Azienda sanitaria, operatore di salute, paziente. Una interazione

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Azienda sanitaria, operatore di salute, paziente. Una interazione
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Prospettive
Recenti Prog Med 2013; 104: 49-53
Azienda sanitaria, operatore di salute, paziente.
Una interazione complessa, una sfida da raccogliere
Antonio Del Puente1, Antonella Esposito1, Vinicio Lombardi2, Aldo Bova3, Roberto Zecca4, Roberto Torella5
Riassunto. Il rischio della perdita di elementi essenziali
nell’agire professionale, quali senso del dovere, altruismo,
collegialità, contribuisce ad accrescere la difficoltà dell’odierno rapporto tra azienda sanitaria, operatori della
salute e paziente. Non bastano provvedimenti salariali o
organizzativi, né un generico richiamo ai valori comuni:
occorre superare l’atteggiamento autoreferenziale dei nostri ambiti professionali.
The complex interplay between health services administration,
health professionals and patients. A challenge to take up.
Parole chiave. Azienda sanitaria, cultura scientifica, professioni sanitarie, umanizzazione della medicina.
Key words. Dehumanization of medicine, health professions, health services administration, medical profession.
Introduzione
L’azienda nel rapporto
operatore sanitario-paziente
Uno dei temi più dibattuti, oggi, è quello della
“umanizzazione” della medicina1,2, tema che, in parte, si collega alla notevole insoddisfazione di pazienti ed operatori3,4. Tale insoddisfazione si riflette anche nell’efficacia e nell’efficienza del gesto professionale e del rapporto tra medico e malato5 con conseguenze rilevanti. Un rapporto dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità, significativo a questo riguardo, è stato di recente oggetto di dibattito a livello internazionale6: per ogni singola malattia cronica il
semplice ottenimento di una buona compliance, frutto di un adeguato rapporto medico-paziente, avrebbe effetti migliori di quelli che si sono ottenuti con
uno qualsiasi dei recenti progressi terapeutici. Un
rigetto di trapianto su quattro è causato da assenza
di compliance. Un paziente su due non segue adeguatamente le indicazioni terapeutiche relative alla
prevenzione di recidiva di infarto del miocardio, ipertensione, diabete, ipercolesterolemia6.
Le ragioni di tale insoddisfazione, che contribuisce a condizionare pesantemente il gesto professionale, vanno riconosciute ed eliminate, se si vuole
contribuire all’umanizzazione della sanità. Al centro di tale problematica si pone la complessa interazione tra azienda sanitaria, operatore e paziente.
Tale interazione è condizionata da svariati fattori:
scopo di questo lavoro è descrivere quelle che – al
proposito – ci sembrano due questioni chiave.
Summary. The risk of loss of essential elements of our professionalism, such as sense of duty, altruism and collegiality, contributes to the difficulties in the interplay between
health services administration, health professionals and patients. It is not enough to increase salaries or change organization models. It is also insufficient a generic reference
to the values of our profession, but it is mandatory to overcome the self-referencing attitude of health professions.
La storia dell’interazione tra azienda sanitaria,
operatore e paziente è relativamente recente.
L’evoluzione che si è avuta nei campi principali che
descrivono il profilo della nostra professione può
essere divisa approssimativamente in tre fasi7.
La prima è l’epoca pre-moderna, quella dell’etica medica. In questo periodo l’ideale medico, i concetti di buona medicina, di buon paziente e di buon
rapporto si identificavano con la domanda “quale
trattamento porta maggior beneficio al malato?”:
in un contesto di paternalismo benevolente dove il
paziente subordinava la propria autonomia ad un
rapporto di “alleanza terapeutica” (peraltro non di
rado meramente formale).
Nella fase moderna, quella della bioetica, si
partiva dalla domanda “quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell’autonomia
delle sue scelte?”, con il medico che rappresentava un’autorità democraticamente condivisa e il
paziente co-protagonista (in vitù del consenso informato) di una partnership utente-professionista.
Oggi siamo giunti ad una fase che potremmo definire post-moderna, caratterizzata dall’etica dell’organizzazione, nella quale la domanda da cui si
muove è: “quale trattamento ottimizza l’uso delle
risorse e produce un paziente/cliente soddisfatto?”.
