la risoluzione alternativa delle controversie
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“LA RISOLUZIONE ALTERNATIVA DELLE CONTROVERSIE” Iole Anelotti PRESENTAZIONE: “OGGETTO E FINI DELLA RICERCA” Il fenomeno della risoluzione alternativa delle controversie sarà affrontato analizzando i seguenti aspetti: • Origini del fenomeno e suo sviluppo; • Nozione di mediazione mediante confronto con le esperienze dei vari Paesi; • Funzione e natura della mediazione, linee di tendenza e suo rapporto variabile con l’istituzione giudiziaria; • Nascita e sviluppo della giustizia alternativa in Inghilterra; • Esigenza d’adattamento delle forme non contenziose alle peculiarità del sistema italiano; • Mutamenti intervenuti all’interno delle Corti federali degli Stati Uniti nel modo di disciplinare e valutare le ADR; • Tesi a favore e critica alle ADR. “La risoluzione alternativa delle controversie” PARTE PRIMA: “LA CONCILIAZIONE COME RISOLUZIONE ALTERNATIVA” Il modello anglosassone e le difficoltà d’importazione nel nostro sistema. L’ADR, nella sua eccezione più nota di “Alternative Dispute Resolution”, ma anche in quella più innovativa di “Appropriate o Amical Dispute Resolution”, è un movimento di pensiero e, allo stesso tempo, un fenomeno para-giuridico che ha dato notevole impulso alla diffusione di forme di risoluzione del contenzioso, per l’appunto, “alternative” alla giurisdizione statuale. Tale movimento si è sviluppato, nella sua fase iniziale, soprattutto negli Stati Uniti, dalla fine degli anni 70’ e si è esteso anche in Inghilterra ed in alcuni paesi dell’Europa continentale. I nostri vicini francesi, davvero più restii di noi all’adozione di vocaboli anglofobi, hanno coniato il diverso acronimo MARC (“Modes Alternatifs de Reglement des Conflits”). Le radici di questo fenomeno, lungi dal potersi condurre alla breve storia del nuovo continente, sono molto più antiche e possono essere rintracciate in alcune filosofie orientali, risalenti nei secoli, che professavano la soluzione pacifica d’ogni genere di conflitto ed imponevano la ricerca di un accordo per porre fine ad una lite in corso. Così era per la dottrina confuciana, secondo la quale il valore fondamentale doveva ritenersi l’armonia naturale tra i singoli, i gruppi e l’intera società, considerando la controversia alla stregua di un turbamento di tale armonia, che doveva essere ricomposta, attraverso la volontaria ricerca di una soluzione di compromesso, evitando di ricorrere all’instaurazione di un processo. Non stupisce che questo genere di filosofia conciliativa abbia trovato terreno fertile, molti anni dopo, proprio negli Stati Uniti e nel resto del mondo anglosassone: infatti, il sistema di Common Law, per sua tradizione e struttura, non attribuisce grande importanza alla funzione della norma in quanto tale e si fonda sull’elaborazione giurisprudenziale che assurge a cardine del sistema. In virtù di tale impostazione, la Common Law si pone come un ordinamento in continua evoluzione, particolarmente sensibile ai mutamenti sociali, alle tendenze evolutive ed alle spinte della comunità. In questo contesto, la ricerca di soluzioni concordate, tipica dei metodi d’ADR, anche al di fuori degli schemi normativi già esistenti, appare molto più adatto di quanto non lo sia per i sistemi di diritto codificato, tradizionalmente garantisti e legati alla funzione propria della norma. E’ pur vero però che, mai come negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un fenomeno d’avvicinamento tra i sistemi di Common Law e di Civil Law, laddove i primi si sono dotati, in misura crescente, di veri e propri atti normativi ed i secondi hanno gradualmente conferito rilevanza al precedente giurisprudenziale, pur restando radicalmente diverso il sistema angloamericano per il suo peculiare pragmatismo che lo differenzia dal radicalismo teoretico dei nostri sistemi di diritto continentale. E' proprio in un tal contesto che il movimento delle ADR ha trovato, prima ancora che nelle “tavole della legge”, numerosi adepti che hanno colto le potenzialità di una metodologia che consente, a tutti i protagonisti della contesa, una libertà di movimento comune ai procedimenti giudiziari. Origini del fenomeno ADR: La sua rapida espansione si è avuta grazie all’iniziativa privata, che ha dato luogo alla nascita di molti enti, associazioni, società e centri, i quali, a loro volta, hanno dato impulso decisivo allo sviluppo della giustizia alternativa. Accanto a questa proliferazione d’iniziative spontanee che può farsi risalire dagli anni 80’ in poi, anche l’ordinamento formale ha contribuito, in maniera decisiva, alla diffusione dei metodi in discorso. In un contesto in cui il contenzioso aveva subito un rilevante incremento (fenomeno chiamato “litigation explosion” verificatosi negli USA dai primi anni 70’ e le cui cause sono riconducibili ad una serie di fattori tra i quali la consistente ripresa dei traffici commerciali e la crescente consapevolezza della tutelabilità dei propri diritti da parte dei consumatori), il legislatore americano, ha introdotto, con il fondamentale “CIVIL JUSTICE REFORM ACT” del 1990, di riforma della giustizia civile nel suo complesso, il ricorso alle procedure d’ADR e, “La risoluzione alternativa delle controversie” tra queste, in primo luogo, alla “Mediation”. Non vi è chi non coglie il palese intento deflativo del Congresso degli Stati Uniti nel voler promuovere l’utilizzo dei metodi non contenziosi al fine di ovviare alla crisi del sistema giudiziario, assicurando una via alternativa all’eccessiva durata ed agli elevati costi del processo. Se ciò non può essere messo in discussione, è altrettanto vero che il CIVIL JUSTICE REFORM ACT, nel disciplinare un sistema alternativo strettamente collegato alla giurisdizione dello stato (sistema endoprocessuale), facendo seguito ad altri provvedimenti normativi emanati in via sperimentale per alcuni stati, ha semplicemente demandato alle Corti Federali il compito di organizzare dei programmi di gestione negoziale del contenzioso, coordinandoli con lo svolgimento delle procedure ordinarie. La maggior parte delle Corti non ha subito l’imposizione dei metodi alternativi, ma, al contrario, le Corti stesse sono state artefici di un’opera di creazione di un sistema parallelo che ha visto l’introduzione delle procedure d’ADR (tra le quali principalmente “Mediation”, “Early Neutral Evaluation”, “Mini Trial”, “Summary Jury Trial”), talvolta per richiesta delle parti, altre volte obbligatoriamente su ordine del giudice. In ogni caso, prerogativa fondamentale dell’introduzione di questi metodi è stata quella di aver coordinato il ricorso agli stessi con lo svolgimento dei giudizi ordinari, indirizzando alcuni contenziosi, prima del giudizio o anche nel corso del medesimo, ove possibile ed opportuno, verso la via alternativa. Dall’esperienza del CIVIL JUSTICE REFORM ACT è derivato il successivo “ALTERNATIVE DISPUTE RESOLUTION ACT” del 1998, con il quale il Congresso degli Stati Uniti ha mirato ad introdurre stabilmente, all’interno del sistema processuale delle singole Corti nordamericane, dei programmi di risoluzione alternativa delle controversie prevalentemente di carattere consensuale. Ancora una volta, l’ADR ACT del 1998 non ha imposto il ricorso alla giustizia alternativa, ma ha soltanto sollecitato l’adozione da parte d’ogni Corte federale di specifici programmi da integrarsi con i consueti canali giudiziali, in via permanente e non più in via sperimentale com’era stato fatto agli inizi degli anni 90’. Sulla scia del consenso che andava riscuotendo negli Stati Uniti il fenomeno della giustizia alternativa, anche l’Inghilterra è stata presto contagiata dai venti di novità che giungevano da oltreoceano, anche se il sistema legale inglese, nel suo complesso, dall’alto del suo tradizionale conservatorismo, è stato riluttante, rispetto a quello statunitense, nell’accettare l’introduzione delle forme non contenziose. A dispetto di tale atteggiamento, sono state in ogni caso molte le iniziative intraprese in quest’ambito e non sono mancati soggetti, privati e pubblici, che hanno costituito dei centri per la gestione delle procedure mediative. A promuovere lo sviluppo dell’ADR, anche in Inghilterra è intervenuto, poi, il legislatore che ha ritenuto di poter puntare sui metodi non contenziosi per fronteggiare l’incremento della durata e dei costi dei procedimenti ordinari, soprattutto nei casi di controversie di valore contenuto, ove le spese di giudizio arrivano troppo spesso a superare lo stesso valore della causa. Così, la Commissione presieduta da Lord Woolf, nell’affrontare l’intera riforma del processo civile, ha elaborato un rapporto finale che ha portato all’approvazione del “CIVIL PROCEDURE RULES”, entrato in vigore il 26 Aprile 1999, con il quale è stata prevista, nel corso del processo (e quindi, anche in questo caso trattasi di un sistema endoprocessuale), la possibilità di esperire, per richiesta di parte o d’ufficio, un tentativo di risoluzione in via conciliativa della disputa. Da questo quadro dello stato della giustizia alternativa nei principali paesi di Common Law si può cogliere il modo in cui le forme alternative si sono gradualmente fatte conoscere in quegli ambienti, soprattutto giudiziari, che hanno avuto un interesse nel recepirle e si può anche comprendere come soltanto un sistema avvezzo ad una conduzione del procedimento giudiziale fondata, più che sul rispetto di una rigorosa procedura codicistica, su un modello di gestione del processo affidato al giudice (“CASE MANAGEMENT”), possa aver accolto in tempi rapidi un diverso modo d’intendere la risoluzione del contenzioso. Riflessione con riguardo al nostro ordinamento: Le diversità strutturali dell’ordinamento americano rispetto a quello italiano inducono a ritenere che, in un sistema di diritto codificato come il nostro, l’introduzione di metodi non contenziosi debba essere valutata alla luce delle nostre disposizioni costituzionali che tutelano i diritti del cittadino. Ciò, vale a dire che: “La risoluzione alternativa delle controversie” • • Sotto un primo profilo, si tratterà di verificare se i procedimenti consensuali (soprattutto quelli endoprocessuali), che appaiono prima facie legittimi ed efficienti, all’entusiasta commentatore della storia americana, una volta calati nel nostro ordinamento, possano considerarsi rispettosi dei principi fondamentali espressi nella Carta costituzionale, mai dimenticando che ci troviamo di fronte a dei metodi risolutivi che non prevedono, generalmente, la partecipazione d’organi che siano espressione del potere statuale. Sotto un secondo e diverso profilo, invece, si deve tenere in considerazione la compatibilità con il nostro sistema giudiziario di una metodologia conciliativa, basata su di un delicato coordinamento tra volontà privata ed autorità pubblica. A tal ultimo proposito, si deve rilevare che non è così semplice trapiantare un modello procedimentale sviluppato in un contesto strutturale e culturale radicalmente diverso dal nostro. Già il tentativo di conciliazione che il giudice è chiamato ad esperire alla prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c) o nel prosieguo dell’istruttoria (art. 185 c.p.c), si è rivelato totalmente fallimentare e, di fatto, è restato pressoché inapplicato, principalmente a causa di una valutazione sbagliata del legislatore che non ha tenuto in considerazione le condizioni di lavoro d’ogni singolo magistrato che non li consentono, in ragione del numero di cause trattate per ciascuna giornata d’udienza, di dedicare ad una singola causa il tempo che sarebbe necessario per il corretto esperimento di un tentativo di conciliazione. Peraltro, come osserva Picardi, nell’ipotesi in cui sia il giudice a tentare la conciliazione tra