(a cura di) L`evoluzione del sistema fiscale italiano

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(a cura di) L`evoluzione del sistema fiscale italiano
SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Ventitre, 2009
Il Faro
Pag. 03
L’evoluzione del sistema fiscale italiano a cura di Giuseppe Bortolussi
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Pag. 13
Educazione, democrazia, e pubblico secondo Dewey. L’indagine sociale come metodologia
dell’analisi politica e dell’educazione politica di Giovanni Tonella
Pag. 30
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel di Emanuela Pascuzzi
Pag. 49
Quando le politiche si aggrovigliano. Il “caso Malpensa” sotto il profilo dei dispositivi di
regolazione dell’inquinamento acustico e del sistema aeroportuale regionale
di Stefano Piazza
Pag. 71
Knowledge, (good) practices and ‘resistance to change’ in area-based initiatives
di Carla Tedesco
Pag. 78
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVIII secolo di Luca Maiocchi
Passaggio a NordEst
Pag. 102 La sopravvivenza del centro politico: analisi dello spazio elettorale trentino nel 2006
di Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
Il Sestante
Pag. 114 Il Futuro Anteriore della Finanziarizzazione, e l'Estasi delle Soggettività Contemporanee
di Carmelo Buscema
LibriLibriLibri
Pag. 120 Recensioni
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Giuseppe Bortolussi (a cura di)
L’evoluzione del sistema fiscale italiano
Il Faro
Introduzione
È ormai convinzione diffusa che il federalismo rappresenti la vera occasione con
cui realizzare una piena riforma fiscale che responsabilizzi Enti locali, contribuenti e cittadini tutti in vista di una inevitabile quanto attesa riduzione della
pressione fiscale.
Lo stato attuale delle cose ci dice che le tasse ostacolano lo sviluppo delle imprese italiane e quindi la competitività del nostro Paese rispetto al resto d’Europa. Alla
vigilia di un suo probabile cambiamento in senso federalista, è importante riflettere sulle tappe attraverso cui il sistema fiscale italiano si è venuto strutturando.
Le origini dello stesso vengono individuate nel periodo che precede l’unità
d’Italia e le riflessioni qui proposte ne individuano i tratti più significativi collocandoli all’interno delle dinamiche di trasformazione dell’economia italiana.
L’evoluzione del nostro sistema fiscale viene dunque ripercorsa attraverso un
excursus storico in grado di far riflettere sulle storture generatesi piuttosto che
sugli aspetti positivi da conservare e da cui ripartire.
La fiscalità dagli Stati pre-unitari all’avvento della Repubblica
Italiana
Nonostante i meccanismi fiscali vigenti dell’Italia pre-unitaria differissero per
metodologie di calcolo che variavano da Stato a Stato, la natura delle imposte era
pressoché simile.
Già prima del 1861 il sistema fiscale prevedeva meccanismi di tassazione diretti
ed indiretti: per questo, è giusto puntualizzare che la tipologia delle imposte di
quell’epoca non differiva tanto da quella attuale.
Dal momento che la ricchezza derivava principalmente dalla terra, le imposte
dirette1 erano di tipo fondiario e venivano calcolate a partire dal reddito catastale dei terreni. Le attività commerciali, invece, erano soggette all’imposta di
patente e cioè ad una tassazione collegata al rilascio delle autorizzazioni di cui
necessitava l’esercizio di queste attività economiche.
In estrema sintesi, il sistema fiscale si sostentava attraverso imposte sul reddito
medio ordinario e non su quello effettivo.
Tra le imposte indirette2, già all’epoca, va segnalata l’imposta di registro (corrispettivo che veniva richiesto a fronte di un servizio di registrazione degli atti),
l’imposta di bollo (obbligo d’uso della carta bollata), le accise e i dazi doganali.
1 Le imposte dirette rappresentano quei tributi che colpiscono le
manifestazioni dirette della capacità contributiva, cioè la ricchezza
esistente (patrimonio) o conseguita (reddito).
2 Le imposte indirette si sostanziano in quei tributi che non sono
commisurati al reddito ma che
colpiscono la manifestazione indiretta della capacità contributiva
(ad esempio imposte sugli scambi, accise ecc.).
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La legislazione fiscale dello Stato italiano risentì profondamente delle esperienze
passate, in particolare di quella piemontese a sua volta improntata sul sistema
francese.
La ricchezza era percepita come un fatto strettamente privato e proprio per questa ragione l’imposizione diretta veniva calcolata sulla base di un reddito medio
ordinario stimato attraverso alcuni indicatori (ad esempio l’estensione del terreno) e non sul reddito reale.
Negli anni successivi all’Unificazione, venne avviata la prima riforma tributaria al
fine di dotare il nuovo Stato di un sistema amministrativo e tributario omogeneo.
Si introdusse l’imposta di ricchezza mobile (1864): in sostanza, per la prima
volta, veniva definita un’imposta generale e personale sui redditi. Tale imposta
venne applicata a tutti i redditi con l‘esclusione di quelli fondiari in quanto la
riforma trovò una fortissima opposizione da parte dei proprietari terrieri.
L’imposta di ricchezza mobile colpiva redditi perpetui (imponibili al 100% in
quanto frutto di rendite da capitali vitalizi), redditi temporanei misti (da lavoro e
da capitale, imponibili al 75%) e redditi provenienti unicamente dal lavoro
(imponibili al 62,5%).
Questo tipo di imposta veniva applicata in misura proporzionale sulla base imponibile attraverso l’aliquota dell’8%. Solamente nel secondo dopoguerra e con la
nascita dell’Italia repubblicana (1948) le aliquote verranno trasformate in progressive. L’articolo 53 della Costituzione, avrebbe infatti sancito che tra i diritti del
cittadino “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro
capacità contributiva”. “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Oltre alle imposte fondiarie e all’imposta sulla ricchezza mobile, le successive
modifiche legislative segnarono la nascita di due imposte dirette a vantaggio dei
comuni: l’imposta sul valore locativo nel 1866 (con aliquote dal 4% al 10% del
valore stesso) e l’imposta di famiglia nel 1893 (il “focatico”).
Tra le imposte indirette si ricordano invece quella di registro e di bollo (già presenti
nell’Italia pre-unitaria così come accise e dazi) e anche l’imposta sulle successioni.
Il periodo storico tra le due guerre fu segnato dalla necessità di forme di prelievo straordinario per raccogliere un gettito fiscale maggiore. In particolare, il
sistema fiscale italiano cominciò ad evidenziare le sue prime fragilità. Nel 1923 fu
introdotta l’imposta complementare sul reddito delle persone fisiche e l’intero
sistema delle imposte dirette subì una profonda riorganizzazione, tant’è che fino
agli anni ’50 non intervennero altre variazioni significative.
Per quanto riguarda l’imposizione indiretta invece, nel 1940 venne introdotta
l’imposta generale sull’entrata (IGE), progenitrice dell’IVA. Tale imposta indiretta sui consumi aveva per oggetto le cessioni dei beni e le prestazioni di servizi
(effettuate da imprenditori e professionisti); ad ogni passaggio il prezzo inglobava la tassazione traslandola sul consumatore finale poiché veniva calcolata sul
valore pieno e non su quello aggiunto. Si trattava in sostanza di un’imposta plurifase cumulativa in quanto il carico fiscale aumentava al crescere degli scambi.
La riforma Vanoni (anni ’50)
Nel secondo dopoguerra il dibattito sulla necessità di riformare il sistema di
imposizione del reddito si riacutizzò e negli anni ’50 venne realizzata una pro-
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L’evoluzione del sistema fiscale italiano
fonda riforma, chiamata Vanoni dal nome del Ministro delle Finanze di quel
periodo. L’obiettivo che si prefiggeva di raggiungere era quello di un fisco “giusto”, in particolare attraverso la tassazione dei redditi effettivi.
La nuova legislazione introdusse la riduzione delle aliquote e dei minimi imponibili, l’obbligo annuale di presentazione della dichiarazione dei redditi, l’estensione dell’obbligo della tenuta delle scritture contabili e l’adozione di un sistema
di accertamento sulla base delle medesime scritture.
Il sistema tributario che scaturì dalla riforma Vanoni si strutturava in due tipologie di imposte dirette: personali e reali. Le prime riguardavano le imposte complementari sul reddito del contribuente e delle società (nel 1954 venne infatti
introdotta l’imposta complementare sulle persone giuridiche che aveva carattere proporzionale), mentre le seconde comprendevano una serie di imposte che
colpivano i seguenti redditi: dominicale dei terreni; agrario; dei fabbricati; di ricchezza mobile; di obbligazioni.
Tra le imposte indirette si annoveravano invece quelle sui trasferimenti (sul valore globale dell’asse ereditario, sulle successioni e donazioni, imposte di registro,
di bollo e ipotecarie) e quelle sui consumi (IGE, dazi doganali e imposta di fabbricazione).
La riforma Vanoni non riuscì pienamente nell’intento e si verificarono alcuni fallimenti sia sul fronte delle imposte dirette che nelle indirette. Per quanto concerne le dirette si verificò una sostanziale mancanza di coordinamento di prelievo dei tributi tra amministrazioni centrali e locali, accompagnata a forme di prelievo poco trasparenti che si trasformavano in tassazioni talvolta eccessive e discriminatorie.
Tra le imposte indirette si verificò un’incompatibilità connessa agli scambi internazionali. Infatti, con l’entrata in vigore della CEE (1958), che istituì il Mercato
Comune Europeo, le Istituzioni europee cominciarono ad analizzare i meccanismi che influenzavano gli scambi internazionali e, in particolare, le imposte sui
consumi e sugli scambi.
Il mercato comune necessitava la revisione e l’omogeneizzazione di tali imposte.
L’imposta generale sull’entrata (IGE), introdotta in Italia nel 1940, non si coniugava con le esigenze di trasparenza del mercato internazionale in quanto colpiva
il corrispettivo complessivo ad ogni scambio commerciale o ad ogni prestazione
di servizio. Sulla base di queste osservazioni, la CEE raccomandò la sostituzione
dell’IGE con l’imposta sul valore aggiunto sul modello di quella francese.
Il sistema impositivo introdotto dalla riforma Vanoni rimase sostanzialmente immutato fino ai primi anni ’70 che si aprirono con la riforma tributaria del 1971-1973.
La riforma dei primi anni ’70
La necessità di superare le incongruenze apportate dalla riforma Vanoni e l’obiettivo di costruire un sistema fiscale moderno allineato a quello dei principali
Paesi europei, diede avvio ad una fase di studio apertasi nel 1962 con i lavori
della Commissione presieduta da Cesare Cosciani sotto la supervisione del ministro Trabucchi.
La riforma dei primi anni ’70 rappresentò la base più importante dell’attuale
sistema tributario italiano dal momento che introdusse le imposte su persone
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3 Art. 1 1° comma, Legge 9 ottobre 1971, n. 825.
4 Art. 1, 7 e12, Legge 9 ottobre
1971, n. 825.
5 Art. 5 1° comma, Legge 9 ottobre 1971, n. 825.
6 Art. 2 punto 18 a art. 3 punto 6,
Legge 9 ottobre 1971, n. 825.
fisiche e giuridiche (attualmente in vigore seppure con alcune modificazioni).
I principi ispiratori, con cui la legge n. 825 delegava il Governo ad attuare la
Riforma del sistema tributario, si basavano sulla garanzia della capacità contributiva e della progressività3, sulla semplificazione del sistema (ad esempio riduzione dei tributi locali e revisione di alcune imposte sui trasferimenti)4, sull’adeguamento dell’imposta sugli scambi alle norme comunitarie5, sulla determinazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo attraverso le scritture contabili (con semplificazioni per le piccole imprese ed esercenti arti e professioni)6.
Sotto la guida di Bruno Visentini, la conclusione dei lavori della Commissione
portò all’emanazione della Legge 9 ottobre 1971 n. 825, che insieme ai decreti
attuativi del triennio 1971-1973 modificò in maniera sostanziale il sistema fiscale
italiano.
Per le imposte dirette vennero definite due imposte generali e personali rispettivamente su persone fisiche (IRPEF) e giuridiche (IRPEG). Inoltre, si effettuò la
sostituzione di diverse imposte dirette reali con un’unica imposta (ILOR) che
colpiva tutti i redditi al di fuori di quelli di lavoro subordinato.
Per quanto riguarda le imposte indirette venne introdotta l’imposta sul valore
aggiunto (IVA) secondo il modello europeo, che assorbì le precedenti imposte
di consumo e l’IGE. Le imposte indirette sui trasferimenti rimasero sostanzialmente invariate, a parte l’imposta sul valore globale dell’asse ereditario che fu
sostituita dall’imposta comunale sull’incremento del valore degli immobili
(INVIM).
La riforma dei primi anni ’70 segnò l’avvio della fiscalità di massa tant’è che i contribuenti soggetti a dichiarazione dei redditi quadruplicarono (da 5 milioni a
circa 20 milioni). La tassazione sulle imprese era concepita come imposizione sul
reddito effettivo a garanzia del quale vi era l’introduzione dell’obbligo generalizzato di tenuta delle scritture contabili. Gli accertamenti sulla veridicità del reddito dovevano di regola essere di tipo analitico-contabile mentre gli accertamenti
induttivi erano ammessi solamente in casi eccezionali. In questa maniera si voleva garantire i contribuenti dagli arbitri dell’amministrazione finanziaria.
La riforma degli anni ’70 contribuì, in ogni caso, a riequilibrare il sistema fiscale
italiano che vedeva l’imposizione indiretta dominare su quella diretta.
Se, infatti, negli anni ’50 e ’60 la fiscalità italiana era basata principalmente sul gettito derivante dalle imposte indirette, con la riforma tributaria dei primi anni ’70 la
tendenza cominciò ad invertirsi e, sul finire degli anni ’70, l’incidenza delle imposte indirette diminuì fino ad un rapporto uno ad uno con le imposte dirette.
L’introduzione dell’IRPEF e dell’IRPEG (imposte dirette personali che colpivano
il reddito delle persone fisiche e di quelle giuridiche) segnò finalmente il passaggio ad un sistema di tassazione sul reddito reale e non ordinario.
L’incidenza del contesto economico e della finanza pubblica
Proseguendo l’analisi sull’evoluzione della fiscalità italiana si è ritenuto utile sintetizzare brevemente il quadro economico e della finanza pubblica italiana, a partire dalla riforma degli anni ‘70. Tale esercizio risulta funzionale all’interpretazione degli sviluppi più recenti del nostro sistema fiscale.
Nel 1970, il settore terziario rappresentava già il 52,0% del valore aggiunto com-
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plessivo dell’economia italiana. Se, intorno a quegli anni, l’industria aveva raggiunto più o meno l’apice del suo sviluppo (39,3% in termini di valore aggiunto
nel 1970), l’agricoltura viveva già da alcuni decenni la sua fase di declino rappresentando appena l’8,8% del valore aggiunto complessivo.
In altre parole, già in quel periodo, il settore terziario dominava l’economia italiana (sia in termini occupazionali che di valore aggiunto) e questa tendenza si è
accentuata sino ai giorni d’oggi; nel 2007, il settore terziario contava 16.704 mila
occupati, un valore praticamente doppio rispetto alla somma degli occupati nel
settore primario (1.322) e secondario (7.044). In un quadro economico di
questo tipo e in un contesto demografico sostanzialmente invariato7 (valori
medi di 56-57 milioni di residenti) l’occupazione è cresciuta da quasi 20 milioni
di unità (nel 1970) ad oltre 25 milioni (nel 2007).
A partire dagli anni ’70 sino ai primi anni ’90 si verificò invece un cambiamento
radicale della finanza pubblica italiana.
Ad una pressione fiscale relativamente modesta (25,4% sul Pil nel 1975) e più
bassa di circa 10 punti percentuali rispetto a Francia, Gran Bretagna e Germania,
cominciò ad aggiungersi un progressivo inasprimento. Nell’arco di un ventennio
la situazione si ribaltò completamente e nel 1995 la pressione fiscale in Italia si
attestava al 40,1% del Pil (14,7 punti percentuali in più rispetto al 1975), collocandosi al di sopra della media europea. Sempre nel 1995 Inghilterra e Germania
presentavano valori prossimi a quelli di vent’anni prima dimostrando di aver
mantenuto nel tempo livelli di pressione fiscale ragionevoli (intorno al 35%)
senza particolari sconvolgimenti per i loro rispettivi sistemi fiscali nazionali.
In Italia, il progressivo inasprimento della pressione fiscale fu collegato soprattutto alla necessità di fare fronte all’aumento della spesa pubblica (a partire dagli
anni ’70 le uscite complessive iniziarono a lievitare velocemente passando dal
33,4% del Pil nel 1970 al 52,7% nel 1995). L’aumento della spesa pubblica e la
contestuale crescita incontrollata del debito pubblico viene del resto segnalata
da diversi autori (Martino 1987, Tremonti 1994, Visco 2000).
Giulio Tremonti indica come l’accumulazione del debito pubblico si possa individuare in tre fasi:
una prima (che va dalla fine degli anni ’60 agli anni ’75-80) in cui il debito si è
accumulato principalmente per l’estensione dello Stato sociale;
una seconda (a cavallo degli anni ’80) definita “clientelare” per cui, una volta venute meno le ragioni del debito, si è rinunciato a porre in atto misure di rientro;
una terza, definita “finanziaria” in cui l’aumento del debito è stato determinato
dall’elevato ammontare degli interessi sul debito stesso che ostacolano la riduzione del disavanzo.8
Chiudendo questa parentesi sulla finanza pubblica, si può sottolineare come la
crescita della spesa pubblica e soprattutto la crescita incontrollata del debito
pubblico abbiano inciso profondamente sul sistema tributario italiano.
In particolare, il confronto con gli altri Paesi europei ci aiuta a comprendere
come una delle principali cause dell’accumulazione di debito pubblico italiano
sia individuabile nel troppo basso livello di pressione fiscale degli anni 60-70 e
nel sostenuto aumento della spesa pubblica (specie negli anni ’80).
Inoltre, l’accumulazione di debito pubblico non ha fatto altro che traslare ed
enfatizzare l’inasprimento della pressione fiscale negli anni successivi.
7 Le uniche variazioni significative si verificano tra il 1971 e il
1981 (la popolazione variò tra
54.137 mila unità a 56.557 mila
unità) e tra 2001-2007 (da 56.996
a 59.131, in larga parte dovuto
all’immigrazione).
8 Tremonti Giulio (1994). Il libro
bianco del nuovo fisco. Il Sole 24
Ore.
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La pressione fiscale ha raggiunto il livello record nel 1997 (43,7%) e, nonostante
nel nuovo Millennio si sia assistito ad una lieve riduzione, nel 2007 la pressione
fiscale si attestava nuovamente oltre il 43%. Nel prossimo triennio non sono previste riduzioni significative: del resto, la crisi economica associata a livelli di tassazione elevata, potrebbero pregiudicare seriamente la sopravvivenza delle
micro e delle piccole-medie imprese italiane.
La deriva del sistema fiscale italiano (gli anni ’80 e i primi anni ’90)
La Riforma tributaria degli anni ’70 rappresentò un’evoluzione positiva del sistema impositivo italiano; tuttavia l’Amministrazione pubblica si rivelò impreparata
alle novità del nuovo sistema andando incontro ad una serie di difficoltà legate
alla capacità di assicurare adeguati volumi di gettito.
Verso la fine degli anni ’70 un primo orientamento fu quello di introdurre nuovi
obblighi fiscali a difesa del reddito effettivo: ricevuta fiscale, scontrino fiscale e
bolla di accompagnamento, a tutto svantaggio delle imprese che si videro
aumentare i propri oneri burocratici.
A metà degli anni ’80 si abbandonò invece l’idea della difesa della tassazione al
reddito effettivo orientando gli accertamenti delle imprese minori sulla base di
strumenti presuntivi (Legge “Visentini”, i coefficienti, la Minimum Tax, i parametri, per arrivare poi agli attuali studi di settore).
La deriva del sistema fiscale post-riforma toccò il fondo con la finanziaria del
1993, che dispose una serie di misure:
l’indeducibilità dell’ILOR dall’IRPEG per cui l’aliquota effettiva sui profitti divenne tra le più elevate del mondo;
l’introduzione dell’ICI senza prevedere la riduzione delle imposte sui trasferimenti, creando serie ripercussioni sul mercato immobiliare;
la rivalutazione delle rendite catastali;
la Minimum Tax;
il prelievo straordinario sui depositi bancari.
Con l’adesione al Trattato di Maastricht, ratificato dall’Italia nel 1992, divennero
ineludibili le esigenze di risanamento della finanza pubblica e di riordino del
sistema tributario. La situazione della finanza pubblica italiana era particolarmente compromessa tant’è che la spesa pubblica raggiunse il picco del 56,6% del
Pil nel 1993 mentre il debito pubblico, oramai fuori controllo, giunse al livello
record del 121,8% sul Pil (1994).
Il Trattato di Maastricht definì alcune soglie di contenimento del debito pubblico (deficit annuale di bilancio pubblico non superiore al 3% del PIL e debito pubblico non superiore al 60% del PIL) e, in Italia, il risanamento dei conti pubblici
fu orientato secondo due politiche: la prima di tipo fiscale, con l’obiettivo di
aumentare il gettito anche attraverso forme di prelievo straordinario (ad esempio la tassa per l’Europa che venne rimborsata in seguito nella misura del 60%);
la seconda di tipo politico (finanziaria), con lo scopo di ridurre gli interessi sul
debito pubblico attraverso opportuni accordi con le banche; questa riduzione fu
possibile anche grazie al supporto dei mercati finanziari internazionali, che
sostennero i titoli del debito pubblico italiano.
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L’evoluzione del sistema fiscale italiano
La riforma del 1996
Nel 1996 la politica di risanamento continuò contestualmente alla realizzazione
di una nuova Riforma tributaria.
La riforma “Visco” comportò una serie di misure: per quanto riguarda l’imposta
sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) oltre alla revisione del meccanismo di
calcolo venne istituita l’addizionale regionale IRPEF (l’addizionale comunale
venne introdotta successivamente nel 1998).
I redditi da lavoro furono equiparati sia a fini fiscali che previdenziali e fu avviata la fase di costruzione degli studi di settore. Per quanto riguarda i redditi da
capitale, fu varata l’uniformazione della tassazione (aliquota del 12,5% con la sola
eccezione per gli interessi da depositi o da obbligazioni con durata inferiore ai
18 mesi per cui venne fissata l’aliquota del 27%).
La riforma introdusse inoltre la “Dual income tax” che apportò una tassazione
di favore volta a promuovere la capitalizzazione delle imprese (che in pratica fu
solo a favore delle grandi imprese) e l’IRAP (introdotta nel 1998 con la contestuale soppressione di una serie di tributi e contributi).
Alcuni aspetti della riforma del 1996 sono stati molto dibattuti; in particolare,
l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) venne accusata di favorire le
grandi imprese a scapito di quelle piccole e medie (nel 2000 furono previste
delle deduzioni per venire incontro alle piccole imprese) e l’imposta fu oggetto
di un procedimento giurisdizionale da parte dell’Unione europea (in quanto la
nuova imposta appariva come una duplicazione del’IVA), poi risoltosi a favore
dell’Italia.
La riforma “Tremonti” (2003) e le disposizioni del governo Prodi (2006)
Nel 2003, con la Legge 80 del 7 aprile, si avviò un nuovo processo di riforma guidato dal Ministro delle Finanze Giulio Tremonti, con l’obiettivo di rinnovare il
sistema fiscale adeguandolo a quello dei principali partner europei. Le modifiche più rilevanti riguardarono l’IRPEF, che subì una profonda revisione nel meccanismo di calcolo.
Con il primo modulo fiscale (finanziaria 2003) vennero rimodellate le aliquote e
gli scaglioni di reddito, abolite le detrazioni di imposta legate alla tipologia di
reddito e introdotta la “no tax area” necessaria per individuare una fascia di reddito esente da imposizione e ridurre l’aliquota minima di imposizione per i redditi più bassi.
Con il secondo modulo fiscale (finanziaria 2005) le aliquote e gli scaglioni di reddito passarono formalmente da cinque a tre (in sostanza a quattro, dato che per
lo scaglione al di sopra dei 100 mila euro veniva previsto un contributo di solidarietà pari al 4% in più dell’aliquota massima). Le detrazioni di imposta per
familiari a carico furono sostituite con deduzioni dalla base imponibile decrescenti al crescere del reddito.
L’IRPEG venne parzialmente modificata e l’aliquota unica fu abbassata di un
punto percentuale (dal 34% al 33%). Furono inoltre introdotte misure per rendere il Paese più competitivo e più simile agli altri Paesi europei.
Con l’avvento del nuovo governo Prodi, nel 2006 (in carica dal 17 maggio 2006
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al 7 maggio 2008) vennero introdotte nuove disposizioni fiscali.
La priorità fu quella di affrontare il risanamento dei conti pubblici. La progressiva decrescita dell’avanzo primario (passato dal 5,5% del Pil nel 2000 ad appena
lo 0,4% del 2005) e lo sforamento del parametro di Maastricht nel triennio 20032005 (deficit/PIL oltre il 3%) rendevano necessaria la ripresa della riduzione del
rapporto debito/PIL che nel 2005 aveva ricominciato a crescere dopo un decennio di progressive riduzioni.
Il Ministro Padoa Schioppa si adoperò principalmente per ridurre il debito pubblico attraverso misure di lotta all’evasione e all’elusione.
Una serie di altre disposizioni furono introdotte per ridurre il cuneo fiscale (differenza tra il costo del lavoro sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione
netta a beneficio del lavoratore) attraverso la riduzione della tassazione IRPEF,
l’aumento degli assegni familiari e l’introduzione di deduzioni dalla base imponibile IRAP legate al numero dei dipendenti.
Quale futuro per il sistema fiscale italiano?
Si è visto come nel corso della sua storia, il sistema fiscale italiano è stato interessato da diverse trasformazioni, talvolta rilevanti. La realizzazione delle molteplici riforme (o il loro annuncio da parte dei governi) è stata orientata principalmente alla risoluzione delle problematiche di un sistema fiscale inadeguato
rispetto alla situazione socio-economica reale del Paese.
La necessità di rendere il sistema fiscale moderno e compatibile con l’humus
economico, ha caratterizzato la legislazione fiscale italiana con un’ottica più reattiva che propositiva e ragionata.
Il contribuente e gli imprenditori percepiscono un sistema in continuo divenire
e la sensazione è quella che, in futuro, si verificheranno nuovi interventi, con
conseguenze poco favorevoli per i contribuenti.
Come coniugare dunque le esigenze di certezza normativa del tessuto produttivo con le necessità adattative delle norme alla realtà?
Gli aspetti più penalizzanti del sistema fiscale italiano sono correlati alla sua stessa scarsa trasparenza, alla mancanza di certezza nella stabilità delle regole, alla
continua mutevolezza (non tanto delle norme ma delle regole applicative).
Se è dunque accettabile che si verifichino dei cambiamenti normativi con periodicità anche annuale, vi deve essere un rapporto consensuale o quanto meno un
dialogo tra chi detta le regole e chi le deve applicare.
Troppo spesso si è assistito a cambiamenti interpretativi a ridosso delle scadenze o all’introduzione di eccessive incombenze i cui costi si scaricano inevitabilmente sulle imprese e sui contribuenti.
Inoltre, la mancanza di trasparenza si avverte anche dal punto di vista sostanziale, nel senso che difficilmente un imprenditore è consapevole dell’effettivo carico tributario che incombe sul suo reddito; questo non solo per effetto di molteplici regole fiscali che fanno divergere l’utile economico da quello fiscale, ma
anche per la diversità tra imposte dovute e quelle versate.
Con l’elezione del nuovo governo Berlusconi (in carica dal maggio 2008) si è
riacceso il dibattito sulla riforma per il federalismo fiscale, a lungo invocata ma
non ancora attuata.
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Giuseppe Bortolussi
L’evoluzione del sistema fiscale italiano
La nuova legislatura ha riavviato il processo per la realizzazione del federalismo
fiscale. L’approvazione, da parte dei Consiglio dei Ministri, del disegno di legge
sul federalismo lo scorso 3 ottobre 2008 rappresenta un segnale incoraggiante
per la sua attuazione. L’introduzione formale del federalismo fiscale risale ad
oltre sette anni fa (esito positivo del referendum popolare del 7 ottobre 2001 che
ha modificato il titolo V della Costituzione) e si auspica quindi che per l’attuazione i tempi non si allunghino ulteriormente.
L’efficienza della macchina burocratica dimostrata da alcuni Paesi federali indica
come il federalismo rappresenti una soluzione concreta per migliorare la politica
fiscale. In particolare, il federalismo potrebbe in parte risolvere alcune anomalie ed
inefficienze nel nostro Paese, responsabilizzando gli Enti Locali all’amministrazione della cosa pubblica e assicurando loro una maggiore autonomia fiscale.
I vantaggi derivanti dall’applicazione del federalismo fiscale sono dimostrabili, in
particolare, dagli indici di funzionamento che misurano la performance delle
Amministrazioni Pubbliche in relazione alla loro spesa pubblica.
I Paesi federali (si pensi a Germania e Spagna) manifestano costi di funzionamento tendenzialmente minori rispetto ai Paesi unitari e il federalismo permetterebbe dunque una migliore allocazione delle risorse con benefici, sia sulla qualità della spesa che sul suo contenimento (grazie alla riduzione degli oneri superflui e delle inefficienze).
Il federalismo fiscale garantirebbe inoltre ai cittadini di valutare più profondamente l’operato delle proprie Amministrazioni e di monitorare l’efficacia delle
politiche locali nel tempo. Le Amministrazioni Locali virtuose saranno tendenzialmente promosse, mentre i governi locali che sprecano risorse saranno visti
con diffidenza dal momento che le inefficienze andrebbero a gravare sui cittadini stessi attraverso una tassazione più elevata.
Con il federalismo fiscale l’azione re-distributrice dello Stato non dovrebbe più
basarsi sulla spesa storica ma sugli effettivi bisogni degli Enti Locali e sulla loro
capacità di garantire servizi di gradimento a propri cittadini.
La predisposizione di eventuali meccanismi di solidarietà tra territori9 dovrebbe
assicurare la copertura dei saldi negativi tra costi standard delle funzioni assegnate ed effettiva capacità fiscale territoriale, ma non ripianare i costi legati alle
inefficienze amministrative.
9 Unioncamere Veneto (2007). I
costi del “non federalismo” – Un
confronto tra Veneto, regioni italiane ed esperienze di decentramento in Europa (Quaderni di
ricerca n. 8).
Bibliografia
Bottarelli Simona (2004). Tra riforme mancate e riforme attuate: da Vanoni
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Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo
Dewey. L’indagine sociale come metodologia
dell’analisi politica e dell’educazione politica.
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1. Introduzione: obiettivo del saggio.
L’intento del saggio è quello di analizzare della
relazione che John Dewey (1859-1952) (cfr.
Granese, 1981) tematizza tra democrazia ed educazione. Questo per mettere in luce il nesso tra
educazione, metodologia dell’indagine sociale,
democrazia e concetto di Pubblico. Questa analisi
comporterà una riflessione sui tratti fondamentali,
storico epistemologici, dell’approccio filosofico
dell’americano a riguardo della pedagogia e della
pratica pedagogica, cercando però di indagare in
particolare la valenza della democrazia quale tipologia di società in cui l’educazione formale raggiunge la processualità educativa d’eccellenza. E
proprio questa concezione di democrazia ci permette, in termini circolari di relazione reciproca, di
mettere in luce quanto sia fondamentale il tema e
la relazione tra democrazia-pubblico-indagine
come processo di apprendimento e di promozione di una comunità politica locale che sia in grado
di potenziare i singoli individui che ne fanno parte.
Che il problema dell’educazione sia intimamente
legato a quello della democrazia nel pensiero di
Dewey è riconosciuto. Recentemente Hilary
Putnam ha sostenuto la tesi che il filosofo americano giustifichi epistemologicamente la democrazia:
“la democrazia non è solamente una forma di vita
sociale; è la condizione per la piena applicazione
dell’intelligenza alla soluzione dei problemi sociali” (Putnam, 1992, trad. it., 1998, p. 173; questo
aspetto è stato riconosciuto fin da subito anche
dalla ricezione critica italiana, si consideri S.
Guglielmi, Individuo e società in John Dewey,
Zanichelli, Bologna 1964, p. 123: “Ora che ci siamo
un po’ familiarizzati col pensiero politico di
Dewey, passiamo ad occuparci delle sue concezioni in fatto di educazione. In un certo senso quest’ultima può essere considerata come lo svolgimento e il completamento necessario del primo.
Nell’educazione infatti la democrazia affonda le
sue radici”). Lo sviluppo di questa intuizione e prospettiva epistemologica, conduce alla costruzione
di forme innovative bottom-up, democratiche, di
formazione delle decisioni politiche che oggi sono
proprie del fiorire delle pratiche della democrazia
deliberativa (cfr. sulla democrazia deliberativa e
sulla democrazia: Bobbio, 2005, pp. 67-88; 2004a;
2004a; 2004b, pp. 5-29; 2002, pp. 101-141; 2007a,
2007b, 359-383; Regonini, 2005, pp. 3-31;
Pellizzoni, 2005; Gbikpi, 2005, pp. 97-130; Held,
2007, pp. 399-440; Bosetti, Maffettone, 2004; Duso,
2006, pp. 367-390; 2004; Bobbio, 19953; Sartori,
20003; Dahl, 2002; Mouffe, 2007; Regonini, 1995)
Il testo privilegiato per condurre l’analisi proposta
è da considerarsi il classico Democrazia e educazione pubblicato nel 1916. Pur essendo passati più
di novant’anni le tesi del filosofo e pedagogista
americano sono attuali e illuminanti per la ricerca
educativa e la sua dimensione sociale e politica.
Non solo: esse possono essere un contributo significativo al problema di come non ridurre la democrazia all’autorizzazione prodotta dalla legittimazione elettorale quale espressione del popolo
sovrano. Cioè di non ridurre la democrazia a quella costruzione formale neutralizzante il problema
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n.23 / 2009
politico del buon governo che ci ha consegnato la
concettualità moderna elaborata dalla scienza politica moderna (cfr. Duso, 1999a, 1999b, 2003).
Questo testo va fatto interagire con l’altrettanto
fondamentale Comunità e potere (Dewey, 1927,
trad. it., 1971).
2. L’educazione come funzione sociale. I presupposti del discorso teorico.
In un capitolo di Democrazia e educazione
(1916) Dewey affronta il tema del concetto democratico nell’educazione. Prima di giungere a questo argomento Dewey descrive i tratti fondamentali del concetto di educazione, ossia che cos’è l’educazione. Innanzi tutto l’educazione è una
necessità della vita, essendo “il mezzo …della
continuità sociale della vita” (Dewey, 1916, trad. it.,
20003, p. 3). La vita è un processo di autorinnovamento attraverso l’azione sull’ambiente circostante; la vita di un gruppo, nella fattispecie il genere
umano, continua sotto la forma del processo di
rinnovamento e di trasmissione del bagaglio culturale accumulato dal gruppo ai nuovi membri nati.
Il filosofo non solo afferma che l’educazione è una
forma di trasmissione, che quindi implica la comunicazione tra i membri maturi e quelli immaturi di
un gruppo sociale, ma indica come la società stessa esiste solo nell’educazione, ossia nella trasmissione e nella comunicazione (Dewey, 1916, p. 5:
“La società continua ad esistere non solo per
mezzo della trasmissione, per mezzo della comunicazione, ma si può dire giustamente che esiste
nella trasmissione, nella comunicazione”).
L’educazione diventa in senso lato la condizione
dell’esistenza della società. Ciò comporta però il
problema di distinguere tra la forma complessiva
di educazione che è lo stesso processo vitale come
esperienza e l’educazione formale, ossia la forma
di educazione delle nuove generazioni deliberata e
organizzata attraverso delle istituzioni preposte.
L’educazione formale è direttamente proporzionale nella sua necessità al grado di complessità ed
evoluzione della società. Più una società è complessa, più è necessario che ci siano delle istituzioni in grado di trasmettere ai giovani le risorse ed i
risultati della società, al fine di introdurli nella vita
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comune e riprodurre la stessa società (cfr. Dewey,
1916, pp. 9-10). Si precisano così meglio i termini
della riflessione, il che richiede anche una tematizzazione dell’educazione formale, ossia di quella
forma di educazione che è coscientemente definita tale e che riguarda le giovani generazioni: gli
immaturi.
Ora, una volta definito il “divaricarsi” nelle società
complesse tra educazione formale ed educazione
non formale, Dewey indica un problema da risolvere: come impedire che tale divaricazione allontani i giovani dalla vera esperienza della vita e quindi l’educazione non sia più in funzione della vita e
della società, bensì sia un’attività astratta, separata,
volta al passato o ad un futuro remoto, funzionale
alla separazione gerarchica della società. Se ciò
accadesse l’educazione sarebbe in funzione di tecnici egoisti e individualisti, che perdono di mira il
loro essere individui sociali. Questo ragionamento
torna alla luce per la necessità della prassi democratica e dell’indagine e della ricerca intellettuale
ad essa funzionale: ovvero torna sotto forma di critica alla separazione tra pensiero specialistico,
degli esperti, e pensiero del cittadino comune: cristallizzare tale separazione implica un difetto di
comunicazione e di indagine e quindi un difetto di
interazione tra idee e loro sperimentazione sociale, il che è funzionale alla costruzione di gerarchie
e quindi di una società che favorisce l’eclissi della
comunità e quindi la separazione tra governanti e
governati (cfr. Dewey, 1927, trad. it., 1971).
Se la relazione tra democrazia ed educazione e
quindi le forme della ricerca e dell’indagine è il
problema di fondo a cui Dewey vuole dare una
risposta nel suo saggio, è necessario allora definire
in maniera più profonda e più precisa l’educazione, per poi riflettere sulla relazione che deve avere
con la riproduzione sociale. Il ragionamento di
Dewey delinea i momenti dell’educazione: l’educazione come funzione sociale, l’educazione come
direzione per potenziare la funzione sociale, l’educazione come crescita delle potenzialità individuali al servizio della società (aspetto ripreso dalla funzione democratica), l’educazione che costituisce
lo stesso risultato del processo educativo e, infine,
l’educazione come preparazione per il futuro (ma
non remoto), utilizzando per questo fine il passato
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
(cfr. Dewey, 1916, trad. it., 20003, pp. 1-102; in
questo percorso Dewey critica le teorie di Locke,
Fröbel, Hegel e Herbart).
Per riassumere i concetti fondamentali: 1) l’educazione è più che mera trasmissione del sapere di
una società, ma è la condizione stessa della continuità e quindi dell’esistenza di una società; 2) l’educazione è formale, quando diviene attività deliberata per svolgere la sua funzione sociale; 3) nelle
società complesse vi è il problema di impedire una
eccessiva divaricazione tra l’educazione formale e
la funzione sociale dell’educazione.
3. Il problema della relazione tra educazione e
tipologia di società.
Una volta reso evidente il nesso profondo tra l’educazione e la società, per cui la prima garantisce
la continuità della seconda e la sua stessa esistenza, non resta che aprire la questione, in maniera
analoga alla differenziazione problematica tra le
forme di educazione, su che tipo di società sia
auspicabile per una migliore educazione, ossia che
tipo di società sia quella in cui le virtù dell’educazione si sviluppano integralmente.
Se l’educazione è in funzione della società, ciò
vuol dire che, se muta la forma di questa società,
anche l’educazione muta: “l’educazione varia con
il tipo di vita che predomina il gruppo” (Dewey,
1916, p. 103). Dewey aggiunge, in termini illuminanti rispetto a quanto sopra abbiamo indicato
problematicamente sulla natura puramente conservativa dell’educazione, che è “vero in particolare che una società, che non solo cambia, ma che
ha anche come ideale un cambiamento che la
migliori, avrà norme e metodi di educazione
diversi da quella che mira solamente alla perpetuazione dei suoi costumi” (Dewey, 1916, p. 103).
Perciò Dewey sostiene che una società che voglia
progredire deve avere una determinata educazione formale.
Si deve partire dal seguente dato, ossia che “qualsiasi educazione data da un gruppo tende a socializzare i suoi membri, ma la qualità e il valore della
socializzazione dipendono dalle abitudini e dagli
scopi del gruppo” (Dewey, 1916, p. 105). Ciò signi-
fica che si deve comunque, partendo dall’esperienza, riuscire a determinare dei criteri per giudicare la società preferibile e quindi l’educazione
preferibile. Si tratta quindi di identificare nella
sostanza una educazione ideale e ciò comporta
definire una società ideale. Questa operazione, a
giudizio di Dewey, comporta basare la concezione
dell’ideale dell’educazione su società effettivamente esistenti per poter essere sicuri che sia attuabile
(cfr. Dewey, 1916, p. 105; da questa tesi si ricava
che Dewey rifiuta qualsiasi dualismo tra ideale e
realtà empirica). Da questo punto di vista è significativo sottolineare come in Dewey la definizione
dell’ideale non corrisponde a una determinazione
cristallizzata di una forma definita da raggiungere,
bensì nella ricerca di un processo che al meglio
garantisce lo sviluppo delle potenzialità degli individui, al di là delle astrazioni dell’individualismo e
del collettivismo. Ciò significa anche in termini istituzionali che la democrazia è un processo sempre
aperto e mai definibile con forme fisse e tanto più
mai trasportabile in qualsiasi contesto come un
corpo estraneo alla società (notazione di estrema
attualità politica). Si tratta tuttavia di indicare alcune condizioni che permettono che le forme sociali di aggregazioni siano società che siano comunità, ovvero che rendano possibile ed esaltino il
Pubblico, la capacità riflessiva di controllare ed
agire sulle interazioni sociali che determinano conseguenze sociali e quindi pubbliche.
Per non cadere in un dualismo tra realtà empirica
ed ideale Dewey astrae dall’esperienza concreta
alcuni elementi, con cui costruire un criterio di
giudizio e un orizzonte critico. Come dice il nostro
filosofo: “il problema è di trascegliere certi tratti
desiderabili nelle forme di comunità di vita effettivamente esistenti e impiegarli per criticare i tratti
indesiderabili e suggerirne il miglioramento”
(Dewey, 1916, p. 105). Dewey vuole individuare
dei tratti salienti per identificare una unità di misura per valutare i gruppi sociali e le società. (1) Il
primo tratto, rintracciabile anche in un gruppo di
criminali, è costituito dall’interesse comune che
unifica il gruppo; (2) il secondo tratta è invece
determinato dalla quantità di interazioni e relazioni di cooperazione con altri gruppi.
Il passo successivo dell’argomentazione di Dewey
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n.23 / 2009
consiste nell’applicare ad un contesto concreto i
criteri individuati. Ad esempio il filosofo americano applica il criterio dell’interesse comune ad uno
Stato governato dispoticamente. Egli rileva che
non è vero che non vi sia un interesse comune tra
governati e governanti in questo tipo di società
politica: non esiste infatti solamente la forza coercitiva (insomma lo Stato per Dewey non è solo
monopolio autorizzato della coazione), ma c’è una
tendenza comune, indegna e degradante e tuttavia
comune, ossia, seguendo la lezione di
Montesquieu (cfr. Montesquieu, 19973, parte
prima, libro terzo, capitolo nono, p. 174), l’attitudine alla paura. Ora di per sé la paura non è un fattore negativo, perché potrebbe essere una componente importante di atteggiamenti socialmente
utili quali la cautela, la circospezione, la prudenza,
il desiderio di prevedere avvenimenti futuri per
evitare ciò che è dannoso. Tuttavia la paura diventa un fattore negativo socialmente, se, come è il
caso di società governate dispoticamente, ci si
appella solo ad essa come tessuto connettivo della
società. Ciò conduce alla drastica riduzione degli
interessi comuni e di conseguenza al fatto che lo
stimolo e la risposta nell’azione sociale siano unilaterali. Vi è quindi un processo di impoverimento
degli stimoli e del libero scambio culturale tra i
membri della società, dal momento che la guida
della società spetta ad un gruppo ristretto di
comando, privo di relazioni, che la impoverisce
perché cristallizza la ricerca intellettuale e determina gli scopi sociali degli altri gruppi, senza che questi li assumano come loro interessi. Ciò comporta
un grave degrado sociale e una forma sottile di
schiavitù, sebbene non sancita giuridicamente. E
aggiungiamo un deperimento del capitale sociale
comune (cfr. sul capitale sociale ad esempio Mutti,
1998, oppure per una ricostruzione concettuale
Farr, 2004, pp. 6-33). Afferma significativamente
Dewey: “La mancanza di uno scambio libero e
ragionevole che scaturisce da una varietà di interessi condivisi provoca uno squilibrio negli stimoli
intellettuali. La diversità degli stimoli significa novità, e la novità significa sfida al pensiero. Più l’attività è limitata a poche linee determinate, come
avviene quando demarcazioni definite di classe
impediscono un adeguato scambio di esperienze,
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e più l’azione tende a diventare abitudinaria da
parte della classe meno favorita, e capricciosa,
senza scopo, esplosiva da parte di quella che occupa la posizione materialmente fortunata. Platone
ha definito lo schiavo come uno che accetta da un
altro gli scopi che determinano la sua condotta.
Questa condizione si ha anche là dove non esistono giuridicamente schiavi. La si trova dovunque gli
uomini sono occupati in attività che sono, sì,
socialmente utili, ma di cui essi non capiscono l’utilità e per cui non provano interesse personale
(ndr: ma hanno appunto la paura della repressione)” (cfr. Dewey, 1916, trad. it., 20003, p. 107; con
questo passo Dewey arricchisce l’analisi degli
aspetti negativi del dispotismo, sottolineandone la
ricaduta di impoverimento cognitivo. Berlyne
1971, sottolinea a proposito della teoria della
curiosità epistemica l’importanza delle caratteristiche collettive degli stimoli: la novità, la complessità, la incongruenza con le precedenti conoscenza
ecc. Tali caratteristiche alimentano la curiosità
quale bisogno intrinseco di conoscere; cfr. De
Beni, Pazzaglia, Molin, Zamperlin, 2003, p. 219).
Emergono in tal modo gli elementi salienti per cui
il discorso politico si traduce in discorso pedagogico (e viceversa), e questo tramite un criterio per
cui il dover essere si costruisce a partire dall’essere nel suo sviluppo più ampio e fruttuoso. Ciò si
chiarisce anche ulteriormente quando Dewey prende in esame il criterio della interrelazione: ove essa
manca e i gruppi sociali all’interno della società si
cristallizzano, si produce un ostacolo al progresso,
che viceversa si verifica proprio in quelle epoche
storiche in cui vi sono fattori che tendono a “eliminare le distanze fra i popoli e classi prima separati gli
uni dagli altri” (Dewey, 1916, p. 109).
Per l’efficacia dell’educazione, quindi, è essenziale
che vi sia una pluralità di stimoli, di relazioni e di
interessi che coinvolgano nella cooperazione tutte
le potenzialità dei membri della società, indotte
dalle novità, dalle contraddizione e dalle lacune
che si manifestano nello scambio sociale (si consideri come la ricerca scientifica per John Dewey sia
costitutivamente “una interazione umana e cooperativa con l’ambiente” Putnam, 1992, p. 80). La
relazione reciproca dei diversi e la motivazione che
coinvolge il soggetto sono elementi quindi centra-
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
li per descrivere l’educazione ottimale. Dewey così
sottolinea alcuni aspetti fondamentali per favorire
l’apprendimento: la motivazione, la spinta cognitiva dovuta alla novità, il confronto di più punti di
vista ed interessi, la cooperazione. L’impostazione
di Dewey ricorda l’epistemologia liberale di John
Stuart Mill: il confronto di più punti di vista, anche
di quelli errati, è costitutivo della libertà; si consideri quando Mill (2002, pp. 20-21) scrive: “..impedire l’espressione di un’opinione .. significa derubare …i posteri altrettanto che i vivi, coloro che
dall’opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l’opinione è giusta, sono privati dell’opportunità di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta
risaltare dal contrasto con l’errore”.
Dewey sostiene che in una società in cui vi sia
separazione tra i gruppi e sia retta dal dispotismo
il processo cognitivo si impoverisce e perde quelle
caratteristiche dell’educazione migliore, riducendola a pura trasmissione, sterile per il gruppo
dominante e alienante per il resto della società.
Certamente Dewey risente nella sua elaborazione
della cultura del liberalismo, pur sottraendosi ad
un radicale individualismo. Se noi consideriamo il
Mill di On Liberty ritroviamo l’idea che il dispotismo della consuetudine porti all’arresto del progresso (perciò garantire la libertà dell’individuo è
fondamentale). Mill argomenta portando ad esempio l’arresto della storia nelle società dispotiche:
“A stretto rigore di termini la maggior parte del
mondo non ha storia, perché il dispotismo della
consuetudine vi è totale: è il caso di tutto l’oriente” (Mill, 2002, p. 81); su come vi sia un forte
intreccio tra opinione pubblica e consuetudine, si
consideri l’analisi del fenomeno cosiddetto della
“spirale del silenzio” centrale per comprendere l’opinione pubblica tematizzato da Noelle-Neumann,
2002). Ora, se in una società dispotica, divisa in
classi dominanti e subalterne, il processo cognitivo
degrada, al contrario nella società democratica
dovrebbe avvenire l’opposto. Quando Dewey scrive Democrazia e educazione la polarità politica
tra regime ben ordinato e regime mal ordinato è
rappresentata dal binomio dispotismo-democrazia: successivamente la categoria di dispotismo
verrà abbandonata, non essendo più in grado di
comprendere gli eventi storico-politici antidemocratici. Dewey scriverà di “stati totalitari”. Dewey
nel 1927 già identifica nell’Unione Sovietica, poiché ivi si sostiene la determinazione universale
dell’elemento economico, una forma totalitaria di
Stato (Dewey, 1927, trad. it., 1971, p. IX). Si consideri anche Dewey che in Freedom and Culture
(New York 1939, trad. it. Libertà e cultura, La
Nuova Italia, Firenze 19662, cap. IV, pp. 83-115)
oltre a criticare il totalitarismo marxista, critica
anche l’individualismo del laissez-faire.
4. Il concetto democratico dell’educazione.
Dewey approfondisce il concetto democratico dell’educazione in maniera particolarmente incisiva:
“I due elementi del nostro criterio ci rimandano
entrambi alla democrazia” (Dewey, 1916, trad. it.,
20003, p. 110). Per quanto concerne il criterio dell’interesse comune, la democrazia sviluppa una
pluralità sempre crescente di interessi comuni che
coinvolgono la società e promuove il riconoscimento di interessi comuni come fattore di reciproco controllo sociale. Invece per quanto riguarda il
criterio della libera interazione, la democrazia lo
garantisce appieno, favorendo il cambiamento e il
riadattamento. Poco più avanti Dewey associa il
termine di riadattamento a quello di progresso,
indicando quindi come la democrazia sia la forma
sociale che promuove il progresso: “Sul piano educativo notiamo prima di tutto che la realizzazione
di una forma di vita sociale nella quale gli interessi
si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso
del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non
abbiano ragione di esserlo le altre comunità in
un’educazione deliberata e sistematica” (Dewey,
1916, trad. it., 20003, p. 110).
Si tratta quindi di descrivere l’essenza pragmatica
della democrazia: “Una democrazia è qualcosa di
più di una forma di governo. È prima di tutto un
tipo di vita associata, di esperienza continuamente
comunicata. L’estensione del numero di individui
che partecipano a un interesse in tal guisa che
ognuno deve riferire la sua azione a quella degli
altri e considerare l’azione degli altri per dare un
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n.23 / 2009
motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di
territorio nazionale che impedivano agli uomini di
cogliere il pieno significato della loro attività.
Questi punti di contatto più numerosi e più svariati denotano una maggiore diversità degli stimoli
cui deve rispondere un individuo e per conseguenza stimolano il variare della sua azione. Essi
assicurano la liberazione di facoltà che rimangono
soffocate fintanto che gli incitamenti all’azione
sono parziali, come lo sono necessariamente in un
gruppo che, nella sua esclusività, elimina molti
interessi” (Dewey, 1916, pp. 110-111).
La democrazia quindi coinvolge i membri della
società e libera le potenzialità di ciascuno di essi nel
socializzarli. Per tali ragioni la democrazia rifiuta un
principio d’autorità esterno alla interrelazione
sociale e poggia la sua consistenza proprio nell’educazione dei suoi membri, dal momento che un
governo eletto a suffragio universale non può prosperare se gli elettori non sono educati. La democrazia facilita una condizione che promuove l’educazione ed è fortemente interessata ad una educazione formale che conduca al confronto, alla relazione, alla motivazione, all’interesse, e così, conseguentemente, al progresso. Così non si deve intendere il rapporto tra elettorato e governo solo in termini di autorizzazione, bensì in termini di scambio,
controllo e miglioramento. Dewey considera fondamentale la dimensione culturale per preservare
la democrazia: “il problema della libertà e delle istituzioni democratiche è collegato con il problema di
quale sia il tipo di cultura esistente; con la necessità di una libera cultura per istituzioni politiche libere” (Dewey, 1939, trad. it. 19662, p. 12).
L’evoluzione storica ha prodotto involontariamente la forma sociale democratica con le caratteristiche indicate. Da ciò deriva che, una volta presa
coscienza della natura democratica e del condizionamento reciproco tra l’educazione e la forma
sociale, una società democratica, in ragione del
principio della sua continuità, debba curare con
grande attenzione le istituzioni dell’educazione
formale, ossia la scuola (sul rapporto tra scuola e
progresso si veda Dewey, 1899, trad. it., 19672,
cap. I, pp. 1-20). Un società mobile come quella
democratica deve “provvedere a che i suoi membri
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siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non
capissero il significato e la connessione. Ne conseguirebbe una confusione nella quale un piccolo
numero di persone si impadronirebbe dei risultati
delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno”
(Dewey, 1916, trad. it., 20003, pp. 111-112)
Non può sfuggire come il ragionamento di Dewey
abbia in sé tre aspetti assai rilevanti: 1) l’educazione è intimamente legata alla qualità della forma
sociale e della riproduzione sociale, 2) la democrazia è la forma sociale maggiormente funzionale
all’educazione nei suoi tratti d’eccellenza, 3) l’educazione a sua volta ha, se nelle sue strutture formali è determinata in maniera conseguente, una
influenza decisiva sul progresso democratico.
Questi tratti salienti del discorso del filosofo americano, arricchiti nel proseguo di questo classico
della saggistica pedagogica, provano l’intimo legame in Dewey tra progresso sociale, scientifico e
democratico (per comprendere la natura radicale e
sociale del liberalismo di Dewey e la connessione
stretta tra concezione filosofica, educazione e pratica politica è assai utile considerare Dewey, 2003).
Inoltre emerge la funzione preminente dell’intellettuale, ossia quella di promuovere, attraverso il
reciproco controllo e la reciproca cooperazione, lo
sviluppo delle capacità umane in tutta la loro onnilaterale potenzialità. Le concezioni della conoscenza, del progresso scientifico, dell’uomo e della
politica si intrecciano inseparabilmente. Questa
concezione del progresso Dewey la definisce
anche migliorismo: “Il migliorismo crede… che le
condizioni specifiche esistenti in un determinato
momento, siano esse comparativamente buone o
cattive, si possono comunque migliorare.