1Reumatologia, Università Federico II, Napoli; 2ASL NA1, Napoli; 3Dipartimento Chirurgico, Presidio Ospedaliero San Gennaro,
Napoli; 4Fondazione Romano Guardini, Napoli; 5Medicina Interna, Seconda Università di Napoli.
Pervenuto il 5 novembre 2012.
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In questo contesto, il medico ritiene di avere una
leadership morale, scientifica, organizzativa; il paziente è concepito come “cliente” che deve essere
giustamente soddisfatto e consolidato, mentre il
rapporto medico-paziente si configura come “stewardship” tra un fornitore di servizi ed un utente:
sempre più come un contratto di assistenza tra
azienda e comunità sociale.
Questo pur rapido excursus sottolinea la comparsa relativamente recente dell’azienda sanitaria
nell’interazione con gli altri due poli: professionista
e paziente.
L’azienda è un’organizzazione di persone, strumenti e capitali finalizzata ad uno scopo. Essa è
strumento di un soggetto che si definisce “titolare”.
In un’azienda sanitaria il titolare è il “gestore/proprietario” che, nel caso della sanità privata, è un
effettivo proprietario, mentre, nel servizio pubblico – facendo riferimento all’organizzazione dello
Stato – si identifica nel popolo sovrano.
Il punto cruciale della questione, però, è quello
della finalità. Oggi sembra pacifico che scopo dell’azienda e dell’organizzazione sanitaria sia la tutela della salute (limitandoci ad usare il termine
tutela per non entrare nel dettaglio di locuzioni come diritto alla salute, mantenimento della salute,
ecc.). Eppure ci sembra evidente che non è l’azienda, ma è il rapporto operatore sanitario-paziente
che ha la finalità di salvaguardare la salute comunitaria. L’azienda, quindi, deve favorire, organizzare e assoggettare tale rapporto ai principî di economicità, ma non sostituirsi ad esso. Le conseguenze di tale tentativo sono infatti il centralismo,
il dirigismo: con i problemi di cui spesso facciamo
esperienza, fino alle gravi questioni bioetiche quali quelle – ad esempio – correlate all’istituto dell’obiezione di coscienza. Di conseguenza, occorre ridefinire l’azienda sanitaria come un’organizzazione di persone, strumenti e capitali finalizzata ad
uno scopo: servire il rapporto operatore sanitariopaziente come lavoro per la tutela della salute.
Si tratta di un cambiamento culturale necessario per innescare una tendenza positiva, volta a
contrastare la diffusa insoddisfazione nell’ambito
assistenziale e più fortemente orientata all’umanizzazione della medicina. Tale cambiamento enfatizza il ruolo pedagogico come dimensione permanente del lavoro dell’operatore sanitario. In
questa prospettiva, la discussa “aziendalizzazione/industrializzazione” della medicina, piuttosto
che un problema, riuscirebbe a configurarsi come
un’opportunità, non solo perché potrebbe consentire una migliore divisione dei compiti, ma anche
perché faciliterebbe un processo di riflessione e di
distinzione nel nostro lavoro tra l’essenziale e l’accessorio (quest’ultimo può essere demandato)8.
Un atteggiamento culturale autosufficiente
Occorre accennare ad un secondo fattore che pesa su queste questioni in misura ancora più decisiva.
Editoriali apparsi sulle maggiori riviste internazionali hanno, con allarme, messo in evidenza
tra gli operatori sanitari un atteggiamento di rinuncia al tradizionale impegno verso i pazienti: un
decremento dell’“altruismo”1,5. Una simile deriva
culturale crea non soltanto problemi di relazione
formale, quanto piuttosto rischi per la natura stessa della professionalità: della qualità della prestazione1,5. Rappresenta, quindi, un problema che influenza pesantemente l’interazione tra azienda,
professionista e paziente, derivando da un atteggiamento culturale che potrebbe essere identificato come una “autolimitazione della ragione”.
La cultura scientifica ha avocato a sé l’uso esclusivo del principio di razionalità. È razionale solo ciò
che può essere provato con un esperimento; solo ciò
che risponde ai criteri della valutazione scientifica.