le parti, così come dovrebbe essere ai sensi del nostro codice di procedura, tali attività finiscono, inevitabilmente, per essere lette quali anticipazioni di giudizio, così che le parti non saranno mai libere di confrontarsi, senza temere di subire conseguenze pregiudizievoli, una volta fatto il tentativo di bonario componimento. Alla stessa stregua, dovendo valutare l’introduzione di una procedura non contenziosa, delegata dal giudice (nel corso del processo), presso un organismo esterno, non si deve dimenticare che il nostro attuale assetto giudiziario non prevede un modello elastico di processo che si possa adattare ad un singolo caso concreto, in considerazione del livello di complessità dello stesso, che non è sempre direttamente ricollegabile alla materia trattata ed al valore della causa. Com’è stato osservato (Marinari), per preparare il terreno ad una seria riforma che preveda l’integrazione della giustizia alternativa con quella ordinaria, è indispensabile promuovere l’idea di “una programmazione coordinata dell’attività giudiziaria sulla base delle esigenze complessive”, individuando degli standard di durata massima delle cause, eventualmente distinte in categorie, “con l’indicazione di una percentuale minima di cause da concludere entro vari limiti di tempo”, cause queste che potrebbero essere indirizzate, ove possibile, verso percorsi alternativi; il tutto nell'ottica non solo di una revisione delle attuali norme procedurali, ma anche, e soprattutto, degli strumenti organizzativi d’ausilio degli organi giudiziari. In un tal sistema, programmabile e modellabile, l’introduzione delle ADR( anche a livello endoprocessuale) avrebbe maggiori possibilità di successo. Diversamente dall’ipotesi appena descritta, qualsiasi progetto che voglia accogliere le metodologie alternative nel nostro ordinamento, collegandole al processo ordinario, dovrà tener conto delle diversità strutturali evidenziate, rischiando altrimenti di restare lettera morta o, peggio ancora, di complicare ulteriormente la procedura. Non a caso, questo è ciò che si è verificato con l’imposizione dei tentativi obbligatori di conciliazione in materia di subfornitura o in tema di rapporti di lavoro subordinato. Se si ritiene inverosimile che si possa procedere ad una profonda riforma del sistema giudiziario (come quella auspicata), nel disciplinare le forme non contenziose si dovrà opportunamente modellare l’intervento alle peculiarità del nostro sistema. Riferimenti: • “Le modes alternatifs de reglement des conflits: présentation générale”, Jarroson, 1997, pp.325 ss. . “La risoluzione alternativa delle controversie” • “Appunti di diritto processuale civile- i processi speciali, esecutivi e cautelari”, Picardi, Milano 2002, pag. 77. PARTE SECONDA: “RISOLUZIONE ALTERNATIVA DELLE CONTROVERSIE E PROCESSO, LA SITUAZIONE NORDAMERICANA” Illustrazione dei mutamenti intervenuti all’interno delle corti federali degli Stati Uniti nel modo di disciplinare e di valutare la risoluzione alternativa delle controversie(ADR): Parlando d’ADR, si fa riferimento ad una vasta gamma di procedure quali: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. L’arbitrato contrattuale; La court-annexed arbitration; La mediazione; La med-arb; Il mini trial; Il summary jury trial; L’early neutral evaluation; Le judicial settlement conferences. Tutte queste procedure prevedono che lo stato faccia intervenire tra le parti un soggetto terzo, chiamato a svolgere una determinata funzione. Sulla base della natura dell’intervento di questo terzo sono raggruppati i vari metodi: • I procedimenti quasi giurisdizionali: un primo tipo d’ADR è quello definito “quasi processo” il quale prevede una procedura abbreviata d’indagine sul fatto nella quale un organo decidente (l’arbitro) rende una decisione che, auspicabilmente, risolverà la controversia. Ne sono esempi, entrambi basati sul presupposto che le più limitate e sommarie informazioni ottenibili dall’arbitro (rispetto a quelle ottenibili con un processo) sono sufficienti a consentirgli di formulare un giudizio corretto, la: A)Court-annexed arbitration: Essa, costituisce un metodo di risoluzione della controversia che le parti non scelgono liberamente, ma al quale si sottopongono per ordine del giudice. La circostanza che le parti non possono sottrarsi all’ordine del giudice, non implica, peraltro, che la decisione dell’arbitro sia vincolante ed incontestabile.(1). B) Arbitrato contrattuale privato: L’impiego di esso, oggi comune, è stato a lungo oggetto di discussione con riferimento ad alcuni tipi di casi. Negli anni 50’ la Corte suprema degli Stati Uniti, interpretando una legge federale, rifiutò di dare esecuzione ad un accordo stipulato ex ante per sottoporre ad arbitrato una controversia soggetta alle norme federali in materia di garanzia. Alla base di tale decisione vi furono tre motivazioni: 1. I giudici temevano che la sproporzione nel potere contrattuale e l’eventuale coercizione di una parte sull’altra potessero rendere sospette le clausole arbitrali; 2. Si riteneva che la decisione arbitrale fosse qualcosa di diverso e di meno aderente alla legge rispetto alla sentenza; 3. Le decisioni pubbliche rese dai tribunali federali sulle questioni di fatto erano viste come meccanismi desiderabili d’indirizzo sociale. Per quasi trent’anni, queste argomentazioni costituirono un ostacolo di carattere istituzionale al riconoscimento dell’arbitrato nelle controversie regolate da leggi federali. Durante gli anni 80’, tuttavia, la Corte mutò opinione e giunse alla conclusione che l’orientamento generale negli Stati Uniti era favorevole all’arbitrato nelle controversie regolate dalle leggi federali. Le tre riserve espresse negli anni 50’ a proposito dell’arbitrato privato furono pertanto riviste. Innanzi tutto, le clausole arbitrali non erano più considerate di per se stesse sospette ed, infatti, “la mera sproporzione nel potere contrattuale” non inficiava necessariamente l’accordo(2). Secondariamente, la decisione arbitrale non era più vista come carente e potenzialmente illegale in “La risoluzione alternativa delle controversie” • • confronto alla sentenza: si descrisse l’arbitrato come un procedimento di tipo giurisdizionale, presupponendo che esso fosse sufficientemente simile al processo da poter fungere da suo equivalente. Inoltre, le caratteristiche dell’arbitrato (la sua relativa informalità, il ridotto utilizzo della discovery, il suo disinteresse per il precedente), prima ritenute indesiderabili, erano apprezzate quali segni di “dinamismo”, “flessibilità”, “rapidità” ed “efficienza”. Ancora, la stessa funzione del processo giurisdizionale veniva reinterpretata: la finalità di regolamentazione non era più considerata il suo obiettivo principale ma, al contrario, l’arbitrato ed il processo erano messi sullo stesso piano ed entrambi erano intesi quali strumenti di risoluzione di singole controversie, piuttosto che come mezzi di regolazione sociale e di produzione normativa. Il processo veniva quindi ridescritto come un procedimento di risoluzione delle controversie, inteso a porre fine ai conflitti individuali. E' importante rilevare anche un altro punto in comune, assai meno positivo, dei due strumenti, e cioè il fatto che entrambi possono essere estremamente costosi. In seguito a questo crescente favore per l’impiego extra-giudiziale dell’arbitrato, la magistratura federale mostrò interesse per un adattamento di quest’ultimo al fine di renderlo utilizzabile anche nell’ambito del giudizio. Nel 1988, il Congresso degli Stati Uniti autorizzò venti corti distrettuali federali ad istituire programmi in base ai quali le controversie di natura economica fino ad un determinato valore venivano affidate ad arbitri selezionati dalle corti medesime. Pur rimanendo garantito il diritto ad un giudizio de novo, il Congresso autorizzava le corti distrettuali a porre le spese a carico della parte che aveva chiesto il giudizio de novo e non avesse ottenuto un risultato “nettamente più favorevole” rispetto all’esito dell’arbitrato. Altri due modelli d’ADR si basano sull’intervento di un terzo, sebbene con finalità diverse. Nei procedimenti di consultazione, infatti, il terzo interviene non per emettere una decisione, quanto piuttosto per informare le parti sul modo in cui un estraneo valuta la controversia, e (talvolta) per indicare quella che sarebbe la sua decisione se gli fosse richiesta. Gli esempi in questo senso sono dati dai summary jury trias (nei quali si formano delle giurie che forniscono parei consultivi a seguito di procedure abbreviate), dai mini trials (presentazioni del caso da parte di avvocati alle parti principali) e dall’early neutral avaluation (nella quale avvocati esperti ascoltano presentazioni della controversia e forniscono valutazioni sui punti di forza e sui punti deboli delle pretese avanzate dalle parti). Vi è poi una terza forma d’ADR che si discosta in misura notevole dai modelli formali d’acquisizione d’informazioni. Si utilizza il colloquio (chiamato talvolta mediazione, talvolta conference) per stimolare le parti a raggiungere un accordo ed a porre fine alla lite. I programmi di mediazione con intervento della corte e le conferences di conciliazione presiedute dal giudice sono esempi di questo genere d’ADR. Il confine fra trattazione della causa e procedura di conciliazione è talvolta incerto: l’attività di direzione del processo è, infatti, finalizzata ad individuare le questioni rilevanti, ad evitare le dispute intorno alla discovery ed a preparare il giudizio, ma spesso i giudici nel dirigere il procedimento insistono perché si abbiano delle conferences di conciliazione. Queste altre forme d’ADR mostrano tutte le prospettive della conciliazione e, così come la courtannexed arbitration, anch’esse sono relativamente recenti nella prassi delle corti federali degli Stati Uniti. I cambiamenti avvenuti in questo senso si possono meglio tracciare ricordando che nel primo gruppo di norme processuali per le corti federali, promulgate nel 1938, non si faceva quasi menzione del ruolo del giudice nella direzione o nella composizione delle controversie. Tutto ciò che si prevedeva, sotto la rubrica Pretrial Procedure, Formulatine Issues, era che il giudice aveva la facoltà di convocare una pretrial conference. Ma, come ha spiegato il Prof. Stephen Yeazell, le norme del 1938 creavano una serie destinata a crescere di procedimenti pretrial, incluse la motion practice e la discovery, che spostavano il potere decisorio e la discrezionalità delle corti d’appello ai giudici di primo grado(3). Negli anni 50’, si diffuse tra i giudici la preoccupazione riguardo alla gestione dei grandi casi, che coinvolgevano numerosi soggetti ed avevano un rilevante contenuto economico. I giudici stessi ritennero allora che la magistratura dovesse assumere il controllo dei casi “prolungati”, ed ancora che la direzione di tali casi potesse eventualmente anche risolversi nella conciliazione(4). “La risoluzione alternativa delle controversie” Nel 1983, l’adesione della magistratura federale alle procedure alternative era istituzionalizzata negli emendamenti alla Rule 16 delle Federal Rules of Civil Procedure(5). Discostandosi dal regime di discrezionalità previsto nel 1930, gli emendamenti del 1983 facevano obbligo ai giudici di fissare le pretrial conferences. Gli argomenti da trattare includevano “la possibilità di conciliazione o l’uso di procedure extragiudiziali per risolvere la controversia”. Oggi, non è soltanto la magistratura federale a dimostrare entusiasmo per il ruolo di direzione e di mediazione affidato al giudice, ma anche il Congresso degli Stati Uniti, il quale ha emanato nel 1990 il Civil Justice Reform Act. I propositi dichiarati sono di ridurre i tempi ed i costi del giudizio: le alternative al