805-806 Sommario - Edizioni Studium

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805-806 Sommario - Edizioni Studium
SOMMARIO
Anno 107° - set./ott. 2011 - n. 5
EMILIO VINCIGUERRA
Intervista con Dominique Lapierre
555
MARIO TOSO
Giustizia e globalizzazione: dalla
Mater et Magistra alla Caritas in veritate
561
Giovanni Paolo II: il papa «beato»
che attraversando la storia si è fatto
«vento della speranza non vinta»
569
PIERSANDRO VANZAN S.J.
RIFLESSIONI SU UN 150°
BARTOLO CICCARDINI
Garibaldi e l’idea sull’Europa unita
583
CLAUDIO VASALE
Gioberti e il neoguelfismo oggi
601
LUIGI PICARDI
Il regionalismo italiano e la «questione regionale» molisana (18612011)
621
Cattolici e unità d’Italia
637
GIORGIO CAMPANINI
SPIRITUALITÀ
ORLANDO TODISCO
Il carattere francescano della libertà,
ovvero la potenza senza potere
647
TEOLOGIA
PAOLO SINISCALCO
Erik Peterson, 50 anni dopo
657
LA CRITICA
BRUNO LUISELLI
Un dio/Dio nella poesia italiana di
Alfonso Traina
667
INEDITI
CARLO FELICE CASULA
L’enciclica Rerum Novarum
699
INTERVENTI CRITICI
FEDERICO DOGLIO
La storia del teatro greco e latino
da Eschilo a Seneca
723
LA NOSTRA BIBLIOTECA
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A questo numero hanno collaborato:
EMILIO VINCIGUERRA, giornalista, docente presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Università Pontificia Salesiana.
MONS. MARIO TOSO, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, già
Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana.
PIERSANDRO VANZAN S. J. (1934-2011), scrittore della Civiltà Cattolica.
BARTOLO CICCARDINI, eletto alla Camera dei Deputati per sei legislature (1968-1992), ha
diretto, fra l’altro, il settimanale La Discussione (1969-1977).
CLAUDIO VASALE, professore di Storia delle dottrine politiche presso La Sapienza - Università di Roma.
LUIGI PICARDI, professore di storia e filosofia nei Licei, per molti anni preside del Liceo
Classico “Mario Pagano” di Campobasso.
GIORGIO CAMPANINI, professore di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Parma.
ORLANDO TODISCO, docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Cassino e
di Filosofia francescana alla Facoltà San Bonaventura-Seraphicum di Roma.
PAOLO SINISCALCO, Docente di Storia del cristianesimo nella Facoltà di Lettere e Filosofia presso La Sapienza - Università di Roma.
BRUNO LUISELLI, Accademico dei Lincei, Professore emerito di Letteratura latina presso
La Sapienza - Università di Roma.
CARLO FELICE CASULA, professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università Roma Tre, dirige il Master Internazionale in Scienze della cultura e della religione.
LA NOSTRA BIBLIOTECA
Michele Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e
Pensiero, Milano 2011, pp. 260.
La società contemporanea è sempre
più intimamente connessa alle applicazioni e alle innovazioni della scienza e della tecnica, ormai talmente legate l’una all’altra da potersi sinteticamente indicare con il termine “tecnoscienza”. Dalle biotecnologie alle
nanotecnologie, dalle neuroscienze
all’informatica il sapere e il fare dell’uomo stanno conoscendo negli ultimi anni dei progressi straordinari la
cui portata è tale da delineare dei
profondi cambiamenti non solo nell’ambito prettamente scientifico ma
anche, se non soprattutto, nella percezione extrascientifica della tecnoscienza.
Ciò che più crea problema a proposito dei grandi sviluppi contemporanei
della scienza e della connessa tecnologia è l’impatto che essi hanno sulle categorie con cui si interpreta e si regolamenta la vita umana nel suo insieme, sul piano giuridico, etico, sociale,
politico. In questo senso è possibile
parlare di una vera e propria trasformazione della soggettività umana in
virtù delle nuove possibilità tecnoscientifiche, sia nel senso che l’identità umana rischia di essere progressivamente ridotta a quanto il sapere e il
lessico scientifico ci rivelano (si pensi
al riduzionismo genetico o a quello
neuroscientifico), sia nel senso che
oggi è materialmente possibile mutare l’identità corporea e mentale dell’uomo con tutto quanto ne consegue.
La radicalità della trasformazione
della soggettività umana innescata
dalle tecnoscienze contemporanea è
sempre più diffusamente interpretata
come causa di un vero e proprio superamento della condizione umana e
della transizione allo stadio postumano, variamente inteso sul piano filosofico-morale.
Prima di valutare l’impatto biogiuridico e bioetico delle complesse questioni qui solo accennate, è, quindi,
quanto mai importante chiarire le loro premesse teoriche. In questo senso il testo di Michele Farisco si distingue come strumento utilissimo
per indagare i risvolti teoretici e morali del postumano, di cui si offre
una puntuale ricostruzione storicoteoretica in dialogo con diversi ambiti disciplinari (dalla biologia alle
neuroscienze, dall’antropologia culturale all’antropologia filosofica).
L’interesse del testo è accentuato dal
fatto che il dibattito sul postumano
si distingue per la propria attualità e
novità, cosicché non è facile mettere
ordine tra le diverse sue possibili declinazioni. In dialogo con i maggiori
rappresentanti italiani e stranieri,
Farisco offre una griglia concettuale
ai fini di una ricognizione e sistemazione del dibattito sul tema. Nel contempo, fin dal titolo emerge con
chiarezza una precisa presa di posi-
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zione critica dell’autore, secondo il
quale il postumano è paradossalmente in grado di offrire un nuovo
paradigma antropologico purché entri in dialogo con la prospettiva
“classica” relativa alla natura umana,
troppo spesso sbrigativamente messa da parte in quanto ritenuta non in
grado di affrontare gli inediti problemi della tecnoscienza contemporanea. In particolare, secondo l’autore
i concetti di dinamicità e di relazione, al centro dello stesso postumano,
o almeno di una sua possibile interpretazione, sono propri della semantica della natura umana, da non intendersi riduzionisticamente come
mera e statica materia, bensì come
ciò che ha in sé inscritti i principi di
movimento e di quiete. La tesi di
fondo del volume è che è possibile
pensare l’impatto e le trasformazioni
innescate dalla scienza e dalla tecnica nel mondo contemporaneo restando comunque inscritti in un
orizzonte antropologico. [Laura Palazzani]
L. Alici (a cura di), La felicità e il dolore. Verso un’etica della cura, Aracne, Roma 2010, pp. 177.
Il volume raccoglie gli atti del primo
dei «Colloqui di etica» promossi con
cadenza annuale dal Dipartimento
di Filosofia e Scienze Umane dell’Università di Macerata. Il titolo contiene un’indicazione programmatica
tanto preziosa quanto essenziale, per
cui l’approssimazione a un’etica del-
la cura non può prescindere da una
previa analisi del rapporto tra due
«fondamentali antropologici» (Alici): la felicità e il dolore. A una prima
parte, in cui si offrono al lettore le
coordinate etico-antropologiche e
politiche per collocare concettualmente tale binomio, segue una parte
in cui tali nozioni sono sviluppate e
rilanciate anche attraverso applicazioni concrete.
