Augusto Benemeglio – Eugenio Barba pdf

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Augusto Benemeglio – Eugenio Barba pdf
IL MIO INCONTRO CON EUGENIO BARBA
Di Augusto Benemeglio
1. Uno sciamano
Eugenio Barba è ritenuto oggi uno dei più grandi registi e teorici dello spettacolo del
nostro tempo, uno che ha insegnato nelle Università di Torino, Bologna, L'Aquila, La
Sapienza di Roma, uno che ha scritto una trentina di libri sul teatro, che ha girato
tutto il mondo e "si confronta direttamente con la storia del proprio tempo, eludendo
le cronache teatrali, polemiche, tendenze, protagonisti mediatici". Uno che potrebbe
essere insignito (perché no?) del Nobel per la letteratura, e non a caso dopo poco
questo nostro incontro (che risale al 2005) a Londra gli viene conferita l’ennesima
laurea honoris causa. Ma quando lo vidi per la prima volta, in un capannone degli ex
cantieri della Giudecca di Venezia, più di trent’anni fa (23 ottobre 1975), era –
come disse Cesare Garboli , - un mediterraneo ispido e selvaggio, cotto di sole, uno
sciamano di uno spettacolo-processione,
qualcosa di transitorio, di fragile e di
leggero, ma di gran peso: era una pantera pronta allo scatto… “Il suo corpo era uno
strumento musicale magnetizzato che emetteva vibrazioni armoniche e trasmetteva
una forza incredibile, risanatrice. Con le sole mani compiva gesti magici,
taumaturgici, con la sola forza di quelle mani era capace di guarire”. Era, forse, tutto
ciò quel che avrebbe voluto essere un medico moderno di oggi, che è rimasto
spersonalizzato senza più contorni precisi. Ma la sua gestualità aveva anche un
qualcosa di barocco e, insieme, di angoscioso e profondo, qualcosa di simbolico e
fantastico. Quelle incredibili dilatazioni del corpo, i fulminei trapassi mimici, i
passaggi da un'atmosfera musicale all'altra, le danze drammatiche rituali, miste di
folklore scandinavo e sardo-salentine, tutto era in lui come un'oscura tempestosità
emotiva con improvvise calme da flauto, come una rissa perenne che ora si placa per
un po’, ma è pronta a riesplodere. “Il teatro, - aveva detto -, “ è la possibilità di
andare più veloci della luce, afferrare più presto possibile”. E ciò costituisce ancora
un modello per i suoi attori, ora che lui non recita che saltuariamente.
2. Il dono della vertigine.
Da allora ho sempre inseguito, più o meno inconsciamente, quest’artista del terzo
teatro (come allora veniva definito il suo teatro, che metteva in scena “l’oscenità e il
contagio del linguaggio del corpo “e aboliva ogni divisione tra scena e pubblico” ),
questo stregone magico gallipolino, pieno di anfratti, buio e luce, uomo vitalissimo e
completo, ma allo stesso tempo diviso in due, come il giorno e la notte, quest’uomo
che possiede “il dono della vertigine”. Ma non l’ho mai più rivisto, pur avendone
qualche opportunità, almeno credevo. Infatti, molti anni dopo (siamo alla fine degli
anni ’80) sembrò che la cosa potesse realizzarsi, a Gallipoli. Gli avevo scritto una
lettera, in veste di Presidente dell’Associazione Culturale L’uomo e il Mare, con la
quale gli comunicavo che il Consiglio Direttivo gli aveva assegnata, per alti meriti
artistici che avevano illustrato Gallipoli e il Salento, la Targa d’Argento L’uomo e il
Mare, ma lui mi rispose , da Holstebro, Danimarca, con una lettera datata 25 maggio
1988, che era costretto a rinunziare al riconoscimento, per impegni teatrali. Si diceva
commosso e grato del riconoscimento che gli veniva tributato, ma faceva sapere che a
Gallipoli non "capitava" più, perché l 'unica cosa che l'aveva legato in passato alla sua
città d'origine era la madre, che nel frattempo si era trasferita a Roma.
