cosa pareva ormai sicura. Sarebbe
stato l'affare di pochi minuti: ricevuto il denaro, felici, ce ne saremmo tornati in macchina alla
nostra base.
– Contateli, signori, – incominciò a dire il padrone di casa, estraendo dal portafoglio, che gli
aveva portato il cassiere, due pacchetti di banconote – ora mi lascerete spero, una ricevuta per il
denaro... – disse egli ingarbugliandosi un po'.
– Ciò s'intende, molto giusto! –
Il cassiere preparò carta penna e calamaio, tutto era pronto per la firma.
Ma Jeppy non fece in tempo a ficcarsi in tasca il denaro, che s'udì il rombo di una macchina.
Allarmati, uscimmo tutti e due in strada, seguiti dal padrone. La prima cosa che facemmo fu quello
di guardare sulla destra dove avevamo lasciato la macchina. Ma quel che vedemmo, furono degli
uomini che saltavano giù da un camion. La luce delle loro pile tagliava nettamente a fette l'oscurità
intorno. Erano proprio i militi! Pensai sull'attimo: – Bisogna che spari subito! Nella villa ci sono
Dante e i due inglesi, e Jeppy deve andarsene con i soldi –. Levai la pistola e sparai, gridando: –
Jeppy, fuggi, mentre io li tengo fermi! –
Attraversammo di corsa il piazzale, e Jeppy riuscì a scantonare all'angolo. Cominciò
l'inseguimento. Vedevo muoversi nell'oscurità le nere ombre dei fascisti. Scaricai di nuovo la
pistola, ed i militi rallentarono un po' l'inseguimento. Scantonai a destra; ma ad un tratto sentii
mancarmi la terra sotto 'ai piedi e caddi in acqua. Questo dove era caduto era uno di quei canali che,
coperti nel centro abitato, s'aprono appena fuori dell'agglomerato. Uscito dall'acqua, mi tolsi il
mantello, e corsi lungo la sponda del canale, con le pallottole che mi fischiavano sulla testa.
Incontrai un recinto di filo spinato; vi gettai sopra il mantello e lo scavalcai. Un attimo dopo ero in
mezzo ai campi.
Nella cittadina si sentiva ancora sparare. – Come se la saranno cavata i ragazzi? – Questo
assillante pensiero mi impediva di allontanarmi da quel posto; come se restando là avessi potuto
meglio aver notizie sulla sorte dei miei compagni. Verso il mattino, stanco da non reggermi in piedi
e tutto fradicio, cercai di andarmi a scaldare, ficcandomi tra la paglia di un fienile posto sopra a una
grande stalla. Tra la veglia e il sonno vedevo tutto duello che era capitato la sera prima. Che ne era
successo di Dante, di Jeppy e dei due inglesi? Erano riusciti a fuggire, od erano stati uccisi?... No,
non potevo dormire. Discesi la scala a pioli, ed entrai nella stalla dove, allume di una lampada a
carburo, due donne stavano chinate a mungere. Evidentemente avendomi visto, sulla porta della
stalla apparve anche il contadino.
– Abbiamo di nuovo ospiti. – Disse egli con calma alle due donne.
La ragazza mi guardava con interesse.
– Inglese? –
– Tu pensi solo agli inglesi, – la redarguì la più anziana, che evidentemente doveva essere la
madre. – Dove vi siete bagnato così? – riprese la ragazza. Qui il contadino guardò di traverso la
figlia. – E smettila con queste sciocche domande... Vagli a prendere piuttosto qualcosa da
mangiare! –
La ragazza se ne andò, ed io restai solo con il contadino.
– Passate pure là in fondo, – mi diss'egli indicandomi con una mano l'altra parte in fondo alla
stalla.
Quel giorno, che io passai tutto nella stalla, la ragazza tornò di nuovo da me tutta ben vestita e
pettinata; era evidente che le interessavo, ma io in quel momento non pensavo che a raggiungere
casa Cervi al più presto. Il contadino voleva che passassi da lui anche la notte, ma io gli dissi che
avevo fretta di arrivare in montagna. Poi, come per caso, gli chiesi:
– È lontano da qui Campegine? –
– Ci saranno circa quaranta chilometri. –
La voce della sparatoria della notte prima era giunta anche là. Si diceva, evidentemente
esagerando, che vi era stata una vera battaglia con molti feriti. Prima di partire, dato che non ero
molto pratico dei luoghi, il contadino mi propose di farmi accompagnare dal figlio. Ringraziai tutta
la famiglia, ed in particolare la giovane ragazza, che si era prodigata tutto il giorno per me.
– Sapete che un altro vostro compatriota le ha lasciato l'indirizzo? – intervenne qui il fratello; poi
continuò celiando – Con lui s'è pure fidanzata! – E smettila di scherzare, – gli disse la ragazza
facendosi di porpora. –
Da quale parte dell'Inghilterra venite? – quindi mi chiese.
– Da Londra. –
– Oh, quant'è bella e lontana! –
Ciò mi dimostrò che essa consultava spesso la carta dell'Inghilterra, paese che non solo a essa,
ma anche a tutte le figlie ragazze figlie di poveri mezzadri come lei, prospettava loro un avvenire
più ricco e felice. Ecco perché lei si interessava tanto ai giovanotti inglesi; sperava di poterne
sposare qualcuno e fare così una vita più bella ed agiata della sua. Con l'aiuto del figlio del
contadino giunsi nei pressi di Campegine: qui potevo arrangiarmi da solo. Presi la bicicletta ad un
giovanottello che incontrai per strada: dovevo scusarmi, ma avevo molta fretta di incontrarmi con i
miei compagni.