Incoraggia l’intelligenza a studiare i mezzi positivi
che conducono al bene e gli ostacoli alla loro realizzazione, e ad adoperarsi per migliorare le condizioni” (Dewey 1920, 1948, trad. it, 20083, p. 135).
Ciò comporta un decisivo approfondimento del
tema dell’indagine sociale e politica, delle sue
metodologie e della sua ricaduta anche sociale
nelle forme istituzionali della ricerca politica.
John Dewey, dopo aver definito la funzione sociale dell’educazione, chiarisce, da un punto di vista
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
non più formale ma tematizzante il genere di
società, come le società tendenti al progresso
siano quelle democratiche, dal momento che
hanno le caratteristiche migliori per esaltare la funzione sociale dell’educazione (Dewey, 1916, trad.
it., 20003, pp. 413-413). Questa analisi preliminare
pone le condizioni per una trattazione specifica
della dottrina e della pratica dell’educazione, la
quale non può prescindere dalla cornice della
società democratica. Rilevare questo aspetto è fondamentale per spiegare la concezione pedagogica
di Dewey, che non prescinde da una pratica democratica e dall’impegno perché la democrazia sia
condizione e “fine” dell’educazione. La stessa
metodologia della ricerca scientifica (che per
Dewey è il metodo della filosofia), la scienza nel
concreto essere sinteticamente teorica ed applicata
nell’esperimento che si dispone alla falsificazione,
rende “necessaria la democratizzazione della ricerca” (Putnam, 1992, p. 83). La scienza pura e applicata secondo l’americano sono attività compenetranti e interdipendenti, come lo sono i valori strumentali e quelli finali. Ma ciò che è fondamentale è
sottolineare come si rende democratica la ricerca
quando essa contempla più punti di vista ed è disposta al controllo (cfr. Putnam, 1992, pp. 83-84; si
consideri anche Dewey, 1929, trad. it., 1973, spec.
cap. I sul metodo della filosofia e p. 41).
La filosofia stessa si ricostruisce assumendo ed
applicando a tutte le materie di ricerca la metodologia dell’intelligenza sperimentale: “La ricostruzione
da intraprendere non consiste nell’applicare l’intelligenza come qualcosa di pronto all’uso ma nel trasferire all’indagine di argomenti umani e morali il
tipo di metodo (il metodo dell’osservazione, della
teoria in quanto ipotesi e della prova sperimentale)
attraverso il quale la comprensione della natura fisica ha raggiunto il suo culmine attuale” (Dewey,
1920, 1948, trad. it., 20083, p. 5); si deve entrare in
una logica per cui “l’esperienza serve per suggerire
scopi e metodi per sviluppare un’esperienza nuova
e migliore” (Dewey, 1920, p. 83); “..la ragione è l’intelligenza sperimentale… Ha il compito di liberare
l’uomo dalle catene del passato, fatte di ignoranza e
di caso solidificatosi in consuetudine, di progettare
un futuro migliore e di aiutare a realizzarlo. Il suo
operare rimane sempre soggetto alla verifica dell’e-
sperienza. I piani che vengono preparati, i principi
che l’uomo proietta come guide per l’azione di ricostruzione non sono dogmi ma ipotesi da elaborare
nella pratica, e da scartare, correggere e allargare
mentre riescono o meno a fare da guida all’esperienza presente” (Dewey, 1920, p. 84). Tuttavia è
fondamentale sapere che: “L’intelligenza non si possiede una volta per sempre. È un processo di formazione costante e, per conservarla, occorre stare
sempre all’erta, osservare le conseguenze, avere la
volontà spregiudicata di imparare e il coraggio di
correggere” (Dewey, 1920, p. 85). La filosofia deve
cambiare natura: “deve assumere una natura pratica, diventare operativa e sperimentale” (Dewey,
1920, p. 100).
Dewey è portatore di una concezione pragmatica
della politica e dell’educazione: ciò che conta
soprattutto non è il fine, bensì i mezzi coerenti al
fine della liberazione delle potenzialità umane. Per
tale motivo è necessario combattere forme sociali
che cristallizzano il controllo sociale e non garantiscono progresso alla riproduzione della cultura
quale patrimonio sociale. Questo è possibile solo
considerando appieno la centralità del Pubblico,
quale sentinella democratica (sul tema del controllo sociale del potere, visto come condizione per
un progresso dell’ideale democratico si consideri
sempre di Dewey, 1927, trad. it., 1971; come
approfondimento cfr. Honneth, 1998, trad. it.
1998, p. 19, ove il filosofo americano viene valorizzato perché abbozza una teoria democratica più
convincente di quella repubblicana e di quella proceduralista: “La sfera politica non è, come in H.
Arendt o come, sebbene in forme attenuate, in J.
Habermas, il luogo dell’esercizio comunicativo
della libertà, bensì il medium cognitivo, mediante
cui la società tenta sperimentalmente di determinare, elaborare e risolvere i problemi insorgenti
nella coordinazione dell’agire sociale”).
5. Il problema del Pubblico.
Andiamo quindi ad affrontare il problema del
Pubblico nel pensiero di Dewey. Il problema di
fondo è per Dewey quello di individuare e chiarire
la nozione di Pubblico: “Il nostro punto di partenza sarà… costituito dal fatto oggettivo che le con-
19
n.23 / 2009
seguenze degli atti umani influiscono su altri uomini, che è possibile percepirne alcune e che da questa percezione deriva uno sforzo mirante ad esercitare un controllo sull’azione, onde ottenere che
alcune conseguenze si verifichino e altre no. Se si
segue questo filo conduttore, si è portati ad osservare che le conseguenze sono di due specie, quelle che esercitano un’influenza direttamente sulle
persone impegnate in un’azione e quelle che esercitano un’influenza su terze persone, al di là di
quelle immediatamente interessate. In questa
distinzione si trova il germe della distinzione fra privato e pubblico” (Dewey, 1927, trad. it., 1971, p. 8).
Da qui è possibile distinguere tra sfera privata e
sfera pubblica: “la distinzione fra la sfera del privato e quella del pubblico non è perciò equipollente
alla distinzione fra individuale e sociale… Molti atti
privati sono sociali, le loro conseguenze contribuiscono al benessere della collettività o influiscono
sul suo stato attuale o sulle sue prospettive future”
(Dewey, 1927, p. 9). Allora: “Il pubblico consiste di
tutte quelle persone sulle quali le conseguenze
indirette delle transazioni esercitano un’influenza
così notevole da far loro sentire la necessità di
avere chi si occupa sistematicamente di queste
conseguenze” (Dewey, 1927, p. 11); “Chi subisce in
misura apprezzabile l’indiretta influenza, benefica o
nociva, di un atto, forma un gruppo sufficientemente specifico, del quale occorre riconoscere l’esistenza e al quale conviene dare un nome. Il nome
che abbiamo scelto è il Pubblico” (Dewey, 1927, p.
26). È assolutamente centrale la capacità di rendersi conto delle conseguenze su terzi delle interazioni tra i soggetti sociali. E quando si parla di conseguenze si fa riferimento non solo a quelle intenzionalmente volute, ma anche a quelle inintenzionali
che comunque avvengono e che una seria indagine
sociale può attribuire con regolarità a determinate
interazioni.
Ora l’organizzazione del Pubblico è il processo
fondamentale di costruzione anche delle istituzioni e delle associazioni politiche: “Il pubblico, come
corpo organizzato in virtù di pubblici ufficiali e di
organismi concreti che si occupano di quelle conseguenze indirette delle transazioni che rivestono
un carattere esteso e durevole, è populus”
(Dewey, 1927, p. 11). Le persone che agiscono in
20
veste pubblica ufficiale o rappresentativa sono in
realtà “degli agenti pubblici …nel senso di fattori
che fanno gli affari di altri al fine di promuovere od
evitare conseguenze che interessano questi ultimi”
(Dewey, 1927, p. 13). Infatti attraverso la nozione
di Pubblico Dewey arriva a quella di Stato (Dewey,
1927, p. 19: tutte le forme di condotta associata
possono determinare conseguenze estese e durevoli che si riflettono anche su chi non vi abbia
direttamente partecipato: questo caratterizza il
pubblico come Stato”). “L’esistenza di pubblici
ufficiali costituisce quindi il segno esterno più evidente dell’organizzazione di un pubblico o di uno
Stato, anche se un governo non si confonde con lo
Stato, poiché quest’ultimo comprende nel suo
seno così il pubblico come i governanti, ai quali
sono stati affidati compiti e poteri speciali; ma, grazie all’opera di quei pubblici ufficiali, i quali agiscono per difendere i suoi interessi, il pubblico, si
organizza” (Dewey, 1927, p. 20, p. 24: “L’unica definizione che si possa dare è di natura puramente
formale: lo Stato è l’organizzazione del pubblico
effettuata attraverso pubblici ufficiali per la protezione degli interessi comuni ai suoi membri”).
“Organizzare il pubblico vuol dire mettergli a disposizione rappresentanti ufficiali incaricati di
curarne gli interessi” (Dewey, 1927, p. 29): ecco il
filo conduttore che ci aiuta a capire la natura del
governo. L’organizzazione del Pubblico è essenziale per la sua stessa esistenza: “.. un pubblico
comincia ad esistere nel momento in cui vengono
percepite sostanziali conseguenze indirette che
vanno oltre le persone e le associazioni direttamente interessate; la sua organizzazione in forma
di Stato avviene quando si istituiscono speciali
organi col compito di provvedere a queste conseguenze e di ordinarle” (Dewey, 1927, p. 30).
Ma la cosa fondamentale è che si instaura un rapporto circolare e processuale di interdipendenza
tra l’organizzazione del Pubblico e l’aspetto non
formale del medesimo nel mantenere tale organizzazione efficiente ed efficace, in modo cioè che
sappia rispondere alle critiche, alle domande e ai
bisogni del Pubblico (appare quindi fondamentale
il tema della partecipazione e degli strumenti per
promuoverla). Infatti: “Poiché un pubblico si organizza in forma di stato per mezzo del suo governo,
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
lo Stato, di conseguenza, è ciò che sono i suoi pubblici ufficiali. Solo quando i cittadini esercitano
costantemente una funzione di controllo e di critica sui pubblici ufficiali lo Stato può conservare la
sua integrità e la sua utilità” (Dewey, 1927, p. 53).
In base alla presenza di tale rapporto di relazione
reciproca si può sperimentalmente definire lo
Stato democratico: “…le forme politiche non
nascono bell’e fatte una volta per sempre. Anche le
trasformazioni più importanti, dopo che siano
attuate, appaiono semplicemente come il risultato
di una lunga serie di adattamenti e di adeguamenti, corrispondenti ognuno alla propria particolare
situazione” (Dewey, 1927, pp. 65-66).
Tuttavia vi è un problema per Dewey. “Il pubblico
democratico è ancora in gran parte amorfo e disorganizzato” (Dewey, 1927, p. 85). Si tratta quindi
del problema della democrazia, intimamente legato a quel fenomeno che Dewey definisce eclisse
del pubblico. Dewey preferisce il termine eclisse
rispetto a quello fantasma del Pubblico, secondo la
definizione di Lippmann. Dewey infatti cita
Lippmann, The Phantom Public (1925, nuova edizione 2004) saggio che uscì tre anni dopo il più
famoso Public Opinion (L’Opinione pubblica,
Donzelli, Roma 1995), che Dewey recensì positivamente, non condividendo tuttavia il radicale pessimismo sulla funzione conoscitiva del giornalismo
(Dewey, 1922, 1983, pp. 337-344; su Lippmann si
veda: Dessì, 2004, 2006, pp. 27-49; Lippmann critica il mito dell’onnicompetenza del cittadino e sottolinea la deformazione dell’opinione pubblica che
non entra mai in contatto con i fatti, mediati dall’ambiente, dagli stereotipi e dagli opinion leaders. L’esperienza della propaganda nella prima
guerra mondiale fu decisiva per questa analisi).
La sfasatura tra pubblico e governo, problema relativo alla differenziazione e alla estrema articolazione della società, si manifesta in tutte le organizzazioni intermedie, come ad esempio i partiti.
Inoltre è aggravato dall’età delle macchine
(Dewey, 1927, trad. it., 1971, pp. 87-112; il tema
delle macchine e dell’innovazione tecnologica
oggi è declinato anche nei termini di E-democracy. Sulla questione che apre nuovi scenari si
veda in termini introduttivi: Pittèri, 2007;
Bentivegna, 2005). Il problema è la grande società:
“Finché la Grande Società non si convertirà in una
Grande Comunità, Il Pubblico rimarrà in uno stato
di eclisse. Solo la comunicazione delle idee può
creare una grande comunità. La nostra non è una
Babilonia delle lingue, bensì dei segni e dei simboli, in mancanza dei quali è impossibile un’esperienza comune” (Dewey, 1927, p. 112).
Si tratta allora di determinare le condizioni che
permettono il passaggio dalla società alla comunità: alla ricerca quindi della grande comunità.
Ricerca di condizioni per trasformare la grande
società in grande comunità. Si tenga presente
come in questa contesto Dewey sottolinea l’intimo
legame tra democrazia, senso sociale e comunità:
“Dal punto di vista dell’individuo, essa consiste
nell’avere una parte responsabile, secondo le capacità, alla formazione e alla direzione dell’attività dei
gruppi ai quali si appartiene, e nel partecipare,
secondo il bisogno, ai valori che il gruppo difende”
(Dewey, 1927, p. 116). La democrazia “è l’idea
della vita in comunità di per se stessa” (Dewey,
1927, p. 117). “La fratellanza, la libertà e l’uguaglianza, isolate dalla vita di comunità sono irriducibili astrazioni” (Dewey, 1927, p. 118).
Questa ricerca delle condizioni serve per determinare alcune caratteristiche da riprodurre nel caso
si voglia rafforzare il senso sociale e comunitario.
Dewey individua una serie di condizioni: a)
Innanzi tutto è l’azione comune, l’attività associata
e congiunta ad essere “condizione per la creazione
di una comunità” (Dewey, 1927, p. 119); b) questo
elemento implica la comunicazione: “il partecipare
alle attività e il condividere i risultati rappresentano fini ulteriori. Ed essi richiedono pregiudizialmente comunicazione” (Dewey, 1927, p. 120); c)
ciò richiede il perfezionamento degli strumenti
della comunicazione (in tutte le loro forme linguistiche) e dei modi di comunicazione che dipendono a loro volta dall’intelligenza e dall’educazione;
d) infatti la “conoscenza è una funzione dell’associazione e della comunicazione delle idee”
(Dewey, 1927, p. 124), che dipendono dalla tradizione (e quindi dall’abitudine, dal costume), da
strumenti e metodi trasmessi, sviluppati e riconosciuti dalla società; e) condizione ulteriore e decisiva è quella della pubblicità: “Non può esservi
pubblico senza una piena pubblicità rispetto a
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tutte le conseguenze che lo riguardano. Tutto
quello che ostacola e limita la pubblicità, frena e
distrae l’opinione pubblica e ostacola e storna la
riflessione…” (Dewey, 1927, p. 131; la pubblicità è
intesa come trasparenza in relazione alla sfera pubblica e quindi possibilità del confronto critico, in
termini quindi vicini alla pubblicità kantiana); f)
legata alla condizione della pubblicità è la presenza della libertà d’espressione e quindi di ricerca:
“Condizione pregiudiziale per la creazione di un
vero pubblico è la ricerca sistematica e continuata
di tutte le condizioni che influiscono sull’associazione e la disseminazione attraverso la stampa dei
risultati della ricerca” (Dewey, 1927, p. 169). La
pubblicità, la libertà di espressione di idee, la libertà quindi di rendere reale e significativa la comunicazione e la circolazione delle idee, si legano e
sono fattori promuoventi la libertà di ricerca e di
indagine. Ciò significa che le forme sociali che
negano la libertà di parola, di indagine e di ricerca
e in cui vige uno stretto controllo delle opinioni
minano alla radice il Pubblico; g) l’indagine deve
avere, tuttavia, delle caratteristiche per essere produttiva – tenendo conto della dimensione operazionale delle idee (Dewey, 1938, trad. it., 1949,
1974: “Le idee sono conseguenze anticipate (previsioni) di ciò che capiterà, ove certe operazioni
vengano eseguite in preciso rapporto con le condizioni osservate”, p. 163; cfr. anche p 167 e 169) –
deve essere: sperimentale, interdisciplinare, contemporanea e quotidiana (cfr. Dewey, pp. 81102, 152-175, 626-684 spec. pp. 157-161, 627-639).
Questa tipologia di indagine, che approfondiremo,
è chiaramente legata ad una tipologia di educazione che la promuove e la favorisce, legando la capacità di indagine alla necessità di affrontare un problema; h) Dewey si sofferma su un aspetto importante, che abbiamo ritrovato anche quando abbiamo trattato dell’educazione, ovvero critica la specializzazione accademica, che non favorisce la
comunicazione ed il confronto delle idee, produce
steccati, separa la ricerca dalla vita, costruisce
gerarchie cognitive e sociali.
Oltre a questa critica Dewey aggiunge un’importante critica alla comunicazione pubblicitaria
(Dewey, 1927, trad. it., 1971, p. 132). La comunicazione pubblicitaria favorisce la crescita di una
22
forma di comunicazione che intende controllare le
opinioni, fa nascere una figura sociale intellettuale
di sfruttatori e controllori dell’opinione (che non è
quindi scienza o sapere, né comunicazione). Il
marketing politico non ha nulla a che vedere quindi con la Pubblicità che favorisce il Pubblico come
lo intende Dewey. La comunicazione politica oggi
riduce l’opinione pubblica alla rilevazione tramite
sondaggi delle opinioni dei cittadini e ha la finalità
di promuovere l’immagine politica di un partito,
come si promuove un brand (sull’evoluzione dei
partiti contemporanei come partiti mediatici in tal
senso cfr. Calabresi, 2003). In opposizione alla
comunicazione pubblicitaria che uccide il
Pubblico, deve invece esser promossa una comunicazione d’inchiesta, in cui la libertà di indagine si
struttura come inchiesta. Si può così all’interno di
questo discorso valorizzare il giornalismo d’inchiesta; g) Infine Dewey si sofferma sull’importanza
dell’artista e della sua libertà: “L’emancipazione
dell’artista. Ai fini della presentazione letteraria, è,
in altri termini, per la auspicabile creazione di un’adeguata opinione sulle questione pubbliche, condizione pregiudiziale altrettanto quanto lo è l’emancipazione dell’indagine sociale” (Dewey, 1927,
trad. it., 1971, p. 143).
Se in una forma sociale saranno presenti e saranno
coltivate le condizioni sopra indicate, il senso
sociale, la comunità e quindi il Pubblico si rafforzeranno. Il pubblico uscirà dall’eclisse e quindi potrà
occuparsi delle conseguenze delle interazioni
sociali, organizzandosi e controllando la sua organizzazione istituzionale. E allora la “democrazia
ritroverà se stessa.. Avrà il suo massimo rigoglio
quando una libera indagine sociale sarà stata indissolubilmente maritata all’arte di una piena e trascinante comunione delle idee e dei fatti” (Dewey,
1927, p. 144).
6. Il problema dell’indagine: ruolo democratico
dell’analisi politica intesa come indagine.
Attraversando il testo di Dewey, possiamo quindi
sottolineare l’importanza per la democrazia della
metodologia dell’indagine sociale. Dewey è convinto che debba essere empirica e sperimentale.
Per questo gli uomini, che si sono abituati al meto-
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
do sperimentale nelle questioni fisiche e tecniche,
devono superare la paura che hanno ancora nel
campo degli interessi umani (cfr. Dewey, 1927, p.
133). Non solo l’indagine non deve cristallizzarsi in
comparti stagni, ma deve essere interdisciplinare:
“L’arretratezza delle conoscenze in materia sociale
è attestata dalla loro divisione in branche di studio
indipendenti e isolate” (Dewey, 1927, p. 134).
D’altro canto Dewey sottolinea l’importanza, nell’indagine sociale, del confronto tra molteplici ipotesi da verificare e punti di vista (Dewey 1938, trad.
it., 1949, 1974). Infatti, mentre critica la logica del
tutto o niente e a due valori (“se per logica a due
valori s’intende una logica che concerne il vero e
falso come unici valori logici, è da dirsi che si tratta di una concezione così parziale da rendere
impossibile nella dottrina logica chiarezza e consistenza. Esser materia di problema è una proprietà
logica primaria” Dewey 1938, p. 161) e l’eccesso di
specialismo (“Uno dei principali ostacoli allo sviluppo dell’indagine sociale è la divisione esistente
dei fenomeni sociali in un certo numero di campi
separati e considerati indipendenti e non interagenti fra loro, sul genere dei diversi ambiti assegnati, per esempio, all’economia, alla politica, alla
giurisprudenza, alla morale, all’antropologia…”,
Dewey 1938, p. 652), propone la produttività della
pluralità delle ipotesi da verificare nell’indagine:
“La pluralità di alternative è infatti il mezzo efficace
per rendere l’indagine più estesa (sufficiente) e
più flessibile, più capace di prendere conoscenza
di tutti i fatti scoperti” (Dewey 1938, p. 650).
Dewey inoltre critica il carattere illustrativo e classificatorio (cfr. Dewey, 1927, trad. it., 1971, p. 151)
che le scienze sociali hanno dato ai fatti empirici,
quando, invece, si tratta di indagare le conseguenze di certi atti e di certe distribuzioni. “Per dirigere
e per rendere fruttuosa l’indagine sociale, occorre
un metodo basato sull’interdipendenza esistente
fra gli atti che è possibile osservare e sui risultati di
questi atti. Ecco il nocciolo del metodo che ci proponiamo di seguire” (Dewey, 1927, p. 27).
È interessante sottolineare che Dewey mette in
antitesi l’applicazione di un metodo sociale sperimentale con la logica di una educazione o di una
programmazione che ha uno scopo predefinito.
Ciò infatti limiterebbe lo sprigionamento di ener-
gie potenziali individuali. Inoltre: “Per quello che
riguarda il metodo, nelle questioni sociali, quella
che abbiamo definita logica assolutistica finisce col
sostituire alle ricerche una discussione sui concetti e sui loro rapporti logici. Qualunque sia la forma
di tale sostituzione, essa ha per risultato di rafforzare il regno del dogma” (Dewey, 1927, p. 157).
Sono dogmatici tutti coloro che sostengono una
dottrina prima della prova sperimentale e prima
dei processi reali e della loro indagine.
L’indagine quindi deve esser sperimentale, empirica, interdisciplinare, antidogmatica e antiassolutistica. “Quando si afferma che il pensiero e le idee
devono essere sperimentali e non assolutistici, si fa
riferimento a una certa logica metodologica, e non
già all’esecuzione di esperimenti da laboratorio.
Una simile logica comporta i seguenti fattori: anzitutto, che quei concetti, quei principi generali,
quelle teorie e quei processi di sviluppo dialettico
che sono indispensabili a qualunque conoscenza
sistematica vengano apprestati e provati come
strumenti d’indagine. In secondo luogo che le
direttive e le proposte di azione sociale siano trattate alla stregua di ipotesi di lavoro e non di programmi da accettare e da realizzare rigidamente.
Essi saranno sperimentali, nel senso che li si applicherà, ma impegnandosi ad una osservazione,
costante e con mezzi appropriati, delle conseguenze a cui danno luogo quando si agisce in base
ad essi, e a patto di rivederli prontamente e con
spirito flessibile alla luce delle conseguenze che si
siano osservate. Le scienze sociali, quando si
rispettino queste due condizioni, diventeranno un
apparato per condurre le ricerche e per registrarne e interpretarne (ossia organizzarne) i risultati.
Tale apparato non sarà più considerato esso stesso
conoscenza, bensì uno strumento conoscitivo per
scoprire i fenomeni che hanno peso sociale e per
comprenderne il significato” (Dewey, 1927, p. 158).
Per esemplificare questa tesi Dewey critica l’idea
platonica del filosofo (e non è qui nostro compito
verificare quanto ciò sia plausibile in relazione al
pensiero di Platone, sebbene quella di Dewey sembri una riduzione), che secondo il filosofo americano è tradotta nel pensiero contemporaneo del
primato dell’esperto e del tecnico (cfr. Dewey,
1927, pp. 159-160). Il primato dell’esperto non
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n.23 / 2009
solo è dannoso per la democrazia, per la costituzione del Pubblico, ma anche per l’indagine stessa
e quindi per la ricerca conoscitiva. “Gli intellettuali non hanno la possibilità di assicurarsi un monopolio delle conoscenze che servono a regolare le
cose comuni: nella misura in cui essi diventano
una classe specializzata, sono tagliati fuori dalla
conoscenza delle esigenze che si suppone essi
debbano servire” (Dewey, 1927, p. 161). Si tratta di
una considerazione molto importante che noi possiamo valorizzare all’interno di una logica di ricerca e di progettazione che dà valore ai saperi del
senso comune, all’esperienza e alla percezione dei
problemi delle persone comune. “La distanza che
divide una classe d’esperti dagli interessi comuni è
inevitabilmente così notevole che questa diventa
una classe avente interessi privati e una conoscenza privata, che nelle questioni sociali non è affatto
conoscenza” (Dewey, 1927, p. 162).
La metodologia d’indagine sociale che valorizza
qualsiasi punto di vista e apporto è come abbiamo
già visto fondamentale per la costituzione del
Pubblico. Infatti il problema più importante per il
Pubblico “è la scoperta e l’identificazione di se
stesso” (Dewey, 1927, p. 145). E perché il Pubblico
abbia consapevolezza di sé, si deve costituire tramite una indagine sociale sperimentale che permetta una comunicazione ed un intendimento di
idee e di fatti. Tramite tale indagine emerge il
nesso di relazione reciproca costitutiva tra individuale e sociale. L’individuale ed il sociale intesi
separatamente sono astrazioni: non c’è l’uno, in
realtà, senza l’altro. Si tratta di ricostruire i modi e
le forme “in cui gli uomini si uniscono per svolgere una attività associata” (Dewey, 1927, p. 151). Ciò
significa che il fatto che si critichi una predominanza delle forme sociali e si affermi una malintesa
libertà non fa pensare che quando gli uomini pensano di agitarsi per ottenere una libertà puramente individuale, “essi non fanno altro in realtà che
promuovere una maggiore libertà di partecipare
ad altre associazioni, in modo da emancipare una
maggior parte delle loro energie potenziali individuali e da arricchire la loro esperienza sociale. La
vita è stata resa più misera non dal predominio
della società in generale sull’individualità, ma dal
predominio di una certa forma di associazione / la
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famiglia, la tribù, la chiesa, gli istituti economici, su
altre forme reali e possibili di associazione”
(Dewey, 1927, pp. 151-152).
Dewey lega la tematizzazione della metodologia
dell’indagine sociale, con la sua ricaduta politica,
non solo, in generale, in riferimento alla costituzione del Pubblico, ma anche, nello specifico, con
la sua forte valenza nella creazione di condizioni di
sviluppo dell’intelligenza sociale, in relazione alla
formazione delle maggioranze nella istituzione
democratiche e alla formazione delle decisioni nel
confronto tra le idee. Allora Dewey ribadisce l’importanza dell’indagine sociale sperimentale, pubblica e trasparente per lo sviluppo dell’intelligenza
sociale, fattore essenziale per il Pubblico e la
democrazia. “Fino a quando la segretezza, il pregiudizio, la prevenzione, la deformazione dei fatti
e la propaganda, nonché la mera ignoranza, non
saranno stati sostituiti dall’indagine e dalla pubblicità, non avremo alcun modo di sapere quanto
adatta l’effettiva intelligenza delle masse possa
essere a giudicare gli indirizzi sociali” (Dewey,
1927, p. 163); “..l’efficienza dello spirito dipende
dall’educazione che le condizioni sociali promuovono” (Dewey, 1927, p. 163).
All’interno di questo contesto il filosofo affronta il
problema del voto e della formazione delle maggioranze. Dewey mette in evidenza come è fondamentale come si forma una maggioranza: il voto
dovrebbe essere preceduto da una discussione,
che implica colloquio e persuasione. In termini
attuali potremmo far riferimento al momento deliberativo del confronto, in cui le posizioni o le
opzioni di partenza in seguito al confronto dialettico possono mutare. È importante quindi analizzare come si forma una maggioranza e non rimanere
fermi all’idea fissa ed astratta del governo di maggioranza. Da questo punto di vista è essenziale il
libero confronto delle idee. È vero, riconosce
Dewey, che le idee nuove e innovative all’inizio
fanno fatica a trovare ascolto, ma è altrettanto vero
che è fondamentale che esse abbiano l’opportunità di manifestarsi e circolare (Dewey, 1927, p. 162).
Perciò ancora una volta: “L’esigenza essenziale in
altri termini è il miglioramento dei metodi e delle
condizioni del dibattito, della discussione e della
persuasione. È questo il problema del pubblico.
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
Abbiamo sostenuto che questo miglioramento
dipende essenzialmente dalla liberazione e dal
perfezionamento dei processi d’indagine / e dei
metodi di diffusione delle loro conclusioni.
L’indagine, in realtà, è un’opera che incombe agli
esperti. Ma la loro perizia non si manifesta nell’elaborazione ed esecuzione di una politica, bensì
nella scoperta dei fatti da cui dipende questa politica e nella pubblicità, data a questi fatti. Si tratta di
esperti tecnici, nel senso in cui è perizia quella
degli scienziati che si dedicano alle ricerche e degli
artisti. Non è necessario che i molti abbiano la
conoscenza e la capacità di svolgere indagini
necessarie; ciò che occorre è che abbiano la
capacità di giudicare la portata delle conseguenze fornite da altri su questioni d’interesse comune” (Dewey, 1927, trad. it., 1971, p. 163).
In base a questa considerazione emerge come fondamentale la ricerca sperimentale ed empirica,
multi e transdisciplinare di metodologie e tecniche, che riproducono pubblici deliberativi in termini anche di comunità epistemiche di ricerca e
indagine, in grado di affrontare consapevolmente
e direttivamente le conseguenze sociali dell’interazione sociale e proporre soluzioni. Questo è il
senso di tutte le nuove forme e strumentazioni di
empowerment e di capacitazione deliberativa quali
forme di governance innovative che stanno
nascendo negli ultimi anni e che sono tematizzate
dal problema della democrazia deliberativa (si
veda supra; inoltre cfr. Batini, Capecchi, 2005;
Sclavi, 2006; Bobbio, 2007a). Mi riferisco alle politiche di promozione della partecipazione o dell’empowerment della comunità in termini di capitale sociale e legami sociali. In particolare sono
importanti le politiche che promuovono forme
partecipative nella redazione dei bilanci o nella
progettazione e pianificazione territoriale (cfr.
Crosta, 1983, 1990a, 1990b).
L’intelligenza non è una dote individuale, cresce
nella relazione ed in base ai fattori principali dell’educazione. Emerge quindi il nesso educazionedemocrazia-indagine-pubblico. Ciò conduce alla
validità della nozione di comunità e di Grande
comunità quale luogo in cui cresce e si struttura
l’intelligenza sociale democratica nell’interazione.
Si tratta di favorire ancora una volta la dimensione
comunitaria in termini preliminari e problematici,
ed anche tragici per la democrazia contemporanea. Dewey si fa una serie di domande: “Possono
le comunità locali essere stabili senza essere statiche, essere progressiste senza essere semplicemente instabili? Possono le vaste, innumerevoli e
intricate correnti formate dalle associazioni che si
estendono oltre le comunità locali essere contenute e dirette in modo tale da riversare i fecondi e
abbondanti valori dei quali esse sono potenzialmente dense nelle minori unioni intime di esseri
umani che vivono insieme a contatto immediato? È
possibile ripristinare la realtà delle organizzazioni
comunitarie minori e instillare nei loro componenti un pervadente senso di vita locale comunitaria? Si sta attualmente manifestando, almeno in
teoria, un movimento di opposizione al principio
di organizzazione territoriale, e in favore di quello
dell’organizzazione funzionale, ossia fondato sull’attività professionale. È abbastanza esatto che le
antiche forme d’associazione territoriale non soddisfano le esigenze presenti. È anche vero che i
vincoli costituitisi attraverso la partecipazione alla
stessa attività, sia nel campo dell’industria che in
quello delle professioni liberali, hanno ora una
forza che non ave/vano una volta. Ma si può fare
affidamento su questi vincoli, per la costituzione di
un’organizzazione durevole e stabile, che sia al
tempo stesso flessibile e mobile, solo nella misura
in cui essi scaturiscono da rapporti e da attaccamenti immediati. Se questa teoria si traducesse in
pratica, essa si troverebbe ben presto, in altra
forma, davanti alle stesse difficoltà e agli stessi mali
della presente situazione, nella misura in cui riposasse su associazioni remote ed indirette. Nulla
può sostituire la vitalità e l’intensità di un rapporto
e di un attaccamento profondo e diretto” (Dewey,
1927, pp. 165-166). “L’amore e la comprensione si
irradiano solo dagli attaccamenti di un’unione fatta
di vicinanza. La democrazia deve cominciare a casa
propria e la sua dimora è la comunità dei vicini”
(Dewey, 1927, p. 166). Quindi il problema “della
realizzazione di un’intelligenza diffusa e feconda
può essere risolto solo nella misura in cui la vita
locale della comunità diventi una realtà” (Dewey,
1927, p. 169). Infatti “.. solo nelle relazioni stabilite
negli scambi personali, nella comunità locale, si
25
n.23 / 2009
possono tradurre in atto quell’espansione e quel
rinvigorimento della comprensione e quel rinvigorimento della comprensione del giudizio personali, poggianti sulla ricchezza intellettuale cumulata e
trasmessa della comunità. Che possono rendere
priva di senso la denuncia della democrazia, sulla
base dell’ignoranza, del pregiudizio e della leggerezza delle masse” (Dewey, 1927, p. 170). “Ci troviamo… nel grembo di un’immensa intelligenza.
Ma quell’intelligenza sarà dormiente e le sue
comunicazioni saranno rotte disarticolate e fiacche
fino a quando essa non possiederà come elemento di mediazione la comunità locale” (Dewey,
1927, p. 170). Pertanto possiamo sottolineare che
potenziare e promuovere la dimensione del governo locale e la partecipazione politica al medesimo,
attraverso pubblici deliberativi, è fondamentale
per rendere vivo il Pubblico e quindi vivificare la
democrazia.
7. Conclusione. John Dewey e la scienza delle
politiche.
La riflessione sul Pubblico di Dewey lega l’importanza della metodologia della ricerca e quindi dell’educazione all’affermazione della democrazia
come condizione migliore per la stessa ricerca
intellettuale connessa costitutivamente alla dimensione pratica e operazionale. Ciò significa che si
può sottolineare l’importanza della scienza politica
o dell’indagine politica, meglio dire, come quell’aspetto della ricerca che si occupa precisamente di
questi aspetti in relazione al Pubblico.
Si tratta di comprendere come il filosofo americano concepisca la funzione e lo statuto della filosofia politica o della scienza politica o dell’indagine
politica. Dal punto di vista metodologico Dewey
rifiuta come sterile un dualismo senza mediazione
tra filosofia politica e scienza politica, tra interpretazione, teoria, e descrizione fatti politici. Si tratta
invece di discernere a) fatti che condizionano l’attività umana e b) fatti che sono condizionati da
essa (Dewey, 1927, p. 4). “Nella misura in cui ignoriamo tale differenza, la scienza sociale diventa
pseudo-scienza” (Dewey, 1927, p. 4). La scienza
politica, quindi, nella dimensione sperimentale e
d’indagine diventa, sviluppando il ragionamento di
26
Dewey, analisi e progettazione delle politiche pubbliche. Pertanto possiamo dimostrare il nesso tra la
ricerca intellettuale e politica di Dewey e la tradizione della policy inquiry.
La filosofia politica deve come quella naturale progredire rifiutando la logica delle cause prime o
delle forza, ma assumendo un metodo empirico
sperimentale che analizza le relazioni e le interdipendenze: “La filosofia politica e la scienza politica
non hanno il compito di stabilire quello che lo
Stato in generale dovrebbe o deve essere. Esse possono caso mai contribuire a elaborare metodi che
consentano all’esperienza di procedere in modo
meno cieco, meno subordinato al caso fortuito, più
intelligente, affinché gli uomini possano trarre un
insegnamento dai loro errori e un profitto dai loro
successi” (Dewey, 1927, p. 25).
La filosofia politica deve farsi carico del movimento di ricostruzione della filosofia quale sapere funzionale alla ricerca collettiva della risoluzione dei
problemi sociali comuni in termini di miglioramento continuo e deve mirare al potenziamento
sociale della capacità dei singoli individui nella loro
dimensione sociale di interdipendenza. In questo
senso per Dewey non conta il fine, bensì il processo. “Il fine non è più il termine o il limite da raggiungere: è il processo attivo per trasformare la
situazione esistente. Non è la perfezione la meta
ultima della vita, ma il processo incessante del perfezionare, maturare e raffinare” (Dewey, 1920,
1948, trad. it., 20083, p. 134). La logica individualistica o quella della brama individuale di potenza è
perciò inadeguata: “Continuando a pensare in termini di forze causali, da questo fatto si è tratta la
deduzione che lo Stato, il pubblico, sono finzioni,
dietro cui si cela una brama individuale di potenza
e di arrivismo sociale. Si è polverizzato non solo lo
Stato, ma anche la stessa società, facendone un
aggregato di volizioni e di bisogni sconnessi. Ne è
risultata logicamente una concezione dello Stato
come mera oppressione, nata dal potere arbitrario
e sorretta dalla frode, oppure come concentrazione di singole forze umane a formare una forza massiccia alla quale le persone singole siano incapaci
di opporre resistenza, concependosi questa concezione come un atto disperato cui non vi sarebbe
altra alternativa che il conflitto di tutti con ognuno,
Giovanni Tonella
Educazione, democrazia e pubblico secondo Dewey
che genera una vita infelice e bestiale. Lo Stato
appare così sia quale mostro da distruggere, sia
come un Leviathan da aver caro. In sintesi, partendo dall’errore iniziale, secondo il quale, per risolvere il problema dello Stato, bisogna cercarne le
forze causali, è scaturito l’individualismo, concepito come ismo, come filosofia” (Dewey, 1927, trad.
it., 1971, p. 15).
Appare quindi evidente il tentativo filosofico di criticare la costruzione individualistica moderna dello
Stato e del potere: versus Hobbes. L’errore è
appunto partire dall’astratto, dall’individuo, della
volontà individuale, quando non s’è ancora visto
nulla che agisca in completo isolamento. Gli individui “esistono e operano in associazione”
(Dewey, 1927, p. 16). Questo è il primum ed il
concreto. “..l’uomo non solo si associa de facto,
ma diventa un animale sociale man mano che va
formando le sue idee, i suoi sentimenti e la condotta che delibera di tenere. Tutto quello che egli
crede, spera e mira ad ottenere è affetto dell’associazione e dell’interdipendenza” (Dewey, 1927, p.
18). D’altro canto anche la recente analisi dei processi decisionali mostra come essi siano radicate
nell’identità, nel ruolo e nei contesti, piuttosto che
nel calcolo razionale sulle aspettative e le conseguenze (cfr. March, 1994, trad. it. 1998).
Dewey lega la vicenda della democrazia a quella
più ampia e determinante della filosofia e quindi
del processo incessante di educazione del genere
umano. La democrazia da questo punto di vista
non può essere ridotta alla costruzione che ne fa la
scienza politica moderna (cfr. Duso, 2004).
“Un’educazione piena si ha soltanto quando ogni
persona ha, in proporzione alle sue capacità, una
pari responsabilità nel formare gli scopi e le politiche dei gruppi sociali a cui appartiene. Questo
fatto determina il vero significato della democrazia… è semplicemente un nome per il fatto che la
natura umana si sviluppa soltanto quando i suoi
elementi prendono parte alla direzione di cose che
sono comuni, cose per le quali gli uomini e le
donne formano dei gruppi: famiglie, imprese produttive, governi, chiese, associazioni scientifiche e
così via. Il principio vale sia per una certa forma di
associazione, per esempio nella produzione o nel
commercio, che per il governo” (Dewey, 1920,
1948, trad. it., 20083, p. 155).
È evidente, quindi, che Dewey, sviluppando il
concetto di democrazia e di indagine politica, può
sottolineare che l’identificazione della democrazia
con la democrazia politica o le istituzione democratiche degli Stati democratici è una cristallizzazione della ricerca politica e del processo democratico, che non corrisponde al processo sociale.
“L’identificazione della democrazia con la
democrazia politica che è responsabile della
maggior parte dei suoi fallimenti è, tuttavia,
basata sulle idee tradizionali che fanno dell’individuo e dello Stato delle entità preconfezionate
in sé” (Dewey, 1920, p. 155). Si tratta quindi di spostare l’attenzione della scienza politica dal sistema
istituzionale ai processi politici (alle politiche
empiriche), consapevoli che lo sviluppo della
democrazia è indissolubilmente legata allo sviluppo dell’intelligenza sociale del genere umano.
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n.23 / 2009
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di
Georg Simmel
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Il bagaglio concettuale e categoriale delle scienze sociali, costruito intorno alle
caratteristiche della società moderna, appare oggi in difficoltà nel cogliere in
maniera adeguata elementi distintivi e proprietà di quella odierna. Questo riconoscimento, largamente condiviso dalla comunità scientifica, ha spinto alcune
parti di essa ad interrogarsi sull’opportunità e sull’utilità di riscoprire e rielaborare, attraverso sia la riflessione teorica sia la sperimentazione metodologica e la
ricerca sul campo, uno dei concetti classici della sociologia, che deve la sua formulazione originaria a Georg Simmel: la distanza sociale.
Seppure il concetto di distanza sociale appartenga alla tradizione sociologica,
esso non è stato nel tempo esplorato fino in fondo, probabilmente a causa della
sua complessità e multidimensionalità, che ha generato spesso un suo impiego
polivalente nella ricerca sociale, raramente preceduto o seguito, tuttavia, da una
riflessione teorica volta a superare le difficoltà che questa categoria sociologica
presenta. Tali difficoltà sono connesse, da un lato, alla definizione stessa del concetto, dall’altro, all’individuazione chiara dei fenomeni originati dalla combinazione delle sue diverse componenti.
Dopo aver presentato i possibili significati ed evidenziato i numerosi elementi
che concorrono a rendere il concetto in analisi multidimensionale e controverso, in questo saggio viene posto l’accento sui caratteri originari che la distanza
sociale assume nella formulazione simmeliana. La metodologia seguita privilegia
la lettura, il commento e l’interpretazione dei passi simmeliani – in special modo
dell’analisi dello spazio all’interno della Sociologia dell’autore – al fine di evidenziare gli elementi significativi che la costruzione teorica di Simmel offre alla
definizione di questa categoria sociologica. È solo a partire da un lavoro preliminare di questo tipo che, a nostro avviso, deve prendere le mosse qualsiasi tentativo di rielaborazione e attualizzazione del concetto in vista di un suo possibile
utilizzo nell’analisi e nella comprensione dei fenomeni sociali contemporanei.
I molteplici significati di “distanza”
Già a partire dal suo uso di senso comune il concetto di “distanza” presenta una
varietà di significati possibili. Se, infatti, nel suo senso immediato e non metaforico la distanza indica la lontananza di due elementi nello spazio fisico-geografico (distanza come lontananza fisica), utilizzando una metafora geometrica il termine “distanza” sta ad indicare una differenza oggettiva – o ritenuta tale – tra i
30
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
caratteri, qualitativi o quantitativi, di due o più oggetti (distanza come differenza). Infine, ancora in senso metaforico, due o più soggetti si dicono “distanti”
quando si percepiscono come tali, in virtù di una differenza oggettiva o di un
sentimento di avversione nei confronti dell’altro (distanza come distacco psicologico). Tale percezione di distanza può tradursi o meno in comportamenti
coerenti di distanziamento relazionale: “non volere avere a che fare con una persona o con un argomento” è un’espressione tipica utilizzata nel linguaggio
comune (distanza come assenza di relazioni). Tutti questi significati sono più o
meno ripercorsi nel panorama semantico della sociologia e riassunti nel concetto di distanza sociale allorché riferiti a individui o a gruppi sociali.
In generale, nella letteratura scientifica esistente, le accezioni prevalenti del concetto di distanza sociale sono due (Gallino, 2006a). La prima individua una
dimensione oggettiva e definisce la distanza sociale come l’intervallo più o meno
ampio che separa nello spazio sociale la posizione di due o più persone, appartenenti a classi sociali o strati differenti o a differenti gruppi etnici o religiosi. La
seconda richiama una dimensione soggettiva (o psicologica) per cui la distanza
sociale è il grado di comprensione simpatetica che un soggetto possiede nei confronti di un altro appartenente a una diversa cultura o subcultura – di classe o di
gruppo etnico o religioso, nazionale o straniero. Esistono, tuttavia, altri studi che
individuano almeno una terza dimensione della distanza sociale, o meglio, una
sua caratteristica: la relazionalità/interazionalità (Prandy e Bottero, 2003; Hess,
2003). In questo caso, ci si riferisce alla dimensione pragmatica della distanza
sociale, alle azioni (agite o subite) di distanziamento o avvicinamento messe in
atto dai soggetti o dai gruppi sociali nei contesti di vita quotidiana (Introini,
2007). Un ulteriore elemento connesso alla categoria di studio in analisi, prende
in considerazione le imprescindibili relazioni tra spazio sociale – entro cui si produce ed esprime la distanza sociale – e spazio fisico territoriale. Quest’ultimo,
infatti, influenza le relazioni tra individui e gruppi sociali offrendo loro una possibilità di contatto e di conoscenza. Allo stesso tempo lo spazio territoriale e le
distanze fisiche sono influenzate dalle relazioni sociali. Distanza sociale e distanza fisica si influenzano reciprocamente e si pongono in un rapporto di circolarità (Simmel, 1989). Tuttavia, ciò non deve indurci a pensare che vi sia una perfetta sovrapposizione tra geometrie fisiche e geometrie sociali. Soprattutto nelle
società globali, infatti, assistiamo a processi di despazializzazione e rispazializzazione, cioè di ridefinizione degli spazi e delle distanze fisiche e sociali (Magatti,
2004). Come è evidente, allora, il concetto di distanza sociale presenta un’ineguagliabile ricchezza, ed è proprio questa sua abbondanza di elementi ad aver
suscitato di recente l’interesse della comunità scientifica, la quale, come dicevamo, è impegnata già da tempo in uno sforzo di ridefinizione del bagaglio concettuale e categoriale delle scienze sociali che possa adeguatamente cogliere ed
interpretare i profondi mutamenti delle società contemporanee (Cesareo,
2007b). La globalizzazione, infatti, ha messo in moto dei processi che hanno prodotto cambiamenti radicali sia di tipo strutturale che soggettivo. Sul piano strutturale essa ha contribuito ad aumentare la frammentazione sociale, la precarietà,
la fluidità nei rapporti finanziari, lavorativi, così come nelle relazioni con il tempo
e lo spazio. Profondi cambiamenti demografici (primo fra tutti l’invecchiamento
della popolazione) si combinano con mutamenti nell’ambito occupazionale (il
31
n.23 / 2009
moltiplicarsi delle forme di lavoro “atipico”, la diminuzione delle garanzie sociali, ecc.), con la crisi e l’indebolimento delle ideologie collettive e delle identità ad
esse legate, con l’espansione di uno spazio estetico (media e consumi) accessibile a tutti, e con le difficoltà dello Stato nazionale a regolare la transizione. Sul
piano soggettivo ciò che è evidente è la progressiva individualizzazione dell’esperienza quotidiana e delle biografie personali, nella duplice accezione di “individualismo istituzionalizzato”, cioè una situazione in cui l’individuo diventa l’unità riproduttiva della vita sociale, e di costruzione perpetua della propria “identità a progetto”, in cui l’individuo è chiamato a dare delle soluzioni biografiche a
contraddizioni sistemiche (Magatti e De Benedettis, 2006). Di fronte a mutamenti di tale portata, non solo le differenze sociali perdono il loro carattere sistematico e coerente, ma cambiano anche il loro contenuto. Nuovi principi di differenziazione sociale, quindi, si affiancano a quelli di tipo economico-occupazionale su cui si basano le disuguaglianze sociali, e definiscono nuove linee di frattura sociale. Così, se alcuni autori continuano a sostenere la persistenza di forme
di disuguaglianza interpretabili attraverso il concetto di classe e la maggiore incidenza delle disuguaglianze sociali di tipo economico rispetto ad altre ineguaglianze (Schizzerotto, 1993), altri studiosi ritengono che nelle società contemporanee la strutturazione gerarchica dell’eterogeneità sociale non si misuri più
solamente a partire da differenze di status socio-economico ma si produca dall’intersecazione di più piani della vita sociale (Ranci, 2002). Da qui la necessità di
estendere il campo semantico delle categorie analitiche tradizionali o di individuarne (o riscoprirne) altre in grado di dar conto delle molteplici dimensioni
entro cui si dispiega l’agire sociale degli individui e dei gruppi delle nostre società. Per molti, il concetto di distanza sociale sembra offrire una possibile risposta
all’esigenza di rinnovamento e adeguamento delle categorie analitiche di studio
della sociologia contemporanea. Su questa scia si è collocata la ricerca interuniversitaria nazionale sulla distanza sociale in alcune aree urbane in Italia (Cesareo,
2007b), i cui lavori hanno rappresentato l’occasione di riflessione sulle tematiche
in oggetto in questo saggio.
Se, infatti, il concetto di distanza sociale contiene al suo interno una molteplicità di significati riconducibili, nel panorama delle teorie e della ricerche sociologiche, a diverse elaborazioni (talvolta discordanti), il primo autore che ne ha
offerto una tematizzazione all’interno della propria teoria della società è senza
ombra di dubbio Georg Simmel.
La “distanza” è, di fatto, uno dei temi rilevanti della costruzione teorica simmeliana. Non a caso, autorevoli conoscitori del pensiero dell’autore ci ricordano
come è proprio la posizione distante dell’osservatore rispetto ad un oggetto
determinato a consentirci di parlare di società nel suo insieme piuttosto che di
singoli individui. Offrendo allo sguardo una prospettiva in grado di far percepire
l’insieme degli individui come un’unità, la distanza sarebbe, così, fondativa non
solo della scienza che studia la società (la sociologia) ma del sociale stesso
(Jedlowski, 1998). Attraverso la distanza è possibile, infatti, osservare come la
società non sia altro che un complesso intreccio di molteplici relazioni poste in
essere dagli individui nel loro costante rapporto di interazione reciproca. Una
tale concezione della realtà sociale è alla base del pensiero sociologico di
Simmel, il quale, come è noto, pone al centro dello studio della sociologia non
32
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
la società come sostanza ma le forme di interazione dei suoi elementi individuali (Frisby, 1985).
Con riferimento alla distanza sociale, il nostro autore traccia le linee che la definiscono e la descrivono principalmente in due parti del suo lavoro, ossia nella
sua analisi degli ordinamenti spaziali della società e nella sua teoria sociale della
modernità. Vediamo in che termini.
La formulazione simmeliana (1). Distanza sociale e analisi degli ordinamenti spaziali della società
L’analisi dello spazio e degli ordinamenti spaziali a cui Simmel dedica una parte
della sua Sociologia (1908) non solo è pregna di contenuti e significati per lo studio delle categorie spaziali da un punto di vista sociologico, ma offre altresì, a chi ne
ricerca le origini, una pluralità di riferimenti ed un ricco terreno di riflessioni sulla
distanza sociale, la quale è colta in aspetti diversi all’interno del percorso che descrive le caratteristiche spaziali che influenzano le forme della vita sociale, e nelle tre
appendici che riguardano i confini sociali, la sociologia dei sensi e lo straniero.
Sembra doveroso ricordare che per Simmel lo spazio, così come il tempo e la
massa, rappresentano a priori, cioè forme dell’intuizione, cognitive, con cui si
ha accesso al mondo sensibile e che orientano l’esperienza di ogni individuo.
Essi sono relativi e reciprocamente interrelati. Attorno agli a priori, considerati
come pre-condizioni formali della sociazione umana, si articola la vita sociale, in
un movimento incessante di forme.
Lo spazio è, inoltre, sia il luogo della coesistenza che la dimensione percettiva
per eccellenza. Preso in sé, esso è privo di senso poiché:
“Non già lo spazio, bensì l’articolazione e la riunione delle sue
parti, che trova il suo punto di partenza nell’anima, riveste un
significato speciale” (Simmel, 1989, p. 524 ed. or. 1908).
Con affermazioni di questo tipo Simmel riconosce la portata simbolica e sociale
dei processi di spazializzazione e traccia le linee per una caratterizzazione della
distanza sociale in chiave soggettiva e psicologica (ma non solo!):
“Non è la forma di una vicinanza o distanza spaziale a creare i
fenomeni particolari del vicinato o dell’estraneità, per quanto
incontrovertibile ciò possa sembrare. Anche questi sono invece
fatti prodotti unicamente da contenuti psichici” (Simmel, 1989, p.
524 ed. or. 1908).
Gli elementi che all’interno del testo ribadiscono la connotazione psicologica e,
allo stesso tempo, spaziale della distanza sociale sono molteplici. È sufficiente,
per individuarli, seguire la descrizione di Simmel delle cinque caratteristiche dello
spazio che influenzano la sociazione umana (esclusività, liminalità, fissazione,
nesso di vicinanza-lontananza, movimento), a cui attingeremo d’ora in avanti –
soffermandoci solo su alcune di esse – per meglio tratteggiare il concetto simmeliano di distanza sociale.
La riflessione sul tema dei confini è un primo elemento per noi ricco di significati. I confini definiscono l’ambito spaziale del gruppo sociale. Nella definizione
simmeliana di confine, tuttavia, coesistono sia dimensioni simboliche e psicologiche sia dimensioni più propriamente fisiche e materiali. Accanto a questa
prima osservazione, va rilevato che nella delimitazione spaziale dei gruppi socia-
33
n.23 / 2009
1 Lo spazio sociale è inteso dall’autore nell’accezione che ne dà
Gallino (2006b) nel Dizionario di
sociologia. Lo spazio sociale è
“l’universo delle relazioni fornite
di senso tra individui, gruppi,
categorie, strati e classi sociali,
elementi culturali”.