Il concetto di felicità inteso come
tensione alla pienezza è assunto come cardine di una riflessione che
nulla concede all’attaccamento al
dolore; a partire da una fenomenologia dell’umano, nel corso del volume
si fa strada l’ipotesi di una «compossibilità tra felicità e dolore» (Pagliacci); in tale ottica, ferma restando l’originarietà della tensione alla felicità,
il dolore non va censurato, nascosto
o, al contrario, esaltato come se avesse valore in sé. Al contrario, il fenomeno della sofferenza, onnipervasivo per l’esperienza umana, è affrontato attraverso sapienti ed appropriati approfondimenti in chiave etica, bioetica e politica. Nella dimensione politica, ad esempio, la sofferenza è centrale tanto in negativo,
perché storicamente il potere ha instaurato con essa un legame forte,
rintracciandovi un modo per mantenersi ed autoalimentarsi, quanto in
positivo, dal momento che la pratica
politica dovrebbe assumere come
proprio ideale regolativo il contenimento del dolore e creare le condizioni per la felicità (Nicoletti). In
campo etico la cura acquista progressivamente, all’interno del volume, lo statuto di cifra della relazione:
La nostra biblioteca
soltanto a partire da tale assunto dovrebbero articolarsi le pratiche terapeutiche anche nell’orizzonte della
bioetica.
Il volume rappresenta un appello
elevato e profondo affinché un’antropologia integrale sia posta al centro delle pratiche della cura. Per
questo motivo, ogni relazione di cura, propria per definizione all’essere
che più di tutti gli altri nasce “prematuro” (Reichlin), non può prescindere dalla “polarità asimmetrica” tra felicità e dolore. La domanda
di felicità, senso ultimo della cura,
contribuisce ad interrogare il dolore
in quanto traccia della finitudine
umana e della sua storicità. [Silvia
Pierosara]
M. Vannini, Dialettica della fede, Le
Lettere, Firenze 2011, pp. 156.
Trent’anni fa, Marco Vannini conseguiva il baccalaureato in teologia
presso lo Studio Teologico Fiorentino, discutendo una tesi dal titolo Il
concetto hegeliano della fede. Nei tre
decenni che ci separano da quella data, Vannini si è imposto come uno dei
maggiori studiosi italiani di mistica,
scrivendo numerose opere di sicuro
valore, tra le quali spiccano quelle su
Meister Eckhart, il celebre mistico
medievale tedesco. Non per caso, al
centro di questo recente volume, che
riprende e amplia un precedente lavoro del 1983, l’autore colloca proprio
il rapporto che, a suo giudizio, sussiste tra la mistica medievale germani-
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ca, cosiddetta speculativa, e il pensiero hegeliano, in cui alcuni interpreti
riconoscono una precisa impronta
teologica cristiana. Il primo capitolo
del libro è dedicato a delucidare il
concetto di fede in Eckhart e giunge
alla conclusione che tale fede, in
quanto movimento di tutta l’intelligenza, ovvero di tutta l’anima, verso
l’Assoluto, è un incessante rimuovere
ogni contenuto, compreso nella sua
finitezza – dunque coincide con quel
“distacco” che è il nucleo centrale
dell’ esperienza religiosa eckhartiana.
Nel secondo capitolo, intitolato La fede come notte oscura, l’autore si sofferma sull’opera di san Giovanni della
Croce, del quale si ritrovano tracce significative in Taulero e quindi in
Eckhart stesso. Nella mistica del grande santo castigliano Vannini ravvisa la
presenza di una fede non produttrice,
ma toglitrice di credenze, capace di
condurre il vero credente sino alla
“notte oscura”, al “nulla”, che è il solo “luogo” in cui può avvenire l’autentica unione dell’anima con Dio. Nell’ultimo capitolo viene ripreso l’esame
del pensiero hegeliano, con particolare riguardo alla sua fase più matura,
testimoniata dalle famose Lezioni di filosofia della religione, e si evidenzia
come nel filosofo tedesco la fede non
sia affatto credenza che produce rappresentazioni religiose destinate a venire in conflitto con quelle scientifiche, ma atto del pensiero nel suo livello più ricco e profondo, quello spirituale, ove è intimamente presente il
negativo, la “morte”, dopo la quale
soltanto c’è la vita vera. Le tesi sostenute da Vannini sono suggestive, frutto di un lettura dei testi tanto attenta
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quanto originale e discutibile, specialmente laddove l’affermazione della
purezza della fede cristiana di Hegel
si fa troppo perentoria. [Maurizio
Schoepflin]
F. Gianfreda, S.J., Logos alogos. La
giustizia cristologica nei Cahiers di Simone Weil, Pazzini, Verucchio (Rn),
2011, pp. 320.
In questo libro, scritto in occasione
della celebrazione del centenario
della sua nascita, il pensiero di Simone Weil (1909-1943) viene ripercorso intorno a un tema chiave: la giustizia nei Cahiers, una raccolta di
pensieri sinceramente “dialettici e
assai belli”, redatti dall’inizio del
1941 al luglio 1943. Essi rappresentano un punto di osservazione privilegiato, dal quale ci si può approssimare alla fonte della meditazione
weiliana, come si deduce da questa
appassionata ed empatica meditazione sul continuo questionare al quale
la Weil si esercita negli anni drammatici e cruciali della seconda guerra
mondiale, epoca del silenzio di Dio.
Nella prima parte l’autore ricostruisce
le condizioni di vita e di pensiero (il lavoro in fabbrica, la guerra in Spagna e
l’esperienza mistica) che hanno indotto la Weil alla elaborazione di una fenomenologia del potere, nella seconda segue l’approfondimento speculativo weiliano in senso cronologico,
mostrando la tessitura concettuale e
simbolica di un regno di giustizia che
rivela una forte influenza platonica,
ma mostra anche profonda sintonia
con elementi principali delle tradizioni orientali.
Tra le molte e pregnanti citazioni
estrapolate dai Cahiers, con le quali
l’autore si confronta approdando a
un vero e proprio esercizio di maturazione nello spirito e di educazione
dell’intelletto, la seguente ci sembra
dia opportunamente ragione del titolo del libro: «Il bello è l’apparenza
manifesta del reale. Il reale è essenzialmente la contraddizione. Perché
il reale è l’ostacolo, e l’ostacolo di un
essere pensante è la contraddizione.
In matematica il bello risiede nella
contraddizione. L’incommensurabilità, ÏfiÁÔÈ ôÏÔÁÔÈ, è stata il primo risplendere del bello in matematica»
(Q, III, p. 43, qui p. 232). Bello il
commento dell’autore: «Cristo crocifisso è il rapporto (Logos) rintracciabile ovunque nel cosmo. È visibile indirettamente: per l’armonia da
Lui prodotta; perché Egli tiene gli
estremi delle cose, in-staurando comunione. In quanto in-comprensibile, assurdo e scandaloso alla ragione
discorsiva, può dirsi Logos alogos. È
l’origine della bellezza di ogni cosa,
poiché è il Bello. È la verità di ogni
reale contraddizione. Bellezza e verità hanno il crisma della Passione; si
danno nel cuore della sofferenza,
della lacerazione, della morte» (pp.