Dapprima mi diressi verso il quartiere dove abitava Walter Corradini poi, sovvenendomi che
Walter era spesso disturbato dalla polizia, convenni che non era molto indicato andare da lui. Così
decisi di andare da Ferrari. (22) Bussai. Mi vennero ad aprire. Ferrari mi conosceva già, per avermi
visto altre volte. Egli mi disse che non era prudente ospitarmi in casa sua, perché era spiato e io
potevo essere visto. Quindi mi accompagnò in quella casa dove passai la notte quando fuggii dalla
prigionia. – E a Campegine come va, tutto bene? Che dicono i nostri dell'accaduto di ieri sera? –
chiesi·impaziente a Ferrari. – E che vuoi che dicano? Fin'ora nessuno sa niente, – mi rispose egli –
Sono stato al comitato, ma anche là niente. Eh, voi giovani, avete troppa fretta... – Avuta
assicurazione che non era successo niente di grave, mi misi a raccontare a Ferrari l'accaduto della
notte prima.
– Il comitato non è d'accordo con il vostro modo di agire, – mi disse poi Ferrari – Non è giusto
che ogni azione la faccia sempre il distaccamento dei fratelli Cervi. –
– Ma qualcuno bisogna pur che ci sia che le faccia, non ti sembra? –
– Siete troppo spericolati. –
All'indomani, con Walter Corradini, tornai a casa Cervi. Veduto nessuno in cortile, entrammo
nella stalla. Qui, gli astanti appena mi videro, mi corsero incontro ad abbracciarmi. Dante, Jeppy,
Basti, gli altri due inglesi, come mai si trovavano già là? Qui, essi, mi raccontarono come erano
riusciti a sfuggire all'imboscata. Furono i miei spari ad avvisarli, e quando già i fascisti bussavano
alla porta, la padrona della villa li fece uscire per una porta segreta. Appena giunti in strada,
aprirono il fuoco, con l'intento di riprendere ai fascisti la nostra macchina; ma non vi riuscirono.
Sempre sparando uscirono dalla cittadina e si rifugiarono nelle case contadine vicino, dove
sapevano trovarsi alcuni amici di Aldo, che provvidero poi ad accompagnarli sino a casa Cervi.
Jeppy, invece, se la cavò da solo come me, ed era arrivato anche egli da poco, con tutto il denaro.
Mancava solo Gelindo, ancora in giro in bicicletta a cercarmi per i paesi della provincia.
In un certo senso i timori di Ferrari erano fondati: ormai era diventato pericoloso restare a casa
Cervi. Il nostro gruppo fu l'ultimo ad abbandonare questa .famiglia. Ci trasferimmo in una casa
vuota il cui padrone era assente. Almeno per qualche tempo essa doveva essere un rifugio sicuro;
ma sebbene non uscissimo mai, qualcuno venne a sapere lo stesso della nostra presenza.
Ricordo come fosse ora che una sera, mentre stavamo cenando nella piccola cucina, entrò
all'improvviso un uomo con gli occhiali.
– Scusate cari signori se vi disturbo, – diss'egli in modo sarcastico; levandosi il cappello, le lenti
degli occhiali brillarono – Io so chi siete... e so anche che la mia visita non vi è tanto gradita. Si, lo
so che voi stranieri avete bisogno di asilo... Ma vedete, per questo c'è apposta il governo,quindi
rivolgetevi a lui. –
A sentir ciò, balzammo in piedi. – Questa casa, di cui ne sono io il responsabile, – proseguì egli
– è di un mio cognato professore, che ora si trova a Roma; quindi vi dico di lasciarla
immediatamente... Io rimango alquanto, che tu li abbia lasciati entrare, – disse poi, alzando la voce
verso il mezzadro. – Ora bisogna che io prenda provvedimenti... Immediatamente!– – Ma sono
appena arrivati, e tanto mi sembravano buoni ragazzi che li ho lasciati entrare. – Cercò di scusarsi il
mezzadro. – Questa è una casa di proprietà privata! –
– Lasciate stare lui che non c'entra, – intervenne Jeppy, alludendo al mezzadro – diteci piuttosto
quel che volete che facciamo ora. – Non chiedo molto, solo che lasciate la casa al più presto! – Beh,
se è così Ce ne andremo
– avvicinandoglisi di più, disse: – Voi state gridando e a prendervela
con il mezzadro, solo perché ci ha ospitato per alcune ore. Ma che fareste voi se vi trovaste nei
nostri panni senza casa né rifugio? Tornereste nel campo di concentramento? – E qui Jeppy si levò
alcuni soldi di tasca, e gli disse porgendoglieli:
–Toh, prendetevi da bere... – Oh, no, no! – diss'egli respingendoglieli confuso con la mano.
Uscimmo in strada. Cadeva una pioggia fitta e gelata e tutto intorno era confuso nella nebbia. E così
Ennio, il piccolo nipote di Alcide Cervi, ci vide tornare alla sua casa. Non vi era altra scelta.
Si era istaurato un regime di terrore. Tutti erano smarriti e spauriti, e nessuno aveva più il
coraggio di parlare. Ora ad agire bisognava essere molto cauti ed accorti.
E così passavano i giorni, si susseguivano le albe e i tramonti... Un giorno vedemmo Aldo
alquanto preoccupato: a due chilometri di distanza, a Campegine, si trovavano dei fascisti.
Quella notte dormimmo tranquilli, ed Aldo e Jeppy al mattino partirono in cerca di fuggiaschi.
Ne trovarono, ma ormai con tutte le spie che vi erano in giro non si poteva proprio restare; così
decidemmo di partire l'indomani mattina.
Tirò vento e piovve tutta la notte, ma verso l'alba sia il vento che la pioggia parvero calmarsi. Il
rumore di vetri infranti ci fece balzare dal giaciglio. Subito, ancora insonnoliti, non capimmo di che
si trattava, ma poi tutto fu chiaro: eravamo circondati! Ci vestimmo alla svelta, sperando di riuscire
ancora a fuggire; ma per difenderci avevamo una sola pistola. Qui ci accorgemmo quanto avevamo
sbagliato ad imballare le munizioni la sera prima...