2 Nel tentativo di ricostruire il
reale significato attribuito da
Simmel al concetto di distanza
sociale, Ethington individua due
diverse componenti della distanza: una meramente spaziale, formale e l’altra simbolica, psicologica. I termini che, nella volontà
dichiarata di rispettare il lessico
simmeliano, egli sceglie di usare
per identificare le due componenti sono: distanza geometrica
e distanza metaforica (Ethington,
1997). Appaiono, quindi, fuorvianti quelle interpretazioni
avanzate all’interno di recenti
contributi (Introini, 2007) che
attribuiscono ad Ethington l’individuazione di una terza componente della distanza sociale,
altra rispetto alla distanza fisica
34
li e nell’individuazione dei confini oltre i quali si stabilisce l’esclusione dal gruppo, si definiscono delle distanze sociali tra chi sta dentro e chi sta fuori, ribadite
dalle rispettive differenze (reali o presunte che siano) e disuguaglianze. Il confine non è mai assoluto, ogni sua determinazione è arbitraria e fissata soggettivamente. La forza di una tale affermazione non è chiaramente evidente di fronte ai
confini naturali (montagne, fiumi, mari, deserti) ma lo è rispetto a quelli politici,
i quali tracciano chiaramente una linea geometrica tra due vicini. Le suddivisioni
politico-amministrative del territorio dello Stato italiano, ad esempio, tracciano
confini (giuridici, economici, simbolici, ecc.) tra chi è cittadino italiano e chi non
lo è, chi appartiene alle regioni del Nord e chi invece a quelle del Sud, chi è di
una provincia e chi di un’altra, e così via fino alle unità amministrative più piccole. L’arbitrarietà dei confini ci dice, in un certo senso, che essi rappresentano
anche delle metafore, sebbene, come osserva Cella in un suo testo dedicato proprio ai confini, nel quale è contenuta anche un’analisi di questo concetto nel
pensiero simmeliano (2006), può essere agevolmente individuata una gradualità
dell’uso metaforico della parola “confine”. Così, al livello più basso della gradazione si collocano quelle tracce segnate (o segnabili) nello spazio fisico (vale
ancora l’esempio dei confini politico-amministrativi degli stati nazionali) e, ad un
livello intermedio, ritroviamo le distinzioni e le distanziazioni nello spazio sociale1 (intendendo con quest’ultimo termine il processo attraverso cui si costruiscono le differenze e le separazioni nelle relazioni sociali). Il carattere delle
distanze, allora, si comprende a partire dallo spazio entro cui fissiamo i confini e
dalla natura dei confini stessi.
Proseguendo nell’analisi delle caratteristiche dello spazio, Simmel giunge alla
trattazione del nesso di vicinanza-lontananza, che è, in maniera intuibile, centrale per la riflessione sulla distanza sociale. La vicinanza-distanza è riferita a persone (o gruppi) che stanno tra loro in una qualsiasi relazione.
Qual è il tipo di vicinanza-distanza a cui Simmel fa riferimento? Di quale spazio
l’autore sta parlando? Di certo, un indubbio riferimento è allo spazio fisico (con il
suo valore semantico socialmente attribuito), da alcuni definito come spazio geometrico2. Allo stesso tempo Simmel si riferisce a uno spazio simbolico, “metaforico”, più propriamente associato al contenuto psicologico del sentirsi “vicini” o
“distanti”. Nella formulazione simmeliana le due dimensioni appaiono reciprocamente interrelate e co-prodotte: la distanza fisica può determinare una distanza
psicologica, poiché preclude agli individui la possibilità di approfondire la relazione con l’altro lontano da sé; allo stesso modo, la distanza psicologica può
esprimersi in distanziamento fisico (“mi sento distante da alter quindi preferisco
starne lontano anche fisicamente”, potrebbe essere il caso di una relazione sociale conflittuale tra due individui o gruppi sociali, ad esempio). Queste sono solo
alcune delle possibili modalità di interrelazione ed espressione della distanza
sociale, che possono, nella realtà sociale, assumere più forme e direzioni.
E’ lo stesso Simmel che sottolinea come le variazioni che una relazione subisce
passando dalla distanza alla vicinanza fisica non consistono necessariamente in
un aumento dell’intensità del rapporto ma anche in “indebolimenti, riserve,
repulsioni” che possono spingere ad un aumento della distanza interna, psicologica. In altri termini, approfondire la conoscenza di qualcuno che prima era
fisicamente distante da noi può portare sia a un ulteriore avvicinamento psico-
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
logico sia a un allontanamento interiore non previsto3. E’ anche vero, tra l’altro,
che l’avvicinamento interiore non si traduce sempre e automaticamente in avvicinamento fisico, e che quest’ ultimo non è in ogni caso unicamente attribuibile
ad una riduzione della distanza interiore.
Comunque sia, senza addentrarci ora nell’analisi delle singole combinazioni e
gradazioni del rapporto distanza/vicinanza e sui relativi effetti nelle relazioni
sociali, ciò che importa evidenziare è il ruolo significativo che vicinanza o distanza fisica e psicologica giocano nella definizione delle relazioni sociali.
Sull’influenza della prossimità fisica sulle relazioni sociali Simmel scrive:
“due unioni, tenute insieme in linea di principio dai medesimi
interessi, dalle medesime forze, dai medesimi modi di sentire,
muteranno il loro carattere a seconda che i loro partecipanti siano
in contatto spaziale o separati tra loro; e ciò non soltanto nel
senso ovvio di una differenza delle relazioni complessive – poiché
a quel rapporto se ne aggiungono altri, internamenti dipendenti
da esso e intrecciatisi per effetto della vicinanza corporea – ma
anche nel senso che il primo, sia pure possibile anche a distanza,
viene tuttavia essenzialmente modificato dalle azioni reciproche
fondate sullo spazio” (Simmel, 1989, p. 545, ed. or. 1908).
La distanza fisica, tuttavia, non comporta necessariamente un’assenza di relazioni sociali. Per Simmel, infatti, distanza e vicinanza non hanno un carattere oggettivo ma dipendono dalla percezione, dalla misura della capacità di astrazione
della coscienza.
La coscienza primitiva non è in grado di percepire l’esser parte di un gruppo,
quindi la vicinanza ad esso, oltre lo spazio fisico più prossimo (la famiglia o il vicinato). In una tale condizione vi è completo isomorfismo tra distanza fisica e
distanza psicologica. Quando lo sviluppo psichico è tale da consentire la percezione di una comune appartenenza al di là della prossimità fisica, si perde la corrispondenza tra spazio fisico e spazio simbolico, e potranno esistere relazioni
sociali tra soggetti distanti fisicamente ma vicini interiormente (si pensi all’appartenenza religiosa o a quella politica). Tuttavia, osserva Simmel, per ognuna
delle relazioni sociologiche interessate esiste una “soglia”, ed è solo al di sotto di
essa che la distanza spaziale riesce ad essere superata dalla capacità di astrazione. Superando tale soglia, infatti, la distanza fisica giunge a paralizzare qualsiasi
capacità di astrazione e, con essa, la possibilità di una coesistenza tra distanza
spaziale e vicinanza psicologica e simbolica.
Da quanto detto finora, appare evidente che la possibilità di relazioni sociali a
grande distanza richiede, oltre ad una limitazione spaziale al di sotto della soglia
insita nelle relazioni sociologiche interessate, un certo sviluppo intellettuale4. Le
relazioni sociali a distanza implicano, inoltre, una limitazione delle manifestazioni affettive estreme, laddove, invece, le relazioni che si situano in uno spazio fisico prossimo tendono ad escludere l’indifferenza reciproca e a fondarsi su azioni
“positive” in termini amichevoli oppure ostili. Vedremo in seguito come lo stesso Simmel individui importanti eccezioni a questa generale affermazione, soprattutto per quanto avviene nella vita sociale moderna. Intanto, le osservazioni
sopra esposte sono utili ad introdurre un’altra considerazione espressa dall’autore nella sua sociologia dello spazio: all’interno di uno spazio fisico prossimo Ia
(nel senso simmeliano che riconosce esclusivamente l’esistenza
di uno spazio fisico-territoriale
riempito di significati e contenuti sociali) e rispetto a quella simbolica.
3 Questo esempio permette di
evidenziare un elemento a volte
trascurato nell’analisi del testo
simmeliano, di cui noi non ci
occupiamo direttamente ma che
riteniamo necessario richiamare
all’attenzione: l’influenza che le
variazioni del tempo hanno sui
mutamenti delle relazioni sociali.
In proposito, l’autore osserva
che non solo le distanze spaziali,
ma anche quelle temporali
(spesso combinate con le prime)
hanno un forte peso sulla forma,
i contenuti e l’intensità delle
relazioni sociali tra individui e/o
gruppi.
4 Ricordiamo che nel lessico di
Simmel, alla luce del pensiero
filosofico tedesco ed in particolare di quello kantiano, l’intelletto
rappresenta una facoltà essenzialmente logico-combinatoria,
orientata soprattutto alla calcolabilità
(Jedlowski,
1998).
Torneremo su questo concetto
più avanti.
35
n.23 / 2009
5 Tra gli studi antropologici sul
significato sociale dei sensi si
veda ad esempio Le Breton, D.
(2007), Il sapore del mondo.
Un’antropologia dei sensi,
Cortina Raffaello, Milano, ma
anche Matera, V. (2002),
“Antropologia delle sensazioni”,
in La ricerca folklorica, 45: 7-16.
36
forma delle relazioni è fortemente influenzata dai singoli sensi con cui gli individui si percepiscono ed “esperiscono” reciprocamente.
Nell’elaborazione simmeliana, dunque, l’excursus sulla sociologia dei sensi assume particolare rilevanza per analizzare sociologicamente le interazioni sociali
che si sviluppano in condizioni di prossimità spaziale, vicinanza corporea e sensibile tra i soggetti dell’interazione stessa. Ciò appare vero universalmente: per
quanto, infatti, ogni cultura organizzi diversamente le esperienze dello spazio e
attribuisca significati differenti ai sensi, questi ultimi rappresentano un universale antropologico attraverso cui gli individui di tutte le culture percepiscono la
realtà che li circonda e si relazionano reciprocamente gli uni con gli altri5.
Prima di rivolgere l’attenzione ad un’ulteriore caratteristica dello spazio che
influenza la forma delle relazioni sociali – l’ultima che prendiamo in considerazione nella nostra ricostruzione volta all’individuazione degli elementi e dei
caratteri della distanza sociale secondo Simmel – soffermiamoci brevemente su
alcuni esempi offerti dall’autore ai suoi lettori per evidenziare la differenza
sociologica delle distanze spaziali all’interno di relazioni sociali caratterizzate
da una distanza dall’intimità (ivi. p. 563). Detto altrimenti, Simmel vuole
mostrarci come la distanza/vicinanza interiore tra i soggetti di una relazione
sociale possa tradursi in termini di distribuzione degli stessi nello spazio fisico:
“Dove in un gruppo maggiore si trova una minoranza tenuta
insieme da eguali interessi, fa molta differenza per il suo comportamento nei confronti della totalità il fatto che essa abiti insieme in maniera spazialmente compatta, oppure viva sparsa attraverso il gruppo complessivo o in piccole suddivisioni” (Simmel,
1989, p. 545, ed. or. 1908).
Se il gruppo in minoranza è in posizione difensiva e non ha forze sufficienti per
contrastare il gruppo maggiore, allora sarà utile per il primo disperdersi in più
punti dello spazio. Viceversa, se le forze sono più rilevanti e in grado di resistere all’attacco, la conservazione del gruppo minore sarà favorita dalla massima
concentrazione possibile. Allorché le energie raggiungono il punto che consente di passare all’attacco, il gruppo di minoranza potrà ottenere di più scegliendo
una distribuzione spaziale in più punti che cooperano tra loro anziché modalità
di distribuzione spaziale concentrata.
E’ chiaro che l’esempio fornitoci da Simmel si riferisce ad una relazione sociale
di contrasto/conflitto. Non è detto, comunque, che la distanza psicologica si
esprima sempre in azioni sociali conflittuali di attacco/difesa. Un altro esempio
proposto dall’autore fa riferimento all’effetto della distanza fisica e della distribuzione spaziale dei componenti di un gruppo di minoranza sulla distribuzione
spaziale del potere tra i gruppi:
“Una formazione particolare minore all’interno di un gruppo più
ampio, tenuto insieme da un potere centrale, favorirà nel caso di
compattezza spaziale una forma di governo individualizzante, la
quale concede autonomia alle parti. (…) Ma se questa vive allo stato
disperso, cosicché per essa non si può parlare dello sviluppo indipendente di una potenza immediata, di istituzioni proprie, l’autonomia di sezioni locali dell’insieme sarà per essa priva di valore, perché essa non raggiunge in nessun punto la maggioranza. (…) La
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
distanza locale dei membri li indirizza a un potere centrale, la loro
compattezza li distoglie da questo” (Simmel, 1989, pp. 564-5)
Lo sforzo dell’autore risulta spesso diretto a dimostrare quali sono gli effetti spaziali della distanza sociale psicologica e, viceversa, gli effetti sociali delle configurazioni spaziali, osservabili, in ambo i casi e le direzioni, in termini di variazione delle forme sociologiche e dei destini delle relazioni e dei gruppi sociali.
In questo senso, vanno ancora lette le considerazioni di Simmel sul movimento,
un’ulteriore caratteristica dello spazio che influenza la sociazione.
Il movimento esprime la possibilità di spostarsi da un punto all’altro dello spazio, modificando, di conseguenza, i condizionamenti spaziali che operano sui
gruppi e gli individui. Dal cambiamento di luogo, dalla mobilità fisica, dal fenomeno del migrare possono derivare innumerevoli conseguenze per l’azione reciproca di individui e gruppi, sia nel caso in cui è tutto il gruppo a spostarsi sia
allorché si muovono solo alcuni dei suoi elementi. Il nomadismo, i fenomeni
migratori, ma anche i semplici cambi di residenza (per i più disparati motivi)
comportano uno spostamento da un punto all’altro dello spazio e una modifica
delle cerchie relazionali sia dei soggetti che si spostano che di quelli che rimangono fermi. Questa caratteristica dello spazio ci offre l’occasione per sottolineare la mutevolezza della distanza, ovvero la dinamicità connessa a questo concetto. Le distanze sociali, sia fisiche che psicologiche, non sono statiche, non sono
date una volta per tutte, ma si modificano, si accorciano o si allungano, per effetto di azioni volontarie o involontarie, per scelta o per necessità, attraverso cambiamenti radicali o per piccoli gradi, repentinamente o in tempi più lunghi. Le
combinazioni possibili sono molteplici, così come molteplici sono le conseguenze in termini di intreccio e forme delle relazioni sociali, e di effetti sulla differenziazione dei contenuti dell’esistenza personale e di quella sociale.
E’ in questa parte della sua riflessione teorica che Simmel colloca l’excursus sullo
straniero, uno dei tipi sociali6 considerati dall’autore per le particolari forme di
azioni reciproche a cui dà luogo, e su cui quanti studiano il contributo simmeliano
sulla distanza sociale tendono a concentrare l’attenzione.
Lo straniero non è uno sconosciuto, un vagabondo o l’altro indifferente (il viandante), ma un elemento del gruppo, con cui si condivide lo spazio, che però non
appartiene ad esso sin dall’inizio. Questa non-appartenenza iniziale fa dello straniero un soggetto vicino e lontano allo stesso tempo: vicino spazialmente, e lontano nella sua determinatezza sociale e culturale (Dal Lago, 1994). La combinazione di vicinanza e lontananza assume nella figura dello straniero una particolare costellazione che Simmel sintetizza così:
“la distanza nel rapporto significa che il soggetto vicino è lontano,
mentre l’essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino” (Simmel, 1989, p. 580, ed. or. 1908).
Viene qui sottolineata, ancora una volta e con particolare forza esplicativa, la dualità delle componenti della distanza sociale: la distanza nello spazio fisico-geometrico e la distanza nello spazio interiore. Ma vi è un altro elemento che avevamo già incontrato nella nostra analisi, in particolare nella parte relativa ai confini
sociali: l’esser parte o meno di un gruppo sociale come fattore discriminante per
la determinazione della distanza sociale simbolica. Quale sia poi il tipo di appartenenza che unisce un gruppo al suo interno – per l’estensione e la qualità degli
6 Sul significato della costruzione dei tipi sociali per Simmel si
veda Coser (1997).
37
n.23 / 2009
7 Si veda, per esempio, il già citato contributo di Introini (2007),
che rappresenta uno sforzo
innovativo di lettura e rielaborazione teorica del concetto di
distanza sociale alla luce dei
fenomeni sociali prevalenti nelle
società contemporanee. Lo stesso Introini è co-autore, insieme a
Fabio Lo Verde, del capitolo
dedicato alla ricostruzione teorica della categoria di distanza
sociale nel testo che presenta i
risultati della ricerca nazionale
sulla distanza sociale in alcune
aree urbane in Italia, curato da
Vincenzo Cesareo (2007b).
38
elementi in comune – e che lo separa dall’esterno – per le differenze ritenute
rilevanti – è da verificarsi in ogni singola realtà sociale considerata.
In parte collegate a tali affermazioni sembrano le letture di alcuni autori7 secondo
cui, con l’excursus sullo straniero, Simmel toccherebbe il problema della tipizzazione o categorizzazione come attività intrinseche di ogni individuo o gruppo
sociale atte a rafforzarne l’identità. Prima che un tipo sociale dotato di caratteristiche oggettive, lo straniero sarebbe, dunque, un essere liminale, una categoria
cognitiva (Introini e Lo Verde, 2007).
A questo punto della trattazione, Simmel inverte l’ordine dei fattori: se fino a
questo momento aveva preso in considerazione gli effetti degli ordinamenti e
delle configurazioni spaziali sulla sociazione umana, volge ora l’attenzione, seppure più concisamente, al modo in cui le energie sociali influenzano le determinazioni spaziali di un gruppo.
È così che l’autore, nel passaggio da un’organizzazione sociale fondata sulla
parentela di sangue o su legami tribali ad organizzazioni sociali meccaniche e
razionali, come quelle di tipo politico o economico, riconosce un effetto di spazializzazione (quindi di costruzione di distanze e vicinanze) ed un principio di
suddivisione del gruppo su base territoriale. Infatti:
“La connessione parentale è, nel suo motivo, completamente
sovra-spaziale, ha perciò qualcosa di incomprensibile per l’unità
statale fondata territorialmente. L’interesse dell’unità statale
richiede (…) che i suoi sotto-gruppi, nella misura in cui sono
attivi politicamente, siano costituiti in base a un principio indifferente [la comunione dello spazio], che proprio perciò è meno
esclusivo di quello parentale. (…) Ma non è soltanto l’organizzazione politica, bensì anche l’organizzazione economica quella il
cui perfezionamento tende spesso a suddivisioni secondo i principi spaziali” (Simmel, 1989, p. 586, ed. or. 1908).
Anche l’esercizio del potere sugli uomini con le sue formazioni specifiche sfocia
in un’espressione spaziale, cioè si manifesta ed è visibile spazialmente, suggestione questa che lascia intendere come Simmel riconosca alla politica, così
come alle istituzioni sociali che fondano relazioni di potere, la capacità di generare ex novo oppure modificare e/o riprodurre le distanze sociali:
“Nella maniera in cui lo spazio viene riassunto o distribuito, in cui
i punti spaziali si fissano o si spostano, le forme sociologiche di
relazione del potere si coagulano quasi in configurazioni possibili” (Simmel, 1989, p. 590).
E ancora, determinate relazioni sociali si differenziano da altre anche in virtù di
una loro fissazione in un luogo dello spazio: la famiglia, l’università, il sindacato,
la comunità religiosa hanno i propri luoghi stabili rispetto a relazioni in qualche
misura libere, come l’amicizia e tutte quelle associazioni che consistono nella
semplice coscienza di avere “convinzioni comuni e aspirazioni parallele”. La
“casa” della comunità – per usare le parole di Simmel – è quel luogo che ne
esprime spazialmente le energie sociali.
L’ultimo aspetto della sociologia dello spazio preso in considerazione dal nostro
autore è lo spazio vuoto, espressione di particolari tipi di interazione sociale. Così
lo spazio vuoto può significare “terra di nessuno” nei rapporti tra vicini antagoni-
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
sti, o zona neutrale in cui ha luogo lo scambio economico in società primitive.
Fin qui la ricca elaborazione simmeliana sulla distanza sociale situata nell’analisi
che l’autore compie dello spazio e degli ordinamenti spaziali.
Come è evidente, i numerosi richiami e collegamenti, accanto alle trattazioni più
esplicite del tema all’interno di questa parte della Sociologia, ci restituiscono
l’immagine di una categoria concettuale dalle molteplici sfaccettature, alcune
delle quali sono analizzate e approfondite dall’autore anche altrove.
La formulazione simmeliana (2). Distanza sociale e teoria sociale della
modernità
Il tema della distanza sociale, oltre che nella sociologia dello spazio, è trattato da
Simmel in uno dei suoi saggi più famosi, Le metropoli e la vita dello spirito
(1903), che rappresenta, come noto, una sintesi delle concezioni già espresse
nella Filosofia del denaro (1900) sull’esperienza di vita nella modernità.
Non nuoce ricordare come, per Simmel, il luogo dove si concentrano e potenziano reciprocamente tutte le tendenze della modernità è la metropoli. La vita
nella metropoli ha come principale caratteristica l’intensificazione della vita nervosa e il corrispondente intellettualismo della coscienza, ovvero lo sviluppo di un
atteggiamento strumentale e calcolistico sia nelle relazioni con le persone sia
nella vita in generale (Jedlowski, 1995).
Le tendenze intellettuali della vita moderna sono, nel pensiero simmeliano, conseguenza di quella rapida successione e fitta concentrazione di stimoli nervosi,
prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori ed interiori nella mente dell’individuo metropolitano. A questa intensificazione degli stimoli nervosi l’uomo metropolitano reagisce con l’intelletto, che corrisponde alla
parte meno profonda della nostra personalità, la “più adattabile” ai cambiamenti, la quale
“non richiede quegli stravolgimenti e quei drammi interiori che la
sentimentalità, a causa della sua natura conservatrice, richiederebbe necessariamente per adattarsi ad un ritmo analogo di esperienze” (Simmel, 1995, p. 37, ed. or. 1903).
Simmel stabilisce anche una corrispondenza tra l’intellettualismo della vita
moderna e i caratteri dell’economia monetaria, in cui il denaro, come una metafora, rappresenta e al tempo stesso governa la cultura moderna. Esso, infatti, trasferendo i suoi caratteri di astrattezza (universalità, mancanza di qualità intrinseche, impersonalità, ecc.) a tutta l’esperienza della vita moderna, trasforma le relazioni tra oggetti (e tra uomini e oggetti, e tra uomini e uomini) in relazioni astratte, affermando il prevalere dell’agire strategico-strumentale nelle condotte di vita
della modernità.
Il denaro assume, dunque, un significato metaforico e risulta essere allo stesso
tempo agente, prodotto e simbolo della grande trasformazione che porta verso
la modernità.
È interessante osservare come nel denaro (e nella vita moderna) Simmel legga
una fondamentale ambivalenza dovuta alla “tendenza al superamento della
distanza, ma anche al suo aumento, in funzione protettiva, di compensazione alla
eccessiva vicinanza e agli attriti della vita civile” (Simmel, 1984, p. 37). Tale ambivalenza, che è il risultato del dominio dell’intellettualità e dei suoi effetti sui rap-
39
n.23 / 2009
8 In Filosofia del denaro Simmel
ribadisce come distanziamento e
avvicinamento sono concetti
reciproci, nel senso che uno presuppone l’altro. “Lontananza” e
“vicinanza” sono intesi come i
due lati del rapporto non solo tra
individui e/o gruppi sociali, ma
anche tra questi e le cose. In
quest’ultimo caso “lontananza” e
“vicinanza” sono legate al “desiderio” da un punto di vista soggettivo, e al “valore” da un punto
di vista oggettivo. Il desiderio di
un oggetto distante rappresenta
il primo passo verso l’avvicinamento. Tuttavia, il desiderio si
forma solo quando un oggetto è
distante da noi ma allo stesso
tempo vicino abbastanza da
poterne percepire la distanza. La
percezione della distanza/vicinanza, dunque, può avvenire
solo quando lo sviluppo della
coscienza è tale da consentire
una buona capacità di astrazione. La distanza percepita, inoltre,
ha un carattere soggettivo, è,
cioè legata al tipo di percezione
che il soggetto ha degli oggetti
del suo desiderio. Tuttavia, allorché bisogna fare i conti con le
condizioni per le acquisizioni
dell’oggetto desiderato, cioè nel
momento in cui un contenuto
viene valutato, la distanza diventa oggettiva, ovvero determinata
dalla presenza concreta di ostacoli e di lotte necessarie, di guadagni e di perdite, di giudizi
comparativi e di prezzi.
Nell’ambito dell’economia è nel
momento dello scambio che
l’oggetto supera il proprio significato di valore puramente soggettivo. E’ in questo stesso
momento che la distanza sogget-
40
porti di vicinanza/distanza all’interno della società moderna, può essere sintetizzata come segue.
Da un lato, così come osservavamo in precedenza, lo sviluppo in senso intellettuale della coscienza, nella misura della sua maggiore capacità di astrazione, consente all’uomo moderno la possibilità di costruire relazioni sociali in assenza di
prossimità fisica, superando in tal modo gli ostacoli posti dalla distanza fisica. Il
processo di modernizzazione e di differenziazione, infatti, aumenta enormemente le determinazioni positive di vicinanza o lontananza. Per l’uomo primitivo oggetti, persone, processi che distano da lui centinaia o migliaia di miglia non
esistono neppure. Per l’uomo moderno, invece, la quantità di cose che avvicina
a sé, “idealmente con il desiderio e realmente con il sacrificio lavorativo” 8, è infinitamente maggiore. Esiste cioè una percezione delle distanze che l’uomo primitivo non era in grado di determinare:
“Quanto più primitiva è la coscienza, tanto più essa è incapace di
rappresentarsi la comune appartenenza di ciò che è spazialmente separato o l’assenza di comune appartenenza da ciò che è spazialmente vicino. (…), [nella metropoli] con la complicazione e
confusione del quadro di vita esteriore ci si abitua a continue
astrazioni, all’indifferenza verso ciò che è spazialmente più vicino
e a una stretta relazione con ciò che è spazialmente lontano”
(Simmel, 1989, pp. 546-7, ed. or. 1908).
Spingendoci oltre, con la sociologia dei sensi Simmel ci mostra che la prossimità fisica tende generalmente a dar vita a rapporti “positivi” in termini amichevoli
o ostili, escludendo l’indifferenza reciproca. Nella vita moderna tale affermazione non è necessariamente vera, ed è in ciò che si esprime il secondo termine dell’ambivalenza della distanza sociale nella vita moderna.
È certo, infatti, che la prossimità spaziale comporta un certo grado di variazione
nelle forme, nel contenuto e nell’intensità delle relazioni sociali, ma l’intellettualismo dominante tende ad abbassare gli estremi affettivi e a generare contemporaneamente la possibilità dell’indifferenza come mezzo per mantenere la distanza
sociale e preservare il sé individuale aggredito dall’intensificazione degli stimoli
nervosi e dei contatti nella vita della grande città, rendendo possibile, in tal modo,
la coesistenza tra vicinanza fisica e distanza interiore. Scrive in proposito l’autore:
“da un lato ad uno stadio di cultura molto elevato, dall’altro nella
grande città moderna può esserci, con la più stretta vicinanza di
pianerottolo, una completa indifferenza e l’esclusione di ogni
reazione affettiva reciproca. Nel primo caso ciò avviene perché
l’intellettualità preponderante abbassa le reazioni impulsive agli
– per così dire – stimoli del contatto, nel secondo perché i contatti incessanti con innumerevoli persone provocano il medesimo effetto di ottundimento: qui l’indifferenza verso chi è spazialmente vicino costituisce semplicemente un dispositivo di protezione, senza di cui la grande città provocherebbe un’usura e una
dispersione psichica” (ivi. p. 549).
La fine dell’isomorfismo tra distanza fisica e distanza psicologica nella società
moderna, quindi, è segnata dalla possibilità (e dalla necessità) di una maggiore
astrazione dalle relazioni più prossime spazialmente, così come dall’individua-
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
zione di principi di appartenenza che vanno oltre l’elemento territoriale. Ciò è
consentito anche da un altro elemento individuato da Simmel, già presente nella
sua prima opera9: l’aumento della differenziazione sociale. Quanto più, infatti, la
cerchia sociale di un soggetto si allarga, diventando più numerosa e differenziata al suo interno, tanto più cresce l’autonomia del soggetto.
La metropoli è il luogo della massima differenziazione e della massima libertà
individuale. Allo stesso tempo, però, essa è anche il luogo della “tragedia della
modernità”, il luogo, cioè, in cui si manifesta una crescente divaricazione tra i
contenuti dello spirito oggettivo e quelli dello spirito soggettivo10, creando le
condizioni della dipendenza del singolo da un mondo di istituzioni, tecniche ed
apparati che lo sovrasta.
La reazione all’estrema oggettivazione della cultura, la lotta dell’individuo contro
il livellamento, per conservare l’autonomia e l’originalità della sua esistenza contro le forze sociali soverchianti, può, per altro verso tradursi nella ricerca di elementi di distinzione. Questo ulteriore spunto tratto dalle riflessioni teoriche simmeliane conduce alla segnalazione di comportamenti e pratiche sociali (di
distanziamento sociale “agito”) messe in atto da individui e gruppi al fine di contrastare le tendenze all’omologazione sociale. In tal senso, la distanza sociale si
lega agli stili di vita e alla comprensione dei fenomeni di consumo, studiati da
Simmel soprattutto all’interno del saggio risalente al 1895 su La moda (cfr.
Simmel, 1976) nel quale l’autore sottolinea il continuo confronto che si manifesta nell’animo umano tra due spinte contrapposte: una che ricerca l’imitazione
(o uguaglianza) e l’altra che muove verso la differenziazione (o mutamento). Un
ulteriore ambito della vita moderna, dunque, in cui la distanza sociale ha possibilità di esprimersi in maniera pragmatica in diverse direzioni e secondo più
significati sociali, in cui si combinano in vario modo tutti gli elementi della complessa categoria sociologica elaborata da Simmel.
tiva diventa oggettiva. Per
Simmel, infatti “la forma tecnica
della circolazione economica
crea un regno di valori che è in
modo più o meno completo
staccato dalla sua sotto-struttura
soggettivo-personale” (Simmel,
1984, p. 121). Invero, in un’economia completamente sviluppata gli oggetti circolano secondo
norme e misure che si pongono
di fronte all’individuo come un
“regno oggettivo”.
9 Si tratta del primo scritto sociologico dell’autore: La differenziazione sociale (1890).
10 “Lo “spirito oggettivo” è la
cultura oggettivata nei prodotti
dell’uomo: la cultura depositata
nelle enciclopedie e negli innumerevoli volumi delle nostre
biblioteche, ma anche quella che
è incorporata nelle realizzazioni
della tecnica, nella rete elettrica
(…) o nei meccanismi del computer. Lo spirito soggettivo si
manifesta viceversa nella cultura
di un uomo (o di una donna):
ciò che questi sa per averlo
imparato, per averlo vissuto, o
per averlo elaborato personalmente” (Jedlowski, 1995, p. 23).
Considerazioni conclusive. La distanza sociale “ieri”, “oggi” e “domani?”
Nel concludere un lavoro che ha tentato di ricostruire il concetto originario di
distanza sociale attingendo direttamente ai testi simmeliani, vorremmo sintetizzare schematicamente gli elementi emersi, esplicitando, in prima battuta, la
nostra sensazione che la lettura e l’analisi della produzione teorica dell’autore,
compiuta in tempi successivi e per ragioni diverse, offre continuamente suggerimenti per nuove riflessioni, utili a interpretare molti dei fenomeni sociali in atto.
Non ci sorprenderebbe, dunque, se gli studiosi di domani attingessero alle elaborazioni di Simmel ritrovando in esse nuova linfa e indicazioni utili alla comprensione delle società a loro contemporanee.
Ecco, dunque, alcune considerazioni sintetiche che vogliono rappresentare più
che una nota conclusiva sulla distanza sociale, uno stimolo al lavoro sociologico
che tenga in dovuto conto le suggestioni provenienti dall’acuta analisi simmeliana sulla realtà sociale e sui fenomeni legati alla distanza/vicinanza ma che, allo
stesso tempo, sappia render conto delle “mancanze” che alcuni autori rilevano
nella formulazione che Simmel offre del concetto in esame.
In maniera molto chiara lungo tutta la costruzione simmeliana, la distanza sociale appare costituita da e legata ad alcuni fattori fondamentali:
- la dualità dello spazio – il primo variamente denominato come “fisico”, “geo-
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n.23 / 2009
grafico”, “geometrico”, “territoriale”, e il secondo riferito come “simbolico”, “psicologico”, “metaforico”, “interno” o “interiore” – da cui deriva la dualità della
distanza sociale, a seconda dello spazio in cui essa si costruisce e si modifica;
- la relazione di reciprocità e co-produzione che lega le due componenti dello
spazio e della distanza sociale;
- la soggettività e arbitrarietà della costruzione della distanza/vicinanza che si
basa, tuttavia, su differenze (ritenute) oggettive e valutate positivamente o negativamente da individui e gruppi sociali;
- la “pragmaticità” della distanza sociale (Introini, 2007; Introini e Lo Verde,
2007), ossia la sua espressione in termini di costruzione, mantenimento o mutamento delle relazioni sociali tra individui e/o gruppi sociali, così come in termini di distribuzione territoriale di individui e gruppi, ovvero di organizzazione
sociale dello spazio fisico-geografico;
- la pluriformità e multivalenza della distanza sociale a partire dalla modernità,
dovuta alla molteplicità delle combinazioni possibili tra le sue componenti che
non necessariamente seguono la stessa direzione (non c’è isomorfismo tra geometrie fisiche e geometrie sociali, così come viene facilmente meno la sovrapposizione tra distanza fisica e distanza psicologica);
- la dinamicità della distanza sociale connessa alla mutevolezza dei suoi contenuti
psichici, territoriali e sociali.
L’astrazione di questi caratteri generali dall’elaborazione teorica simmeliana,
come dicevamo, non solo consente di ricostruire l’originario significato della
distanza sociale, ma offre innumerevoli spunti di riflessione sull’attualità del concetto e sull’utilità del suo impiego per la comprensione di fenomeni sociali che
si presentano in diversi ambiti della vita sociale contemporanea.
Ci riferiamo, in via esclusivamente esemplificativa e non esaustiva, agli effetti
della ristrutturazione spazio-tempo generati dalla globalizzazione, che hanno
avviato un complesso processo di despazializzazione e rispazializzazione, ridisegnando gli spazi della vita sociale del nostro tempo (Harvey, 1993; Giaccardi e
Magatti, 2003; Magatti 2004) e rendendo estremamente mutevoli e varie le manifestazioni della distanza sociale.
Così, la logica dell’aspazialità (Magatti, 2006), che trova piena espressione nel
mercato globale o nella comunicazione in rete (internet), vede l’insorgere di
dinamiche sociali che riducono la loro dipendenza dallo spazio geografico e dai
legami col territorio, sancendo la fine dell’isomorfismo tra spazio fisico e spazio
sociale che già Simmel evidenziava come un carattere della modernità, e spingendo addirittura alcuni autori a proclamare l’annullamento della distanza (fisica) e la fine della sua rilevanza per la vicinanza psicologica e relazionale
(Bauman, 2000). Verrebbero meno o si ridurrebbero fortemente, in tal caso,
anche i fenomeni di “soglia” indicati da Simmel come i limiti oltre i quali la capacità di astrazione della coscienza non è in grado di concepire la vicinanza interiore (e relazionale) al di là di quella fisica.
Accanto all’aspazialità, anche la reticolarità della rispazializzazione contemporanea contribuisce a ridefinire le forme concrete assunte dalla distanza sociale
(Magatti, 2006). Le odierne possibilità di connessione e mobilità, sia fisica che
simbolica, ridisegnano in maniera dinamica nuovi assetti sociali e configurazioni
spaziali secondo forme e direzioni stabilite da flussi (“sequenze di scambio e
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Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
interazione che sono ripetitive, intenzionali e programmabili tra posizioni fisicamente distinte tenute dagli attori sociali nei diversi contesti della vita sociale”;
Urry, cit. in Magatti, 2006, p. 302) e network, termine con il quale si indica un
insieme di nodi interconnessi tali per cui “la distanza (intesa come intensità e frequenza dell’interazione) tra due punti (o posizioni sociali) è più breve (o più
intensa o frequente) se entrambi i punti appartengono allo stesso network”
(Castells, cit. in Magatti, 2006, p. 302).
Le dinamiche dei flussi e dei network sono spesso complesse e contraddittorie,
e non seguono una logica unificante della rispazializzazione cosicché non di rado
si creano delle disgiunture, all’origine di molti dei conflitti contemporanei
(Appadurai, 2001). In termini di distanza sociale, tali fratture si evidenziano allorché l’ambiente sociale risulta meno omogeneo e integrato rispetto al passato.
Ricordiamo, infatti, che alla base della distanza sociale soggettiva definita da
Simmel si situano le differenze sociali, che risultano essere estremamente accentuate nel mondo contemporaneo. La ridefinizione dei confini sociali tra individui
e gruppi che si ritrovano spesso a condividere uno spazio geografico comune
(ad esempio nelle metropoli contemporanee), inoltre, pone in continua questione i temi dell’inclusione/esclusione sociale e della distanza/vicinanza interiore espressa in termini relazionali11 così come in termini di organizzazione e distribuzione spaziale. Non sono pochi oggi gli esempi di manifestazioni estreme di
“separazione” e affermazione della distanza sociale che si esprimono sia in senso
psicologico (la xenofobia), sia in senso relazionale (gli episodi di intolleranza e
di razzismo, le ronde e le spedizioni punitive) sia, ancora, in senso fisico (i vari
“muri” che separano il “dentro” e il “fuori”. Si pensi, ad esempio, al muro tra gli
USA e il Messico, una barriera di acciaio alta tre metri, disseminata di telecamere e sensori e controllata dalla forza pubblica statunitense insieme a numerosi
cittadini volontari, voluta dalla presidenza Clinton per bloccare l’immigrazione
clandestina. Un esempio più “vicino” a noi è invece quello di Padova in cui nel
2006 si decise per la recinzione di un’area della città, situata nella prima periferia, per questioni di “ordine pubblico” ).
Questi sono solo pochi dei possibili percorsi di analisi che la categoria sociologica di distanza sociale elaborata da Simmel consente.
Ma veniamo agli aspetti “problematici” della formulazione simmeliana, per capire in che modo affrontare e precisare il tema della distanza sociale.
È noto che la sociologia formale di Simmel sia stata oggetto di critiche provenienti da più parti del panorama sociologico italiano e internazionale. Essa, infatti, mira all’individuazione delle forme pure dell’associazione e dedica minore
attenzione al ruolo delle istituzioni (ad esempio la religione, l’educazione o lo
Stato) in cui l’individuo si trova a vivere ed operare, seppure nella sua
Sociologia, così come in tutta la sua produzione teorica, l’autore non manchi di
interessanti considerazioni anche su questi aspetti. Alcuni autori hanno, così,
rilevato una inadeguata considerazione delle dimensioni strutturali e storiche in
cui si svolgono la vita e l’interazione sociale, ed hanno evidenziato il rischio di
escludere in questo modo dall’analisi le condizioni sociali e materiali di esistenza dei diversi attori sociali (Bagnasco e Negri, 1994). Non a caso, nel parlare di
entità sovra-individuali, Simmel non si riferisce a ceti e classi (la cui esistenza certamente non ignora) ma genericamente a gruppi sociali distinguibili non per il
11 La distanza psicologica tra
gruppi etnici differenti è l’oggetto
di studio principale di Robert
Park ed Emory Bogardus. Il primo
offre una definizione di distanza
sociale che ricalca dichiaratamente quella di pregiudizio (Park,
1924). Il secondo, invece, è noto
per aver elaborato il primo strumento di misurazione della
distanza sociale (Bogardus,1933),
una scala che misura il grado di
simpatia, o di apertura/chiusura,
che un individuo appartenente a
un gruppo sociale sente nei confronti di un altro appartenente a
un gruppo sociale diverso.
Costruita intorno alle categorie di
accettazione/rifiuto, anche la
scala di Bogardus si concentra
sullo studio delle relazioni interetniche e assimila la distanza
sociale al pregiudizio. Da notare è
che nella rielaborazione che i due
esponenti della Scuola di Chicago
compiono del concetto simmeliano di distanza sociale viene attribuita una scarsa o parziale rilevanza alle sue dimensioni fisiche,
che sono invece fondamentali e
imprescindibili nella definizione
della categoria costruita da
Simmel.
43
n.23 / 2009
contenuto specifico delle relazioni esistenti al loro interno ma esclusivamente
per i loro caratteri formali (dimensione, dinamiche di interazione, ecc.). In realtà, se prendiamo in considerazione la classe sociale o lo strato sociale di cui fa
parte un individuo, con le risorse e i vincoli che ne derivano, non possiamo non
riconoscere quanto questi fattori incidano sulle sue possibilità concrete di vita,
sugli stimoli che egli riceve così come sulle sue reazioni alla condizione di vita
moderna. Alcuni meccanismi di difesa tipici dell’uomo moderno, per esempio,
hanno più probabilità di essere utilizzati dagli strati sociali che, per la posizione
sociale particolarmente sicura in cui si ritrovano, possono permettersi questa
risposta (Smith, 1989). Le generalizzazioni simmeliane sulla vita nella metropoli
(e sulla vita moderna in generale) sembrano allora funzionare meglio nell’ambito
della specifica realtà storica e sociale osservata dall’autore, ossia nell’ambiente
sociale urbano delle capitali, in cui sono analizzati soprattutto le categorie di “alto
status” o al massimo le classi medie in crescita, composte più da consumatori che
da produttori (Bagnasco e Negri, 1994).
Queste osservazioni critiche sulla sociologia di Simmel sono state riportate soprattutto per mostrare come “gli strumenti analitici di questo autore, pur così sottili e
capaci di penetrazione su aspetti inconsueti, non consentono un’analisi differenziale della struttura sociale per aspetti cruciali” (Bagnasco e Negri, 1994, p. 29).
Con argomenti solo in parte simili, Sorokin (1965) avanzava una critica esplicita
al concetto di distanza sociale di tipo “soggettivo”, al quale egli contrapponeva
una definizione di tipo “oggettivo”, secondo cui la distanza sociale consisterebbe nella differenza, ossia nell’intervallo che separa due o più soggetti che occupano una posizione sociale diversa nello spazio sociale. Il termine “spazio sociale” è usato dall’autore per indicare la popolazione umana, la società nel suo complesso. Esso si distingue dallo spazio fisico o geometrico, il quale rappresenta l’universo in cui sono collocati i fenomeni fisici. Semplificando al massimo, tutte le
dimensioni dello spazio sociale sono riassumibili per Sorokin in due classi principali, la dimensione verticale e la dimensione orizzontale, al loro interno ulteriormente differenziate. La dimensione verticale dello spazio sociale è quella in
cui gli individui e i gruppi sono posizionati secondo criteri gerarchici (es. la stratificazione occupazionale), mentre la dimensione orizzontale è quella in cui le
differenze tra gli individui si collocano all’interno dello stesso strato sociale.
Con specificazioni ulteriori, ma sostanzialmente sulla stessa scia, è situata anche
la definizione fornitaci da Bourdieu, la cui produzione teorica, in continua connessione con le attività di ricerca empirica, rappresenta uno dei contributi più
interessanti ed originali della sociologia contemporanea (Marsiglia, 2002). Per
Bourdieu, il mondo sociale è il luogo di una differenziazione sociale progressiva;
per tale ragione, lo spazio sociale complessivo è costituito da un insieme multidimensionale di spazi specifici, di ambiti o universi di relazioni (i noti campi), al
cui interno gli attori sociali interagiscono in funzione della posizione che occupano e delle risorse specifiche che caratterizzano il campo stesso (capitale). Così
come per Sorokin, anche per Bourdieu la distanza sociale coincide con la differenza sociale, cioè è la misura dello scarto tra le posizioni che gli agenti sociali
occupano in ciascun campo e nello spazio sociale complessivo, posizioni che per
questo autore sono determinate dalla combinazione del capitale economico e
culturale posseduto dai singoli attori, dato che le risorse più importanti nelle
44
Emanuela Pascuzzi
La distanza sociale nella sociologia formale di Georg Simmel
società occidentali sono generalmente di tipo economico e di tipo culturale. Le
azioni che si svolgono in ciascun campo dello spazio sociale determinano le dinamiche di distanziamento e avvicinamento sociale. L’agire pratico degli agenti
viene generato, secondo questo autore, dagli habitus, ossia un insieme di disposizioni a percepire, pensare e ad agire che si è andato incorporando nell’agente sociale attraverso la socializzazione, e che si rafforza o modifica attraverso
le sue esperienze di vita. La nozione di habitus è fondamentale nella sociologia
di Bourdieu, perché permette una mediazione tra spazio sociale oggettivo e
mondo sociale soggettivo e fornisce una spiegazione del come sia possibile che
l’azione sociale, o meglio l’agire pratico dell’individuo, segua delle modalità
ricorrenti e regolari senza essere totalmente né il prodotto dell’obbedienza a
regole o norme (come vorrebbe lo strutturalismo) né il risultato di un’irriducibile intenzionalità soggettiva (come vorrebbero i sostenitori delle teorie soggettiviste). L’habitus funziona come principio cognitivo, cioè consente agli agenti di
conoscere praticamente il mondo e di agire in esso mettendo in atto le pratiche.
Tuttavia, tali pratiche non obbediscono a regole fisse ma si adeguano alle condizioni contingenti. Un’altra parte fondamentale della sociologia di Bourdieu significativa per rilevare alcuni aspetti della distanza sociale secondo questo autore è
la teoria delle classi. Sintetizzando al massimo, le classi, per Bourdieu, sono definibili empiricamente a partire da sistemi di proprietà differenti, materiali (di condizione), relazionali (di posizione) e simboliche (di distinzione). La situazione del
singolo agente o di un gruppo di agenti nella struttura di classe dipende dalla condizione di classe e dalla posizione di classe, e si manifesta nelle distinzioni simboliche collegate. È questa idea che sta alla base de “La distinzione”, lo studio
empirico sulle differenze di gusti e di stili di vita tra le classi sociali della Francia
degli anni Settanta del XX sec.
Il lavoro di Bourdieu rappresenta senza alcun dubbio uno spartiacque nello studio della distanza nello spazio sociale. Il merito della sua elaborazione sta nell’aver offerto un’interpretazione della distanza sociale che risulta essere estremamente originale, e che offre una chiave di lettura di questo fenomeno in grado
di comprendere e integrare sia le sue componenti oggettive che quelle soggettive, sia i suoi aspetti statici che quelli dinamici, sia le sue dimensioni intenzionali
che quelle inconsapevoli e inconsce.
La scelta di concludere la nostra esposizione riportando i contenuti sintetici del contributo di Bourdieu allo studio della distanza sociale – il quale peraltro non è il solo
tra gli studiosi contemporanei ad occuparsi di questo fenomeno12 – non è casuale.
Riteniamo utile, infatti, il tentativo di questo autore di superare la contrapposizione tra “soggetto” e “oggetto” e di dirigere gli sforzi di riflessione intellettuale
e di verifica empirica verso l’integrazione dei diversi piani della distanza sociale.
D’altro canto, venga o meno nominata come “distanza sociale” e distinta come
“oggettiva”, la matrice di ogni tipo o forma di distanza sociale, il suo riferimento
imprescindibile, è, in maniera largamente condivisa, alle differenze sociali ed ai
processi che le generano, le modificano e/o le riproducono. È pur vero, tuttavia,
che la riduzione della distanza sociale alla sola dimensione oggettiva non apporterebbe benefici rilevanti al tentativo di rielaborazione concettuale della sociologia contemporanea, incrociando e sovrapponendosi ad ambiti di analisi già
ampiamente percorsi da altre categorie sociologiche, ben più solide e meno con-
12 Segnaliamo, senza entrare nel
dettaglio degli studi presentati,
anche i lavori di Prandy e
Bottero (2003), nel Cambridge
Stratification Group , i quali collegano la distanza sociale nelle
relazioni e la teoria delle classi e
della stratificazione sociale.
L’approccio proposto dai due
studiosi utilizza i modelli di interazione sociale per ricostruire le
strutture dentro le quali si muovono gli individui. In esso, l’at-
45
n.23 / 2009
tenzione viene focalizzata sul
modo in cui gerarchie e disuguaglianze si riproducono in forma
routinaria nelle interazioni sociali, sebbene venga riconosciuto
dagli stessi autori che la distanza
sociale sia il prodotto di una
varietà di processi economici,
sociali e culturali. Le differenze
materiali, culturali e sociali dei
diversi attori e gruppi sociali si
riflettono nella distanza relazionale; tuttavia, tale distanza, pur
essendone influenzata, non è
pienamente riconducibile a nessuna di queste differenze. Vanno
citati, infine, anche gli studi di
Jon Hess (2003) sulle strategie e
sulle tattiche (comunicative)
usate dagli individui per mantenere le distanze nelle interazioni.
46
troverse di quella di distanza sociale (ci riferiamo, ad esempio, al tema della stratificazione e delle disuguaglianze sociali). È così che si ritorna alla formulazione
originaria di questo concetto che, seppure seguita da altri tentativi di definizione e inquadramento teorico ed empirico che ne arricchiscono in via potenziale
la significatività e la portata euristica, rappresenta ancora oggi l’elaborazione più
interessante ed indispensabile per qualsiasi lavoro sociologico che intenda utilizzare la categoria di distanza sociale, indagandone contenuti ed espressioni
nella fenomenologia della vita sociale.
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n.23 / 2009
48
Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano.
Il “caso Malpensa” sotto il profilo dei
dispositivi di regolazione dell’inquinamento
acustico e del sistema aeroportuale regionale.
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1. Una breve cronistoria di un biennio cruciale per un problema al centro di diverse politiche
Si tenterà qui di seguito di sviluppare alcuni brevi cenni in ordine ad un problema particolare riguardante l’ambito tematico relativo al rapporto tra aeroporti e
tutela ambientale (Camarda 2002, pp. 281-311): il problema dell’inquinamento
acustico prodotto dalla navigazione aerea (Grigoli 2002, pp. 313-325), specificamente correlato al “caso Malpensa”. Si tratta di un caso emblematico per l’intreccio, altamente complesso, di misure provvedimentali di contrasto all’inquinamento acustico messe in opera, di politiche trasportistiche prospettate nel settore del traffico aereo e di politiche di pianificazione territoriale predisposte nell’area nella quale insiste il grande scalo lombardo.
Questo grumo di aree di intervento è stato oggetto di una ricerca conclusasi nel
dicembre del 2000 (Piazza 2000), con l’intendimento di attivare un prosieguo
successivo, in grado, almeno tentativamente, di prendere in considerazione casi
analoghi in diversi Paesi dell’UE sia sotto il profilo giuridico (segnatamente connessi al diritto comparato dell’ambiente e al diritto comparato della navigazione
aerea), sia sotto il profilo delle politiche ambientali di contrasto all’inquinamento
acustico in sede aeroportuale.
Appare opportuno, per poter dare conto della significatività del contesto storico
nel quale è venuto ad emersione con maggior virulenza il dibattito sulla ecocompatibilità acustica dell’aeroporto di Malpensa come problema di policy, tracciare un quadro sinteticamente riepilogativo delle vicende di carattere politico,
istituzionale, trasportistico, ambientale, economico, ma anche, lato sensu, sociale che hanno segnato e contraddistinto il “caso Malpensa” in un arco temporale
decisivo per gli sviluppi successivi, quale è quello degli anni tra il 1998 ed il 2000,
nei quali si consuma, proprio attorno alle vicende di Malpensa, inter alia, anche
un conflitto politico-istituzionale tra governo italiano e istituzioni comunitarie
(Hine 1999, pp. 238-259).
Con un D.M. del Ministro Burlando del 9 ottobre 1998 (in G.U. n. 237 del
10/10/1998) si procede, in via transitoria e in attesa del completamento dei collegamenti ferroviari e stradali tra Milano e Malpensa, alla ripartizione del traffico
aereo tra Linate e Malpensa in conformità alle istanze della Commissione della
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n.23 / 2009
1 Mette conto segnalare come
uno studio del 1999 dell’associazione delle compagnie aeree
continentali (AEA) abbia definito
Malpensa l’aeroporto con maggiori ritardi in Europa (sul 56,3%
dei voli in partenza e sul 52,8%
dei voli in arrivo pesava un ritardo superiore ai 15 minuti).
50
CE, che si era opposta a due precedenti Decreti (del 5/7/1996 e del 23/10/1997)
considerati lesivi degli interessi degli altri vettori comunitari. Il 25 ottobre 1998
si celebra l’inaugurazione dello scalo “Malpensa 2000”, alla quale segue subito
l’insorgenza di problemi riguardanti sia la gestione dei bagagli sia la gestione dei
ritardi nei voli1. Nel gennaio del 1999 si verifica un rilevante vortice d’aria, provocato da un aereo in fase di atterraggio, che scoperchia il tetto di un edificio sito
nel Comune di Lonate Pozzolo (Varese); è il primo di una serie di fenomeni che
si ripeteranno anche in altre località limitrofe allo scalo aeroportuale.
Nel marzo dello stesso anno esplodono con virulenza le prime significative tensioni istituzionali con le autonomie locali investite dalla attività aeroportuale; in
particolare ventuno Comuni piemontesi, unitamente alla Provincia di Novara, al
Presidente della Regione Piemonte (Enzo Chigo) e a cinque Comuni Lombardi
(segnatamente Somma Lombardo, Golasecca, Taino, Vergiate e Sesto Calende),
che si oppongono al CUV (Consorzio urbanistico volontario che raggruppa
Comuni lombardi), lamentano il fatto che tutti gli aerei in decollo da Malpensa
sono costretti a seguire due sole rotte che dirigono entrambe verso il Piemonte.
A maggio viene inaugurato il treno “Malpensa express”, che non riesce, però, ad
attrarre una consistente utenza; continuano, infatti, dato l’intasamento del traffico,
a verificarsi rallentamenti e numerosi incidenti stradali sulla Autolaghi per Malpensa.
Il 27 maggio 1999 il Ministro dei Trasporti, Tiziano Treu, annuncia il blocco dei voli
notturni su Malpensa (blocco di circa 70 voli per notte, di cui 60 voli passeggeri
nella fascia oraria 20-23 e di altri voli cargo postali e di qualche charter dalle 24.00
alle 05.00). L’annunciato blocco scatena dure reazioni da parte della SEA, che
lamenta un enorme danno economico. Anche il COVEST (Comitato Ovest Ticino)
– controparte della SEA - protesta e riconferma la manifestazione “antirumore”
prevista per il 6 giugno con alcune precise richieste (no all’ampliamento di
Malpensa; no al decreto Burlando-Bis, che trasferisce una seconda quota di voli,
pari al 33% del traffico da Linate a Malpensa; si ad una nuova VIA; si alla ripartizione delle rotte).
Nel giugno 1999 il Ministro Treu conferma il trasferimento del rimanente 33%
dei voli da Linate a Malpensa, provocando non poche proteste di amministratori locali, cittadini e compagnie aree. Nel mese di luglio si consuma il dissidio tra
sindaci lombardi e piemontesi; per i lombardi è, infatti, improponibile la ripartizione delle rotte tra area lombarda ed area piemontese, perché, a loro avviso,
occorre tenere conto della suddivisione dei decibel, considerando che nell’area
lombarda gli aerei volano più bassi e quindi fanno più rumore.
Il 27 ottobre 1999 il Consiglio dei Ministri vara il nuovo decreto di divieto generale dei voli notturni, con efficacia a partire dalla metà del 2000.
Le misure di trasferimento del traffico aereo da Linate a Malpensa vengono ad
essere sottoposte ad una brusca inversione sul finire del novembre del 1999; il 26
novembre, infatti, il Ministro dell’ambiente Edo Ronchi blocca il trasferimento dei
voli da Linate a Malpensa (per eccessiva rumorosità prodotta dal traffico aereo in
zona Malpensa). L’indiretto riconsolidamento dello scalo di Linate, per motivi di
carattere ambientale, sembra godere dell’appoggio del Comune di Milano che,
proprio nel novembre del 1999, rilancia al Governo il progetto di City Airport per
Linate, contenente misure di rivalorizzazione dello scalo milanese.