231-232). Il punto di approdo della
ricerca weiliana sulla giustizia va colto nella sua adesione a Cristo Figlio
di Dio crocifisso al centro di tutto
ciò che e-siste. Il passo tradotto e
commentato della Lettera di san Paolo ai Filippesi, 2, 6-13 diviene il testo
emblematico dell’intera esistenza
La nostra biblioteca
della Weil, segnata da una esperienza mistica folgorante: «Il Cristo si è
svuotato della sua natura divina e ha
assunto quella di uno schiavo. Si è
abbassato fino alla croce – fino alla
separazione da Dio (padre mio…).
In quale modo dobbiamo imitarlo?»
(p. 193). La kenosi di Cristo deve
continuare in ogni cuore credente
quale forza redentrice, potenza trasformatrice che rende capace ogni
uomo di rinnovamento o svuotamento: questo il prezzo dell’attrazione erotica fatale pagato dalla stessa
Weil o il frutto dell’intuizione mistica in seguito alla quale ha risposto all’amore giusto e incondizionato di
Dio Padre Creatore e del Cristo Figlio crocifisso. Discepola di Platone
e di san Giovanni della Croce, nonché del Dharma e del Tao, Simone
Weil indica la kenosi quale centro
compositivo della rappresentazione
cosmica. Come per i grandi mistici
Meister Eckhart, san Giovanni della
Croce e santa Teresa del Bambin Gesù del Volto Santo, le contraddizioni
esistenziali e di conoscenza dipanate
dalla Weil sono opportunamente
considerate da Gianfreda come i
gradini di una scala di transito rivelativo, che si offrono quali luoghi di inveramento della scientia crucis (cfr.
pp. 277-279). Bilancia della giustizia
è il corpo del Cristo crocifisso, simbolo della morte spirituale a cui ogni
uomo (cfr. p. 198), appartenente a
Lui ontologicamente, è chiamato.
Nella risposta all’amore che costa
morte Simone Weil ha operato il raccordo tra la fede, il fenomeno della
lettura e la giustizia. [Anna Augusta
Aglitti]
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Giovanni della Croce, Notte Oscura.
Traduzione di Luisito Bianchi, EDB,
Bologna 2011, pp. 184.
«Non bisogna accontentarsi di leggere la vita di Giovanni della Croce
fermandosi agli elementi esterni, occorre andare oltre la muraglia dei
fatti e cogliere la profondità e la bellezza di quello che ha attraversato
l’anima di quest’uomo schivo e affettuoso, delicato e determinato, cercatore della verità e dotato di un senso
alto della parresia, cultore della bellezza e appassionato di Dio…Nello
stesso tempo, però, la sua esistenza è
stata un’immensa passione per l’uomo»: non si può aggiungere altro a
questo ritratto di Luigi Gaetani,
ocd., che si legge nell’ultima parte
del volume. Profondità e bellezza
che restituisce in toto il traduttore
Luisito Bianchi in questa recente
edizione di un classico della spiritualità attraverso il rispetto dell’andamento sintattico, con tutte le subordinate, speso infilzate l’una nell’altra, con tutti i porqué, gli incisi, le ripetizioni e le riprese del pensiero
(cfr. p. 12). Dalla struttura del libro
si deduce che il santo redige la Notte
mettendo insieme la strofe della poesia Noche oscura e il commento teologico spirituale in questo ordine: libro primo, notte passiva del senso
composto da 14 capitoli; libro secondo, notte passiva dello spirito, composto da 25 capitoli. Presentando
l’uomo come un camminatore e parlando del suo viaggio di fede, san
Giovanni della Croce descrive come
si realizza la totale trasformazione
dell’uomo nel passaggio dalla noche
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oscura alla noche dichosa (felice notte). Così come fortemente descritto
da santa Teresa di Gesù Bambino, la
trasformazione d’amore accade dove
«l’infusione di Dio e la sofferenza
dell’assenza-presenza si tramutano
in dichosa ventura (“felice ventura”;
N, strofa 1), in amorosa consegna:
Non tarderai, se io ti attendo (Parole
di luce e d’amore 26), rivelando una
capacità di lasciarsi abitare da Dio in
uno stato passivo di avvertenza amorosa, in una condizione teologale,
sponsale» (p. 176). [Anna Augusta
Aglitti]
F. Vouga, Dio o Cesare. La politica e
il nuovo testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 220.
Una domanda e una risposta, questo
propone il percorso seguito da questo volume. La domanda, «Dio o Cesare?», è la stessa che suscitò un noto saggio di Franz-J. Leenhardt,
pubblicato nel 1940: Le chrétien
doit-il servir l’Etat? (cfr. p. 5). Una
domanda che ha dunque la peculiarità di suscitarne un’altra. Anzi, molte altre. La responsabilità dei cristiani nei confronti dello Stato ha subito, nel corso della storia più recente,
dei significativi mutamenti. Deve
confrontarsi con nuove sfide, come
sottolinea l’autore: «La fine delle
grandi controversie ideologiche ha
condotto a un rimescolamento delle
carte. Al loro posto sembra essersi
installato un consenso fiacco. E tuttavia, il pensiero non deve lasciarsi
disarmare. La necessità di una rifles-
sione su “Vangelo ed economia”,
che prenda il testimone dei contributi classici su “Vangelo e denaro”,
appare come un’evidenza» (pp. 910). Da qui la necessità di ripensare
la politica come dono della Provvidenza di Dio, al di là dei problemi
dell’autorità e del potere, da qui la
necessità di tornare a riflettere sul
principio della grazia come fondamento della giustizia. Dal confronto
tra i due attori del dibattito proposto, “Vangelo” ed “economia”, si
cerca, in queste pagine, di ricavare la
risposta alla domanda iniziale: l’impresa del cristiano di oggi richiede
una mediazione tra i due poli nella
politica intesa in senso alto, confrontandosi continuamente con la Scrittura e con la propria esperienza di
fede. [Simone Bocchetta]
A. Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e non credenti, Edizioni Messaggero, Padova 2011, pp. 112.
A conclusione di questa coinvolgente rilettura dell’intera vicenda di Gesù, l’autore ripropone al lettore il
bellissimo brano degli Atti degli
Apostoli 17, 22-31 nel quale san Paolo annuncia agli Ateniesi: «colui che
voi adorate, senza conoscerlo, è il
Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò
che contiene, che dà la vita a tutto e
il respiro e ogni cosa». La manifestazione personale dell’Assoluto, l’avviso stesso di Dio è Gesù, nel quale
Dio si è reso accessibile e umana-
La nostra biblioteca
mente conoscibile, avverte don Armando Matteo. In tal senso, l’autore
auspica che la felice intuizione di Benedetto XVI del cortile dei gentili
avvii tra credenti e non credenti un
sincero reciproco interrogarsi «sul
come la provocazione messa in campo da Gesù circa la convenienza di
Dio per una vita buona e degna di
essere detta umana sia diventata irrilevante per i non credenti e come
questa crescente irrilevanza corra il
rischio di diventare irrilevante per i
credenti» (pp. 21-22). Il proprium
del credere cristiano consiste nel
“diventare uditori della parola della
croce”, ossia permettere alla croce di
svelare il volto sconosciuto di Dio e
dell’uomo (cfr. p. 69). «Credere dunque non è facile, introduce una differenza, un agire diverso, autorizza un
modo nuovo di abitare il mondo. E
ovviamente questa differenza è la
differenza dell’amore, vissuto alla luce della rivelazione della paternità di
Dio, che ci permette finalmente un
amore della differenza, dell’altro, del
dissimile, dello straniero, un amore
che disattiva il potere della paura e la
paura del potere» (p. 71). Al credente pensoso e al non credente altrettanto pensoso don Armando Matteo
si rivolge con parole pacate e benedicenti, le stesse che Gesù ha rivolto ad
ogni uomo e donna che ha incontrato nel suo cammino, non lasciando
fuori nessuna possibilità dell’umano:
il peccatore, il malato, il ricco, il povero, il potente, il ferito, l’uomo in
ricerca, lo straniero. La novità dirompente della vicenda di Gesù consiste nel riconoscere che «nessuno
umano è a-teo, cioè privo di quella
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benedizione divina che autorizza la
benedizione di sé» (p. 56). [Anna
Augusta Aglitti]
L. Accattoli, Cerco fatti di Vangelo 2,
EDB collana “Itinerari”, Bologna
2011, p. 232.