Una linea di tendenza maggioritaria della cultura
contemporanea accreditata come unica modalità di
conoscenza oggettiva e universale è quella che deriva dall’approccio scientifico-matematico. Relega nel
“soggettivo” evidenze come il valore della persona e
il rispetto della vita, assunti che, anche se non dimostrabili sperimentalmente, sono del tutto imperativi. Subordinare al giudizio soggettivo evidenze
non solo biologiche – bensì biografiche ed etiche – e
“ragionevoli” in quanto corrispondenti all’aspettativa di ogni essere umano, quali il valore della vita e il
rispetto della persona, rischia di denegare quel contesto basilare di riferimento in cui deve esercitarsi
la professione. Si può quindi tentare una definizione
di questo atteggiamento del nostro ambito professionale denunciandone l’autoreferenzialità, che possiamo identificare con la falsa coscienza secondo cui
il complesso di conoscenze e abilità generato dalla
scienza medica gratifica se stesso di autosufficienza:
così che il lavoro in ambito sanitario non abbia bisogno di rispondere ad altro che alla sua dinamica interna. In particolare, autoreferenzialità vuol dire anche negare l’esistenza e la necessità di un contesto
di riferimento oggettivo e “impegnativo” nel quale
deve esercitarsi la professione medica9. Non si nega,
cioè, che possano esistere contesti differenti che facciano da orizzonte al nostro operare professionale,
ma si nega che alcuni elementi di questi contesti possano costituire valori non negoziabili.
L’operatore sanitario: solo tecnico e burocrate?
Due sono le principali conseguenze di un atteggiamento autoreferenziale.
La prima è quella di una riduzione meccanicistica della nostra professionalità. Se l’unico orizzonte razionale è quello scientifico-matematico, allora l’attività sanitaria si riconosce dipendente solo da valutazioni che passano attraverso il vaglio
della dimostrazione mediante l’esperimento. Come
abbiamo detto, se ciò è sufficiente per affrontare
un certo ambito di problemi, non è metodo adeguato per le considerazioni relative alla complessa
unità dell’essere umano, considerazioni che precedono le valutazioni dell’esperimento.
A. Del Puente et al.: Azienda sanitaria, operatore di salute, paziente. Una interazione complessa, una sfida da raccogliere
Un’autolimitazione della ragione che neghi questo, invece, finisce di fatto per considerare il malato come un mero meccanismo guasto e non come
una persona, a dispetto di tanti auspici spesso anche formalmente teorizzati. Con ciò va persa la capacità di prendersi cura di colui che soffre e si allarga il fossato tra terapia e assistenza. L’operatore sanitario concepisce se stesso come l’“ingegnere”
deputato a riparare un meccanismo. La persona
viene così considerata un prodotto della nostra
azione, un prodotto che può anche essere selezionato secondo le nostre esigenze, a danno della sua
propria singolarità e inviolabilità.
La seconda conseguenza dell’autoreferenzialità è
il concepire la nostra professionalità come una tecnica “neutra”. Una tecnica, cioè, che non risponde ad
altro che alla sua dinamica interna e che deve solo
essere applicata. La capacità di giudicare, di rapportarsi con il malato non più necessaria: suppliscono sufficientemente le linee-guida. In queste condizioni gli unici protagonisti della relazione professionale finiscono per essere l’utente che avanza le sue
richieste e il magistrato che verifica l’adeguata applicazione delle procedure. La dimensione peculiare
del rapporto operatore sanitario-paziente, il bisogno
di significato che si esprime in tale relazione sono
confinati in una mera dimensione soggettiva. In questo contesto dominato dalla burocratizzazione, l’operatore sanitario finisce per configurarsi come l’impiegato che ha l’unico compito di sbrigare pratiche
quotidiane. Una simile situazione tende a far emergere due atteggiamenti. Il primo è la crescita della
cosiddetta “medicina del desiderio”, con un operatore sanitario ed un paziente portatori di un concetto
di salute come “diritto”, codificato da linee guida e
procedure. Un diritto al mantenimento del proprio
stato di salute, inteso non solo come efficienza meccanica, ma spesso addirittura come immagine ideale. La sanità viene quindi intesa come una agenzia
che abbia di conseguenza il “dovere” di soddisfare tale diritto, con le conseguenze cui stiamo assistendo
sia dal punto di vista dell’agire del paziente che di
quello dell’operatore. Il secondo atteggiamento che
tende ad affermarsi è quello della “medicina difensiva”, che non è solo una reazione conseguente ad una
pressione, ma rappresenta un modo di intendere il
proprio ruolo come quello di un operatore riluttante
all’interlocuzione e teso ad evitare il rischio del proprio agire. E di nuovo le linee-guida e il consenso informato si riducono ad essere il paravento di una fuga dall’impegno di un rapporto vero tra medico e malato. Il rapporto perde efficienza ed efficacia. E nobiltà. Una riduzione che è particolarmente grave in
un contesto come quello contemporaneo. (Un solo
esempio: la percentuale della popolazione anziana è
in costante e vertiginosa ascesa. Questa quota di popolazione è in modo particolare portatrice di una serie di condizioni croniche, spesso gravi, che anche se
non possono essere guarite, richiedono egualmente
di essere costantemente seguite più mercé il recupero di una migliore empatia che con il potenziamento di cure cliniche).
