805-806 Sommario - Edizioni Studium
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SOMMARIO Anno 107° - set./ott. 2011 - n. 5 EMILIO VINCIGUERRA Intervista con Dominique Lapierre 555 MARIO TOSO Giustizia e globalizzazione: dalla Mater et Magistra alla Caritas in veritate 561 Giovanni Paolo II: il papa «beato» che attraversando la storia si è fatto «vento della speranza non vinta» 569 PIERSANDRO VANZAN S.J. RIFLESSIONI SU UN 150° BARTOLO CICCARDINI Garibaldi e l’idea sull’Europa unita 583 CLAUDIO VASALE Gioberti e il neoguelfismo oggi 601 LUIGI PICARDI Il regionalismo italiano e la «questione regionale» molisana (18612011) 621 Cattolici e unità d’Italia 637 GIORGIO CAMPANINI SPIRITUALITÀ ORLANDO TODISCO Il carattere francescano della libertà, ovvero la potenza senza potere 647 TEOLOGIA PAOLO SINISCALCO Erik Peterson, 50 anni dopo 657 LA CRITICA BRUNO LUISELLI Un dio/Dio nella poesia italiana di Alfonso Traina 667 INEDITI CARLO FELICE CASULA L’enciclica Rerum Novarum 699 INTERVENTI CRITICI FEDERICO DOGLIO La storia del teatro greco e latino da Eschilo a Seneca 723 LA NOSTRA BIBLIOTECA 727 A questo numero hanno collaborato: EMILIO VINCIGUERRA, giornalista, docente presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Università Pontificia Salesiana. MONS. MARIO TOSO, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, già Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana. PIERSANDRO VANZAN S. J. (1934-2011), scrittore della Civiltà Cattolica. BARTOLO CICCARDINI, eletto alla Camera dei Deputati per sei legislature (1968-1992), ha diretto, fra l’altro, il settimanale La Discussione (1969-1977). CLAUDIO VASALE, professore di Storia delle dottrine politiche presso La Sapienza - Università di Roma. LUIGI PICARDI, professore di storia e filosofia nei Licei, per molti anni preside del Liceo Classico “Mario Pagano” di Campobasso. GIORGIO CAMPANINI, professore di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Parma. ORLANDO TODISCO, docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Cassino e di Filosofia francescana alla Facoltà San Bonaventura-Seraphicum di Roma. PAOLO SINISCALCO, Docente di Storia del cristianesimo nella Facoltà di Lettere e Filosofia presso La Sapienza - Università di Roma. BRUNO LUISELLI, Accademico dei Lincei, Professore emerito di Letteratura latina presso La Sapienza - Università di Roma. CARLO FELICE CASULA, professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università Roma Tre, dirige il Master Internazionale in Scienze della cultura e della religione. LA NOSTRA BIBLIOTECA Michele Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. 260. La società contemporanea è sempre più intimamente connessa alle applicazioni e alle innovazioni della scienza e della tecnica, ormai talmente legate l’una all’altra da potersi sinteticamente indicare con il termine “tecnoscienza”. Dalle biotecnologie alle nanotecnologie, dalle neuroscienze all’informatica il sapere e il fare dell’uomo stanno conoscendo negli ultimi anni dei progressi straordinari la cui portata è tale da delineare dei profondi cambiamenti non solo nell’ambito prettamente scientifico ma anche, se non soprattutto, nella percezione extrascientifica della tecnoscienza. Ciò che più crea problema a proposito dei grandi sviluppi contemporanei della scienza e della connessa tecnologia è l’impatto che essi hanno sulle categorie con cui si interpreta e si regolamenta la vita umana nel suo insieme, sul piano giuridico, etico, sociale, politico. In questo senso è possibile parlare di una vera e propria trasformazione della soggettività umana in virtù delle nuove possibilità tecnoscientifiche, sia nel senso che l’identità umana rischia di essere progressivamente ridotta a quanto il sapere e il lessico scientifico ci rivelano (si pensi al riduzionismo genetico o a quello neuroscientifico), sia nel senso che oggi è materialmente possibile mutare l’identità corporea e mentale dell’uomo con tutto quanto ne consegue. La radicalità della trasformazione della soggettività umana innescata dalle tecnoscienze contemporanea è sempre più diffusamente interpretata come causa di un vero e proprio superamento della condizione umana e della transizione allo stadio postumano, variamente inteso sul piano filosofico-morale. Prima di valutare l’impatto biogiuridico e bioetico delle complesse questioni qui solo accennate, è, quindi, quanto mai importante chiarire le loro premesse teoriche. In questo senso il testo di Michele Farisco si distingue come strumento utilissimo per indagare i risvolti teoretici e morali del postumano, di cui si offre una puntuale ricostruzione storicoteoretica in dialogo con diversi ambiti disciplinari (dalla biologia alle neuroscienze, dall’antropologia culturale all’antropologia filosofica). L’interesse del testo è accentuato dal fatto che il dibattito sul postumano si distingue per la propria attualità e novità, cosicché non è facile mettere ordine tra le diverse sue possibili declinazioni. In dialogo con i maggiori rappresentanti italiani e stranieri, Farisco offre una griglia concettuale ai fini di una ricognizione e sistemazione del dibattito sul tema. Nel contempo, fin dal titolo emerge con chiarezza una precisa presa di posi- 728 La nostra biblioteca zione critica dell’autore, secondo il quale il postumano è paradossalmente in grado di offrire un nuovo paradigma antropologico purché entri in dialogo con la prospettiva “classica” relativa alla natura umana, troppo spesso sbrigativamente messa da parte in quanto ritenuta non in grado di affrontare gli inediti problemi della tecnoscienza contemporanea. In particolare, secondo l’autore i concetti di dinamicità e di relazione, al centro dello stesso postumano, o almeno di una sua possibile interpretazione, sono propri della semantica della natura umana, da non intendersi riduzionisticamente come mera e statica materia, bensì come ciò che ha in sé inscritti i principi di movimento e di quiete. La tesi di fondo del volume è che è possibile pensare l’impatto e le trasformazioni innescate dalla scienza e dalla tecnica nel mondo contemporaneo restando comunque inscritti in un orizzonte antropologico. [Laura Palazzani] L. Alici (a cura di), La felicità e il dolore. Verso un’etica della cura, Aracne, Roma 2010, pp. 177. Il volume raccoglie gli atti del primo dei «Colloqui di etica» promossi con cadenza annuale dal Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dell’Università di Macerata. Il titolo contiene un’indicazione programmatica tanto preziosa quanto essenziale, per cui l’approssimazione a un’etica del- la cura non può prescindere da una previa analisi del rapporto tra due «fondamentali antropologici» (Alici): la felicità e il dolore. A una prima parte, in cui si offrono al