M. P. LEONE, L`archeologia storica nelle terre dei

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M. P. LEONE, L`archeologia storica nelle terre dei
L’ARCHEOLOGIA
STORICA NELLE TERRE DEI COLONIZZATORI
Lo scopo dell’archeologia storica (historical archaeology) per molti ar­
cheologi statunitensi, e più recentemente anche inglesi (TARLOW, WEST 1999,
pp. 1-15), è la ricerca di materiali e oggetti che possano dare voce a chi in
passato è stato trascurato e addirittura rimosso (SCHUYLER 1970). Oggi che
l’archeologia storica comincia ad essere praticata anche in Europa, è molto
importante comprendere quale sia la sua ragion d’essere, le sue implicazioni
e il suo ruolo. L’archeologia storica negli Stati Uniti ha ormai 25 anni ed essa
è nata come studio dell’espansione europea. Prima di diventare parte degli
studi antropologici negli USA, questa branca della disciplina era definita ar­
cheologia coloniale e il suo scopo principale era il recupero dell’architettura e
degli insediamenti della prima America, o meglio del primo Nord America, e
soprattutto di quello britannico. Anche dopo che l’archeologia storica si è fusa
con gli studi di antropologia, il suo oggetto di indagine era ancora costituito
dalle colonie e, molto più raramente, dalla prima fase dello stato nazionale.
Bisogna sottolineare che archeologia di una colonia significa archeolo­
gia di una colonia europea, che a sua volta vuol dire scavare fortini, insedia­
menti fortificati, case in legno, missioni religiose, oppure insediamenti di
nativi americani ad essi associati, e caratterizzati da oggetti quali attrezzi in
bronzo o in ferro o perline. Una casa del governatore, taverne, scarichi di
rifiuti, una chiesa parrocchiale, baracche, una piccola e primitiva fabbrica,
una prigione o ancora, più raramente, una nave, rappresentavano i resti inda­
gabili dall’archeologia storica di una colonia, intesa come risultato dell’espansione europea nel nuovo mondo. Non si trattava però di archeologia del
colonialismo: altrimenti sarebbe stata intellettualmente ben diversa e promi­
nente e, soprattutto, sarebbe stato possibile esportarla ed applicarla anche in
Europa molto prima. Quello che io propongo qui è che l’archeologia del
colonialismo concerne tanto il continente di Cristoforo Colombo, e dei suoi
referenti e imitatori, quanto, allo stesso tempo, le terre che sia lui che i suoi
signori hanno sfruttato.
Inizialmente all’archeologia storica americana era stato dato lo stesso
scopo conoscitivo dell’archeologia classica delle origini: la scoperta e la con­
servazione delle evidenze del passato da cui proveniamo. In quel periodo,
confusamente registrato, si pensava, nella parte francese e inglese del Nord
America, che i luoghi delle fondazioni e gli eventi ad esse connessi fossero
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l’oggetto di studio dell’archeologia storica. I siti più importanti di tutti erano
quelli risalenti al XVI secolo, ma dato che erano allo stesso tempo molto rari,
anche quelli del XVII e XVIII secolo erano apprezzati, mentre i siti dei peri­
odi successivi erano considerati di poco valore e a quelli recenti non era
attribuita alcuna importanza. Utilizzando una categoria marxista, definirei que­
sta come l’ideologia della disciplina, che rappresenta un punto di vista fonda­
mentale se si vuole rintracciare un’archeologia storica europea o italiana.
La preferenza per il più antico si esplicava anche in un altro modo.
Infatti l’archeologia storica venne fondata come un modo scientifico per sco­
prire e valorizzare le origini nazionali degli Stati Uniti, e il suo scopo era
quello di trovare i luoghi esatti degli insediamenti più antichi e le cose che
furono toccate ed utilizzate da coloro che fondarono la nazione. E dato che
gli USA hanno avuto origini coloniali e non avevano abbandonato il coloniali­
smo anche dopo essere diventati una nazione a tutti gli effetti, l’archeologia sto­
rica divenne studio della colonizzazione europea destinato al ritrovamento
delle cose associate con le origini nazionali, ma non studio del nazionalismo.
Come risultato delle implicazioni di tale fondamento teorico, l’archeologia storica del Nord America ha subito e subisce ancora critiche molto ser­
rate, che toccano due punti fondamentali. Il primo, e quello su cui c’è un più
generale accordo, è che essa ha poco da dire che i suoi stessi ricercatori, per
non parlare degli altri studiosi, trovino veramente significativo. Ciò però è
smentito dal pubblico, che in genere è sempre molto avido di divulgazione su
questo genere di scoperte. Il secondo è probabilmente noto a chi è di sinistra
e a chi conosce la critica e la teoria del nazionalismo: un’archeologia storica
ingenua e poco autocritica non può non avere scopi nazionalistici in paesi
come gli Stati Uniti e il Canada anglofono e francofono. La sua ideologia era
quella propria del nazionalismo, almeno fino a quando, in tempi relativa­
mente recenti, non ha intrapreso studi di fondamentale importanza sul razzi­
smo e sulla schiavitù negli USA e nei Caraibi.