C’è ancora spazio per il Vangelo nella nostra società così tumultuosa e
stralunata? Ci sono ancora nelle nostre strade orecchie disposte ad
ascoltare la «buona novella»? «La
cultura secolare – osserva Luigi Accattoli – oggi irride alla fede nella risurrezione della carne, nega spazio
all’accoglienza della vita, ospedalizza
forzosamente il malato e il morente,
chiude i disabili e gli anziani negli
istituti, isola i drogati e i malati di
Aids, teme il forestiero e l’immigrato, tende a fare di ogni deviante un
carcerato e un nemico, esalta la ricerca della ricchezza e del potere, idolatra la soddisfazione sessuale». Insomma, l’esatto contrario del messaggio evangelico. La risposta negativa più chiara e inequivocabile alla
inquietante domanda posta da Gesù
ai discepoli; «Ma il Figlio dell’uomo,
quando verrà, troverà la fede sulla
terra?» (Lc 18, 8).
Eppure, a ben guardare, non pare
ancora arrivato il momento di disperare, di «scuotere la polvere dai piedi» (Mc 6, 11 e Lc 10, 11) e passare
oltre. Basta, appunto, saper osservare, avere la pazienza e la costanza di
cercare i semi caduti «nella buona
terra e che portano frutto, dando il
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La nostra biblioteca
cento, il sessanta, il trenta per uno»
(Mt 13, 8). Di questi semi sparsi nel
terreno sul quale giochiamo le nostre
giornate tanto affannate ce ne sono
moltissimi, a riprova che «la testimonianza viva della fede incrocia la nostra epoca». «L’esperienza di giornalista – assicura Accattoli – mi ha permesso di cogliere, attraverso i terminali della professione, tanti segni cristiani tra la nostra gente». Il risultato
di queste inchieste condotte con cura e passione sono alcuni volumi che
già nei titoli rivelano con chiarezza
la persistente fertilità e vitalità del
messaggio evangelico: Cerco fatti di
Vangelo (SEI, 1995), Cento preghiere
italiane di fine millennio (La Locusta, 1996), Nuovi martiri (San Paolo,
2000), Islam, storie italiane di buona
convivenza (EDB, 2004). A queste
quattro raccolte se ne è aggiunta ora
una quinta: Cerco fatti di Vangelo 2.
Sono 139 nuove storie di fede vissuta,
di personaggi anche noti e di gente
semplice e sconosciuta, testimonianze
ispirate «alle beatitudini e all’esempio
di Gesù». Tutte documentate, tutte
raccontate con nome e cognome. Storie di martiri della fede «in terra d’Islam»; di madri che sacrificano la propria vita per salvare quella del figlio
che portano nel ventre; di uomini e
donne che nel nome di Cristo perdonano a chi ha ucciso barbaramente i
propri cari; di portatori di handicap e
di loro familiari che vivono con serenità – nella francescana «perfetta letizia» – la loro menomazione; di chi riesce a sentirsi e dirsi felice «anche nei
giorni dell’ospedale»; di chi sa accettare con viva «fede nella risurrezione»
la morte propria o quella altrui; di
sposi protagonisti di vite al tempo
stesso semplici e straordinarie; di coppie che hanno deciso di spendere la
loro vita in missione; di padri e di madri che accolgono nella loro famiglia
bambini in affido con particolare attenzione per «creature menomate»; di
chi grazie alla riscoperta della fede ha
saputo e potuto liberarsi dal dramma
della droga e dalla deriva nichilista; di
chi dona generosamente gli organi; di
eremiti e pellegrini che nella «città secolare» ripropongono «queste forme
antiche della ricerca di Dio»; di chi
scopre o riscopre il valore della preghiera e non si fa timore di manifestarlo anche perché «non si tratta di
parlare al vento ma di un dialogo, un
dialogo fruttuoso con un padre che
ascolta sempre i suoi figli» (sono parole di Leonardo Mondadori).
139 nuove storie di vita cristianamente vissuta che portano a un migliaio
quelle fin qui raccolte e raccontate da
Accattoli che, per altro, ci fa sapere
che ne «ha già in lavorazione altre centinaia in vista di altri volumi». Al riguardo chiede espressamente ai lettori di unirsi al suo lavoro di ricerca e di
segnalargli (www.luigiaccattoli.it) quei
«fatti di Vangelo», cioè quelle testimonianze di vita cristiana meritevoli di
attenzione, di cui fossero a conoscenza. La testimonianza viva della fede,
avverte l’autore, agisce da antidoto
contro lo scoraggiamento determinato dal nostro disordine e ci riconcilia
tutti nella comunità ecclesiale. Ed è
anche certo che essa non resta fine a sé
stessa; al contrario, diventa contagiosa, come conferma anche una delle
tante storie raccontate nel volume,
forse una delle più semplici e meno
La nostra biblioteca
“eroiche” ma non per questo meno significative. È la vicenda della giornalista Barbara Palombelli che racconta:
«Mi sono riavvicinata alla Chiesa tanto tempo fa, quando ... vidi Giovanni
Bachelet davanti alla bara del padre
dire: “Noi perdoniamo gli assassini di
nostro padre”. Mi colpì. Da allora è
stato un lungo percorso che mi ha fatto riavvicinare alla Chiesa». [Emilio
Vinciguerra]
Benedetto XVI, Sante e beate. Figure
femminili del medioevo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana
2011, pp. 120.