3. La canoa di carta
Esattamente trent’anni dopo Venezia, e quasi vent’anni dopo quella lettera, ebbi
finalmente davanti a me, negli studi di Teleonda Gallipoli, Eugenio Barba, in carne
e ossa, il più grande regista teatrale europeo vivente dei nostri tempi. E ciò grazie ad
una felice congiuntura, ad un evento culturale che non esito a definire “ storico”.
Eugenio, col suo “Odin Teatret”, era a Gallipoli, per rappresentare una serie di
spettacoli ( “Il sogno di Andersen”, “Le Grandi Città sotto la luna”, “Sale”) che sono
stati già rappresentati in tutti i continenti , perché il teatro di Barba è universale,
multietnico, multirazziale, globale, fatto di rigorosa disciplina della mente e del
corpo, un training psico-fisico in cui l’attore – come abbiamo accennato - esprime i
suoi messaggi attraverso la gestualità del corpo.
Il suo teatro è – come scrive lui stesso nella “Canoa di carta” – “il momento della
trascendenza, quando l'individuo vuole andare al di là di sé stesso, l’incontro con
l'altro, chiuso e nascosto in noi stessi , ma a noi estraneo e da noi differente”. Si
realizza un connubio tra personaggi e spettatori perfettamente integrati nel disegno
della rappresentazione.
Ma tutto ciò, il maestro Barba, non lo disse nell’intervista televisiva che molto
benevolmente mi concessa a quel tempo. Anzi, minimizzò ogni suo merito, senza
alcuna falsa modestia, come fanno tutti i grandi, e disse che questo discorso vale per
loro, per l’Odin Teatret, che non è solo un gruppo culturale, ma una vera e propria
comunità multietnica e multirazziale che “abita le isole galleggianti del teatro e
hanno costruito ponti leggeri e resistenti per mettersi in contatto, e linguaggi estetici
per comunicare al di là delle lingue e con tutte le lingue”.
4. Mettere in scena l’uomo nudo
Insomma far parte dell’Odin è come farsi monaci, o militari, darsi e riconoscersi in
un insieme di norme e comportamenti quotidiani, forse non propriamente templari
“nudi “alla ricerca di una fede, del Graal della Purezza, come testimoniava
Jarzy
Grotowsky, il maestro e grande amico di Eugenio, che diceva, “Noi dobbiamo far
vedere l’uomo così com'è, nella sua inte-rezza, in modo che non si nasconda; l'uomo
che vive; e questo significa corpo e sangue. Questo è nostro fratello e si trova dove si
trova 'Dio', con il piede scalzo e la pelle nuda , il fratello, l'uomo che non mente a se
stesso. Tu sei, dunque io sono. Sto na-scendo perché tu nasca, perché tu divenga. Non
aver paura, vengo con te.»
In questo “teatro-isola galleggiante, isola di libertà “, gli attori cercano spettatori per
vivere insieme momenti di sconfinata sensazione, di non appartenere al proprio
tempo, di superarlo, di andargli contro, di essere come salmoni dello spirito, andare
contro corrente, avere la sensazione che qualcosa possa nascere in ciascuno di noi,
spettatori, che possiamo uscire trasformati dallo spettacolo, uno spettacolo che
continua anche dopo, dentro di noi. Oppure – ed è l’altro lato della medaglia – ne
usciamo confusi, perplessi, istupiditi, con un aumento del tasso della claustrofobia,
certi di una sola cosa: di non averci capito molto più di nulla. In effetti, è questa la
grandezza di Eugenio Barba: mettere in scena il Nulla o il Deserto, ovvero quella
parte di noi “che vive altrove”, più o meno inconsciamente, in un esilio permanente.
E lui di esilio se ne intende, avendolo sperimentato sulla propria pelle facendo
l’emigrante nel periodo in cui l’italiano non era molto quotato e in specie nel nord
Europa era considerato alla stessa stregua del negro in Usa.
5. La vita nascosta dentro di noi
Il suo teatro apre nuovi scenari, nuovi paesaggi, ci dice di una vita nascosta che
abbiamo dentro, e che può manifestarsi, lì sulla scena, attraverso le sincronie
coreografiche danzanti, le luci, la sabbia, il sale, il corpo che si contorce e piange e si
dispera, e sembra dover morire, dopo aver “girato tante isole” metaforiche e non,
dopo aver cercato e sperato, ma continua ad aspettare, un’attesa infinita del “ Sale”,
che potrebbe essere il Godot di Barba.