Ora per prendere le armi bisognava andare in cantina. Saltai nella staccionata dove stava il
cavallo, che vedendomi s'agitò; quindi, ammucchiandovi sotto paglia e qualche straccio, riuscii ad
aggrapparmi alla piccola finestra dalla quale passai. Ed altrettanto fece Jeppy, dopo di me. Usciti
sotto il portico, salimmo svelti sul fienile. I fratelli Cervi stavano sparando dalle finestre.
Ma ecco ad un tratto cessare la sparatoria, e sentire le camicie nere gridare: – Cervi, arrendetevi!
– S'udì ancora una breve sparatoria, quindi tornò di nuovo la calma. – Guarda! – mi gridò smorzato
Jeppy. Qualcosa, come fiamme di grandi fiaccole, cominciarono ad illuminare di luce sinistra
l'oscurità intorno. I Cervi si difendevano ancora ed i fascisti, vedendo che non riuscivano a
prenderli con le armi, pensarono di dar fuoco alla casa. I fascisti sparavano appostati ovunque:
nascosti dietro degli arbusti, nei fossati e dietro gli angoli della casa. La paglia del fienile cominciò
a bruciare rapidamente, mentre la sparatoria continuava.
Qualcuno ci chiamò dalla stalla; ci avvicinammo a carponi al finestrone fienile, perché quella ci
era parsa la voce di Dante.
– Ci vogliono i fucili mitragliatori. – Gli gridammo.
– Presto ragazzi, andiamoli a prendere, sono là in cantina dentro le botti da vino... – egli rispose.
La casa Cervi ardeva come un gigantesco falò, ed un denso fumo bianco offuscava la stalla e il
fienile. Il tetto stava per crollare... Udii Jeppy gridare: – Dai salta giù! – Sparai due colpi, e mi
buttai giù, nel portico, su un mucchio di erba fresca subito seguito da Jeppy.
I fratelli Cervi intanto continuavano a difendersi strenuamente. Nessuno di loro aveva idea di
arrendersi; ma purtroppo nella casa vi erano anche le donne e i bambini.
Ci coprimmo il viso con le mani e sparando gli ultimi colpi, cercammo di raggiungere la cantina,
attraverso uno libero dal fuoco. L'avevamo quasi raggiunta, quando un terribile scoppio mi buttò a
terra tramortito. Rinvenni solo quando sentii dire come in sogno:
– Ah, sono ancora vivi! –
Quando aprii gli occhi, non scorsi il sole: in cielo correvano basse, dense nubi grevi di pioggia.
Sulla strada bagnata vidi che stavano con le mani legate, tutti e sette i fratelli Cervi, Dante, Basti e
l'altro inglese. Io invece era ammanettato insieme a Jeppy. Intorno c'erano fascisti dappertutto.
Le «camicie nere» erano venute: in centocinquanta, armate sino ai denti, come se non avessero
dovuto dare l'assalto ad una casa di contadini, ma ad una fortezza difesa da una potente guarnigione.
Data la paura che avevano, loro consideravano una grande vittoria quella di aver preso quella
casa.
Vidi poi come i fascisti si dettero al saccheggio della casa: prendevano il vino, stracciavano i
libri, e rubavano tutto ciò che questa famiglia si era guadagnata con onesto e laborioso lavoro.
Un fascista ubriaco, con in mano una bottiglia ancor piena, si fermò dinnanzi ad Aldo Cervi e gli
disse:
– Che facciamo ora di te badogliano? Kaput? –
– Io non sono un badogliano, ma un comunista –.
Da sotto i portico uscì Alcide Cervi; visto che ci stavano conducendo verso una corriera, si
diresse verso l'ufficiale fascista e gli disse in modo risoluto: – Voglio andare con i miei ragazzi! –
Nessun segno di commozione tradì il suo viso, quando vide i figli salire
ad uno ad uno sulla corriera. Si volse verso di me, e visto il mio povero vestito lacero e leggero,
si tolse il tabarro e me lo pose spalle; quindi salì sulla corriera dopo di noi
Come Alcide Cervi aveva donato loro vita, allo stesso modo aveva insegnatoai figli l'onesto
mestiere del contadino e poi aveva cercato con loro di migliorare la posizione economica. Ed ora,
che il settantacinque anni, con un pezzo di pane sicuro, uno stuolo di undici nipotini intorno, si
poteva godere in pace un meritato riposo, non disse mai ai figli di desistere dalle loro azioni. Perché
egli sapeva che la vita dei suoi figli e la sua stessa vita di onesto a laborioso contadino emiliano,
non appartenevano a loro, ma a tutta l'Italia.
La notizia dell'incendio di casa Cervi, si diffuse in un baleno nei dintorni. Sulla via Emilia la
gente accorreva a vederci, proprio come se veramente fosse stato il nostro ultimo viaggio.
Se da una parte, per i non avveduti, l'incendio della casa e l'arresto dei fratelli Cervi sembrava
portare il corso degli eventi sulla vecchia strada di prima, dall'altra, esistevano altre migliaia di case
simili a casa Cervi, ed altre centinaia di migliaia di uomini che covavano in cuore lo spirito dei
fratelli Cervi. E non tutte quelle case si potevano incendiare e tutta quella gente arrestare! E perciò,
quel che aveva seminato il vento, si sarebbe tramutato in tempesta.
NOTE
(1) Sui monti d'Italia, Memorie di un garibaldino russo, titolo originale V gorah Italii, ed. Lenizdat, Leningrado, 1960.
(2) Comandante di una formazione di russi dipendente dal Comando partigiano modenese della montagna.
(3) Traduzione fonetica.
(4) Tenente Victor Pirogov, nome di battaglia «Modena». Diverrà Comandante del battaglione russi dipendente dal
Comando partigiano reggiano della montagna.
(5) Abitante a Villa Cavazzoli. Comunista. Perseguitato politico. Diverrà poi Commissario .politico del battaglione russi
comandato da Pirogov.