Il libro raccoglie le sedici catechesi del
mercoledì di Benedetto XVI dedicate,
dal settembre 2010 a gennaio 2001, a
donne del Medioevo che spiccano per
la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento. Ovviamente, il Papa
prende avvio dalla poliedrica monaca
benedettina Ildegarda di Bingen, vissuta in Germania nel XII secolo, e
conclude con Giovanna d’Arco, morta a diciannove anni, nel 1431. Vive
nel XII secolo santa Giuliana di Cornillon, nel XIII secolo santa Chiara
d’Assisi, santa Matilde di Hackeborn,
santa Gertrude la Grande, la beata
Angela da Foligno, santa Elisabetta
d’Ungheria, santa Brigida di Svezia e
santa Caterina da Siena, nel XIV santa Caterina da Bologna e santa Caterina da Genova. Santa Veronica Giuliani nasce nel 1660. Margherita d’Oingt
del XII secolo e Giuliana di Norwich,
vissuta dal 1342 al 1430, sono due mi-
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stiche delle quali non è stata ancora riconosciuta la santità. Come afferma il
Papa in apertura della prima catechesi, richiamando le parole di Giovanni
Paolo II espresse nella Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, «la Chiesa
ringrazia per tutte le manifestazioni
del genio femminile apparse nel corso
della storia» (p. 5). Scorrendo i brevi,
ma densi ritratti emergono, infatti,
donne forti che riescono a portare la
luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia della Chiesa, come
d’Italia e d’Europa (cfr. p. 113). La varietà e l’originalità dei contributi dati
dalle donne alla crescita spirituale della Chiesa sono doni distribuiti dallo
Spirito Santo che agisce per l’edificazione della stessa. [Anna Augusta
Aglitti]
C. M. Celli, La vocazione missionaria
di Santa Teresa di Lisieux, Città del
Vaticano, Libreria Editrice Vaticana
2009, pp. 192.
Nel vasto panorama degli studi dedicati alla dottrina teologico-spirituale
di Teresa di Lisieux, proclamata nel
1997 da Giovanni Paolo II dottore
della Chiesa universale, questo libro
delinea un vero e proprio percorso
spirituale con indicazioni preziose
per ciascuno di noi e per chi è chiamato a svolgere attività di apostolato
nella Chiesa. Dalla lettura attenta e
amorevole degli scritti originali di
santa Teresa di Gesù Bambino e del
Volto Santo, Mons. Claudio Celli
mette in luce delle novità veramente
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La nostra biblioteca
sorprendenti, afferma il Card. Ivan
Dias nella Prefazione, racchiuse nel
mistero della sua vocazione missionaria. Una delle caratteristiche fondamentali della vita spirituale di Teresa,
peculiare quindi della sua dottrina,
promana dalla contemplazione della
Greppia di Betlemme nel Natale
1886 e della Croce al Calvario della
domenica del luglio 1887: si delinea
una vera dinamica apostolica, che viene a qualificarsi come un movimento
spirituale cristocentrico (p. 178).
«Nulla di più sublime. La vocazione
missionaria di Teresa sboccia dal suo
essersi identificata con l’Amore, che è
tensione salvifica antropocentrica,
che è missionario» (p. 180). Lasciandosi condurre dalle parole di Teresa,
l’autore sottolinea il profondo rapporto da lei vissuto tra l’Amore e le
membra della Chiesa: «”Capii che solo l’Amore faceva agire le membra
della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue…” (MB; f. 3v)» (p. 123). Teresa
perviene alle più alte vette della vita
spirituale perché percepisce che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo non sono realtà inscindibili, ma
possono essere sintetizzate e armonizzate nell’unione mistica, attuata mediante l’offerta all’Amore Misericordioso, che si esprime in una gestualità
concreta: la carità. Teresa insegna che
un vero teocentrismo conduce ad un
coinvolgente antropocentrismo, perché Dio stesso, in quanto amore misericordioso e missionario, è antropocentrico (p. 150). [Anna Augusta
Aglitti]
S. Caronia, Morte di un cittadino
americano. Jim Morrison a Parigi,
EdiLet, 2009, p. 100.
Sono passati giusto quarant’anni dall’ultima fiammata del suo “fuoco indimenticabile”, ed è forse opportuno (parlo di opportunità creativa, di
occasione dell’anima) mettersi ancora una volta sulle tracce di Jim Morrison, non prima di averlo riconosciuto come uno degli artisti più
eversivi e carismatici del secolo scorso. Ed è interessante farlo accompagnati, non per caso, dalla voce di uno
tra gli scrittori più originali e colti
del nostro tempo, Sabino Caronia,
lasciandosi avviluppare dalla sua sinuosa e sommessa affabulazione,
sempre in bilico tra narrazione e saggistica, tra scrittura di prima mano e
critica letteraria, tra limpidezza tangibile e complessità labirintica. E occorre giocoforza ritrovarsi a Parigi,
dove Morrison si rifugia nell’imminenza del processo intentatogli contro a Miami (lui, leader dei Doors,
emblema degli eccessi della musica
rock), sull’onda di una campagna
moralistica sostenuta da Nixon: Parigi dove, ventisettenne famoso e solo, muore di infarto alle 5 di mattina
del 3 luglio 1971, al numero 17 di
rue Beautreillis, dentro una vasca da
bagno.
Un “americano a Parigi”, dunque,
nel cuore della vecchia Europa: ed
ecco le peregrinazioni solitarie e meditabonde, i luoghi-simbolo (il Cafè
Deux Magots, la Place des Vosges), e
la musica, gli artisti di strada, i colori, gli aromi variegati e cangianti della città. E, ancora, il sacchetto bian-
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co dei magazzini Samaritaine che si
porta dietro, con dentro due taccuini
a spirale dove appunta i suoi scritti
(poesie, canzoni, pensieri, ricordi,
visioni).
Miami, il processo e il proposito di
scrivere un libro sul processo, quel
libro che con l’andare del tempo doveva divenire un diario e insieme
un’autobiografia, un diario-autobiografia che recuperasse persone e fatti della propria vicenda privata, evocati quasi in una sorta di kafkiano
processo, un processo più interno
che esterno.
Lo raccoglie Caronia quarant’anni
anni dopo, questo proposito, e prova
a interpretarlo anch’egli sotto forma
diaristica e autobiografica. Una biografia che si fa autobiografia: sottotraccia e in controluce, in un modo
che diventa, pagina dopo pagina,
sempre più evidente. Si assiste, infatti, ad un continuo scambio osmotico/empatico fra “io” e “altro”: l’io
vissuto come altro e l’altro, parallelamente, come io. Il processo di immedesimazione è, così, complementare a
quello di assimilazione: da una parte
l’oggettivazione del soggettivo («Le
mie sensazioni sembravano confondersi con le sue»); dall’altra la soggettivazione dell’oggettivo («E mi sembrava che non fossi più io a recitare la
sua parte ma egli la mia»). Jim Morrison, radiografato alla luce del retroterra culturale – nonché del contesto
storico – di cui si nutre e da cui emerge come artista (rock, poesia, letteratura), si configura per Caronia alla
stregua di un personaggio per l’attore: una cartina tornasole, un alter ego,
uno specchio emblematico di espe-
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rienze, ricordi, emozioni, giorni da rivivere e pensare. E può farlo perché è
uno scrittore dotato di grande memoria, ha una mente-spugna che assorbe
e poi rilascia «ogni minimo particolare». Da qui l’importanza dei dettagli,
che trattengono-rivelano il “dio nascosto” delle cose. L’habitat più congeniale alla scrittura caroniana, vale a
dire la spaziatura tipica del suo orizzonte, è segnato dai confini transitabili dell’intertestualità: ha il demone
del citazionismo, ma non per sterile
erudizione, o narcisistica smania di
esibizione. Pratica un concetto vivo
di cultura come “chiave” per aprire
porte. Si legga – tanto per intendersi
–, dal bellissimo racconto Lighea,
“quel” Tomasi di Lampedusa di cui
Caronia è uno dei più accreditati e
raffinati interpreti: «Lo studio aveva
cessato di essere una fatica: al dondolio leggero della barca nella quale restavo lunghe ore, ogni libro sembrava
non più un ostacolo da superare ma
anzi una chiave che mi aprisse il passaggio ad un mondo del quale avevo
già sotto gli occhi uno degli aspetti
più maliosi».