Sul finire del 1999 entra pesantemente in gioco, procurando conseguenze poli-
Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
tico-istituzionali di non poco momento, l’attore comunitario; il 6 dicembre 1999,
infatti, la Vice presidente della Commissione europea, nonché Commissario ai
trasporti, Loyola de Palacio, invia al Governo italiano una richiesta urgente sul
problema dei trasferimenti dei voli da Linate a Malpensa. Pochi giorni dopo, il 9
dicembre, il Ministro Treu rassicura che i due trasferimenti previsti per il
15/12/1999 e per il 15/01/2000 si realizzeranno senza intoppi e come concordato. L’indomani, 10 dicembre gli ispettori dell’UE consegnano il loro rapporto al
Commissario per i Trasporti Loyola de Palacio, segnalando i vari problemi irrisolti dello scalo lombardo. Nei giorni successivi si verificano alcune non trascurabili manifestazioni di protesta: l’11 dicembre, più di cinquecento persone abitanti nei Comuni limitrofi all’area aeroportuale di Malpensa invadono l’atrio dell’aeroporto di Malpensa; il 12 dicembre, Sindaci, Presidenti di Provincia e cittadini residenti in aeree limitrofe procedono all’occupazione dell’aeroporto.
Il 13 dicembre 1999, il Ministro dell’Ambiente Edo Ronchi conferma in sede
comunitaria (Bruxelles) che il trasferimento dei voli previsto per il 15 gennaio
resta soggetto alla valutazione di impatto ambientale e non deve pertanto ritenersi automatico. La posizione del Ministro Ronchi è, peraltro, corroborata dal
DPCM riguardante l’operazione Linate-Malpensa, firmato dal Presidente D’Alema
lunedì 6 dicembre, che confermava solo il trasferimento dei voli programmato per
il 15 dicembre “così come concordato con l’Unione europea”, mentre subordinava il trasferimento previsto per il 15 gennaio “a una verifica dell’efficacia delle
misure adottate e della situazione degli ambienti territoriali interessati” e lasciava
trapelare l’ipotesi di una riformulazione della posizione del Governo sull’intero
sistema aeroportuale milanese Malpensa-Linate. Nello stesso giorno, la terza
sezione del TAR del Lazio boccia il ricorso presentato da Air France, Lufthansa,
British Airways e Sabena avverso il trasferimento dei voli da Linate a Malpensa,
ricorso appoggiato da un memoriale del Comune di Milano.
Prendendo atto dell’orientamento del Governo italiano, il 14 dicembre 1999, la
Commissaria UE ai trasporti, Loyola de Palacio, invia al Ministro dei Trasporti e
della Navigazione formale invito a disporre il blocco del trasferimento dei voli
dall’aeroporto di Linate a quello di Malpensa. La risposta del Governo si farà
attendere fino al febbraio del 2000, quando il Ministro Bersani tenterà di mettere a punto un decreto per non trasferire completamente i voli a Malpensa e per
lasciare a Linate una quota di traffico pari a 6-7 milioni di passeggeri all’anno; l’iniziativa di Bersani, alla quale le compagnie straniere si dimostreranno favorevoli, susciterà la drastica opposizione di l’Alitalia (Fassina 2007, p. 220).
Il 15 dicembre 1999, in assenza di rinvii, entra in funzione il trasferimento a
Malpensa di tutti i voli per Londra, Parigi, Francoforte, Madrid, Amsterdam e
Birmingham. Di conseguenza lo scalo di Linate viene declassato; il 21 febbraio
2000, infatti, l’ENAV declassifica la movimentazione oraria di Linate da 20 a 10
movimenti orari per difficoltà relative all’ATC (Air Traffic Control).
Sempre nel febbraio del 2000 viene presentato al Consiglio dei Ministri uno schema di Decreto Ministeriale sulla ripartizione dei voli tra Linate e Malpensa da parte
del Ministro dei Trasporti Bersani. Lo schema di decreto è un po’ generico; non è
precisato il limite di tonnellaggio, né il tetto giornaliero dei voli e quindi nemmeno la movimentazione oraria ammissibile.
Il 17 marzo 2000, dodici compagnie aeree europee (tra le quali British, Air
51
n.23 / 2009
2 Permangono, ad esempio, le
molteplici e diversificate questioni riguardanti i collegamenti tra
il tessuto territoriale nel quale
insiste l’area aeroportuale e lo
scalo aereo, che rimandano, ad
esempio, ai problemi del collegamento tra rete ferroviaria e
Cargo City di Malpensa, al problema del Tratto MalpensaBoffalora e della strada
Pedemontana, nonché di tutta la
rete viaria della Provincia di
Varese.
3 Può risultare utile segnalare,
per dare appena conto della portata delle problematiche riguardanti la terza pista, come, secondo la prevalenza degli studi tecnici – riportati dai quotidiani nel
corso del 2000 - la terza pista
avrebbe dovuto puntare inevitabilmente su Parco del Ticino,
con immaginabili conseguenze
ambientali e, nel contempo,
avrebbe reso necessario l’interramento della bretella MilanoTorino con un costo superiore
ai 500 miliardi delle vecchie lire.
(Si può vedere, sul punto, l’articolo di Alessandra Mangiarotti
sul “Corriere della Sera” del 28
ottobre 2000).
52
France, Lufthansa, Iberia, SAS) presentano ricorso alla Commissione europea
contro il Decreto Bersani sul trasferimento di voli da Linate a Malpensa.
Il 2 aprile 2000, si riaccendono le manifestazioni di protesta. Il personale del
CRAV di Linate (che controlla il Forlanini e Malpensa) protesta contro le nuove
rotte decise dal Ministro Bersani, ritenute lesive delle capacità dello scalo di
Malpensa. Nello stesso giorno, ma a Malpensa, si svolge una manifestazione contro il trasferimento dei voli da Linate (che comporta l’aumento di altri 70 voli al
giorno, dal 20 aprile, in aggiunta agli 800 voli giornalieri, compresi i notturni).
L’11 aprile 2000, la Commissione europea invia a Malpensa i suoi consulenti per
istruire il ricorso delle Compagnie aeree; sulla scorta del lavoro istruttorio dei
consulenti sul ricorso delle compagnie aeree contro il trasferimento dei voli da
Linate, il portavoce della Commissaria europea ai trasporti, ricorda la possibilità
di aprire una procedura di infrazione contro l’Italia, nel caso in cui il Governo italiano si discostasse dal parere della Commissione.
Nel mese di Maggio del 2000 si verificano le contestazioni – anche istituzionali –
forse di maggior rilievo: il 13 maggio 2000, i Sindaci lombardi delle aree interessate marciano su Malpensa; il 28 maggio 2000, seimila manifestanti e venticinque Sindaci dell’area di Ticino Ovest chiedono l’attuazione del blocco dei voli
notturni ed il blocco del superamento dei limiti di movimentazione previsti dal
Piano aeroportuale di Malpensa, che prevedeva un tetto di 12 milioni di passeggeri all’anno, mentre nel 1999 si erano registrati 18 milioni di passeggeri.
La “questione Malpensa” rimane naturalmente “aperta” anche dopo il 20002; in
particolare ritorna ad emersione il problema della “terza pista” (Fassina 2007b, pp.
409-419)3, che, fin dal 1971, era stato preso in considerazione dalla gestione del
sistema aeroportuale milanese4. Per dare appena conto della portata di siffatta
problematica, basti segnalare come, secondo la prevalenza degli studi tecnici –
riportati dai quotidiani nel corso del 2000 – la terza pista avrebbe dovuto puntare inevitabilmente sul Parco del Ticino, con immaginabili conseguenze ambientali e, nel contempo, avrebbe reso necessario l’interramento della bretella MilanoTorino con un costo superiore ai 500 miliardi di vecchie lire (Mangiarotti 2000).
Si tratta, dunque, di un problema di non poco momento anche, ma non solo, per
le tematiche legate al noise pollution da traffico aereo (Del Frate 2006), se si considera come la realizzazione di nuove piste nell’aerea aeroportuale di Malpensa
impatti inevitabilmente con il sistema del Parco del Ticino o, come, d’altro canto,
possa risultare positiva per contrastare gli effetti deleteri del mantenimento di un
frammentato policentrismo aeroportuale gravido di conseguenze dis-economiche (Conti 2005, pp. 70-72; Mucchetti 2006) o, ancora, per sorreggere lo sviluppo
di nuove (e promettenti) tipologie di mercato del trasporto aereo, come ad esempio, quelle riguardanti i vettori low cost (Tubiana 2005).
2. Un’ indagine gravitante sul “caso Malpensa”: l’intersecarsi di politiche di pianificazione e di normative settoriali
Il biennio 1998-2000 segna, dunque, una fase storica rilevante nella vicenda complessiva del “caso Malpensa”, che merita di essere presa in considerazione con
riguardo a diversificati profili. In tal senso, anche in un’ottica storico-ricostruttiva, la ricerca del 2000 (Piazza 2000), sostanzialmente finalizzata all’indagine dei
Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
dispositivi regolativi destinati alle problematiche riguardanti l’inquinamento acustico in sede aeroportuale, in una sua prima parte, ha affrontato l’analisi degli
impianti normativi di rango internazionalistico e comunitario che investono, in
generale, il problema dell’inquinamento acustico della navigazione aerea, per
poi scendere ad esaminare le specifiche tecniche regolative in “ambiente ICAO”
(Annex 16 alla Convenzione di Chicago, varie SARPs – standards and recommended practices, procedure, esiti delle Conferenze CAEP - Committe on
Aircraft Emission Protection -, piani di azione strategica).
Dopo una breve descrizione della problematica del noise pollution da traffico
aereo negli Stati Uniti, la ricerca si sofferma sulla illustrazione dell’evoluzione
normativa comunitaria e sulla sua ricaduta nell’ordinamento interno, per poi
proseguire nell’analisi delle trasformazioni dei dispositivi normativi riguardanti il
problema dell’inquinamento acustico in generale nel sistema italiano.
Infine, in seguito al quadro tracciato, lo studio approda al tentativo di descrizione del “caso Malpensa”, con particolare riguardo agli intrecci problematici tra
Piano Territoriale d’Area Malpensa, PTRC del Parco regionale lombardo della
Valle del Ticino, Piano generale delle aree regionali protette (PGARP) e, prima
ancora, tra PRG di Malpensa ex legge 449/1985, progetti esecutivi del Piano
Regolatore Aeroportuale (Fontana 2006, pp. 37-44) ed il complesso sistema pianificatorio ricavabile dalla legge quadro n. 447/1995 sull’inquinamento acustico
composto da: Piani pluriennali per il contenimento delle emissioni sonore prodotte dallo svolgimento di servizi pubblici essenziali, Piani regionali triennali di
intervento per la bonifica dall’inquinamento acustico e Piani di risanamento acustico adottati dai Consigli comunali.
Come noto, le cronache, hanno messo con vigore in evidenza la nevralgica crucialità del tema dell'inquinamento acustico prodotto da rumore aereo, soprattutto in sede aeroportuale. Risulta agevole pensare che tra tali cronache risaltino
quelle legate alle note vicende riguardanti il nuovo aeroporto di "Malpensa 2000"
(AA. VV. 1998; Fassina 2007, pp. 183-224, 330-394, 409-419)5.
Ora, non è evidentemente questa la sede per intraprendere, una sia pur sintetica ricostruzione ricognitiva delle complesse vicende politico-amministrative, istituzionali e financo sociali che sono sorte e si sono dipanate in ordine allo scottante tema del rumore prodotto dal traffico aereo nel grande aeroporto lombardo, ma è altrettanto evidente che appare stridente la dicotomia tra, da un lato,
l'ampiezza degli interventi normativi, precedentemente illustrati, in materia di
inquinamento acustico, la loro portata innovativa (Jazzetti, Tumbiolo 1996, p.
47)6, il loro impianto contenutistico, articolato e minuzioso, anche se, come si è
visto, non sempre efficacemente predisposto a risolversi in solleciti esiti operativi, e dall'altro, il contesto ambientale, in ispecie sotto il profilo acustico, venutosi a creare nelle zone, peraltro anche notevolmente antropizzate, limitrofe al
nuovo scalo intercontinentale. Certo, occorrerebbe, per tentare di cogliere,
almeno in parte, le principali movenze scatenanti la predetta dicotomia, inoltrarsi in un lungo, quanto complesso, percorso analitico-ricostruttivo relativo,
non solo all'evoluzione degli interventi normativi ed amministrativi, che hanno
direttamente o indirettamente riguardato le complesse fasi di realizzazione dello
scalo milanese, ma anche consistente nell'analisi, invero più politologica che giuridica, delle modalità di azione dei vari attori, Governo nazionale, Regione
4 Vedasi: Relazione del Gruppo
Consiliare al Consiglio di
Amministrazione SEA, 12
novembre 1971, pp. 24-27, pubblicato anche in “La Notte” del
9/11/1971.
5 La gestazione legata alle vicende progettuali e realizzative di
“Malpensa 2000” (sigla che ha
sostituito la precedente “Nuova
Malpensa”) presenta una storia
lunga e notevolmente complicata, alla quale è stata dedicata una
cospicua letteratura specialistica
ed una inesausta attenzione giornalistica (come dimostra la raccolta di titoli di articoli ed interventi, apparsi in quotidiani ed in
Riviste specializzate tra il 1946 ed
il 2006, predisposta nel volume
di Fassina (2007, pp. 330-394) .
Solo per dei primi orientamenti,
vedasi utilmente (AA. VV. 1988).
Sulla storia in generale dell’aeroporto di Malpensa inquadrato
nel più ampio sistema aeroportuale milanese, vedasi (Fassina
2007, pp. 183-224) e dello stesso
autore gli oltre duecentoventi
interventi citati nello stesso volu-
53
n.23 / 2009
me, che ripercorrono il periodo
tra il 1963 ed il 1999. Sul progetto della “terza pista” (finalizzato
– inter alia – alla riduzione del
rumore) (Fassina 2007, pp. 409419). In generale, per una prima
ricostruzione storica della genesi
del sistema aeroportuale milanese Lapini, Gian Luca, Il sistema
aeroportuale milanese e la sua
storia, in www.storiamilano.it/
città/milanotecnica/volo/linate
malpensa.htm
6 Particolarmente evidente nel
caso della legge quadro sull'inquinamento acustico. Scrivono,
infatti, in proposito, Jazzetti e
Tumbiolo: «La portata innovativa
del provvedimento risiede, in
effetti, nel diverso approccio
verso il problema dell'inquinamento acustico, affrontato, per
la prima volta, in chiave preventiva e quale fattore della pianificazione, urbanistica e produttiva. La valutazione dell'inquinamento acustico, insomma, incide finalmente nelle scelte globali che la pubblica amministrazione compie sul territorio. (...)
Non esistendo, come detto nel
capitolo introduttivo, nel nostro
sistema, prima della emanazione
della legge quadro, fattispecie
che tutelassero direttamente
l'ambiente dall'inquinamento
acustico, appare indubbio che le
uniche forme di tutela diretta
sono quelle previste dalla L.
447/95». (Mazzetti e Tumbiolo
1996, p. 47).
54
Lombardia e Regione Piemonte, enti locali, associazioni e movimenti di cittadini,
forze politiche, ecc., coinvolti nella travagliata vertenza, tuttora aperta, collegata
ai problemi di inquinamento acustico aeroportuale nella zona ove è sorto l'aeroporto di "Malpensa 2000".
Sotto il profilo dell'evoluzione normativa, si palesa, con chiarezza, l'aggrovigliato
intreccio, quasi inestricabile, dei vari livelli rientranti nel sistema pianificatorio
urbanistico-territoriale, già ordinariamente complesso (Caccin, Mauceri,
Panassidi, Zucchetti 1996, pp. 91 e ss.), ma, nel caso di Malpensa, reso ancor più
criptico da una stratificazione di interventi di pianificazione, sedimentati in fasi
successive, che si dipanano dalla legge 449/1985 sul PRG di Malpensa, con la
quale lo Stato affidava alla SEA (Società esercizi aeroportuali) (Camarda 1983;
Riguzzi 1984; Silingardi, Antonini, Franchi, Bonanome 1995, pp. 3-18, pp. 30-39,
pp. 59-66) la progettazione e la costruzione delle opere per Malpensa, predisponendo procedure di controllo assai complesse (autorizzazione del Ministro dei
trasporti per ciascun appalto e parere obbligatorio su tutti i progetti da parte del
Comitato tecnico istituito dalla stessa legge 449) (Bolognini 1999, pp. 2 ss.), fino
alla legge 67/1988 che, pur prevedendo, l'esenzione dall'approvazione, da parte
degli enti locali, dei vari progetti esecutivi di attuazione del Piano Regolatore
Aeroportuale, ha trovato scarsissima applicazione proprio per l'opposizione, in
sede attuativa, degli stessi Enti Locali (Bolognini 1999, pp. 2 e ss.), per pervenire alla legge quadro n. 447 del 26 ottobre 1995 con le sue procedure tecnicoamministrative di valutazione di impatto acustico ed il suo complesso sistema
pianificatorio (Piani pluriennali per il contenimento delle emissioni sonore prodotte per lo svolgimento dei servizi pubblici essenziali, di competenza dello
Stato, di cui all'art. 3, comma 1, lett. i; Piani regionali triennali di intervento per
la bonifica dall'inquinamento acustico, di competenza delle Regioni, di cui all'art.
4, comma 2; Piani di risanamento acustico adottati dai consigli comunali, di cui
all'art. 7 della legge) da correlare alla più generale strumentazione pianificatoria
urbanistica e territoriale (Caccin, Mauceri, Panassidi, Zucchetti 1996), e, infine,
per giungere, alla elaborazione delle leggi regionali alle quali la legge quadro
rimanda complesse attribuzioni regolative. Sicché, ad esempio, proprio nel caso
della Lombardia, la legge regionale sull'inquinamento acustico da approvare
(Azzimonti 1998, pp. 999-1005), non solo, come previsto dalla legge quadro,
dovrebbe fissare i criteri in base ai quali i comuni devono procedere alla zonizzazione acustica del loro territorio, prevedere i poteri sostitutivi in caso di inerzia dei comuni, stabilire le procedure e gli ulteriori criteri per la predisposizione
e l'adozione da parte dei comuni dei piani di risanamento acustico, ecc., ma
anche statuire i principi da seguire nei regolamenti regionali di esecuzione della
legge regionale, in ordine:
– ai criteri per la classificazione acustica del territorio comunale;
– alla documentazione di previsione di impatto acustico;
– ai piani di risanamento territoriale;
– ai piani di risanamento acustico delle imprese (Azzimonti 1998, p.1004).
Ed in effetti con Legge regionale 10 agosto 2001, n.13 (“Norme in materia di
inquinamento acustico”), la Regione Lombardia ha provveduto sia alla predisposizione della disciplina della “classificazione acustica del territorio comunale” ed
alle procedure di approvazione della classificazione acustica (artt. 2 e 3), sia alla
Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
regolamentazione della redazione della documentazione di “impatto acustico”
(art. 5), sia alla pianificazione del risanamento acustico territoriale (Titolo II, artt.
9-14), comprensiva dei Piani di risanamento acustico delle imprese (art. 10).
Con riguardo, nello specifico, all’inquinamento acustico da traffico aereo l’art. 14
della legge regionale lombarda n. 13/2001 prevede, al primo comma, che per gli
aeroporti aperti al traffico civile i comuni, entro tre mesi dalla determinazione
delle aree di rispetto nell'intorno aeroportuale di cui all'art. 6 del decreto del
Ministro dell'ambiente 31 ottobre 1997 (Metodologia di misura del rumore aeroportuale), provvedano ad adottare le opportune varianti di adeguamento del
piano regolatore generale così come disposto dall'art. 7 del predetto decreto.
Entro sei mesi, poi, dall'entrata in vigore della stessa legge regionale n.13/2001,
ai sensi del comma secondo dello stesso art. 14, la Giunta regionale deve procedere alla fissazione dei criteri e delle modalità per la concessione di incentivi e
finanziamenti per la realizzazione di interventi finalizzati a ridurre l'incompatibilità tra il livello di rumore aeroportuale e gli usi legittimi e preesistenti del suolo
nelle aree di rispetto nell'intorno aeroportuale.
In ordine, invece, all’aggiornamento annuale delle curve di isolivello dell'indice
di valutazione del rumore aeroportuale, per gli aeroporti aperti al traffico civile
deve provvedere l’ARPA, così come disposto dall’art. 14, comma 3 della legge
regionale in parola.
Di spettanza della società o dell’ente gestore dell'aeroporto, per effetto del
comma 4 dell’art. 14, è l’inoltro annuale alla Regione e alla Provincia, territorialmente competente, delle informazioni relative all'impatto acustico delle attività
aeroportuali, quali l'utilizzo delle piste e le misure già attuate o previste per la
riduzione dell'impatto da rumore nelle aree esterne al sedime aeroportuale.
Infine, così come previsto dall’ultimo comma dello stesso articolo, la Giunta
regionale formula direttive e linee guida relativamente ai sistemi di monitoraggio, ai sistemi di acquisizione di dati, agli interventi per la minimizzazione dell'impatto acustico nelle aree di rispetto aeroportuali anche ai fini del loro coordinamento ed integrazione a livello regionale.
Ma alla stratificazione delle normative, alla molteplicità dei livelli e delle tipologie in cui si articola il sistema di pianificazione ambientale e territoriale, che investe i contesti socio-territoriali interessati dalla nuova sede aeroportuale, si
aggiungono almeno altri tre fattori, che contribuiscono a rendere risolutamente
difficile l'analisi delle cause che hanno contribuito alla scaturigine delle tensioni
sollevate dal problema dell'inquinamento acustico causato da Malpensa 2000:
1) l'ineludibilità sociale ed economica e soprattutto trasportistica della creazione
del nuovo scalo milanese. Si tratta di un tema, come noto, lungamente discusso,
ruotante, in buona sostanza, attorno al problema legato alla necessità di conseguire un ruolo di hub per la Grande Malpensa. In seguito agli estesi ed intensi
processi di deregulation o, per altro aspetto, di "liberalizzazione", del e nel settore dell'aviazione civile degli anni '80 e '90 (Silingardi, Antonini, Franchi e
Bonanome 1995; Silingardi, Antonimi e Franchi 1996; Silingardi, Antonimi e
Franchi 1998; Padoa Schioppa e Kostoris 1995; Romanelli 1995; Spairani 1997),
le reti del trasporto aereo hanno subìto una generale ristrutturazione che ha
sostanzialmente seguito un modello di tipo hub and spoke (perno e raggio), che
distingue gli aeroporti di smistamento (hub), su cui viene fatto confluire il traffi-
55
n.23 / 2009
co proveniente da un vasto bacino territoriale e di utenza, dagli aeroporti terminali (spoke) serviti da voli di corto e medio raggio. In questo quadro, è fuori di
dubbio che Malpensa 2000 possa candidarsi a diventare il principale scalo con
funzioni di hub per il traffico aereo dell'Europa meridionale, con una conseguente ricaduta, in termini di sinergie economiche e commerciali, non solo per
l'area lombarda, ma per l'intera Italia settentrionale. Questo significa un polo
aeroportuale in grado di offrire una capacità operativa in grado di soddisfare il
transito annuale di circa 18 milioni di passeggeri con una proiezione verso i
24–30 milioni di passeggeri l'anno. Se poi si parla del settore del trasporto merci
e delle potenzialità derivanti dal carattere "intercontinentale" dello scalo di
Malpensa 2000, una volta messo a regime il primo polo funzionale previsto, dotato di un terminale merci con capacità di trattare un volume di circa 200 mila tonnellate di merci all'anno, incrementabile fino a 600 mila tonnellate, grazie a meccanismi di espansione modulare, una volta completata la funzionalità di
"Cargocity" a Malpensa, sul quale concentrare i voli all-cargo e una volta realizzate le appropriate infrastrutture intermodali, non è implausibile ritenere che la
nuova sede aeroportuale possa porsi quale credibile concorrente dei principali
hub europei (Bolognini 1993a; Bolognini 1993b);
2) la molteplicità degli attori coinvolti e la pluralità degli interessi divergenti. La
pluralità dei soggetti istituzionali e non, interessati dalle problematiche ruotanti
attorno al problema dell'inquinamento acustico aeroportuale (Ministero dei trasporti e della navigazione, Ministero dell'ambiente, giunte regionali e consigli
regionali della Regione Piemonte e Lombardia, ENAV, Civilavia, SEA, società di
gestione aeroportuale, Province e Comuni, Ente parco del Ticino);
3) le difficoltà di individuazione delle fasi di effettuazione della valutazione di
impatto ambientale che, in fondo, perlomeno a livello di studio preliminare, la
SEA aveva fatto svolgere fin dal 1986 e le difficoltà di rinvenimento dei nessi di
pianificazione trasportistica tra il nuovo hub di Malpensa e gli altri aeroporti del
sistema aeroportuale lombardo (ad es. Linate ed Orio al Serio) e financo dell'intera Italia settentrionale.
Ma a parte queste ultime considerazioni, che solo parzialmente possono corroborare la ricerca dei tratti eziologici che hanno contribuito all'emersione del problema acustico-ambientale di "Malpensa 2000", va forse posto in luce il fatto dell'inevitabilità della scaturigine di parte dei disagi acustici ed ambientali, a prescindere dalla complessità del quadro normativo e di quello istituzionale degli
attori in gioco, attesa la possente rilevanza dell'insediamento aeroportuale, non
solo per quanto attiene alle sue articolazioni infrastrutturali (AA.VV. 1997), ma
per quanto rileva il ruolo specifico, specialmente potenziale, assegnato al grande
hub di Malpensa nella politica, nazionale e comunitaria, dei trasporti aerei, politica strettamente correlata alle incomprimibili dinamiche di crescita, quantitativa
e qualitativa, del traffico aereo (RVSM 1998). Certo, quest'ultima osservazione
rimanda a questioni rilevantemente più ampie e complesse del mero tema dell'inquinamento acustico aereo ed aeroportuale, che esulano dall'economia del
presente lavoro, poiché lambiscono ambiti tematici relativi, fra l'altro, a riflessioni teoriche riguardanti le tensioni confliggenti tra diritti fondamentali, costituzionalmente protetti, quali quelli, da un lato, della mobilità della persona e, dall'altro, della salute e dell'integrità fisica, oppure a riflessioni concettualmente più
56
Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
vaste, come quella riguardante il cruciale problema di una politica dei trasporti
eco-compatibile, soprattutto alla luce del Protocollo di Kyoto del 10 dicembre
1997, sui cambiamenti del clima terrestre indotti dall'inquinamento (Ferrara
1998; Tebaldi 1999a; Tebaldi 1999b)7.
In questa cornice appare evidente che la questione dell’inquinamento acusticoambientale nell’area dell’aeroporto di Malpensa si presenta come un coagulo
emblematico di problematiche ambientali, sociali, economiche, organizzative,
gestionali e financo politiche ad “alta complessità”.
Non si spiegherebbe diversamente l’aspro scontro politico-istituzionale apertosi
e protrattosi nel governo, proprio con riguardo all’inquinamento acustico recato dal nuovo scalo aeroportuale lombardo, che si intreccia, peraltro, con la tuttora irrisolta questione del trasferimento dei voli dall’aeroporto Forlanini a quello di Malpensa. Con un loro decreto di Valutazione di Impatto Ambientale, del
novembre 1999, i Ministri dell’Ambiente e dei Beni culturali, infatti, hanno
sostanzialmente censurato il progetto di ampliamento dell’hub varesino, proprio
per motivi di natura acustica: i più di duemila abitanti dei comuni limitrofi all’aeroporto sono esposti a livelli di rumore “fuori norma” ed è in aumento il numero di residenti nella fascia territoriale vietata alla residenza.
Appare ovvio, quindi, che, non solo l’attuazione dell’ormai famoso Decreto
“Burlando bis” (che prevedeva il trasferimento del restante 34% dei voli alla
Malpensa) abbia incontrato, anche da parte istituzionale, resistenze giustificate
su basi normative non facilmente eludibili, ma anche, che seri problemi di carattere politico-istituzionale si siano posti in ordine al progetto di sviluppo del
nuovo scalo lombardo, tra quanti, come il Ministro dei Trasporti e della
Navigazione, lo hanno sostenuto e quanti, come i Ministri dell’Ambiente e dei
Beni culturali, ne hanno evidenziato “le pericolosità ambientali”. Vero è, che sui
destini della tutela acustico-ambientale dell’area di Malpensa hanno pesato almeno due esiti decisionali: da un lato la decisione del Tar del Lazio in ordine alla
richiesta del Comune di Milano e di diverse compagnie aree straniere, di sospendere il trasferimento dei voli da Linate, dall’altro l’attuazione, anche da parte
della SEA (a società di gestione aeroportuale), di un programma di interventi
destinati a limitare l’impatto acustico sui territori circostanti l’aeroporto; un programma che avrebbe dovuto, tra l’altro, prevedere interventi piuttosto rilevanti
come, ad esempio, la realizzazione di piste off limits per gli aerei più rumorosi,
lo spostamento delle case e delle scuole più vicine alle piste, l’attuazione di procedure anti-rumore per i decolli e gli atterraggi e, infine, sanzioni severe per
quanti le trasgrediscano.
7 A questa linea di pensiero sembra ispirarsi, almeno in certe sue
parti rilevanti, l'ultimo Piano
Generale dei Trasporti (PGT)
elaborato dal Ministero dei trasporti e della Navigazione (Cfr.
http: // www. trasportinavigazione PGT). Sulla Conferenza di
Kyoto, vedasi Ferrara (1998). Il
problema, quindi, rientra nel più
generale ambito della politica
dei trasporti: Per dei primi orientamenti in proposito, vedasi utilmente Tebaldi (1999b, pp. 121155; 1999a).
2.2 Il Piano territoriale d'area Malpensa della Regione Lombardia
La rilevanza dell'impatto ambientale e più latamente socio-territoriale del nuovo
scalo lombardo ha promosso l'azione legislativa e, sul piano dei contenuti, pianificatoria del legislatore regionale della Lombardia. Con legge regionale 12 aprile 1999,
n. 10, infatti, la Regione Lombardia ha varato il "Piano territoriale d'area Malpensa",
contenente «norme speciali per l'aerostazione intercontinentale Malpensa 2000».
Non è questa ovviamente la sede per inserire l'analisi della già citata legge regionale della Lombardia nel più ampio (e complicato) ambito tematico relativo alla
competenza legislativa regionale in materia di navigazione aerea o, comunque,
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in settori a quest'ultima collegabili. Basterà, qui ricordare, il recente protagonismo legislativo, in materia di navigazione aerea, di regioni ordinarie come il Lazio
(Legge regionale 10 novembre 1997, n. 41, "Realizzazione di aviosuperfici e
campi di volo"), o differenziate come la Valle D'Aosta (Legge regionale 31 ottobre 1997, n. 35, "Disciplina del servizio di trasporto a mezzo di elicotteri"), e
della Provincia autonoma di Bolzano (Legge provinciale 27 ottobre 1997, n. 15,
"Disciplina delle attività di volo a motore ai fini della tutela ambientale").
La legge regionale lombarda n. 10/1999, d'altra parte, si presenta quale complesso testo normativo con contenuti più direttamente legati all'ambito urbanisticoterritoriale che a quello direttamente aeronautico. Ciò nonostante, appare opportuno darne conto proprio ai fini della comprensione delle scelte urbanistiche che
le autonomie regionali (in questo caso la Regione Lombardia) predispongono,
con il coinvolgimento, in fase attuativa, degli enti locali minori, quando debbono
affrontare le conseguenze economiche e socio-territoriali della realizzazione e del
funzionamento di grandi scali aeroportuali. E, infatti, da questo punto di vista,
l'art. 1, comma 2 della legge regionale 10/1999 recita che il Piano territoriale d'area Malpensa “costituisce strumento di programmazione e di coordinamento
delle strategie per lo sviluppo economico-sociale e la valorizzazione ambientale
del territorio lombardo interessato all'insediamento dell'aeroporto intercontinentale Malpensa 2000”, così come il comma 7 dell'art. 2 della medesima legge prevede l'istituzione della Consulta “Malpensa 2000” che, “in relazione agli obiettivi e
agli aggiornamenti del Piano d'aerea e dell'intesa istituzionale di programma tra
Stato e regione”, sarà chiamata a proporre iniziative specifiche sui temi dello sviluppo, dell'occupazione, della formazione e del mercato del lavoro.
Attraverso l'esame della legge regionale è possibile, poi, verificare l'azione dell'esecutivo regionale in materia di impatto socio-ambientale di insediamenti aeroportuali, come nel caso, appunto, della legge lombarda, che al comma 5 dell'art.
1, assegna alla Giunta regionale, in sede di prima attuazione della legge, il compito di individuare le risorse finanziarie necessarie all'elaborazione, all'attivazione e alla realizzazione di: a) programmi di compensazione ambientale in aree
naturali ricadenti nel territorio del Parco della Valle del Ticino; b) programmi di
riqualificazione diretti alla riduzione di situazioni di particolare disagio dei nuclei
abitati e dei centri storici prossimi alla sede aeroportuale. Inoltre, in tal senso,
l'art. 3, comma 6 della legge lombarda dispone che entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge medesima, vengano definiti, con deliberazione della
Giunta regionale, i livelli progettuali e le relative modalità, per la predisposizione e la trasmissione alla Commissione tecnica regionale Malpensa dei programmi attuativi degli interventi. Alla Commissione tecnica regionale Malpensa (prevista dall'art. 4 della legge regionale), spettano le competenze istruttorie relative
all'attuazione e all'aggiornamento del Piano d'area Malpensa. In particolare, la
Commissione tecnica regionale Malpensa esprime pareri sugli strumenti urbanistici generali e sulle relative varianti, dei Comuni compresi nel Piano territoriale
d'area Malpensa. Tali pareri devono essere formulati dalla Commissione entro i
trenta giorni successivi alla scadenza del termine di presentazione delle osservazioni al piano regolatore generale adottato o delle relative varianti; decorso tale
termine il parere si intende positivo. Per consentire il rilascio del parere della
Commissione tecnica, i comuni trasmettono alla medesima Commissione il
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Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
piano regolatore generale e le relative varianti con gli allegati, contestualmente
al deposito presso la segreteria comunale (art. 4, comma 4, lett. d). La
Commissione tecnica regionale Malpensa svolge, altresì, attività consultive e di
assistenza tecnico-amministrativa, anche su richiesta degli enti locali e degli altri
soggetti interessati all'attuazione delle previsioni del Piano d'area. La
Commissione tecnica regionale per Malpensa cura, anche, l'istruttoria preliminare delle modifiche al piano d'area, che possono riguardare, secondo quanto previsto dal secondo comma dell'art. 5 della legge regionale lombarda in esame:
a) l'introduzione di nuove previsioni di programmi di intervento aventi rilievo
regionale in relazione agli obiettivi strategici di sviluppo indicati nel Piano territoriale d'area e dal Programma regionale di sviluppo;
b) l'adeguamento delle previsioni originarie del Piano territoriale d'area alle esigenze e alle situazioni sopravvenute, quali l'accertata inattuabilità o inopportunità dei programmi di intervento citati al punto precedente;
c) il reperimento di nuove risorse finanziarie e l'attivazione di programmi infrastrutturali o di finanziamento dello Stato e della Unione Europea.
Sul fronte più propriamente legato all'inquinamento acustico aeroportuale, l'art.
6 della legge regionale lombarda prevede che fino all'approvazione definitiva, da
parte degli organi competenti, dei provvedimenti concernenti le curve di isolivello del rumore connesse al traffico ed alle attività dell'aeroporto intercontinentale di Malpensa 2000, ed in analogia con quanto disposto dall'art. 7 del D.
M. del Ministro dell'ambiente del 31 ottobre 1997 (Metodologia di misura del
rumore aeroportuale), le nuove edificazioni previste negli strumenti urbanistici
comunali, generali ed attuativi, vigenti ed adottati, siano sospese:
a) per le destinazioni residenziali rientranti nella zona definita B nella tavola
"Salvaguardia urbanistica in relazione alle nuove rotte di volo", allegata al Piano
territoriale d'area;
b) per tutte le destinazioni, nella zona definita C nella medesima tavola.
Come previsto, poi, dal secondo comma dello stesso art. 6, a seguito, della definizione delle curve di isolivello del rumore, che devono essere recepite con deliberazione della Giunta Regionale, entro sei mesi dalla pubblicazione di quest'ultima, i Comuni devono adeguare i propri strumenti urbanistici con le procedure
previste dalla legge regionale 23 giugno 1997, n. 23, riguardante l'accelerazione
del procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici comunali e la
disciplina del regolamento edilizio. In caso di inerzia dei Comuni interessati nell'adozione o nell'approvazione della variante, la Giunta regionale interviene in
via sostitutiva tramite la nomina del commissario ad acta.
3. Nuovi dispositivi regolativi dello scenario aeroportuale lombardo:
riflessioni intorno alla legge regionale della Lombardia 9 novembre
2007, n. 29 (questo paragrafo riprende il contributo “Riflessioni in
torno alla legge regionale della Lombardia 9 Novembre 2007, n. 29”
in osservatoriosullefonti.it, n. 1/2008)
L’intreccio tra politiche del trasporto aereo, politiche di pianificazione territoriale e politiche ambientali assume contorno di ulteriore complicazione se correlato alla tematica del sistema aeroportuale regionale; tematica affrontata da una
59
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recente legge della Regione Lombardia. La legge regionale della Lombardia 9
novembre 2007, n. 29, recante “norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuale”, investe una materia strategica, quale è quella, lato sensu, del trasporto aereo, lungo tre ambiti di
intervento corrispondenti ai tre blocchi contenutistici costitutivi dell’impianto
normativo della legge: quello riguardante la connessione tra coordinamento
aeroportuale ed acquisizione degli interessi regionali (Titolo II), quello relativo
alle modalità di acquisizione degli interessi regionali (Titolo III), quello concernente il tema delle concessioni di gestione aeroportuale (Titolo IV). Tutti questi
tre versanti di regolazione legislativa regionale si correlano ad almeno tre dimensioni problematiche da considerarsi cruciali per l’intero tessuto socio-territoriale
regionale: la problematica delle infrastrutture della mobilità, quella del governo del territorio regionale, nonché, e conseguentemente, quella dello sviluppo
del sistema economico dell’intera Regione (come, peraltro, si desume dall’art. 1,
comma 1, della stessa legge). Secondo l’enunciazione dell’art. 1, comma 2, della
legge, l’intervento legislativo regionale si ispira a principi di orientamento correlabili sia alla questione del coordinamento aeroportuale, delle modalità di acquisizione degli interessi regionali, delle concessioni aeroportuali, sia agli aspetti
legati alle reti infrastrutturali, al governo del territorio, al sistema economico
regionale. In particolare, il principio del “coordinamento con le politiche nazionali e comunitarie” (art. 1, comma 2, lett. a), quello riguardante la “trasparenza
nelle procedure” (art. 1, comma 2, lett. c) e la “concertazione con tutti i livelli
locali” (art. 1, comma 2, lett. e) possono essere considerati principi riferibili ai
primi tre settori di intervento, mentre il principio di “valorizzazione delle potenzialità del territorio lombardo e dell’economia della Regione” (art. 1, comma 2,
lett. b), il principio di “sostenibilità sociale ed ambientale” (art. 1, comma 2, lett.
d) ed il principio di “collaborazione con gli operatori economici” (art. 1, comma
2, lett. f) sembrano afferire più direttamente alle tematiche del governo del sistema socio-territoriale ed economico della regione. In questo quadro, appare sufficientemente accreditabile la tesi secondo cui i tre comparti coinvolti dalla legge
regionale, trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e gestione aeroportuale, costituiscano, non già un’univoca materia, pur trasversale ad altre, inseribile, secondo le tassonomie competenziali dell’art. 117 Cost. nella categoria
“aeroporti civili”, (se non altro, per l’irriducibilità concettuale e giuridica
dell’“aeroporto” al “trasporto aereo”, da intendersi, il primo, quale «centro di
attuazione di servizi pubblici e privati concernenti in genere la movimentazione
degli aeromobili e le attività complementari al trasporto aereo» (Lefebvre
d’Ovidio, Pescatore, Tullio 2004, p. 162), quanto invece, un grumo di ambiti di
intervento che possono essere considerati collegabili sia a materie rientranti
nella potestà legislativa concorrente, quali il “governo del territorio”, le “grandi
reti di trasporto” , e quindi appartenenti all’elenco di cui all’art. 117, comma 3,
Cost. , sia a materie soggette a potestà legislativa esclusiva dello Stato, quali la
“tutela della concorrenza” e la “tutela dell’ambiente”, rientranti, quindi, nell’elenco di cui all’art. 117, comma 2, Cost. [rispettivamente lett. e) e lett. s)].
In questo senso, la voluntas del legislatore lombardo sembra essersi ispirata ad
un approccio olistico, (non privo di più di un collegamento con una tensione
pianificatoria attinente ai modelli di “pianificazione strategica” (Siza 2002), decli-
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Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
nata ovviamente in ambito trasportistico), alle tematiche relative agli aeroporti
civili, per superare nella sostanza, lasciando, comunque intatto il nomen iuris, il
concetto di “aeroporto civile”, onde approdare a quello di sistema aeroportuale
(D’Agostino 2006, 471-480). In tal senso, appare coglibile nel complessivo ordito contenutistico di questa legge lombarda, l’assunzione della consapevolezza
della opportunità di concepire, in modo avanzato e complesso, la realtà aeroportuale, considerandola come infrastruttura di trasporto, che, nell’attuale scenario di rapida globalizzazione, “costituisce per l’area che la ospita un fattore
essenziale di sviluppo” (Fontana 2006, pp. 37-44), nonché come una complessa
realtà infrastrutturale, che, a differenza di altre infrastrutture di trasporto, risulta
costituire un grande impianto produttivo, esigente, in quanto tale, di un insieme
di importanti infrastrutture fisse, ma anche latore di una forte domanda di lavoro, di beni e servizi, con «rilevanti effetti di modifica dell’ambiente, sia all’interno del sedime aeroportuale sia al suo esterno» (Fontana 2006, p. 38). Questo
possibile esito ermeneutico, desumibile dalla legge lombarda in esame, appare,
però, plausibilmente assai problematizzabile. Se, infatti, sotto il profilo empirico, sia con riguardo al versante socio-economico, sia in riferimento a quello
socio-territoriale, e sia, ancora, in connessione a quello direttamente trasportistico (Zucchetti, Baccelli 2001) (o più riduttivamente trasportistico-navigazionistico), la nozione di “sistema aeroportuale” regionale (lombardo), nella fattispecie, appare accreditabile (IRER 2001)8, forse maggior cautela appare opportuna
nel maneggiare il concetto di sistema aeroportuale regionale, dal punto di vista
strettamente giuridico9, anche se non mancano interventi normativi precipuamente dedicati a questo tipo di dimensionamento territoriale dell’“integrazione”
tra strutture aeroportuali regionali, come nel caso della legge regionale del
Piemonte 24 gennaio 2000, n. 2. Va, peraltro, segnalato che la legge in esame tratta anche dei sistemi aeroportuali intraregionali, ma plausibilmente di rilievo
nazionale (come nel caso del sistema aeroportuale milanese), come si può
dedurre, ad esempio, dalla previsione dell’art. 7, comma 1, secondo la quale “la
Regione promuove un’efficace cooperazione tra i sistemi aeroportuali e le autorità regionali e locali che li ospitano, per l’acquisizione e la tutela degli interessi
regionali, ivi compresi gli interessi degli enti locali”.
4. Il problema dell’impatto socio-economico-territoriale del sistema
aeroportuale regionale
Proprio quest’ultima previsione della legge regionale lombarda n. 29 del 2007
sembra far rinvenire una particolare consapevolezza in ordine agli effetti di
impatto del sistema aeroportuale sugli interessi “regionali” e su quelli degli enti
locali, anche in termini, presumibilmente, di impatto sui tessuti socio territoriali
regionali e locali (Zucchetti, Bacelli 2001). In tal senso, come argomenta la letteratura specialistica, sono almeno due, la grandi categorie di impatto socio-territoriale di ogni sistema aeroportuale: quella economica e quella infrastrutturale
dei trasporti (Aci Europe 1992). Sotto il primo profilo, il sistema aeroportuale
concentra grandi volumi di investimento e procura un incremento della domanda di beni e servizi e di lavoro; sotto il secondo profilo, un insieme “di sistema”
di scali aeroportuali incide massicciamente nel sistema delle infrastrutture di tra-
8 In tema la letteratura interdisciplinare è poderosa. In prima
battuta, secondo quanto illustrato dalla stessa Regione Lombardia (Direzione infrastrutture e
mobilità) il sistema aeroportuale
lombardo si articolerebbe anche
su di una specializzazione dei
propri scali e segnatamente:
Linate (city aiport di Milano),
Orio al Serio (collegamenti Lowcost nazionali ed internazionali e
courier), Montichiari (Cargo a
lungo raggio) e Hub di Malpensa
(voli intercontinentali, nazionali
in coincidenza e cargo). Vedasi,
in proposito Regione Lombardia,
IRER - Istituto regionale di ricerca della Lombardia (2001).
9 Così definibile: “istituto giuridico concernente un raggruppamento di due o più aeroporti
che servono la stessa città o lo
stesso agglomerato urbano,
introdotto in prevalenza dalla
normativa comunitaria al fine di
consentire, in un ambito scevro
da discriminazioni tra gli stessi
aeroporti, la più ampia e generale applicazione di discipline relative agli scali all’interno della
stessa Unione”. (Cfr. D’Agostino
2006, p. 480).
61
n.23 / 2009
sporto dell’area interessata. Ancora, sul versante socio-economico, l’impatto del
sistema aeroportuale comporta una serie di “benefici a cascata” (ripple effect)
(Bacelli 2000), che si propaga dall’aeroporto al territorio circostante secondo
una dinamica “a cerchi concentrici”; ad esempio, se al centro si situa la società
di gestione aeroportuale, è possibile rinvenire on site, tutta una serie di attività
economiche che non fanno direttamente parte della attività di gestione aeroportuale, ma che vi sono indirettamente collegate (autonoleggi, catering, negozi in concessione, ecc. ); in un’area adiacente a questa si trovano strutture produttive correlate commercialmente all’aeroporto (aziende di riparazione, air
couriers, scuole di volo, ecc.); in un altro cerchio, più “lontano” dal centro aeroportuale, ma egualmente gravitante nell’intorno aeroportuale, possono trovare
una collocazione vantaggiosa quelle imprese che per le spedizioni di componenti industriali o di prodotti finiti necessitano della fruizione dei servizi di trasporto aereo. Secondo questo tipo di dinamica, in definitiva, l’impatto del sistema aeroportuale può essere considerato come un insieme di effetti di spin-off
sul complessivo tessuto socio-economico locale (Cini, Milotti, Vaghi, Zucchetti
2000, Senn, Zucchetti 2000).
Con riguardo al versante delle infrastrutture di trasporto, si è dimostrato come
la presenza del sistema aeroportuale possa produrre effetti di mutamento significativo nell’assetto trasportistico locale; in primo luogo, può consentire l’inserimento del circuito locale dei trasporti in una rete trasportistica di livello mondiale; in secondo luogo, agisce come stimolo sui processi di innovazione della
logistica dei trasporti, come nel caso del trasporto intermodale (Baccelli 2001);
in terzo luogo, induce una dimensione attrattiva del ruolo dei trasporti (e del trasporto aereo in particolare) sui soggetti economici operanti nel territorio con la
conseguenza, ad esempio, che le imprese diventano sempre più air transport
related.
In generale, poi, sia in relazione al trasporto merci sia con riguardo al trasporto
passeggeri, nell’epoca della globalizzazione e delle trasformazioni produttive
(prima fra tutte la diffusione del just-in-time), la presenza di un sistema aeroportuale si rivela un asset strategico non solo per le performances dell’economia locale, ma per la valorizzazione dell’intero tessuto socio-territoriale (Cini, Milotti 2000).
L’impatto dei sistemi aeroportuali, dunque, può concretarsi come effetto propulsivo del contesto locale, facendo ritenere, così, le realtà aeroportuali come
“poli di sviluppo” per l’intera regione nelle quali sono localizzate. In tal senso,
sempre più città e regioni europee si sono accorte della necessità di sviluppare
l’accessibilità internazionale ed interregionale attraverso una particolare attenzione allo sviluppo dei sistemi aeroportuali che sono, oramai in modo condiviso,
considerati non solo poli attrattivi per l’area urbana, ma anche infrastrutture
necessarie alla crescita economica regionale (Van der Berg 1991; Van der Berg e
Van der Meer 1991). Proprio sull’interezza dell’area territoriale regionale, dunque, un sistema aeroportuale regionale (composto, ad esempio, di più scali nella
stessa regione) può procurare un impatto di impulso socio-economico (Senn,
Zucchetti 2000) e di polarizzazione attrattiva delle infrastrutture dei trasporti,
rivelandosi un fattore di trasformazione non trascurabile dell’intero tessuto
socio-territoriale regionale (Van der Berg 1991) e, al contempo, un fattore di
apertura internazionale dell’area regionale. Segno non indifferente di questa atti-
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Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
tudine propulsiva del sistema aeroportuale regionale per l’intera area regionale
è costituito, ad esempio, dalle tipologie occupazionali generati dagli aeroporti:
l’occupazione collegata ai vettori; l’occupazione collegata agli scali aeroportuali;
l’occupazione collegata alle attività commerciali e di vendita. Si tratta di un
impatto diretto del sistema aeroportuale in quanto generato dalle attività che forniscono beni e servizi ai passeggeri e al traffico merci all’interno dell’aeroporto
(Faa 1992, p. 15), che si distingue dall’impatto indiretto da considerasi come
l’impatto derivante dalle attività economiche delle imprese off site che sono al
servizio degli utenti aeroportuali, quali le agenzie di viaggio, gli alberghi, le attività commerciali (Faa 1992, p. 31). L’insieme degli effetti moltiplicativi dell’impatto diretto e dell’impatto indiretto costituiscono l’impatto indotto (incremento occupazionale, incremento dei redditi, effetti sul ciclo di consumi locali, creazione di reddito addizionale, ecc.) (Faa 1992, p.17). L’impatto indotto si rivela
altresì un impatto dinamico (o catalitico) in quanto decisamente legato alle dinamiche che investono il sistema del trasporto aeroportuale; occupazione, reddito-valore aggiunto generato, mantenimento o espansione delle attività economiche all’interno dell’area considerata, sono dunque risultanze della dinamica del
trasporto aereo, della sua accessibilità, del suo andamento economico internazionale, delle dinamiche di spostamento e di viaggio di merci e passeggeri
(Comitato Malpensa 2000 1995; York Consulting 1998).
Un sistema aeroportuale regionale - come ben ha consapevolizzato il legislatore
regionale lombardo con legge n. 29 del 2007 – si costituisce quale grande centro produttivo che genera “effetti keynesiani” in termini di reddito e di occupazione, per il tramite di tutte le tipologie di impatto appena illustrate; ma proprio
per questo genera anche enormi problemi di impatto ambientale (sotto il profilo dell’inquinamento acustico, idrico, elettromagnetico, atmosferico, sotto il profilo del congestionamento del traffico, sotto il profilo delle problematiche delle
reti di collegamento, sotto il profilo della qualità della vita delle popolazioni non
investite dagli skill effects dell’indotto aeroportuale) (Senn, Percolo 2003).
Proprio su questa specifica tematica dovrebbe essere investita la pianificazione
territoriale che si interessa dell’aerea territoriale ove insiste un sistema aeroportuale regionale, come nel caso del Piano territoriale d’area Malpensa, preso in
considerazione nella citata ricerca del 2000 nell’ottica di un frame che necessita
di opportuni aggiornamenti.
5. Il frame, i punti di debolezza, le prospettive di ricerca
Secondo una prima esplorazione semantica del termine frame, questa parola rinvia a plurimi significati, ovvero a concetti quali “cornice”, “struttura”, “modulo”,
“quadro di riferimento”, “intelaiatura”, “inquadratura” ecc. Più precisamente, con
riguardo a quanto desumibile dal lavoro di Karl E. Weick, il concetto di frame
risulta collegabile ai lavori di Erving Goffman che utilizza il termine framing per
indicare l’incorniciamento delle azioni e delle esperienze (Weick 1997), mentre
usa il termine frame per indicare la struttura del contesto (Weick 1997, p. 53).
Nel caso della citata ricerca sul “caso Malpensa” forse si può distinguere un
frame analitico da un frame oggettuale; il primo concerne la cornice mentale, si
può dire anche teorica e dottrinale, di sottofondo della ricerca; il secondo la
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struttura del contesto preso in considerazione.
Il frame analitico consiste nelle “cornici” normative di vario livello, internazionale, comunitario, nazionale, regionale e locale entro le quali si sono veicolate le
politiche anti-inquinamento acustico in generale e le misure di contrasto all’inquinamento della navigazione aerea in particolare; il frame oggettuale riguarda,
invece, la cornice contestuale nella quale è emerso e si è progressivamente problematizzato il c.d. Caso Malpensa. Quest’ultimo, peraltro, non riguarda solo
l’“ambiente” socio-territoriale nel quale si dislocano la complesse vicende concernenti l’Hub lombardo, ma l’insieme di grovigli e di intrecci di politiche, di
strategie, di provvedimenti derivanti dall’azione di diversi attori (spesso in una
continua interazione di mutual adjustment):
la Commissione europea ed in particolare la Commissaria europea ai Trasporti,
Il Governo italiano, il Ministero dei Trasporti, la Regione Piemonte, la Regione
Lombardia, la SEA (Società di gestione degli aeroporti milanesi), la Provincia di
Varese, la Provincia di Milano, Comuni dell’aera piemontese, Comuni dell’area
lombarda, il Consorzio urbanistico lombardo (CUV), vari comitati di cittadini tra
cui il COVEST (Comitato Ovest Ticino), l’ENAV e il CRAV di Linate, vettori come
Air France, Lufthansa, British Airways, Sabena, KLM e ovviamente Alitalia. Il concetto di groviglio richiama la definizione datane da Russel Ackoff, secondo il
quale i grovigli sono costituiti da “situazioni dinamiche che consistono in sistemi complessi di problemi mutevoli tra loro interagenti” (Ackoff 1979, pp. 90100). Questa pluralità di soggetti (istituzionali, economici, sociali), coinvolti nell’approntamento di soluzioni al Caso, ma che allo stesso tempo, risultano parti
dell’insieme di problemi che costituiscono il Caso, si può plausibilmente collegare alla tipologia di direzione politica e di pianificazione che Charles Lindblom
qualifica come “strategica” (Lindblom 1979, p. 333), collegandola al modello di
sistema sociale che lo stesso autore chiama “Modello 2” (Lindblom 1979, pp. 264278), per distinguerla dal tipo di direzione politica qualificata come sinottica e
correlata al Modello 1 (Lindblom 1979, pp. 264-278) di organizzazione sociale,
tipico dei sistemi a panificazione centralistico-dirigista (Dahrendorf 1980). La pianificazione di tipo strategico, non solo non ripone una fiducia completa nella
capacità razionali risolutive dei soggetti deputati e coinvolti nei percorsi di pianificazione, ma implica la continua necessità di interazioni, di votazioni, di negoziazioni e rinegoziazioni, quindi di trattative (Lindblom 1979, p. 335), di “mutui
accomodamenti” (Lindblom 1979, pp. 276-277, pp. 366-369) tra i diversi soggetti nella ricerca di “soluzioni” e nella prospettazione degli assetti di programmazione finalizzati all’approntamento di misure utili all’intervento sui problemi in
campo.