processo ed alla decisione giudiziale rappresentano pertanto aspetti importanti di questa legge. Il Congresso ha inoltre autorizzato i programmi di court-annexed arbitration descritti sopra. In aggiunta, ancora nel 1990, esso ha approvato l’Administrative Dispute Resolution Act, ove si richiede ad ogni organo federale di “adottare un orientamento che conduca all’utilizzo di mezzi alternativi di risoluzione delle controversie e di direzione della causa”. Il Presidente, in nome del potere esecutivo, ha inoltre emanato provvedimenti a supporto dell’ADR(6). Negli ultimi anni, la magistratura ha nuovamente riveduto le sue stesse norme. Ricordiamo, infatti, che la Corte Suprema degli Stati Uniti riveste un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle norme processuali: essa promulgò, nel 1938, le fondamentali Federal Rules of Civil Procedure, un corpus di regole aventi efficacia di legge, redatte da un Advisory Committee appositamente nominato. Da allora, la Corte ha continuato ad esercitare il proprio rulemaking power, modificando ed aggiornando il testo originario delle Rules. Gli emendamenti alle Fed. R. Civ. P. vengono elaborati e proposti dall’Advisory Committee (trasformatosi in organo stabile), ed approvati dalla Corte, il che è sufficiente a far entrare in vigore le nuove norme. Nel 1993, la Rule 16 è stata emendata attribuendo al giudice la facoltà di pretendere che le parti o i loro rappresentanti siano presenti a conferences oppure siano raggiungibili per telefono “per prendere in considerazione la possibile conciliazione della controversia”(7). Inoltre, gli emendamenti del 1993 hanno riveduto la definizione d’ADR, che un decennio prima era stata qualificata come insieme di “procedure extragiudiziali”. La rule del 1993 ha definito le forme d’ADR quali” procedure speciali per l’assistenza nella risoluzione delle controversie, quando ciò sia autorizzato dalla legge o da regole locali”. L’ADR si è così spostata nell’ambito delle corti federali. Le leggi e le norme federali non sono l’unico punto di riferimento per i giudici, né sono gli unici mezzi per misurare i mutamenti di tendenza: nel sistema federale degli Stati Uniti, infatti, ognuna delle 94 corti distrettuali federali promulga anche delle “regole locali”(autorizzate dalla Fed. R. Civ. P. 83) che specificano ulteriormente le indicazioni dirette alle parti e da alcune di esse emerge una risposta favorevole all’attività di conciliazione svolta dal giudice. Per esempio, nel distretto del Massachussets si prevede che: “Ad ogni conference condotta sulla base di queste regole, l’organo giudiziario deve accertare la concreta utilità della mediazione in corso fra le parti, deve cercare d’individuare i mezzi per favorire tali trattative e deve offrire tutta l’assistenza richiesta dalle circostanze”. Non in tutti i distretti, comunque, sono sanciti tali obblighi; in molti il tentativo di conciliazione è lasciato alla discrezionalità del giudice o delle parti. In definitiva, negli anni 90’, la conciliazione è divenuta parte integrante delle funzioni del giudice, attraverso regole elaborate dai giudici medesimi, dagli avvocati e da parti che dispongono di mezzi sufficienti per avanzare proposte di legge. Mentre il secolo volge al termine, l’ADR negli Stati Uniti è ormai istituzionalizzata e legalizzata. Concludendo, è importante avvertire sul fatto che l’attuazione delle regole relative all’ADR nelle corti federali è diseguale: infatti, mentre molte di esse richiedono o suggeriscono il ricorso alle diverse forme d’ADR, nella pratica il volume dell’attività varia sensibilmente. Probabilmente, solo in una minoranza delle corti distrettuali il volume d’attività d’ADR compiuta su ordine del giudice raggiunge livelli significativi. Alcune tesi a favore dell’ADR: 1. Uno degli argomenti più importanti dei fautori dell’ADR è che le attuali procedure giudiziarie sono essenzialmente inadeguate allo scopo. L’ADR è quindi sostenuta non tanto per la sua bontà intrinseca, quanto piuttosto per la sua adeguatezza ad un sistema “in crisi”: essa rappresenta una “soluzione residuale”, non intrinsecamente superiore al processo ma necessaria a “La risoluzione alternativa delle controversie” causa dell’inaccessibilità del medesimo. Quando l’ADR è prospettata quale mezzo d’accesso alla giustizia, essa è vista come un’utile alternativa, in quanto più economica e veloce rispetto al processo. 2. Si pensa che l’ADR sia più congeniale alle parti e quindi più accettabile, anche perché, in alcune sue forme, essa consente potenzialmente di ridurre il ruolo degli avvocati, visti più come fonti d’acrimonia che come risolutori di problemi. L’ADR dovrebbe in sostanza insegnare agli avvocati che il compromesso è una soluzione migliore rispetto alla battaglia: le regole dell’ADR sono quindi rappresentative di una tendenza crescente, negli Stati Uniti, a fondere regole procedurali e regole etiche destinate agli avvocati. Si pensi ad esempio ai mutamenti dei poteri sanzionatori dei giudici federali, ai sensi della Fed. R. Civ. P.11 e all’aumentato controllo giudiziario sulla discovery). 3. Attraverso l’ADR si tenta anche di mutare il comportamento della magistratura, spingendo i giudici a adottare un approccio più informale, capace di sollecitare il compromesso tra le parti: a tal riguardo, è importante rilevare che l’adesione della magistratura all’ADR ha mutato ancora una volta la terminologia, con particolare riferimento ai casi di grandi dimensioni, nei quali i giudici sono descritti oggi come “giocatori” che siedono attorno ad un tavolo e partecipano attivamente alla conclusione di “accordi”(8).(ricordiamo come invece agli inizi degli anni 80’ Resnik ha qualificato alcune delle riforme del ruolo del giudice come creative dei management judges.(9)). 4. Essa è più rispondente ai bisogni delle parti di quanto non lo sia il processo. Quando si evidenzia il profilo della conciliazione, la presunta efficacia dell’ADR si basa su tre premesse: gli accordi conciliativi tra le parti sono volontari; le parti sono meglio informate rispetto agli organi decidenti; lasciare alle parti il controllo dei risultati porta a decisioni migliori rispetto a quelle imposte dai giudici. Per alcuni, queste premesse si traducono nella considerazione che l’ADR è un modo per risolvere le controversie più efficiente del processo. Per altri, gli argomenti a favore dell’efficienza sono correlati al profilo della correttezza, nel senso che, a differenza del processo giudiziario, l’ADR si concentra sui problemi, riduce il formalismo legale, e pertanto conduce a risultati più “giusti”. Tra i sostenitori dell’espansione dell’ADR vi sono serie discussioni sulle sue forme e sui suoi limiti: ci si chiede quali forme bisognerebbe adottare, quali programmi di conciliazione sono accettabili, chi dovrebbe introdurre l’ADR, chi potrebbe parteciparvi(10) ed a quali tipi d’ADR si adattano determinati generi di controversie(11). Ci si preoccupa molto anche dell’opportunità d’introdurre procedure obbligatorie(12), nonché dei tipi d’interazione all’interno dell’ADR, dell’ammissibilità o no degli incentivi a conciliare. Inoltre, si discute della possibilità di togliere efficacia a precedenti pronunce delle corti per facilitare gli accordi tra le parti(13), nonché dei limiti della conciliazione. Obiezioni sollevate contro l’ADR: 1. La prima serie d’obiezioni è di carattere empirico: tale approccio è problematico, specialmente se gli sforzi sono diretti a comparare non solo variabili come il costo o la durata, ma anche la qualità(14). Per esempio, mentre alcuni fautori ritengono che essa sia meno costosa e più rapida rispetto al processo(15), altri sostengono che nessuno studio conferma tale assunto, almeno per quanto riguarda la court-annexed arbitration(16). Altri ancora eccepiscono che nessuna prova concreta avvalora la tesi secondo cui l’ADR promossa a livello federale porta ad un incremento del numero delle conciliazioni(17), nonché ad una riduzione dei tempi del giudizio(18). Studi sull’istituto della mediazione indicano che i relativi procedimenti sono complessi, e che non tutte le forme di mediazione raggiungono i risultati sperati. Esistono inoltre diversi indici per valutare i programmi ed il loro “successo”: per esempio, alcuni studiosi ritengono che è fuorviante paragonare l’ADR al processo, poiché i processi rappresentano di se stessi un’eventualità eccezionale(19). (Ricordiamo, infatti, che nel 1994, nelle corti federali degli Stati Uniti, meno del 4% delle cause civili concluse aveva raggiunto la fase del dibattimento(20)). Così, poiché alcuni procedimenti d’ADR, quali la court-annexed arbitration, richiedono un maggiore investimento di risorse rispetto alla conciliazione giudiziale, l’ADR può effettivamente risultare più dispendiosa e più lenta. “La risoluzione alternativa delle controversie” Problema della “volontarietà”: per molti, i vantaggi dell’ADR sono legati alla volontà delle parti di partecipare al relativo procedimento ed al loro ruolo nella determinazione dei risultati. Pertanto, se l’ADR fosse resa obbligatoria dallo Stato, la sua efficacia potrebbe diminuire. Ancora, se le teorie sulla crisi della giustizia sono corrette ed il processo è realmente inaccessibile, allora la conciliazione delle controversie potrebbe non essere il prodotto della libera volontà, quanto piuttosto della coercizione, o di qualche altro genere d’incentivo. 3. E’ giusto esaltare gli accordi consensuali delle parti in quanto tali? La Prof. Alexander ha sollevato il problema della relazione intercorrente tra gli accordi stipulati dalle parti ed il diritto: dall’analisi empirica di un ridotto numero di conciliazioni in un gruppo di class actions federali in materia di valori mobiliari, conclusesi tutte con un accordo per il medesimo valore(un quarto del danno potenziale), la Alexander desumeva che tali transazioni non erano state determinate dalla scelta delle parti né dal merito della causa, bensì da un “mercato delle conciliazioni”, influenzato dagli interessi dei molti partecipanti. Concludeva poi nel senso che 2. “l’affermazione che la conciliazione è intrinsecamente preferibile al processo, e che ogni soluzione liberamente concordata è accettabile ipso facto, non è convincente con riferimento alle class actions in materia di titoli mobiliari”(21). 4. Nel suo saggio, il Prof. Fiss sosteneva che l’ideologia della conciliazione è particolarmente dannosa nell’area delle controversie di public law e che le corti dovrebbero preoccuparsi d’articolare e sviluppare regole pubbliche di giustizia, non di spingere le parti ad accettare determinate condizioni(22). Più di recente, il filosofo Luban ha sviluppato queste obiezioni, ponendo il problema della perdita della conoscenza della legge da parte della collettività e suggerendo di vietare le transazioni segrete(23). 5. Altri critici sostengono che certe forme d’ADR potrebbero risultare inappropriate in particolari tipi di cause. Per esempio, la Prof. Grillo è contraria al tentativo obbligatorio di conciliazione nei procedimenti di divorzio, poiché ritiene che le donne possano essere influenzate in modo non appropriato dai modelli di conciliazione(24). Uno studio empirico ha anche dimostrato che i risultati delle conciliazioni erano influenzati dall’etnia dei partecipanti(25). La Prof. Bernstein ha osservato che la court-annexed arbitration obbligatoria offre solo pochi dei benefici dell’arbitrato privato e può limitare l’accesso proprio a quelle parti che si propone di aiutare. 