I particolari di queste critiche (SHANKS, TILLEY 1987, pp. 68-99; JOHNSON
1996, pp. 14-19; TARLOW 1999, pp. 467-469) probabilmente non sono di
particolare interesse in Italia, ma, dato che sono facilmente accessibili, do­
vrebbero essere noti quando l’archeologia storica comincerà ad essere prati­
cata anche in Europa. Questa archeologia ha teso a studiare personaggi stori­
ci, maschi adulti, Europei, e a pensare invece che schiavi, donne, bambini,
indiani, lavoratori di ogni tipo e minoranze in genere siano elementi effimeri
delle società del passato e che non possano essere conoscibili archeologica­
mente. A parole è facile criticare ciò, ma quando si tratta di affermarlo nel
dibattito nazionale sulla salvaguardia e la ricostruzione di monumenti del
patrimonio nazionale, risulta chiaro che le infrastrutture della società, e cioè
schiavi e lavoratori, sono difficilmente riconoscibili archeologicamente, o
comunque è difficile giustificarne la ricerca, se la si descrive come un’indagine di materiale sfuggente, quindi lunga, costosa e puramente accademica.
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Per fondare una vera e propria archeologia storica europea, può essere
utile passare in rassegna qui alcuni dei migliori lavori che l’archeologia stori­
ca americana è stata in grado di produrre, e che possono essere utilizzati
come esempi da cui dedurre principi generali. A partire da meno di due de­
cenni fa, molti archeologi storici americani hanno indipendentemente co­
minciato a lavorare su siti che una volta erano case e luoghi di lavoro di
schiavi, nonché su siti che erano stati occupati da liberi di discendenza africa­
na. Questi studi furono definiti di archeologia delle piantagioni (Plantation
Archaeology), o archeologia della schiavitù, e sono ora comunemente noti
come archeologia storica afro-americana. All’inizio le ricerche furono con­
dotte solo da bianchi con un piccolo ruolo di consulenza lasciato ai neri.
Le scoperte di gran lunga più interessanti venute da questo tipo di lavo­
ri riguardano l’evidenza relativa all’uso e all’americanizzazione di pratiche
religiose provenienti dall’Africa occidentale, che si diffusero e sono ancora
vitali tra gli Afro-americani. Questi dati sono rappresentati dalla scoperta di
oggetti quali cucchiai con segni a forma di croce o di X sulla parte concava o
sul retro, vasellame fatto o utilizzato dagli schiavi con gli stessi segni a X,
oppure da depositi di chiodi, spilli, pomelli, cristalli, bottoni, dischi, monete
forate, frammenti di ferro, piatti, pezzi di vetro, colli di brocche sfaccettate.
Questo materiale fu raccolto inaspettatamente all’interno o subito al di fuori
di basi di caminetti, focolari, cantine, soglie o negli angoli nord occidentali
delle capanne degli schiavi. Gli archeologi, che in America sono per la mag­
gior parte bianchi, non furono in grado di riconoscere il significato di tali
materiali, ma più o meno tutti si resero conto che si trattava di oggetti parti­
colari, spesso rinvenuti in depositi deliberatamente seppelliti, piuttosto che
di semplici rifiuti. Dato che si setaccia quasi tutto, sarebbe stato difficile non
rinvenire questo materiale. Ma il vero problema che si presentava agli arche­
ologi storici non era di tecnica di scavo, quanto di interpretazione culturale.
Insieme allo sviluppo della archeologia storica americana si delineò una
nuova definizione degli scopi della disciplina, che è quella attuale, e non in
conflitto con l’esplorazione della espansione europea, e cioè un interesse per
gli individui che vivevano al di sotto della superficie della storia registrata dai
documenti ufficiali: cioè i dimenticati e i silenziosi. Chi poteva essere più
ignorato ed epurato dalla storia americana che le persone di discendenza
africana? Il passato era anche loro? Lo era. L’archeologia cominciò ad avere
successo nel trovare qualcosa che giustificasse una delle sue fondamentali
ragioni d’essere.
In America fin dagli anni ’30 si era sviluppato un dibattito sulla cultura
negra d’America (HERSKOVITZ 1958) per comprendere se essa avesse conser­
vato qualche traccia delle sue origini africane. Ci si domandava, in pratica, se
la cultura dei negri d’America, termine comunque non più in uso, fosse un
prodotto della vita schiavile nel nuovo mondo. Questa seconda ipotesi com­
binava il trauma della diaspora africana con il tentativo di mantenere gli ex©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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schiavi in una condizione di perpetua sottomissione, uno stato giustificato da
una inferiorità genetica. Il risultato di tale processo sarebbe stato la perdita di
molte tradizioni culturali da parte dei milioni di africani occidentali venduti
come schiavi, con la conseguente scomparsa di qualunque cultura africana.
Invece è rimasto molto e gli afro-americani ne hanno sempre avuto
coscienza, almeno in parte. Dagli anni ’80 molti archeologi storici americani
hanno usato gli studi di etnografia dell’Africa occidentale per descrivere il
materiale archeologico americano. Da questo è derivata, negli anni ’90, l’idea
che molti degli oggetti deliberatamente seppelliti avessero lo scopo di con­
trollare il mondo popolato dai potenti spiriti degli antenati morti. Gli spiriti,
una volta lasciato il corpo al momento della morte, si aggiravano sull’oceano
per ritrovare la loro patria originaria. Questo viaggio di ritorno era conside­
rato come un cammino che aveva inizio con la nascita, proseguiva con la vita
fino alla morte, e che, mentre durava, aveva un continuo effetto sui viventi.