(6) In italiano nel testo.
(7) «Non scoraggiatevi» – «Abbiate fede».
(8) «Il proprietario fondiario».
(9) Didimo Ferrari. Conunista. Perseguitato politico. Diverrà Commissario Politico generale de!le formazioni reggiane
della montagna.
(10) Dante Castellucci, detto «Il calabrese». Viveva con la famiglia dei Sarzi.
(11) Appartenente ad una famiglia di attori. Morta nel 1968 Sorella di Otello Sarzi, pure lui partigiano, che sarà più
volte citato da Tarasov. Lucia si era distinta durante il «ventennio» nella diffusione della stampa del PCI. Ebbe una
parte attivall nella costituzione di una tipografia clandestina il Mandrio di Correggio (R.E.). Cfr. G. Amendola, Lettere
a Milano, Ed. Riuniti, 1973, pago 93, e A.Clocchiatti, Cammina Frut, Ed. Vangelista, 1972, pag. 185.
(12) Alexander Aschenco; passato :poi al servizio della Brigata nera, denuncerà molti degli antifascisti che :lo avevano
ospitato, arrecando un gravissimo danno all'organizzazione clandestina della bassa reggiana. Sarà giustiziato dai
gappisti il 15 novembre 1944. Cfr. G. Franzini, Storia della Resistenza reggiana, ANPI RE., 1966 pag. 394.
(13) Osvaldo Poppi «Davide», avvocato. Già condannato dal Tribunale Speciale fascista. Diverrà Commissario
Generale delle formazioni partigiane dell'Appennino modenese.
(14) Osvaldo Poppi e Gismondo Veroni, entrambi appartenenti al Comitato Militare del PCI in provincia di Reggio E.
(15) La sosta avvenne a Sologno.
(16) Don Pasquino Borghi si era recato a Sologno .per offrire il suo aiuto ai partigiani. Fu soprattutto per questo che, in
accordo con Arturo Pedroni, dopo il disarmo dei carabinieri di Toano (testimonianza di Pedroni) i partigiani cercarono
di raggiungere la canonica di Tapignola.
(17) Versione fascista sul colpo di Toano, in una lettera della Prefettura di Reggio Emilia n. P.S. 06164 di prot. datata
27 ottobre 1943.
OGGETTO: Aggressione a militari dell'Arma ad opera d,i banda armata. AL MINISTERO DELL’INTERNO Direzione
generale della P.S. ROMA
Alle 17,45 del 26 corrente, ,in località Puccione del Comune di Toano di questa provincia, due carabinieri del1a
Stazione di Toano, mentre –transitavano lungo la strada provinciale, venivano raggiunti e sorpassati da un autocarro
coperto, verniciato in rosso, dal quale scendevano una quindicina di civili, armati di moschetto e pistola, ingiungendo
ai militari stessi di consegnare le armi.
Dopo aver disarmato i carabinieri, gli aggressori obbligavano gli stessi a salire sul camion, dirigendosi a Toano. Ivi
giunti si portarono dinanzi alla caserma dell'Arma e, dopo aver sopraffatto l'appuntato Sagri Giacomo, unico militare
presente in caserma, che aveva aperto la porta, si impossessavano di tre moschetti e tre pistole con relative munizioni,
nonché di un apparecchio radio Philips e cinque paia di scarpe in dotazione :l'i militari di quella stazione.
Ciò fatto gli ignoti aggressori lasciarono in libertà i carabinieri e, saliti sull'autocarro in parola, si diressero alla volta
di Villa Minozzo. Giunti al fiume Secchia i predetti a:hbandonarono l'automobile e si dileguarono nei boschi
circostanti dirigendosi probabilmente verso le località di Sologno, Cerrè, Primaore e Ligonchio.
IL CAPO DELLA –PROVINCIA
(Dott. Enzo Savorgnan)
(18) Arturo Pedroni, organizzatore comunista che aveva preso contatto con Aldo Cervi, in montagna, previo accordo
con Armando Attolini, altro organizzatore comunista della pianura.
(19) Leggi Correggio.
(20 ) Leggi Correggio.
(21) Versione della Compagnia Interna di Reggio Emilia dei Carabinieri, n. 329/I di prot. datata 7 novembre 1943,
inviata al Ministero ed a molti Comandi superiori:
OGGETTO: Disarma dei dell'Arma della stazione di S. Martino in Rio.
Verso le ore 21,15 del 6 andante si presentavano ,a bordo di una autovettura Fiat 1100 –– azionata a gazocena – alla
caserma dell'Arma di S. Martino in Rio (Reggio Emilia) due individui, uno vestito con perfetta tedesca, l'altro in
borghese, qualificandosi interprete , chiedendo al comandante della stazione manforte, poiché un reparto germanico in
marcia, era caduto in un'imboscata parte di partigiani. Alle rimostranze del sottufficiale, che avrebbe preteso un ordine
scritto per convalidare la richiesta, il militare assicurò che, per brevità di tempo, non si era procurato alcuna
comunicazione scritta e che anzi aveva requisito l'automobile per raggiungere la prima stazione. Intanto rilasciava una
dichiarazione, scritta in lingua ucraina. Il comandante di stazione – maresciallo Tonghini Vitale – ritenendo veritiera
la richiesta comando di servizio un appuntato e due carabinieri che presero posto nell'autovettura.
Dopo un'quarto d'ora ì militari facevano ritorno in caserma disarmati completamente e dichiarando che appena fuori
dell'abitato la macchina si fermò e i due presunti militari discesero, sopraggiunti contemporaneamente da altri 4
,individui armati, che giunsero mano armata, di consegnare le armi e le buffetterie e di·recarsi presso le proprie
famiglie. Le indagini disposte subito nel territorio della stazione di S. Martino e di Corteggio, unici comandi collegati
telefonicamente e proseguite in mattinata hanno dato fin'ora esito negativo. I servizi per la scoperta degli autori
continuano col massimo interessamento e di ogni emergenza verrà fatto seguito.