È proprio questo il metodo caroniano: stabilire cortocircuiti creativi, in
dinamiche di continuità e, anzi, di
progressivo approfondimento, fra le
dimensioni archetipiche della realtà e
quelle dei relativi “specchi” culturali
(quando la cultura fa appunto da
specchio moltiplicante, non da filtro o
da schermo opaco). Non a caso Caronia stabilisce la fondamentale «equazione tra il vedere con gli occhi e l’amore, la realtà dell’amore che dipende
dal vedere e dall’essere visti». C’è, in
tutto il libro, una continua mitizzazio-
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ne dell’immagine, focalizzata sul vedere e sul vedersi, che sembra funzionale alla sua stessa struttura affabulante,
basata sulla ripetizione variata. Uno
stile circolare, concentrico, ondivago,
intessuto di ricorrenze, di riprese, di
agganci del discorso. La scrittura si
configura come un cerchio magico e
ipnotico di suggestioni, di concrezioni
e condensazioni simboliche, intorno
ad alcuni fondamentali poli di attrazione che hanno scelto, fra gli altri, il
cantante dei Doors per manifestarsi.
Era senza dubbio “predestinato” ad
essere visitato dall’Energia, dal Duende, dallo spirito della musica. Così
emerge, dal ritratto-autoritratto di Caronia: un po’ clown e folletto, un po’
sciamano, capace di accendere e governare certi fuochi. Ovvero, la perfetta fusione tra le sue origini celtiche
(testimoniate peraltro dagli zigomi) e
l’anima dell’indiano che dovette entrare in lui, avendo assistito da bambino a quel tragico incidente nel deserto
(si veda la scena nel film The Doors, di
Oliver Stone). Appunto come uno
sciamano, Morrison voleva aprire le
“porte della percezione” (oltre le quali tutto apparirebbe com’è: infinito),
infilando il “varco” per andare “dall’altra parte”. William Blake? Certo;
ma anche Aldous Huxley.
Quali sono, per l’appunto, i “mitologemi” di Jim Morrison, le sue “costellazioni” magnetiche di senso?
Caronia individua principalmente
questi:
– il sentimento oceanico di dissoluzione dell’io nella molteplicità, che è
voluttà di scomparire, di non essere
più nessuno. «Andiamo giù, giù». La
tentazione di Narciso, l’andare oltre,
l’annegamento nella fonte-specchio.
Aprirsi all’alterità, al rischio del caos
(per noi che lo vediamo dal di qua):
cioè, del cosmo indifferenziato. «Solo attraverso la più radicale separazione è possibile raggiungere la più
intima fusione col tutto»;
– il richiamo ancestrale della luna,
cioè il desiderio di abbandonarsi all’infinito, di andare al di là dell’orizzonte per raccogliere la luce. Ed ecco la leggenda di Connla: la morrisoniana barca di cristallo (The Crystal
Ship) che si allontana in una scia di
luce sull’oceano verso il sole al tramonto, finché svanisce con l’ultimo
bagliore della sera;
– il nostos, il viaggio alla ricerca delle
origini, che per Jim virano addirittura verso il Marocco (Morrison: “figlio dei Mori”);
– la nostalgia della casa, la ricerca del
luogo abitabile (come Tiffany per
Holly – nota Caronia – in Colazione
da Tiffany) per dare nomi alle cose.
«Vorrei scrivere una canzone in cui
la sensazione sia quella di essere
completamente a casa»;
– la candela e la vita (la morte alla fine della candela): il senso di precarietà, l’ombra di fumo che noi siamo,
che ogni cosa è;
– il richiamo delle acque materne.
Circola in tutti i testi morrisoniani
(così come nel libro di Caronia) una
potente simbologia dell’acqua: le sirene sinuose come serpenti, «quella
sensualità circolare, quella uterina
dolcezza di donna spiata nell’intimità del sonno, rannicchiata in posizione fetale», e quindi il richiamo del
grembo materno, i nove mesi del
“beato soggiorno” intrauterino, ar-
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chetipo di ogni paradiso: nove mesi
magici «di parole sconosciute e onde
magnetiche antiche»;
– la nave che attraversa le acque (la
nave dei folli, The Crystal Ship, le bateau ivre di Rimbaud). La vita di Jim
Morrison interpretata come “viaggio
per acqua”, fino alla vasca da bagno
(navicella immobile che prefigura la
tomba). Ed ecco la dimora ultima
del Père Lachaise: e Caronia, dinanzi alla tomba di Jim, raccoglie un seme «come simbolo di morte e di rinascita», perché nascita e morte sono porte girevoli, e noi siamo particelle di ciò che è stato prima e di ciò
che sarà dopo. Ecco allora perché
Parigi: città-battello (“par”, in antico
dialetto gallico), città-nave (nello
stemma e nel motto: “fluctuat nec
mergitur”). Parigi-“Lutetia” (acquitrino). L’Ile su cui sorge Notre Dame. E la sirena sotto la statua di Notre Dame. E, ancora, Parigi città di
rinascita (anche per Caronia), con la
sua «luce rosa che rasserena tutte le
tragedie», fatta apposta per attrarre i
tormentati, gli allucinati, i maniaci
dell’amore;
– il ritorno alla foresta (contrapposta
alla corte come il sogno alla realtà),
cioè, in ultima analisi, il ritorno al
paradiso terrestre, al giardino prenatale, alla terra del risveglio;
– il fuoco indimenticabile (the unforgettable fire): sentirsi accesi, sentirsi
vivi, come per aver raggiunto il momento più alto;
– la ricerca spasmodica dell’essenza,
dello “zero assoluto”;
– lo sguardo orfico: «fisso a quel punto in cui l’oscurità che precede la nascita sfiora da vicino l’oscurità che
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accompagna la morte, con il volto girato e gli occhi rivolti all’indietro».
E, dunque, l’arte come unico baluardo da opporre alla morte.
Sono i mitologemi di un’intera generazione, che ha sondato le proprie
verità sperimentandosi “oltre”, nel
“cuore di tenebra” del rock (cultura
dionisiaca della dissipazione, dell’oltranza alimentata dalle droghe – tre
nomi su tutti: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). La generazione
ribelle e inquieta dei «cavalieri nella
tempesta» (Riders on the Storm).
Jim, come tanti altri ma con rara intensità, diede voce a chi voleva immaginare un mondo nuovo (come si
fece a Woodstock nell’agosto del
’69): sognare la realtà per realizzare
il sogno. La sua morte chiude, insieme all’impronta umana sulla luna
(sverginata per sempre), il decennio
inaugurato nel 1961 da Moon River
di Henry Mancini (celebre tema musicale di Colazione da Tiffany). Ma la
morte in Jim Morrison, anche quella
fisica, è sempre un preludio di rigenerazione: una chiusura che apre,
una fine che comincia, una notte che
illumina. Per questo lo chiamavano il
“Re Lucertola” (King Lizard): simbolo di rinascita (la coda che ricresce
se mozzata) e, nell’immaginario dei
pellerossa, portatrice della dimensione onirica (al di là dello spaziotempo): animale anacronistico superstite
del diluvio, forse il più pronto a sopravvivere a un prossimo diluvio.