L’immagine iconografica che rappresentava tale viaggio era rappresentato da
un ovale o da un rombo, come immagini di un percorso dalla vita ad un altro
mondo. L’ovale era diviso da un taglio sull’asse orizzontale e su quello verti­
cale così da formare una croce che rappresentava i momenti chiave della
nascita e della morte; in alcuni casi inoltre le estremità della croce potevano
anche corrispondere ai punti cardinali. Questo tipo di rappresentazione, che
poteva sia essere inciso sulla superficie di un oggetto sia essere disegnato a
terra, è definita cosmogramma e può essere talvolta semplificata in una croce
o in una X. L’incrocio dei due assi è il punto mediano di incontro tra la vita e la
morte, dove gli spiriti si incontrano per intervenire nella vita, visto che il prin­
cipio vitale di questa religione è che gli spiriti possano intercedere per i vivi.
Ma questi ritrovamenti archeologici provavano che la cultura dell’Africa occidentale fosse ancora viva nel Nord America britannico? Il problema
era che a nessuno interessava sapere se essa fosse ancora viva nei Caraibi o in
Brasile, in quanto comunque non riguardava gli Stati Uniti. Bisogna infatti
ricordarsi che l’archeologia si fa sempre per conto di un pubblico reale e
molto influente. D’altro canto, questi materiali archeologici del XVIII, XIX,
e XX secolo erano soltanto simili a quelli dell’Africa occidentale? Si trattava
di un’identità o di una analogia? E nel caso in cui ci fosse identità e che la
cultura africana fosse sopravvissuta, che cosa era esattamente quella afro­
americana, e inoltre chi poteva affermarlo con sicurezza? L’Africa era soprav­
vissuta negli Stati Uniti?
Fra gli studiosi che avevano familiarità con le culture africane occiden­
tali e con le comunità afro-americane, cominciò un dibattito relativo alle
continuità africane in America. Il punto principale di tale dibattito era simile
a quello evidenziato in Black Athena (BERNAL 1989), che analizzava il contri­
buto dell’Africa alla antica cultura greca e quindi ai fondamenti della civiltà
occidentale. Questo e simili dibattiti erano animati proprio dalla ricerca ar­
cheologica.
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Soltanto recentemente le testimonianze lasciate da schiavi ed ex-schiavi in America sono state usate per interpretare e per mediare il problema di
quanto sia africana, in realtà, la cultura afro-americana e si trattasse di una
tradizione cosciente o di una rievocazione in altre forme. Queste stesse testi­
monianze sono state recentemente utilizzate per comprendere i resti archeo­
logici relativi alla schiavitù.
Nel Nord America esiste una tradizione narrativa scritta dalle persone
che sono sfuggite alla schiavitù, si sono autoaffrancate o sono state emanci­
pate. Nota come ‘racconti degli schiavi’ (Slave Narratives; HYATT 1970; RAWICK
1972a; 1972b) rappresenta una lunga tradizione letteraria che ha come sco­
po principale quello di descrivere la schiavitù, spesso tanto minuziosa da
essere una descrizione autobiografica di una cultura.
Già da decenni gli studiosi avevano compreso che questi racconti con­
tenevano la descrizione di una religione, talvolta chiamata hoodoo altre
conjuring, che era correlata al Vudù di Haiti e con il Vodun dell’Africa occi­
dentale, la novità fu scoprire che tale religione avesse lasciato tracce nei resti
archeologici. Come è noto la ricerca archeologica relativa alle tradizioni reli­
gione non è affatto rara, si pensi per esempio all’età preistorica, ma la grande
sorpresa per gli archeologi, gli storici, storici dell’arte e etnografi fu la possi­
bilità di fornire prove per la durata della religione hoodoo, la sua diffusione e
le sue varianti.
La scoperta forse più rilevante per un pubblico europeo, che sta ora
discutendo della archeologia storica, è quella di una forma di cristianità ge­
neralmente non riconosciuta o messa da parte, in quanto variante minore, o
addirittura considerata eretica. L’altra faccia della medaglia di tale scoperta è
che la religione africana è sopravvissuta intatta e che l’archeologia storica
americana è riuscita a riportarla alla luce malgrado l’aggressione della reli­
gione cristiana. Qualunque sia il risultato scientifico o pratico di queste inda­
gini, nessuno può più dubitare della rilevanza di questi problemi per la cultu­
ra, la politica e l’archeologia americana. È importante infatti che si refuti
l’assioma razzista che nulla di valido o originale possa venire da coloro che
sono definiti inferiori.
L’archeologia caratterizza l’hoodoo precisando: a quando risalgono le
sue prime apparizioni, a quando le più tarde, la varietà dei suoi elementi e la
loro diffusione, ma non entra nel merito della questione se l’hoodoo sia da
considerare afro-cristianità, quanto piuttosto definisce le pratiche religiose
nel tempo e nello spazio. L’argomento è che l’hoodoo utilizza involti, definiti
hands, mojos o tobys, come pure incantesimi, per controllare e dirigere gli
spiriti. C’è una vera e propria abilità nell’uso di cristalli, cenere, terra di
cimiteri, pezzuole rosse e così via per fare in modo che uno spirito faccia
qualcosa di specifico. Spesso non vengono pronunciate parole rituali, ma è
necessario che ci sia una combinazione tra un evento che debba essere provo­
cato, qualcuno che lo provochi e i mezzi necessari a realizzarli; in altre parole
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si deve verificare una metonimia in quanto lo spirito viene costretto a com­
portarsi per conto di una necessità o di un desiderio umano.