IL CAPITANO COMANDANTE LA COMPAGNIA
(Domenico Carbone)
(22) Ferrari Ferdinando (Marte), l'ortolano di Villa Cavazzoli, che ebbe una parte importante nell'organizzazione
partigiana della pianura.
***************
«Ricerche Storiche» n. 22/1974
SUI MONTI D'ITALIA
Memorie di un garibaldino russo
(riportiamo solo una parte del II capitolo)
... La pioggia colava dai vetri della corriera, in gocce turgide e limpide, come lacrime. «L'ultimo
viaggio!». Ma dentro di me restava ancora una certa vaga speranza di salvezza. Che mai pensava in
quel momento, mia madre figlio?
E di colpo mi sovvenni della mia città natale, e del cortiletto aperto sulla via, dove avevo passato
tutta la mia spensierata fanciullezza.
Mi ricordai della piccola fabbrica, dove quindicenne cominciai a lavorare col collettivo assieme
ad altri miei coetanei. Tanto ero preso da questi intimi ricordi, che mi pareva proprio di andare là ad
incontrarmi con questi amici, che la guerra aveva così crudelmente divisi.
Ma perché non potevo muovere le mani? Ah, erano legate!... E tutto intorno vi erano ceffi
sconosciuti, con elmetti e pistole...
Ricordandomi come vennero impiccati i partigiani, nel villaggio presso Luga, dove fui fatto
prigioniero, mi sovvenni che anche ora poteva accadere la stessa cosa a me. Nascondendo le
lacrime, in quel momento di debolezza, mi vedevo già sulla forca in una piazza gremita di gente...
Oh, almeno ci fosse stato il popolo.
Dinnanzi a noi si spalancarono le porte della caserma «Cavallo Bianco» (1) quindi, attraversato
un cortile sotto scorta, ci gettarono in una piccola cella con inferriate alla finestra. Attaccato al muro
stava un tavolaccio di grezze assi inchiodate: nessuno di noi sedette.
Dopo un po' ci portarono del brodo e del pane. Ma. Valeva la pena di mangiare ora?
In quei minuti di sconforto, Aldo Cervi prese a parlare di come si doveva agire in caso di
probabile processo:– Durante l'interrogatorio prenderemo tutta la colpa io e Gelindo, dicendo che
gli altri non c'entravano in tutta questa faccenda. E voi – diss'egli rivolgendosi a noi stranieri – non
fate nomi di persone né dite delle azioni che avete fatto; dite loro che eravate venuti a casa nostra da
poco, solo per rifugiarvi e nello stesso tempo rifocillarvi.
Aldo in quel momento non faceva come me, che mi preoccupavo solo della mia pelle; prima di
pensare a se stesso, si preoccupava della vita dei fratelli, di quella del padre e di tutta la famiglia, ed
anche di noi, gente di varie nazionalità e continenti.
Il vecchio Alcide Cervi, che fino a quel momento aveva ascoltato tutto in silenzio, al
ragionamento di Aldo, saltò su a dire con convinzione: – Ma essi non possono far niente contro di
noi! – Qui egli palesò in modo evidente la sua anima di padre, che non voleva sacrificare nemmeno
uno dei suoi figli. Bisognava che essi tornassero tutti con lui dalla madre, perché era ormai tempo di
arare e seminare la terra. Dove poi i figli avrebbero fatto buoni raccolti, da sfamare i loro bambini e
tant'altra gente straniera! Ecco perché nessuno aveva il diritto di strappare i suoi figli alla terra per
fargli del male.
Per me, anche dopo, quando passerò dal parmense al veronese a fare casematte per i tedeschi, e
riuscirò a di nuovo: il primo pensiero, appena libero, sarà quello di raggiungere la provincia di
Reggio Emilia, per ritrovarmi in quei luoghi dove avevano vissuto e lottato i fratelli Cervi. Ma
prima di poter far ciò dovrò seguire tutto quello che mi avrà preparato il destino.
Stridette il catenaccio ed un milite entrando, disse: – Chi di voi è straniero? – Lo confermammo
in cinque, (tra questi figurava anche Dante che, ben conoscendo il francese, si era spacciato per un
soldato di De Gaulle).
Usciti dinnanzi al milite, ci misero in un'altra cella.
La forte tensione nervosa mi impediva di prendere sonno, e non riuscendo a chiudere le palpebre
il mio sguardo girovagava qua e là; ad un tratto dalla paglia scorsi la cima di un bastone, chissà
come mai capitato là.
– Jeppy – Egli s'alzò rapido; a tutti e due, alla vista del bastone, balenò nel medesimo istante
l'idea della fuga.
Facemmo subito un piano d'azione: due di noi si sarebbero messi alla porta e quando entrava il
milite, giù. Ma quando di nuovo stridette il catenaccio, i militi erano in due; e, con rivoltelle alla
mano, spinsero fuori me e Jeppy.
Passando dinnanzi alla sua cella, vedemmo Aldo Cervi che ci guardava: anche se non potevamo
dirci una parola, dal suo sguardo, calmo e sicuro come sempre, capimmo che continuava ad essere
fermo in quel suo proposito che ci aveva spiegato prima.
Ed eccoci giunti all'ultimo piano. La piccola stanza dove ci entrare, era piena di ufficiali fascisti.
Dalla finestra aperta, si scorgeva il muro color giallo sporco della casa accanto.
Qual è il russo di voi due? –
Scambiai un'occhiata d'intesa con Jeppy.
– Scusate signore, ma noi capire poco italiano... molto poco –
– A si eh, lo capite poco?! – disse con un sorriso beffardo, picchiando con la matita sul tavolo,
l'ufficiale che ci interrogava. – Ed invece, guarda caso, noi vi conosciamo assai bene. –
– Non perdete la calma, capitano. –
– Lo so signor colonnello, ma san le risposte impudenti di questi due banditi mi fanno arrabbiare.