Così come gli innamorati: «Solo gli
innamorati sopravviveranno», scrive
Caronia alla fine del suo percorso di
parole e di emozioni. E Jim? Lui era
più che innamorato, perché l’amore
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stesso era innamorato di lui. Per
questo è un mito transgenerazionale
che sopravviverà, così come ha fatto
sinora, per quarant’anni, ben oltre i
fasti celebrativi e in fondo accidentali di un anniversario. E quanto ciò sia
vero lo testimonia questo piccolo, intenso, affascinante libro con cui Sabino Caronia ha, da par suo, fermato
“i migliori anni” della propria e della nostra vita, attraverso un’icona
che, nel bene e nel male, li rappresenta tutti, fino alla più riposta e misteriosa essenza. [Marco Onofrio]
C. Dau Novelli, La città nazionale.
Roma capitale di una nuova élite
(1870-1915), Carocci, Roma 2011,
pp. 325.
Con grande meticolosità, precisione
di dati e di documenti, la Dau Novelli ripercorre i quarantacinque anni (1870-1915) durante i quali si è
prodotto quel rivolgimento che ha
trasformato Roma, una vecchia e
asfittica città di 244 mila abitanti, in
una capitale grande e dinamica. Pagina dopo pagina scorrono davanti
agli occhi i lavori nell’urbanistica e
nell’edilizia con la nascita dei quartieri deputati ad ospitare una popolazione più che raddoppiata in pochi
anni (all’inizio i nuovi cittadini arrivano soprattutto dal settentrione!),
gli edifici simboli del nuovo Stato
(aule parlamentari, ministeri, tribunali, sedi di istituti finanziari e culturali, ambasciate, scuole, università,
teatri, ecc.), la rete viaria, gli impian-
ti elettrici e del gas. Gli acquedotti e
le fontane no, perché Roma ne aveva
già da fare invidia a tutta Europa.
Ma anche, e soprattutto, l’autrice fa
rivivere la trasformazione sociale e
umana della città. Il passaggio dalla
rachitica Roma papalina (da una parte il clero e la nobiltà “nera”, dall’altra il popolino becero e incolto) alla
nuova capitale laica è rapido e tumultuoso, ma si dipana quasi naturalmente, senza creare soverchi turbamenti, pur nella malcelata insofferenza e/o indifferenza dei “romani” nei
confronti dei neoarrivati “buzzurri”
italiani. Emergono nuove realtà sociali, nuove professioni: ai politici, ai diplomatici, ai militari, ai burocrati della pubblica amministrazione si affiancano avvocati, notai, medici, architetti, ingegneri, giornalisti. Cresce la folta schiera degli impiegati, ma anche
quella degli imprenditori, degli operai, dei tecnici, degli artigiani, dei
commercianti impegnati a far fronte
alle esigenze di una città che è tutta
un cantiere. La corte reale anima la vita sociale e mondana con balli e ricevimenti, la nobiltà e la neonata borghesia si riuniscono in circoli, salotti,
centri sportivi. Non mancano, naturalmente, le pagine nere, a cominciare
dallo scandalo della Banca Romana e
dalla “vita parlamentare” che già si
manifesta “guasta”.
Intanto, grandi momenti e appuntamenti (alcuni tristi e drammatici, altri
più festosi) dimostrano che ormai Roma è la “città nazionale” nella quale
gli italiani si riconoscono e si identificano: i solenni funerali di Vittorio
Emanuele II e di Umberto I, ai quali
prendono parte decine e decine di
La nostra biblioteca
migliaia di cittadini arrivati da ogni
regione; le celebrazioni del venticinquesimo della “breccia di Porta Pia”
(1895); il primo cinquantenario dell’Unità (1911) con l’inaugurazione
del Vittoriano, da subito ribattezzato
“Altare della Patria”. Ma anche i funerali di Pio IX (morto il 7 febbraio
1878, poco dopo Vittorio Emanuele
II) e l’Anno Santo del 1900, che si
svolge in assoluta tranquillità, a dimostrazione che la ferita tra la Roma laica e quella religiosa è in via di guarigione. Infine, le “radiose giornate di
maggio” del 1915, animate da D’Annunzio, preludio dell’entrata nella
“Grande guerra”, la prima traumatica, drammatica e sanguinosa prova
dell’Italia unita. Poi il fascismo: la
grandezza della “città eterna”, che
aveva alimentato il sogno romantico
di una nazione in fieri, si trasformava
nella giustificazione di un “incubo
nazionalista”. [Anna Augusta Aglitti]
D. Fisichella, Il miracolo del Risorgimento. La formazione dell’Italia unita, Carocci, Roma 2010, pp. 218.
Nelle intenzioni dell’autore, un libro
di interpretazione, spiegazione, comparazione di fatti storici che riguardano il processo di formazione dell’unità italiana, e che non vuole essere
«soltanto una elencazione di avvenimenti» (p. 11), che inizia domandandosi cosa sia accaduto 150 anni or sono: «Qui la risposta è semplice. Nel
1861, precisamente il 28 febbraio il
Senato e il 14 marzo la Camera dei
741
Deputati approvarono il decreto di
nascita del Regno d’Italia. Tre giorni
dopo tale decreto è promulgato» (p.
13). Il legame tra Regno e Unità risulta così indiscutibile, ma oltre questo,
come testimonia anche il titolo del
primo paragrafo del libro, è la statualità il requisito fondamentale cui rinvia la data del 1861. L’unità è così
unità istituzionale della nazione italiana, sorta nel momento in cui l’Italia
diviene uno Stato nazionale a configurazione unitaria. Da qui nasce e si sviluppa il racconto di una successione
di eventi che porteranno a tutto questo e che tengono insieme l’Europa, il
Papato e la sua politica (caratterizzata
da una vera e propria «sindrome dell’accerchiamento», p. 48), alleanze
(straniere) e divisioni (italiane), i Savoia e gli Asburgo, il problema linguistico in Sardegna e la crisi agraria in
Piemonte, il Quarantotto e le grandi
figure a tutti ben note. Gioberti, Mazzini, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Manzoni, Cavour, Garibaldi: è
solo dopo aver dato almeno un cenno
della loro importanza che si può pervenire alle considerazioni finali, che
riportano un’osservazione del 1971 di
Giovanni Spadolini: «Oggi il quadro
è più difficile, inutile nasconderlo.
Non c’è più l’ancoraggio istituzionale
ed etico-civile che ha operato come
solido sostegno nel Risorgimento. “Il
Regno d’Italia, il Regno di Cavour e di
Ricasoli, non è più; e non è più da un
pezzo. Ma la lezione degli uomini di
quei tempi vive in noi con la forza di
un esempio, di una suggestione segreta. Quella è la nostra Patria, è la nostra Patria lontana”. [...] Croce ha definito il Risorgimento, con sentimento
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antico, una “poesia bella”. Oggi viviamo un tempo di brutta prosa. Nella
storia d’Italia, la vicenda risorgimentale è stata un’impresa di straordinario impegno. Abbiamo il dovere di
impedire la dissipazione di tale eredità» (p. 206) [Simone Bocchetta]
G. Sale, L’unità d’Italia e la Santa Sede, Jaca Book, Milano 2010, pp. 196.
Lo storico gesuita Giovanni Sale inserisce questo suo studio nel dibattito sulla “questione risorgimentale” e, più precisamente, sul rapporto della Chiesa cattolica con essa.