lettore le coordinate etico-antropologiche e politiche per collocare concettualmente tale binomio, segue una parte in cui tali nozioni sono sviluppate e rilanciate anche attraverso applicazioni concrete. Il concetto di felicità inteso come tensione alla pienezza è assunto come cardine di una riflessione che nulla concede all’attaccamento al dolore; a partire da una fenomenologia dell’umano, nel corso del volume si fa strada l’ipotesi di una «compossibilità tra felicità e dolore» (Pagliacci); in tale ottica, ferma restando l’originarietà della tensione alla felicità, il dolore non va censurato, nascosto o, al contrario, esaltato come se avesse valore in sé. Al contrario, il fenomeno della sofferenza, onnipervasivo per l’esperienza umana, è affrontato attraverso sapienti ed appropriati approfondimenti in chiave etica, bioetica e politica. Nella dimensione politica, ad esempio, la sofferenza è centrale tanto in negativo, perché storicamente il potere ha instaurato con essa un legame forte, rintracciandovi un modo per mantenersi ed autoalimentarsi, quanto in positivo, dal momento che la pratica politica dovrebbe assumere come proprio ideale regolativo il contenimento del dolore e creare le condizioni per la felicità (Nicoletti). In campo etico la cura acquista progressivamente, all’interno del volume, lo statuto di cifra della relazione: La nostra biblioteca soltanto a partire da tale assunto dovrebbero articolarsi le pratiche terapeutiche anche nell’orizzonte della bioetica. Il volume rappresenta un appello elevato e profondo affinché un’antropologia integrale sia posta al centro delle pratiche della cura. Per questo motivo, ogni relazione di cura, propria per definizione all’essere che più di tutti gli altri nasce “prematuro” (Reichlin), non può prescindere dalla “polarità asimmetrica” tra felicità e dolore. La domanda di felicità, senso ultimo della cura, contribuisce ad interrogare il dolore in quanto traccia della finitudine umana e della sua storicità. [Silvia Pierosara] M. Vannini, Dialettica della fede, Le Lettere, Firenze 2011, pp. 156. Trent’anni fa, Marco Vannini conseguiva il baccalaureato in teologia presso lo Studio Teologico Fiorentino, discutendo una tesi dal titolo Il concetto hegeliano della fede. Nei tre decenni che ci separano da quella data, Vannini si è imposto come uno dei maggiori studiosi italiani di mistica, scrivendo numerose opere di sicuro valore, tra le quali spiccano quelle su Meister Eckhart, il celebre mistico medievale tedesco. Non per caso, al centro di questo recente volume, che riprende e amplia un precedente lavoro del 1983, l’autore colloca proprio il rapporto che, a suo giudizio, sussiste tra la mistica medievale germani- 729 ca, cosiddetta speculativa, e il pensiero hegeliano, in cui alcuni interpreti riconoscono una precisa impronta teologica cristiana. Il primo capitolo del libro è dedicato a delucidare il concetto di fede in Eckhart e giunge alla conclusione che tale fede, in quanto movimento di tutta l’intelligenza, ovvero di tutta l’anima, verso l’Assoluto, è un incessante rimuovere ogni contenuto, compreso nella sua finitezza – dunque coincide con quel “distacco” che è il nucleo centrale dell’ esperienza religiosa eckhartiana. Nel secondo capitolo, intitolato La fede come notte oscura, l’autore si sofferma sull’opera di san Giovanni della Croce, del quale si ritrovano tracce significative in Taulero e quindi in Eckhart stesso. Nella mistica del grande santo castigliano Vannini ravvisa la presenza di una fede non produttrice, ma toglitrice di credenze, capace di condurre il vero credente sino alla “notte oscura”, al “nulla”, che è il solo “luogo” in cui può avvenire l’autentica unione dell’anima con Dio. Nell’ultimo capitolo viene ripreso l’esame del pensiero hegeliano, con particolare riguardo alla sua fase più matura, testimoniata dalle famose Lezioni di filosofia della religione, e si evidenzia come nel filosofo tedesco la fede non sia affatto credenza che produce rappresentazioni religiose destinate a venire in conflitto con quelle scientifiche, ma atto del pensiero nel suo livello più ricco e profondo, quello spirituale, ove è intimamente presente il negativo, la “morte”, dopo la quale soltanto c’è la vita vera. Le tesi sostenute da Vannini sono suggestive, frutto di un lettura dei testi tanto attenta 730 La nostra biblioteca quanto originale e discutibile, specialmente laddove l’affermazione della purezza della fede cristiana di Hegel si fa troppo perentoria. [Maurizio Schoepflin] F. Gianfreda, S.J., Logos alogos. La giustizia cristologica nei Cahiers di Simone Weil, Pazzini, Verucchio (Rn), 2011, pp. 320. In questo libro, scritto in occasione della celebrazione del centenario della sua nascita, il pensiero di Simone Weil (1909-1943) viene ripercorso intorno a un tema chiave: la giustizia nei Cahiers, una raccolta di pensieri sinceramente “dialettici e assai belli”, redatti dall’inizio del 1941 al luglio 1943. Essi rappresentano un punto di osservazione privilegiato, dal quale ci si può approssimare alla fonte della meditazione weiliana, come si deduce da questa appassionata ed empatica meditazione sul continuo questionare al quale la Weil si esercita negli anni drammatici e cruciali della seconda guerra mondiale, epoca del silenzio di Dio. Nella prima parte l’autore ricostruisce le condizioni di vita e di pensiero (il lavoro in fabbrica, la guerra in Spagna e l’esperienza mistica) che hanno indotto la Weil alla elaborazione di una fenomenologia del potere, nella seconda segue l’approfondimento speculativo weiliano in senso cronologico, mostrando la tessitura concettuale e simbolica di un regno di giustizia che rivela una forte influenza platonica, ma mostra anche profonda sintonia con elementi principali delle tradizioni orientali. Tra le molte e pregnanti citazioni estrapolate dai Cahiers, con le quali l’autore si confronta approdando a un vero e proprio esercizio di maturazione nello spirito e di educazione dell’intelletto, la seguente ci sembra dia opportunamente ragione del titolo del libro: «Il bello è l’apparenza manifesta del reale. Il reale è essenzialmente la contraddizione. Perché il reale è l’ostacolo, e l’ostacolo di un essere pensante è la contraddizione. In matematica il bello risiede nella contraddizione. L’incommensurabilità, ÏfiÁÔÈ ôÏÔÁÔÈ, è stata il primo risplendere del bello in matematica» (Q, III, p. 43, qui p. 232). Bello il commento dell’autore: «Cristo crocifisso è il rapporto (Logos) rintracciabile ovunque nel cosmo. È visibile indirettamente: per l’armonia da Lui prodotta; perché Egli tiene gli estremi delle cose, in-staurando comunione. In quanto in-comprensibile, assurdo e scandaloso alla ragione discorsiva, può dirsi Logos alogos. È l’origine della