Nell’opinione di molti studiosi l’hoodoo, non è tale se è una forma
afro-cristiana, ma in ogni caso ciò che è più importante è che, nei racconti
degli schiavi, la devozione cristiana, che sia battista o cattolica nel caso della
Louisiana, venga attribuita a coloro che usano e praticano il conjuring. Que­
ste stesse persone sono cristiani ferventemente credenti, i quali nella loro vita
quotidiana credono nel potere dello Spirito Santo, di Gesù, dei santi, o di
Mosè come individui che avevano stretto rapporto di correlazione con Dio.
Proprio l’uso frequente del conjuring da parte di cristiani praticanti corrobo­
ra l’idea che essi riconoscessero nelle maggiori figure della cristianità – Mosè,
Gesù, i Santi – spiriti talmente potenti da costringere Dio ad agire per loro. I
praticanti credevano che Dio, manifestandosi attraverso lo Spirito Santo,
poteva essere indirizzato a curare e proteggere, e avevano inoltre una nozio­
ne attiva di Dio che agiva per intercessione di potenti spiriti. Se quanto detto
finora è vero, risulta più chiaro il ruolo di Mosè nelle chiese dei neri o quello
dei santi in Louisiana. Theophus Smith (1994) che ha più recentemente de­
scritto la cristianità africana, la considera come una religione focalizzata su
persone che hanno il reale potere di costringere Dio ad agire: questo è un
assunto che non esiste in nessuna versione standard della cristianità e rappre­
senta il maggior punto di contrasto con l’ortodossia.
L’interpretazione comunemente accettata dell’hoodoo è sbalorditiva in
quanto sostiene che molto del pensiero e della pratica religiosa dell’Africa
occidentale sopravvive, anche se in modo frammentario, negli Stati Uniti con­
temporanei. Robert Ferris Thompson vede il mondo degli spiriti invocati nei
paesaggi afro-americani da Detroit fino al Texas e lo considera parte inte­
grante della cultura popolare americana. Alberi di bottiglie, decorazione di
cortili, specchi e orologi sulle tombe, tubi conficcati nelle sepolture dimo­
strano e manifestano tutti l’influenza degli spiriti.
Non importa quale di queste due interpretazioni della sopravvivenza
nel Nord America di forme religiose originarie dell’occidente del continente
africano sia corretta, in ogni caso esse rappresentano un’area in cui il contri­
buto dell’archeologia è stato fondamentale, visti i limiti della memoria pre­
servataci nei racconti degli schiavi. Quanto questo contributo dell’archeologia sia importante dipende dal ruolo assegnato all’archeologia storica in cia­
scuna società. La sua origine negli Stati Uniti d’America mostra quanto sia
legata alla conservazione del patrimonio culturale nazionale e quanto essa
significhi per la celebrazione della identità nazionale, in altre parole il suo
ruolo è quello di verificare le affermazioni e le rivendicazioni delle origini.
È sufficiente entrare in un museo e guardare i testi che insegnano ai
cittadini e ai turisti quali siano le origini dell’America per rendersi conto che
di certo non sono considerate essere africane. I musei sono comunemente in
aree archeologiche e all’interno di queste ultime i monumenti, sia che siano
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sotto che sopra terra, sono presentati come affermazioni di una identità na­
zionale.
Attualmente il disaccordo all’interno dell’archeologia storica è relativo
al riconoscimento della differenza tra contributi passivi all’affermazione di
chi ha diritto a governare da una parte, e, dall’altra, a quella chi è invece
sottomesso a questo supposto diritto. In altre parole ci si domanda se questa
archeologia sia parte dell’establishment oppure se sia parte dei suoi scopi
aiutare ad allargare la partecipazione democratica, fornendo la dimostrazio­
ne che anche altri hanno partecipato alla fondazione di una nazione, qualun­
que essa possa essere.
Benedict Anderson ha fornito molti elementi utili per una nuova ar­
cheologia storica che si occupi della struttura di classe nella formazione di
una nazione. Il suo lavoro consente inoltre di trasferire l’esperienza america­
na sia in Europa che in altre nazioni. Il suo libro Imagined Communities
(1996) mi permette di generalizzare a partire dal mio esempio relativo alla
costa atlantica del sud degli Stati Uniti. Il suo lavoro implica due diverse
ipotesi: che molte diversificazioni e differenziazioni vengano sommerse dal
processo che crea una nuova nazione e che le moderne discipline accademi­
che sono la chiave per rendere universale il particolare, e marginale la varia­
bilità. Lo studioso focalizza la sua attenzione sui mezzi di stampa e sulla cre­
azione di monumenti nazionali all’interno di questo processo.
Il nostro ruolo di archeologi nella creazione di monumenti archeologi­
ci, rappresenta il veicolo principale per concettualizzare una nuova, aggior­
nata e significativa archeologia storica. Benedict Anderson, insieme a molti
altri autori, sottolinea come gli archeologi creano delle vere rappresentazioni
del patrimonio naturale senza però rendersi conto che essi stessi sono attori
di una realtà che è stata da loro creata. Le rovine ci sono per davvero, ma il
loro recente significato è per l’appunto recente. Questo tipo di critiche all’archeologia hanno avuto inizio circa vent’anni fa (SHANKS, TILLEY 1987) e sono
applicate a casi quali la Williamsburg coloniale in Virginia, le rovine romane
restaurate in Israele, il ruolo centrale dalle resti greci antichi nella formazio­
ne della identità greca moderna, o ancora alla ricostruzione di rovine Maya
in Messico (CASTANEDA 1996).