6. Scarsità d’informazioni pubbliche fornite dalla maggior parte delle procedure d’ADR: vi sono poche opportunità di venire a conoscenza dei problemi sollevati dai partecipanti, così come delle regole o delle decisioni proposte dagli organi d’ADR. Negli Stati Uniti si guarda oggi con notevole attenzione al problema dei pregiudizi diffusi nelle corti con riferimento al sesso, alla razza ed all’etnia: la preoccupazione è che questi fattori influenzino la decisione anche nell’ADR, ma che in tale contesto sia più difficile farli emergere e porvi eventualmente rimedio. Molti fattori influenzano l’atteggiamento di una determinata società nei confronti sia delle procedure di risoluzione alternativa delle controversie, sia della loro regolamentazione: Negli Stati Uniti, alcuni hanno visto nella diffusione dell’ADR un opportuno correttivo a quella che il Prof. Langbein(26) ha definito la tradizione anglo-americana “troppo centrata sul processo”. Secondo il parere di altri, la crescente adesione al modello dell’ADR da parte delle corti è fonte d’inquietudine. Come ha spiegato un giudice federale, i sostenitori dell’ADR sono riusciti ad integrare parti della stessa nel sistema giudiziario federale(27). In questo processo, sia la giustizia federale sia l’ADR sono cambiate. Concludendo, è importante sottolineare che l’interesse dell’ADR va compreso nel contesto delle singole culture: Negli stati Uniti, l’ADR s’inquadra nella tendenza della società a superare l’intensa e faticosa attività richiesta dal processo in controversie individuali e di minor rilievo. Nel sistema federale, i giudici nominati a vita, dotati di un potere che deriva dalla costituzione, riducono progressivamente le loro decisioni su controversie individuali e di valore relativamente limitato e le delegano ai loro corrispondenti non nominati a vita: i giudici fallimentari ed i magistrates nelle corti federali, i giudici amministrativi nelle agencies. L’ADR costituisce uno dei molti fattori che determinano l’attribuzione delle attività di decisione sui fatti a giudici di livello sempre più basso, scarsamente esposti al giudizio della collettività. Ancora, pur essendo spesso invocata quale mezzo per aprire “La risoluzione alternativa delle controversie” molte porte e per favorire l’accesso dei litiganti alla giustizia, l’ADR può anche venire usata come surrogato del processo giurisdizionale, in modo da chiudere, anziché aprire, le porte dei palazzi di giustizia(28). Mentre alcuni avevano sperato che l’ADR avrebbe integrato e completato le procedure giudiziarie, in talune corti essa è divenuta, di fatto, un surrogato o una parte del processo. Riferimenti: 1. “La Court-annexed arbitration: un nuovo rimedio per un vecchio problema”, Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1995, pag.1035 ss. ; C. Gilmer ; 2. 3. “The Misunderstood Consequences of Modern Civil Process”, in Wis. L. Rew, V. Murrah, 1994, pag. 631; “Foreword to the Procedings of the Seminar on Protracted Cases”, in 21 F.R.D, V. 4. Murrah, 1957, pag. 395 ss. ; 5. “Supreme Court of the United States, Order Promulgating Amendments to the Federal Rules of civil Procedure, 97 F.R.D”, pp. 165, 201-213 (28 aprile 1983) ; 6. “Executive Order No. 12988, in 61 Federal Register 4729” (Presidente Clinton, 5 febbraio 1993) ; 7. “United States Supreme Court, Amendements to the Federal Rules of Civil Procedure, in 146 F.R.D”, pp. 401, 427-431” (in vigore dal 1’ dicembre 1993) (Rule 16) ; “Procedural Innovations, Slosching Over: A Comment on Deborah Hensler, A Glass Half 8. Full, a Glass Half Empty: The use of Alternative Dispute Resolution in Mass Personal Injury Litigation, in 73 Texas L. Rev”, Resnik, 1995, pp.1627, 1628-1630; “Managerial Judges, in 96 Harv. L. Rev.”, Resnik, pp. 376, 378 ss. ; 9. 10. V., ad es., “ Cincinnati Gas&Elec. Co. V, Gen. Elec. Co, in 854 F 2d 900(6 th Cir. 1988)” ; Fitting the Forum to the Fuss: A User- Friendly Guide to Selecting an ADR Procedure, in 11. 10 Negotation Journal”, V. Sander-Goldberg, 1994, p.49 ; 12. V. Ad es. “ Court-Mandated Alternative Dispute Resolution: What Form of Partecipation Should Be Required? in 46 Southern Methodist Univ. L. Rev”, Sherman, 1993, p.2709 ; 13. “Whose Judgement? Vacating Judgements, Preferences for Settlement, and the Role of Adjudication at the Close of the Twentieth Century, in 41 UCLA L. Rev.”, Resnik, 1994, p.1471; 14. “The Quality of Dispute Resolution Procedures and Outcomes, Measurement Problems and Possibilities, in 66 Denver U.L.Rev.”, Galanter-Tyler, 1989, p.419; V. Ad es. Broderick, op. cit. , p.217 s. ; 15. 16. V. Ad es. “Understanding the Limits of Court-Connected ADR: A Critique of Federal Court-annexed Arbitration Programs, in 141 U. Pennsylvania L. Rev.”,Bernstein, 1993, pp. 21692211; “For and Against Settlement: Uses and abuses of the Mandatory Settlement 17. Conference, in 33 UCLA L. Rev.”, Menkel-Meadow, 1995, pp. 485, 497 s., 509-14; “The Myth of Alternative Dispute Resolution in the federal Courts, in 76 Iowa L. Rev.”, 18. Dayton, 1991, pp. 889, 916; 19. “Unintended Consequences of Court Arbitration. A Cautionary Tale from New Jersey, in 14 Justice Systems J.”, Mac Coun, 1991, p.229 s. ; 20. 1994 Report of the Director of the Administrative Office of the United States Courts, in Judicial Business of the United States Courts, 1994, Tavola C-$, p. A-36; 21. “Do the Merits Matter: A Study of settlements in Securities Class Actions, in 43 Standford L. Rev.”, Cooper Alexander, 1991, pp. 497, 575-577, 568; V. Ad es. “Against Settlement, in 93 Yale L. J.”, Fiss, 1984, p.1073; 22. 23. “Settlements and the Erosion of the Public Realm, in 83 Georgetown L. J.”, Luban, 1995, p. 2663; 24. “The Mediation Alternative: Process Dangers for Women, in 100 Yale L. J.”, Grillo, 1991, p. 1545; “La risoluzione alternativa delle controversie” 25. “Summary: An Empirical Study on of Race and Gender on Small Claims Adjudication and Mediation, in The MetroCourt Final Project: A Study of the Effects of Ethnicity and Gender in Mediated and Adjudicated Small Claim Cases at the Metropolitan Court Mediation Center, Bernalillo County, Albuquerque”, Hermann-Lafree-Rack-West, New Mexico, gennaio 1993; “The Historical Origins of the Privilege Against Self Incrimination at Common Law, in 92 26. Mich. L. Rev.”, Langbein, 1994, pp. 1047, 1059; 27. Broderick, p. 225; “Many Doors?”, Resnik, p.211. 28. PARTE TERZA: “MEDIATION ET INSTITUTION JUDICIAIRE” Affrontando il primo tema generale del Congresso tenutosi a Parigi nel settembre 2004, il Prof. Tarzia si è domandato innanzi tutto se fossero necessarie delle riflessioni preliminari allo scopo di definire, prima di tutto, il modo di risoluzione dei conflitti che è oggi al centro della nostra attenzione. In effetti, egli sostiene che se la nozione d’istituzione giudiziaria è di un’evidenza immediata, non si può dire altrettanto della mediazione, soprattutto se questo tema è affrontato, sebbene in un modo sintetico, da un punto di vista comparativo. Si constata allora che le più diverse situazioni si presentano alla nostra attenzione: Talvolta, come in Francia, la nozione è definita nei testi come” la carica affidata dal giudice, su accordo delle parti, ad una terza persona al fine di sentire le parti e di confrontare i loro punti di vista per permettere loro di trovare una soluzione al conflitto che le contrappone. (art. 131-1 ss. C.P.C francese). Al contrario, si ritrovano delle procedure di mediazione e delle regole elaborate al di fuori della legge, per esempio dalle Camere di conciliazione e d’arbitrato o su incarico d’associazioni determinate allo scopo (Mediation UK, National Family Mediation, Centre for Dispute Resolution) come in Inghilterra, in un modo completamente indipendente dall’intervento del giudice. In qualche paese, (come in Argentina, almeno per la provincia di Buenos Aires), la mediazione è regolata in modo minuzioso, come una procedura obbligatoria preliminare all’istanza civile a contenuto patrimoniale: senza escludere, a fianco di questa, una mediazione volontaria, extragiudiziaria, per accordo delle parti, al di fuori di tutto il rapporto con l’istanza. Sotto un altro punto di vista, si distinguono i paesi dove la mediazione è prevista in via generale dalle leggi (come in America, in Germania, in Svezia, in Portogallo, in Francia ed in Argentina) ossia, meglio ancora, è prevista solo in certe materie (come in Belgio per il regolamento collettivo di debiti in materia familiare, o ancora in Grecia come mediazione incidentale extragiudiziaria) e quelli dove il nome stesso non è o non è ancora utilizzato nei testi legislativi, come in Spagna (tranne, in Catalogna, Legge di mediazione familiare del 15 marzo 2001) ed in Italia. Qui, afferma Tarzia, il problema da porsi è quello di sapere se la funzione della mediazione è adempiuta dalla conciliazione giudiziaria o soprattutto extragiudiziaria. Ma il problema della distinzione tra mediazione e conciliazione è, in effetti, un problema generale, che si pone in tutti i paesi dove i due modi di risoluzione del conflitto sono previsti senza che il legislatore affidi loro dei campi d’applicazione e spesso anche delle caratteristiche diverse. Non si può trascurare, d’altronde, che in qualche paese la mediazione è un modo di risoluzione “in fieri”, oggetto di progetti di legge molto ricchi e precisi, come in Brasile, o anche di una previsione generica, come nei più recenti progetti italiani per la riforma di procedura civile (art. 57 del Progetto di legge per la modifica del codice di procedura civile approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 ottobre 2003: ”Prevedere forme e modalità di mediazione non obbligatoria come modo di risoluzione extragiudiziaria delle controversie, affidata a soggetti professionalmente qualificati, diversi dal giudice”), dove essa esiste tuttavia nella pratica extragiudiziaria. Nei limiti di una prospettiva d’insieme e non rinunciando a qualche considerazione critica, il Prof. Tarzia tenterà di presentare la funzione e la natura della mediazione, di cogliere le linee di tendenza e soprattutto di descrivere il suo rapporto variabile con l’istituzione giudiziaria. “La risoluzione alternativa delle controversie” L’avvertimento del giurista romano secondo il quale “tutta la definizione in diritto è dannosa”, sembra particolarmente utile, quando si pone la questione preliminare sulla natura della mediazione: Si è nel settore della giurisdizione o in quello del contratto? A tal riguardo, il Prof. osserva che la mediazione si presenta, dal punto di vista dinamico, come una procedura diretta dal mediatore: si dice (secondo l’espressione della legge portoghese (1)) da “un terzo neutro, indipendente ed imparziale, privato del potere d’imposizione alle parti di una decisione obbligatoria”. Si potrebbe affermare che si è all’incrocio tra il diritto del processo e quello del contratto. Ma, queste espressioni devono essere acquisite con prudenza, con delle riserve ben precise. La proceduralizzazione della mediazione non comporta la ricezione di regole e di forme della procedura giudiziaria né la giurisdizionalizzazione del risultato che, se è positivo, si traduce senza dubbio in un accordo tra le parti. La formula impiegata esprime al contrario l’esigenza di un’attività del mediatore e di una partecipazione delle parti che richiama la definizione del giurista di Bologna ( judicium est actus trium personarum), ma vi sostituisce la figura del giudice (con il suo imperium e la sua autorità) da quella di un terzo che collabora con le parti allo scopo di aiutarle a “a trovare una soluzione al conflitto che le oppone”. Questa mancanza d’autorità è un carattere saliente della posizione del mediatore. Inoltre, secondo le analisi molto attente della mediazione che sono state fatte, essa si collega con la deontologia del mediatore, con quella che è stata definita la sua “passività”. Coloro che distinguono la conciliazione dalla mediazione sotto questo aspetto insistono su questo punto: riconciliare le parti al fine di far ritrovare loro la pace e non solo una soluzione al