La sfida di un cambio di prospettiva
L’applicazione di questa “autolimitazione della
ragione” conduce ad un esito che è l’opposto di
quanto da tutti auspicato, generando quegli elementi che sono alla base della crisi di rapporto tra
professionista della salute, paziente ed azienda sanitaria.
Come contrastare questa deriva?
Il ricorso a provvedimenti salariali o organizzativi è certamente utile, ma risulta insufficiente, come lo è, purtroppo, anche il richiamo generico ai valori professionali. Questi ultimi rappresentavano
un sufficiente sostegno all’agire professionale in un
contesto nel quale le grandi convinzioni di fondo generate dall’etica e dalle religioni in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Recenti episodi
di cronaca, invece, correlati alla problematica etica
e sociale del fine vita, ci hanno dimostrato drammaticamente come si possano giustificare atteggiamenti diametralmente opposti appellandosi agli
stessi valori, anche professionali: rispetto della persona, altruismo, amore dell’altro. Ciò può indurre il
sospetto che il richiamo generico a valori non correlati ad un riferimento esplicito a proprie radici rischi di ridursi ad un’espressione di autosufficienza,
con le gravi conseguenze cui si è fatto cenno. Il riferimento generico ai valori o agli obiettivi della
professione (come minimo comune denominatore
sul quale ritrovarsi) diviene insufficiente nel caso
che avalli questo atteggiamento e pretenda di sostenersi autonomamente, senza confrontarsi con un
orizzonte di esperienza umana nella sua interezza
e pluralità. Esso resta alla mercé dei “più forti” di
turno, di coloro, cioè, che di volta in volta sono in
grado di ridisegnare il contenuto di questi valori o
di questi obiettivi: essi divengono strumenti dell’interpretazione di chi ha il potere di decidere, eludendo (e questo è uno dei rischi più gravi) un reale
dialogo e confronto.
È necessario un cambio di prospettiva. Occorre
abbandonare una visione del nostro ambito (del
rapporto azienda – professionista – paziente) autosufficiente e “blindata” rispetto alle risorse della
realtà tutta intera. Il nostro lavoro, la fatica che
comporta la sua quotidiana e corretta applicazione,
non si sostiene per il riferimento a parole d’ordine
separate dalla radice. Questioni quali il significato di ciò che facciamo e la domanda su da cosa origina e cosa sostiene la nostra dedizione non possono essere declassate ad elementi di valutazione
unilaterale. Occorre riconoscere che la concezione
che abbiamo della persona è rilevante per la professionalità. Essa determina l’agire professionale
fin nel dettaglio tecnico e non va minimizzata nell’angustia dell’individualità, ma deve divenire parte del dialogo quotidiano. Nel nostro lavoro e nelle
nostre dinamiche professionali e organizzative occorre aprire, anzi spalancare, spazi a quelle risorse, a quegli imperativi e legami educativi che viviamo quotidianamente nella nostra esperienza
esistenziale.
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È un appello ad una laicità vera: una laicità intesa come riconoscimento di pieno diritto di cittadinanza a posizioni motivate quali valori di risorsa e di rilevanza sociale10. Ciò non lede la libertà di
alcun soggetto ed anzi rappresenta il desiderio di
mettere a disposizione di tutti l’intera ricchezza di
energie disponibili. Invece, una laicità intesa come
“atteggiamento indifferente alle argomentazioni
sensibili alla verità”11, come occultamento delle
proprie motivazioni, diminuite al rango di istanze
relative, finisce per cedere al rischio della contingenza e di una professionalità autoreferenziale.