Certo, tutto nel suo teatro - recitazione , coreografie, musiche, danze, luci , effetti
speciali, - è frutto di una minuziosa analisi chimica di fatti inconsci e rituali religiosi;
tutto
è
essenziale, rigoroso
e perfetto, come uno spartito musicale, come
un’equazione matematica, e noi stiamo a guardare a bocca aperta questa sorta di
scatola magica che è il teatro, e capiamo, - forse - in quel momento che abbiamo
bisogno di nutrirci dell’arte, abbiamo bisogno del teatro, abbiamo fame e sete di
queste cose, la stessa che hanno loro.
Erano diciassette anni che aspettavo di consegnargli la “Targa L’uomo e il Mare”, e
che ora ho portato con me, un bel Crest del Jack della Marina , delle quattro
“ Repubbliche Marinare”, simbolo di civiltà, progresso e libertà, che gli viene
consegnato in diretta televisiva, nella sua città. Sorride, mi allunga la mano.
5. La schizonfrenia
Parliamo della sua genialità, ma anche della sua schizofrenia. Aveva detto Garboli
che lei si insedia al centro del teatro come al centro della propria pazzia, della propria
e di quella degli altri;
per
metà è interamente sano e
per l’altra
metà
completamente psicotico, è come una mela spaccata in due “. Sorvola - ovviamente –
sulla genialità, ma ammette che, sì, un po’ di schizofrenia in lui c’è, ma non guasta,
nell’attore, basta incanalarla, controllarla.
Sembra un po’ Pasolini – m’aveva detto , dietro le quinte, Luciano Sebaste, il titolare
dell’emittente, con l’occhio adusato ai personaggi televisivi. E in effetti, sia nella
voce, che nei tratti somatici, Eugenio Barba
ha qualcosa di Pasolini. Ma è un
Pasolini diverso, più semplice, più completo, più diretto, con una capacità di dominio
psicologico sugli altri che è vissuta come vocazione fatale. Barba ha un carisma e un
magnetismo straordinario, un fascio di energia, una forza esplosiva e controllata, una
buia luminosità, una magìa che inquieta, una potere infallibile di fascinazione, come
ammette il suo allievo e regista Pino Di Buduo, che lo accompagna.
6.Rocco Buttiglione
Gli chiedo, poi, se è vero che aveva dichiarato che a Gallipoli non ci avrebbe mai più
messo piede, e non perché avesse qualcosa contro la sua città natìa, ma
semplicemente perché non aveva tempo per andare in giro per diporto .”La mia città
è dove c'è gente che mi accoglie, che si interessa alla mia arte, che mi ascolta. La mia
città è il teatro”. Conferma che è tutto vero e se non fosse stato per il cugino, il
Ministro
Rocco Buttiglione, altro gallipolino doc, che ha sostenuto questa
operazione, a Gallipoli col suo teatro non ci sarebbe tornato. Ma poi si fa più tenero e
conciliante e dice: “Spesso ci sono venuto, a Gallipoli. Anzi, ci sono venuto quasi
tutti gli anni, ma da privato. Ho visto nascere e crescere un’intera generazione, in
questi ultimi trent’anni, ma nessuno mi ha notato, perché è ciò che io ho voluto. “E
poi le città, per belle che possano sembrare, non hanno un’anima. Hanno persone,
alcune indifferenti ed amorfe. Altre gonfie del loro ruolo. O perse nelle illusioni del
campanilismo. E altre ancora con fame e sete spirituali. Per cercare e incontrare
queste ultime il mio teatro fa le sue irruzioni”
E’ così difficile nel nostro tempo – disse qualcuno – incontrare un uomo che quando
lo si incontra si resta colpiti come la folgore di un prodigio.
E “Genio” Barba è soprattutto questo, un uomo.
Riscritto per Neo-Bar il 29 giugno 2013
Augusto Benemeglio
Nella foto in copertina: da sn: Eugenio Barba, Augusto Benemeglio, Pino Di Buduo. In piedi: Luciano Sebaste.