Buddha si è fermato a Rangoon di Paolo Salom 20 ottobre 2007
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Buddha si è fermato a Rangoon di Paolo Salom 20 ottobre 2007
Buddha si è fermato a Rangoon di Paolo Salom 20 ottobre 2007 Bellissima e disperata. Senza nemmeno più il suo nome. Perché i generali hanno deciso che la Birmania si chiami Myanmar. Prima della, protesta dei monaci contro le ferocità del regime, un maestro della fotografia ha spiato per dieci anni la quotidianità del suo paesaggio umano. Con una domanda sottesa: com'è un paese condannato a inseguire la libertà? La Birmania è un paesaggio dell'anima. Vista da lontano, raccoglie nelle sue promesse tutti i nostri desideri profondi, le nostre proiezioni di fuga nell'esotismo, nel misterioso, nell"altro". Vista da vicino, avendo la ventura di varcarne la frontiera in un momento di tregua, accoglie il visitatore prendendolo a schiaffi con i suoi odori primordiali, la sua violenza sopita nel controllo di mille occhi nascosti, la sua miseria che fa ricco un uomo che riceva dieci dollari per i suoi servigi: sia una guida sgrammaticata ,ma sempre sorridente, o un rickshaw mal sdentato, ma agile come un gatto. La Birmania è un paesaggio dell'anima. Un mondo senza tinte mediane, che ha fatto del rosso il colore dominante, un colore che pervade uomini e cose e sovrasta persino il verde della giungla onnipresente: è nel betel, l'impasto masticabile di una noce che trasforma i sorrisi in un campionario amaranto; è nel sangue che i birmani versano senza paura nel loro continuo, struggente cammino verso una libertà beffarda, perché alla fine si nega come una vergine promessa e poi fuggita. La Birmania è un paesaggio dell'anima. Non può essere altro. Perché la Birmania non esiste nemmeno più. Ora è Myanmar, toponimo inventato dai generali, per confondere chi ne indaga la storia per trovare il filo d'Arianna che spieghi un presente folle e senza senso, un impasto -rosso sangue- di preistoria (la dittatura militare che ha trasformato i cittadini in schiavi o poco più) e modernità (quegli stessi cittadini che parlano, coraggiosi, con il resto del mondo via internet). La Birmania è un paese che incanta. Per i suoi ritmi lenti sottomessi alla natura; i suoi uomini scalzi, perennemente alle prese con sarong (una sorta di kilt locale, lungo imo ai piedi) che non ne vogliono sapere di rimanere allacciati in vita; i suoi monaci devoti che hanno immaginato di battere i generali rifiutando le loro offerte rituali: come mettere in castigo, nella propria stanza da letto, una tigre affamata e poi andare a dormire profumati di bistecca. Birmania o Myanmar: il paesaggio non cambia. Case di legno e paglia giustapposte a templi dalle cupole d'oro: il contrasto tra il qui e adesso -il reale- e il futuro buddista di una reincarnazione in un essere migliore -la speranza- non potrebbe essere più radicale, più disperato. A Rangoon (per i generali: Yangon) come nel sito monumentale e archeologico di Pagan, o a Myawaddi, nella periferia di quello che è, oggi, un carcere esteso due volte l'Italia (678.500 chilometri quadrati), la gente guarda agli edifici sacri per evadere fisicamente dalla propria miseria. I templi sono, di fatto, i gioielli di tutti: e da tutti sono venerati come isole di pace e serenità, fonti di una spiritualità che racconta l'essenza di questa nazione, buddista da duemila anni, come null'altro. Il paradosso: persino l'élite militare che dal 1962 governa con il pugno di ferro si considera «protettrice della religione nazionale». «Blasfemi» dicono gli occhi dei fedeli che si inginocchiano di fronte alla pagoda di Shwedagon, con il suo stupa contenente, secondo la leggenda, una ciocca di capelli del Buddha. «Blasfemi» testimonia la vita di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e leader di un movimento democratico che ancora crede di poter cambiare direzione all'orologio della storia birmana. Donna esile come un petalo d'orchidea ma dalla volontà ferrea, cocciuta e dura come legno di tek, Aung San ha vissuto dodici degli ultimi diciotto anni agli arresti domiciliari, in un pressoché totale isolamento. Eppure, quando le strade di Rangoon si sono riempite di monaci e studenti in rivolta, lei ha varcato la soglia della sua casa-reclusorio per benedire i coraggiosi: «Siate pacifici». «Non c'è altro leader capace di guidare la Birmania verso un futuro di progresso e prosperità» ci dice Sandar Win, 52 anni, esule nella vicina Thailandia. «Mio marito è stato torturato e ucciso perché guidava le manifestazioni. I miei figli vivono nascosti a Rangoon. Non ho più nulla se non la speranza. E un faro, il faro di una nazione intera: Aung San Suu Kyi. È lei l'unica in grado di cancellare questo nostro incubo quotidiano. Per lei non smetteremo mai di lottare». Intanto, i birmaní sono però costretti a vivere come il Sigismondo di Pedro Calderón de la Barca (1601-1681): incapaci di distinguere tra il reale e l'immaginario, tra vita e sogno, chiusi in un paese che per gli stranieri è solo un paesaggio dell'anima. Mentre per loro ne è la prigione. UN ANGELO ITALIANO Andrea è l'angolo italiano che aiutai birmani. Nato a Milano, trentenne, studi di diritto internazionale, Andrea (niente cognome, per sicurezza) lavora a Bangkok, nella sede dell'Altsean (www.altsean.org), finanziata, tra gli altri, dal miliardario americano Soros, che sostiene esuli e oppositori dei generali di Rangoon. Prima di metter casa in Estremo Oriente ha lavorato a lungo in Europa, Sud America e India. 11 suo compito è complesso: frequenti viaggi per raccogliere informazioni, portare aiuti o semplicemente rendersi conto della situazione. “Uso più di uno pseudonimo. Altrimenti non potrei avere i visti necessari ” Al ritorno, immediato rapporto al suo capo, Debbie, una malese vispa e volitiva. Poi la routine. Che, trattandosi della Birmania, non è mai noiosa».
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