–
– Ma quel che di più mi ha fatto indignare di loro, è stata l'impudenza che hanno usato nel
disarmare le caserme. – Qui il colonnello ci guardò e disse: – Ah, allora non volete parlare? Bene,
bene prese un notis e aprendocelo sotto gli occhi, disse:
– Li conoscete questi? – Sul notis, vi erano scritti tutti i nomi e gli indirizzi di quelli che avevano
frequentato la casa Cervi. S'aprì la porta, ed ecco entrare uno di quei carabinieri che avevamo
disarmato in una guarnigione a valle. (2)
– Sono loro, loro! – cominciò egli a dire appena entrato.
Noi non dicemmo parola. Ci portarono via.
Scendeva il crepuscolo, ed il muro della casa di fronte si era fatto grigio scuro Giù, sentimmo
fermarsi una macchina, e nel corridoio portarono Dante, Basti e l'altro inglese. Proprio in quel
momento mi venne un'acuta voglia di fuggire. Istantaneamente mi balenò un pensiero: ecco la
finestra, un salto, e giù... In quell'attimo, nemmeno mi sfiorava il pensiero che potevo farmi male
cadendo; mi vedevo soltanto correre sano e salvo, di nuovo in libertà.
Da quando eravamo stati catturati, non avevo ancora fumato; così mi rivolsi ad un soldato vicino
e gli chiesi una sigaretta, che lui subito mi diede. Lo ringraziai e, senza nemmeno tossire, cominciai
ad aspirare il fumo a forti boccate.
Sentivo che là non ci sarei rimasto per molto: o vivo o morto sarei uscito da quella prigione. Vi
fu presto un altro interrogatorio. Questa volta il milite restò di guardia alla porta, e nella cella entrò
un ufficiale tedesco seguito da un colonnello italiano.
– Niente, niente, colonnello, non disturbatevi! Ho già indovinato chi è il russo, – disse l'ufficiale
tedesco posando subito gli occhi su di me – ecco mi sembra proprio che sia stato quel biondino, a
venire da voi, là a San Martino. Bravo colonnello, sono proprio contento che abbiate catturato
questa banda. Penso, che avrete sicuramente informato della cosa il Quartier Generale, no? ––
– Ma signore! Vi volevo dire che... L'ufficiale tedesco gli troncò in breve il discorso e,
guardandosi intorno, disse:
– Sappiate colonnello, che mezz'ora fa alcuni ignoti hanno sequestrato un'altra macchina, ed
eludendo la sorveglianza delle pattuglie che sono in giro per la via Emilia sono riusciti a fuggire in
montagna. Avete avuto troppa fretta ad agire; bisognava aspettare di cogliere tutta la banda al
completo. Non vi siete accorto, quanti di loro mancano secondo la lista che avete sul notis? –
– Questi son stati di certo i nostri ragazzi – pensai io, tutto felice che essi avessero potuto
raggiungere sani e salvi la montagna. Ciò mi sollevò l'animo all'istante. Dal modo come il tedesco
guardava l'ufficiale italiano, il suo sguardo pareva che dicesse: – Voi con questo metodo non li
annientate, ma li fate moltiplicare! –
La notizia della nostra cattura, aveva fatto credere ai fascisti di aver sgominato tutto il
distaccamento, e di aver portato con ciò di nuovo la calma in provincia. Ma ben presto apparve
chiaro che le cose non erano andate così come speravano i fascisti della caserma «Cavallo Bianco».
Danilo intanto, venuto a sapere di quel che ci era accaduto, radunò al più presto possibile gli altri
membri russi e italiani che componevano il distaccamento dei fratelli Cervi, con l'intenzione di dare
l'assalto alla caserma «Cavallo Bianco». Impadronitisi di una macchina della polizia, si diressero
immediatamente verso Reggio; ma i numerosi posti di blocco installati in quei tempi ovunque in
provincia, assieme al fatto che avevano una macchina ricercata dalla polizia, non permisero loro di
raggiungere la città, e dovettero prendere la via dei monti.
Ma anche là i fascisti tesero loro un'imboscata, e, dopo una breve sparatoria, essi dovettero la
macchina in un burrone e correre a nascondersi fra i monti... (3)
Intanto noi ricevemmo ben l'ordine di trasferirci in una gendarmeria tedesca di campagna.
Attorniati dai militi, dopo aver sceso le scale, uscimmo in cortile... Là ci vide Agostino Cervi,
che informò subito della cosa gli altri fratelli. E quella, senza saperlo, fu l'ultima volta che ci
vedemmo.
Nello scantinato della gendarmeria di campagna, giungeva lento e greve il battere delle ore dal
campanile vicino... Eravamo stanchi, e stretti l'un l'altro fummo presi dal sonno.
Al mattino fui chiamato all'interrogatorio. Nella piccola stanza ben illuminata dove mi
condussero, stavano seduti dietro un tavolo un ufficiale tedesco ed un altro individuo, in borghese,
che aveva la faccia della spia.
– Conosci l'italiano? – mi chiese l'ufficiale.
– No, il tedesco.
– Molto bene – disse visibilmente contento l'ufficiale, ed alzandosi in piedi sciorinò sul tavolo
alcune carte topografiche della zona – Vedendo qui, forse mi saprai rispondere: in quali case sei
stato, all'infuori di casa Cervi? –
– In molte case. –
L'ufficiale subito mi chiese di mostrargli sulla carta topografica quali esse erano.