bellezza di ogni cosa, poiché è il Bello. È la verità di ogni reale contraddizione. Bellezza e verità hanno il crisma della Passione; si danno nel cuore della sofferenza, della lacerazione, della morte» (pp. 231-232). Il punto di approdo della ricerca weiliana sulla giustizia va colto nella sua adesione a Cristo Figlio di Dio crocifisso al centro di tutto ciò che e-siste. Il passo tradotto e commentato della Lettera di san Paolo ai Filippesi, 2, 6-13 diviene il testo emblematico dell’intera esistenza La nostra biblioteca della Weil, segnata da una esperienza mistica folgorante: «Il Cristo si è svuotato della sua natura divina e ha assunto quella di uno schiavo. Si è abbassato fino alla croce – fino alla separazione da Dio (padre mio…). In quale modo dobbiamo imitarlo?» (p. 193). La kenosi di Cristo deve continuare in ogni cuore credente quale forza redentrice, potenza trasformatrice che rende capace ogni uomo di rinnovamento o svuotamento: questo il prezzo dell’attrazione erotica fatale pagato dalla stessa Weil o il frutto dell’intuizione mistica in seguito alla quale ha risposto all’amore giusto e incondizionato di Dio Padre Creatore e del Cristo Figlio crocifisso. Discepola di Platone e di san Giovanni della Croce, nonché del Dharma e del Tao, Simone Weil indica la kenosi quale centro compositivo della rappresentazione cosmica. Come per i grandi mistici Meister Eckhart, san Giovanni della Croce e santa Teresa del Bambin Gesù del Volto Santo, le contraddizioni esistenziali e di conoscenza dipanate dalla Weil sono opportunamente considerate da Gianfreda come i gradini di una scala di transito rivelativo, che si offrono quali luoghi di inveramento della scientia crucis (cfr. pp. 277-279). Bilancia della giustizia è il corpo del Cristo crocifisso, simbolo della morte spirituale a cui ogni uomo (cfr. p. 198), appartenente a Lui ontologicamente, è chiamato. Nella risposta all’amore che costa morte Simone Weil ha operato il raccordo tra la fede, il fenomeno della lettura e la giustizia. [Anna Augusta Aglitti] 731 Giovanni della Croce, Notte Oscura. Traduzione di Luisito Bianchi, EDB, Bologna 2011, pp. 184. «Non bisogna accontentarsi di leggere la vita di Giovanni della Croce fermandosi agli elementi esterni, occorre andare oltre la muraglia dei fatti e cogliere la profondità e la bellezza di quello che ha attraversato l’anima di quest’uomo schivo e affettuoso, delicato e determinato, cercatore della verità e dotato di un senso alto della parresia, cultore della bellezza e appassionato di Dio…Nello stesso tempo, però, la sua esistenza è stata un’immensa passione per l’uomo»: non si può aggiungere altro a questo ritratto di Luigi Gaetani, ocd., che si legge nell’ultima parte del volume. Profondità e bellezza che restituisce in toto il traduttore Luisito Bianchi in questa recente edizione di un classico della spiritualità attraverso il rispetto dell’andamento sintattico, con tutte le subordinate, speso infilzate l’una nell’altra, con tutti i porqué, gli incisi, le ripetizioni e le riprese del pensiero (cfr. p. 12). Dalla struttura del libro si deduce che il santo redige la Notte mettendo insieme la strofe della poesia Noche oscura e il commento teologico spirituale in questo ordine: libro primo, notte passiva del senso composto da 14 capitoli; libro secondo, notte passiva dello spirito, composto da 25 capitoli. Presentando l’uomo come un camminatore e parlando del suo viaggio di fede, san Giovanni della Croce descrive come si realizza la totale trasformazione dell’uomo nel passaggio dalla noche 732 La nostra biblioteca oscura alla noche dichosa (felice notte). Così come fortemente descritto da santa Teresa di Gesù Bambino, la trasformazione d’amore accade dove «l’infusione di Dio e la sofferenza dell’assenza-presenza si tramutano in dichosa ventura (“felice ventura”; N, strofa 1), in amorosa consegna: Non tarderai, se io ti attendo (Parole di luce e d’amore 26), rivelando una capacità di lasciarsi abitare da Dio in uno stato passivo di avvertenza amorosa, in una condizione teologale, sponsale» (p. 176). [Anna Augusta Aglitti] F. Vouga, Dio o Cesare. La politica e il nuovo testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 220. Una domanda e una risposta, questo propone il percorso seguito da questo volume. La domanda, «Dio o Cesare?», è la stessa che suscitò un noto saggio di Franz-J. Leenhardt, pubblicato nel 1940: Le chrétien doit-il servir l’Etat? (cfr. p. 5). Una domanda che ha dunque la peculiarità di suscitarne un’altra. Anzi, molte altre. La responsabilità dei cristiani nei confronti dello Stato ha subito, nel corso della storia più recente, dei significativi mutamenti. Deve confrontarsi con nuove sfide, come sottolinea l’autore: «La fine delle grandi controversie ideologiche ha condotto a un rimescolamento delle carte. Al loro posto sembra essersi installato un consenso fiacco. E tuttavia, il pensiero non deve lasciarsi disarmare. La necessità di una rifles- sione su “Vangelo ed economia”, che prenda il testimone dei contributi classici su “Vangelo e denaro”, appare come un’evidenza» (pp. 910). Da qui la necessità di ripensare la politica come dono della Provvidenza di Dio, al di là dei problemi dell’autorità e del potere, da qui la necessità di tornare a riflettere sul principio della grazia come fondamento della giustizia. Dal confronto tra i due attori del dibattito proposto, “Vangelo” ed “economia”, si cerca, in queste pagine, di ricavare la risposta alla domanda iniziale: l’impresa del cristiano di oggi richiede una mediazione tra i due poli nella politica intesa in senso alto, confrontandosi continuamente con la Scrittura e con la propria esperienza di fede. [Simone Bocchetta] A. Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e non credenti, Edizioni Messaggero, Padova 2011, pp. 112. A conclusione di questa coinvolgente rilettura dell’intera vicenda di Gesù, l’autore ripropone al lettore il bellissimo brano degli Atti degli Apostoli 17, 22-31 nel quale san Paolo annuncia agli Ateniesi: «colui che voi adorate, senza conoscerlo, è il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che dà la vita a tutto e il respiro e ogni cosa». La manifestazione personale dell’Assoluto, l’avviso stesso di Dio è Gesù, nel quale Dio si è reso accessibile e umana- La nostra biblioteca mente conoscibile, avverte don Armando Matteo. In tal senso, l’autore auspica che la felice intuizione di Benedetto XVI del cortile dei gentili avvii tra credenti e non credenti un sincero reciproco interrogarsi «sul come la provocazione messa in campo da Gesù circa la convenienza di Dio per una vita buona e degna di essere detta umana sia diventata irrilevante per i non credenti e come questa crescente irrilevanza corra il rischio di diventare