Ci sarebbero molte osservazioni da fare per capire cosa bisogna fare di
queste rovine che non sono tali, ma sono invece parte integrante e funzionale
della vita di tutti i giorni di molte persone. Per cominciare bisogna sottoline­
are che gli archeologi di tutto il mondo soltanto adesso stanno cominciando
a capire che, nei confronti di questi resti, essi hanno un doppio ruolo. Il
primo è chiaramente quello di portarle alla luce e successivamente di studiar­
le in qualità di studiosi, il secondo è quello di crearne il moderno significato
in forme che in gran parte ci sfuggono. Quando un resto archeologico viene
trasformato in un monumento messo in mostra, visitato, fotografato, ripro­
dotto su manifesti e monete o usato dai mass-media per pubblicizzare la co©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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scienza nazionale, gli archeologi creano una nuova testimonianza, ma non
vedono il loro ruolo di testimoni. Riparare a questo fallimento è il nostro
nuovo compito come archeologi storici.
Il significato di un monumento è stabilito e fissato col suo uso popola­
re. Il ruolo di guide turistiche, carte, guide, video, diapositive, conferenze e
gite scolastiche è centrale nella interpretazione popolare. I discorsi dettati dal
buon senso (o dall’ideologia per usare un termine di scuola marxista) e le
analisi antropologiche edite hanno un ruolo importante nel reificare le inter­
pretazioni, e questo è uno dei problemi fondamentali con i quali si deve
confrontare la nuova archeologia storica. Ambedue sono forme di autentica­
zione e possono essere smontate e rimesse insieme in modo più democratico.
La formazione nazionale avviene per fasi successive e negli Stati Uniti
quella che vede l’emergere della salvaguardia storica cominciò intorno al 1850,
con le migrazioni di europei che preoccupavano gli americani del tempo. La
conservazione del patrimonio storico favorisce sia la conservazione dei mo­
numenti che la celebrazione di un popolo. E i monumenti implicano lo studio
da parte degli archeologi, sebbene negli Stati uniti la archeologia storica di
questa classe di materiali non ha avuto inizio che negli anni ’20 di questo
secolo. La celebrazione popolare implica talvolta l’uso di un monumento per
rivendicare antiche e nobili origini per una nuova élite o anche per la faziosi­
tà partitica. Ad esempio, Williamsburg esalta i maschi bianchi, europei e an­
glofoni con una particolare educazione, professione nonché con uno specifi­
co dialetto. Il suo tema principale, mostrato dai resti archeologici, è che que­
ste erano le caratteristiche di chi ha fondato la nazione: uomini coraggiosi e
amanti della libertà. Si tace il fatto che praticamente tutti possedessero e
usassero schiavi, avessero figli da loro, che fossero ricchi, arroganti e che si
elevassero rispetto alla massa dei bianchi, che anzi spesso temevano sia fisica­
mente che intellettualmente. Io credo che proprio le loro paure dovrebbero
essere l’oggetto principale della nuova archeologia storica.
Ma perché invece gli esclusi sono importanti? La risposta a questa do­
manda è stata trovata nell’antropologia: avevano una cultura o per lo meno
la avevano molto tempo fa. Questa affermazione forma la seconda parte di
un programma di ricerca per una archeologia storica europea. I monumenti
archeologici sono in pratica monumenti di una grandezza ormai passata e
non di una presente. Lo stesso vale per il caso dell’Europa. Pensiamo per
esempio alla lotta per trovare la grandezza della Grecia antica nella Grecia
moderna. Quetzil Castaneda ha mostrato, nel suo libro In the Museum of
Maya Culture (1996), che si considera più vicino ai costruttori dei monu­
menti antichi proprio chi ha poi perso molta, se non tutta, la gloria di un
tempo, spesso fino al punto che la stessa antropologia stenta a rintracciarne
la cultura.
Quindi c’è un processo in due parti per creare i monumenti archeologi­
ci. Innanzitutto questi ultimi chiamano in causa l’eterno e l’universale, men©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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tre servono in realtà il concreto e il recente. Dopo di che, essi ricordano a chi
gli è connesso per vicinanza che non è altro che un’ombra di chi l’ha precedu­
to, un’ombra di minor valore e integrità per aver perso così tanto della sua
alta cultura originaria. Quindi nella Williamsburg coloniale i non europei, i
non maschi non erano importanti, e anche se ne venissero ritrovate le tracce,
non avrebbero comunque valore, perché la loro cultura è andata persa.
Questo stesso processo deve essersi verificato anche in Italia, e proba­
bilmente anche più di una volta. Io stesso, in quanto visitatore, so come fun­
zioni la cultura turistica. Le guide Michelin, Baedeker o Fromer spiegano
quale siano i tesori nazionali, inclusi i siti archeologici e i musei. Questo
processo non è molto diverso dal turismo a Williamsburg o a Chichén Itzà
nello Yucatan. Malgrado non sia necessariamente vero, ci viene detto che
l’arte del Rinascimento italiano è indiscutibilmente grande e che le rovine
romane non possono non essere visitate. Come in altri paesi, le zone archeo­
logiche, le città, i monumenti, i giardini d’Italia non sono altro che moderne
creazioni culturali circoscritte nel tempo. Ammetto che a me personalmente
piacciono molto, ma si ha tutto il diritto di non curarsene affatto.