– Signor Oberleutnant, – risposi io – voi sapete che ci menavano in giro solo di notte, e di notte è
difficile riconoscere le strade, tanto più qui in Italia, dove sono tante... Si, qualche casa la ricordo,
ma non so quali conducano ad esse. –
Qui l'ufficiale mi scrutò bene in viso, per vedere a fondo se avevo detto la verità. – Forse hai
ragione, – mi disse poi egli cambiando tono – ma io penso che quelli sequestrano le macchine e son
tanto bravi ad orientarsi verso le caserme, almeno qualche strada se la dovrebbero ricordare... To',
prenditi questo, a mo' d'esempio! –
E mi colpì con piacere sul viso. Mi riaccompagnarono giù nello scantinato, dove feci in tempo ad
avvisare gli altri dell'esito della mia istruttoria, prima anch'essi venissero chiamati su; e così
potemmo comportarci tutti egualmente.
Di lì a poco, soldati tedeschi, impinguati da buoni cibi italiani, ci legarono le mani, e, portatici in
strada, ci fecero salire in macchina diretti a Parma...
La caserma dove ci condussero era una vecchia fortezza (4) (nel cortile vi era ancora una lapide
ricordo, con incisi i nomi dei italiani caduti in Africa). Ora essa era tutta attorniata da filo spinato e
guardata da sentinelle. Le sue finestre erano tutte sbarrate da inferriate.
Mentre io fui messo nella cella dei detenuti politici, Dante e Jeppy,li misero
cella accanto.
Venne il mattino. La finestra della cella era chiusa a metà da un muro di
mattoni. Intorno, sulle brande, i detenuti si domandavano pigramente l'un con l’altro
come avevano passato la notte.
Quando venne l'ora di colazione, ci fecero uscire in cortile; qui incontrai Dante e Jeppy, con i
quali concordai di nuovo di non dire niente all'interrogatorio, solo che eravamo a casa Cervi da
pochi…
Ricevuto il nostro gotto di caffé e un pezzo di pane, ritornammo nelle nostre celle. Nella branda
accanto a me, stava un uomo sulla trentina, con una giubba scura da operaio. – Come ti trovi qui? –
egli mi chiese, sorridendo con gli occhi un po' socchiusi.
– E voi è da molto tempo siete qui?
– Io? Una bagattella, da un mese! – mi diss'egli con cantilena – E perché sono qui? Per una
sciocchezza da niente ho detto del rospo a un tedesco! – Gli altri in cella, risero, mentre il
giovanotto sospirava, unendo le mani a mo' di preghiera e levando gli occhi al soffitto: avevo già un
amico.
– Eh si, bambini miei! Tutto questo l'ho fatto per un scopo... Ora voi restate qui in prigione, ed io
me ne esco a trovare le vostre mogli... E amen, chi s'è visto, s'è visto! – I suoi occhi mi guardavano
allegri. – Tutto può succedere nella vita. Io evidentemente ho confuso i tempi, se avessi offeso un
tedesco nel periodo della prima guerra mondiale sarei stato un eroe! Ed ora, perché ci troviamo qui
in prigione? – continuò il giovanotto prendendo la posa di un propagandista fascista. – Per la
vittoria della nostra repubblica! Ma che cos'è questa repubblica? Essa è il signor Benito io! – Nella
cella s'udì ancora ridere. – Ed ora abbiamo ancora tedeschi; ma sono altri... Questi bisogna
ringraziarli perché ci hanno occupato tutta l’Italia, e dobbiamo portare loro eterna riconoscenza per
questo po' di e tozzo di pane che ci danno! –
Aprirono la porta ed un soldato chiamò forte un nome.
Si alzò un uomo anziano, che, preso il cappello sgualcito, s'avviò
verso la porta. Lo portavano dinnanzi al tribunale; lo guardammo tutti andarsene. Quando fu
sulla porta, si volse, e dal suo sguardo ci pareva che egli già sapesse della sua condanna; quindi,
rivolgendosi a noi, disse:
– Non abbandonate la mia famiglia. Dite loro che tornerò non appena mi sarà possibile. – Ma noi
non lo vedemmo più tornare in cella.
– Tu non sai, russo, – mi disse allora il cupo giovane dai ridenti occhi socchiusi – quanto, noi
italiani, sappiamo prendere allegramente anche i casi tristi della vita... Come tu puoi notare, le cose
prese così sembrano più lievi... –
Di giorno faceva ancora caldo e si usciva in giacca, ma alla sera si rinfrescava, così che alla notte
fui preso da sudori e brividi di febbre; la testa mi era diventata pesante e mi faceva male.
Al mattino mi chiamarono giù, e fui fatto uscire dalla fortezza. Vedendo che andavamo per le vie
della città, pensai che mi portassero ad un interrogatorio. Durante tutto il tempo del tragitto, il
gendarme tedesco tenne sempre la mano in seno, dove avrà avuto di certo la pistola. Una bambina
che incontrammo, per nulla spaurita, mi disse:
– Buongiorno, zietto! –
E vedendo la madre che cercava di trattenerla, corse avanti ridendo.
Già da un po' di tempo camminavamo, quando il mio guardiano, levandosi la mano dal seno, si
frugò nella tasca sinistra, di dove parve volesse togliere qualcosa. Accorgendosi che lo guardavo,
verificò se avevo le mani ben legate sotto la mantellina, e mi spinse avanti.
Anche alla gendarmeria di campagna, quando egli stava seduto poco discosto da me, l'avevo
visto che non poteva resistere al desiderio di togliersi di tasca delle fotografie e guardarle.
Suonarono le sirene d'allarme. Ma gli aerei in formazione passarono oltre la città, diretti in
Austria. Qui il viso del gendarme divenne subito triste e preoccupato. Forse stava pensando che
quegli aerei potevano andare a sganciare le loro bombe proprio sulla città dove si trovavano sua
moglie ed i suoi bambini... All'improvviso scattò in un saluto, «Heil Hitler» (ci era passato vicino
un ufficiale dell'SS), ed il viso del soldato si fece duro, quasi inumano.