irrilevante per i credenti» (pp. 21-22). Il proprium del credere cristiano consiste nel “diventare uditori della parola della croce”, ossia permettere alla croce di svelare il volto sconosciuto di Dio e dell’uomo (cfr. p. 69). «Credere dunque non è facile, introduce una differenza, un agire diverso, autorizza un modo nuovo di abitare il mondo. E ovviamente questa differenza è la differenza dell’amore, vissuto alla luce della rivelazione della paternità di Dio, che ci permette finalmente un amore della differenza, dell’altro, del dissimile, dello straniero, un amore che disattiva il potere della paura e la paura del potere» (p. 71). Al credente pensoso e al non credente altrettanto pensoso don Armando Matteo si rivolge con parole pacate e benedicenti, le stesse che Gesù ha rivolto ad ogni uomo e donna che ha incontrato nel suo cammino, non lasciando fuori nessuna possibilità dell’umano: il peccatore, il malato, il ricco, il povero, il potente, il ferito, l’uomo in ricerca, lo straniero. La novità dirompente della vicenda di Gesù consiste nel riconoscere che «nessuno umano è a-teo, cioè privo di quella 733 benedizione divina che autorizza la benedizione di sé» (p. 56). [Anna Augusta Aglitti] L. Accattoli, Cerco fatti di Vangelo 2, EDB collana “Itinerari”, Bologna 2011, p. 232. C’è ancora spazio per il Vangelo nella nostra società così tumultuosa e stralunata? Ci sono ancora nelle nostre strade orecchie disposte ad ascoltare la «buona novella»? «La cultura secolare – osserva Luigi Accattoli – oggi irride alla fede nella risurrezione della carne, nega spazio all’accoglienza della vita, ospedalizza forzosamente il malato e il morente, chiude i disabili e gli anziani negli istituti, isola i drogati e i malati di Aids, teme il forestiero e l’immigrato, tende a fare di ogni deviante un carcerato e un nemico, esalta la ricerca della ricchezza e del potere, idolatra la soddisfazione sessuale». Insomma, l’esatto contrario del messaggio evangelico. La risposta negativa più chiara e inequivocabile alla inquietante domanda posta da Gesù ai discepoli; «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8). Eppure, a ben guardare, non pare ancora arrivato il momento di disperare, di «scuotere la polvere dai piedi» (Mc 6, 11 e Lc 10, 11) e passare oltre. Basta, appunto, saper osservare, avere la pazienza e la costanza di cercare i semi caduti «nella buona terra e che portano frutto, dando il 734 La nostra biblioteca cento, il sessanta, il trenta per uno» (Mt 13, 8). Di questi semi sparsi nel terreno sul quale giochiamo le nostre giornate tanto affannate ce ne sono moltissimi, a riprova che «la testimonianza viva della fede incrocia la nostra epoca». «L’esperienza di giornalista – assicura Accattoli – mi ha permesso di cogliere, attraverso i terminali della professione, tanti segni cristiani tra la nostra gente». Il risultato di queste inchieste condotte con cura e passione sono alcuni volumi che già nei titoli rivelano con chiarezza la persistente fertilità e vitalità del messaggio evangelico: Cerco fatti di Vangelo (SEI, 1995), Cento preghiere italiane di fine millennio (La Locusta, 1996), Nuovi martiri (San Paolo, 2000), Islam, storie italiane di buona convivenza (EDB, 2004). A queste quattro raccolte se ne è aggiunta ora una quinta: Cerco fatti di Vangelo 2. Sono 139 nuove storie di fede vissuta, di personaggi anche noti e di gente semplice e sconosciuta, testimonianze ispirate «alle beatitudini e all’esempio di Gesù». Tutte documentate, tutte raccontate con nome e cognome. Storie di martiri della fede «in terra d’Islam»; di madri che sacrificano la propria vita per salvare quella del figlio che portano nel ventre; di uomini e donne che nel nome di Cristo perdonano a chi ha ucciso barbaramente i propri cari; di portatori di handicap e di loro familiari che vivono con serenità – nella francescana «perfetta letizia» – la loro menomazione; di chi riesce a sentirsi e dirsi felice «anche nei giorni dell’ospedale»; di chi sa accettare con viva «fede nella risurrezione» la morte propria o quella altrui; di sposi protagonisti di vite al tempo stesso semplici e straordinarie; di coppie che hanno deciso di spendere la loro vita in missione; di padri e di madri che accolgono nella loro famiglia bambini in affido con particolare attenzione per «creature menomate»; di chi grazie alla riscoperta della fede ha saputo e potuto liberarsi dal dramma della droga e dalla deriva nichilista; di chi dona generosamente gli organi; di eremiti e pellegrini che nella «città secolare» ripropongono «queste forme antiche della ricerca di Dio»; di chi scopre o riscopre il valore della preghiera e non si fa timore di manifestarlo anche perché «non si tratta di parlare al vento ma di un dialogo, un dialogo fruttuoso con un padre che ascolta sempre i suoi figli» (sono parole di Leonardo Mondadori). 139 nuove storie di vita cristianamente vissuta che portano a un migliaio quelle fin qui raccolte e raccontate da Accattoli che, per altro, ci fa sapere che ne «ha già in lavorazione altre centinaia in vista di altri volumi». Al riguardo chiede espressamente ai lettori di unirsi al suo lavoro di ricerca e di segnalargli (www.luigiaccattoli.it) quei «fatti di Vangelo», cioè quelle testimonianze di vita cristiana meritevoli di attenzione, di cui fossero a conoscenza. La testimonianza viva della fede, avverte l’autore, agisce da antidoto contro lo scoraggiamento determinato dal nostro disordine e ci riconcilia tutti nella comunità ecclesiale. Ed è anche certo che essa non resta fine a sé stessa; al contrario, diventa contagiosa, come conferma anche una delle tante storie raccontate nel volume, forse una delle più semplici e meno La nostra biblioteca “eroiche” ma non per questo meno significative. È la vicenda della giornalista Barbara Palombelli che racconta: «Mi sono riavvicinata alla Chiesa tanto tempo fa, quando ... vidi Giovanni Bachelet davanti alla bara del padre dire: “Noi perdoniamo gli assassini di nostro padre”. Mi colpì. Da allora è stato un lungo percorso che mi ha fatto riavvicinare alla Chiesa». [Emilio Vinciguerra] Benedetto XVI, Sante e beate. Figure femminili del medioevo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 120. Il libro raccoglie le sedici catechesi del mercoledì di Benedetto XVI dedicate, dal settembre 2010 a gennaio 2001, a donne del Medioevo che spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento. Ovviamente, il Papa prende avvio dalla poliedrica monaca benedettina Ildegarda di Bingen, vissuta in Germania nel XII secolo, e conclude con Giovanna d’Arco, morta a diciannove anni, nel 1431. Vive nel XII secolo santa Giuliana di Cornillon, nel XIII secolo santa Chiara d’Assisi, santa Matilde di Hackeborn, santa Gertrude la Grande, la beata Angela