litigio, sarà il compito tipico del mediatore; al contrario, il conciliatore ( che sia il giudice o un ausiliario di giustizia o anche un soggetto che non appartiene all’organizzazione giudiziaria) dovrà proporre la soluzione, esercitare dunque un ruolo attivo. Secondo questa presentazione, la mediazione, molto di più della conciliazione, sarà agli antipodi della funzione di giudicare; anche se, nella varietà di lingue e d’idee, qualcuno ha voluto distinguere una mediazione “di facilitazione” (Facilitatory) dell’accordo delle parti e un’altra di “valutazione o di consiglio” (Advisory) nella quale il mediatore svolge un’attività più marcata, fino a formulare delle proposte per la risoluzione del conflitto. Tarzia, non crede che queste distinzioni possano giustificare una frammentazione della nozione, ma, al contrario, che la misura dell’intervento del mediatore nel tentativo di un accordo appartenga necessariamente all’esperienza concreta, nel rispetto, certo, della libertà delle parti alle quali nessun accordo può essere imposto. Nonostante la proposta di modelli diversi che tuttavia è stata fatta, il Prof. non ritiene opportuno reprimere quest’esperienza in regole divergenti o anche, sul piano teorico, nella definizione di forme multiple di mediazione, in quanto ciò potrebbe causare degli ostacoli al successo di questo tentativo di composizione del conflitto. Il mediatore è normalmente, e in tutti i casi egli dovrà essere, un soggetto diverso dal giudice, anche se egli è nominato da lui nel corso dell’istanza. Si è osservato giustamente che l’alternatività di questo modo di risoluzione del conflitto, l’alternatività alla decisione giudiziaria, può realizzarsi in due modi: o la procedura è completamente esterna al processo, o essa nasce nel processo stesso dalla designazione del terzo mediatore da parte del giudice che determina il rinvio del processo fino alla fine della mediazione per un tempo determinato dallo stesso e prorogabile su accordo delle parti. Il primo modo, d’altronde, può essere completamente indipendente dal processo e quindi dar luogo ad una procedura che si svolge secondo le sue regole senza alcun nesso con l’istituzione giudiziaria; ma, essa può essere anche permessa o imposta come preliminare all’azione in giustizia o provocata dal giudice nel corso dell’istanza. Si hanno allora le due forme della “mediazione preliminare” e della “mediazione incidentale”. Le conseguenze dell’una o dell’altra sullo svolgimento del processo sono naturalmente diverse, ma esse devono essere prese in considerazione per una comprensione del ruolo del giudice nelle due situazioni: Nella prima il discorso è lo stesso, sotto quest’angolo visuale, quando si tratta di un tentativo di conciliazione preliminare( si fa riferimento, come esempio a tal riguardo, alle regole dettate dal nostro codice di procedura civile in materia di controversie di lavoro( art. 412 Bis)). Il tentativo di conciliazione è allora una condizione per lo sviluppo dell’istanza. Se la procedura per il tentativo “La risoluzione alternativa delle controversie” non è stata iniziata o il termine fissato a questo scopo non è ancora passato, il giudice deve sospendere l’istanza e fissare un termine, a pena di decadenza, per avviare il tentativo di conciliazione. D’altronde, la sanzione dell’omissione del tentativo è più radicale: per esempio, la nullità della procedura che sempre può essere invocata solamente dalle parti(2). Il problema che si pone, in questi casi, è quello di sapere se la domanda di conciliazione o di mediazione interrompe o sospende i termini di decadenza e di prescrizione per la proposizione della domanda in giustizia. Le leggi spesso non si esprimono in proposito e la soluzione affermativa è lasciata alla giurisprudenza. E’ d’altronde la sola soluzione ragionevole: se il tentativo preliminare è obbligatorio, la parte non può subire un pregiudizio al suo diritto derivante da questa forma di “giurisdizione condizionata”. Altre questioni si pongono nel caso della mediazione incidentale. Il primo elemento da rilevare è la condizione secondo la quale il giudice adito per un litigio può designare un mediatore a seguito dell’accordo delle parti che deve raccogliere nel preliminare. La mediazione non può essere imposta alle parti. Tale alternatività alla soluzione giudiziaria, alla decisione autoritaria del litigio è quindi rivelata dall’inizio con la libertà delle parti di accettarla o no: ciò è il primo segno della diversità profonda tra la mediazione ed il giudizio. Ma, afferma il Prof. le esperienze illustrate dai rapporti nazionali mostrano altri elementi di distinzione che si vuol tentare di riunire qui come espressione di questa linea di tendenza fondamentale; senza trascurare, d’altronde, il Libro Verde sui modelli alternativi di risoluzione dei conflitti rilevanti del diritto civile e commerciale, presentato per la Commissione delle Comunità europee il 19 Aprile 2002: un documento di grand’utilità, sia per la visione d’insieme sulle esperienze constatate nei paesi della Comunità, sia ancor di più per i suggerimenti dati allo scopo di “garantire la qualità delle ADR”, in particolare in considerazione del ruolo del mediatore e del suo rapporto con l’istituzione giudiziaria, come della posizione delle parti e dei terzi. Prima di tutto, la scelta del mediatore può essere fatta in categorie diverse, ma non è generalmente subordinata al consenso delle parti. Il mediatore, d’altronde, deve soddisfare non solo le condizioni d’onestà e onorabilità ma anche “possedere, per l’esercizio presente della propria attività, la qualificazione richiesta in considerazione della natura del litigio; giustificare, secondo i casi, una formazione o un’esperienza adatta alla pratica della mediazione; presentare le garanzie d’indipendenza necessarie all’esercizio della mediazione”. Indipendenza ed imparzialità sono d’altronde tra le prime condizioni enunciate in maniera generale nel Libro Verde e nei rapporti nazionali; con la possibilità di una serie di controlli e, all’occorrenza, anche di una sostituzione del mediatore, al di là d’altre garanzie, quali l’iscrizione in un registro(come per esempio, l’iscrizione dei mediatori in un registro sottoposto al controllo permanente della “Direzione Nazionale di Promozione di metodi alternativi alla giustizia” dipendente dal Ministro di Giustizia in Argentina). Il Prof. sottolinea la diversità notevole che, anche sotto quest’aspetto, bisogna tracciare rispetto ai sistemi giuridici che lasciano lo sviluppo della mediazione, non solo quanto alla durata(3) ma anche quanto al suo svolgimento, al controllo del giudice il quale può risolvere le difficoltà che il mediatore incontra nella realizzazione della missione; mettere fine, in un certo momento, alla mediazione su domanda di una parte o su iniziativa del mediatore; metterci ugualmente fine d’ufficio quando il buon svolgimento della mediazione appare compromesso(4) e anche i sistemi che permettono che la mediazione sia condotta in tutti i casi fino alla fine o ponendo tutta questa sotto il controllo di un’attività diversa dal giudice. Si potrebbe osservare, sostiene il Prof. che questo regime diverso rileva un carattere della mediazione, come un incidente nella procedura (pendente judicio) in un caso, e come una procedura d’altronde indipendente (extra judicium) in un altro caso. Ma, tutto questo non sopprime dei punti d’incontro che rivelano degli aspetti essenziali del rapporto tra la mediazione e l’istituzione giudiziaria. Che sia nominato dal giudice o da un’organizzazione extragiudiziaria, la scelta del luogo dove il mediatore esercita la sua missione non è solamente una garanzia supplementare della sua indipendenza. Se il palazzo di giustizia è percepito come il “luogo del litigio” e della sua soluzione autoritaria, parrebbe necessario che la mediazione si svolgesse al di fuori di questo palazzo, in un luogo che non ricorda, nemmeno per la sua affinità, l’esercizio della giurisdizione. Il problema, osserva Tarzia, non si pone, evidentemente, per le mediazioni extragiudiziarie condotte dai centri “La risoluzione alternativa delle controversie” di mediazione e d’arbitraggio o da altre organizzazioni specializzate o da un centro unico per tutto il paese come le “National Mediation Office” per i conflitti di lavoro a Stoccolma. Ma, quest’esigenza d’allontanamento dal luogo di giurisdizione e anche di scelta di un ambiente tranquillo non è limitata alla mediazione extragiudiziaria. Se più Paesi non prendono posizione su questo punto, è previsto altrove che essa deve aver luogo in un edificio diverso, facilmente accessibile, con una struttura sufficiente per l’aspettativa delle parti. Secondo il Prof. è utile rilevare l’importanza di quest’aspetto che deve favorire, ratione loci, un atteggiamento delle parti che sia anche di facilitare la missione del mediatore. Ma, l’allontanamento, come garanzia del mediatore e di non influenza del giudice, non significa opposizione dei principi che devono reggere lo sviluppo della mediazione ai principi fondamentali della procedura giudiziaria. Si arriva così ad un tema d’importanza centrale sul quale la concezione “processualista” e quella “contrattualista” si confrontano. Su questo tema, il Libro Verde adotta una posizione aperta, ma non equivoca, fondata sulla distinzione tra le “ADR nel quadro delle procedure giudiziarie” che “si sviluppano sotto il controllo del giudice” e le “ADR convenzionali” che “riposano su dei principi di procedura che le parti hanno liberamente scelto, aderendo per esempio ai regolamenti di procedura che sono stati proposti loro come modelli da associazioni professionali o attraverso dei codici deontologici ai quali essi sottoscrivono “ (La questione è arrivare alla “possibilità di stabilire dei principi fondamentali, sia in generale, sia in campi specifici, che diano le garanzie necessarie affinché il regolamento dei conflitti mediante istanze extragiudiziarie offra il livello di sicurezza richiesto dall’amministrazione della giustizia”). Delle scelte più specifiche e spesso diverse si ritrovano in qualche rapporto nazionale, sia in considerazione dell’applicabilità del principio del contraddittorio e di difesa di conversazioni particolari tra il mediatore e una delle parti, sia per quello che riguarda il problema generale dell’applicabilità dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: dove la concezione secondo la quale “se le parti decidono di ricorrere ad una mediazione, il contrattuale predomina e qui sono i principi generali della convenzione che si applicano”, si scontra con la posizione opposta per la quale “il principio del processo giusto si applica anche alla mediazione”. Non mancano delle soluzioni che si potrebbero definire intermedie, o meglio divergenti tra le mediazioni incidentali al processo e quelle extragiudiziarie. Il contrasto d’opinioni mostra, secondo Tarzia, nel suo insieme, l’impossibilità di ricondurre la mediazione integralmente nell’uno o nell’altro ambito qui confrontato. Si ritorna all’immagine dell’”incrocio” che segna, contemporaneamente, un punto d’incontro e di separazione. Al di fuori di questa metafora, il Prof. ritiene opportuno abbandonare il terreno del dibattito teorico per tentare d’individuare quali sono i doveri ed i poteri del mediatore e, a fronte, quelli delle parti e i limiti che s’incontrano nella ragione stessa della funzione della mediazione: ricordando che questa funzione di giustizia ma alternativa alla giurisdizione, impedisce in quanto tale d’applicare senza riserve delle regole della procedura giudiziaria non meno che di quelle della formazione dei contratti. Prima di tutto, non appena ha ricevuto la nomina, il mediatore “deve convocare le parti”. Una mediazione esige evidentemente l’audizione delle