Può essere, poi, ravvisato, un terzo frame – che, peraltro, nella ricerca si rivela
più potenziale che realmente seguito – riguardante la cornice di connessione tra
i due frames precedenti, ovvero tra le cornici normative e la struttura di contesto del caso specifico in esame; si tratta degli “inquadramenti” rintracciabili e
desumibili dai molteplici impianti di Piano che hanno investito l’aera socio-territoriale (ma anche inevitabilmente trasportistica) nella quale si sono agiti i dispositivi regolativi, di controllo, di contenimento o di contrasto del fenomeno dell’inquinamento acustico aeroportuale e da traffico aereo.
Il frame dei e nei molteplici percorsi di pianificazione che hanno investito il
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Quando le politiche si aggrovigliano
Caso Malpensa non è stato preso in considerazione dalla ricerca, nel senso che
non si sono sondate le cornici di riferimento adottate (più o meno consapevolmente) dai diversi soggetti che hanno preso in carico l’elaborazione dei percorsi di progettazione dei piani e di quelli che ne avrebbero dovuto garantire le fasi
implementative. Si tratta di una carenza particolarmente rilevante alla luce di
quanto sostenuto da Schön in ordine allo studio della progettazione come
momento di fondamentale importanza “ai fini di una migliore comprensione
della pratica riflessiva in aree che vanno ben oltre le professioni progettuali”
(Schön 1993, p. 93). Non essersi soffermati sull’analisi dei frame dei e nei processi di pianificazione coinvolti nel Caso in esame non ha consentito di percepire il grado di “autoriflessività” dei pianificatori, nonché – ad esempio - l’incidenza della “Razionalità tecnica” nel corso dell’azione pianificatoria (Schön 1993, p.
65), la consapevolezza dei limiti della medesima, il grado di know how presente, non prima, ma nel corso dell’azione di pianificazione (Schön 1993, pp. 76-77).
Mette conto rilevare, infine, tra i numerosi vulnera evidenziabili nella ricerca qui
segnalata, un aspetto da ritenersi centrale: si tratta dell’impianto sostanzialmente normocentrico del lavoro, fondato sulla fiducia (che in realtà può essere considerata un pregiudizio) che le soluzioni legislative e quindi le “cornici” normative siano in grado di garantire motu proprio, soprattutto quando recano significativi orditi di pianificazione, le risposte alle esigenze per le quali sono state
poste in essere. In realtà, come largamente si è dimostrato, le iniziative di produzione normativa non solo, spesso, rimangono prive di esiti attuativi, ma si rivelano motivi di ulteriore complicazione delle problematiche sulle quali intendono
intervenire.
Appare, poi, non del tutto implausibile chiedersi se il “Caso Malpensa” così come
– assai parzialmente – tematizzato ed esaminato nella ricognizione qui presentata, non costituisca un ragguardevole esempio di cedimento del principio di
calcolabilità degli interventi e della loro organizzazione (Lippi 2007, p. 26), nonché della misurabilità e prevedibilità dei medesimi (Lippi 2007, p. 26), che
denota un paradigma forte di policy saldamente ancorato al binomio government+burocrazia (Lippi 2007, p. 27). Non costituisca, altresì, un esempio di
rottura (o superamento) della metrica del potere fondata sulla linearità tra disposizioni normative, attività attuativa delle prime e controlli di legittimità su quest’ultima per attestarne la conformità ai dettati normativi e non presenti, invece,
una ridefinizione dell’area di policy interessata (in questo caso afferente alle politiche del trasporto aereo), provocata dalla moltiplicazione dei livelli di governo
(anche indotta dalle strategie di multilevel governance promosse dell’UE nel
settore del trasporto aereo, così come in altri settori), dalla moltiplicazione degli
stakeholders in campo, dallo sviluppo di networks (amministrativi, sociali, di
interessi), dalla ipertrofia dei parametri di regolazione, frequentemente predisposti per fronteggiare le incertezze, ma spesso inutilizzabili ed inutilizzati (Lippi
2007, p.29).
Ma il “caso Malpensa”, naturaliter, si palesa quale “caso paradigmatico” di ulteriori complesse fenomenologie tipizzanti uno scenario che è oramai da tempo
acquisito e diffusamente considerato come quello connotativo di una “società
glocale”; nell’area di Malpensa, infatti, problemi locali (come quelli relativi alla
tutela dell’ambiente e della salute degli abitanti dei territori dell’area) assumono
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rilievo globale, andando ad interferire sul sistema globalizzato del traffico aereo,
e viceversa, la realtà globale del trasporto aereo incide pesantemente sul tessuto
socio-territoriale locale. Ancora; nel “caso Malpensa”, misure caratterizzanti una
politica sub-settoriale (regolazione dell’inquinamento acustico) si intrecciano ed
interferiscono con altre politiche macro (politiche del trasporto aereo, politiche
del territorio, politiche ambientali, politiche economiche territoriali) (Gervasoni,
Del Giudice, Bollazzi, Donadonibus, Sartori 2004; Piccoli 2001); politiche, spesso, come nel caso del trasporto aereo passeggeri, massicciamente condizionate
vuoi dalle scelte di “attori globali” e vuoi da politiche di portata globale o quanto meno continentale (Domanico 2006, pp. 33-60; CERTeT, Assaereo 2003). A
tacere, poi, delle molteplici problematiche correlabili alla questione degli strumenti partecipativi bottom-up nella prospettazione delle concrete misure provvedimentali incidenti sul territorio, come sono quelle, nel caso in ispecie, riguardanti, nell’ambito della politica del trasporto aereo, la fissazione delle rotte aeree
(Perli 1986, pp. 123 e ss.) e delle questioni – di rilevante interesse per gli studiosi
del diritto degli enti locali – concernenti il rapporto tra amministrazioni locali di
“area vasta” ed emergenze territoriali-ambientali procurate da fenomeni di livello globale (Ranzani 1998, pp. 143-156; Ranzani 1999a, pp. 129-146; Ranzani
1999b, pp.119-132).
Con riguardo poi alla realtà di Malpensa, ma più in generale al sistema aeroportuale milanese (Linate-Malpensa), permane l’emergenza, lato sensu, ambientale;
i problemi dell’impatto, infatti, soprattutto in termini di inquinamento acustico
ed ambientale, del complessivo sistema aeroportuale non sembrano aver ricevuto soluzioni decisamente risolutive, forse anche in ragione della molteplicità
diversificata degli interessi in campo (Brignardello 2001, pp. 893-932): gli interessi degli utenti/passeggeri ad avere aeroporti vicini o comunque ben collegati,
gli interessi delle compagnie aeree ad appoggiarsi su strutture aeroportuali efficienti e a conservare rotte profittevoli, l’interesse delle popolazioni locali a vivere in un ambiente salubre, anche sotto il profilo acustico. Un interesse, quest’ultimo, che viene ad emersione in modo dirompente e diventa oggetto di trattazione e di azione proprio perché, come direbbe Lindblom, “la gente è alla prese
dirette con il problema” (grappling).
Si tratta, a ben vedere, di una congerie di tematiche “ad alta complessità” che,
proprio nel caso Malpensa, sembrano concentrarsi, facendo scaturire l’occasione di affrontare un case study notevolmente indicato per lo sviluppo di approfondimenti di natura decisamente interdisciplinare.
Con riguardo, in tal senso, alle prospettive di ricerca percorribili gravitando analiticamente sul “caso Malpensa”, anche sotto il profilo delle problematiche dell’inquinamento acustico, potrebbe essere intrapresa l’analisi della processualità
dell’emersione dell’emergenza “inquinamento ambientale” (ed acustico in particolare) secondo, ad esempio, la griglia analitica proposta nella impostazione di
Herbert Blumer, affrontando, quindi, i vari steps che costituiscono il problema
come processo di definizione collettiva, ovvero: agitazione sociale per il riconoscimento del problema, legittimazione del problema, passaggio all’azione (in
quanto risultato di discussioni, valutazioni, tattiche – anche diversive – incontri
casuali, incontri e gruppi più o meno istituzionalizzati, ecc.), piani di intervento
(che frequentemente risultano da assemblaggi di proposte ed iniziative di diver-
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Stefano Piazza
Quando le politiche si aggrovigliano
si attori), implementazione (Blumer 1971).
Non appare poi implausibile ritenere che il caso Malpensa possa costituire un
esempio di “area di conflitto” nella quale i frames dei molteplici attori interessati siano da un lato condizionati dai conflitti, dall’altro condizionanti i conflitti, ma
siano anche tra loro in conflitto (conflicting frame), condizionandosi a vicenda,
con la conseguenza di una continua e reciproca ristrutturazione (conflict frame
restructuring); ed in un conflitto insuperabile, ovvero irrisolvibile nemmeno con
il richiamo ai fatti, atteso che i diversi attori dotati di diversi frames tendono a
richiamare diversi fatti o, magari, gli stessi fatti, ma sotto diversi punti di vista
(Schön 1978, pp. 254-283). Forse anche proprio in ragione di queste dinamiche,
gli attori coinvolti nelle vicende del caso Malpensa sembrano denotare una loro
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di definire e collocare i problemi nelle agende che alla predisposizione di effettive soluzioni.
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70
Carla Tedesco
Knowledge, (good) practices and ‘resistance
to change’ in area-based initiatives
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Introduction: European Union, urban policy
and the diffusion of ‘good practices’
During the last decade, in all the policy fields, the
processes of singling out and diffusing of ‘good
practices’ have been increasingly considered useful to support public action in pluralistic contexts
(Vettoretto, 2007). In particular within the
European Union policy processes there has been a
growing attention towards ‘good practices’
(Vettoretto, 2007). This attention affected also the
EU urban policy field within which ‘good practices’
became particularly relevant over the last 10 years
in parallel with the emergence of an EU involvement in urban policy .
The definition of ‘good practice’ can be questioned in several ways. In particular, worth mentioning here is that while a spontaneous spreading
had started of EU urban policy initiatives concepts
and practices all over EU Member States, a formal
structure was put in place whitin a specific programme, called URBACT. This aims at the ‘exchange and capitalisation of different experiences’ and
assumes ‘good practice transfer’ as central.
It is well known that since the early 1990s the
Commission of the European Communities (CEC)
has increasingly drawn attention towards urban
problems. It has emphasised the urban dimension
of EU and national sectoral policy and promoted
and/or funded urban initiatives such as URBAN I
and II and the initiatives included in the Objective
1 and 2 Operational Programmes (Atkinson, 2001;
2007; Cremaschi, 2005; Parkinson, 2005).
The URBAN programme was interpreted very differently all across Europe (Chorianopoulos, 2000;
Guentner and Halpern, 2006; Padovani, 2002;
Tedesco, 2005; Tofarides, 2003). In most cases the
programme opened urban arenas to the EU context and triggered processes of diffusion of EU
concepts and practices. Thus, its ‘added value’ can
be considered to be the possibility of exchanging
experiences at a transnational level (Tedesco,
2005). Nothwithstanding that, URBAN I achieved
only limited transnational learning (GHK, 2003
p.75). In order to address this weakness in the year
2000 a specific action devoted to develop transnational exchange of experiences between actors,
whether cities or other partners, involved in the
EU urban programmes was developed within the
URBAN II programme by the European
Commission.
URBACT I was approved by the Commission on
the 22 December 2002 to organise exchanges
among cities receiving assistance under the
URBAN Programme. The remit was to draw lessons
from implemented projects, and to disseminate
such knowledge and know-how as widely as possible. In the Urbact ex-ante evaluation (Jacquier and
Laino, 2002) URBACT is considered twofold: on
the one hand, it is not an autonomous programme, but it is linked to the URBAN I and II programmes and to the implementation of the urban
aspects of the Objective 1 and 2. Furthermore, it is
devoted to cities which are benefiting or have
already benefited from the URBAN programme
and the Urban Pilot Projects. On the other hand,
its own logic is “the production of common knowledge that can be disseminated concerning integrated approaches to sustainable development”
(Jacquier and Laino, 2002, p.5).
Good practices are central to the URBACT pro-
71
n.23 / 2009
gramme. They are mentioned in the Articles 14 and
15 of the Commission Communication to the
Member States laying down the guidelines for
URBAN II and recommending actions devoted to
exchange experiences (CEC, 2000): “Each programme must also include provision to assist the
enhancement of knowledge and the exchange and
dissemination of experience and good practice
with regard to the economic and social regeneration of urban areas and sustainable urban development” (CEC, 2000, art. 14). “In addition, it is necessary to coordinate and enrich this process through
the development of a mechanism facilitating the
detection and accreditation of innovation and good
practice, structured exchanges of experience,
monitoring and evaluation …” (CEC, 2000, art. 15).
What is the definition of ‘good practice’ within the
URBACT programme? In the URBACT documents
the following definition is given: “A Good Practice
is linked to innovation, but is a broader concept
and perhaps less defined. A good practice takes
place when a project promoter or a decisionmaker
finds effective solutions to a problem. It deals with
a solution that has been tested. In other words, it
has demonstrated to be the best solution for that
problem. It is the best in relation to similar approaches, procedures or methodologies, in tackling
and solving a given problem.” (URBACT, 2004).
Within this framework this paper is a first attempt to
link the processes of (good) urban policy practice
diffusion and the knowledge(s) involved. In more
details, it tries to answer the following questions:
Which knowledges (lay, expert, local, ordinary,
scientific, interactive, analytical etc.) do ‘good practices’ underlie? Which knowledges do they exclude?
Which knowledges are exchanged in ‘good practices’ networks? What are the relationships between
these knowledges and the different knowledges
involved in ‘spontaneous’ processes of urban policy
practices diffusion? Does the exclusion of some
forms of knowledge help to explain the ‘resistance
to change’ in urban policy initiatives?
In order to try to answer these questions this
paper focuses on a specific local context, the
Apulia region in Southern Italy. It analyses, the
involvement of the Region in area-based urban
regeneration initiatives. This started in the early
72
1990s within both EU structural funds policy
(Urban Pilot Projects-UPP, URBAN I and II and
2000-2006 “Cities priorities” programme) and
national and regional housing pilot projects
(Contratti di quartiere-Neighbourhood Pacts and
Programmi integrati di riqualificazione delle
Periferie-Peripheral Neighbourhood Integrated
Programmes). This paper analyses also the processes of construction of ‘good practices’ within specific networks intentionally devoted to the singling
out of practices labelled as ‘good’ (URBACT).
This paper is divided into three sections, following
this introduction. In the first section, we will briefly
discuss some issues concerning knowledge(s)
involved in urban policy processes and the ‘practice’ perspective. In the second section we will
analyse both the processes of construction of
‘good practices’ within the URBACT programme
and the ‘spontaneous’ diffusion of new (good)
urban regeneration practice referring to our casestudy. In the third and last section we will open
some issues starting from both our case-study and
our theoretical framework.
Knowledge(s) and urban regeneration practice
In recent years the notion of ‘practice’ has received increasing attention across several disciplines
ranging from philosophy to sociology to organisational studies (de Certeau, 1990; Shatzki, Knorr
Cetina, von Savigny, 2001; Thévenot, 2001;
Wenger, 2006). This attention has affected also
planning and the urban studies fields (Amin and
Thrift, 2002; Balducci and Fedeli, 2007).
It is possible to (roughly) distinguish two main
approaches to ‘practice’ within planning and
urban policy studies (Cellamare, 2007; Crosta,
2007; Pasqui, 2007). Some authors focus on practices developed within policy processes and linked
to policy making, implementation, evaluation.
Other authors focus on practices linked to everyday life and their relationship with public policy.
Of course, this is just an analytical distinction, with
practices being linked to each other: they are
socially constructed in specific concrete situations
(Vettoretto, 2007, p. 29).
This paper focuses on the first kind of practices. It
Carla Tedesco
Knowledge, (good) practices and ‘resistance to change’ in area-based initiatives
is a first attempt to highlight links between the
processes of diffusion of (good) urban policy practices and the knowledge(s) involved.
The category of knowledge has been redefined
due to the affirmation of the pluralistic paradigm.
This redefinition affects the urban policy field as
well as planning theory (Rydin, 2007). Many forms
of knowledge are recognized to play a role in
policy processes. It is possible to distinguish these
different forms of knowledge considering them to
be either linked to the roles played by different
actors (by the couple lay/expert knowledge) or by
the modes of production of knowledge (by the
couple
analytical/interactive
knowledge)
(Tedesco, 2002). This distinction can be useful to
explore the processes of (good) practices diffusion. Two points seem particularly useful for our
discussion:
Firstly, using the couple lay/expert knowledge
involves considering knowledge as a characteristic
of actors strictly linked to the role they are supposed to play within policy processes. Ordinary knowledge is attributed to people and scientific knowledge to experts. This can be easily doubted looking at the concrete policy processes (Crosta,
1998, p. 63). Actors use a mix of form of knowledge (ordinary, scientific, experiential, but also linked to values) and play roles often very different
from those they are supposed to play. Lindblom
and Cohen (1979, p. 12) state that for social problem solving “people will always depend heavily
on ordinary knowledge”, the latter being defined
as “knowledge that does not owe its origin, testing,
degree of verification, truth status to distinctive
Professional Social Inquiry professional techniques
but rather to common sense, casual empiricism, or
thoughtful speculation and analysis”
Secondly, we can assume with Crosta (1998) that
interactive knowledge includes not only knowledge exchanged between actors but also knowledge
generated during (and by) the action. The latter
has been considered more useful to social problem solving than analytical knowledge
(Wildavsky, 1973). In this view the analytical
dimension of knowledge keeps only a rethorical
role (Palermo, 1992). Hence, investigating interactive knowledge seems to be a key factor for under-
standing and better explain ‘resistance to change’.
Changing urban policy practices in the Italian
Mezzogiorno: How (good) practices spread
‘spontaneausly’/How ‘good practices’ are constructed in specific networks
During the last 15 years in Italy and in particular in
the Italian Mezzogiorno ‘new’ policy instruments
for tackling urban problems have been experienced. These were funded by both EU Structural
Funds (URBAN I and II, Urban Pilot Projects) and
National Housing Pilot Projects funds
(Neighbourhood Pacts-Contratti di quartiere I and
II etc.). They involved a shift from a sectoral, topdown and physical approach towards area-based,
bottom-up and integrated modes of action.
However, it is possible to highlight that many old
practices were hidden under new labels. And this
is why it is better to refer to these initiatives as
‘new’ in inverted commas.
In the Apulia region the processes of change have
become particularly interesting to observe since
2005. In this year a new left regional government,
willing to break strongly with the past right
government policy approach was elected. The
appointment of an academic, expert in the field of
urban policy and planning, as Planning, Urban
Policy and Social Housing councillor started a further ‘season’ of innovations in urban regeneration
initatives (Tedesco, 2007). In particular the role
played by the Region in urban regeneration initiatives changed. During the 1990s the Region had
not any role in area-based urban regeneration initiatives promoted and funded by EU; it was only
responsible for the delivering of the funds within
the national housing pilot projects
(Neighbourhood Pacts-Contratti di quartiere).In
the early 2000 the Region attempted to mainstream the EU approach to urban problems by the
design of the so called 2000-2006 Regional
Operational Programme ‘Cities Priority’.
Furthermore, it played a stronger role within the
Neighbourhood Pacts II round, with a regional call
for projects being launched within a national framework. In 2006 a regional area-based and integrated regeneration programme targeting peri-
73
n.23 / 2009
pheral social housing estates was designed and
launched at the regional level (Peripheral
Neighbourhood Rehabilitation Integrated
Programme-PIRP).
As far as cities are concerned since the early 1990s
to the middle 2000, although an evolution of instruments had occurred, this did not automatically
open the urban policy arenas to new practices and
many practices of ‘resistance to change still emerged (Tedesco 2007). These started to be accompanied by an increasing number of innovative practices when the regional area-based and integrated
regeneration initiative targeting peripheral social
housing neighbourhood was set up. It was based
on three key-concepts: integration, participation,
urban sustainability. It was designed taking into
account the previous experiences within both EU
and national funds. In particular it was based on the
attempt to avoid simplification and misuse of its
key-concepts. Within this policy process both innovation and resistance to change emerged. However
fuller awareness of the new concepts underpinned
by the programme was diffused. This produced a
diffused perception among practitioners involved
in urban regeneration of a cultural shift.
During the same years the Apulia cities have been
involved in the URBACT programme. Four out of
the five Region main towns (Bari, Brindisi, Lecce
and Taranto) and one small town (Mola di Bari) had
been involved in the URBAN programme.
Futhermore an UPP had been carried out in the fifth
Region main town (Brindisi). All the main towns joined at least one URBACT network. None of them
has been lead partner in an URBACT network.
As far as Bari, the regional main town, is concerned
it has been involved in three URBACT networks:
SecurCity, Cultural Activities & Creative Industries,
Information Society Network. None of them concerned integrated approaches to sustainable urban
development. In each of these networks the learning processes have had different features.
Within the Information Society Network, single
projects were singled out for the exchange, not all
linked to the URBAN experience.
In the case of the SecurCity Network learning
mainly concerned the approaches to the establishment of partnerships built up in order to develop
74
single actions for tackling safety problems.
The Cultural Activity and Creative Industries
Network was not considered a significant learning
experience by some actors involved in it. Other
actors thought the municipality was not able to
exploit it as a learning experience.
In the same period Bari was involved in the design
of two area-based urban regeneration programmes
within the regional PIRP (Peripheral Neighbourhood
Rehabilitation Integrated Programme). This was the
occasion to experiment participative practices which
were quite new to the Bari urban policy arena.
However the perception of innovation as essential in
participating to the PIRP bidding process pushed
local government to change the developers project
following citizens requirement.
To sum up, as far as our case-study is concerned,
within the URBACT experience information concerning single innovative projects was mainly
exchanged. Within the spontaneous spreading of
area-based urban regeneration initiatives concepts
and practices a sort of ‘cultural shift’ seems to have
affected in different ways the actors involved.
Some open issues
Which knowledge(s) were involved in the two processes examined (the participation in the URBACT
networks and the setting up of ‘new’ urban regeneration initiatives)?
“Good practice is a subtle alchemy between a project, an atmosphere and a territory. … The extraction of information concerning this good practice
is precisely that: extraction. Certain elements are
removed and others, which can be essential, are
inevitably left behind.” (Jacquier and Laino, 2002).
What drives the inclusion/exclusion of information
within the processes of ‘good practice’ constructionn? What drives the inclusion/exclusion of information within the ‘spontaneous’ processes of
(good) practice diffusion?
Let us referring to Lindblom and Cohen (1979,
p.12) again: “knowledge is knowledge to anyone
who takes it as a basis for some commitment or
action” From this point of view a major difference
between the construction of ‘good practice’ within
programmes intentionally devoted to the singling
Carla Tedesco
Knowledge, (good) practices and ‘resistance to change’ in area-based initiatives
out and diffusion of ‘good practice’ and the ‘spontaneous’ diffusion of urban policy practice is the
commitment or action knowledge is used as a
basis for.
A first point is that in our case-study the exchanges
of experiences within the URBACT programme
concerned single projects and were somehow
weak in increasing awareness concerning integrated approaches to sustainable urban development.
By contrast, the practices spontaneously diffused
by the design and implementation of ‘new’ instruments for urban regeneration mostly concerned
the new area-based, integrated and bottom-up
approach to sustainable urban development.
Transferring an approach to tackle urban deprivation is deeply different than transferring information concerning a single action.
A second point is that in our case-study, within the
networks intentionally devoted to exchanging
knowledge, information selected had to fit in a
specific way the network requirements (i.e. the
themes selected for structuring the network content and discussion). This, although whithin
URBACT knowledge is considered useful not only
when scientific and attributed to experts and
policy makers but also when ordinary and attributed to all the people involved in the policy process.
In the case of the spontaneous diffusion of practices, the spreading of information was linked to the
needs of single local contexts. It was open to the
interpretation of the key-concepts underpinned by
the ‘new’ urban regeneration instruments which
each local context could give in a specific concrete
situation.
Here the interactive knowledge was at stake. This
had to be interpreted not only as knowledge
exchanged between actors but also as knowledge
produced during and by the action. This could not
have been transferred once and forever.
The third point concerns ‘resistance to change’. In
both cases this was related to the ‘awareness’ of
actors involved in the policy process. They acted,
intentionally and unintentionally, as filters in the
exchange and circulation of knowledge. This was
often due to social and cultural factors usually not
taken into account in the identification of ‘good
practices’. Precise requirements concerning practi-
ces which can be considered ‘good’ do not help in
avoiding this filter, either intentionally or not
intentionally put in place by the actors involved.
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Questo articolo è la versione modificata di un
paper presentato alla conferenza Eura “learning
cities in aknowledge-based society” svoltasi a
Milano nell’Ottobre 2008
77
n.23 / 2009
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo
del XVIII secolo
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Le pagine che seguono trattano lo stesso contesto
storico già oggetto dell’articolo pubblicato sul
numero 20 di questa rivista con il titolo
“Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo”.
Anche i materiali archiviali che ne costituiscono
l’ossatura sono i medesimi, tratti dalle relazioni
spedite dall’arcivescovo della diocesi di Skopje
Matija Mazarek e dal suo clero alla Congregatio de
propaganda fide e oggi conservati nell’Archivio
Storico della Congregazione per l’Evangelizzazione
dei Popoli. L’aspetto su cui qui ci concentreremo
sono le relazioni esistenti tra le autorità ottomane
del Kosovo, la comunità cattolica e il suo clero.
1. La condizione dei cattolici nell’impero e la
questione della legittimazione degli arcivescovi
La situazione dei cattolici nei Balcani ottomani si
era fatta piuttosto complessa dopo le guerre del
1690 e del 1737. Per la loro particolare condizione
giuridica i cristiani di rito romano pativano, oltre
agli svantaggi comuni a tutti gli altri non musulmani (pagamento del cizye, minor valore della loro
testimonianza in tribunale, divieto di montare a
cavallo, di portare armi e di ostentare il lusso,
obbligo di manifestare la propria fede con discrezione) (Veinstein 1989, pp. 299-300), anche il fatto
di non essere ufficialmente riconosciuti dallo Stato
in quanto millet. Fino al trattato di Adrianopoli del
1829 i cattolici – come altri appartenenti a diverse
sette cristiane – furono accomunati agli ortodossi
e dipesero dal Rum millet, guidato dalle autorità
ecclesiastiche ortodosse (Frazee 1983, pp. 223224). Come si scrive in un memorandum del
78
governo francese risalente al XVIII secolo, ciò faceva sì che i fedeli di rito romano sparsi per le terre
ottomane fossero confusi con i cristiani di altri religioni e di fatto ignorati dalle autorità (Turquie vol.
17, p. 142r). In realtà i primi documenti ufficiali
ottomani riguardanti la comunità religiosa cattolica
risalgono a molto prima. Già nel 1463 i francescani
ottennero da Maometto II un documento che li
autorizzava a svolgere il loro ministero (Castellan
1999, p. 167). Un ulteriore passo in avanti fu compiuto nel corso del XVII secolo, quando nella zona
di Čiproviči (nei pressi dell’attuale Mihajlovgrad, in
Bulgaria) si formò un nucleo di minatori cattolici
tedeschi. Sostenuto dall’interesse dell’impero
asburgico, il Vaticano vi creò un arcivescovato e
Vienna si adoperò in modo da ottenere dalla Porta
l’autorizzazione ufficiale a celebrarvi liberamente il
culto (Castellan 1999, pp. 138-139). Ai tempi dell’arcivescovo Mazarek (1760-1808) la religione cattolica aveva ottenuto una forma di riconoscimento
legale ancora più completa grazie al trattato di
Karlowitz del 1699, con il cui articolo 13 la Porta si
impegnava solennemente a garantire ai cattolici la
libertà di culto e di costruire chiese, e prometteva
di non perseguitare in alcun modo i religiosi mandati da Roma (Veinstein 1989, pp. 318-319; Jelavich
1983, I p. 65; Frazee 1983, p. 154). E’ vero che non
si trattava di concessioni straordinarie, ma semplicemente della stipulazione formale di diritti già
garantiti dalla šar‘iyya (Veinstein 1989, p. 320),
ciononostante era un atto ufficiale con il quale si
ammetteva l'esistenza dei cattolici nell'impero
ottomano. Peraltro ancora prima del trattato di
Karlowitz i cristiani fedeli a Roma non erano
completamente oppressi e relegati in fondo alla
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
scala sociale: a partire dall'invasione dei Balcani si
andò formando una classe feudale dove figuravano
sipahi (cavalieri) originari delle varie regioni
conquistate, i quali mantenevano la propria fede
cristiana – ortodossa o cattolica –, ma prestavano
regolarmente servizio militare per il sultano ricevendo in cambio dei timar (proprietà terriere).
Nonostante ciò dimostri come l’appartenenza religiosa non costituisse di per sé un elemento discriminante assoluto nel sistema ottomano, in pratica
con il passare dei decenni agli sipahi cristiani vennero concessi terreni sempre più piccoli e poveri,
finché essi non trovarono più conveniente convertirsi all’Islam per migliorare la qualità dai propri
appezzamenti. Nelle terre albanesi non si trova più
traccia di proprietari terrieri cristiani dopo il primo
quarto del XVI secolo (Pulaha 1988, pp. 448-454).
Durante l’arcivescovato di Mazarek l’atteggiamento delle autorità ottomane del Kosovo nei confronti della comunità cattolica era assai meno accomodante di quanto si era rivelato durante i primi
secoli di dominazione. Sebbene la guerra austroturca di fine Seicento avesse portato al trattato di
Karlowitz e al già citato articolo 13, nei fatti il conflitto aveva peggiorato l’atteggiamento della Porta
nei confronti dei suoi sudditi correligionari del
nemico. Un’azione mirata di islamizzazione forzata
guidata dal governo ebbe luogo nel 1708-1709
(Bartl 1975-1979, I p. 14), al punto che in una lettera del dicembre 1709 l’arcivescovo di Bar Vicko
Zmajević scrisse che in un solo giorno erano stati
fatti convertire 1.013 cattolici della sua diocesi
(Bartl 1975-1979, I p. 85). Eppure questa politica di
conversione coatta non prese mai completamente
piede nelle diocesi albanesi. I cattolici di “Servia” e
delle altre regioni frontaliere rimasero comunque
persone guardate con un’attenzione particolare,
controllate accuratamente in quanto sospettate di
parteggiare o addirittura di collaborare attivamente con l’impero asburgico (Bartl 1975-1979, II p.
221; SC Servia I.598r). Il clero cattolico in particolare era oggetto di particolare, e non senza ragione, va detto: le autorità ottomane ricordavano
bene l’arcivescovo di Skopje Pjetër Bogdani, il
quale nel 1690 aveva preso apertamente le parti
degli austriaci durante la loro penetrazione nei
Balcani occidentali (Gasper 1986, p. 134; Malcom
1999, pp. 183-184). Nel 1737 il suo successore
Mikel Suma si comportò nello stesso modo, collaborando con le truppe austroungariche e fuggendo a Osijek dopo l’insuccesso della spedizione
(Gasper 1986, p. 134; SOCG 792.155v).
L’attività di Suma e l’identificazione tra religione e
politica, oltre a causare un grave danno al cattolicesimo in termini di conversioni all’Islam dovute
alle ritorsioni ottomane, fece anche sì che la posizione dei sacerdoti cattolici della regione divenisse
critica: nel corso delle devastazioni dei luoghi di
culto cattolici in occasione della guerra contro gli
Asburgo l’arcivescovo Nikolović-Kazazi narra che
due sacerdoti vennero decapitati pubblicamente e
molti altri furono costretti a fuggire, soprattutto gli
stranieri (SC Servia I.324v, 330r; SOCG 703.80r).
L’onda lunga dell’ostilità e soprattutto del sospetto delle autorità turche nei confronti del clero cattolico si protrasse per decenni. Nel 1743, in una
delle rare lettere arrivate alla Congregazione dalla
Servia negli anni immediatamente successivi alla
guerra, Pjetër Bytyqi, uno dei pochissimi sacerdoti
rimasti nella diocesi di Skopje, scrisse di essere
stato spogliato di tutti i suoi averi dal pascià di
Prizren, il quale non avanzò pretesti e non offrì
altre spiegazioni se non l’odio che provava per i
preti cattolici (SC Servia I.356v). E’ evidente che in
queste condizioni qualsiasi tentativo di ristabilire
un normale servizio spirituale sul territorio da
parte della Chiesa cattolica avrebbe incontrato un
serio ostacolo nell’atteggiamento ostile dei governanti locali. Forse anche per questo il Vaticano non
si affrettò troppo a nominare un nuovo arcivescovo e a ordinare nuovi preti da destinare alla diocesi di Skopje. Mikel Suma rinunciò formalmente alla
carica arcivescovile solo il 29 gennaio del 1743,
quando ormai aveva abbandonato la “Servia” e
risiedeva in territorio austroungarico da quasi sei
anni (Bartl 1975-1979, II pp. 230-231), e al suo
posto venne nominato il suo vicario, Gjon
Nikolović-Kazazi. Prima di essere insignito della
carica di arcivescovo di Skopje, Nikolović-Kazazi fu
nominato visitatore apostolico della Bulgaria nel
1742 e per poter svolgere il suo compito senza
destare sospetti nelle autorità ottomane si rivolse
all’ambasciatore di Francia presso la Porta, il quale
ottenne il firman richiesto senza fare pagare
79
n.23 / 2009
alcunché al prelato (SC Servia I.327r, 329v). Si può
supporre che questo documento bastò a
Nikolović-Kazazi per garantirsi una certa immunità
anche durante i dieci anni del suo incarico successivo come arcivescovo. Dopo di lui la scelta del
raguseo Toma Tomičić non si dimostrò politicamente molto azzeccata: la Repubblica di Ragusa
aveva da tempo la tradizione di installare dei suoi
cittadini come vescovi nelle regioni confinanti,
agendo di concerto con la Sacra Congregazione e
spendendo ingenti somme di denaro per fare in
modo che la Porta riconoscesse la nomina
(Radonić 1951, p. 607), tuttavia Tomičić capitò in
un frangente storico e in un contesto geografico in
cui i ragusei non erano molto benvoluti dagli ottomani.
Il nuovo arcivescovo fu quindi nominato dalla
Congregazione il 26 marzo del 1753 e fu confermato da papa Benedetto XIV il 26 settembre dello
stesso anno (Djivanović 1927, p. 135), ma arrivò sul
territorio della sua diocesi soltanto nella seconda
metà del 1754 e vi risedette soltanto per un anno,
senza mai riuscire a completare una visita generale
delle sue parrocchie. Il primo problema che lo ostacolò nelle sue funzioni fu l’assenza di un firman da
Istanbul che lo riconoscesse come sacerdote cattolico e gli desse una qualche forma di garanzia legale. Tomičić si procurò allora un lasciapassare come
mercante raguseo attraverso i rappresentanti della
Repubblica di San Biagio presso la porta, Ivan
Prkulović e Rafael Gučetić, e solo allora si decise a
trasferirsi nella sua diocesi, restando peraltro nell’enclave protetta della comunità mercantile ragusea di Novi Pazar (Zefi 2000, p. 35). Tante precauzioni non erano esagerate. La sorta di “patente di
nazionalità” che proteggeva i cittadini di Dubrovnik
all’interno dell’impero ottomano (Vinaver 1960,
pp. 19-20) non era sufficiente a mettere al riparo il
nuovo arcivescovo dal sospetto e dall’ostilità create
dal suo predecessore e dal ruolo ambiguo di
Ragusa nell’ultima guerra con l’Austria. Il Sabato
Santo del 1755 (29 marzo), durante la visita di
Tomičić a Janjevo in previsione della Pasqua, il
cattolico che lo ospitava in casa fu ucciso dai “turchi”, i quali erano ancora infuriati per il ricordo del
“tradimento” di Mikel Suma e sospettavano che
anche il nuovo arcivescovo fosse una spia al servi-
80
zio di Vienna. L’arcivescovo dovette essere tenuto
al sicuro per tutta la notte dagli altri cattolici del
luogo. A metà nottata, per sua fortuna, tutti i
musulmani abili alle armi della città furono convocati a Priština per contrastare l’esercito del governatore di Peć e Tomičić poté celebrare la Messa e
tornare sano e salvo a Novi Pazar (SOCG 762.206v207r). Mazarek, che in quanto parroco di Janjevo fu
presente all’episodio, presenta il fatto in maniera
leggermente diversa, con l’omicidio del cattolico
che avviene dopo la partenze dell’arcivescovo:
“Mons.r Tomaso Tomicich da Ragusa [...] essendo
venuto in Jagnevo per dare principio alla S. visita, e
contuttoche aveva regalato à tutti li Turchi de bellissimi regali, e gallantarie portate da Ragusa, nulladimeno li Turchi adirati contro di esso, e messisi in
grandissimo sussurro, ogni giorno procuravano
come di poterlo amazzare, et un certo superbo
Assanbascia due volte l’aveva aspettato con schioppo longo di amazzarlo, (così adesso ci racconta.) et
un giorno, essendo noi avisati da un amico Turco,
come, volevano venire di notte tempo con astuzia
di sbranarlo à viva forza, e però tutta la notte il
povero afflitto, et intimorito Monsig.re, chiuso in
una camera insieme con me, facendo l’animo un’all
altro, confessandoci, e disponendoci ad una barbara morte. Ma in quella sera per miracolo, e disposizione di Dio, erano stati chiamati tutti li Turchi di
Jagnevo dal Prencipe di Pristina città due ore
distante da Jagnevo, per difendersi dal Bassà di
Pecchia, il quale era venuto con un grosso esercito
per sacchegiare la detta Città: et in tal proposito
scampassimo il povero Arciv.vo accompagnandolo
una bona comitativa di Cristiani fino à Novo Pasaro
sessanta miglia lontano: Ma li barbari Turchi adirati, et inaspriti per esserli scampato l’Arci.vo amazzarono publicam.te un certo Nicolò Marinovich, il più
savio, e benestante, per occasione di aver allogiato
in sua casa l’Arc.vo, et anche io allora per poco la
scampai à forza di regali, e con bella maniera: Ogidì
si vantano li Turchi di Jagnevo, che se non fosse
fugito il sopralodato Arc.vo l’averebbero onninam.te con grandissima barbarie uciso, calumniandolo che fosse esploratore del Paese” (SOCG
792.156r-156v).
Questo non fu l’unico rischio corso dall’arcivescovo raguseo nel corso del suo breve mandato: poco
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
dopo l’episodio del Sabato Santo egli, in compagnia di alcuni mercanti suoi connazionali, incrociò
alcuni maggiorenti ottomani e fu da essi aggredito
e bastonato, in quanto sospettato di svolgere attività di spionaggio per la parte austriaca (SC Servia
I.472r-476v). Evidentemente, nonostante nella
prima metà del Seicento il visitatore apostolico
Pjetër Mazreku consigliasse il lasciapassare dei mercanti di Ragusa come la garanzia di immunità più
sicura per i sacerdoti cattolici (Draganović 1938,
pp. 13, 18-19), questo non era più così vantaggioso
dopo la guerra del 1737. In seguito a questo episodio Tomičić richiese immediatamente al Vaticano
l’autorizzazione a tornare a Dubrovnik fino a che i
rappresentanti della Repubblica a Istanbul non gli
avessero procurato un documento ufficiale che lo
proteggesse a sufficienza da questo tipo di violenze. L’autorizzazione arrivò nel 1755, ma nel frattempo l’arcivescovo aveva già lasciato il territorio
della sua diocesi e risiedeva nella sua città natale
(SC Servia I.509r-509v). Anni dopo, nel 1764, una
lettera firmata genericamente “il clero di Servia”
accusò Tomičić di essersene andato semplicemente “non potendo trovare gli agi Ragusei in Servia”
(SC Servia II.33r), ma i racconti di Mazarek sui problemi dei preti stranieri in Kosovo sembrano confermare che le difficoltà incontrate dall’arcivescovo
fossero ben più serie. Il 4 maggio 1757 Tomičić
scrisse alla Congregazione che gli ambasciatori
ragusei presso la Porta l’avevano informato dell’impossibilità di ottenere il firman richiesto, a meno di
grandi spese. Il 10 settembre dello stesso anno la
Congregazione lo invitò ad abbandonare la carica
arcivescovile, ringraziandolo per il servizio reso, e il
18 dicembre papa Benedetto XIV accettò ufficialmente le sue dimissioni (Radonić 1950, p. 642).
Anche Mazarek, appena insediatosi, raccontò del
sospetto con il quale le autorità guardavano i
sacerdoti cattolici, considerandoli spie al servizio
dell’impero asburgico. I “turchi” della diocesi di
Skopje, spiegò l’arcivescovo, erano più ostili verso
i preti cattolici che nelle altre ragioni principalmente per due ragioni: “Una è perche la Servia è
confinante con l’Ungaria, e spesso si fanno guerre,
e sapendo li Turchi, che li Tedeschi hanno un’istessa Fede con noi, e però sono ferocissimi contro li cattolici nostri, e sacerdoti; e contro li sci-
smatici non sono tanto. L’altra ragione perche
Mons.r Summa Arci.vo di Scopia nella guerra del
1737 se ne fugì in Ungaria, e li Turchi di Servia lo
avevano visto, e conosciuto nell’armata austriaca
quando combatterono in Cosovo; e per tal motivo
hanno in odio orribile li nostri poveri Arci.vi, e
sacerdoti, temendo, che non siano esploratori, e
spie dello Stato, se non con altro almeno con le lettere. E Dio guardi se si sentirà qualche rumore
della guerra, infallibilm.te l’Arc.vo con tutti li sacerdoti saremo tagliati, e sacchegiate le nostre povere
case conforme è successo nelle passate guerre, et
adesso con più ragione per causa di Monsig.r
Summa, minacciandoci fin d’adesso li Turchi, di
volerci sul principio del rumore sbranare, et assassinare del tutto” (SOCG 792.156v).
L’unica soluzione possibile secondo Mazarek era
ottenere un firman da Istanbul che gli desse
garanzie di sicurezza durante la sua attività pastorale (SOCG 792.145r). La mancanza di un millet
cattolico ufficialmente riconosciuto aveva fatto sì
che fino ad allora gli arcivescovi cattolici dell’area
si procurassero il permesso per le loro attività talvolta in maniera piuttosto estemporanea: Marino
Bizzi nella sua relazione del 1610 informò la
Congregazione di avere ricevuto un’autorizzazione
ufficiale a svolgere le funzioni di arcivescovo a Bar
tramite un suo amico d’infanzia preso dagli ottomani ancora bambino, portato a Istanbul e convertito all’Islam, come prevedeva il sistema del devşirme, e in seguito divenuto una personalità di spicco presso la Porta (Rački 1888, p. 64). In generale i
religiosi cattolici operanti in territorio ottomano
ricorrevano all’aiuto della Francia quando si trattava di ricevere documenti di questo genere, dal
momento che era stato proprio l’ambasciatore di
Francia presso la Porta il firmatario delle
Capitolazioni stipulate il 18 ottobre 1569 con il
gran vizir Sokollu, in base alle quali si autorizzava
l’accesso di missionari cattolici nell’impero. Si era
dunque consolidata la prassi che voleva che il clero
cattolico per avere un firman di protezione si
rivolgesse all’ambasciatore francese a Istanbul, il
quale spesso pagava l’emissione del documento
con il denaro dello Stato francese (Frazee 1983,
pp. 67-68). Questa funzione di “aiuto burocratico”
era stata svolta in gran parte anche dalla
81
n.23 / 2009
Repubblica di Venezia, ma in seguito alla guerra di
Candia del 1645-1669 essa era passata ad essere
interamente di competenza della Francia (Turquie
vol. 35, p. 360r). Con il trattato di Karlowitz si stabiliva che dovessero essere gli Asburgo a svolgere
il ruolo di protettori dei cattolici abitanti nell’impero ottomano, ma la successiva guerra austroturca del 1737-1739 cambiò nuovamente le carte in
tavola: come ricompensa per l’aiuto prestato dalla
Francia nel porre fine alla guerra, il sultano
Mahmut I rinnovò nel 1740 le Capitolazioni del
1569, decretando che tutto il clero cattolico, non
importa di quale nazionalità, dovesse essere rappresentato dall’ambasciatore francese a Istanbul
(Frazee 1983, pp 154-156).
Avendo già detto di Nikolović-Kazazi e di Tomičić,
Mazarek si trovava nella situazione doppiamente
difficoltosa di essere il primo arcivescovo da lungo
tempo a non godere di una protezione formale
davanti alle autorità e di essere il massimo rappresentate locale dei correligionari del nemico
austriaco. Già nella sua prima relazione l’arcivescovo sottolineò come la mancanza del firman lo rendesse diverso dai suoi predecessori e più debole
agli occhi sia dei “turchi” che degli “scismatici”, e
pregò la Congregazione di rivolgersi all’ambasciatore francese a Istanbul per ottenere l’indispensabile documento (SOCG 792.144v-145r). Nelle risoluzioni allegate a questa prima relazione si legge
che la Congregazione aveva approvato la spesa
necessaria per l’ottenimento del documento, sottintendendo così una disponibilità economica che
non aveva mostrato nel caso di Tomičić (SOCG
792.139r). Ciononostante, la risoluzione relativa al
firman non pare essere stata messa in atto, dal
momento che nel 1764 Mazarek si lamentò di
essere stato maltrattato e privato di parte del suo
denaro da un potente signore musulmano che
incontrandolo in viaggio l’aveva scambiato per un
mercante cattolico. Eppure, tutto sommato, scrive
l’arcivescovo, l’equivoco sulla sua identità fu un
vero colpo di fortuna, perché se fosse stato
riconosciuto come prete le conseguenze
sarebbero state molto peggiori e si sarebbe trovato
derubato di tutto, poiché un sacerdote cattolico
come lui, privo di un documento ufficiale di
protezione, era una preda davvero invitante
82
(SOCG 815.212v). Nonostante i pericoli e i disagi
descritti diffusamente e l'iniziale volontà del
Vaticano di venire incontro alle sue richieste, per
tutti i cinquant'anni del suo mandato Mazarek non
ottenne mai quel firman e dunque non ebbe mai
un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità.
2. Gli interlocutori dell’arcivescovo
A questo punto occorre tracciare un quadro più
chiaro di chi rappresentasse l’autorità ottomana
sul territorio della diocesi di Skopje. Leggendo le
lettere dell’arcivescovo e dei suoi sacerdoti si rimane colpiti dalla densità impressionante di “pascià”
e “signori” sparsi praticamente in ogni centro abitato, ognuno con una giurisdizione limitata al proprio territorio. A giudicare dal contenuto dei documenti in esame, in pratica ogni villaggio riconosceva l’autorità sostanzialmente assoluta di un suo
particolare maggiorente. In realtà il potere ottomano nelle province all’epoca non era così frammentato, almeno in teoria: il nahye, l’unità amministrativa più piccola, superava comunque in grandezza le piccole aree descritte da Mazarek, ognuna
sotto l’autorità di un “pascià” diverso (Gračev
1990, p. 7; Jelavich 1983, I p. 57). Tutti questi
“signori” facevano parte della classe degli ayan.
Era una categoria sociale relativamente nuova, che
si era venuta a formare con le guerre del XVII e
XVIII secolo, quando nel tentativo di fare cassa la
Porta cominciò a vendere le terre statali (miri
arazı) con la forma del mukataa, che prevedeva
la cessione di vasti territori comprendenti anche
interi villaggi a un singolo, il quale passava anche
ad amministrare la riscossione delle tasse sulla sua
nuova proprietà (Bilge 1988, p. 386; İnalçık 1993,
p. 144). Questo processo fece sì che si creasse una
classe di proprietari terrieri che godevano di una
larghissima autonomia amministrativa sui loro territori, rappresentando in pratica l’autorità per chi
vi abitava. La posizione di controllo sul territorio
da parte degli ayan fu ufficializzata da una legge
del 1726, la quale prevedeva che essi fossero eletti
da esponenti di spicco dei nahye e che ricevessero un’autorizzazione scritta da parte del sancak
bey (il capo dell’unità amministrativa due gradi al
di sopra del nahye). Intorno alla metà del XVIII tra
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
i compiti degli ayan rientravano: la determinazione del carico fiscale (entro certe restrizioni) e l’esazione delle tasse, la raccolta di truppe per l’esercito e il controllo sui funzionari locali. In pratica, tuttavia, gli ayan divenivano una sorta di capi villaggio a volte più grazie alla forza militare che attraverso il passaggio dell’elezione, come dimostra il
fatto che la stessa legge del 1726 cercasse di prevenire tali episodi proibendo esplicitamente l’elezione alla carica di mercenari rimasti sul luogo
dopo la fine delle attività belliche (si trattava principalmente di albanesi, tanto che nel testo della
legge si usa direttamente il termine arnavut, cioè
appunto “albanese”). Usando le truppe irregolari
che avevano al loro seguito (spesso costituite dai
soldati sbandati rimasti sul territorio dopo le guerre) (İnalçık 1985, p. 311), gli ayan per mezzo secolo si fecero scudo della loro carica ufficiale per perpetrare abusi ai danni della popolazione, soprattutto negli anni ’80, al punto che un decreto promulgato dalla Porta nel 1785 esautorò la funzione
di ayan, stabilendo che fosse addirittura proibito
pronunciare la parola (Gračev 1990, pp. 22-24). In
generale, si può dire che ai tempi di Mazarek coloro che detenevano il potere a livello locale fossero
di solito grandi proprietari terrieri che si erano
comprati la carica di ayan e con l’acquisto di sempre più vasti appezzamenti venduti dallo stato
aumentavano il proprio potere politico. Il titolo di
paşa, che nei documenti l’arcivescovo attribuisce a
quasi tutti i maggiorenti della sua diocesi (nella
forma italianizzata “bassa”), non è da interpretare
come una collocazione precisa nella gerarchia
ottomana, ma è un titolo onorifico generico che
ognuno dei piccoli despoti che Mazarek incontrava usava per sé (Castellan 1999, p. 244). D’altra
parte, il ruolo degli ayan non era esclusivamente
negativo. Essendo dei governatori che risiedevano
stabilmente sul proprio territorio e che normalmente passavano le proprietà e normalmente
anche la carica politica ai figli, essi non potevano
comportarsi come un funzionario transitorio che si
preoccupa solo di arricchirsi prima di abbandonare il suo posto. Avevano dunque cura che i contadini che abitavano sulle loro terre non fossero costretti dalla povertà ad emigrare, lasciando così i terreni incolti, così che poteva succedere che fornis-
sero ai loro “sudditi” un aiuto economico diretto
in caso di difficoltà nel pagamento delle tasse
(İnalçık 1985, p. 316). Inoltre, con lo sviluppo del
sistema fiscale maktu, che stabiliva un imposta forfettaria locale per ogni regione, gli ayan, che fungevano da intermediari tra il governo centrale e la
popolazione, generalmente intervenivano a favore
di quest’ultimo e contro la brama di liquidità di
Istanbul, sempre per la stessa paura di vedere i
propri possedimenti svuotarsi di forza lavoro
(Veinstein 1989, pp. 329-330). In un rapporto del
1827 sulle province europee dell’impero ottomano, conservato presso il Ministero degli Affari
Esteri francese, vengono ancora citati gli ayan,
nonostante l’eliminazione del termine e del ruolo
una quarantina d’anni prima, ed essi vengono descritti in maniera totalmente positiva, come personaggi potenti che difendono la popolazione dai
soprusi degli eserciti di passaggio (Turquie vol. 35,
p. 340r).
Di fronte a questa molteplicità di potentati e a questo frazionamento politico l’arcivescovo capiva
bene di doversi in qualche modo conquistare i
favori di tutti, e ciò non solo per munirsi di uno
scudo contro i soprusi dei cittadini comuni di altre
religioni ai danni dei cattolici e del loro clero, ma
anche per evitare che i signori ottomani
approfittassero della sua debole posizione per
depredare essi stessi senza intralci sia lui che i suoi
fedeli. L'unica via per assicurarsi una qualche
specie di garanzia di sicurezza era comprarla
pagando i maggiorenti locali sotto forma di regali
“spontanei”. Occorre fare una distinzione tra i doni
che Mazarek portava ad ogni signore musulmano a
cui faceva visita e i regali che la popolazione dei
centri abitati (compresi i musulmani) doveva dare
come tassa semilegale ogni volta che un rappresentante delle autorità si presentava nel loro villaggio o nella loro città. Quest’ultimo tipo di donativi
era una delle varie forme attraverso cui imposte
illegali secondo la legge ottomana venivano legalizzate in un periodo di decentramento e di scarso
controllo da parte dell’autorità centrale: una personalità ufficiale in viaggio aveva diritto allo hidmet
akçesi (“indennità di servizio”), ossia ad essere
mantenuta insieme al suo seguito dalla comunità
del villaggio per un periodo massimo di tre giorni,
83
n.23 / 2009
e al pişkeş, cioè a regali di benvenuto da parte della
popolazione (İnalçık 1985, pp. 318-321). E’ di questa usanza che parla l’arcivescovo Zmajević all’inizio
del Settecento, quando riferisce del poklon che
dovevano pagare sia i suoi fedeli che i loro vicini
“turchi” all’arrivo di un pascià (Bartl 1975-1979, II p.
6).
I regali di cui Mazarek si caricava ogni volta che
intraprendeva un viaggio che lo avrebbe portato
sulle terre di diversi signori ottomani, invece, non
erano in alcun modo stabiliti per legge, ma rappresentavano semplicemente un omaggio con cui
l’arcivescovo cercava di assicurarsi i favori e la protezione delle autorità. Era una prassi a cui l’arcivescovo si atteneva scrupolosamente, ritenendola
assolutamente necessaria. Curiosamente, Mazarek
descriveva questo tipo di omaggi come una cortesia necessaria non solo in occasione di nozze dei
vari maggiorenti, del loro ritorno da viaggi lunghi
o da campagne militari, ma anche in corrispondenza di ricorrenze religiose cattoliche come il
Natale e la Pasqua (SOCG 815.218r). I signori “turchi” della sua diocesi, scrive, in generale si comportano come un cane collerico che smette di abbaiare non appena vede che il visitatore ha del cibo in
mano; allo stesso modo essi, per quanto aggressivi
e minacciosi, possono essere facilmente placati
con qualche regalo (SC Servia II.62r). Anche in
situazioni in apparenza totalmente sfavorevoli,
come la presenza di un pascià che lo minacciava
apertamente, i doni che l’arcivescovo offriva parevano davvero fare miracoli nel farlo benvolere,
soprattutto perché si trattava di merci di importazione che non era facile reperire sul luogo (SC
Servia III.161r-161v). Mazarek iniziò ben presto un
traffico piuttosto intenso tra Venezia, dove le richieste venivano evase e le merci spedite da un agente della Congregazione (“procuratore”), e la sua
diocesi. Si trattava perlopiù di quelle che nei documenti sono chiamate “galanterie”, cioè piccoli
oggetti di artigianato o strumenti meccanici poco
conosciuti nell’impero ottomano. Riportiamo qui
come esempio una lista di doni destinati a Mazarek
compilata nel 1796 da un certo Paić di Venezia, il
quale era solito svolgere queste funzioni: “Sei ottimi canochiali. Una dozzena di zuccari. Una dozzena di scatole di Iriaca [il termine non è chiaro].