da Foligno, santa Elisabetta d’Ungheria, santa Brigida di Svezia e santa Caterina da Siena, nel XIV santa Caterina da Bologna e santa Caterina da Genova. Santa Veronica Giuliani nasce nel 1660. Margherita d’Oingt del XII secolo e Giuliana di Norwich, vissuta dal 1342 al 1430, sono due mi- 735 stiche delle quali non è stata ancora riconosciuta la santità. Come afferma il Papa in apertura della prima catechesi, richiamando le parole di Giovanni Paolo II espresse nella Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, «la Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia» (p. 5). Scorrendo i brevi, ma densi ritratti emergono, infatti, donne forti che riescono a portare la luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia della Chiesa, come d’Italia e d’Europa (cfr. p. 113). La varietà e l’originalità dei contributi dati dalle donne alla crescita spirituale della Chiesa sono doni distribuiti dallo Spirito Santo che agisce per l’edificazione della stessa. [Anna Augusta Aglitti] C. M. Celli, La vocazione missionaria di Santa Teresa di Lisieux, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2009, pp. 192. Nel vasto panorama degli studi dedicati alla dottrina teologico-spirituale di Teresa di Lisieux, proclamata nel 1997 da Giovanni Paolo II dottore della Chiesa universale, questo libro delinea un vero e proprio percorso spirituale con indicazioni preziose per ciascuno di noi e per chi è chiamato a svolgere attività di apostolato nella Chiesa. Dalla lettura attenta e amorevole degli scritti originali di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Mons. Claudio Celli mette in luce delle novità veramente 736 La nostra biblioteca sorprendenti, afferma il Card. Ivan Dias nella Prefazione, racchiuse nel mistero della sua vocazione missionaria. Una delle caratteristiche fondamentali della vita spirituale di Teresa, peculiare quindi della sua dottrina, promana dalla contemplazione della Greppia di Betlemme nel Natale 1886 e della Croce al Calvario della domenica del luglio 1887: si delinea una vera dinamica apostolica, che viene a qualificarsi come un movimento spirituale cristocentrico (p. 178). «Nulla di più sublime. La vocazione missionaria di Teresa sboccia dal suo essersi identificata con l’Amore, che è tensione salvifica antropocentrica, che è missionario» (p. 180). Lasciandosi condurre dalle parole di Teresa, l’autore sottolinea il profondo rapporto da lei vissuto tra l’Amore e le membra della Chiesa: «”Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue…” (MB; f. 3v)» (p. 123). Teresa perviene alle più alte vette della vita spirituale perché percepisce che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo non sono realtà inscindibili, ma possono essere sintetizzate e armonizzate nell’unione mistica, attuata mediante l’offerta all’Amore Misericordioso, che si esprime in una gestualità concreta: la carità. Teresa insegna che un vero teocentrismo conduce ad un coinvolgente antropocentrismo, perché Dio stesso, in quanto amore misericordioso e missionario, è antropocentrico (p. 150). [Anna Augusta Aglitti] S. Caronia, Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi, EdiLet, 2009, p. 100. Sono passati giusto quarant’anni dall’ultima fiammata del suo “fuoco indimenticabile”, ed è forse opportuno (parlo di opportunità creativa, di occasione dell’anima) mettersi ancora una volta sulle tracce di Jim Morrison, non prima di averlo riconosciuto come uno degli artisti più eversivi e carismatici del secolo scorso. Ed è interessante farlo accompagnati, non per caso, dalla voce di uno tra gli scrittori più originali e colti del nostro tempo, Sabino Caronia, lasciandosi avviluppare dalla sua sinuosa e sommessa affabulazione, sempre in bilico tra narrazione e saggistica, tra scrittura di prima mano e critica letteraria, tra limpidezza tangibile e complessità labirintica. E occorre giocoforza ritrovarsi a Parigi, dove Morrison si rifugia nell’imminenza del processo intentatogli contro a Miami (lui, leader dei Doors, emblema degli eccessi della musica rock), sull’onda di una campagna moralistica sostenuta da Nixon: Parigi dove, ventisettenne famoso e solo, muore di infarto alle 5 di mattina del 3 luglio 1971, al numero 17 di rue Beautreillis, dentro una vasca da bagno. Un “americano a Parigi”, dunque, nel cuore della vecchia Europa: ed ecco le peregrinazioni solitarie e meditabonde, i luoghi-simbolo (il Cafè Deux Magots, la Place des Vosges), e la musica, gli artisti di strada, i colori, gli aromi variegati e cangianti della città. E, ancora, il sacchetto bian- La nostra biblioteca co dei magazzini Samaritaine che si porta dietro, con dentro due taccuini a spirale dove appunta i suoi scritti (poesie, canzoni, pensieri, ricordi, visioni). Miami, il processo e il proposito di scrivere un libro sul processo, quel libro che con l’andare del tempo doveva divenire un diario e insieme un’autobiografia, un diario-autobiografia che recuperasse persone e fatti della propria vicenda privata, evocati quasi in una sorta di kafkiano processo, un processo più interno che esterno. Lo raccoglie Caronia quarant’anni anni dopo, questo proposito, e prova a interpretarlo anch’egli sotto forma diaristica e autobiografica. Una biografia che si fa autobiografia: sottotraccia e in controluce, in un modo che diventa, pagina dopo pagina, sempre più evidente. Si assiste, infatti, ad un continuo scambio osmotico/empatico fra “io” e “altro”: l’io vissuto come altro e l’altro, parallelamente, come io. Il processo di immedesimazione è, così, complementare a quello di assimilazione: da una parte l’oggettivazione del soggettivo («Le mie sensazioni sembravano confondersi con le sue»); dall’altra la soggettivazione dell’oggettivo («E mi sembrava che non fossi più io a recitare la sua parte ma egli la mia»). Jim Morrison, radiografato alla luce del retroterra culturale – nonché del contesto storico – di cui si nutre e da cui emerge come artista (rock, poesia, letteratura), si configura per Caronia alla stregua di un personaggio per l’attore: una cartina tornasole, un alter ego, uno specchio emblematico di espe- 737 rienze, ricordi, emozioni, giorni da rivivere e pensare. E può farlo perché è uno scrittore dotato di grande memoria, ha una mente-spugna che assorbe e poi rilascia «ogni minimo particolare». Da qui l’importanza dei dettagli, che trattengono-rivelano il “dio nascosto” delle cose. L’habitat più congeniale alla scrittura caroniana, vale a dire la spaziatura tipica del suo orizzonte, è segnato dai confini transitabili dell’intertestualità: ha il demone del citazionismo, ma non per sterile erudizione, o narcisistica smania di esibizione. Pratica un concetto vivo di cultura come “chiave” per aprire porte. Si legga – tanto per intendersi –, dal bellissimo racconto Lighea, “quel” Tomasi di Lampedusa di cui Caronia è uno dei più accreditati e raffinati interpreti: «Lo studio aveva cessato di essere una fatica: al dondolio leggero della barca nella quale restavo lunghe ore, ogni libro sembrava non più un ostacolo da superare ma anzi una chiave che mi aprisse il passaggio ad un mondo del quale avevo già sotto gli occhi uno degli aspetti più maliosi». È proprio questo il metodo caroniano: stabilire cortocircuiti creativi, in dinamiche di continuità e, anzi, di progressivo approfondimento, fra le dimensioni archetipiche della realtà e quelle dei relativi “specchi” culturali (quando la cultura fa appunto da specchio moltiplicante, non da filtro o da schermo opaco). Non a caso Caronia stabilisce la fondamentale «equazione tra il vedere con gli occhi e l’amore, la realtà dell’amore che dipende dal vedere e dall’essere visti». C’è, in tutto il libro, una continua mitizzazio- 738 La nostra biblioteca ne dell’immagine, focalizzata sul vedere e sul vedersi, che sembra funzionale alla sua stessa struttura affabulante, basata sulla ripetizione variata. Uno stile circolare, concentrico, ondivago, intessuto di ricorrenze, di riprese, di agganci del discorso. La scrittura si configura come un cerchio magico e ipnotico di suggestioni, di concrezioni e condensazioni simboliche, intorno ad alcuni fondamentali poli di attrazione che hanno scelto, fra gli altri, il cantante dei Doors per manifestarsi. Era senza dubbio “predestinato” ad essere visitato dall’Energia, dal Duende, dallo spirito della musica. Così emerge, dal ritratto-autoritratto di Caronia: un po’ clown e folletto, un po’ sciamano, capace di accendere e governare certi fuochi. Ovvero, la perfetta fusione tra le sue origini celtiche (testimoniate peraltro dagli zigomi) e l’anima dell’indiano che dovette entrare in lui, avendo assistito da bambino a quel tragico incidente nel deserto (si veda la scena nel film The Doors, di Oliver Stone). Appunto come uno sciamano, Morrison voleva aprire le “porte della percezione” (oltre le quali tutto apparirebbe com’è: infinito), infilando il “varco” per andare “dall’altra parte”. William Blake? Certo; ma anche Aldous Huxley. Quali sono, per l’appunto, i “mitologemi” di Jim Morrison, le sue “costellazioni” magnetiche di senso? Caronia individua principalmente questi: – il sentimento oceanico di dissoluzione dell’io nella molteplicità, che è voluttà di scomparire, di non essere più nessuno. «Andiamo giù, giù». La tentazione di Narciso, l’andare oltre, l’annegamento nella fonte-specchio. Aprirsi all’alterità, al rischio del caos (per noi che lo vediamo dal di qua): cioè, del cosmo indifferenziato. «Solo attraverso la più radicale separazione è possibile raggiungere la più intima fusione col tutto»; – il richiamo ancestrale della luna, cioè il desiderio di abbandonarsi all’infinito, di andare al di là dell’orizzonte per raccogliere la luce. Ed ecco la leggenda di Connla: la morrisoniana barca di cristallo (The Crystal Ship) che si allontana in una scia di luce sull’oceano verso il sole al tramonto, finché svanisce con l’ultimo bagliore della sera; – il nostos, il viaggio alla ricerca delle origini, che per Jim virano addirittura verso il Marocco (Morrison: “figlio dei Mori”); – la nostalgia della casa, la ricerca del luogo abitabile (come Tiffany per Holly – nota Caronia – in Colazione da Tiffany) per dare nomi alle cose. «Vorrei scrivere una canzone in cui la sensazione sia quella di essere completamente a casa»; – la candela e la vita (la morte alla fine della candela): il senso di precarietà, l’ombra di fumo che noi siamo, che ogni cosa è; – il richiamo delle acque materne. Circola in tutti i testi morrisoniani (così come nel libro di Caronia) una potente simbologia dell’acqua: le sirene sinuose come serpenti, «quella sensualità circolare, quella uterina dolcezza di donna spiata nell’intimità del sonno, rannicchiata in posizione fetale», e quindi il richiamo del grembo materno, i nove mesi del “beato soggiorno” intrauterino, ar- La nostra biblioteca chetipo di ogni paradiso: nove mesi magici «di parole sconosciute e onde magnetiche antiche»; – la nave che attraversa le acque (la nave dei folli, The Crystal Ship, le bateau ivre di Rimbaud). La vita di Jim Morrison interpretata come “viaggio per acqua”, fino alla vasca da bagno (navicella immobile che prefigura la tomba). Ed ecco la dimora ultima del Père Lachaise: e Caronia, dinanzi alla tomba di Jim, raccoglie un seme «come simbolo di morte e di rinascita», perché nascita e morte sono porte girevoli, e noi siamo particelle di ciò che è stato prima e di ciò che sarà dopo. Ecco allora perché Parigi: città-battello (“par”, in antico dialetto gallico), città-nave (nello stemma e nel motto: “fluctuat nec mergitur”). Parigi-“Lutetia” (acquitrino). L’Ile su cui sorge Notre Dame. E la sirena sotto la statua di Notre Dame. E, ancora, Parigi città di rinascita (anche per Caronia), con la sua «luce rosa che rasserena tutte le tragedie», fatta apposta per attrarre i tormentati, gli allucinati, i maniaci dell’amore; – il ritorno alla foresta (contrapposta alla corte come il sogno alla realtà), cioè, in ultima analisi, il ritorno al paradiso terrestre, al giardino prenatale, alla terra del risveglio; – il fuoco indimenticabile (the unforgettable fire): sentirsi accesi, sentirsi vivi, come per aver raggiunto il momento più alto; – la ricerca spasmodica dell’essenza, dello “zero assoluto”; – lo sguardo orfico: «fisso a quel punto in cui l’oscurità che precede la nascita sfiora da vicino l’oscurità che 739 accompagna la morte, con il volto girato e gli occhi rivolti all’indietro». E, dunque, l’arte come unico baluardo da opporre alla morte. Sono i mitologemi di un’intera generazione, che ha sondato le proprie verità sperimentandosi “oltre”, nel “cuore di tenebra” del rock (cultura dionisiaca della dissipazione, dell’oltranza alimentata dalle droghe – tre nomi su tutti: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). La generazione ribelle e inquieta dei «cavalieri nella tempesta» (Riders on the Storm). Jim, come tanti altri ma con rara intensità, diede voce a chi voleva immaginare un mondo nuovo (come si fece a Woodstock nell’agosto del ’69): sognare la realtà per realizzare il sogno. La sua morte chiude, insieme all’impronta umana sulla luna (sverginata per sempre), il decennio inaugurato nel 1961 da Moon River di Henry Mancini (celebre tema musicale di Colazione da Tiffany). Ma la morte in Jim Morrison, anche quella fisica, è sempre un preludio di rigenerazione: una chiusura che apre, una fine che comincia, una notte che illumina. Per questo lo chiamavano il “Re Lucertola” (King Lizard): simbolo di rinascita (la coda che ricresce se