parti; ed è chiaro che per comprendere bene non solo l’oggetto del litigio ma anche le sue ragioni profonde e può essere il clima d’ostilità nel quale la controversia è nata e le sue ragioni interne, l’audizione dovrà essere, prima di tutto, contraddittoria. Ma questa è solo la prima tappa. Nulla impedisce, in questa procedura informale, che il terzo ascolti, dopo, separatamente, l’una e l’altra parte: per approfondire la conoscenza della dimensione di contrasto ed esplorare le possibilità di un accordo. Dopo la convocazione e l’audizione delle parti, si lascia giustamente al mediatore la più larga libertà di forme, di “modus procedendi”; sotto riserva di regole che possono essere dettate dai regolamenti dei Centri di mediazione. E’, per Tarzia, un atteggiamento indispensabile. Niente nuocerà di più all’incarico di terzi che una rete di norme di procedura. Egli sa che, come l’arbitro, gode di un periodo determinato per l’espletamento della sua missione: un periodo che deve essere fissato, per la mediazione preliminare ed ancora di più per quella incidentale, allo scopo di non annullare il diritto d’accesso ai tribunali. Basta affermare che un’esigenza di flessibilità impone d’altronde che la durata della mediazione possa essere prorogata. Durante la durata della mediazione incidentale, l’istanza è sospesa. La domanda è al contrario inammissibile nel caso della “La risoluzione alternativa delle controversie” mediazione preliminare. Tutto ciò non esclude evidentemente il ruolo degli avvocati nella mediazione: un’assistenza che sembra in generale obbligatoria nella mediazione giudiziaria e facoltativa in quella extragiudiziaria. In più, si prevede spesso espressamente l’aiuto giurisdizionale anche per la mediazione. Ma la partecipazione effettiva degli avvocati è il risultato di un’evoluzione che ha dovuto superare la diffidenza di una parte e far fronte all’esigenza di una formazione adeguata degli avvocati dell’altra parte. Non ci si può dimenticare d’altronde che il mediatore non è necessariamente un giurista, l’assistenza degli avvocati è necessaria non solo per “garantire il rispetto dei principi fondamentali” e “obbligare il mediatore a restare equo ed imparziale”, ma anche per salvaguardare la validità formale e sostanziale del risultato della mediazione. E’ vero d’altronde che “il ruolo crescente degli avvocati aumenta la limitazione delle relazioni tra la mediazione e l’istituzione giudiziaria nella misura in cui l’avvocato è un ausiliario di giustizia”. Si tocca qui un problema che riguarda l’atteggiamento del negoziatore e non del litigante che è essenziale per l’utilità della partecipazione degli avvocati alla mediazione, come d’altronde in tutta la redazione del contratto, e ancora di più qui è necessaria per scendere a patti nel conflitto. Il Prof. ritiene utile fissare ancora lo sguardo sui limiti, tanto indicati espressamente dalla legge quanto elaborati dalla dottrina sui poteri del mediatore e sulle ragioni che li ispirano. Prima di tutto: Egli, può raccogliere prove, quando lo ritiene utile per la realizzazione della missione? E, se la risposta è affermativa, i risultati di questa istruzione possono essere acquisiti per il processo nel caso d’insuccesso della mediazione? Il legislatore francese risponde innanzi tutto che “il mediatore non dispone dei poteri d’istruzione. Tuttavia può, con l’accordo delle parti e per il bisogno della mediazione, ascoltare i terzi che vi consentono”(5). La soluzione, afferma Tarzia, non sembra contrastata dalle altre legislazioni qui prese in considerazione e segna un altro punto di distanza dalla procedura giudiziaria: se è vero, infatti, che (come si ripete da secoli), la prova serve al giudizio (judicio fit probatio) non ci sarebbe motivo di permettere al mediatore, privo d’altronde dei poteri inquisitori, di ordinare e di eseguire misure d’istruzione. Le prove scritte che le parti vogliano sottoporli e l’audizione dei terzi con il consenso, prima di tutto, delle parti, possono essere giustificate solamente allo scopo di una migliore conoscenza della situazione di fatto che è all’origine del conflitto e non come mezzo per un giudizio che non rileva per il mediatore. Ma, la questione più importante è un’altra: Le prove presentate e acquisite durante la mediazione possono essere utilizzate durante la procedura giudiziaria ulteriore? E’ vero che spesso la legge non risponde espressamente a tale questione. Ma la risposta prevalente è negativa, salvo accordo delle parti. La soluzione deriva dall’obbligo di riservatezza che è alla base di questo modo alternativo di risoluzione del litigio: un obbligo che vincola il mediatore come le parti e i terzi che sono stati sentiti. Il Libro Verde pone, a tal riguardo, dei principi molto chiari. Osserva che “la riservatezza sembra essere la garanzia del successo delle ADR perché contribuisce a garantire la franchezza delle parti e la sincerità delle comunicazioni nel corso della procedura…La riservatezza s’impone a volte alle parti ed ai terzi…Le informazioni che dovranno essere scambiate tra le parti nel corso della procedura non dovranno essere ammesse come mezzi di prova al momento della procedura giudiziaria o arbitrale ulteriore”, salvo un accordo diverso tra le parti. Si ritrova questo insieme di principi, di maniera generale un po’ dappertutto. Il Prof. ritiene quindi che si tratta veramente di un principio generale della mediazione che segna la frontiera più importante tra tale istituzione e l’istanza giudiziaria. Il mediatore non può essere chiamato come testimone o esperto durante il processo, attuale e futuro, tra le stesse parti e “non può essere incaricato nel corso della stessa istanza per effettuare una misura d’istruzione”(6). Quali sono gli altri obblighi del mediatore? La legge portoghese(7) li riassume nel suo insieme disponendo che il mediatore deve agire con “imparzialità, indipendenza, credibilità, competenza, riservatezza e diligenza”. Senza ritornare sulle condizioni già menzionate, è l’ultima che merita qui qualche considerazione supplementare. Il dovere di diligenza è in generale riconosciuto, ma deve essere rapportato al ruolo limitato del giudice durante la mediazione. In effetti, se il mediatore deve solamente informare il giudice della “La risoluzione alternativa delle controversie” riuscita o del fallimento della mediazione(8), può apparire difficile prevedere un controllo del giudice sull’esecuzione della missione. E pertanto, le norme già citate che prevedono il potere del giudice di mettere fine, in un certo momento, alla mediazione per domanda di una parte o quando il buono svolgimento della mediazione appare compromesso, le parti e (si crede anche il mediatore) preliminarmente sentite(9), lasciano intendere che la diligenza del mediatore può essere controllata tutt’al più come ragione possibile di queste misure. Nel tentativo di tracciare un quadro d’insieme, salvo qualche precisazione da qui a poco, è sufficiente affermare che qui il dovere di diligenza (di cui un aspetto soltanto è il dovere di celerità) può essere iscritto, a buona ragione, tra i doveri del mediatore nelle mediazioni giudiziarie. Per quelle extragiudiziarie, bisogna naturalmente considerare in primo luogo i Regolamenti nei quali esse trovano normalmente le loro fonti. Si è così giunti agli aspetti essenziali del regime della mediazione e del suo rapporto con l’istituzione giudiziaria. Ma, il Prof. ricorda che la missione del mediatore non è gratuita. La remunerazione è fissata dal giudice durante la mediazione giudiziaria, dalle parti o dai centri di mediazione durante quella extragiudiziaria. Ma, si tratta di una remunerazione fissa o variabile? Gli elementi utilizzati per la sua determinazione sono molto vari: talvolta, si tiene conto del numero e della durata delle sedute, senza pretendere di tener conto della qualità del lavoro di mediazione o della sua riuscita o del suo fallimento ( soluzione che rispetta la riservatezza della missione e l’inesistenza di un obbligo di risultato a carico del mediatore). Talvolta, si distingue se la mediazione è riuscita o no con una varietà di soluzioni intermedie. Un quadro comparativo anche sommario può essere sufficiente per rivelare quante esigenze diverse si confrontano in quest’ambito. Da una parte, bisogna rispettare l’indipendenza del terzo e dall’altra il carattere della sua missione. Per regola generale, dunque, non si collega la sua remunerazione al risultato, ma alla diligenza, al lavoro compiuto, nella sola misura che può essere controllata, al sapere il numero delle sessioni. Ma, non mancano delle regole diverse che vogliono incitare il mediatore nel suo sforzo per un risultato positivo, garantendoli una remunerazione più elevata in questo caso. L’altro aspetto al quale il Prof. fa riferimento è quello della responsabilità del mediatore. La controversia sulla natura e soprattutto sui limiti di questa responsabilità e sulle sanzioni connesse, si collega strettamente al rapporto variabile tra la mediazione e l’istituzione giudiziaria. Così, anche quelli che affermano che “si applica il diritto comune della responsabilità contrattuale”, in rapporto con la violazione degli obblighi del mediatore di cui Tarzia ha già parlato, danno atto di due tendenze per ciò che riguarda il suo obbligo di consiglio: l’una “psicosociale”, secondo la quale, come “il contenuto dell’accordo si sottrae all’influenza del mediatore”, la sua responsabilità “non potrà perciò essere assunta”; l’altra “giuridica”, secondo la quale “il mediatore può assumere la sua responsabilità sulla validità (leicità) ed efficacia giuridica (praticabilità) dell’accordo”. Tutt’al più “egli deve rimandare la parti accanto ai loro consulenti rispettivi ed assicurarsi che essi parteciperanno alla mediazione della causa”. Questa seconda concezione moderata, sostiene il Prof. sembra più persuasiva, tenuto conto che il mediatore non è necessariamente un professionista del diritto e che la composizione del conflitto, in termini sostanziali, si può ben distinguere dalla sua forma giuridica, con i problemi di validità di cui si è fatta menzione. Probabilmente, bisogna andare più lontano. Non ci si può dimenticare, anche qui, la distinzione tra mediazione giudiziaria ed extragiudiziaria: con la conseguenza che “se si tratta di un MARC puramente contrattuale, la responsabilità può essere assunta”; se, al contrario, il mediatore è un ausiliario di giustizia, si ritorna alle sanzioni previste per questo caso dalla legge della procedura o dalle norme applicabili al funzionario pubblico ( come nel progetto brasiliano). E’ una questione largamente dibattuta altrove. Il Prof. ritiene di poter concludere su questo punto affermando che non si può dimenticare la natura tutt’al più “dubbia” della mediazione extragiudiziaria e giudiziaria e che, per la prima, bisogna tener conto dei Regolamenti dei Centri di Mediazione che fissano i doveri e le responsabilità del mediatore. Un richiamo puro e semplice alla responsabilità contrattuale per le parti non avrebbe giustificazione, per Tarzia, là dove, come nella mediazione giudiziaria, nessun rapporto contrattuale è instaurato tra i soggetti necessari della procedura di mediazione. “La risoluzione alternativa delle controversie” Infine, sostiene il Prof. un ultimo punto di contatto tutt'al più possibile, tra la mediazione e l’istituzione giudiziaria si trova nel risultato della mediazione. Tra le numerose questioni specifiche che possono essere sollevate a riguardo (per esempio, quanto alla possibilità della “parte debole” di respingerla o alle conseguenze di un accordo in materia penale) Tarzia ritiene doveroso fissare l’attenzione solo su due punti: sapere il contenuto e l’efficacia dell’accordo concluso al termine della mediazione e la possibilità di un’omologazione