84
Una dozzena di petteni d'avorio. Sei petteni rari
per barba. Sei belli occhiali con scatole. Altri sei
belli occhiali. La figura di tutti i gran Signori Turchi.
Un par di belle pistole da saccoccia. Una pistoletta
da impizzar la pipa” (SC Servia III.207r). E’ curioso
notare che tra le richieste ci siano anche i ritratti di
tutti i sultani, ossia un tipo di articolo che si supporrebbe più accessibile in territorio ottomano
che fuori, ma va ricordato che per motivi religiosi
la ritrattistica era una forma d’arte pressoché sconosciuta nel mondo musulmano.
La questione di chi pagasse per questi doni non è
del tutto chiara: nel 1764 l’arcivescovo scrisse a
Roma di trovarsi indebitato proprio a causa di
questi regali, che era costretto a pagare con la
somma annua che la Congregazione gli inviava per
il suo sostentamento (SOCG 815.218r). Nel 1772
Mazarek si rivolse direttamente alla Sacra
Congregazione per ottenere degli articoli da regalare ai governatori temporali della sua diocesi ed è
possibile che la richiesta sia stata accolta (SC Servia
II.169v). Tuttavia, nella relazione della visita diocesana del 1781, l’arcivescovo scrive di nuovo esplicitamente di attingere ai propri fondi per procurarsi da Venezia gli articoli necessari per ingraziarsi le autorità (SOCG 859.469r-469v) e quattro anni
dopo informa la Congregazione di spendere quasi
tutta la sua provvigione annua in questo modo:
“Ogni anno, ogni mese, anzi ogni settimana, e giorno mi conviene ad ogni turco Sig.re, ad ogni
Giudice, ad ogni Governatore, anzi ad ogni cortegiano dare molti regali, quali faccio venire da
Venezia consistenti in canochiali, zuccari, terriaca
[sic], pettini, et altre galantarie, et ancor di nostri
paesi molti caffè, tabacco, pippe indorate, castroni,
agnelli; in una parola tutta la mia provisione, che
mi manda la pietosa Sac. Cong.ne la spendo in
regali, et in soccorso alli poveri Cattolici, che non
perdano la Santa Fede, et io sempre mi trovo in
gran debiti. E senza dare io tali regali, non potrei
avere pace, e quiete dalli barbari turchi, ne ardirei
esercitare l’officio Arcivescovile” (SOCG 872.142v).
Sembra però che le merci provenienti da Venezia
non fossero solo donativi quasi imposti a Mazarek,
ma ci sono prove che dimostrano come l’arcivescovo fungesse da vero e proprio tramite commerciale tra i governatori della sua diocesi e l’Italia.
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
Nella relazione del 1791 si legge che Mazarek viene
convocato dal governatore di Novo Brdo, il quale gli
fa delle ordinazioni molto precise di specchi, tessuti e altri oggetti che l’arcivescovo deve fare venire
dall’altra parte dell’Adriatico tramite i mercanti di
Shkodër, con il giuramento “per l’indiabolato
Mahometto” di pagare alla consegna (SOCG
895.75r, 79r). Più avanti all’interno della stessa lettera, parlando della fuga di tre pascià a Sofia (probabilmente della famiglia dei Rotul) (Kostić 1929, p.
159) davanti all’avanzata di Mahmut Bushatlı,
Mazarek si lamenta del fatto che i “prencipi” fuggiti
gli siano rimasti debitori di una somma ingente per
gli articoli fatti venire da Venezia (SOCG 895.101v).
Ad ogni modo, questa attività di mediatore commerciale non era affatto fruttuosa per l’arcivescovo,
tanto che dopo il sacco di Roma del 1793 si indebitò anche per questo motivo, come dimostra la richiesta di pagamento che Paić allegò all’elenco citato
in precedenza e spedito direttamente alla Sacra
Congregazione (SC Servia III.192r).
In sostanza i regali ai vari governatori locali sono la
base di partenza su cui l’arcivescovo cercava di costruire buoni rapporti con le autorità non solo per
viaggiare sicuro attraverso le loro terre, ma anche
per ottenere condizioni migliori per i fedeli cattolici assoggettati ai vari signori ottomani. Peraltro
l’uso di fare doni ai rappresentanti del potere non
era un’esclusiva di Mazarek, che vi si vedeva costretto per sopperire alla mancanza di un firman da
Istanbul: è noto che anche l’alto clero ortodosso,
pur essendo già legittimato da vari decreti ufficiali,
aveva l’abitudine di omaggiare spesso i governanti
ottomani per ottenerne i favori (SOCG 815.218r).
Non erano solo i doni il modo in cui il denaro di
Mazarek passava dalle sue mani a quelle delle autorità. Esisteva anche un’imposta apparentemente
fissa e legale che veniva richiesta ai preti e che nei
documenti viene chiamata “sciatarhacco”. La parola è probabilmente l’italianizzazione dei due sostantivi di origine araba šaTr (“spartizione”) e Haqq
(“diritto”). Vicko Zmajević usò questo termine
indicante un “diritto di spartizione” già nel 1703,
specificando che si trattava di un’imposta fissa sui
sacerdoti che ammontava all’incirca a “tre reali
all’anno” (Bartl 1975-1979, p. 6). Mazarek diede
una traduzione del termine come “quattrini sacer-
dotali” e precisò che era una somma che al
momento dell’insediamento di ogni nuovo governatore pagavano non solo i sacerdoti cattolici, ma
anche quelli ortodossi. Per differenziare lo “sciatarhacco” dai continui omaggi che si dovevano fare
ai signori di ogni zona, l’arcivescovo scrisse che
questa tassa annua non era dovuta a tutti, ma solo
a coloro che egli chiamava “bassa”, mentre ai
“prencipi” andavano solo i regali consueti (SOCG
815.217r-217v). La divisione è con ogni probabilità
tra governatori più o meno potenti.
Sfortunatamente Mazarek non quantificò mai la
somma dovuta per questo tipo di tassa.
3.La questione delle chiese
Un’altra voce di spesa a cui l’arcivescovo e il clero
a lui sottoposto dovevano fare fronte era quella
relativa all’ottenimento dei permessi per ristrutturare o riedificare del tutto le chiese. Negli anni
Ottanta del XVI secolo i missionari gesuiti
Komulović e Raggi riferirono che in tutto il Kosovo
solo a Prizren si trovava una chiesa con ancora la
sua croce sul tetto. Un luogo di culto cattolico in
condizioni così buone, scrivevano, era eccezionale
per l’impero ottomano e si spiegava con il fatto
che i musulmani non erano riusciti ad abbattere la
croce, o meglio, che i cattolici del luogo avevano
saputo difenderla (Vanino 1969, p. 52). Per quanto
riguarda l’intera Europa ottomana, il primo permesso ufficiale della Porta a costruire chiese cattoliche giunse nel 1615 su pressione dell’impero
asburgico (Castellan 1999, p. 167) e fu ribadito nel
già citato trattato di Karlowitz. Durante la sua visita in Kosovo nel 1623, Pjetër Mazreku riportò che
le varie città della regione erano ben fornite di
chiese soprattutto nei centri minerari, che già a
quell’epoca avevano però quasi del tutto cessato
l’attività (Draganović 1938, pp. 31-32).
Tuttavia dopo le guerre austro-turche tra Seicento e
Settecento la situazione si presentava completamente stravolta. Stando all’arcivescovo NikolovićKazazi, le devastazioni legate agli spostamenti degli
eserciti e la rabbia ottomana dopo la fine dei conflitti lasciarono negli anni successivi al 1737 appena
due chiese in qualche modo agibili in tutta la diocesi di “Servia”, una a Janjevo e una a Zur, entram-
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be bisognose di riparazioni. Ciò costringeva tutti i
parroci – inclusi quelli delle due città summenzionate, timorosi delle loro chiese pericolanti – a officiare la Messa nelle case parrocchiali o in case di privati (Acta 119.115r-115v). Nella sua prima di visita
diocesana Mazarek passò in rassegna tutti gli edifici
adibiti alla celebrazione della Messa in tutte le parrocchie che riuscì a visitare e ne presentò un quadro piuttosto deprimente: in mancanza di una chiesa agibile si officiava nella casa parrocchiale a Peć
(SOCG 792.144r), Zur (la chiesa segnalata da
Nikolović-Kazazi era ormai cadente) (SOCG
792.149r) e Prizren (SOCG 792.149v). Si celebrava
invece in abitazioni private a Dakovica (SOCG
792.148r), mentre la parrocchia della Skopska Crna
Gora costituiva un caso particolare, con le sue due
chiese prive del tetto dove si poteva celebrare solo
con il bel tempo (SOCG 792.151v). La Messa si teneva in chiese in uno stato più o meno accettabile solo
a Zogaj (in una chiesa “miserabilissima, e coperta
con la pallia”) (SOCG 792.148v) e a Janjevo, dove
alla chiesa di S. Nicola era stata tolta la copertura di
piombo del tetto durante la guerra del 1737-1739
(SOCG 792.150r-150v).
Ciò non significa necessariamente che tutti gli altri
luoghi di culto cattolici della regione fossero stati
distrutti: molti di essi erano stati trasformati in
moschee, in monasteri di dervisci, in bagni pubblici o addirittura in stalle per gli animali (SOCG
847.610v; SOCG 859.461v). La città che aveva subito il calo più drastico in termini di chiese cattoliche
era senza dubbio Skopje, di cui Mazarek scrisse: “In
questa metropoli di Scopia li Turchi hanno predominato, e preso tutte le possessioni, et entrate
ecclesiastiche, come anche il Palazzo Arcivescovile,
Casa Parochiale, la Chiesa poi Metropolitana l’hanno convertita in sacrilega Moschea, la capella di S.
Nicolò in luoghi communi, et indecentissimi, li terreni Parochiali l’hanno attribuito, e regalato alli
Dervisci, et Hoccie ottomani” (SOCG 847.607v; v.
anche SOCG 895.76r). Va detto peraltro che l’esproprio e la trasformazione in moschea della cattedrale di Skopje da parte delle autorità ottomane
non fu legata alle guerre con l’impero asburgico,
ma avvenne molto prima, nel 1671, data in cui il
titolo di cattedrale passò alla chiesa di S. Nicola a
Janjevo (Urošević 1935, p. 189). La conversione in
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moschea di una chiesa cristiana era un atto politico
prima ancora che religioso, uno dei primi atti simbolici che venivano compiuti dagli ottomani al
momento della conquista di una città (Hasluck
1929, pp. 7-8). Per i tempi di Mazarek è scorretto
parlare ancora di conquista, dal momento che stiamo parlando di terre facenti parte dell’impero
ottomano già da tre secoli, ma trasformare in un
simbolo dell’Islam un luogo sacro per la religione
“nemica” rappresentava senza dubbio, in un periodo di forte contrapposizione con una potenza cristiana come l’Austria, un modo di rivendicare il
dominio di Istanbul su quel territorio. Intrecciati ai
motivi politici ve ne erano anche di religiosi, all’interno di un processo di islamizzazione generale
non preordinata, in cui non era solo la popolazione a passare all’Islam, ma anche i luoghi sacri,
secondo uno schema che prevedeva l’identificazione di un santo cristiano con uno musulmano e di
conseguenza il passaggio da una religione all’altra
anche del luogo a lui legato (Hasluck 1929, p. 55).
I documenti in esame sembrano suggerire comunque che la distruzione o la conversione delle chiese cristiane in qualcos’altro avesse soprattutto una
valenza squisitamente politica, quando non era
semplicemente un riutilizzo di strutture compiuto
senza tenere conto delle implicazioni religiose.
Una dimostrazione piuttosto evidente di una trasformazione religiosamente “neutra” sono le conversioni di numerose chiese in bagni pubblici: questi casi furono evidentemente così frequenti da fare
scrivere a Hasluck che molti cristiani dei Balcani e
dell’Asia Minore fino al Novecento consideravano
sacri moltissimi bagni pubblici, anche se non c’era
alcuna prova che fossero stati un tempo chiese cristiane (Hasluck 1929, p. 38).
I cristiani sudditi della Porta non potevano restaurare né costruire luoghi di culto senza l’autorizzazione del sultano, il che si traduceva in una certa
quantità di denaro da sborsare per ottenere il permesso. Non sempre, tuttavia, il pagamento era sufficiente, ma bisognava anche fare i conti con la disponibilità dei governatori locali, e il fatto che
Mazarek fosse privo del riconoscimento dato da un
firman ufficiale di certo non aiutava (SC Servia
II.18r). Inoltre bisogna considerare che all’epoca
trattata, in cui si era già formata la classe latifondi-
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
sta ottomana, non si poteva costruire alcun edificio
senza prima pagare una tassa ad hoc (dam tapusu)
al proprietario feudale (Pulaha 1988, p. 483). Alla
fine del suo primo resoconto sullo stato delle chiese nella sua diocesi l’arcivescovo espose alla
Congregazione le prospettive di miglioramento. A
Djakovica la comunità cattolica con il contributo di
tutto il clero diocesano aveva raccolto del denaro
(quantificato in circa 200 scudi pontifici d’argento)
per costruire una casa per il parroco, ma nonostante i soldi le autorità ottomane si opponevano,
sospettando che la casa potesse venire convertita
in chiesa (SOCG 792.148r) - l’accusa non era poi
così infondata, dato che, come abbiamo visto,
molto spesso la residenza del parroco veniva utilizzata anche per celebrarvi la Messa. A Zogaj i
signori ottomani locali erano assolutamente contrari a lasciare riparare la chiesa in pessime condizioni o a lasciarne costruire una nuova (SOCG
792.148v), mentre a Zur c’era la possibilità di
ristrutturare la chiesa inagibile pagando per l’autorizzazione (SOCG 792.149r). A Janjevo, infine, lo
stesso Mazarek aveva già preso accordi con un
certo Osman aga, che egli chiama “comandante di
Jagnevo”, per ricevere il suo appoggio per riparare
la chiesa, a patto che fosse prima riuscito ad ottenere il firman di autorizzazione (SOCG 792.150v).
La Congregazione concesse nel 1763 100 scudi
totali per il restauro delle chiese della diocesi e un
anno dopo l’arcivescovo comunicò di avere speso
più della somma assegnata per costruire a Janjevo
una nuova casa parrocchiale, prendendo soldi in
prestito prima che la questione venisse decisa a
Roma. Egli richiese che la spesa venisse approvata
ugualmente, nonostante i soldi inviati fossero stati
destinati esplicitamente alla riparazione delle chiese e non alla costruzioni di alloggi per il clero, ma
la Congregazione decise di sottrarre dalla provvigione annua successiva dell’arcivescovo i cento
scudi indebitamente utilizzati, sottolineando che,
dal momento che Mazarek nel 1760 aveva dichiarato di avere l’appoggio del governatore locale
della sua città, ci si aspettava che l’arcivescovo
riuscisse a risolvere almeno la questione della chiesa di Janjevo anche senza un ulteriore aiuto economico (SOCG 815.218v-219r; Acta 136.231r231v). In realtà la casa parrocchiale fatta costruire
da Mazarek, oltre a ospitare l’arcivescovo stesso e
il parroco, svolgeva anche, all’insaputa delle autorità ottomane, la funzione di chiesa. Mazarek
descrive in maniera piuttosto interessante la pianta della sua residenza e il modo in cui essa poteva
servire da luogo di culto clandestino:
“Nell’appartamento di sopra da una banda del coridore feci una comoda stuffa con una cameruccia
per vescovo, in mezzo, una camera per fare foco
che serva al Vescovo, e à Paroco, dall’altra banda
una stuffa per il Paroco = l’appartamento sotto, il
quale è abbastanza longo, e largo, l’hò constituito
per celebrare la Messa; Nulladimeno per alcuni
anni finche si invechisca non ardisco adobarla, e
pulirla bene, dando ad intendere alli Ottomani,
che è stalla per li cavalli” (SOCG 815.218v).
A Djakovica, invece, nel 1761 i parrocchiani avevano raccolto i soldi necessari per ottenere la licenza
e comprare una casa per il loro parroco da adibire
anche alla celebrazione della Messa, ma l’anno successivo, con il cambio del governatore locale, tutti
i cattolici furono messi in carcere insieme al prete
con l’accusa di avere costruito una chiesa clandestina: la casa fu confiscata e i prigionieri si liberarono dietro il pagamento di un riscatto (SOCG
815.215r).
Nonostante la frammentazione dell’amministrazione ottomana, Mazarek precisa che la questione
della riparazione delle chiese non era lasciata totalmente all’arbitrio dei governatori locali, nonostante quanto l’esempio di Dakovica possa far pensare:
il firman di autorizzazione da Istanbul era
comunque un passo necessario senza il quale non
poteva essere iniziato alcun lavoro di costruzione
o di restauro di un luogo sacro degli zimmi – non
si tratta solo dei cattolici, ovviamente. A conferma
di questa tesi l’arcivescovo riporta nella relazione
del 1764 il caso di Peć, dove scrive che pochi anni
prima un personaggio che egli chiama “valoroso
Hoda Bassà”, spinto dai consistenti regali del
patriarca ortodosso, aveva dato ordine di restaurare una chiesa (non specifica quale) senza aspettare
il permesso dalla Porta, ed era stato per questo
deposto e decapitato per ordine del sultano
(SOCG 815.218v). L’ordine non era tanto un
segnale di chiusura assoluta nei confronti delle
richieste dei crisitiani, quanto una punizione per la
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disobbedienza e l’insubordinazione del governatore, tanto è vero che all’inizio degli anni Ottanta del
secolo il permesso di ristrutturare sia la casa parrocchiale che la chiesa di Peć fu concesso attraverso il normale iter di pagamento della licenza (SC
Servia II.411r, 415r).
Oltre ai soldi spesi dalla Congregazione e dalle
comunità cattoliche locali per ottenere i permessi
di costruzione, somme di denaro potevano essere
prese arbitrariamente dai governatori ottomani
che minacciavano di confiscare le proprietà edificate o riadattate con tanto dispendio di mezzi
(SOCG 815.217v).
Le richieste di erezione o di riparazione di luoghi
di culto cattolici cominciarono a venire approvate
in massa dalla Porta a partire dal 1856, data del
decreto di riforma che stabiliva l’uguaglianza di
diritti per i sudditi indipendentemente dalla religione professata (Malcom 1999, p. 222). Nella sua
recente monografia dedicata all’amministrazione
ottomana in Kosovo nel XIX secolo Ebubekir
Sofuoğlu parla di migliaia di richieste di costruzione e restauro di luoghi di culto cristiani (non solo
cattolici) che provenivano da tutto l’impero e a cui
la Porta rispondeva quasi sempre affermativamente, spesso anche fornendo un contributo economico per i lavori (Sofuoğlu 2006, pp. 109-115).
Secondo il ragionamento di Sofuoğlu, questa
sarebbe la prova del prolungarsi di una tradizione
plurisecolare di tolleranza da parte degli ottomani
nei confronti dei cristiani (Sofuoğlu 2006, pp. 106109). Il fatto che, come scrive, per oltre cinquecento anni siano rimaste in piedi delle chiese cristiane in territorio ottomano dimostra certamente
che Istanbul non attuò mai una politica violenta di
islamizzazione totale della società; tuttavia lo stesso eccezionale afflusso di richieste di edificazione
di luoghi di culto o di riparazione di quelli vecchi
che arrivò alla Sublime Porta non appena si presentò l’occasione propizia indica con altrettanta
evidenza che l’amministrazione non aveva sempre
mostrato un atteggiamento benevolo nei confronti delle chiese cristiane. Tra le prime richieste
accettate citate da Sofuoğlu ne troviamo due che
riguardano chiese sicuramente identificabili come
cattoliche nella diocesi di Skopje: nel 1865 fu
approvata la riparazione nella parrocchia della
88
Crna Gora di una delle due chiese scoperchiate di
cui si lamentava Mazarek un secolo prima e vi fu
annesso un alloggio per il parroco, mentre nel
1868 si diede l’autorizzazione a ristrutturare la
chiesa di Prizren, da tempo ormai in rovina, e ad
aggiungervi un magazzino per gli “oggetti” appartenenti alla chiesa (probabilmente calici e paramenti sacri) (Sofuoğlu 2006, pp. 110, 276).
4.Il problema fiscale
Di certo il punto che faceva maggiormente preoccupare l’arcivescovo per i propri fedeli era la questione delle tasse. Del cizye si è già parlato, ma c’erano altre tasse comuni ai reaya di tutte le religioni a cui anche i cattolici dovevano sottostare. Esse
erano principalmente una somma annuale pro
capıte (haraç), una tassa annuale fissa relativa
all’usufrutto della terra che il contadino lavorava
(ispence per i cristiani e resm-i çift per i musulmani) e la decima sul prodotto (aşar o öşr) (Malcom
1999, p. 133; Pulaha 1988, p. 455; Castellan 1999,
p. 143). Oltre a queste esistevano le tasse avarız,
concepite in origine come tasse straordinarie per
periodi di emergenza, ma di fatto divenute stabili
in tutto l’impero già tra il 1593 e il 1606. Tali imposte non costituivano una somma fissa, ma erano
frutto di una contrattazione che periodicamente
avveniva tramite gli ayan tra il governo centrale e
la popolazione locale, la quale usava spesso come
argomento a proprio favore la minaccia di lasciare
le terre su cui risiedeva (İnalçık 1985, pp. 313-316).
Parte di queste tasse erano nate con lo scopo di
finanziare le guerre che l’impero aveva dovuto
affrontare tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII
secolo (va ricordato che non era aperto solo il
fronte contro l’Austria, ma anche quello contro la
Persia) e si erano poi “cristallizzate” come imposte
stabili: nel 1713, per fare sì che la massa di truppe
rimaste disoccupate nei Balcani continuasse a ricevere una paga e non si desse al brigantaggio, si stabilì che la popolazione dovesse pagare una nuova
tassa chiamata piuttosto paradossalmente imdad-ı
hadariyye (“contributo d’emergenza per il tempo
di pace”) (İnalçık 1985, p. 326). E’ tuttavia estremamente difficile fare un calcolo esatto di quale
fosse effettivamente la pressione fiscale esercitata
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
sui cattolici della diocesi di Skopje, dal momento
che la legge ottomana concedeva ai governatori
locali la facoltà di imporre proprie tasse alla popolazione. E’ vero che queste imposte erano ammesse solo in casi di emergenza e dietro uno speciale
permesso del sultano (İnalçık 1985, p. 318), ma di
fatto, stando alle relazioni di Mazarek, questo era
un diritto che i pascià locali si arrogavano senza
curarsi troppo di ricevere autorizzazioni da
Istanbul. Oltre a ciò non va dimenticato che esistevano dazi sui prodotti venduti al mercato (aumentati in maniera vertiginosa nel corso degli anni
Novanta del Settecento) (Gračev 1990, p. 29) e
altre tasse non fisse.
La pressione fiscale fu in costante crescita nell’impero ottomano a partire dal XVII secolo, in coincidenza con l’inizio della decadenza della potenza
della Porta. L’aumento della tassazione colpì ogni
strato della popolazione e fece poche distinzioni
tra gruppi religiosi, nell’unico intento di raccogliere quanto più denaro possibile e dare sollievo alle
finanze impoverite di Istanbul. Nel 1704 l’arcivescovo Zmajević, il quale, come visto, era particolarmente sensibile agli effetti nocivi delle pesanti
tasse sullo stato della cristianità nei territori albanesi, mandò nella capitale dell’impero alcune persone di sua fiducia per informarsi sulla possibilità
di ottenere un alleggerimento del cizye per i cattolici, ma le notizie che ne ricavò furono sconfortanti, dal momento che le motivazioni che stavano
dietro all’aggravio fiscale avevano radici ben più
profonde della volontà di punire i cristiani per
l’aiuto fornito agli Asburgo nella guerra appena trascorsa: “Ritornati li miei inuiati da Costantinopoli
raguagliano con somma afflitione dell’animo mio
l’impossibilità della diminutione del Tributo, non
tanto per la fissa mira, ch’hà il Gouerno di destruggere colla uiolenza degl’agrauij la Christianità suddita, quanto per la somma auaritia del Sultano
[Ahmed III], che pone tutte le sue applicationi ad
arricchire l’errario esausto” (Bartl 1975-1979, II p.
195). Nel 1710 l’arcivescovo comunicò al Vaticano
che la situazione era ulteriormente peggiorata, al
punto che nella sua diocesi la “tassa agraria”
(ispence o resm-i çift) si era trasformata da imposta annuale a imposta mensile (Bartl 1975-1979, I
p. 91). Ad ogni modo, l’accresciuto carico fiscale
sembrava riguardare gli appartenenti a tutte le
comunità religiose.
Lo stesso Mazarek, che pure vedeva il fisco come il
principale nemico della fede nella sua diocesi,
ammetteva la mancanza di un piano preciso di eliminare i cristiani e confermava che quello che gli
ottomani volevano dai suoi fedeli non era “sangue,
ma soldi”, data la profonda crisi economica dell’impero (SC Servia III.200r). Le persecuzioni a cui
erano sottoposti i suoi diocesani non erano dunque messe in atto con l’obiettivo di eliminare i cattolici, bensì di prendere denaro. Ciò che traspare
dai documenti è che non si trattava di una pressione fiscale accresciuta in maniera pianificata, bensì
di una corsa all’esazione piuttosto disordinata da
parte di diverse fonti di autorità. L’arcivescovo offrì
una dimostrazione esemplare della mancanza di
regolamentazione nell’imposizione delle tasse in
un episodio del 1777 riguardante ancora una volta
la sfortunatissima parrocchia della Skopska Crna
Gora: “Appena cominciassimo à pranzare, subito
giunsero da una banda otto turchi con Tributiere,
dall’altra parte cinque persone del Governatore
per raccogliere 500 piastre [kuruş], che hanno
imposto à questa villa di angaria, tutti quanti entrarono con furia, e rabbia a da non potersi in carta
descrivere: E vedendo io questi arrabiati cani albanesacci, non potei mangiare, restandomi il boccone amaro nella gola, tutte le membra mi tremavano un poco di timore, ma maggiorm.te di compassione, e dolore nel vedere, come le sopradette due
compagnie volevano combattere frà di loro, cavando le armi, pretendendo à gara uno prima dell’altro di prendere li dennari dalli cattolici, e non
potendo questi poveri ad ambidue le parti à pagare” (SOCG 847.608v-609r). La scena qui rappresentata illustra la totale mancanza di coordinazione tra
il “tributiere” – il termine indica con ogni probabilità una persona al servizio di un mültezim, ossia di
un notabile che ha ricevuto in appalto dalla Porta
la riscossione delle imposte destinate a Istanbul
(İnalçık 1985, p. 334), o comunque una qualche
personalità ufficiale legata allo Stato centrale – e
gli uomini del “governatore” – senza dubbio un
signore locale – venuti ad esigere una tassa irregolare imposta arbitrariamente. La mancanza di unità
del sistema fiscale è sottolineata anche altrove, in
89
n.23 / 2009
un brano della relazione del 1781 sulla parrocchia
di “Montenegro” che illustra chiaramente come
per ogni tassa ci fosse un funzionario apposito che
non agiva di concerto con gli altri, ma si occupava
solo della riscossione della propria imposta di
competenza, senza curarsi se i contribuenti avessero appena affrontato le spese di un’altra tassa o
no: “Trovandosi per tanto questi miei boni diocesani tanto affogati dall’ingordigia ottomana con
estorsioni infiniti ogni giorno, e non lasciandoli
un’ora da poter respirare, ma appenna li escono
dall’allogio Tributieri, vengono decimieri, doppo
Spahi, doppo Lovnici, che piglia à uno zecchino
per testa, doppo Poresci, che piglia à 40 a 50 piastre per casa” (SOCG 859.470v-471r). Non è possibile ricostruire esattamente il ruolo ufficiale ricoperto da “Lovnici” e “Poresci” (entrambi termini
slavi riconducibili grossomodo all’esazione tributaria e privi di un corrispondente preciso in turco),
perché si trattava con ogni probabilità di incaricati
mandati per riscuotere le imposte destinate alle
autorità locali o, in alternativa, di persone che avevano preso in subappalto dal mültezim l’esazione
di alcune tasse dovute alla Porta.
Nonostante la sete di denaro delle autorità non
prendesse in considerazione distinzioni religiose,
chi era meno protetto dall’aumento arbitrario del
carico fiscale erano senz’altro i sudditi più deboli,
cioè i non musulmani. Mazarek scrisse che uno dei
pretesti più frequentemente usati dalle autorità
per sottoporre i cattolici a maltrattamenti che consistevano sostanzialmente in appropriazioni indebite era che essi calunniavano l’Islam (SC Servia
II.265r). Nel libro sul suo viaggio in Kosovo del
1862 Muir Mackenzie spiegò in maniera lineare il
funzionamento dell’esazione delle tasse nella
zona. Oltre a cercare di arricchirsi nel più breve
tempo possibile, scrisse, ogni governatore locale
doveva anche riscuotere le tasse dovute alla Porta
sia dai musulmani che dai cristiani. Tuttavia, “se i
musulmani si rifiutano di pagare la loro parte, egli
deve derubare doppiamente i cristiani. Con i
musulmani non si può scherzare poiché, se li
offendesse, essi potrebbero corrompere qualche
autorità superiore per farlo rimuovere dal suo
posto” (Muir Mackenzie 1877, p. 223). Nei documenti in esame non c’è prova che la popolazione
90
musulmana avesse la possibilità di rivolgersi in
maniera così immediata alle autorità superiori, ma
di certo essa era meno vulnerabile ai soprusi rispetto a quella cattolica. Ciononostante, nemmeno
chi apparteneva al millet islamico era al sicuro da
problemi di questo tipo. In un passo della sua relazione del 1777 Mazarek affermò esplicitamente
che anche i musulmani erano oggetto dell’esagerata pressione tributaria, ma precisò subito che i
cattolici erano le “vittime” preferite degli esattori.
L’arcivescovo offrì in questo brano un raro quadro
dell’aumento della tassazione per come esso era
percepito dalla popolazione del tempo:
“Anticam.te li Decimieri prendevano la decima
parte di ogni cosa, ma presentemente alli turchi
pigliano la decima, alli cattolici poi, et alli scismatici pigliano per quindeci due di ogni cosa: Li
Tributieri molti anni fà prendevano a trè piastre alli
soli uomini maturi, adesso poi prendono à quattro
piastre anche alli ragazzini di sette anni, et in alcune parti della Servia, e Bulgaria à dodeci piastre per
capo. Li Governatori poi ogi venti anni fà imponevano all’anno à dieci piastre per casa; presentem.te
poi impongono ogni anno per ogni casa à cento, e
più piastre” (SOCG 847.605r). Ritroviamo qui
molte delle imposte che abbiamo già trattato,
unite alla loro crescita. Riassumendo, la decima
(öşr) era rimasta il 10% del prodotto per i musulmani, mentre per cattolici e ortodossi era stata
aumentata al 13,3% (“per quindeci due di ogni
cosa”); una tassa pro capite – non si capisce se si
tratti dello haraç applicato a tutti i reaya, oppure
del cizye dei soli cristiani, ma è più probabile che
Mazarek parli di ciò che tocca più da vicino i fedeli cattolici, e dunque del cizye – era passata da tre
a quattro kuruş per persona, mentre in altre parti
della Serbia e della Bulgaria arriva fino a 12 kuruş.
Infine l’arcivescovo fa accenno a un’imposta su
ogni casa, salita in vent’anni da 10 a più di 100
kuruş annui. Non è chiaro a cosa si riferisca
quest’ultima tassa, ma sembrerebbe un’imposta
che viene applicata per famiglia. Non sembra possibile che si parli qui del cizye, dal momento che
pare che questa imposta variasse di molto da zona
a zona: come visto, nel 1781 Mazarek parlando
della Crna Gora scrive che lì venivano presi da 40 a
50 kuruş per casa (SOCG 859.471r). Un altro ele-
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
mento che impedisce l’identificazione di questa
imposta con il cizye è il fatto che la tassa fosse
pagata ai “governatori”, e che dunque non andasse
a Istanbul, il che indica che si trattava con una
certa probabilità dell’ispence (o del resm-i çift nel
caso dei musulmani).
In ogni caso, le tasse che abbiamo appena illustrato non quantificano esattamente tutte le spese che
i cattolici dovevano affrontare per soddisfare le richieste delle autorità, perché l’estremo frazionamento del potere nell’impero ottomano aveva
ormai messo i maggiorenti locali nella comoda
posizione di poter imporre tasse proprie più o
meno a piacimento, avendo solo la paura dello
spopolamento del proprio territorio come unico
freno. Nel già citato rapporto francese del 1827 si
legge che i governatori locali ricavavano la loro
rendita – oltre che dalle imposte fisse sui villaggi e
le città sotto la loro giurisdizione, dalle dotazioni
territoriali connesse alle loro proprietà e dalle
tasse di successione prese per l’insediamento di
nuovi funzionari civili e di rappresentanti del clero
cristiano – principalmente da “imposte casuali”
(consistenti in requisizione di cavalli, mobili e altri
beni) e in generale dai soprusi che si potevano
permettere ad ogni momento quasi impunemente
(Turquie vol. 35, p. 334v). La situazione descritta è
sostanzialmente la stessa presentata da Mazarek.
Le tasse non venivano riscosse solo attraverso il
denaro, poiché accadeva spessissimo che il contribuente non avesse la liquidità sufficiente a fare
fronte alle richieste consistenti e, come abbiamo
visto, frequentemente inaspettate. In questi casi
chi si trovava in debito aveva davanti sostanzialmente quattro possibilità, a volte verificabilisi contemporaneamente: la cessione dei propri terreni
(sovente a un prezzo irrisorio per avere liquidità
immediata) (SOCG 872.145r), il lavoro forzato
nelle proprietà del signore, la vendita dei figli
come schiavi e il riscatto pagato da qualcun altro –
di solito il proprio parroco o Mazarek stesso.
La corvée ufficialmente sancita dal sistema legislativo ottomano era inferiore a quella stabilita dalla
dominazione prima bizantina e poi serba
(Veinstein 1989, p. 296; Bilge 1988, p. 386), tuttavia
nei documenti troviamo con una certa frequenza
episodi in cui i cattolici della diocesi di Skopje si
trovano a lavorare nei campi appartenenti ai governatori locali. Il lavoro gratuito nelle proprietà del
signore, oltre a essere spesso imposto arbitrariamente senza una giustificazione legale era un
forma alternativa riconosciuta di pagamento delle
tasse (Jelavich 1983, I p. 60). Tuttavia, a volte accadeva che il contribuente non fosse in grado di fornire direttamente questo tipo di prestazione, per
cui si trovava costretto a mandare i propri figli a
servizio del signore, il quale poteva usarli come
schiavi fino a che non considerava il debito saldato
(SOCG 847.610r). Questo metodo di pagamento
era conosciuto da sempre nell’impero ottomano e
poteva a volte portare al disfacimento di interi nuclei famigliari: nel 1710 l’arcivescovo Zmajević riferì
che una famiglia della diocesi di Dhurrës, non
avendo altro modo per pagare le tasse, aveva dato
in servitù ben sette dei propri figli (Bartl 1975-1979,
II pp. 107-108). Il periodo che i figli di questi cattolici indigenti dovevano passare al servizio dei rappresentanti dell’autorità era a volte molto lungo,
perché poteva capitare che essi fossero sottratti ai
genitori in un’età in cui non erano ancora in grado
di costituire una forza-lavoro significativa. Non
erano solo i figli ad essere presi come schiavi, bensì
a volte anche le figlie, le quali entravano a far parte
degli harem dei signori locali, come illustra un episodio del 1790 in cui l’arcivescovo si recò dal
governatore di Novo Brdo e lo convinse a rilasciare
una cattolica dietro il pagamento di un riscatto (SC
Servia III.81r-82r). Questi contatti prolungati dei
giovani cattolici con i padroni musulmani erano
visti con preoccupazione da Mazarek, il quale lanciò l’allarme alla Sacra Congregazione, affermando
che tale situazione poteva portare alla conversione
delle generazioni più giovani della comunità cattolica. Questa pratica presenta una certa somiglianza
con il devşirme, anche se i motivi per cui i bambini cristiani venivano prelevati dalle autorità ottomane erano evidentemente diversi. Questa somiglianza spiega le parole di un arcivescovo successore di Mazarek a capo della diocesi di Skopje, il
quale ancora a metà del XIX secolo si lamentava
con il console francese Hecquard del fatto che gli
ottomani delle sue terre avessero l’abitudine di
sottrarre i figli ai genitori cristiani e di convertirli
all’Islam (Turquie vol. 134, p. 79r), nonostante l’ul-
91
n.23 / 2009
timo devşirme in area balcanica sia documentato
nel 1637 (Castellan 1999, p. 197).
Per scongiurare il pericolo di una perdita di fedeli
cattolici Mazarek si offriva spesso di aiutare i propri fedeli nel pagamento delle tasse attingendo alla
propria provvigione annua e intaccandola in
maniera significativa (SOCG 792.154v; SOCG
847.609r, 611v; SOCG 859.464v). La carcerazione
dei debitori era l’ultima opzione degli esattori, non
presentando possibilità di ottenere la somma in
tempi brevi. Stando alle descrizioni dell’arcivescovo, il metodo normalmente usato nella riscossione
delle tasse nei centri abitati sotto la sua giurisdizione era il seguente: i funzionari arrivavano con
un cavallo carico di catene, con le quali gli insolventi venivano legati e trascinati, a volte anche
picchiati, fino a che non trovavano il modo di pagare. Solo in ultima istanza venivano messi in carcere, dove aspettavano che i loro famigliari o qualcun
altro venisse a dare loro la somma necessaria. Per
questo motivo Mazarek e i suoi preti erano costretti a recarsi con una certa frequenza presso le
autorità per aiutare economicamente i fedeli incarcerati. La necessità di questo tipo di spesa era noto
alla Congregazione già da tempo, tanto che Pjetër
Mazreku già all’inizio del XVII secolo consigliava di
concedere all’arcivescovo di “Servia” almeno 300
scudi annui, perché ne avrebbe avuto bisogno di
almeno di 200 per pagare le cauzioni per i suoi
diocesani (Draganović 1938, p. 19).
5.I rapporti tra le autorità ottomane e il
clero: diversità di trattamento
E’ impossibile stabilire quale fosse l’atteggiamento
generale delle autorità nei confronti del clero cattolico, dal momento che non c’era una linea guida
che uniformava i rapporti tra i signori locali e i
preti, ma erano piuttosto le relazioni personali a
determinare il trattamento ricevuto dai sacerdoti
e, di conseguenza, dall’intera comunità cattolica da
loro dipendente. Così, all’interno del nostro corpus di documenti troviamo casi di maltrattamento
o addirittura di violenze subite dai parroci cattolici
per mano delle autorità ottomane accanto a casi in
cui erano i signori musulmani stessi a proteggere
Mazarek e i suoi sottoposti. Non esisteva una linea
92
politica comune tenuta della autorità nei confronti
della comunità cattolica e dei loro rappresentanti;
la violenza o la benevolenza erano determinate,
più ancora che dai cambiamenti politici generali,
dai rapporti personali privati che ogni sacerdote
riusciva ad instaurare con il governatore in carica
sul territorio della sua parrocchia. Spesso un cambio al vertice del potere territoriale poteva determinare una completa inversione di tendenza nelle
relazioni tra autorità e cattolici. Ne è un esempio il
già citato caso della dimora parrocchiale di
Dakovica, costruita nella prima metà degli anni
Sessanta del Settecento con il beneplacito del
signore locale e in seguito confiscata con l’arrivo di
un altro governatore decisamente ostile ai cristiani
(SOCG 815.215r). Nella stessa parrocchia le condizioni dei cattolici migliorarono nuovamente perlomeno a partire dall’arrivo nel 1783 di Ndre Krasniq
(SC Servia II.435r), il quale però sette anni più
tardi avvertiva la Congregazione che, in seguito alla
morte di due pascià favorevoli ai cristiani, la situazione poteva precipitare rapidamente un’altra
volta, dal momento che si erano impadroniti del
potere locale “alcuni Principi Giovanetti, ed incapaci di dominare” (SC Servia III.95r). Le differenze
nel trattamento della comunità cattolica erano
molto accentuate anche nel giro di pochi chilometri. A Prizren, ad esempio, all’inizio degli anni
Sessanta il governatore locale era un notorio nemico dei cattolici (SOCG 815.217r). Il fratello dell’arcivescovo Mazarek, Josip, nel 1782 raccontava a
Roma di come fosse costretto a fuggire dalla sua
parrocchia di Zogaj e a nascondersi nella capanna
di un pecoraio non appena gli giungeva la notizia
dell’imminente arrivo del governatore della vicina
Djakovica con le sue truppe (SC Servia II.407v). In
una situazione ancora più problematica era il parroco della Skopska Crna Gora, il quale era ricercato dagli esattori turchi che cercavano di sorprenderlo soprattutto nei giorni delle feste cattoliche,
ragion per cui era spesso costretto a fuggire e ad
officiare la Messa nei boschi all’aperto o in capanne di pastori (SOCG 859.465v; SOCG 872.145v).
Nel 1774, quando fu raggiunto dagli uomini al servizio di un signore ottomano, fu addirittura bastonato, completamente spogliato di denaro ed armi
e chiuso in un granaio “come un cignale” (SOCG
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
847.604v-605r).
D’altra parte è però da rimarcare la relazione apparentemente idilliaca creatasi a Peć tra Gjon
Logoreci e le autorità locali. Entrato in servizio in
quella città nel 1751 (SC Servia II.165r) e nominato immediatamente vicario dall’arcivescovo
Mazarek nel 1760 (SC Servia I.598v), Logoreci vi
risedette fino a quando non fu chiamato a assumere la carica di vescovo di Gjoan, nel 1781 (SC Servia
II.415r-415v). Sotto la sua guida i cattolici di Peć
godettero a lungo di una posizione di relativo privilegio rispetto ai loro correligionari di altre parrocchie, e ciò grazie all’abilità con la quale il sacerdote era riuscito a farsi benvolere dai rappresentanti dell’autorità ottomana. A quanto pare, furono
proprio queste sue straordinarie capacità “politiche” a convincere Mazarek a sceglierlo come suo
vicario (SC Servia II.163r, 165r). La sua fortuna – e
bravura – fu quella di riuscire ad entrare nelle grazie di Kahraman paşa (SC Servia II.28r), appartenente alla famiglia albanese dei Mahmutbegolli,
una delle dinastie di governatori più stabili e longeve dell’area (i primi Mahmutbegolli a detenere il
potere a Peć risalgono alla fine del XVI secolo)
(Malcom 1999, p. 210). Le leve del comando non
cambiarono mai di mano in città fino all’arrivo di
Mahmut Bushatlı negli anni Novanta del secolo e
ciò rese ancora più salda la posizione di Logoreci
all’interno del gruppo di uomini di fiducia che circondava i Mahmutbegolli. Mazarek era talmente
ammirato dalle doti diplomatiche del suo vicario
da dichiarare che il pascià di Peć lo trattava
addirittura come “uno di propria casta” (SOCG
798.408r). Un dato che conferma l’alto grado che
Logoreci aveva raggiunto nella considerazione dei
Mahmutbegolli è l’attenzione con cui gli altri maggiorenti musulmani della città evitavano di recargli
disturbo, temendo di attirarsi contro le ire del
governatore (SOCG 847.601r). D’altra parte, proprio questa sua estrema integrazione nel sistema
politico locale gli rendeva pericoloso spostarsi in
zone controllate da fazioni politiche contrarie ai
signori di Peć, in quanto agli occhi degli ottomani
egli era un “uomo dei Mahmutbegolli” (SC Servia
II.340v). Uno dei più significativi successi che
Logoreci ottenne nella sua parrocchia fu il permesso di celebrare i funerali pubblicamente (SC
Servia II.167v): non era una conquista da poco, se
si considerano le difficoltà che dovevano invece
affrontare i cattolici di altre parrocchie, i quali,
oltre a dovere passare per una trafila burocratica
che prevedeva il versamento di una certa somma
all’autorità giudiziaria locale per l’ottenimento di
un permesso speciale (SOCG 859.465r), erano
costretti a recarsi molto al di fuori dei centri abitati per celebrare il rito lontano da occhi musulmani.
Mazarek descrive un funerale celebrato addirittura
di nascosto in una notte invernale a Dakovica: “Fui
pregato dalli cattolici di portarmi ancor io in persona alli loro sepolcri, lontani quasi un’hora sopra
un altissimo monte: Partimmo con la defonta alle
20 ore io à cavallo, et il Paroco con la compagnia a
piedi: Ma piacque à Dio benedetto per mio bene di
non essere visto dalli turchi, e per non essere
schiamazzato, e molestato alla solita con gran
impertinenze dalli ragazzacci turchi” (SOCG
859.463v). Questi problemi, invece, non si presentavano a Logoreci, il quale godeva di tanta stima
presso il governatore da essere di fatto diventato
parte della sua corte. A riprova del fatto che questo
legame speciale tra i due uomini fosse su un piano
strettamente personale e non implicasse riavvicinamenti in campo religioso, va detto che
Kahraman paşa al di fuori di Peć non si mostrava
particolarmente tenero nei riguardi dei cristiani:
non aveva infatti alcuno scrupolo a organizzare
spedizioni militari nei villaggi cattolici del Malësi
per riscuotere le tasse, spesso anche commettendo violenze ai danni della popolazione (SOCG
792.148v-149r).
Logoreci fu l’unico sacerdote cattolico dei tempi di
Mazarek ad avere un rapporto così totalmente
positivo con le autorità, sebbene anche altri preti
avessero stretto legami d’amicizia con maggiorenti
ottomani. Nel 1777 Ndre Krasniq, in quell’anno
parroco di Zogaj, venne imprigionato al pari di
molti altri suoi parrocchiani nel tentativo, stando a
quanto riferirono egli stesso e Mazarek, di estorcergli del denaro. Per sua fortuna Krasniq aveva
stretto ottime relazioni con alcuni personaggi che
chiama “aga del paese”, i quali intervennero in sua
difesa e lo fecero scarcerare (SC Servia II.121r122r; SOCG 847.611v).
All’inizio del secolo, in una situazione politica
93
n.23 / 2009
ancora più sfavorevole per il cattolicesimo rispetto
a quella di cui trattiamo, Vicko Zmajević poteva
invece vantare relazioni ancora migliori di quelle di
Logoreci con il massimo rappresentate dell’autorità ottomana nelle terre sotto la sua guida spirituale
– Kosovo compreso. Hudaverdi paşa, stando alle
lettere dell’arcivescovo di Bar, dimostrava una
stima per il prelato e in generale per i cattolici davvero fuori dal comune: non solo riservava all’arcivescovo onori quantomeno insoliti per un cittadino zimmi (Bartl 1975-1979, I p. 48) (in occasione
di una sua visita gli mandò addirittura incontro il
figlio a riceverlo e lo fece poi sedere al suo fianco
in segno di rispetto), ma giungeva perfino a riservare agli appartenenti alla comunità cattolica un
trattamento migliore che ai musulmani, dai quali
esigeva più tributi (Bartl 1975-1979, II p. 8). In una
relazione risalente al 1702 Zmajević riferisce che il
pascià aveva concesso perfino un’esenzione fiscale
totale a tre villaggi cattolici della diocesi di Bar su
istanza proprio dell’arcivescovo (Bartl 1975-1979, II
pp. 22-23). La predilezione di Hudaverdi paşa per i
cattolici era tale da fare sospettare che egli, nativo
di Peć, non fosse un musulmano autentico, bensì
un criptocristiano, o semplicemente qualcuno che
aveva mantenuto dei legami strettissimi con la religione dei suoi padri. Infatti non solo si prodigò in
suggerimenti per Zmajević sulla maniera migliore
di restaurare le chiese senza avere problemi con la
Porta, ma si spinse fino a disobbedire apertamente
agli ordini di Istanbul che imponevano di scacciare
dal territorio sotto il suo comando tutti i missionari dipendenti dal Vaticano (Bartl 1975-1979, II p. 9)
(curiosamente, anche il successore di Hudaverdi,
Demir paşa, che pure era descritto come un feroce
oppositore del Cattolicesimo, nell’autunno del
1708 si rifiutò di obbedire a un’analoga direttiva
della Porta) (Bartl 1975-1979, II p. 212, I p. 14).
Hudaverdi paşa morì di malattia nel settembre
1705 rifiutandosi, come ultimo atto, di applicare ai
cattolici l’aumento tributario ordinato da Istanbul
(Bartl 1975-1979, II p. 209).
Quanto a Mazarek, le sue relazioni con le autorità
ottomane furono piuttosto ondivaghe. Ciò è comprensibile, se si considera il fatto che l’arcivescovo
era costretto a viaggiare e a passare dal territorio di
un governatore a quello di un altro e dunque da un
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sistema di relazioni autorità-cattolici a un altro. Al
momento della sua nomina ad arcivescovo
Mazarek era parroco di Janjevo, dove era nato e
cresciuto, perlomeno dal 1756 (Zefi 2000, p. 40),
se non addirittura dal momento stesso del suo
rientro in patria dopo la fine degli studi in Italia,
nel 1750 (Gasper 1986, p. 191). Non era dunque
uno sconosciuto ai maggiorenti musulmani del
luogo e aveva già fatto in tempo ad instaurare dei
buoni rapporti con essi, da parte dei quali lamentò
solo occasionalmente qualche prepotenza nei
primi anni (SC Servia II.8r-9r). Al di fuori di
Janjevo, però, le cose erano diverse. Le precauzioni che Mazarek era solito prendere prima di entrare in una città nel corso delle sue visite diocesane
(come ad esempio l’entrarvi di notte) non erano
dovute solamente alla possibile ostilità della popolazione musulmana, ma anche all’eventuale atteggiamento negativo delle autorità locali verso il
clero cattolico. Le considerazioni politiche erano
sempre presenti nella scelta del percorso delle visite dell’arcivescovo. In generale Mazarek cercava
sempre di limitare i contatti con le autorità, anche
in parrocchie in cui non gli veniva segnalato alcun
particolare pericolo: la sua prima visita diocesana
nella teoricamente “sicura” Peć, nel 1760, si svolse
approfittando dell’assenza del governatore locale,
impegnato in una missione militare nel nord
dell’Albania (SOCG 798.143r). Sempre per evitare
frizioni con i governanti ottomani l’arcivescovo
non visitò mai una delle sue parrocchie, Rogovo,
dove asseriva che vivessero solo criptocristiani e
dove la sua venuta sarebbe stata interpretata come
un tentativo di conversione dei musulmani locali,
il che lo avrebbe esposto a severe sanzioni pecuniarie, se non addirittura alla condanna a morte
(SOCG 815.217v). La visita diocesana del 1785, nel
mezzo delle lotte intestine tra governatori che
sconvolgevano il territorio della sua diocesi, fu
piuttosto problematica. Mazarek organizzò il viaggio in maniera assolutamente scrupolosa per evitare di subire persecuzioni dovute al clima politico
instabile: inviò una lettera circolare a tutti i suoi
sacerdoti pregandoli di sondare il terreno nelle rispettive parrocchie per scoprire se il suo arrivo
potesse causare qualche reazione ostile da parte
delle autorità (SOCG 872.136r). Prima di recarsi a
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
Peć raccolse ancora informazioni sull’atteggiamento delle autorità cittadine verso i cattolici e non ne
ricavò incoraggiamento: il parroco locale lo avvertiva di non entrare in città, dato che un signore
locale, Mehmet aga, aveva manifestato più volte
l’intenzione di privare l’arcivescovo di tutto il suo
denaro. Mazarek esitò per qualche giorno, restando fermo nella tappa di Djakovica, fino a che prese
la decisione di andare comunque a Peć, dove fece
immediatamente recedere Mehmet aga dalle sue
minacce tramite il consueto sistema dei regali
(SOCG 872.138v-140v). Sempre nel corso dello
stesso viaggio all’arcivescovo fu sconsigliato di
andare a Skopje, poiché fu avvertito che in città
risiedeva un governatore il quale, udita la notizia
della possibile venuta dell’arcivescovo, si preparava a depredarlo esattamente come Mehmet aga di
Peć. Stavolta Mazarek ritenne più opportuno ascoltare il consiglio e interrompere la sua visita diocesana per fare ritorno a Janjevo (SOCG 872.144r). In
generale, nel corso del suo arcivescovato anche a
Mazarek capitò qualche volta di nascondersi dai
rappresentati dell'autorità ottomana, a volte anche
in maniera piuttosto rocambolesca, fuggendo nei
boschi e vivendo in ripari di fortuna esattamente
come alcuni suoi sacerdoti che godevano di un
prestigio minore del suo (SOCG 859.470r).
Questi episodi, tuttavia, mostrano solo un lato
delle relazioni tra Mazarek e il potere ottomano.
Sono documentati numerosi casi in cui i
governanti locali si mostravano assai ben disposti
nei confronti dell’arcivescovo. La situazione
migliorò con il passare del tempo, mano a mano
che Mazarek riusciva ad approfondire i legami personali con i maggiorenti della sua diocesi. Tra le
sue conoscenze più potenti egli annoverava un
certo Sumber bey, residente a Velika Kruša e con
una grande influenza sulla vita politica del Kosovo
sud-occidentale. Sia nella visita del 1785 (SOCG
872.137v-138r) che in quella del 1791 Mazarek gli
recò visita e ricevette un’accoglienza calorosa, al
punto che nella seconda occasione Sumber bey lo
congedò con la richiesta di ricordarlo nelle sue
preghiere (SOCG 895.70v). Sempre nel corso della
visita del 1791 l’arcivescovo si trovò a passare per
Moglica, nei pressi di Djakovica. Giunto alle porte
del villaggio, fu raggiunto a cavallo dal signore
della città, il quale, una volta riconosciutolo, si rallegrò e, a quanto riferisce Mazarek stesso, si congedò raccomandando agli abitanti di avere riguardo per l’arcivescovo (SOCG 895.95v). La stima
delle autorità ottomane per Mazarek crebbe con il
tempo, tanto che nel 1804, nell’esprimere il desiderio di compiere un’altra visita diocesana al termine di una malattia protrattasi a lungo, egli stesso scrisse del sincero affetto dimostratogli da parte
delle sue conoscenze importanti durante il periodo della degenza: “Nulladimeno io intraprenderei
la visita, perche tutti li Prencipi turchi sempre in
tutta la vita mia hanno avuto un grandissimo
amore, fama, e rispetto à me, atteso che io sempre
con gran umiltà, e regalucci mi sono rapresentato
à Loro, tutti assai mi hanno compatito, e continuam.te domandato per la mia salute in questa mia
longa malatia; et alcuni gran Sig.ri mi hanno mandato delli regali, e pietanze, et ancor denari” (SC
Servia III.269v).