mozzata) e, nell’immaginario dei pellerossa, portatrice della dimensione onirica (al di là dello spaziotempo): animale anacronistico superstite del diluvio, forse il più pronto a sopravvivere a un prossimo diluvio. Così come gli innamorati: «Solo gli innamorati sopravviveranno», scrive Caronia alla fine del suo percorso di parole e di emozioni. E Jim? Lui era più che innamorato, perché l’amore 740 La nostra biblioteca stesso era innamorato di lui. Per questo è un mito transgenerazionale che sopravviverà, così come ha fatto sinora, per quarant’anni, ben oltre i fasti celebrativi e in fondo accidentali di un anniversario. E quanto ciò sia vero lo testimonia questo piccolo, intenso, affascinante libro con cui Sabino Caronia ha, da par suo, fermato “i migliori anni” della propria e della nostra vita, attraverso un’icona che, nel bene e nel male, li rappresenta tutti, fino alla più riposta e misteriosa essenza. [Marco Onofrio] C. Dau Novelli, La città nazionale. Roma capitale di una nuova élite (1870-1915), Carocci, Roma 2011, pp. 325. Con grande meticolosità, precisione di dati e di documenti, la Dau Novelli ripercorre i quarantacinque anni (1870-1915) durante i quali si è prodotto quel rivolgimento che ha trasformato Roma, una vecchia e asfittica città di 244 mila abitanti, in una capitale grande e dinamica. Pagina dopo pagina scorrono davanti agli occhi i lavori nell’urbanistica e nell’edilizia con la nascita dei quartieri deputati ad ospitare una popolazione più che raddoppiata in pochi anni (all’inizio i nuovi cittadini arrivano soprattutto dal settentrione!), gli edifici simboli del nuovo Stato (aule parlamentari, ministeri, tribunali, sedi di istituti finanziari e culturali, ambasciate, scuole, università, teatri, ecc.), la rete viaria, gli impian- ti elettrici e del gas. Gli acquedotti e le fontane no, perché Roma ne aveva già da fare invidia a tutta Europa. Ma anche, e soprattutto, l’autrice fa rivivere la trasformazione sociale e umana della città. Il passaggio dalla rachitica Roma papalina (da una parte il clero e la nobiltà “nera”, dall’altra il popolino becero e incolto) alla nuova capitale laica è rapido e tumultuoso, ma si dipana quasi naturalmente, senza creare soverchi turbamenti, pur nella malcelata insofferenza e/o indifferenza dei “romani” nei confronti dei neoarrivati “buzzurri” italiani. Emergono nuove realtà sociali, nuove professioni: ai politici, ai diplomatici, ai militari, ai burocrati della pubblica amministrazione si affiancano avvocati, notai, medici, architetti, ingegneri, giornalisti. Cresce la folta schiera degli impiegati, ma anche quella degli imprenditori, degli operai, dei tecnici, degli artigiani, dei commercianti impegnati a far fronte alle esigenze di una città che è tutta un cantiere. La corte reale anima la vita sociale e mondana con balli e ricevimenti, la nobiltà e la neonata borghesia si riuniscono in circoli, salotti, centri sportivi. Non mancano, naturalmente, le pagine nere, a cominciare dallo scandalo della Banca Romana e dalla “vita parlamentare” che già si manifesta “guasta”. Intanto, grandi momenti e appuntamenti (alcuni tristi e drammatici, altri più festosi) dimostrano che ormai Roma è la “città nazionale” nella quale gli italiani si riconoscono e si identificano: i solenni funerali di Vittorio Emanuele II e di Umberto I, ai quali prendono parte decine e decine di La nostra biblioteca migliaia di cittadini arrivati da ogni regione; le celebrazioni del venticinquesimo della “breccia di Porta Pia” (1895); il primo cinquantenario dell’Unità (1911) con l’inaugurazione del Vittoriano, da subito ribattezzato “Altare della Patria”. Ma anche i funerali di Pio IX (morto il 7 febbraio 1878, poco dopo Vittorio Emanuele II) e l’Anno Santo del 1900, che si svolge in assoluta tranquillità, a dimostrazione che la ferita tra la Roma laica e quella religiosa è in via di guarigione. Infine, le “radiose giornate di maggio” del 1915, animate da D’Annunzio, preludio dell’entrata nella “Grande guerra”, la prima traumatica, drammatica e sanguinosa prova dell’Italia unita. Poi il fascismo: la grandezza della “città eterna”, che aveva alimentato il sogno romantico di una nazione in fieri, si trasformava nella giustificazione di un “incubo nazionalista”. [Anna Augusta Aglitti] D. Fisichella, Il miracolo del Risorgimento. La formazione dell’Italia unita, Carocci, Roma 2010, pp. 218. Nelle intenzioni dell’autore, un libro di interpretazione, spiegazione, comparazione di fatti storici che riguardano il processo di formazione dell’unità italiana, e che non vuole essere «soltanto una elencazione di avvenimenti» (p. 11), che inizia domandandosi cosa sia accaduto 150 anni or sono: «Qui la risposta è semplice. Nel 1861, precisamente il 28 febbraio il Senato e il 14 marzo la Camera dei 741 Deputati approvarono il decreto di nascita del Regno d’Italia. Tre giorni dopo tale decreto è promulgato» (p. 13). Il legame tra Regno e Unità risulta così indiscutibile, ma oltre questo, come testimonia anche il titolo del primo paragrafo del libro, è la statualità il requisito fondamentale cui rinvia la data del 1861. L’unità è così unità istituzionale della nazione italiana, sorta nel momento in cui l’Italia diviene uno Stato nazionale a configurazione unitaria. Da qui nasce e si sviluppa il racconto di una successione di eventi che porteranno a tutto questo e che tengono insieme l’Europa, il Papato e la sua politica (caratterizzata da una vera e propria «sindrome dell’accerchiamento», p. 48), alleanze (straniere) e divisioni (italiane), i Savoia e gli Asburgo, il problema linguistico in Sardegna e la crisi agraria in Piemonte, il Quarantotto e le grandi figure a tutti ben note. Gioberti, Mazzini, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Manzoni, Cavour, Garibaldi: è solo dopo aver dato almeno un cenno della loro importanza che si può pervenire alle considerazioni finali, che riportano un’osservazione del 1971 di Giovanni Spadolini: «Oggi il quadro è più difficile, inutile nasconderlo. Non c’è più l’ancoraggio istituzionale ed etico-civile che ha operato come solido sostegno nel Risorgimento. “Il Regno d’Italia, il Regno di Cavour e di Ricasoli, non è più; e non è più da un pezzo. Ma la lezione degli uomini di quei tempi vive in noi con la forza di un esempio, di una suggestione segreta. Quella è la nostra Patria, è la nostra Patria lontana”. [...] Croce ha definito il Risorgimento, con sentimento 742 La nostra biblioteca antico, una “poesia bella”. Oggi viviamo un tempo di brutta prosa. Nella storia d’Italia, la vicenda risorgimentale è stata un’impresa di straordinario impegno. Abbiamo il dovere di impedire la dissipazione di tale eredità» (p. 206) [Simone Bocchetta] G. Sale, L’unità d’Italia e la Santa Sede, Jaca Book, Milano 