Per fare in modo che anche in Italia nasca un’archeologia storica, che
sia incentrata sulle classi sociali, bisogna considerare i luoghi in cui viene
fatta l’archeologia, in quanto anche in Italia, come altrove, si fanno scelte
precise su dove intervenire archeologicamente. I resti della cultura classica ed
etrusca sono state, e probabilmente sono ancora, le preferite; altri lavori sono
dedicati al Medio Evo. Ma ci si chiede se esista un’archeologia del Rinasci­
mento (o di chi non ne ha fatto parte), della creazione ottocentesca dell’idea
di Rinascimento o della stessa nazione italiana. Esiste una archeologia del
turismo? Se pensiamo che il turismo è in pratica una creazione italiana, e che
il visitare i monumenti è il suo oggetto, si può facilmente vedere come, sia la
creazione dei monumenti che il loro uso come strumenti di interpretazione
del passato, possa essere posto come problema archeologico. Essi infatti di­
vengono un’attrazione grazie al nostro lavoro di archeologi, ma rappresenta­
no anche una sfida per una archeologia storica. Dato che i siti archeologici
vengono scoperti e scavati, i loro resti mantenuti visibili e visitabili oppure no, si
può facilmente vedere come essi abbiano una altra storia che non sia quella di
rimanere non scoperti sottoterra. Quando si pensa che, da una parte, ci sono
tanti resti archeologici non valorizzati, e tanti che pur valorizzati nessuno
visita, e, dall’altra, centri e città che si trasformano in macchine turistiche,
diventa chiaro che un monumento non è sempre un monumento e che il suo
valore non è implicito. Tutto questo è chiaro e lampante per tutti, tranne che
per gli intellettuali e bigotti conservatori americani.
È necessario cominciare ad accettare che la definizione dei monumenti
avviene sempre all’interno di un contesto politico. Basta pensare alla distru­
zione del patrimonio nazionale della Jugoslavia con lo scopo di frammentarne
l’identità: un chiaro segno del ruolo politico attivo dei monumenti. Se si
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guarda alle circostanze nelle quali in Italia si assiste alla ricostruzione di pa­
lazzi, monasteri, musei, collezioni d’arte, fori romani, castelli e templi viene
da chiedersi perché tutto ciò avvenga in questo preciso momento storico e a
favore di chi si faccia questa ricostruzione. Ciò, si badi bene, non nega la
materialità dei monumenti né la capacità professionale degli archeologi che li
scoprono.
Oltre al ruolo accettato di autenticazione del monumento, un’archeologia storica si deve domandare chi e che cosa le sfugge in ciascun monumen­
to. Infatti, in una società classista, c’è sempre qualcuno che non è compreso
nelle interpretazioni correnti. E quel qualcuno può essere ritrovato o letteral­
mente riscavando il monumento o ristudiandone e riesaminandone i reperti
immagazzinati. Questo può essere il ruolo dell’archeologia storica nei paesi
dei colonizzatori, degli esploratori, degli scopritori, dei committenti pubblici
o privati.
L’archeologia storica in Europa dovrebbe indagare le parti superiori dei
depositi archeologici, nonché quei livelli che di solito vengono eliminati sen­
za essere studiati. A tal proposito, è nota la critica, più volte sollevata, nei
confronti dell’archeologia israeliana che in siti romani distrugge con le ruspe
qualsiasi traccia dei resti islamici o bizantini, per raggiungere direttamente i
sottostanti livelli di età imperiale. La spiegazione che viene fornita è che i
livelli islamici e quelli bizantini sono meno importanti o addirittura non han­
no alcun valore, dato che storicamente si sa già molto di questi periodi; inol­
tre essi rappresentano gruppi etnici differenti per religione e politica. Questi
critici si chiedono anche come mai gli israeliani vogliano riportare alla luce
monumenti che furono costruiti dagli oppressori romani, che non solo han­
no prima distrutto e poi colonizzato Israele, ma che provocarono anche la
diaspora. Visti da lontano, si ha l’impressione che questi monumenti archeo­
logici siano ricchissimi di possibilità proprio perché non vi è che un tenue
legame reale tra i loro scopi originali. Le situazioni in cui questo legame fra
presente e passato è invece più forte sono proprio quelle che creano più
problemi a noi archeologi. I monumenti sono imponenti per rimettere in riga
i subordinati, e sono proprio questi ultimi che dobbiamo indagare, perché
sono quelli che ci possono informare sulle nostre stesse società.
Negli ultimi cinquant’anni, la teoria politica che si è occupata del ruolo
delle minoranze, delle razze considerate inferiori, dei gruppi etnici margina­
li, delle religioni non dominanti, dei gender e delle sessualità minoritarie, ha
insistito su due punti. Il primo è che la loro ammissione a pieni diritti e su un
piede di parità rafforza le società democratiche e questa è oggi la base logica
dell’integrazione in molte società occidentali. Il secondo punto invece, che
per me è associato a Habermas (1989), è molto più forte ma non è stato
integrato nella archeologia storica americana e britannica. I popoli che sono
stati a lungo oppressi sviluppano una critica dei loro oppressori, e proprio
quest’ultima, una volta resa visibile, può, in teoria, liberare tutti coloro che
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sono assoggettati in una società capitalista. Dato che la stessa archeologia
storica si occupa del periodo capitalista, all’interno del quale esistono classi e
conflitti, il problema per tutti noi, compresi gli archeologi storici, è quello di
trovare il modo di prendere coscienza dello sfruttamento e dell’oppressione.