Ciò che è ben più significativo, tuttavia, non sono
gli onori e le dimostrazioni di benevolenza che
venivano personalmente tributati all’arcivescovo,
quanto i vantaggi per la comunità cattolica che tramite questo buono stato di rapporti egli riusciva ad
ottenere. L’amicizia personale tra Mazarek e
Sumber bey, ad esempio, faceva sì che i cattolici di
Zur godessero di una protezione importante in
quella particolare zona (SOCG 872.137v). Anche la
sparuta comunità cattolica di Lipkovo viveva sotto
l’ala protettrice del signore locale proprio grazie
alle ottime relazioni personali di quest’ultimo con
l’arcivescovo (SOCG 895.72v). L’abilità politica di
Mazarek emergeva soprattutto nelle situazioni di
pericolo, quando le normali relazioni di potere
venivano meno e l’area veniva attraversata dalle
truppe al servizio dei vari potentati locali. Nel
1781, in uno di questi periodi di instabilità che normalmente esponevano più di tutti gli zimmi alle
espropriazioni indebite di denaro, l’arcivescovo
scrisse non senza orgoglio alla Sacra
Congregazione di come fosse riuscito a farsi amico
un non meglio specificato pascià che in quel
momento risiedeva a Janjevo con i suoi soldati (a
quanto riferisce, i metodi per ottenere la sua amicizia non furono solo i regali, ma anche il piacere
che gli offrì con una conversazione sulle specificità
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n.23 / 2009
della religione cattolica) e a ottenere che i cattolici
della città venissero risparmiati dai disagi che toccavano invece i musulmani (SC Servia II.423r424r). Ancora di più gli riuscì nel 1790, quando
strappò al governatore di Novo Brdo una riduzione fiscale di un terzo (non è chiaro se si trattasse
solo di un’imposta specifica) (SC Servia III.105r). A
differenza di molti suoi sacerdoti, costretti dalle
disposizioni della Congregazione a spostarsi di
parrocchia in parrocchia, la carica di Mazarek gli
permise di rimanere nella sua Janjevo per tutta la
durata della sua attività pastorale, creandosi così
legami forti con le autorità e instaurando con esse
un rapporto di fiducia di cui non era lui il solo a
beneficiare, ma anche l’intera comunità cattolica
cittadina. Il ruolo importante di protezione dei
suoi fedeli gli era riconosciuto dai musulmani stessi, come si evince da questo passo della relazione
del 1785: “Trovarei nella mia Diocesi qualche
luogo, e Parochia, nella quale potrei passare li miei
giorni con più tranquilità, con minori spese, e non
dare tanti regali, ne patire tanti incommodi ogni
momento da ogni uno: Nulladimeno se io esco da
questa parochia di Jagnevo, et abbandonassi questi
poveri Cattolici, tutti si perderebbero, e dispererebbero, perché io li sono di grandissima protezione, e soccorso avanti tutti li Sign.ri turchi, talmente che di continuo dicono li turchi stessi alli cattolici = Infelici voi quando perderete il vostro Arc.vo,
il quale vi ama da Padre, e vi aiuta con robba, con
consiglj, e con calde raccomandazioni appresso li
Governatori, e Giudici” (SOCG 872.142v-143r).
5.2. I sacerdoti cattolici come servitori delle
autorità
Per quanto profonde potessero essere le amicizie
del clero di “Servia” con i potenti locali, il rapporto
tra i sacerdoti e le autorità era comunque di servitù
pressoché completa. Lo stesso Logoreci doveva
gran parte della stima di cui godeva presso il governatore di Peć ai servizi che gli rendeva. Il vicario di
Mazarek era infatti utilizzato da Kahraman paşa
come segretario personale incaricato della corrispondenza ufficiale (SOCG 792.155r). Anche Ndre
Krasniq durante il suo servizio come parroco di
Djakovica venne sfruttato dalle autorità locali per il
96
suo bagaglio culturale, in particolare per le sue
conoscenze di geografia, anche se non è del tutto
chiaro con quali applicazioni pratiche (SC Servia
III.11r). Le prestazioni che venivano richieste più di
frequente al clero cattolico erano però quelle mediche. Oltre al livello culturale generalmente superiore alla media, esisteva anche un’altra ragione,
potremmo dire “tradizionale”, per cui i preti venivano promossi a dottori: quello era un ruolo di cui
i missionari cattolici si erano storicamente appropriati da lungo tempo per ottenere il permesso di
risiedere e di operare sul suolo ottomano. Per questa ragione i frati e i preti secolari inviati nell’area
all’inizio del XVII e del XVIII secolo non erano del
tutto privi di nozioni scientifiche che andavano al di
là della pratica esorcistica. Dopo la guerra degli
anni ’90 del Seicento e l’ostilità di cui era venuto a
soffrire da parte delle autorità, il clero cattolico di
“Servia” cercò di riconquistarsi la fiducia e di rimpolpare il proprio organico anche attraverso l’esercizio della medicina. Nel 1699 il parroco di Peć, al
pari di Logoreci, entrò nelle grazie della famiglia
Mahmutbegolli e lo fece grazie alle sue conoscenze
mediche (Acta 59-70r-70v), mentre nel 1708, intenzionalmente o meno, la Sacra Congregazione utilizzò una sorta di tattica del “cavallo di Troia”, inviando nella diocesi di Skopje un frate laico specializzato in medicina (Acta 68.212r) il quale tre anni dopo
passò al sacerdozio (Acta 71.621r). Intorno all’inizio
degli anni Venti del Settecento, quando si vollero
riaprire le missioni di Peć e Zogaj che erano state
temporaneamente chiuse, l’arcivescovo Petar
Karadžić richiese esplicitamente che i nuovi sacerdoti mandati da Roma fossero in grado di servire
come dottori, dal momento che era quella l’unica
veste che assicurava l’approvazione degli ottomani
(Acta 89.336r; Acta 90.10r, 562v). Anche nel 1746 si
ribadì in una relazione sulle diocesi albanesi che
passare per medici era il solo modo di essere tollerati dai “turchi” (Acta 116.20r). Ai tempi di Mazarek
l’abilità medica sembrava essere rimasta una prerogativa dei frati, tanto che nel 1768 il prefetto dei
francescani d’Albania si offrì di riprendere l’amministrazione della problematica parrocchia di
Rogovo, argomentando che il suo ordine era
meglio accetto dalle autorità locali in quanto i suoi
appartenenti erano pratici di medicina (Acta
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
139.233v). La notizia della stima che le autorità
nutrivano nei confronti dei frati a causa della loro
abilità di dottori è confermata direttamente anche
dallo stesso Mazarek in una lettera del 1769 (SC
Servia II.131v).
Anche lo stesso arcivescovo si trovò in una particolare occasione a dover prestare per uno dei
pascià della sua diocesi un servizio più vicino alla
medicina che ai riti superstiziosi che era abituato a
fornire. Il 5 marzo 1791 egli fu convocato al palazzo del governatore di Novo Brdo di prima mattina.
Dopo essere arrivato ed aver fatto anticamera per
più di tre ore, Mazarek venne ricevuto dal pascià, il
quale lo informò che la moglie soffriva di una
“curiosa malatia donesca”. L’arcivescovo venne
quindi condotto nell’harem, ma non gli fu permesso di visitare la paziente, che rimase in una
stanza vicina. La cura che egli offrì fu la benedizione di “un secchio di aqua per lavarsi, et una chicchera di oglio per ungersi”, oltre alla consegna di
un “brevetto”. Il pascià tuttavia non si accontentò
di questi rimedi e ordinò a Mazarek che si ripresentasse dopo tre giorni con qualche medicina.
Ricevuto un non meglio specificato medicinale
dalle cognate, l’arcivescovo tornò nel giorno stabilito, scoprendo tramite il pascià che la sua visita
precedente aveva molto giovato alla paziente
(SOCG 895.74v-75r).
Non erano solo questi i servizi che l’arcivescovo
rendeva alle autorità ottomane. Egli svolgeva
anche un’attività politica di un certo rilievo, essendo il capo della comunità cattolica dell’area e dunque il suo portavoce e il protettore dei suoi interessi. Era anche in questa veste politica che veniva
consultato e a volte sfruttato dai pascià locali. Nel
brano relativo all’episodio appena narrato Mazarek
affermò che il governatore di Novo Brdo l’aveva
convocato a palazzo per consultarsi 53 volte in tre
anni, a partire dal 1788 e dall’inizio delle ostilità
con l’Austria, mentre nel 1794, durante gli scontri
con Mahmut Bushatlı, le sue visite a Novo Brdo si
fecero ancora più frequenti, giungendo a più di
venti in soli due mesi (SC Servia III.180r). Sembra
che uno degli aspetti che rendevano l’arcivescovo
utile agli occhi delle autorità consistesse nelle
informazioni sul mondo esterno che egli poteva
offrire, dati i suoi legami con Roma e, cosa assai
più interessante per gli ottomani, con Vienna. Nel
1781 Mazarek raccontò di essere stato avvicinato
da un agente del governatore di Peć, il quale gli
domandò se ci fossero presagi di una nuova offensiva austriaca contro la Porta e si informò se fosse
vera la notizia della morte dell’imperatrice Maria
Teresa (avvenuta il 29 novembre del 1780).
L’arcivescovo rispose di non essere informato su
nessuna delle due questioni e dai documenti pare
effettivamente vero che egli in realtà non ne sapesse di più su quanto avveniva a Vienna rispetto agli
altri abitanti del Kosovo (SOCG 859.462r).
Indipendentemente dal suo grado di informazione
su ciò che accadeva nel campo nemico, Mazarek
veniva sottoposto a una certa pressione quando si
prospettava una guerra con il nemico cattolico più
pericoloso per l’impero ottomano, o in generale
quando c’erano frizioni tra il Sacro Romano
Impero e Istanbul. Così come nell’estate del 1788
il beylerbeyi dell’elayet di Rumelia pretese dal
metropolita ortodosso di Vidin che egli gli garantisse che tutti gli ortodossi della regione sarebbero
rimasti fedeli alla Porta anche durante il conflitto
con l’Austria (Gračev 1990, p. 16), allo stesso
modo Mazarek nel 1789 dovette dare una simile
rassicurazione di lealtà alle autorità locali per quanto riguardava la comunità cattolica, in modo da evitare le ritorsioni ottomane (SC Servia III.81v). Nei
due anni successivi l’arcivescovo scrisse di essere
stato impegnato quasi giornalmente in visite ai vari
potenti della zona, nel corso delle quali ripeteva le
sue assicurazioni sulla fedeltà dei cattolici, mentre
ai suoi diocesani continuava a consigliare di
mostrarsi tristi per le sconfitte dell’esercito ottomano, da bravi sudditi del sultano (SC Servia
III.87r-87v, 109r). Effettivamente, come abbiamo
già visto all’inizio del capitolo, le autorità avevano
più di un motivo di sospettare i cattolici di parteggiare per il Sacro Romano Impero e il loro clero di
aiutare attivamente i nemici del sultano. Già nel
1768, con la guerra russo-turca in atto, Mazarek
riferiva che le autorità erano solite intercettare e
aprire le lettere diretta a Roma, nel timore che i
sacerdoti cattolici comunicassero informazioni
strategiche al nemico, così come facevano i popi
ortodossi (SC Servia II.105v; SOCG 823.205v).
Le promesse di lealtà non erano peraltro l’unico
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n.23 / 2009
modo in cui il clero cattolico aiutava le autorità
nelle questioni politiche. Nel 1793 l’arcivescovo
Mazarek e suo fratello Josip si trovarono a svolgere per il pascià di Novo Brdo un servizio che in termini moderni si chiamerebbe “di intelligence
interna”. In preparazione della spedizione contro
Bushatlı il governatore ordinò dapprima di portare
delle lettere – che Mazarek non aprì e di cui non
conosciamo il contenuto, ma che consistevano
con ogni probabilità in ordini militari – al fratello
Malik paşa di Priština (SC Servia III.153r). Quando
in primavera cominciò la mobilitazione, all’arcivescovo fu ordinato di unirsi alle truppe come cappellano dei cattolici albanesi, con l’esplicita indicazione di sondare lo stato d’animo di quei soldati e
riferire il tutto al pascià stesso. Secondo la legge
ottomana i cristiani erano teoricamente esenti dal
servizio militare, ma questa regola non sembrava
venire messa in pratica quantomeno sul territorio
della diocesi di Skopje, come illustra chiaramente
anche un episodio riferito dall’arcivescovo e risalente al 13 febbraio 1781, durante il conflitto tra le
autorità di Djakovica e quelle di Peć: “Et un Bassa
nella contrada di cui erano le case delli cattolici
[Djakovica], commandò, che uno per casa delli cristiani venisse con lui in guerra, per andare ad
incontrare, e combattere con il Bassà di Pecchia, e
chi non andasse con lui in guerra, che fosse subito
saccheggiato, e li fosse abbrusciata la casa: che
però io la mattina confessai li miei cattolici, celebrai, e li diedi la benedizione, che Iddio benedetto
li preservasse dal male; E vedendo io, che alcuni
poveri cattolici non avendo cavalli dovevano andare à piedi per gran fanghi, neve, et acque, e se
fosse di bisogno à fugire con l’esercito si prendevano schiavi dal nemico, e compatendoli io con
Paterne viscere, e piegandomi alle suppliche de
loro genitori, diedi tutti trè miei cavalli à tre cattolici, e tutte le mie armi” (SOCG 859.462r-462v).
Nel 1793 Mazarek riuscì ad evitare l’incarico di cappellano-informatore mandando in sua vece il fratello Josip, il quale passò in tutto nove giorni nell’esercito ottomano, mentre l’arcivescovo fu comunque ingaggiato per fare da portaordini tra i vari
maggiorenti della regione e da scrivano per il
governatore di Novo Brdo, il quale lo considerava
persona più fidata dei suoi cortigiani (SC Servia
98
III.168r-172v). La mossa di incaricare un sacerdote
cattolico di controllare gli albanesi cattolici arruolati nell’esercito non era affatto una precauzione
eccessiva da parte della autorità, dal momento che
Bushatlı stava raccogliendo il sostegno degli albanesi settentrionali e rischiava di fungere da polo di
aggregazione anche per quelli del Kosovo. Che le
imprese di Mahmut Bushatlı stessero venendo a
rappresentare una rivolta panalbanese contro le
autorità centrali era una sensazione diffusa tra la
popolazione kosovara, tanto che Mazarek spiegava
alla Congregazione la situazione politica del tempo
scrivendo che era in atto una guerra tra tutti i pascià
della “Servia” e il governatore scutarino sostenuto
da “tutti gli albanesi” (SC Servia III.161r).
Di tutti i servigi da rendere ai signori ottomani,
quello che l’arcivescovo descrisse come il più singolare e anche il più doloroso giunse all’inizio del
1785. Pochi giorni prima del Natale del 1784 egli
narrò di essere stato convocato a Priština da un
potente personaggio di passaggio, che egli chiama
“Signore, e Principe” Osman bey Salahor.
L’arcivescovo fu ricevuto con grandi onori e dopo
qualche momento di incomprensione linguistica
tra lui e il pascià straniero (dopo alcuni tentativi in
turco e in italiano i due optarono per il latino)
Mazarek fu sottoposto a una curiosa interrogazione di cultura generale, comprendente domande
quali “come si chiama il papa attuale?”, “che cos’è
il Vaticano?”, “quando e da chi fu fondata Roma?”,
“chi è e come viene chiamato l’attuale imperatore
romano [del Sacro Romano Impero]?”. Una volta
ottenuta risposta a queste domande, il pascià
licenziò l’arcivescovo con l’ordine di tornare ogni
quattro giorni per conversare. Durante uno di questi incontri, venuto a conoscenza della carica di
Mazarek, Osman bey gli mostrò ancora più rispetto e gli rivelò di essere vissuto a Roma per tre mesi
e di conoscere dodici lingue (non l’italiano, tuttavia, a quanto scrisse l’arcivescovo). Dopo circa una
decina di queste visite, presumibilmente intorno
alla metà di gennaio del 1785, il pascià chiese e
naturalmente ottenne di portare con sé a Istanbul
il fratello minore di Mazarek come servitore. Nel
lasciare partire a malincuore il fratello, l’arcivescovo pregò Osman bey di non provare a convertirlo,
al che il pascià rispose in maniera davvero bizzarra:
Luca Maiocchi
Autorità Ottomane e Cattolicesimo nel Kosovo del XVII secolo
dopo avere dichiarato di essere cattolico, affermò
anche di essere il fratello del re di Francia, “administrator” della Bulgaria, “legatus” della Russia,
nonché consigliere segreto dell’imperatore ottomano e possessore di molti altri titoli nobiliari.
Mazarek ovviamente dubitava delle veridicità di
queste parole, anche se scrisse che “dalla pronuncia del parlare lo conobbi, che era veramente
Francese”, ma non poté comunque recare un dispiacere al pascià e opporsi alla partenza del fratello, dal quale non ricevette più notizie (SOCG
872.146r-147r).
5.3.L’intromissione delle autorità nelle questioni cattoliche
Nonostante Mazarek fosse, anche se non formalmente, un capo millet e avesse dunque una certa
giurisdizione sugli affari civili e religiosi che riguardavano esclusivamente la comunità cattolica, i cristiani di rito romano erano comunque sudditi della
Porta e in quanto tali ciò che si svolgeva all’interno
del loro gruppo era oggetto di interesse per le
autorità ottomane e di ingerenza da parte loro. I
governatori delle varie città avevano voce in capitolo nella distribuzione dei parroci che veniva fatta
annualmente da Mazarek, e spesso era attraverso
di essi che si esprimeva il rifiuto della popolazione
musulmana di accogliere un certo prete mal visto
per qualche motivo. Incontriamo un caso in cui un
governatore locale pose il proprio veto all’insediamento di un parroco sul suo territorio prima ancora che il sacerdote cominciasse ad esercitare le
proprie funzioni: nel 1777 Engjëll Suma di
Shkodër, fresco dei suoi studi italiani, fu cacciato
da Zur, scrisse Mazarek, perché il pascià diffidava
di tutti gli scutarini (SC Servia II.285r) – può avere
aumentato i suoi sospetti il fatto che il prete avesse lo stesso cognome dell’arcivescovo “traditore”
Mikel. Per contro i signori di Peć si opposero sempre categoricamente al trasferimento dell’amatissimo Gjon Logoreci, costringendo di fatto l’arcivescovo a fare un’eccezione nella regola della rotazione dei parroci (SOCG 815.211r).
Se i maggiorenti musulmani si immischiavano
nelle questioni interne alla comunità cattolica,
peraltro, ciò non era solo da imputarsi ad essi: era
noto alla Congregazione che nei territori ottomani
i sacerdoti stessi sfruttavano la leva dell’autorità
temporale per contravvenire alle disposizioni dei
loro arcivescovi (Acta 136.228r-228v). Addirittura
esistono prove indicanti che i preti ordinari denunciavano i missionari francescani alla giustizia ottomana per timore di vedersi rubare il “lavoro” apostolico e di conseguenza di perdere la loro provvigione annua (Radonić 1950, pp. 102-103). Per
quanto riguarda la diocesi di Skopje nel periodo in
esame, il ricorso alle autorità “turche” era uno strumento usato abbastanza di frequente dai sacerdoti
che non condividevano le decisioni di Mazarek.
Ben presto l’arcivescovo si trovò in difficoltà al
momento di stabilire gli spostamenti dei sacerdoti
nelle varie parrocchie. Nella relazione della visita
del 1764 Mazarek illustrò alla Congregazione le difficoltà che doveva affrontare ogni anno al momento dell’assegnazione delle parrocchie. Il primo problema era rappresentato dalla situazione eccezionale di Logoreci che lo rendeva inamovibile da Peć.
Naturalmente ogni prete aveva le sue preferenze
personali e molti avrebbero voluto rimanere nei
luoghi in cui già risiedevano, perciò il trattamento
speciale riservato al vicario non poteva non sollevare polemiche (SOCG 815.221r). Un altro grave
ostacolo consisteva nell’opposizione alle sue decisioni da parte dei preti, i quali minacciavano di utilizzare i loro parenti musulmani per fare pressione
sulle autorità ai danni dell’arcivescovo, in modo da
ottenere la parrocchia desiderata. Nel caso del
1764 il parroco di Zur Anton Lumbeshi in questo
modo fece sì di rimanere al suo posto. Broz
Boshkoviq (nativo di Kratovo, la sua origine etnica
è incerta; nei documenti è sempre chiamato
“Ambrogio Bosco”) (SOCG 847.611r) di fronte
all’intenzione di Mazarek di trasferirlo da Peć alla
Crna Gora andò anche oltre, corrompendo con del
caffè un dignitario della città (“Maggiordomo del
Bassà”) e ottenendo che il governatore stesso di
Peć proibisse esplicitamente all’arcivescovo di spostarlo da lì (SOCG 815.221v). Per tutto il resto del
suo arcivescovato Mazarek non riferì più di simili
casi individuali, ma ebbe ancora occasione di
lamentarsi in generale dell’indisciplina dei suoi
sacerdoti e dell’abitudine che avevano di minacciarlo ventilando un intervento dei loro parenti
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n.23 / 2009
musulmani presso le autorità ottomane (SOCG
859.470r-470v).
Non erano nemmeno ignoti casi in cui erano i
fedeli cattolici a fare in modo che i maggiorenti
musulmani si immischiassero nelle questioni religiose e civili che in teoria sarebbero state di competenza esclusiva di Mazarek. Il 18 marzo 1761 l’arcivescovo evitò per poco di essere bastonato da un
potente signore di Prizren per essersi opposto alla
volontà di un suo diocesano che aveva pagato le
autorità per poter sposare a forza una sua correligionaria vedova (SC Servia II.8r-8v). A dimostrazione di come i rapporti tra cattolici e autorità ottomane potessero svilupparsi secondo linee multiformi, Mazarek si trovò in un’altra occasione ad
affrontare un ostacolo piuttosto grave creato dall’amicizia tra due donne. Si trattava di una sua
fedele e della moglie del governatore di Peć. Il 5
dicembre, mentre si preparava a celebrare la Messa
domenicale, Mazarek fu avvertito dal già citato
Mehmet aga che la casa parrocchiale sarebbe stata
distrutta se l’arcivescovo avesse osato ammettere
alla celebrazione una donna cattolica a cui da dieci
mesi le autorità ottomane avevano proibito l’accesso in chiesa “per essere stata motivo detta
donna, e causa, che si amazzasse un cattolico per
le di lei calunnie, e che si saccheggiassero due case
dal Governatore”. E’ da notare qui la significativa
ingerenza che il potere temporale locale aveva
anche nelle questioni di fede, tanto da disporre
una simile interdizione in un ambito religioso
riguardo al quale non aveva in linea di principio
voce in capitolo. Gli intrecci tra problemi interni
alla comunità cattolica e autorità ottomane continuano anche oltre: la fedele in questione fece
infatti sapere a Mazarek che sarebbe venuta ugualmente in chiesa, forte dell’amicizia e dell’appoggio
della moglie del governatore. Di fronte alle suppliche di non presentarsi alla funzione, la donna
rispose con la minaccia di farsi scortare a Messa dai
soldati del governatore, mossa di fronte alla quale,
scrive l’arcivescovo, Mehmet aga “averebbe mandato li servitori à squarciarla in due pezzi”. La questione fu risolta dall’abilità di convincimento di
Mazarek, il quale persuase la donna a non presentarsi in chiesa (SOCG 872.140v-141v). Non è questo l’unica volta in cui questa donna cattolica com-
100
pare nei documenti in esame: nel 1791 l’arcivescovo riferì di non aver potuto visitare Peć perché un
non meglio precisato comportamento di quella
stessa fedele aveva scatenato una persecuzione
contro i preti e la comunità cattolica in generale
(SOCG 895.70r).
Materiale d’archivio
Archivio Storico della Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli (Roma)
SOCG – Scritture originali riferite nelle congregazioni generali
SC – Scritture riferite nei congressi
Acta – Acta congregationis de propaganda fide
Archives du Ministère des affaires étrangères
(Parigi)
Turquie – Mémoirs et documents, Turquie
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101
n.23 / 2009
Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
La sopravvivenza del centro politico: analisi
dello spazio elettorale trentino nel 2006
Passagio a NordEst
1. Introduzione
A partire dal lavoro seminale di A. Downs (1957)
(vedi anche (Budge, 2004), la metafora spaziale
“destra-sinistra” è stata spesso usata per spiegare il
posizionamento dei partiti e le scelte degli elettori. Il modello più semplice prevede che la competizione elettorale si svolga su di un segmento ai cui
estremi si collocano i partiti di estrema destra/sinistra, mentre al centro si trovano i partiti moderati.
Gli elettori sono rappresentati dal loro punto
“ideale” su questo stesso segmento e, dovendo
prevedere il loro comportamento elettorale, votano per il partito ad essi più vicino.
Questa metodologia di analisi si colloca in generale nel filone metodologico della scelta razionale
(Sola 2005) ed offre alcuni vantaggi. In primo
luogo permette di formalizzare le scelte elettorali
dei partiti secondo lo schema della teoria dei giochi (Enelow et al., 1984): i partiti sono decisori
razionali che interagiscono tra loro per perseguire
determinati fini, per esempio cariche politiche o
forza elettorale. Le loro scelte politiche sono quindi inserite all’interno dei rapporti di forza con gli
altri partiti e in questo modo possono essere analizzate formalmente. Per esempio, questo tipo di
analisi ha permesso di prevedere che la competizione tra due partiti in uno spazio lineare determina politiche centriste convergenti (Downs, 1957) e
che queste previsioni sono abbastanza robuste
rispetto ad alcune modifiche del modello di base
(Calvert, 1985). Modelli di complessità maggiore
hanno poi cercato di dimostrare cosa avviene
quando la competizione elettorale e partitica si
svolge su spazi a molteplici dimensioni (Schofield
102
et al. 1998), oppure quando i partiti attuano comportamenti strategici complessi, per esempio
rinunciare alla massimizzazione del consenso elettorale per collocarsi invece su posizioni che garantiscano un importante peso nelle trattative postelettorali (Schofield et al. 2000). Modelli di questo
tipo sono ormai comuni nei manuali di scienza
politica, si veda per esempio (McCarty, Meirowitz,
2007). Il secondo vantaggio di questo modello è
che lo spazio politico può essere stimato attraverso dati reali, per esempio attraverso l'analisi di questionari sottoposti ad un campione di elettori, a cui
applicare procedure statistiche abbastanza standard quali l'analisi discriminante o fattoriale, lo
scaling multidimensionale e altre ancora. In questo modo il modello teorico diventa un utile strumento operativo, in quanto è in grado di interpretare e prevedere l'orientamento degli elettori ed il
successo politico di una certa proposta elettorale
(Budge et al. 2001; Laver 2001). Segnaliamo inoltre
che la definizione dello spazio politico può essere
effettuata anche attraverso tecniche di analisi del
contenuto dei testi politici. Si veda, per esempio
(De Vries et al. 2001).
Quando è possibile avere ad uno stesso tempo sia la
collocazione spaziale di partiti ed elettori, sia le
regole formali del gioco della competizione politica,
allora è possibile ottenere una ricostruzione razionale delle decisioni degli attori, i quali sono vincolati nelle loro scelte (politiche o di alleanze) dalle
opportunità oggettive date in una determinata
situazione. E’ evidente che la conformazione dello
spazio elettorale è uno dei vincoli maggiori che
devono considerare nelle scelte di policy. Per esempio questo approccio è stato utilizzato da Carkoglu
Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
et al. (2006) per interpretare lo spazio politico
turco, Dow (1998) per un’analisi delle elezioni in
Cile, Hinich et al. (1999) per un’illustrazione della
situazione politico-elettorale dell'Ucraina, Lin et al.
(1996) per il caso di Taiwan, Myagov et al. (1998)
per una presentazione del caso russo, Schofield et
al. (2005) sull’evoluzione della competizione politica in Israele, Schofield et al. (1998a) per una illustrazione del caso olandese e tedesco, Schofield et
al. (2007) per il caso dell’Argentina. E’ possibile
anche compiere una ricostruzione storica di quali
fossero le possibili strategie degli attori politici, si
veda per esempio (Curini el al 2008) sono ricostruite le vicende parlamentari della V legislatura.
In questo lavoro abbiamo costruito lo spazio politico della provincia di Trento, così come era interpretabile nell’ottobre del 2005. A tale fine, è stato
realizzato un sondaggio campionario condotto in
quel mese su circa 200 elettori. Il sondaggio conteneva 12 affermazioni su cui l'elettore doveva
esprimere il proprio accordo/disaccordo secondo
una scala di Likert con quattro livelli ordinati di
giudizio (da 1 a 4). Le 12 domande dovevano
riuscire a discriminare l'orientamento destra/sinistra in tre aree principali: ambiente, convivenza
civile, spesa pubblica. L’identificazione e la rilevanza attribuita a queste tre aree è avvenuta tramite
interviste a politici ed analisi della stampa quotidiana locale. I risultati del sondaggio sono stati elaborati secondo la tecnica delle componenti principali, in modo da ridurre il numero di dimensioni
necessarie per descrivere le opinioni dell'elettore.
Con una certa sorpresa, abbiamo scoperto che il
primo autovalore della matrice di varianze e covarianze era in grado di spiegare il 70% dell'intera
variabilità del campione. Inoltre l'autovettore, corrispondente all'autovalore, pesava in modo crescente il peso delle risposte secondo una dialettica
destra-sinistra, in modo che un individuo le cui
risposte apparivano orientate più a destra è risultato collocato coerentemente nello spazio. Ciò
implica che, secondo la nostra analisi, nel caso del
Trentino la sola dimensione destra-sinistra era sufficiente per descrivere la competizione politica,
nonostante il crollo delle ideologie e la ipotizzata
multi-dimensionalità delle scelte dell’elettore. In
altre parole, non è dato un cittadino di destra che
La sopravvivenza del centro politico
sia più ambientalista di un cittadino di sinistra.
In questo spazio destra-sinistra abbiamo ricostruito
la collocazione degli elettori e abbiamo stimato la
collocazione dei partiti di fine 2005, primi mesi del
2006. In generale abbiamo notato che il cittadino
trentino in linea di principio è abbastanza conservatore: se dovessimo prevedere il suo comportamento su scala nazionale, saremmo portati a ipotizzare
una preferenza per il centro-destra. Può apparire
quindi sorprendente che da diversi anni il Trentino
sia governato da coalizioni di centrosinistra. In realtà tale paradosso è solo apparente: l’analisi spaziale
mostra che i due principali partiti di centro abbiano
condotto una abile politica di alleanze e di collocazione spaziale che ha permesso loro, almeno al livello delle elezioni per il governo della Provincia, di
coprire l’intero settore degli elettori mediani.
Questi due partiti sono la Margherita e il Partito
autonomista trentino tirolese (Patt). I due partiti
hanno espresso posizioni politiche di centro moderato, tuttavia su posizioni spaziali molto diverse.
Quando i due partiti si sono alleati per il governo
della Provincia, hanno raccolto il voto di tutti gli
elettori mediani, ma hanno anche costretto gli altri
partiti su posizioni marginali dello spazio politico.
Soprattutto i partiti del Polo delle Libertà sono stati
“costretti” dal Patt, per mantenere una dialettica
destra-sinistra, a collocarsi su posizioni estreme,
incapaci così di raccogliere consenso elettorale.
La nostra analisi fornisce un quadro coerente per
capire le strategie dei partiti in Trentino dagli anni
precedenti il 2005 ai pochi anni successivi. Tuttavia
anche le elezioni provinciali di novembre 2008
possono essere interpretate attraverso questo
schema. Le elezioni di novembre 2008 sono state
caratterizzate tra il confronto tra una forza di centro-sinistra (i cui perni sono il PD, su cui hanno
confluito i precedenti Margherita e DS, il Patt e la
lista di sostegno del candidato Dellai) e le forze di
centro destra, praticamente coincidenti con il Polo
delle Libertà. La confluenza di Margherita e Ds nel
PD significava per la Margherita rischiare di perdere il consenso dei moderati che, come vedremo,
aveva garantito il successo delle precedenti competizioni elettorali. Contro tale rischio, il presidente uscente e candidato Dellai ha favorito la formazione di una lista cosiddetta "civica" ed "autono-
103
n.23 / 2009
mista", in modo che rimanesse garantito un punto
di riferimento tra gli elettori di centro. Come
vedremo, tutto ciò è coerente con la mappa elettorale stimata: se il PD rischiava di essere troppo a
sinistra per gli elettori trentini, allora era necessario avere un nuovo partito, la lista civica per Dellai,
che mantenesse presidiato quello spazio elettorale. La nostra mappa mostra anche come nel 2005 il
centro destra fosse su posizioni eccessivamente
radicali per potere conquistare la maggioranza
degli elettori trentini. Va notato che da allora, il
centro-destra ha addirittura radicalizzato ulteriormente le proprie posizioni ed infatti le elezioni del
2008 si sono concluse con una sconfitta netta ed
inaspettata nelle sue proporzioni del PdL.
Nonostante molti sondaggi abbiano accreditato un
testa a testa tra i due schieramenti fino a pochi
giorni dal voto, il candidato del centro-sinistra
Dellai ha ricevuto quasi il doppio delle preferenze
del competitore Divina. E' interessante osservare
che tale risultato, completamente inatteso nei sondaggi, risultava invece prevedibile dall'analisi dello
spazio elettorale del 2005.
Come si vede, il caso trentino costituisce un caso
interessante per l’applicazione della metodologia
dell’analisi dello spazio elettorale. Più in generale,
il caso trentino offre elementi di riflessione circa il
posizionamento dei partiti del centro moderato
dopo la crisi della DC, partito che nel dopoguerra
ha esercitato un ruolo egemone nella vita politica
provinciale. Il fatto che Margherita e Patt abbiano
finito per riempire lo spazio lasciato libero dalla Dc
spiega come mai in Trentino la logica bipolare faccia fatica ad affermarsi pienamente, relegando i
partiti di centrodestra ad un ruolo marginale e
attribuendo grande potere di coalizione alle forze
politiche del centro. E proprio dall’illustrazione
delle caratteristiche del Trentino all’interno della
zona bianca e dalla conseguente crisi della Dc si
intende partire (paragrafo 2), per poi passare ad
illustrare le fasi operative della ricerca (paragrafi 3
e 4) e i suoi principali risultati (paragrafo 5 e 6).
2 Una breve storia politica del Trentino
I più recenti sviluppi della politica trentina e la
strutturazione dello spazio elettorale di questa pro-
104
vincia non possono essere compresi nella loro
completezza se non alla luce della più ampia vicenda storica che caratterizza il Trentino a partire dal
secondo dopoguerra. Come altre regioni italiane,
infatti, anche il Trentino si è collocato dentro una
subcultura territoriale fortemente caratterizzata e
identificabile, che alcuni autori hanno definito
come “zona bianca” (Messina 2001, Diamanti 2003,
Brunazzo e Fabbrini 2005). Nella zona bianca, la
subcultura prevalente era fondamentalmente
influenzata dalla Chiesa e dalle strutture associative
del mondo cattolico, che andavano oltre la loro
missione legata alla religione e alla fede per offrire,
più in generale, un orientamento all’organizzazione
della vita sociale e contribuivano allo sviluppo di
una rete di solidarietà a carattere anche economico
che svolgeva funzione di integrazione e di riferimento per la costruzione di un’identità sociale.
I partiti (organizzati in partiti-società) che si muovevano nel contesto della zona bianca e, in particolare, il partito egemone, la Dc, costituivano il
riferimento culturale delle società locali, i garanti
del sistema di servizi pubblici e privati, i promotori di attività finalizzate a promuovere l’integrazione
dei gruppi sociali, i trasmettitori di valori e modelli cognitivi e comportamentali. Questi partiti promuovevano la partecipazione politica, garantivano
la rappresentanza della società, orientavano e tutelavano la società e le comunità, sostenevano il
sistema sociale ed economico locale ed erano in
grado di farsi mediatori tra la società locale e lo
Stato centrale. Come scrive Diamanti (2003, 19),
nella zona bianca (e nella zona rossa, dove il partito egemone era quello comunista) “i partiti…
“erano” strettamente collegati alle organizzazioni e
alle tradizioni ideologiche e religiose del contesto
locale, a cui “offrivano” sostegno all’interno della
realtà territoriale e rappresentanza all’esterno, nei
confronti degli altri contesti e soprattutto dello
Stato centrale. Più che un’entità distinta, la politica
“era” parte del mondo locale. Ne “configurava” il
governo, spesso ne “costituiva” e “strutturava” i
servizi e la vita associativa, visto che i partiti di
massa… “costituivano” un riferimento essenziale
(nelle zone rosse il riferimento) della rete comunitaria” (Diamanti 2003, 19). In questo contesto, la
Dc veniva percepita come il garante della continui-
Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
tà del modello locale attraverso la promozione di
politiche pubbliche destinate alla sua riproduzione. Il sostegno ad essa aveva quindi anche una
natura “strumentale”.
Questo è quanto mai vero nel caso del Trentino,
anche a causa delle sue caratteristiche istituzionali
autonomistiche. Perché, se è vero che l’Autonomia
speciale garantita fin dal 1948 ha reso il Trentino
meno “dipendente” dal sistema politico consensuale che ha caratterizzato la storia politica italiana
del dopoguerra (Fabbrini 2008), dall’altra parte
essa ha creato il presupposto per un consolidamento del potere democristiano anche oltre la
data (da collocarsi attorno al 1992-1993) della crisi
della stessa Dc a livello nazionale. Giova ricordare
che nel 1992 i consensi alla Dc espressi in occasione delle elezioni politiche nazionali in Trentino
sono più alti che nel resto d’Italia e delle altre
regioni della stessa zona bianca. Così come giova
ricordare che in occasione delle elezioni provinciali del 1993 la Dc conquista ancora poco meno di
un quarto del consenso (il dato è riferito al solo
collegio di Trento, dove la Dc conquista il 24,1 per
cento dei consensi), affrontando con un certo
ritardo rispetto alla scena politica nazionale la sua
crisi. Allo stesso tempo, l’Autonomia speciale costituisce il motivo per cui in Trentino altri partiti,
come la Lega Nord, non conoscono la stessa fortuna che invece conoscono in altre zone contigue
(Brunazzo e Fabbrini 2005).
Queste considerazioni vanno tenute in debita considerazione per capire come il sistema partitico
trentino sia andato trasformandosi nel corso degli
ultimi quindici anni. In effetti, al di là dell'inevitabile cambiamento e crisi delle tradizionali forze politiche a seguito degli avvenimenti succedutisi a livello nazionale e internazionale, il sistema di partito
trentino si è caratterizzato per una certa peculiarità.
Con l’eccezione dei partiti di sinistra, che si sono
spesso mossi in un’ottica di omologazione con la
politica nazionale, la stessa Dc trentina ha agito nel
corso dei primi anni Novanta più come partito territoriale che come partito nazionale: essa era più
preoccupata di difendere gli interessi del Trentino
nella politica nazionale che di implementare a livello locale le decisioni prese a livello nazionale. La
stessa cosa si potrebbe dire per i partiti che ne
La sopravvivenza del centro politico
hanno raccolto l’eredità, come, esempio primo tra
tutti, la Margherita, che, pur collocandosi su posizioni di centro, ha guardato con favore all’esperienza ulivista a livello nazionale. Nata nel 1998
come cartello elettorale con il nome di Lista civica
per il governo del Trentino (che raggruppava, tra
gli altri, Popolari, Democratici, alcune liste civiche e
Unione ladina), essa si struttura in partito nel
dicembre del 2000, diventando la prima forza politica del Trentino nel 1998, ottenendo il 22 per
cento circa dei consensi, e incrementando ulteriormente la sua percentuale di voto nelle elezioni provinciali successive del 2003, quando raggiunge il 26
per cento dei voti. Tra i partiti di centrosinistra
occorre ricordare il partito dei Democratici di sinistra (Ds), la cui trasformazione da Pci a Pds e, poi,
Ds ha grosso modo seguito le scadenze stabilite dal
partito di riferimento nazionale. I Ds hanno ottenuto il 13,4 per cento dei voti nel 1998, risultato
confermato nelle elezioni del 2003.
Per quanto si diceva sopra, al contrario di quanto
avvenuto nel resto del Nord-Est, il centrodestra in
Trentino non ha mai conseguito grandi successi
elettorali, né in occasione delle elezioni regionali
né di quelle nazionali. Forza Italia, primo partito in
Italia, non ha superato l’11,7 per cento nel 1998 e
il 13,6 per cento nel 2003, Alleanza nazionale non
è andata oltre il 6 per cento nel 1998 e il 4 per
cento nel 2003, la Lega Nord l’8,8 per cento nel
1998 e il 6,1 per cento nel 2003. Vi è poi un partito di impronta autonomista, il Partito autonomista
trentino tirolese (Patt). Erede in qualche modo
dell’Asar (Associazione Studi Autonomistici
Regionali), un’associazione culturale fondata nel
1945, il Patt si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1988, raccogliendo i consensi del precedente Partito Popolare Trentino Tirolese. Esso
costituisce la “versione trentina” della Svp sudtirolese, il partito che, in Provincia di Bolzano, si fa
portatore degli interessi della minoranza di madrelingua tedesca. Il Patt si è sempre mosso nell’ottica di un partito di centro, appoggiando il centrodestra nelle elezioni provinciali del 1999 e il centrosinistra nelle elezione provinciali del 2003, conseguendo una percentuale di voto attorno al 10
per cento nelle ultime due elezioni provinciali.
Se questi sono i principali soggetti politici della
105
n.23 / 2009
vita politica trentina, come si struttura lo spazio
politico di questa Provincia? E una volta ricostruito
questo spazio, è possibile che questo ci fornisca
una chiave di interpretazione degli eventi che
hanno caratterizzato il Trentino dal 2003 ad oggi?
3 Metodo d’analisi
L'elemento metodologico originale della nostra
analisi è la ricostruzione dello spazio politico trentino. I tratti salienti dello spazio politico sono un
sistema cartesiano a una o più dimensioni in cui le
coordinate spaziali rappresentano gli esiti o i contenuti di una proposta politica. Nel caso più semplice, lo spazio politico può essere rappresentato
da un segmento unidimensionale, nel quale è
riportata la collocazione destra e sinistra di elettori e partiti. Ovvero, elettori e partiti sono rappresentati da punti ideali su questo segmento
(McCarthy, Meirovitz, 2007).
In generale, per potere stimare empiricamente
uno spazio elettorale specifico, occorre individuare le questioni che maggiormente possono discriminare le opinioni degli elettori o le proposte politiche dei partiti. Nel nostro caso, lo strumento di
rilevazione impiegato per individuare le posizioni
di partiti ed elettori è stato costituito da un questionario, il cui nucleo centrale è consistito in una
batteria di dodici affermazioni su diversi temi legati all’ambiente, alla convivenza civile, alla spesa
pubblica e altro. Su tali argomenti un gruppo di
200 intervistati è stato chiamato ad esprimere il
proprio atteggiamento su di una scala di Likert di
quattro livelli, dichiarando quindi se era completamente, abbastanza, poco o per niente d’accordo
con una certa affermazione. La posizione dei partiti (Alleanza Nazionale, Democratici di Sinistra,
Forza Italia, Lega Nord, Margherita, Patt e
Rifondazione Comunista) è stata ricavata attraverso la tecnica della experts survey: ad alcuni esperti
di politica trentina è stato chiesto di formulare le
ipotetiche risposte che i partiti locali avrebbero
potuto dare al questionario.
Le affermazioni inserite nel questionario sono
state selezionate attraverso l’analisi della stampa
locale nel mese precedente le elezioni per il rinnovo della Presidenza e del Consiglio provinciale
106
nell’autunno del 2003. Gli argomenti principali del
dibattito politico, come emersi dalle prime pagine
dei quotidiani “L’Adige” e “Il Trentino”, sono stati
confrontati con il “Programma per la Sinistra
Democratica” presentato alle medesime elezioni
da un cartello elettorale di forze di centrosinistra.
Infine, la prima ipotesi di questionario è stata discussa con i consiglieri e gli assessori di quel cartello, i quali, come esperti in materia, hanno suggerito particolari formulazioni delle domande. Il questionario combina quindi l’esigenza della neutralità scientifica con l’esperienza e il linguaggio degli
addetti ai lavori.
Una volta ultimato, il questionario è stato sottoposto ad alcune interviste di prova, che hanno permesso di migliorare ulteriormente la capacità discriminatoria delle affermazioni.
Il campione dell’elettorato è stato estratto dall’elenco telefonico della provincia di Trento. Sono
state svolte un totale di 689 telefonate; per 274 di
queste non è stato possibile stabilire un contatto e
in 215 casi il rispondente si è rifiutato di rispondere; i 200 rispondenti hanno poi costituito il campione finale. La rilevazione tramite intervista telefonica ha fatto sì che il campione finale non fosse
rappresentativo rispetto alla distribuzione delle
variabili socio-demografiche. Alcune categorie, per
esempio quella degli anziani, erano chiaramente
sovra-rappresentate mentre altre – come quella
dei maschi quarantenni – erano sotto-rappresentate. Per riuscire ad ottenere un campione non distorto, le unità statistiche sono state calibrate in
modo che la composizione del campione fosse
identica a quella teorica, secondo la stratificazione
“genere” ed “età”. In altre parole, le unità statistiche delle classi sottorappresentate hanno avuto
assegnato un peso maggiore di 1 e quelle della
classi sovrarappresentate un peso minore di 1.
Abbiamo trovato conveniente questa forma di
campionamento per evitare di dovere aumentare il
numero di telefonate, con le conseguenti ricadute
in termini di costi del sondaggio, ma anche per
fare in modo che l’intervallo temporale tra la prima
telefonata e l’ultima fosse il più breve possibile.
Infatti volevamo evitare che le ultime notizie locali, per esempio l’insorgere di un nuovo tema politico, orientassero le nuove telefonate in modo
Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
La sopravvivenza del centro politico
D'accordo
Non Sa
Non d'accordo
45,3
7,2
47,5
57,9
10,7
31,4
17,1
12,2
70,7
25,3
9,0
65,7
25,8
6,9
67,4
31,9
6,3
61,7
55,4
7,5
35,8
52,4
19,7
27,9
25,5
6,1
68,4
53,0
36,9
10,1
E' giusto raddoppiare il tunnel ferroviario del Brennero
44,0
48,0
8,0
Sono disposto a fare controllare la mia raccolta differenziata
affinchè venga aumentata la capacità di riciclo dei rifiuti
71,0
8,5
20,5
Voglio che i vigili urbani siano dotati di armi da fuoco
per rendere più sicura la zona in cui vivo
Gli infortuni che si verificano sul luogo di lavoro
sono causati dalla disattenzione del lavoratore
Nell'ambiente che frequento gli immigrati
vengono spesso discriminati
Gli extra-comunitari che lavorano in
Provincia vanno favoriti con l'inserimento abitativo
E' giusto che le imposte vengano aumentate
per agevolare tutti i cittadini nell'acquisto della prima casa
Bisogna aumentare le tasse per poter finanziare
i servizi domiciliari forniti ad anziani e malati
E' giusto che la Provincia continui a sostenere
le scuole private dal punto di vista economico
La Provincia deve intervenire nel costruire
la pensione integrativa dei lavoratori
Per migliorare le condizioni ambientali l'uso delle targhe
alterne è un primo passo da cui nessuno può sentirsi esentato
Il completamento della Valdastico risulta necessario
Tabella 1: Le affermazioni del questionario e distribuzione in accordo e disaccordo (campione calibrato
secondo età e genere).
diverso dalle vecchie. D’altro canto, il campione di
200 telefonate garantiva in ogni caso un buon livello di rappresentanza ed affidabilità del dato.
4 Analisi descrittiva dell’elettorato trentino
In questa sezione riportiamo brevemente alcune
statistiche descrittive relative al questionario. Per
semplificare l’analisi, abbiamo aggregato le risposte secondo le modalità “accordo”, “disaccordo” e
“non sa-non risponde”. Si osservi inoltre che le
prime quattro domande rimandano agli atteggiamenti circa i problemi di convivenza e sicurezza
dei cittadini, le quattro domande centrali si riferi-
scono ad atteggiamenti riguardanti la spesa pubblica della Provincia di Trento, le ultime quattro
domande coprono questioni legate all'ambiente.
Osservando le risposte date rispetto alle condizioni di convivenza e di sicurezza dei cittadini possiamo affermare che i cittadini trentini si collocano
su posizioni conservatrici: non sono d’accordo nel
lasciare che gli stranieri, anche lavoratori, vadano
aiutati nelle politiche abitative. Nello stesso tempo
questo atteggiamento non viene percepito come
razzista, se è vero che il razzismo non viene considerato un sentimento diffuso all’interno della provincia. Si può aggiungere che l’eventuale insofferenza nei confronti degli immigrati non si esplicita
107
n.23 / 2009
per ora in una richiesta esplicita di interventi radicali, come la possibilità per i vigili urbani di utilizzare armi da fuoco. Rispetto alla sicurezza sul lavoro, gli elettori trentini si sentono più vicini alle
posizioni del proprietario piuttosto che a quelle
del lavoratore: infatti la maggioranza dei rispondenti tende ad attribuire la responsabilità di eventuali infortuni al malcapitato.
Per quanto riguarda la politica di spesa della
Provincia, gli elettori mostrano atteggiamento
negativo nei confronti di qualsiasi aumento delle
tasse, anche se questo fosse esplicitamente indirizzato a fini sociali, quali la politica per la prima casa
o l'assistenza agli anziani. Al contrario, gli elettori
ritengono accettabile l'aiuto pubblico nel campo
dei fondi pensionistici integrativi e il sostegno
pubblico alla scuola privata. Va notato però che la
formulazione della domanda in questi due casi
non includeva il possibile aumento di tassazione.
Per quanto riguarda le politiche ambientali, è
stato richiesto all'intervistato di esprimere una
posizione nitida sulle due maggiori opere infrastrutturali che periodicamente dividono i partiti
locali: il completamento dell'autostrada della
Valdastico e il tunnel ferroviario del Brennero. Su
questi aspetti specifici, che richiedono un livello di
competenza e coinvolgimento maggiore rispetto
all'espressione di un atteggiamento, la maggior
parte degli intervistati non è in grado di esprimere
un'opinione. Tuttavia, si segnala che sulle problematiche più quotidiane, i trentini dimostrano una
certa consapevolezza ambientale nel caso della raccolta differenziata dei rifiuti, per la quale sono
addirittura disposti a rinunciare alla propria sfera
privata e farsi controllare la propria stessa spazzatura. Tale consapevolezza viene meno quando
devono giudicare i provvedimenti di blocco al traffico come l’iniziativa delle targhe alterne.
Il questionario chiedeva inoltre la disponibilità a
dichiarare la propria collocazione politica. Il tasso
di risposta a questa domanda ha mostrato come
l'elettorato non sia molto disponibile risposta
sotto questo profilo: solo 113 intervistati su 200
hanno dichiarato il partito a cui hanno attribuito il
loro voto alle ultime elezioni provinciali. Data l'esiguità delle risposte, possiamo solo riportare alcuni
atteggiamenti generali. In primo luogo, coloro che
108
non dichiarano il proprio voto sono generalmente
gli elettori indecisi, nel senso che danno una percentuale maggiore di non risposte rispetto a chi è
disposto ad auto-collocarsi politicamente.
Osservando gli atteggiamenti di coloro che dichiarano il proprio voto, notiamo che la maggior parte
degli elettori di centrosinistra si dichiara favorevole all’utilizzo dei contributi per facilitare l’acquisto
di una prima abitazione per tutti i cittadini, mentre
la maggior parte degli elettori di centrodestra risulta contraria. Gli elettori di centrosinistra sono in
maggioranza favorevoli all’utilizzo del gettito fiscale a favore dell’assistenza domiciliare, contrariamente a quelli di centrodestra. Infine, gli elettori di
centrosinistra sono contrari al finanziamento di
qualsiasi tipo di scuola privata, mentre gli elettori
di centrodestra esprimono un parere favorevole.
Infine gli elettori di centrosinistra dichiarano in
maggioranza il loro favore all’agevolazione e all’inserimento abitativo dei lavoratori stranieri.
5 Lo spazio elettorale trentino
Il punto centrale della nostra indagine è di ottenere uno o più indici che rappresentino la collocazione spaziale degli elettori o dei partiti. Per questo
scopo abbiamo utilizzato la tecnica delle componenti principali, disponibile all'interno del software
SPSS. Abbiamo riformulato le affermazioni del questionario in modo che fosse mantenuta la polarità
destra/sinistra nella semantica delle affermazioni:
ovvero abbiamo fatto in modo che le risposte completamente o abbastanza d’accordo (codificate
nei valori 1 e 2) corrispondessero a posizioni abitualmente intese di sinistra, le risposte poco o per
nulla d’accordo (codificate nei valori 3 e 4) a posizioni di destra. Abbiamo quindi calcolato la matrice
di varianze e covarianze e calcolato le componenti
principali. Abbiamo così scoperto che il primo
autovettore è in grado di raccogliere quasi il 71%
della variabilità totale. Ciò significa che è sufficente
un solo indice, rappresentato dal primo autovettore, per raccogliere la dimensione destra-sinistra
dell'elettorato e che quindi lo spazio politico può
essere considerato unidimensionale.
Per determinare la collocazione dei partiti, abbiamo sottoposto il questionario ad alcuni politologi
Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
e giornalisti della provincia di Trento, chiedendo
loro di rispondere al questionario "come se" essi
rappresentassero i principali partiti. Sulla media di
queste risposte abbiamo quindi calcolato la posizione dei partiti attraverso lo stesso autovettore
utilizzato per la collocazione degli elettori.
Lo spazio politico con la collocazione puntuale dei
singoli partiti e il posizionamento degli elettori tramite istogramma è riportato nella figura 1. In questo spazio abbiamo riportato i principali partiti attivi nel 2006. In quell'anno, i partiti principali della
coalizione di centrosinistra che governava il
Trentino erano DS, Margherita e Patt, senza la partecipazione di Rifondazione. Come si può notare, i
tre partiti coprono quasi tutto lo spazio politico,
lasciando ai margini sia Rifondazione, sia i partiti
della Casa Della Libertà. Negli equilibri della coalizione, emerge chiaramente un vasto spazio elettorale, compreso tra Margherita e Patt, su cui si collocano gli elettori moderati del Trentino.
Gli elettori che si collocano tra Margherita e Patt
sono circa il 32% del totale, mentre gli elettori tra
Forza Italia e Patt, cioè gli elettori potenzialmente
indecisi tra le due coalizioni, sono solo il 6%. Se si
tiene conto che la CdL raggiungeva nel 2004 poco
più del 30% dei voti, appare chiaro come essa sia
costretta ad un ruolo marginale a causa della politica allo stesso tempo di coalizione (verso il cen-
La sopravvivenza del centro politico
trosinistra) e differenziazione (dal centrodestra)
attuata dal Patt. Allo stesso modo, vediamo che l'esclusione di Rifondazione non è significativa in termini di elettorato: il suo peso elettorale nel 2006
corrispondente a circa il 3%, è riflesso in un posizionamento di semplice testimonianza.
La rappresentazione grafica permette di osservare
una coalizione di maggioranza, costituita da DS,
Margherita e Patt, occupare quasi tutto lo spazio
politico. La possibile coalizione di centrodestra è
relegata ad una delle due estremità dello spettro.
Se ipotizziamo una logica bipolare, allora l'elettorato potenzialmente incerto tra la coalizione di
governo e una possibile alternativa è quello collocato tra il Patt e FI. Questo elettorato è pari al 6%
del totale: anche se fosse conquistato, esso è troppo esiguo per permettere alla coalizione di minoranza di vincere le elezioni. L'unico modo che
avrebbe avuto il centro destra di aumentare il proprio bacino elettorale è quello di scavalcare il Patt
verso posizioni più centriste. Tuttavia così non è
stato, e come vedremo tra breve, esso ha invece
cercato di conquistare consenso mobilitando gli
elettori su questioni di principio e di valore, che
però hanno reso la proposta politica eccessivamente estrema.