Da una porta laterale, uscì un uomo in borghese che, dopo avermi guardato con finta noncuranza,
rallentò il passo ed urtò il soldato. Mi fecero entrare in una stanza dove, con la schiena volta alla
finestra, stava seduto un anziano ufficiale panciuto, vestito di un'uniforme grigia con strette spalline
d'argento. I suoi capelli bianchi avevano una sfumatura giallastra, come se non fossero stati lavati
da tempo, e così era il viso. Portava gli occhiali. Quando entrai mi guardò di sfuggita, e continuò a
scrivere sul suo foglio.
Finito di scrivere, consegnò il foglio al gendarme che stava li in piedi in attesa. Quando il
gendarme uscì, nella stanza subentrò una spiacevole calma. A giudicare dagli odori che si sentivano
là dentro (odore di lucido da scarpe, di crema, d'acqua di colonia e di cattivo sigaro) quella stanza
doveva servire prima, al proprietario della villa, come camera di toeletta. In un'altra stanza si
sentiva picchiettare continuamente una macchina da scrivere. Avevo un gran sonno. – Che io sia
davvero malato? – pensai. Ma ero là e bisognava che me la sbrigassi in qualche modo.
Entrò una bella italiana, portando una tazza di caffé su un vassoio. Alla vista di quella ragazza, il
tedesco si rizzò sulla sedia, ed i suoi occhi si ravvivarono dietro le lenti degli occhiali. Prese la tazza
con le dita grassocce coperte di peli rossi, e bevve il caffé a sorsi...
– Dunque, quel che mi raccomando è di non fare lo stupido, – prese
quindi a dirmi egli. – Dico questo, perché so che ci sono parecchi di voi che amano fingersi
tonti... Sapete il tedesco? – Sì. – Mi piacciono quegli stranieri che sanno il tedesco. Siete russo? –
– Sì. –
– Va bene, ditemi tutto di voi... –
Avevo caldo e mi sentivo la gola secca. Ero proprio ammalato. Quel che speravo, era solo di
riuscire a reggermi in piedi sino alla fine dell'interrogatorio. Per non fare insospettire maggiormente
quel giudice istruttore, bisognava che io non gli dicessi niente: né dei miei compagni ancora in
libertà, né delle case, che conoscevo bene, dove ci avevano ospitati, e tantomeno delle azioni che
avevo fatto con il distaccamento partigiano E se il giudice, non credendomi, mi avesse picchiato o
fosse ricorso alla tortura? Ma ormai, da quando mi aveva picchiato quell'ufficiale della gendarmeria
di campagna nei di Reggio, sapevo per esperienza che questo non ti faceva parlare ma crescere
ancor più l'odio contro i tuoi torturatori. Difatti, più ti picchiano, meno senti la voglia di parlare;
quel che nasce in te, è solo un profondo ribrezzo per i tuoi aguzzini.
... L'interrogatorio proseguiva tranquillo. All'infuori di dire dove ero stato e quel che facevo in
prigionia, inventai ogni cosa.
Il naso mi era diventato rosso, e non riuscivo più a tenere gli occhi aperti. L'uomo che sedeva al
di là del tavolo, mi sembrava un dormiente che scrivesse automaticamente sulla carta.
Perchè ero fuggito? Era stato per caso; quando quella notte i tedeschi partirono
improvvisamente, io ero profondamente addormentato, cosicché, quando mi svegliai, non trovai più
nessuno. Di Danilo non feci parola... Il giudice istruttore non fece nessuna obiezione al mio detto:
forse egli credeva che i tedeschi, quella notte, presi dal panico, avessero pensato veramente di più
alla loro pelle che a me.
Così, vagabondando da una casa all'altra, capitai proprio in questa, quando i fascisti quella notte
la incendiarono, ed io fui catturato assieme agli altri... Ecco perché ora mi trovavo là dinnanzi a
lui...
Più capivo che l'interrogatorio volgeva alla fine, più mi rianimavo e rispondevo facilmente. Al
processo ci fecero poi a Parma, non potei essere presente perché mi ero ammalato di polmonite.
Il 28 dicembre del 1943, ebbe luogo una delle più grandi tragedie della lotta di liberazione
italiana. Al poligono di tiro di Reggio Emilia, furono fucilati tutti e sette i fratelli Cervi.
La cosa era successa così: il 27 dicembre, i partigiani avevano fatto giustizia uccidendo un
segretario del partito fascista della zona (5). Riunitisi la notte stessa, dinnanzi al feretro, i fascisti
giurarono vendetta, gridando: «Uno contro dieci», e mentre stavano leggendo l'elenco dei carcerati,
qualcuno saltò su a dire: – Fuciliamo i sette fratelli Cervi –. E così, al mattino, i sette fratelli non
furono più.
Sulla branda dove giacevo ammalato, in una cella delle carceri centrali di Parma, (6) dove ero
stato trasferito dalla fortezza dopo che avevo subito l'ultimo interrogatorio...
[...]
NOTE
(1) Così erano chiamate da qualcuno le «carceri dei Servi» (ove venivano rinchiusi per lo prigionieri a disposizione
della G.N.R.) probabilmente perché un tal soprannome, «Cavallo bianco», aveva il ten. Cesare Cagliari, uno degli
inquirenti. Cfr: Risposta a un libello, in «Ricerche Storiche» n. 17 del luglio 1970, pago 125.
(2) Allude al presidio dei Carabinieri di S. Martino in Rio.
(3) Allude al fatto di Cinquecerri, una sparatoria avvenuta il 17·1·1944, nella quale un milite della G.N.R. perì ed
un’altro rimase ferito.
(4) La Cittadella.
(5) Si trattava del Segretario comunale fascista. [Per una ricostruzione corretta del fatto si veda Danilo Morini, Davide
Onfiani segretario comunale di Bagnolo in Piano o gerarca fascista «repubblichino»? in «RS –Ricerche Storiche», n.
114/2012, p 156 –157. NDR].
(6) Le carceri di S. Francesco.