E facile dire che le società democratiche sono più forti quando includo­
no al loro interno più persone, specialmente coloro i quali pensano di esser
stati lasciati fuori. Questa è una buona mossa politica, che però in pratica
non sconvolge la distribuzione del potere, della ricchezza e dell’accesso ad
ambedue. Anzi, è un incitamento conservatore a mantenere lo status quo. Ed
è ora il principale motivo conduttore dell’archeologia storica americana, non­
ché di quella nuova e vibrante nata in Gran Bretagna.
Comunque, Habermas (1989) sostiene che popoli come gli aborigeni
australiani, gli Indiani d’America e gli Afro-Americani hanno costruito, soste­
nuto e agito in una visione del mondo derivata dalla loro posizione originaria
e da un’inferiorità servile imposta dall’esterno. La loro colonizzazione e la
loro posizione nella classi sociali derivano dal loro essere stati assorbiti dal
capitalismo, di cui hanno imparato a riconoscere le regole. L’Islam integrali­
sta in Iran e in tutto il mondo ha fatto la stessa cosa: ha prima costruito una
critica serrata del capitalismo e poi con forza ha rigettato l’oggetto di questa
analisi. Poiché il capitalismo non costruisce una sua propria critica, non favo­
risce le variazioni culturali, anche in virtù dell’enfasi che pone sul consumo.
Habermas crede che le visioni alternative del mondo che sono sopravvissute,
in particolare quelle diverse dal capitalismo, devono essere conservate come
via fondamentale per riconoscere gli eccessi del nostro stesso mondo. Il mo­
tivo per cui l’archeologia storica si concentra sui livelli più alti dei siti archeo­
logici non è solo quello di recuperare per democrazia gli esclusi, ma anche la
cultura di chi non è stato assorbito dal capitalismo, di chi è stato abbastanza
svelto da evitarlo.
Detto tutto ciò la domanda è: come e dove si può fare archeologia
storica in Italia? Nei tanto famosi giardini, di cui esistono moltissime piante,
disegni prospettici e testi che a loro si riferiscono. In genere gli studiosi li
considerano come oggetti di lusso che hanno un valore estetico. Io non so
come scavare un giardino italiano, ma immagino che sia stato fatto. Lavoran­
do nei giardini del XVIII secolo di Annapolis, nel Maryland, io e la mia équi­
pe abbiamo dimostrato tre cose: che essi erano costruiti con gioco di volumi
e non solo in piano, che erano costruiti per desiderio di potere e non come
sua espressione, e che c’erano dei punti dai quali era possibile osservare tutti,
compresi schiavi e lavoratori salariati, che a loro volta tracciavano nei giardi­
ni i loro spazi di lavoro. Per potere scoprire tutto questo, sono state realizzate
carte topografiche che descrivevano le variazioni dello spazio rappresentato
nelle stampe come illusioni ottiche. Piani diversi venivano intrecciati per cre­
are una prospettiva e solo carte tridimensionali possono farci scoprire come
ciò avveniva. Con i materiali archeologici si può stabilire la cronologia dei
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giardini e sapere quando e come essi furono realizzati o trasformati; in que­
sto modo le fasi riconosciute archeologicamente possono essere messe a con­
fronto con le notizie relative alle fortune delle singole famiglie o delle comunità
più ampie. Si può, e si deve, scoprire che affermazione ideologica facessero i
giardini, poiché essi contenevano spesso zone riservate all’orticoltura. In altre
parole, ci si domanda: che rivendicazione facevano le vedute così ottenute?
Chi cercavano di controllare? Molti giardini avevano infatti punti di sorve­
glianza e di controllo. Chi era guardato da lì? Dove vivevano coloro che
erano osservati? Avevano qualcosa da dire? Dove vivessero lo può dire lo
scavo, cosa dicessero può esser rimasto scritto da qualche parte.
I giardini erano infatti luoghi politici attivi sia nel momento in cui sono
stati costruiti, e hanno quindi adempiuto alla loro funzione primaria, sia oggi
come luoghi ricostruiti. La chiave per comprenderli è sapere chi lavorava nei
giardini allora e chi ci lavora adesso, e in che modo venivano e vengono
pagati. Quest’approccio ci porta naturalmente ad indagare le strutture eco­
nomiche e politiche delle comunità a cui appartenevano questi monumenti.
Una volta che le condizioni politiche di una data comunità sono comprese,
automaticamente vengono comprese anche quali siano le necessità di una
ricerca archeologica ad essa relativa; questa equazione regge perché nelle
analisi etnografiche inevitabilmente i lavoratori vengono privati della loro
storia, culturalmente rigettati, o considerati come semplici elementi del giar­
dino. Queste stesse ricerche finiscono quindi per raffigurare i viventi come
quelli che hanno perso di più di ciò che una volta era grande.