2010, pp. 196. Lo storico gesuita Giovanni Sale inserisce questo suo studio nel dibattito sulla “questione risorgimentale” e, più precisamente, sul rapporto della Chiesa cattolica con essa. Le parole del card. Bagnasco pubblicate sull’Osservatore Romano del 4 maggio 2010 («L’unità d’Italia è un bene comune [...], un tesoro che è nel cuore di tutti, a cui spero tutti vogliamo contribuire, anche in modo diverso, ma con convinzione») sono per l’autore la miglior risposta a chi sostenga che Chiesa e cattolici sono in qualche modo nemici dell’unità d’Italia. Il fecondo contatto tra cattolicesimo liberale e Risorgimento nazionale contribuì alla costituzione di valori di pluralismo culturale e amministrativo che poterono essere ripresi in sede istituzionale solo dopo il lungo intervallo del Non expedit (cfr. p. 21), ma oltre ciò – come indicato dal titolo – nel volume sono le difficoltà nel rapporto tra Santa Sede e Stato unitario all’epoca di Pio IX e di Cavour ad essere prese in esame. È tra le preoccupazioni di Pio IX di rima- nere fedele al giuramento prestato al momento dell’elezione, «di conservare cioè l’integrità dello Stato della Chiesa» (p. 77), la fine ingloriosa della missione piemontese Pantaleoni-Passaglia presso il Papa, con annesso tentativo di corrompere il card. Antonelli che suscitò la secca risposta: «Il Papa non si compra con i soldi!» (cit. a p. 75), e diverse altre vicende relative all’unità d’Italia prima e alla “presa di Roma” poi (definita qui «l’avvenimento più significativo, soprattutto dal punto di vista simbolico e ideale, della storia del Risorgimento italiano», p. 83) che si dipana la complessa matassa dei rapporti tra Italia e Santa Sede. Una ricca appendice finale raccoglie diversi interventi di lettori conservati negli archivi della Civiltà Cattolica e l’Allocuzione di Pio IX nel Concistoro segreto del 18 marzo 1861 (cfr. pp. 135-182). [Simone Bocchetta] U. Muratore, Rosmini per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, Sodalitas, Stresa (VB) 2010, pp. 168 «L’unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è per l’Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà: tale sembra dover essere la formula della organizzazione italiana». È da queste parole di Rosmini citate in esergo (p. 7) che si può iniziare a sentire con chiarezza l’importanza di raccontare un Rosmini politico, La nostra biblioteca attento al suo Paese e alla sua unità, in uno stile volutamente a metà tra lo storico e il giornalistico che presenta una selezione rigorosa di fatti veri ed indagati, narrati in forma divulgativa e accessibile. In queste pagine è possibile trovare un Rosmini che a partire dalla sua Filosofia della politica e dalla sua Filosofia del diritto, scritta pensando anche all’Italia di quegli anni, «in analogia con la “Giovane Europa” di Giuseppe Mazzini, getta un ponte verso la futura Comunità Europea, primizia a sua volta di comunità politiche a respiro mondiale. Per lui infatti è nella natura dell’uomo la “società generale del genere umano”» (p. 41). Visioni profetiche (come lo stesso concetto di egoismo nazionale approfondito nella Filosofia del diritto, cfr. pp. 195-196) ed esperienze concrete (come l’attenzione ai progetti di legge sul matrimonio civile esplicitata in una serie di articoli non firmati pubblicati tra il febbraio e il giugno 1851 sotto il titolo generale Sulle leggi civili che riguardano il matrimonio dei cristiani, cfr. p. 147 e ss.) si intrecciano nel rapporto tra Rosmini e il Risorgimento, tra unità e federalismo. Un sentiero politico che cerca «di rievocare le tracce di un uomo, Antonio Rosmini, il quale in tempi lontani fu maestro e testimone del processo di unificazione del popolo italiano in generale, dell’avvio verso forme costituzionali del Piemonte in particolare» (p. 200), arrivando ad un punto fermo: «Egli prese seriamente a cuore il progetto dell’Italia come nazione che ha diritto a camminare 743 unita, indipendente, libera nelle sue scelte» (p. 201). In particolare – sottolinea ancora Muratore – Rosmini operò «presso i suoi fratelli nella fede ed i fratelli nella patria, affinché Chiesa e Stato provvedessero a riassettarsi all’interno» (p. 301), in modo che potessero essere pronti ad affrontare con reciproca fiducia e lealtà i tempi nuovi, possibilmente in un clima di dialogo amichevole perché franco, avendo come fine il raggiungimento del maggior bene comune per il Paese. [Simone Bocchetta] M. Scheler, Politica e morale, a cura di L. Allodi, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 184. Oltre il cinismo machiavellico e i suoi effimeri successi (tema affrontato dal curatore nel suo saggio introduttivo, cfr. p. 22 e ss.), come riconosciuto in maniera chiara da Romano Guardini, Scheler – con questo e altri saggi – ha agito in maniera da stimolare il pensiero del Novecento a valutare con attenzione «la necessità di pensare una complementarietà di vocazione di spirituale e politico, rifiutando tanto una politica senz’anima quanto uno spirituale disincarnato» (Introduzione, p. 43). Uno dei temi più cari e più esplicativi della gnoseologia scheleriana, quello del rapporto tra conoscere ed amare (cfr., sempre di L. Allodi, il saggio introduttivo a M. Scheler, Conoscenza e lavoro. Uno studio sul valore e sui limiti del motivo pragmatico nella conoscenza del mondo, 744 La nostra biblioteca Milano 1997, p. 64 e ss.), viene qui a riflettersi sul rapporto tra politica e morale, indicando nel compito solidale e universale di realizzazione del bene comune l’elemento primario che giustifica l’idea moderna di Stato, secondo quello che Scheler definisce come «“il principio oggettivo della solidarietà di ogni comportamento umano legato a valori”. Il principio, nella sua applicazione alla nostra questione, afferma due cose: in primo luogo, che la realizzazione degli interessi di ogni Stato trova il proprio limite nel senso che nulla deve nuocere alla solidale salvezza dell’intera umanità; in secondo luogo, che l’uomo di Stato non soltanto è responsabile dell’oggettiva salvezza del suo Stato (“bonum commune”), ma è anche a priori corresponsabile, nella posizione del suo corrispondente tipo di struttura, dell’intera salvezza dell’umanità» (p. 140). Alla coscienza individuale (che mai sarà sostituita dalla conoscenza etica, cfr. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, Cinisello Balsamo 1996, p. 604) dell’uomo politico l’arduo compito di connettere potere e spirito, avendo sempre presente l’attualità di queste pagine: «La politica senza relazione ai valori e alle idee si radica nell’istinto di potere, è pura “tecnica” politica, non politica vera, la cui essenza risiede nell’atto che sintetizza istinto di potere, idea e valore» (p. 151). [Simone Bocchetta]