Aprire alle risorse della realtà
Aprire, anzi: “spalancare spazi” vuol dire valorizzare possibilità e risorse che sono sotto i nostri
occhi. In particolare l’esperienza cristiana, che è
certamente una risorsa essenziale per l’ambito sanitario da un punto di vista sia storico che personale. Il contributo dell’esperienza cristiana alla
professionalità in ambito sanitario infatti non è
un’idea, ma è un legame pedagogico che rende ragionevole – e quindi tendenzialmente permanente – ciò che tutti auspicano: guardare l’altro come
persona, condizione assoluta per l’efficienza tecnica. Un legame educativo che documenta la ragionevolezza di quel contesto di riferimento oggettivo
e impegnativo nel quale la persona e il rispetto della vita sono un assoluto non negoziabile12.
Per affrontare il problema della “deriva” del nostro ambito, da molti denunciata, c’è bisogno di favorire l’incontro (libero e facoltativo) con tali principî e il conseguente maturare di giudizi in ambito professionale, in uno spirito di vera laicità.
In primo luogo, ad esempio, favorendo incontri
con esperienze professionali: in ambito clinico come in quello gestionale, dal meeting di reparto fino ai corsi aziendali (utilizzando gli spazi offerti
dall’ordinamento didattico o dai corsi di formazione professionale), la strada per l’umanizzazione
della medicina passa per l’incontro con esperienze
professionalmente efficaci che non tacciano la rilevanza delle motivazioni degli imperativi etici e il
loro impatto sul gesto tecnico. Vale la pena citare,
a puro titolo di esempio, gli specifici Corsi di attività didattica elettiva del Corso di laurea in medicina e di quello in infermieristica dell’Università
Federico II di Napoli o gli analoghi corsi nei programmi di formazione aziendale13.
Inoltre, “aprire spazi” vuol dire essere consapevoli – nel rapporto con il paziente e con le associazioni di pazienti – che la salute è parte di un benessere più completo. Di conseguenza, cooperare
alla salute vuol dire anche, nel servizio alla persona malata, suggerire strumenti (es. opuscoli, testi)
e occasioni (incontri tra pazienti, convegni) idonei
ad ampliare una visione di vita14.
Aprire spazi alle risorse della realtà e quindi
della società vuol dire – infine – considerare, in
ambito organizzativo, la sussidiarietà come un
principio guida di ogni iniziativa di politica e or-
ganizzazione sanitaria. Sussidiarietà intesa come
riconoscimento e valorizzazione dell’apporto delle
risorse e delle identità sociali15. Qualcosa di ben diverso, ad esempio, da una semplice esternalizzazione di servizi che un’azienda non riesce più a gestire16.
“Laboratori” come porte aperte
alle energie della realtà
Occorre promuovere a metodo della nostra attività il confronto che nasce dall’apertura a tali risorse, perché il nostro lavoro possa trarne nuova
linfa: esso, infatti, è sostenuto e modulato fin nei
dettagli dal modo con cui “io guardo l’altro”. Questa metodologia può essere istituzionalizzata in
veri e propri “laboratori” dove le problematiche
sopra descritte vengano messe sistematicamente
a tema e ci sia l’occasione per maturare un giudizio sul proprio lavoro nell’ambito di un confronto
franco e continuativo.
La prospettiva descritta, e in particolare l’attività dei laboratori, costituiscono un contesto nel
quale atteggiamenti universalmente invocati come
indispensabili per la bontà “tecnica” del nostro operare1 (responsabilità, gratuità, dedizione, sacrificio) possono tornare ad essere significativi perché
non solo si rifanno ad affermazioni teoriche o ad
un precetto etico, ma piuttosto all’energia che nasce dall’incontro, da un legame educativo costante, umanamente seduttivo e professionalmente efficace. Un atteggiamento di apertura che investa
non solo l’ambito formativo, ma anche quello organizzativo e clinico, ci sembra condizione necessaria per la ripresa di una professionalità nutrita da
significato umano e capacità di servizio17. Un’apertura che restituisca al nostro agire, patriziato di
funzioni e finalità di umanesimo integrale.
Ringraziamenti
Si ringrazia il dottor Teodoro Marotta per aver offerto numerosi e preziosi spunti di discussione nella fase di preparazione dell’articolo.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Prof. Antonio Del Puente
Università Federico II
Reumatologia
Via Sergio Pansini, 5
80131 Napoli
E-mail: [email protected]
12. Del Puente A, Esposito A. Il contributo dell’esperienza cristiana alla professionalità medica. Bari:
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