I giardini di Pompei vengono scavati da trenta anni dalla mia collega
più anziana all’Università del Maryland, Wilhelmina Jashemski, che li ha resi
famosi. Insieme ad un altro ben noto storico dei paesaggi europei, ha notato
quanto sappiano di giardini vecchi di duemila anni coloro che li hanno scava­
ti e simili osservazioni sono state fatte da chi lavora nel bacino del Mediterra­
neo o nel vicino oriente. Anche se vengono notate queste continuità, io pre­
ferisco sottolineare un salto epistemologico, allo scopo di fondare un’archeologia storica italiana. L’enfasi sulla continuità da una parte contribuisce all’identità perché consente di desiderare che il passato sia stato migliore dei
suoi sbiaditi resti, dall’altra nasconde quanto l’Italia di oggi sia diversa dall’antica Roma. Anche se non per i miei due amici studiosi, affermazioni di
questo genere continuano a far pensare che gli Italiani hanno perso un patri­
monio culturale più grande di quello che hanno, una posizione comune a
molti classicisti (TERRENATO c.s.). In questa situazione, come può un giardino
italiano rafforzare la democrazia e contribuire ad una critica del capitalismo?
La risposta risiede nella rivendicazione da parte dei giardinieri di un
ruolo politico, analogamente ai lavoratori in qualunque altro monumento.
Anche se non sono giardinieri, vanno bene anche quelli che per tradizione
familiare fanno i venditori ambulanti a San Pietro a Roma, noti ai turisti di
tutto il mondo, tramite le guide, come Sampietrini. Alcuni di questi sono
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ebrei, altri sono considerati come persone senza importanza; sono in genere
poco noti e potrebbero essere studiati archeologicamente, specialmente se
vivono in un ghetto, rivelando alcuni aspetti del mondo dei loro padroni, che
controlla anche tutti noi. Il giubileo di quest’anno potrebbe essere il momen­
to giusto per cominciare una ricerca di archeologia storica in Italia, poiché
molte delle famose aree archeologiche saranno riscavate e altre saranno inda­
gate per la prima volta. Verranno proposte nuove interpretazioni e moltissi­
mi verranno invitati a visitarle. Una ricerca per il nuovo e il non visto fino
adesso sarà il tema dominante dell’archeologia e non mancherà un’aura reli­
giosa. La sporcizia, le scritte sui muri o negli angoli dei giardini che conten­
gono desideri d’amore, i sobborghi da riqualificare, le tracce d’uso delle gui­
de turistiche, i visitatori notturni verranno tutti insieme eliminati in quanto
sgradevoli alla vista. E allora registriamo tutto questo prima che venga can­
cellato perché in essi c’è la traccia del povero, del diseredato, dello straniero
temuto, di coloro che sono considerati senza cultura, del non cristiano nel
senso stretto del termine, di tutte quelle persone che potrebbero avere qualcosa
da dire sui limiti del potere, che sono conosciute solo dal potere e da nessun
altro, fino a quando un archeologo storico non scriverà della resistenza al
Cristianesimo istituzionalizzato nei paesaggi della Roma contemporanea.
Un ultimo commento su come analizzare la cultura materiale del perio­
do formativo di una nazione proviene dal mondo della carta stampata. L’archeologia, compresa quella storica, non ha un metodo universalmente accet­
tato per l’uso delle fonti scritte. Gli stessi archeologi storici pensano che gli
scritti ci diano una visione primaria degli autori, così come di coloro che
vengono descritti. Tutto questo è vero solo fino a quando non verrà trovato
un modo migliore, che, ad esempio, compari gli universi delle cose con l’universo delle parole, scoprendo che cosa sia sfuggito ad ambedue, perché alcu­
ne cose non vengano trovate o notate, e perché alcune vengono descritte
mentre altre non vengano nemmeno citate.
La mia conclusione ha a che fare con la pagina scritta. Benedict Anderson
sostiene giustamente che i giornali servano a creare una immagine omogenea
della nazione. Infatti, leggendo quello che tutti leggono, la gente crede di
sapere che cosa tutti gli altri sappiano, facciano e pensino, anche se con essi
non hanno alcun rapporto. Tutte queste persone non fanno altro che imma­
ginare una comunità. Attraverso il grand tour del passato, il turismo moder­
no e i monumenti inseriti nei percorsi turistici, l’Italia è stata immaginata da
persone che leggono carte, guide turistiche, testi latini, libri sull’architettura,
video e il National Geographic. Come la Grecia, l’Italia è in parte il risultato
di un’entità immaginaria, in quanto l’Italia moderna è stata creata così com’è
in parte a causa di ciò che gli stranieri pensavano di essa.
Noi ad Annapolis abbiamo scavato una stamperia, così come forse qual­
cuno ha già fatto in Italia, o farà prima o poi. Se un giornale deve essere
stampato in modo che il lettore immagini una comunità che non conosce,
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come deve essere stampato? La risposta è stata fornita da Derrida (1986):
senza che alcuna traccia degli autori degli articoli che la gente legge sia visibi­
le. In questo modo tutto sembra simile, uniforme, uguale, perfettamente
omogeneo. Niente firme, svolazzi o stranezze grammaticali o di punteggiatu­
ra che potrebbero rivelare individualità e usi personali. I caratteri di stampa
diventano sempre più piccoli e tutti i pezzi anomali e diversi, che potrebbero
sottolineare la specificità dell’autore, vengono gradualmente abbandonati. In
questo modo il lettore può immaginare che le notizie esistano indipendente­
mente dall’autore e che abbiano un’autorità superiore a quella di qualunque
singolo scrittore. L’opinione pubblica risiede proprio in questo.
Archeologicamente, questo processo lascia due tracce: la scomparsa di
tutti i caratteri più grandi e fatti a mano e l’utilizzo di quelli più piccoli, tutti
con le grazie. L’omogeneità è creata da un’enorme quantità di piccole cose
diverse. Così come in tutto il resto del capitalismo.
MARK P. LEONE
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