Le parole del card. Bagnasco pubblicate sull’Osservatore Romano del
4 maggio 2010 («L’unità d’Italia è
un bene comune [...], un tesoro che
è nel cuore di tutti, a cui spero tutti
vogliamo contribuire, anche in modo diverso, ma con convinzione»)
sono per l’autore la miglior risposta
a chi sostenga che Chiesa e cattolici
sono in qualche modo nemici dell’unità d’Italia. Il fecondo contatto
tra cattolicesimo liberale e Risorgimento nazionale contribuì alla costituzione di valori di pluralismo
culturale e amministrativo che poterono essere ripresi in sede istituzionale solo dopo il lungo intervallo
del Non expedit (cfr. p. 21), ma oltre
ciò – come indicato dal titolo – nel
volume sono le difficoltà nel rapporto tra Santa Sede e Stato unitario all’epoca di Pio IX e di Cavour
ad essere prese in esame. È tra le
preoccupazioni di Pio IX di rima-
nere fedele al giuramento prestato
al momento dell’elezione, «di conservare cioè l’integrità dello Stato
della Chiesa» (p. 77), la fine ingloriosa della missione piemontese
Pantaleoni-Passaglia presso il Papa,
con annesso tentativo di corrompere il card. Antonelli che suscitò la
secca risposta: «Il Papa non si compra con i soldi!» (cit. a p. 75), e diverse altre vicende relative all’unità
d’Italia prima e alla “presa di Roma” poi (definita qui «l’avvenimento più significativo, soprattutto dal
punto di vista simbolico e ideale,
della storia del Risorgimento italiano», p. 83) che si dipana la complessa matassa dei rapporti tra Italia
e Santa Sede. Una ricca appendice
finale raccoglie diversi interventi di
lettori conservati negli archivi della
Civiltà Cattolica e l’Allocuzione di
Pio IX nel Concistoro segreto del
18 marzo 1861 (cfr. pp. 135-182).
[Simone Bocchetta]
U. Muratore, Rosmini per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, Sodalitas, Stresa (VB) 2010, pp. 168
«L’unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è
per l’Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà: tale sembra dover essere la formula
della organizzazione italiana». È da
queste parole di Rosmini citate in
esergo (p. 7) che si può iniziare a
sentire con chiarezza l’importanza
di raccontare un Rosmini politico,
La nostra biblioteca
attento al suo Paese e alla sua unità,
in uno stile volutamente a metà tra
lo storico e il giornalistico che presenta una selezione rigorosa di fatti
veri ed indagati, narrati in forma divulgativa e accessibile. In queste pagine è possibile trovare un Rosmini
che a partire dalla sua Filosofia della politica e dalla sua Filosofia del diritto, scritta pensando anche all’Italia di quegli anni, «in analogia con
la “Giovane Europa” di Giuseppe
Mazzini, getta un ponte verso la futura Comunità Europea, primizia a
sua volta di comunità politiche a respiro mondiale. Per lui infatti è nella natura dell’uomo la “società generale del genere umano”» (p. 41).
Visioni profetiche (come lo stesso
concetto di egoismo nazionale approfondito nella Filosofia del
diritto, cfr. pp. 195-196) ed esperienze concrete (come l’attenzione
ai progetti di legge sul matrimonio
civile esplicitata in una serie di articoli non firmati pubblicati tra il febbraio e il giugno 1851 sotto il titolo
generale Sulle leggi civili che riguardano il matrimonio dei cristiani, cfr.
p. 147 e ss.) si intrecciano nel rapporto tra Rosmini e il Risorgimento,
tra unità e federalismo. Un sentiero
politico che cerca «di rievocare le
tracce di un uomo, Antonio Rosmini, il quale in tempi lontani fu maestro e testimone del processo di unificazione del popolo italiano in generale, dell’avvio verso forme costituzionali del Piemonte in particolare» (p. 200), arrivando ad un punto
fermo: «Egli prese seriamente a
cuore il progetto dell’Italia come
nazione che ha diritto a camminare
743
unita, indipendente, libera nelle sue
scelte» (p. 201). In particolare – sottolinea ancora Muratore – Rosmini
operò «presso i suoi fratelli nella fede
ed i fratelli nella patria, affinché Chiesa e Stato provvedessero a riassettarsi
all’interno» (p. 301), in modo che potessero essere pronti ad affrontare
con reciproca fiducia e lealtà i tempi
nuovi, possibilmente in un clima di
dialogo amichevole perché franco,
avendo come fine il raggiungimento
del maggior bene comune per il Paese. [Simone Bocchetta]
M. Scheler, Politica e morale, a cura
di L. Allodi, Morcelliana, Brescia
2011, pp. 184.
Oltre il cinismo machiavellico e i suoi
effimeri successi (tema affrontato dal
curatore nel suo saggio introduttivo,
cfr. p. 22 e ss.), come riconosciuto in
maniera chiara da Romano Guardini,
Scheler – con questo e altri saggi – ha
agito in maniera da stimolare il pensiero del Novecento a valutare con attenzione «la necessità di pensare una
complementarietà di vocazione di
spirituale e politico, rifiutando tanto
una politica senz’anima quanto uno
spirituale disincarnato» (Introduzione, p. 43). Uno dei temi più cari e più
esplicativi della gnoseologia scheleriana, quello del rapporto tra conoscere ed amare (cfr., sempre di L. Allodi, il saggio introduttivo a M. Scheler, Conoscenza e lavoro. Uno studio
sul valore e sui limiti del motivo pragmatico nella conoscenza del mondo,
744
La nostra biblioteca
Milano 1997, p. 64 e ss.), viene qui a
riflettersi sul rapporto tra politica e
morale, indicando nel compito solidale e universale di realizzazione del
bene comune l’elemento primario
che giustifica l’idea moderna di Stato,
secondo quello che Scheler definisce
come «“il principio oggettivo della
solidarietà di ogni comportamento
umano legato a valori”. Il principio,
nella sua applicazione alla nostra questione, afferma due cose: in primo
luogo, che la realizzazione degli interessi di ogni Stato trova il proprio limite nel senso che nulla deve nuocere
alla solidale salvezza dell’intera umanità; in secondo luogo, che l’uomo di
Stato non soltanto è responsabile dell’oggettiva salvezza del suo Stato
(“bonum commune”), ma è anche a
priori corresponsabile, nella posizione del suo corrispondente tipo di
struttura, dell’intera salvezza dell’umanità» (p. 140). Alla coscienza individuale (che mai sarà sostituita dalla
conoscenza etica, cfr. M. Scheler, Il
formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, Cinisello Balsamo 1996, p. 604) dell’uomo politico l’arduo compito di connettere potere e spirito, avendo sempre presente l’attualità di queste pagine: «La politica senza relazione ai valori e alle idee si radica nell’istinto di
potere, è pura “tecnica” politica, non
politica vera, la cui essenza risiede
nell’atto che sintetizza istinto di potere, idea e valore» (p. 151). [Simone
Bocchetta]