giudiziaria. Per quanto riguarda il primo punto, dei dubbi non sembrano poter essere sollevati. I rapporti nazionali concordano a tal riguardo, malgrado qualche diversità di formule sulla natura della convenzione e normalmente di transazione di quest’accordo. Il documento firmato dal mediatore e le parti ha forza di titolo esecutivo nella mediazione giudiziaria, talvolta di per se stesso, talvolta dopo l’omologazione del giudice(10). Ma, lo si prevede anche nelle procedure per dare forza esecutiva agli accordi conclusi al di fuori dell’istanza giudiziaria. In un modo o nell’altro, l’accordo concluso con l’aiuto del mediatore può dar luogo anche ad un titolo esecutivo e soddisfare la funzione di risoluzione del conflitto al quale la mediazione è destinata. Alla fine di quest’esposizione, il Prof. ritiene opportuno affrontare delle questioni che restano aperte. E’ una constatazione già fatta che la mediazione sembra avere un ruolo crescente nei testi internazionali e nazionali ed in quella che possiamo chiamare “la politica della giustizia” nel nostro Paese. Così, ai termini dell’art. 43 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea(11), “il cittadino o la persona fisica o morale residente o avente sede statuaria in uno stato membro ha diritto a adire il mediatore dell’Unione in caso di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni od organi comunitari, ad esclusione della Corte di giustizia e del Tribunale di prima istanza, nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali”. Il ricorso al mediatore si rivela quindi uno strumento alternativo, una garanzia fondamentale di giustizia anche all’interno dell’Unione ed in rapporto con le istituzioni e gli organi comunitari. E, tuttavia, le resistenze alla sua applicazione in diritto interno sono forti, come lo rivelano i rapporti nazionali. In rapporto a questa situazione, le questioni ulteriori che si pongono attengono non all’alternatività o alla complementarietà della mediazione alla giurisdizione, ma alle ragioni profonde del successo o dell’insuccesso della ripartizione della funzione di giustizia, lato sensu, tra i tribunali e le istituzioni alternative e soprattutto (per quello che ci riguarda oggi) tra il giudice ed il mediatore. Sembra che, nella prospettiva necessaria della complementarietà delle due funzioni, un rapporto adeguato tra i ricorsi alle richiamate dell’una e dell’altra parte non potrà essere ottenuto senza una diffusione della conoscenza della mediazione come modo alternativo di risoluzione dei conflitti: una diffusione nelle Università, negli ambienti professionali del diritto, nelle associazioni industriali e commerciali, nelle istituzioni e associazioni per la difesa della famiglia, dei lavoratori e dei consumatori, nel pubblico, anche grazie all’aiuto dei media. Se la cultura della giurisdizione( troppo spesso identificata con quella del litigio) è molto diffusa dappertutto, e si dovrebbe dire un po’ troppo diffusa, sostenuta dal sovraccarico crescente delle istituzioni giudiziarie, non si può dire la stessa cosa della mediazione. Due culture alternative, dunque, devono formarsi per una scelta ragionata tra i modi di giustizia che esse offrono. In questa prospettiva, sostiene Tarzia, non si può guardare senza interesse l’esperienza inglese più recente che fa seguito alle nuove “Civil Procedures Rules” entrate in vigore nel 1999 sulla base dei famosi Woolf Reports: un’esperienza importante non solo per l’organizzazione di una pre-litigation phase, ma per l’intento dichiarato di “cambiare la cultura intera, l’ethos, nel campo del contenzioso civile”. In breve, la pre-action phase deve condurre le parti a delle negoziazioni “vere e ragionevoli” allo scopo di risolvere il litigio economicamente e senza procedure giudiziarie; ma, in caso d’insuccesso, il giudice, nel quadro del suo “active case management” dovrà: 1. Incoraggiare le parti a cooperare l’una con l’altra nella condotta delle procedure; 2. Incoraggiare le parti ad impiegare una procedura di risoluzione alternativa del conflitto se la Corte la considera appropriata e facilitare loro l’uso di una tale procedura; 3. Aiutare le parti a comporre tutta o una parte del litigio. Tale ultima previsione si spiega in questi termini: “In breve, le Rules incoraggiano anche il giudice a diventare un mediatore”. Su ciò è importante soffermarsi in quanto, se questo deve essere il punto d’arrivo, le due “La risoluzione alternativa delle controversie” culture di cui si sta parlando, porteranno ad una fusione. Il giudizio resterà la soluzione marginale quando l’incoraggiamento del giudice o anche il suo impiego diretto nel tentativo della risoluzione, non avrà avuto successo. E’ vero che le Corti inglesi non hanno il potere d’ordinare la mediazione, “questa può essere solamente incoraggiata fortemente”. Ma, alla fine, se risulta che l’opportunità di tentare la mediazione è stata respinta in un modo “non ragionevole”, il rifiuto può essere sanzionato sul piano delle spese di giustizia. Il Prof. conclude quindi affermando che, in questo modo, il limite alla mediazione, seguito dal rispetto della libertà delle parti, è superato in favore dell’autorità del giudice “incoraggiante”, “sollecitante” la mediazione o, meglio ancora, tentandola lui stesso. E’ permesso tutt'al più domandarsi se, dopo una mediazione sollecitata fortemente o esercitata direttamente dal giudice senza successo, egli guarda, in effetti, la sua posizione di terzo imparziale; una questione che in questo nuovo clima giudiziario ripone, con un vigore nuovo, i dubbi sollevati a riguardo del rapporto tra la conciliazione giudiziaria ed il giudizio. Qualunque cosa si pensa di ciò, Tarzia rimane dell’avviso che l’alterità tra il giudice ed il mediatore dovrà restare uno dei principi fondamentali della mediazione come della giurisdizione. Riferimenti: 1. ART.35, Legge portoghese n. 8/2001; 2. ART. 201 e 202 C.P.C portoghese; 3. ART. 131-6 C.P.C francese; 4. ART. 131-9 e 131-10 c.p.c francese; 5. ART. 131-8 prima parte C.P.C francese; 6. ART. 131-8 seconda parte C.P.C francese; 7. ART. 30, n. 2 Legge portoghese n.78/2001; 8. ART. 131-9 C.P.C francese; 9. ART. 131-10 C.P.C francese; 10. Così in Francia, ART.131-12 C.P.C francese; 11. N. 2000/C 694/01 del 18 dicembre 2000. PARTE QUARTA: “OSSERVAZIONI IN TEMA DI STRUMENTI ALTERNATIVI PER LA RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE” Allo stato attuale negli Stati Uniti la risoluzione delle controversie civili è affidata a due sistemi assolutamente paralleli ed in forte concorrenza tra loro: 1. Il tradizionale sistema pubblico costituito dalle Corti; 2. Il sistema privato delle alternative al processo. Per quanto riguarda quest’ultimo, innanzi tutto si può notare come i metodi alternativi, pur nella loro eterogeneità, possono essere ricondotti a due modelli fondamentali, a seconda che mirino a definire la controversia mediante un accordo fra le parti oppure mediante una vera e propria decisione, pronunciata da un soggetto terzo che, di regola, non è un giudice in senso proprio. Il primo è definito modello “conciliativo” mentre il secondo “valutativo”. La distinzione può essere meglio compresa tenendo a mente che mediazione ed arbitrato costituiscono l’archetipo, rispettivamente, delle alternative appartenenti all’uno ed all’altro modello. Le “nuove” alternative al processo, intendendosi per tali quelle affermatesi tra la fine degli anni 70’ e gli anni 80’, si sono sviluppate all’interno d’entrambi i modelli. Nel frattempo, sull’onda delle critiche mosse alle strutture della giustizia formale, anche le “vecchie” alternative al processo sono tornate in auge: tipico è il caso dell’arbitrato, un tempo accettato con riluttanza come una sorta di “La risoluzione alternativa delle controversie” giustizia corporativa riservata alla ristretta cerchia dei merchants, e poi progressivamente esteso anche a materie che, tradizionalmente, si ritenevano sottratte alla disponibilità delle parti. Vecchie o nuove che siano, comunque, le alternative riconducibili al modello conciliativo sono senza dubbio quelle che hanno incontrato il maggior successo sia di pubblico, sia (per così dire) di critica. Alla base di questo successo sta la convinzione che qualunque controversia è suscettibile di una soluzione concordata tra le parti. L’accordo transattivo viene per definizione ritenuto preferibile ad una decisione imposta “dall’alto”, e ciò anche quando il diverso potere contrattuale dei contendenti rende sospetto l’accordo che essi raggiungono privatamente, senza l’intervento di un terzo istituzionalmente garante della legalità e della correttezza tanto del procedimento seguito, quanto del risultato. Si afferma che la conciliazione possiede come atout vincente la capacità di assicurare che tra le parti resti aperto un canale di comunicazione, elemento indispensabile al perdurare della loro relazione ed al volontario rispetto dell’accordo raggiunto. La spinta alla deregulation investe anche l’amministrazione della giustizia: al processo inteso come strumento attraverso il quale vengono attuati i valori incorporati nelle norme dell’ordinamento si preferisce una “gestione privata” della soluzione delle controversie. Ciò significa che viene riconosciuta alle parti una libertà assoluta nel determinare sia il procedimento ritenuto più adatto, nel caso concreto, al raggiungimento di un accordo sia, soprattutto, il contenuto dell’accordo stesso. In questo contesto, l’autonomia privata può consentire alle parti di definire la controversia secondo criteri a loro graditi, ma non suscettibili di essere adottati da un giudice, vincolato al principio di legalità ed al contenuto delle norme di legge. Questo aspetto del settlement viene in genere trascurato da chi esalta la definizione in via conciliativa o transattiva delle controversie come forma altamente “civilizzata” di risoluzione dei conflitti tra privati. Al contrario, si tratta di un aspetto di fondamentale importanza in qualunque analisi che si proponga di stabilire se la decisione giudiziaria, da un lato, ed il settlement (o comunque l’esito di procedure alternative di tipo conciliativo), dall’altro lato, siano qualitativamente su di un piano di parità, tanto da poter considerare il settlement come un equivalente funzionale della decisione giudiziaria. E’ intuitivo che tra i sostenitori dei metodi alternativi è diffuso il convincimento che le cose stiano esattamente così e che, anzi, la definizione convenzionale della controversia rappresenti per le parti la soluzione per eccellenza, da preferire comunque a quella di tipo giurisdizionale in quanto vi è l’idea per cui il settlement raggiunto privatamente tra le parti anticipa in ogni caso il risultato che, con spreco di tempo e di denaro, si otterrebbe attraverso il processo. A sua volta, quest’idea si ricollega alla tesi che attribuisce al processo un’unica funzione, la stessa che si riconosce ad un accordo transattivi, cioè quella di porre fine ad una controversia. Tuttavia, sono molti gli equivoci in cui incorrono tali tesi e il più evidente è quella di trascurare che anche in un processo quasi interamente rimesso all’iniziativa delle parti, quale è quello statunitense, il giudice svolge sempre una funzione riequilibratrice e di garanzia della fairness del procedimento, che è assente dalle trattative condotte direttamente dalle parti in preparazione di un settlement. L’equivoco più banale, invece, è quello di ritenere che la decisione giudiziale ponga fine, tout court, alla controversia fra le parti e le vincoli, non diversamente dall’accordo transattivi, senza concedere loro alcuna possibilità di ripensamento: viene da chiedersi, infatti, a cosa servano le impugnazioni ammesse contro la decisione giudiziale, se non a tentare di ottenere una diversa regolamentazione del rapporto attraverso una revisione ed un eventuale annullamento dell’assetto raggiunto con la prima decisione. Inoltre, un’ulteriore riprova del fatto che il contrasto fra le parti può perdurare nonostante la formale conclusione del processo si riscontra in un fenomeno che è andato affermandosi nella prassi delle Corti statunitensi e cioè il diretto coinvolgimento della Corte nell’esecuzione della decisione pronunciata, coinvolgimento che si manifesta in un controllo d’ufficio, costante e capillare, sull’effettivo adeguamento del rapporto controverso al dettato del provvedimento: è chiaro che se davvero la decisione bastasse a far cessare le ostilità tra le parti, i giudici potrebbero a cuor leggero disinteressarsi della sua attuazione, fiduciosi che nessuno avrà l’ardire d’infrangere una pace faticosamente ritrovata. Proprio negli anni in cui si è verificata la maggiore espansione degli strumenti alternativi, i tentativi di riforma dell’adjudication sono stati numerosi ed hanno comportato interventi d’ampio respiro sulla procedura federale, tutti volti a restituire funzionalità alla disciplina del processo, in modo da “La risoluzione alternativa delle controversie” assicurare che il suo svolgimento mantenga la promessa di una definizione giusta, rapida, e poco costosa di tutte le controversie: è questa la finalità che la Rule 1 delle Federal Rules of Civil Procedures attribuisce espressamente all’applicazione ed all’interpretazione delle Rules medesime. Le riforme in questione (si fa riferimento agli emendamenti apportati alle Federal Rules tra il 1983 ed il 1993, tra le quali presentano specifico interesse le disposizioni che attribuiscono al giudice una funzione “manageriale” rispetto alle modalità di svolgimento della fase di pretrial, consentendogli, fra l’altro, d’indurre le parti ad esplorare la possibilità di un accordo conciliativo o di ricorrere ad altre “procedure speciali” che permettano una soluzione anticipata della controversia), comunque, non sembrano avere avuto l’effetto di accrescere l’appeal del processo agli occhi della collettività, determinando un “ritorno” alla giustizia formale e, conseguentemente, una perdita d’interesse per gli strumenti alternativi. Questi ultimi hanno continuato indisturbati la loro ascesa, senza risentire in maniera rilevante neppure del fatto che, tra le tante riforme varate, vi fosse anche una serie di disposizioni tendenti a trasporre all’interno del procedimento giudiziario istituti caratteristici dell’informal justice. Si può affermare, quindi, che il tentativo di arginare la diffusione degli strumenti alternativi attraverso interventi correttivi sulla disciplina del processo si è rivelato infruttuoso: le novità introdotte, per quanto numerose, riguardano esclusivamente l’attribuzione al giudice di maggiori poteri di direzione formale del procedimento, ma non hanno certo modificato la struttura di quest’ultimo, che resta fondamentalmente aderente al modello accusatorio e quindi assegna all’organo giudicante un ruolo marginale, facendone un passivo e distaccato osservatore dell’attività delle parti. Questo non significa che le riforme, di per sé, non sono state importanti e non hanno cercato di ridurre le disfunzioni causate da quegli eccessi d’adversariness del procedimento da molti indicati come causa principale della lentezza della giustizia ordinaria e dei suoi costi elevati. Ciò che si vuole rendere evidente è che si è trattato di riforme incomplete, che si sono arrestate, quando si è manifestata l’esigenza di decidere se compiere o no quel “salto di qualità” che avrebbe costretto a riconoscere al giudice poteri inquisitori più ampi di quanto i fedeli fautori di un processo accusatorio “da manuale” sarebbero stati disposti ad accettare. Si è trattato quindi di riforme rivelatesi incapaci di riportare l’adjudication a livelli d’efficienza tali da renderla competitiva rispetto ai più collaudati strumenti alternativi. La vicenda delle riforme presenta anche un altro aspetto interessante nella prospettiva degli strumenti alternativi e della loro diffusione. Si è già accennato al fatto che alcune delle novità introdotte hanno “trapiantato” nel processo istituti mutuati dall’esperienza della giustizia formale, talvolta affidandone il controllo al giudice ed altre volte configurandoli come una tappa obbligata all’interno del normale iter procedimentale ( si allude, in particolare, all’Early Neutral Evaluation ed all’arbitrato endoprocessuale, istituti di rapida diffusione nelle Corti distrettuali: con la prima, un soggetto neutrale designato dal giudice formula una previsione sul possibile esito della controversia, sottoponendo alle parti quella che, a suo giudizio, sarebbe la decisione che verrebbe pronunciata a conclusione del processo e su questa base le parti possono, se lo ritengono opportuno, iniziare una trattativa che consenta loro di addivenire ad un accordo transattivi per entrambe più vantaggioso dell’ipotetica decisione; la seconda, invece, è attivata da un ordine del giudice che deferisce la causa ad un arbitro da lui nominato. La parte che non si ritenga soddisfatta del lodo reso dall’arbitrato ha il diritto di chiedere che il processo riprenda come se l’arbitrato non avesse avuto luogo, ma, in questo caso, tanto la soccombenza quanto il conseguimento di una decisione meno favorevole di quella arbitrale sono fortemente sanzionati sul piano economico, con un aggravio delle spese processuali poste a carico della stessa parte.); inoltre, è stata conferita alle Corti una sorta di delega “in bianco” per la sperimentazione dei metodi alternativi di definizione delle controversie ritenuti più adatti al raggiungimento degli obiettivi fissati da un piano di riduzione della durata del procedimento e dei suoi costi, che ogni distretto deve predisporre nell’ottica di un rigoroso management del proprio carico di lavoro( il Civil Justice Reform Act del 1990 ha riconosciuto a ciascuna Corte distrettuale un ampio arco di poteri in materia di litigation management, che spaziano dalla facoltà di organizzare “corsie preferenziali” per le cause di minore complessità alla possibilità di organizzare i tempi e le modalità di “La risoluzione alternativa delle controversie” svolgimento della fase preliminare del processo in ragione delle specifiche esigenze d’ogni singola controversia e, infine, alla libertà di avvalersi di forme alternative di definizione delle cause). In uni scritto recente, un noto autore ha affermato che “sarebbe ingeneroso considerare l’esperienza italiana delle ADR come una tabula rasa”(1). Ammettendo impunemente un difetto di generosità, si può affermare che per ora la “moda” degli strumenti alternativi sembra avere fatto presa soprattutto a livello teorico, sugli addetti ai lavori più sensibili a tutto ciò che “fa tendenza” nel mondo del diritto. Ci si può domandare se anche da noi si svilupperà una fiorente industria degli strumenti alternativi, con un fatturato paragonabile a quello del corrispondente business statunitense. Ipotizzare una risposta è certamente azzardato, per quanto risulti evidente che la situazione catastrofica in cui versa la giustizia civile italiana costituisce un eccellente pretesto per affidare al “privato” funzioni e responsabilità che il “pubblico” non sembra più in grado di gestire in maniera soddisfacente o, quanto meno, tollerabile. In effetti, gli ultimi anni hanno conosciuto un fiorire d’iniziative volte ad istituire, a vari livelli, procedure alternative a quella giudiziaria per la definizione di determinate categorie di controversie. Che queste procedure meritino la qualifica d’ADR-Italian Style appare eccessivo, visto che tutte rappresentano “variazioni sul tema” del tentativo di conciliazione. Le virtù salviche della conciliazione devono avere impressionato anche il legislatore, se si pensa ai tentativi obbligatori di conciliazione introdotti da alcune recenti leggi (si allude al tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, reso obbligatorio dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ( relativo alla riforma del pubblico impiego) e regolato dagli art. da 410 a 412-bis c.p.c. come pure al tentativo di conciliazione introdotto dall’art. 10 della Legge 18 giugno 1998, n. 192, concernente la disciplina del contratto di subfornitura industriale.). Esistono poi disegni di legge che, nell’ambito del processo ordinario, affidano funzioni di conciliazione ad apposite, neo-istituite commissioni o a terzi designati dal giudice, ampliano i casi in cui l’esperimento del tentativo di conciliazione condiziona la procedibilità della domanda giudiziale e, infine, riconoscono alle parti la facoltà di conciliare qualunque controversia su diritti disponibili dinnanzi ad organismi di conciliazione istituiti da enti pubblici o privati ed approvati dal Ministero di grazia e giustizia. Si può affermare, quindi, che per ora la retorica dei riti alternativi ha prodotto nel nostro ordinamento risultati decisamente modesti. Per coloro che nutrono la convinzione che le alternative al processo siano sinonimo “di una giustizia più rapida, professionalmente affidabile, probabilmente meno costosa”(2), l’esperienza italiana non appare certamente esaltante: a loro consolazione, si può dire che l’entusiasmo con cui la “causa” della conciliazione è stata sposata costituisce un promettente inizio, che lascia sperare in una costante, anche se lenta, “crescita” degli strumenti alternativi. Riferimenti: 1. “Riti alternativi e tecniche di risoluzione stragiudiziale delle controversie in diritto civile”, Alpa, 1997, p. 415;2. “Riti alternativi…”, Alpa, p. 433. “La risoluzione alternativa delle controversie” INDICE: • PRESENTAZIONE: “Oggetto e fini della ricerca” • PARTE PRIMA: “La conciliazione come risoluzione alternativa” Il modello anglosassone e le difficoltà d’importazione nel nostro sistema. Bibliografia: “La conciliazione”, Maurizio di Rocco e Angelo Santi, Giuffrè Editore, P. 28-39. • PARTE SECONDA: “La risoluzione alternativa delle controversie e processo: uno sguardo alla situazione nordamericana” Bibliografia: “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, Settembre 1997, Articolo di Judith Resnik, P. 699715. • PARTE TERZA: “Mediation et institution judiciaire” di Giuseppe Tarzia (Traduzione in italiano) Sommario: 1. La varietà delle esperienze mostrate per un esame comparativo; La “natura” della mediazione. Il difetto d’imperium del mediatore e la distinzione tra 2. mediazione e conciliazione. Attività o passività del mediatore?; 3. La mediazione extragiudiziaria e giudiziaria. La mediazione preliminare al processo (facoltativa od obbligatoria) e i suoi effetti. La prima condizione della mediazione: l’accordo delle parti per il suo esercizio; Le indicazioni del Libro Verde e i rapporti nazionali: la scelta del mediatore e le sue 4. condizioni; i limiti d’intervento dell’autorità che l’ha nominato; 5. La localizzazione della mediazione. I principi direttivi della procedura: una mediazione “imparziale”?; La convocazione delle parti e il carattere informale della procedura; 6. 7. La difesa nell’istruzione e la funzione dell’audizione eventuale dei terzi. L’obbligo di riservatezza e le sue implicazioni; 8. Il dovere di diligenza e quello di celerità; La remunerazione del mediatore; 9. 10. La responsabilità del mediatore; 11. Il risultato della mediazione e i suoi effetti; 12. Le culture della mediazione e del giudizio: evoluzione e prospettive. “La risoluzione alternativa delle controversie” • PARTE QUARTA: “Osservazioni in tema di strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie” Bibliografia: “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, Anno 1999, Articolo di Elisabetta Silvestri, P. 321337. “La risoluzione alternativa delle controversie”