La situazione di Rifondazione comunista, e comunque di tutte le formazione che hanno cercato di
Figura 1: Istogramma a intervalli disposizione di elettori e partiti a seconda del proprio indice politico.
Legenda: M=Margherita, P=Patt.
109
n.23 / 2009
proseguire l'esperienza del comunismo italiano è
simile. Non riuscendo ad essere stabilmente parte
della coalizione di centro-sinistra, la sua posizione
politica resta agli estremi dello spazio politico,
caratterizzandosi soprattutto rispetto ai valori.
6 La sopravvivenza del centro politico
L'analisi spaziale precedente solleva una questione.
Come è stato possibile che i due partiti di centro,
Margherita e Patt, siano riusciti, almeno fino alle
elezioni del 2008, a mettere in secondo piano i
campioni del bipolarismo nazionale? Come è stato
possibile creare un enorme spazio politico dal peso
di circa il 30% dell’elettorato, compreso tra le posizioni di Margherita e Patt, senza che nessun altro
partito riempisse quello spazio? Infine, la nascita
del Partito Democratico cosa ha cambiato in questo
quadro di riferimento, soprattutto dopo le elezioni
clamorosamente vinte di novembre 2008?
Vogliamo qui sottolineare che la storia della coalizione di centro-sinistra ed i rapporti di forza che
hanno caratterizzato i rapporti tra i partiti sono
facilmente leggibili se teniamo in considerazione la
conformazione dello spazio politico, così come stimato in figura 1. La figura più importante del
periodo è senza dubbio il governatore Lorenzo
Dellai. Già sindaco di Trento negli anni '90, diventa guida della provincia prima con le elezioni del
1998, poi confermato nel 2003, infine ha ottenuto
consensi da record anche nel 2008. Il suo partito di
riferimento negli anni '98 e '03 è stato la
Margherita. Durante la legislatura del 1998, i DS
cercano di caratterizzarsi all'interno della giunta
come il partito dell'innovazione amministrativa e
degli investimenti pubblici, ma finalizzati allo sviluppo tecnologico. Innovazione amministrativa
nella forma della razionalizzazione dell'organizzazione pubblica, per esempio sciogliendo le
Comunità montane. Sviluppo tecnologico nella
forma di investimenti per l'alta velocità e internet
anche nelle valli più periferiche. I DS, almeno a
parole, sono contrari alle forme di assistenzialismo
alle imprese favoriti dallo statuto di autonomia,
sono contrari alla commistione di interessi pubblici-privati nella gestione della attività economica,
campi nei quali la Margherita otteneva forti con-
110
sensi. Tuttavia un programma così ambizioso ottiene una grave sconfitta simbolica con l'imposizione
da parte di Dellai, a fine '98, del salvataggio con
soldi pubblici di una azienda di risalita, con conseguente piano di investimenti che avrebbero compromesso la qualità ambientale di una vallata alpina laterale alla val di Fassa, la val Giumela.
Dopo che i DS, assieme a varie anime ambientaliste presenti in giunta, avevano annunciato la dura
opposizione al progetto, non hanno poi avuto il
coraggio di andare fino in fondo e sfiduciare il loro
presidente. In altre parole, il loro è stato un bluff
che Dellai ha scoperto facilmente e da allora non
ha avuto problemi a disporre degli alleati come
meglio ha creduto per tutto il resto della legislatura. Si arriva al punto che alle elezioni 2003 Dellai
riesce persino ad imporre l'esclusione dalla lista
DS degli ambientalisti che più erano contrari all'operazione Giumela. All'interno dei DS, ciò ha sancito una chiara sconfitta politica di quella parte del
partito che più si sarebbe potuta impegnare in
disegni riformatori: come conseguenza, l'attività
dei DS nella legislatura 2003 si è limitata a routine
amministrativa.
Anche se ci troviamo ad analizzare una sconfitta,
dobbiamo tuttavia ammettere che lo spazio di
manovra dei DS non era grande. Nello spazio politico unidimensionale i DS sono il partito più estremo della coalizione DS-Margherita-Patt, con la
Margherita in posizione mediana. Come partito
mediano, la Margherita ha avuto sempre buon
gioco nel trovare il sostegno del Patt contro i DS.
Non solo, ma va riconosciuto che il contributo del
Patt alle vittorie elettorali del centro-sinistra è stato
ben più sostanzioso dell’8% che circa pesava in termini di voti. Esso è sempre riuscito ad impedire
che la proposta nazionale della Casa della Libertà si
traducesse nei termini più familiari dell’autonomia
per i moderati trentini.
Ma come ha fatto un partito all'8% a godere di un
tale posizionamento strategico? Il Patt ha raggiunto
quel posizionamento grazie alla spregiudicatezza
con cui ha gestito le alleanze elettorali. La strategia
elettorale del Patt dipende da quale elezione si sta
svolgendo. In parole povere: gioca con il centrosinistra nelle elezioni provinciali, gioca con il centrodestra nelle elezioni nazionali, si tiene le mani libe-
Stefano Benati, Marco Brunazzo e Francesca Soldi
re nelle elezioni locali. Un comportamento fortemente opportunista, che però è permesso e reso
conveniente dai diversi meccanismi di voto delle tre
elezioni. Il meccanismo delle elezioni provinciali è il
turno unico con premio di maggioranza. Le elezioni
dei sindaci, come legge nazionale, sono a doppio
turno; infine, come sappiamo, le elezioni nazionali
sono fortemente orientate al bipolarismo.
Nelle elezioni provinciali, le coalizioni si formano
attorno ad un candidato presidente e sono formate da partiti o liste civiche. Possono esserci più di
due candidati presidente, perciò è possibile che il
presidente che ottiene la maggioranza relativa
degli elettori non abbia la maggioranza assoluta. A
ciò è posto rimedio non attraverso il doppio turno,
ma con un premio di maggioranza che è proporzionale ai voti ottenuti. In pratica le elezioni sono
a turno singolo, ma la coalizione che ottiene la
maggioranza relativa può controllare circa dal 50 al
70% dei seggi del Consiglio provinciale. In particolare, se il candidato vincitore non supera il 40%,
allora ottiene la metà più uno dei seggi del
Consiglio provinciale, ma, se supera il 40%, allora
ottiene un controllo più che proporzionale del
Consiglio. Vi è quindi un incentivo molto forte a
costruire coalizioni che superino la semplice soglia
della maggioranza relativa, per raggiungere il peso
di almeno il 40% dei voti.
E' in questo contesto che il Patt trova grande spazio
di manovra. Appare chiaro che per la Margherita è
vantaggioso cercare di conquistare gli alleati alla sua
destra, che nel nostro spazio elettorale sono proprio i tipi del Patt. Il Patt non può che trovare vantaggioso raccogliere l'invito: grazie alle competizioni locali e nazionali, è sufficientemente differenziato
dalla Margherita da non temere di esserne assorbito
in termini di proposta politica. Non solo, ma alla
Margherita conviene avere alla sua destra un partito
di centro con connotazioni territoriali, allo scopo di
schiacciare a destra i partiti della Casa delle Libertà.
Nello spazio elettorale che abbiamo disegnato, la
coalizione DS-Margherita-Patt significa vittoria sicura. Perchè lo schema funzioni è però necessario che
Patt e Margherita siano sufficentemente differenziati, in modo da ottenere il massimo dei consensi dall'elettorato di centro.
Le elezioni 2008 hanno riconfermato questo sche-
La sopravvivenza del centro politico
ma, ma con protagonisti leggermente diversi.
L’evoluzione nazionale ha portato DS e Margherita a
fondersi in un unico partito, il Partito Democratico.
Improvvisamente lo schema Ds-Margherita-Patt perdeva il partito mediano e lasciava il solo spazio di
contrattazione Pd-Patt. Uno spazio molto grande, su
cui potevano puntare nuovi partiti. Tale rischio era
ben chiaro a Dellai: di nuovo candidato del centrosinistra, ha “sostituito” la Margherita con una lista
civica di sostegno, che ha occupato nelle elezioni
2008 il medesimo spazio politico lasciato libero dalla
Margherita. Con queste premesse, Dellai rivince nel
2008 con quasi il doppio delle preferenze del rivale
Divina, della Lega Nord e la sua lista personale è
secondo partito con circa il 20% dei voti (di poco
superiore il risultato del PD).
Era prevedibile un simile esito? In parte sì. Se il
centro-sinistra ha riproposto una coalizione le cui
coordinate spaziali sono rimaste costanti, così il
centro-destra nel corso degli ultimi anni ha semmai ulteriormente radicalizzato la propria posizione, con il “nostalgico” De Eccher al posto del
“post-democristiano” Zenatti alla guida di AN, o
con la candidatura del “ruspante” Divina invece
che dell’abile ma discusso Malossini (Forza Italia).
Alla luce dei risultati tutti chiari errori politici. Ma
un’altra cosa merita di essere sottolineata. Che
nonostante il risultato delle elezioni 2008 fosse
certamente prevedibile a partire dalla stima dello
spazio elettorale da noi svolta, questo è stato completamente imprevisto dai sondaggi pre-elettorali
di tutte le forze politiche ed indipendenti che
abbiano svolto sondaggi pre-elettorali. Le previsioni più o meno unanimi, davano certo il testa a testa
tra i due candidati, semmai con un leggero vantaggio di Dellai. Certamente, i sondaggi possono
anche essere svolti male, tuttavia può essere il caso
che le previsioni politiche siano più affidabili quando svolte con strumenti di lungo periodo, per
esempio attraverso la stima dello spazio elettorale,
piuttosto che con strumenti contingenti, come un
sondaggio sulle dichiarazioni di voto.
7 Conclusione
Nel nostro lavoro, abbiamo mostrato come lo spazio politico trentino sia rappresentabile in una sola
111
n.23 / 2009
dimensione destra-sinistra. Su questo spazio Patt e
Margherita sono riusciti a coordinare le loro strategie e a mantenere il ruolo egemone del centro
politico, proseguendo sotto certi aspetti l’esperienza del moderatismo DC. Ciò è in chiara contraddizione con gli esiti che la caduta della DC e la
stagione di “Mani pulite” hanno determinato al
sistema politico italiano. Nel caso nazionale abbiamo visto un chiaro bi-polarismo tra due coalizioni
che dalle ali estreme si estendono fino ai partiti
mediani, UDC e UDEUR nella scorsa legislatura.
Nel caso Trentino, il vecchio centro è riuscito ad
innovarsi in centro-sinistra escludendo rapidamente la sinistra radicale dalle forze di coalizione. Ma in
fondo, è stato più insolito il dato nazionale o trentino? Se vediamo le ultime elezioni, è il dato nazionale che si sta avvicinando al dato trentino e non
viceversa. Le due coalizioni che potrebbero emergere su scala nazionale sono oggi UDC-PD contro
Polo delle Libertà, con la sinistra radicale destinata
a ruoli di pura testimonianza. Esattamente gli stessi schieramenti che si contendono il Trentino negli
ultimi dieci anni.
Ringraziamenti: Si ringrazia il Gruppo consiliare
della Sinistra democratica della Provincia di Trento
per il gentile supporto a questa ricerca.
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113
n.23 / 2009
Carmelo Buscema
Il Futuro Anteriore della Finanziarizzazione,
e l'Estasi delle Soggettività Contemporanee
Il sestante
Il futuro anteriore della finanziarizzazione
La crisi, etimologicamente, è un momento di rottura in cui è possibile o necessario separare e decidere. Essa è determinata dal superamento di un
limite, dall’esondazione dei margini condizionali.
La crisi è un momento ontologico in cui l’esistenza
si manifesta come immediatamente politica, lo
spazio diviene un campo di opzioni aperto (o da
aprire), ed il tempo esplode nel kairos delle
opportunità da cogliere.
La corrente crisi finanziaria, pur colta nella sua specificità, ci appare inoltre come una circostanza dal
valore storico altamente epifanico. Essa rivela la
criticità essenziale o l’essenza critica del sistema
capitalistico tout court: il suo essere una continua
corsa oltre ogni limite, dirompente rispetto al suo
concetto stesso. Già Marx sottolineava questo
carattere determinante del capitalismo, definendolo in quanto processo di continuo rivoluzionamento dei rapporti sociali e di produzione, dei suoi
strumenti e delle sue articolazioni spaziali, mosso
dal peculiare modo borghese di dominio sulla
socialità. La formazione del “mercato mondiale”,
descritta dal filosofo di Treviri – vero e proprio
concetto-gemma dell’attuale discorso scientifico
sulla globalizzazione –, da questo punto di vista,
può essere interpretata come il processo storico di
affermazione della dismisura capitalistica sullo spazio sociale e fisico del globo. Ciò non equivale ad
attestare un presunto carattere anomico di questo
sistema, bensì il fatto che esso assume, quali proprie regole e norme, il criterio dell’eccedenza, il
principio della rottura dei limiti di volta in volta
dati, il fine dell’infinità. Nel pensiero di Schmitt
tale processo è descritto e spiegato come passag-
114
gio dalla vigenza del nomos della terra, alla vigenza del nomos del fluido elemento marino.
In questo contesto, ci interessa concentrare l’attenzione sul processo complementare di colonizzazione capitalistica della dimensione del tempo.
Sebbene meno intellegibile sul piano intuitivo, e
spesso trascurata dalle analisi scientifiche, riteniamo che tale questione sia cruciale rispetto allo sforzo di comprensione (e di trasformazione) del
mondo contemporaneo. Ne La miseria della filosofia, Marx affermava che l’uomo intrappolato nei
rapporti produttivi moderni, tendeva a diventare la
mera «carcassa del tempo»: del tempo di lavoro,
tempo-merce acquistabile e cedibile, astratto nella
successione lineare di lassi misurabili, uniformi ed
intercambiabili. Il famoso testo di Thompson
(1967) dedicato al tema, e parte della ricerca di
Foucault sullo sviluppo e l’esercizio delle discipline, si collocano entro il solco di questa prospettiva
analitica aperta da Marx, che corrisponde allo studio della trasformazione del tempo sociale ed individuale in tempo della produzione di valore-capitale. Il processo di colonizzazione capitalistica del
tempo, descritto in questi termini, è consistito nella
sottrazione della sua qualità socialmente determinata, e nella sua trasformazione in tempo-merce
definito ed apprezzato non in ragione del suo valore d’uso – della sua concreta vivenza e delle sostanze di cui esso è carico –, bensì della sua quantità o
misura formale disponibile sul mercato. Questa
dinamica di positiva costruzione del tempo di lavoro – in quanto contenitore astratto e miserevole
della ricca capacità produttiva dei soggetti – rende
conto della base primordiale del processo di valorizzazione capitalistica. La metafora più appropriata
per descrivere tale meccanismo di espropriazione è
Ash Amin e Nigel Thrift
forse quella del mercante che compra la perla preziosa – la forza-lavoro – al prezzo del misero guscio
che la contiene – il tempo di lavoro. Salvo poi
rivendere la collana, o qualsivoglia altro manufatto
impreziosito dalle perle, ad un valore assai più alto
di quello d’acquisto e produzione.
Consideriamo che un importante contributivo innovativo all’investigazione del rapporto tra capitale e
tempo, sia stato quello di Debord (1967), il quale ha
introdotto la considerazione del tempo di consumo
e del consumo di tempo in quanto momenti essenziali dei meccanismi di alienazione/espropriazione
propri delle moderne società industriali. Egli mette
l’accento su un ulteriore passaggio interno al processo di mercificazione del tempo, che corrisponde
all’invenzione della sua alienabilità commerciale in
quanto ambito ed unità di misura del consumo di
spettacolo: ovvero, di merci fattesi immagine, ed
immagini fattesi merce, da cui risulta «l’occupazione
totale della vita sociale» da parte del capitale.
Quest’ultimo – nel pensiero di Debord – ad un
certo punto del suo sviluppo, raggiunge un grado di
accumulazione tale da divenire capacità di rappresentazione del mondo in quanto merce. Allora, il
ciclo della valorizzazione del capitale si arricchisce
del momento logico ed empirico del tempo di consumo: tempo individuale libero o liberato dalla produzione, ma avvinto dallo spettacolo e dalle qualità
fittizie dei prodotti industriali.
«A questo punto della “seconda rivoluzione industriale”, il consumo alienato diventa per le masse un
dovere supplementare che si aggiunge a quello
della produzione alienata. […] l’umanesimo della
merce prende a proprio carico “gli svaghi e l’umanità” del lavoratore, semplicemente perché l’economia politica può e deve ora dominare queste sfere
in quanto economia politica». (Debord 2004, 70-71).
Nei termini della metafora impiegata sopra, questo
passaggio corrisponde alla fase in cui il mercante
riesce a rivendere le conchiglie vuote alle
perle/forza-lavoro già espropriate, affinché se ne
rivestano anche fuori dal lavoro; affinché lo spazio
ed il tempo della loro esistenza rimangano completamente conchiusi ed informati entro la dimensione della merce ed i processi di alienazione che
su di essa si basano. Come afferma Debord, con
l’avvento della società dello spettacolo, il dominio
Riflessioni sulla competitività della città
del lavoro morto sul lavoro vivo, del passato sul
presente, sono estesi dall’ambito usitato della produzione meccanizzata, a quello della circolazione
delle sue merci e della socialità sistematicamente
mediata dai valori di scambio, attraverso l’espropriazione dei simboli, la feticizzazione della rappresentazione del mondo e l’occupazione virtualmente totale del tempo.
La crisi finanziaria in corso – scatenata dalla diffusione di condizioni di insolvenza tra i beneficiari
del credito al consumo generalizzato, e dalla propagazione della sfiducia reciproca tra i grossi investitori, cosiddetti istituzionali – ci offre lo spunto
per individuare una nuova prospettiva di studio
del rapporto tra capitale e tempo, ed aggiungere
un nuovo passaggio a quelli individuati sopra.
Alla luce di questa crisi, infatti, non possiamo più
leggere il passaggio al postfordismo nei soli termini di una strategia giocata al livello spaziale, tipici
del discorso critico sulla globalizzazione: smembramento delle grandi unità produttive fucine di organizzazione e potere operaio, distribuzione delle
risultanti unità produttive in(ter)dipendenti per il
territorio globale, loro articolazione funzionale in
cellule produttive regionali poste in concorrenza
reciproca per la precarizzazione delle condizioni di
lavoro, ambientali e di vita del costituendo proletariato mondiale. Difatti, il fondamentale risultato di
questi processi è quello di ingenerare un meccanismo di spinta deflativa dei costi economici e politici della produzione che, pur importante, è tuttavia
problematico nella misura in cui tende a riproporre sul piano storico il rischio endemico della crisi di
sovrapproduzione – a cui il fordismo ed il keynesismo, nei decenni centrali del secolo scorso, avevano cercato di opporre una soluzione macroeconomica, poi risultata destabilizzante rispetto alla struttura dei rapporti sociali di forza. La frammentazione del nuovo proletariato transnazionale, la neutralizzazione delle energie antagoniste attraverso la
loro canalizzazione nei processi di concorrenza per
la produttività, hanno significato anche una dinamica di abbassamento del potere d’acquisto del
salario che – pur compensata dall’apertura di nuovi
e vasti mercati di produzione e consumo sul territorio globale – resta contraddittoria rispetto alla
necessità sistemica di intensificare ed espandere in
115
n.23 / 2009
maniera incessante i processi di realizzazione del
profitto. In definitiva, tale strategia di governo biopolitico della popolazione mondiale – fondata sul
processo di globalizzazione dello spazio della valorizzazione, e fomentata dal nuovo centro direzionale del capitalismo, che è la finanza transnazionale –
risulta altamente efficace sul piano delle nuove
forme di subordinazione dei soggetti della produzione, ma non è sufficiente a spiegare l’innovazione
paradigmatica intervenuta negli ultimi decenni.
Quindi, l’ulteriore elemento da tenere in considerazione è quello della peculiare soluzione postfordista e post-keynesiana alla questione del rischio di
sovrapproduzione, che introduce il tema della
socializzazione della finanza, e della finanziarizzazione della società contemporanea (Marazzi 2001).
Un aspetto cruciale di questo duplice fenomeno,
che qui è essenziale sottolineare, è il fatto che la
tecnica keynesiana del deficit spending – concepita come pratica macroeconomica con cui lo Stato
moderno si faceva garante del compromesso sociale industriale tra capitale e forza-lavoro, e promotore del dinamismo economico, attraverso la redistribuzione e l’allocazione politica di parte dei redditi
–, negli ultimi lustri è divenuta una pratica sempre
più incentivata al livello microeconomico ed individuale.
Ad un primo grado di analisi, effetto e finalità di tale
meccanismo sono stati il drogare la domanda di beni
di consumo, creando e distribuendo un complemento virtuale ed integrativo del reddito da salario
degli individui, attraverso l’erogazione diffusa di credito facile – tuttavia, secondo logiche vieppiù scriteriate e sganciate dalle reali capacità di solvenza dei
suoi beneficiari, come la cronaca della crisi attuale ci
ha rivelato. Il credito più il salario misurano ora la
capacità di spesa dei consumatori postfordisti.
Ad un livello necessariamente più profondo dell’analisi, però, bisogna rilevare anche e soprattutto
come il credito, giustapposto al salario, divenga
oggi il nuovo dispositivo biopolitico fondamentale
di controllo ed assoggettamento delle forze sociali
rispetto al capitale. Più specificamente, se da una
parte il salario continua ad essere la misura prima
– secondo rapporto di proporzionalità indiretta –
del grado di sussunzione reale dell’individuo al
capitale, che matura soprattutto nell’ambito della
116
produzione come dominio del passato sul presente, dall’altra, il credito ricevuto viene a rappresentare la misura diffusa e diretta del grado di sussunzione virtuale (cioè in virtù del debito contratto e
da ripagare), che matura nell’ambito del consumo
come espressione del dominio del futuro ipotecato dal capitale sul presente.
Ne deriva la constatazione del fatto che la finanza
transnazionale sta assumendo vieppiù funzioni
eminentemente politiche e governamentali rispetto all’intero complesso sociale e produttivo di cui
consiste il capitalismo contemporaneo.
Un’evidenza di ciò è offerta da Marazzi quando
annota che «la creazione di liquidità finanziaria» è
un sintomo dello spostamento delle funzioni di
sovranità dagli Stati e dal principio di cittadinanza,
alla dimensione «dell’opinione pubblica e della
convenzione socio-finanziaria che le è storicamente propria» (Marazzi 2001, 41) – attraversata da
nuove direttrici di potere, nuovi processi di assoggettamento ed esposizione al rischio della socialità, ora agenti sul piano transnazionale. La funzione
di prestatore di moneta legale di ultima istanza,
tradizionalmente propria dello Stato, se non scompare, tende però ad essere sussunta «ai processi di
valorizzazione finanziaria, rendendo la politica
monetaria una variabile dipendente dei mercati
borsistici» (Marazzi 2001, 95).
Tale pervasiva qualità politica e biopolitica delle
attuali strategie della finanza, è riscontrabile anche
nel fatto che l’aumento del consumo a mezzo di
debito, ovvero l’estensione della tecnica del deficit
spending al livello micro-fisico della vita degli individui, non implica semplicemente dinamiche economiche di accelerazione nei cicli di realizzazione
del profitto, ma anche e soprattutto nuove forme
di costrizione dell’esistenza umana – del suo
tempo e dei suoi spazi – entro gli schemi del lavoro salariato, dell’alienazione e della valorizzazione
capitalistica. Le nuove strategie della finanza socializzata consistono di meccanismi che, nella sostanza, ipotecano il dominio capitalistico, proiettandolo – con gli interessi, letteralmente – nell’avvenire.
Tale ambito di virtualità costringente si schiude e
si struttura internamente, in quanto nuovo spazio
e lasso di esercizio concretissimo di potere, nell’esatto momento in cui il credito è ricevuto, e dalla
Ash Amin e Nigel Thrift
dimensione presente di reddito integrativo, questo si trasforma per il beneficiario in debito di
tempo di lavoro, o comunque di valore monetario,
da ripagare nel futuro prossimo.
A ben vedere, tale valore espropriato dal capitale
alla socialità storica – ovvero, presa nel suo divenire – assume i tratti caratteristici più della rendita
che del profitto: ciò che il meccanismo finanziario
del deficit spending diffuso estorce ai soggetti è un
impegno coattivo per l’immediato futuro a garantire lo sviluppo economico e monetario, ad aumentare la massa del valore totale, ad ipotecare il dominio del capitale sulle forze produttive. Se il
momento della circolazione d’antan era considerato tradizionalmente come improduttivo rispetto al
ciclo di valorizzazione del capitale – a torto od a
ragione –, oggi il consumo a mezzo di debito attesta la definitiva inservibilità di quella distinzione tra
lavoro e servizio, tra attività produttive ed attività
improduttive, tra il momento della produzione di
beni e valore ed il momento della loro mera distribuzione. Il prezzo del bene di consumo pagato a
mezzo di credito, infatti, include non soltanto i
costi di produzione, di distribuzione ed il profitto,
ma – sotto la forma degli interessi – esso comprende anche un valore di rendita, od una rendita
di valore, la cui espressione monetaria racchiude
in realtà un’essenza biopolitica, che è capacità di
strutturare i rapporti di potere nel tempo e, viceversa, di scandire il tempo dei rapporti di potere.
Rispetto alla sussunzione spettacolare descritta da
Debord nei termini di una occupazione totale del
tempo sincronico della società, ciò su cui stiamo
richiamando l’attenzione è invece la necessità di
indagare le nuove strategie di sussunzione capitalistica che investono il tempo diacronico dei soggetti e delle loro relazioni.
Questa prospettiva di studio ci sembra cruciale
rispetto alla sociologia dei fenomeni politici ed
economici contemporanei, ed essenziale, in particolare, ai fini della comprensione delle nuove
forme, degli spazi e dei tempi dell’antagonismo e
del conflitto sociale. In definitiva, la nostra ipotesi
è che – rispetto alle forme della sussunzione fordista, giocate come capacità di dominio del passato sul presente – il sistema capitalistico, nel corso
degli ultimi tre decenni, abbia investito su forme di
Riflessioni sulla competitività della città
sussunzione complementari a quelle, basate sul
dominio del presente sul futuro, e del futuro sul
presente. La finanza, ai tempi del postfordismo, si
è letteralmente proposta come ambito della virtualità colonizzata dal capitale: cinghia di trasmissione dei rapporti di potere e delle condizioni di
dominio, tesa tra tutte le declinazioni possibili del
tempo sociale, e capace di penetrare praticamente
tutti gli interstizi dello spazio produttivo e politico
globale. Il capitale finanziario attuale – così come il
capitale postfordista tout court – è definibile,
innanzitutto, come capacità tecnica e strategica di
trasformazione della comunicazione e della relazionalità in generale – potenziata dalla diffusione e
dall’appropriazione sociale delle nuove macchine
contemporanee – in una «catena di montaggio linguistica» (Marazzi 2001, 64) produttiva di beni
immateriali, materiali e valore, da articolare non
solo rispetto allo spazio, ma soprattutto rispetto al
tempo. Il campo di intervento ed esercizio del
capitale finanziario e delle sue strategie di sussunzione del corpo sociale, si colloca, dunque, un
passo prima sia del lavoro e delle discipline, che
del consumo e dell’alienazione spettacolare. Esso
scommette sulla conquista dell’avvenire prossimo
attraverso l’istituzione del futuro anteriore all’interno del tempo sociale, economico e politico, in
quanto momento di concretissima virtualità.
Questa particolare forma di declinazione si caratterizza perché schiaccia l’incertezza e la fluidità del
presente tra il tempo passato ed il tempo futuro.
Essa permette di parlare dell’avvenire con la determinazione del participio, come di qualcosa che è
già accaduto: avrà lavorato, avrà pagato, avrà prodotto profitto e riprodotto dominio.
Come abbiamo argomentato più diffusamente in
un nostro recente testo (Buscema 2009), se la
finanziarizzazione della società e delle forme della
sua sussunzione, rappresenta una strategia di
dominio tutta giocata sul tempo, e tesa al controllo degli individui attraverso il loro inquadramento
all’interno di una sequenza di potere proiettata dal
passato al presente al futuro; l’altra dinamica fondamentale della nostra epoca, complementare a
quella appena menzionata, è l’affermazione delle
tecniche gestionali della governance che mirano
all’inquadramento spaziale del corpo sociale glo-
117
n.23 / 2009
bale, all’interno di superfici organizzative e funzionali alla sussunzione.
La riappropriazione dell’estasi
Vorremmo concludere questa introduzione al
testo, sottolineando come la questione tecnologica sia cruciale rispetto ai processi appena descritti:
essa rappresenta il piano fondamentale di articolazione di queste strategie; ma, al contempo, anche
il tessuto di esercizio delle tattiche del nuovo antagonismo. Laddove la specifica verità tecnologica
(Marx) dell’epoca moderna consisteva della concentrazione degli artefatti meccanici all’interno
delle grandi fabbriche, sotto la forma alienante del
capitale fisso, quella propria dell’epoca contemporanea consiste, invece, della dispersione per il tessuto sociale delle macchine frutto dell’accumulazione di lavoro morto espropriato – ora divenute
merce a buon mercato, che la stessa logica spettacolare tende a far diffondere massimamente. Oggi
la tecnologia si fa capace «di generare la propria
invisibilità, di circolare dentro e attraverso il corpo
fisico» (Smith-Windsor 2004), e le nuove macchine
relazionali divengono strumenti di potenziamento
delle generiche facoltà umane, valori d’uso delle
soggettività particolari, e mezzi della capacità produttiva autonoma della socialità (Buscema 2005).
Le strategie di governance e di finanziarizzazione
rispondono dunque ad un unico tentativo coerente, mosso dalla costituenda struttura capitalistica
postfordista, di colonizzazione di quei nuovi ambiti di virtualità in cui si articola la realtà sociale contemporanea, che il general intellect postfordista
istituisce e plasma continuamente praticando l’esodo, la resistenza, o la pura e ludica creatività.
Nell’epoca in cui le forme della sussunzione, dell’espropriazione e della valorizzazione ricorrono a
meccanismi predatori, agenti ex post rispetto all’esplicazione della crescente capacità di produzione
autonoma della socialità, l’antagonismo delle soggettività deve ricercare i propri valori geometrici e
le proprie soluzioni etiche nella vocazione all’esteriorità che esse coltivano internamente, nella
essenza inessenziale del loro essere complesso
ibrido e insolente. Come afferma Caronia,
«L’ibridazione tra uomo e tecnologia che si realiz-
118
za nel cyborg produce una situazione veramente
nuova […]. La tecnologia penetra ormai sotto la
pelle, a ogni livello e con ogni modalità possibile,
tanto nel cyborg elettromeccanico quanto in quello genetico. In entrambi questi casi estremi, e in
ogni pensabile gradazione intermedia tra essi, si
produce una dislocazione tra interno ed esterno
che lavora direttamente sulle condizioni e le
modalità dell’esperienza. Il cyborg è una figura che
esce da se stessa come i mistici e gli allucinati della
tradizione religiosa, ma in senso letterale e fisico,
non più solo mentale ed immaginativo. La sua estasi (ex-stasi, stare fuori da se stessi, uscire da sé)
non è più un’esperienza eccezionale e straordinaria, ma una condizione quotidiana, permanente»
(Caronia 2008, 129).
Tale condizione sincretica che fluisce per le reti e
la nostra esistenza quotidiana – impasto di natura
ed artefatto, identità ed alterità, ch’è ormai «l’unico modo di essere umani» che ci è dato (SmithWindsor 2004) – va investita di tutte le sue potenzialità di antagonismo e di trasformazione del
mondo: «La radice di “ibrido”, infatti, è quella del
sostantivo hýbris, che è l’insolenza, l’arroganza,
l’eccesso, la sfida […] diretta contro l’ordine del
cosmo, […] la separazione tra uomini e dei, tra
una specie animale e l’altra» (Caronia 2008, 128).
L’estasi delle soggettività contemporanee non deve
essere pensato come la sterile e romantica fuga
verso il fuori utopico delle relazioni di potere, ma
come lo sforzo d’investimento politico della storica
capacità tecnica di produzione del comune propria
della socialità postfordista, e di costruzione delle
istituzioni che ne garantiscano adeguatamente l’autonomia. L’uscire fuori da sé di cui consistono, o
devono consistere, l’estasi e l’esodo della moltitudine, è un movimento corrispondente e contrario a
quello dell’alienazione per l’espropriazione del
capitale. Esso è il rifuggire la clausura delle identità
e delle proprietà, per costruire dinamicamente la
generalità dell’intelletto. Esso è il farsi soggetto –
delle persone – della cooperazione comune per il
comune. È l’autonomia relazionale e immanente
per il valore d’uso, contro l’alienazione separatrice
e trascendente del valore di scambio.
«Il valore d’uso riappare continuamente nella sua
articolazione con il desiderio di emancipazione,
Ash Amin e Nigel Thrift
con l’affermazione delle soggettività, con la potenza produttiva. Quello che ci resta del marxismo è
l’esperienza di un valore d’uso inteso come funzione della resistenza e della lotta.
Alle trasformazioni feticistiche del capitale si
oppongono dunque le metamorfosi biopolitiche
(tecniche, politiche, ontologiche) della forza lavoro. Se volete trovare il valore d’uso, non cercatelo
nella naturalità, ma piuttosto nella storia, nelle
lotte, nella trasformazione continua dei modi di
vita. Il valore d’uso è sempre ricostruito, è un valore d’uso di potenza “n”». (Negri 2008, 77).
In conclusione, riconoscere il dirompente processo di affermazione della forma-merce presso tutti
gli ambiti spaziali e temporali, relazionali ed intimi
del mondo contemporaneo, non deve significare
lo schiacciamento della prospettiva analitica sulle
questioni dello sfruttamento e del dominio.
Piuttosto, se «ogni dominio è sempre anche una
resistenza» (Negri 2008, 32), la constatazione del
processo storico di generalizzazione dell’esercizio
di sfruttamento e dominio, deve implicare – sul
piano della conoscenza, su quello euristico, e su
quello della concreta organizzazione dell’azione
politica – la ricerca ed il potenziamento delle tattiche sociali conflittuali, delle forme della resistenza,
dei processi di soggettivazione che parimenti si
generalizzano. L’immanenza e la portata antagonista dell’estasi delle soggettività contemporanee
deve quindi consistere nel processo di continua e
ubiqua costruzione sociale del valore d’uso, dentro, sopra ed attraverso il feticcio onnipresente del
valore di scambio. Mutatis mutandis, la sfida delle
relazioni di potere del nostro tempo è ancora quella indicataci quasi due secoli fa dal giovane Marx.
La riappropriazione di ciò che siamo stati, di ciò
che avremmo, e di ciò che potremo. La conquista
del futuro attraverso il passato. L’abolizione del
condizionale. Hic et nunc.
Riflessioni sulla competitività della città
migrazioni dei braccianti mixtecos dell’industria
agricola nordamericana, Soveria Mannelli:
Rubbettino.
Caronia, A. (2008), Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Milano: ShaKe.
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Milano: Baldini Castoldi Dalai.
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Marazzi C. (2001), Capitale & linguaggio. Ciclo e
crisi della New Economy, Soveria Mannelli:
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Marx K. (1980), Capitale e Tecnologia, Roma:
Editori Riuniti.
Marx K. (1978), Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Volume 1, Firenze: La
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nuova grammatica politica, Milano: Feltrinelli.
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Breached Boundary”, C-Theory 2/4/2004,
www.ctheory.net/articles.aspx?id=409#bio
Thompson E.P. (1967) “Time, Work-Discipline and
Industrial Capitalism”, in Past and Present, 38
(1967): 56-97.
[email protected]
Ricercatore di Sociologia dei fenomeni politici.
Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica
dell’Università della Calabria.
Riferimenti bibliografici
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Epistemologia critica delle soggettività (migranti) e
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Buscema C. (2005), Camminare Producendo. Le
Testo estratto e adattato dal capitolo primo de:
Buscema C. (2009), Tempi e Spazi della Rivolta.
Epistemologia critica delle soggettività (migranti) e
dell’antagonismo ai tempi della governance e della
finanziarizzazione. Roma: Aracne.
119
Recensioni
LibriLibriLibri
GINETTE HERRY, Carlo Goldoni, Biografia ragionata (1707-1744), Tomo I, Marsilio, Venezia 2007,
4°, pp. 397, s.i.p.
Secondo Franco Fido, tra i più profondi conoscitori di Goldoni, “pochi autori hanno narrato episodi
e frammenti della [propria] vita in tante forme
diverse (commedie, prefazioni, memorie), e lungo
un arco di tempo altrettanto esteso (più di trent’anni)” quanto il grande commediografo, e nonostante il fatto che egli avesse un rapporto controverso con la scrittura autobiografica: difatti
Goldoni, sostiene Fido, “fu un autobiografo reticente, che si accostò per gradi al progetto autobiografico”. Pur dicendo di ritenere poco interessante la propria vita (“ma vie n’est pas interessante” esordiscono i Mémoires), arrivò a scrivere non
solo due autobiografie, ma anche a riprendere,
nelle commedie, numerosi momenti di vita e
atteggiamenti che lo ritraggono sotto le spoglie di
personaggi a lui affini, come, ad esempio, ne
L’avvocato veneziano o ne L’avventuriere onorato. Inoltre, nelle lettere dedicatorie e nelle prefazioni delle sue opere, abbondano i riferimenti personali legati alle circostanze e alle ragioni che presiedettero alla loro composizione. Questa ricchezza di dati alla fonte consente agli studiosi di approfondire la conoscenza della vita e della poetica
dello scrittore e di accrescere la trasparenza dell’una in rapporto all’altra, a condizione, però, di compiere rigorosi accertamenti. La storiografia specializzata è infatti da tempo persuasa che gli scritti
autobiografici del genio veneziano vadano riletti,
interpretati, integrati dal lavoro filologico ed esegetico su diversi tipi di documenti, emendando,
correggendo se occorre, alla luce di puntigliose
verifiche, il dettato goldoniano.
Lo straordinario lavoro che Ginette Herry dedica
all’autore prediletto, di cui è traduttrice in Francia
e studiosa di fama internazionale, rimedia ad una
singolare mancanza nella ormai foltissima produ120
zione critica e storiografica su Goldoni. Non era
finora apparsa, infatti, un’opera di tal estensione
che permettesse di seguire in modo approfondito
lo svolgersi dell’avventura umana e artistica dello
scrittore, pressoché giorno per giorno, e che unisse al rigore del metodo un’esposizione volutamente non accademica. L’autrice, nella premessa Il pigmalione di se stesso, riferendosi all’onnipresente
“pulsione autobiografica” di Goldoni, ricorda la
gestazione dell’opera e illustra l’approccio critico e
le finalità: l’intento è di ricostruire, sulla scorta dell’intera opera e di una vasta documentazione, il
tessuto della storia personale e della prodigiosa
vicenda creativa del commediografo, guardando a
fondo nelle motivazioni delle sue scelte, di là del
consunto mito di un Goldoni “bonhomme”, da lui
stesso peraltro alimentato.
Il primo tomo del libro, a cui faranno seguito altri
due, ripercorre il periodo 1707-1744, basandosi
sulle cosiddette Prefazioni Pasquali e sui parigini
Mémoires, posti a sistematico confronto, con
attenzione critica particolare a questi ultimi che,
destinati dallo scrittore ad assicurare ai posteri
un’immagine ideale di sé e del proprio ruolo nella
storia del teatro italiano, non risultano sempre
veritieri, mostrando zone d’ombra che l’autore
non ha voluto o non si è curato di illuminare.
Il volume ripartisce questa prima parte della biografia in quattro periodi: il primo, Infanzia, infanzie, ricostruisce gli anni di formazione di Carlo
(1707-1727), segnati dalla “stella comica” ma anche
dai frequenti cambiamenti di città a fianco del
padre, medico empirico, che gli trasmette l’amore
per il teatro e l’estro vagabondo, prendendosi cura
della sua educazione. Gli episodi celebri o meno
noti dell’errabonda iniziazione teatrale, scolastica e
sentimentale di Goldoni sono riletti con dovizia di
particolari, coinvolgendo il lettore in avvincenti
indagini sui punti controversi di una prima giovinezza affollatissima d’eventi.
La seconda parte, dal titolo Coadiutore, avvocato,
Ash Amin e Nigel Thrift
segretario, poeta comico ma sempre “cortesan”,
prende in esame le vicende ancor più movimentate degli anni tra il 1728 e il 1734: seguendo le strade che si dividono il destino del giovane Goldoni,
il racconto biografico intreccia la storia privata (il
tirocinio d’avvocato, amori, debiti, fughe, incontri
decisivi) con quella delle prime prove d’autore teatrale. Gli anni dal 1734 al 1741, di cui si occupa la
terza parte, A Venezia poeta dei teatri Grimani,
vedono prevalere la vocazione scenica di Goldoni
nel concreto e quotidiano esercizio di poeta stipendiato della compagnia di Giuseppe Imer, nella
cui cerchia apprende i segreti e avverte le seduzioni (anche femminili) del teatro professionale.
L’incontro con il nobiluomo Grimani gli vale, oltre
all’ingaggio al San Samuele, dove agisce la compagnia Imer, pure l’impegno con il teatro di San
Giovanni Grisostomo, per il quale scrive drammi per
musica. Dal ’34 al ’43 compone in tutti i generi comici e poetici, per i due teatri e per diversi committenti, gettando, fra l’altro, le basi della futura riforma,
con Momolo cortesan e La donna di garbo.
Nell’ultima parte del “primo atto” di questa impagabile “biografa ragionata” (1736-1744), sono
messi a fuoco dettagliatamente eventi importanti
della vita personale di Goldoni che si intrecciano e,
talvolta, si contrappongono agli impegni artistici,
come, fra i maggiori: il matrimonio, l’incarico di
console della Repubblica di Genova a Venezia (con
episodi spinosi), la fuga, nel 1743, da Venezia, con
la moglie Nicoletta.
L’epilogo, In fuga e fra le armi il teatro, s’incentra
sui soggiorni a Bologna e a Rimini, mentre è in
corso la guerra di successione austriaca e dove
Goldoni trova modo di tenere occupata la sua fantasia comica. Fra i disagi arrecati dal conflitto, in
mezzo ad avventure dal sapore quasi romanzesco,
lo scrittore, ancora incerto sulla scelta della definitiva professione, esercita tuttavia in diverse occasioni il proprio multiforme talento teatrale, circondato da una notorietà che ha iniziato a diffondersi
fuori di Venezia.
A questa fase si interrompe, per ora, la narrazione
della Herry che, scegliendo una periodizzazione
diversa da quella dei Mémoires, ha preferito riservare al secondo tomo, che si annuncia di prossima
uscita, la ricostruzione di quella che, dopo il lungo
soggiorno di Goldoni in Toscana e il definitivo
Riflessioni sulla competitività della città
ritorno a Venezia, sarà la lunga e fecondissima stagione delle commedie concepite nello spirito della
riforma e delle battaglie estetiche e ideologiche
per la difesa della nuova idea di teatro.
Giuseppe De Meo
FULVIO CORTESE, Libertà individuale e organizzazione pubblica in Silvio Trentin, Franco Angeli,
2008, pp. 261, E. 24,00
Alessandro Pizzorusso nella sua prefazione all’opera di Silvio Trentin “Dallo Statuto albertino al regime fascista” ha notato l’innaturalità dell’oblio riservato al giurista sandonatese, in particolare dai giuspubblicisti, dagli amministrativisti della cui comunità Trentin ha fatto parte fino al momento delle
sue dimissioni, avvenute il 17 gennaio 1926, dall’incarico di docente di istituzioni di diritto pubblico all’Istituto superiore di commercio di Ca’
Foscari a Venezia. Le dimissioni sono state motivate dal rifiuto di accettare la legge 24 dicembre
1925, n.2300 sugli obblighi dei dipendenti statali
Fulvio Cortese ha voluto rimediare a tale oblio di
cui giustamente vede la causa nelle posizioni politiche del giurista sandonatese. E si pone l’interrogativo: quale tipo di continuità esiste fra il pensiero giuridico e quello politico del giurista federalista
di San Donà di Piave?
Trentin si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Pisa, dove insegnava suo zio
materno Vittorio Cian, di orientamento politico
nazionalista, nel dicembre 1904.
Egli si è formato come giurista nell’ambito della
corrente denominata del dogmatismo giuridico,
alla quale aveva dato vita, con i suoi scritti dal 1885
in poi, Vittorio Emanuele Orlando, nell’ambito
della quale furono utilizzati molti concetti elaborati dagli studiosi del diritto romano.
Ma già negli anni dei suoi studi pisani Trentin,
seguendo l’insegnamento del suo maestro G.
Vacchelli, mostra la sua tendenza ad andare oltre i
principi del dogmatismo giuridico seguendo un
orientamento realista e manifestando una forte
attenzione alla realtà sociale che si trovava alla base
di istituti come i consorzi di bonifica, fondamentali per la storia della Terraferma veneta, e i Comuni
121
n.23 / 2009
che furono entrambi oggetto delle sue prime pubblicazioni accademiche.
Durante gli anni pisani Trentin fu influenzato sul
piano politico da Alfredo Pozzolini, docente di diritto e di procedura penale, vicino al Partito radicale e
alla massoneria e sul piano giuridico da Giovanni
Vacchelli, docente di diritto amministrativo.
Vacchelli era ben lontano dal ritenere che il regime
democratico avesse esaurito i suoi compiti in Italia
con l’affermazione della sovranità popolare ma
affermava invece che l’esercizio della sovranità
doveva assumere delle funzioni sociali.
Nel 1910 Trentin pubblicò il saggio “La cosa giudicata nelle decisioni delle decisioni giurisdizionali
del Consiglio di Stato” in cui definì “falso liberalismo” quello che aveva ispirato la legge 20 marzo
1865, n.2248 che, come è noto, ha unificato e organizzato l’apparato amministrativo dello stato unitario su basi rigidamente centraliste. Per certi aspetti quella del 2 marzo 1865 è una vera e propria
legge di fondazione dello stato italiano. Il federalista sandonatese si dichiara anche favorevole alla
legge del 31 marzo 1889 che aveva istituito la IV
sezione giurisdizionale del Consiglio di stato.
Cortese sottolinea come in tale saggio del 1910
Trentin abbia espressamente abbandonato l’interpretazione formalistica della legislazione vigente.
Sul saggio di Trentin del 1910 furono espressi giudizi decisamente contrari in sede del concorso in
base al quale Trentin divenne professore ordinario
a Venezia.
Nell’anno accademico 1914-1915 Trentin svolse la
supplenza per l’insegnamento di diritto amministrativo e scienza amministrativa all’Università di Padova.
Trentin ricordò il giudizio negativo relativo al saggio
sulla cosa giudicata nella sua opera “L’atto amministrativo” del 1914. Egli qualifica esplicitamente il suo
lavoro una revisione critica delle dottrine e delle
opinioni prevalenti e si riserva di ribattere in altro
luogo alle critiche definite aprioristiche.
Nel 1911 Trentin aveva pubblicato il saggio su
“L’odierna crisi dei Comuni ed i suoi rimedi amministrativi” che giustamente Cortese definisce centrale nel pensiero del federalista sandonatese.
Purtroppo tale saggio non è stato compreso nel
volume delle Opere scelte di Trentin nel quale si
sono raccolti i suoi scritti fino al 1926. Negli anni
dell’esilio il Comune diventerà un elemento essen-
122
ziale nella sua analisi storica dei gravi limiti del liberalismo dello stato unitario nel confronto del quale
Trentin si pone con un revisore, un innovatore.
Esiste un rapporto di continuità fra il saggio del
1911 sui Comuni, l’opera dell’esilio “Dallo statuto
albertino al regime fascista” in cui egli svolge una
critica giuridico-politica dello stato fascista e il suo
progetto di Costituzione della Repubblica italiana
scritto, fra la fine del 1943 e i primi mesi del 1944,
nel quale il Comune è posto istituzione fondamentale del governo della Repubblica.
Il saggio del 1911 inizia con una affermazione, che
in seguito Trentin correggerà, secondo la quale
alla vita locale italiana non si erano potuti applicare i principi della grande rivoluzione francese.
In Italia con l’adozione di una uniformità di regime
per tutti i Comuni, si avrebbe interpretato in modo
falso e gretto il liberalismo francese. In anni successivi invece Trentin ha criticato proprio la politica della Rivoluzione francese in materia di enti
locali per il suo centralismo ossessivo.
Nel 1911 Trentin è ancora ben lontano dalla critica
alla rivoluzione francese, espressa in “ Stato nazione federalismo” del 1940, per aver spogliato i
Comuni di ogni loro residua, originale ed effettiva
ragione di vita ed averli ridotti alla miserabile dignità di semplici circoscrizioni amministrative.
Essenziale è nell’analisi dei Comuni, svolta da
Trentin, la percezione delle enormi differenze esistenti fra di essi. La concezione giuridica elaborata
da Trentin negli anni precedenti l’esilio è funzionalista e pluralista.
Essa si caratterizza per la sua tendenza ad avvicinare il diritto positivo agli scopi ultimi del principio
costituzionale di libertà ed autonomia.
Durante l’esilio francese, iniziato nel febbraio
1926, il federalista sandonatese continuò i suoi
studi giuridici. Molto giustamente Cortese definisce il saggio di diritto costituzionale “Dallo statuto
albertino al regime fascista” (1928) un caso del
tutto isolato, nel panorama culturale italiano, e
straordinario.
L’opera si colloca al centro della biografia culturale ma anche politica del sandonatese. Trentin, sulla
base dei suoi precedenti studi di giurista, analizza
in essa il rapporto fra il fascismo e il diritto. In un
certo senso è un’opera rivolta al passato. Trentin è
convinto che il regime prefascista fosse un regime
Ash Amin e Nigel Thrift
sostanzialmente liberale. E su questa posizione si
trova isolato rispetto a quasi tutti gli altri antifascisti sia di destra che di sinistra.
Trentin nega che si possano avvicinare le nozioni
fasciste dello stato e del diritto alla dottrina pubblicistica formulata durante il periodo bismarkiano. Infatti la teoria della sovranità elaborata dalla
scienza giuridica tedesca è correlata a quella della
limitazione degli organi statali, dei governanti.
Il diritto è esterno sia allo stato che agli individui.
Il federalista sandonatese è vicino alle posizioni di
Gerber e di Jellinek secondo le quali lo stato deve
sottoporre l’esercizio delle sue funzioni al diritto
con una conseguente auto-limitazione della sua
sovranità.
Ma dall’altro lato, soprattutto nelle sue conclusioni, “Dallo statuto albertino al regime fascista” è
un’opera che segna il passaggio, l’adesione di
Trentin al pensiero di Kant. Trentin è consapevole
della necessità di una rifondazione del suo pensiero giuridico.
Trentin si era avvicinato al pensiero di Kant già in
Italia probabilmente attraverso gli scritti di G. Del
Vecchio e di B. Donati e nelle conclusioni dell’opera esprime una netta adesione alle teorie giuridiche di Kant. Egli delinea un tentativo di ricostruzione di un diritto naturale laico che sarà ampiamente sviluppato nella sua maggiore opera filosofica “La crisi del diritto e dello stato”.
Cortese ha ricostruito in modo egregio, come nessuno prima di lui, i caratteri del pensiero di Trentin
quando, prima dell’esilio, egli è stato principalmente un giurista, un tecnico aggiornato e illuminato del diritto amministrativo ispirato a teorie
realiste e funzionaliste. E’ giusto sottolineare la
continuità della posizione libertaria di Trentin fin
dal saggio sui Comuni del 1911.
Ma non si capisce per quali ragioni descriva l’evoluzione successiva di Trentin nel periodo dell’esilio come un passaggio a posizioni “socialiste rivoluzionarie” .
Sono certamente posizioni rivoluzionarie ma del
federalismo di un pensatore e di un dirigente politico che si è trovato davanti il centralismo dello
stato italiano trasformato in regime dittatoriale e
tendenzialmente totalitario.
Notevoli perplessità e riserve provocano le conclusioni del pregevole saggio di Cortese sul presunto
Riflessioni sulla competitività della città
accoglimento nella Costituzione repubblicana del
1 gennaio 1948 delle teorie federaliste di Trentin.
Il quinto principio fondamentale della
Costituzione pone sullo stesso piano i principi dell’autonomia e quello del decentramento.
E già questo avvicinamento denota una interpretazione restrittiva data dai padri costituenti al principio dell’autonomia. Ma soprattutto il titolo V della
Costituzione nella formulazione del testo del 1
gennaio 1948 non ha retto quando con
Tangentopoli nel 1992 è iniziata la crisi del centralismo sostanzialmente non corretto dalla istituzione delle Regioni a statuto ordinario. E la legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 è la prova evidente della inadeguatezza e limitatezza delle autonomie regionali previste nella precedente formulazione. Nella Costituzione del 1948 è impossibile o
estremamente difficile vedere l’influsso del pensiero federalista rivoluzionario di Trentin.
Altra questione è quella della sua attualità.
Elio Franzin
SILVIO TRENTIN, Le determinanti dialettiche e gli
sbocchi ideologici ed istituzionali della rivoluzione antifascista (europea). Saggio inedito del
1944, a cura di Corrado Malandrino, volume I;
CORRADO MALANDRINO, Silvio Trentin pensatore politico, antifascista, rivoluzionario, federalista, volume II, Centro studi Piero Gobetti, Torino,
Piero Lacaita editore Manduria 2007 E. 18,00
Corrado Malandrino pubblica un saggio inedito di
Silvio Trentin, morto il 12 marzo 1944, a Monastier
(TV) scritto dopo la sua scarcerazione avvenuta il 2
dicembre 1943 a Padova dove era stato arrestato il
19 del mese di novembre.
Vi sono anche altri scritti di Trentin che attendono
di essere pubblicati. Ma per molti di quelli già raccolti e pubblicati meritoriamente nelle “Opere
scelte” dall’editore Marsilio si può affermare che
essi attendono degli studi e delle interpretazioni
meno condizionate dalle posizioni filosofiche,
politiche o partitiche dei loro autori, come spesso
si è verificato fino ad oggi.
La pubblicazione della traduzione in italiano dell’opera giuridica principale di Trentin “La crisi del
diritto e dello stato” non è stata certo facilitata da
123
n.23 / 2009
Norberto Bobbio ed è stata resa possibile soltanto
nel 2006 grazie all’impegno di Giuseppe Gangemi
energicamente sostenuto dal “Centro studi sui
federalismi S. Trentin” di Padova che ha denunciato il ritardo nella pubblicazione della traduzione
anche sulla stampa quotidiana.
Trentin agli inizi degli anni Trenta del Novecento,
mentre era in esilio nel Sud della Francia, modifica
le posizioni teoriche e politiche liberaldemocratiche fino ad allora sostenute ed inizia ad elaborare
la sua interpretazione delle cause della trasformazione dell’economia e del diritto delle democrazie
parlamentari e liberali che si è verificata in due
momenti del Novecento: durante la prima guerra
mondiale e durante la crisi economica del 1929.
Contemporaneamente aderisce al gruppo politico
antifascista di Giustizia e libertà sostenendo, fra
l’altro, la necessità dell’alleanza con il Partito
comunista. Uno dei suoi corrispondenti è Ruggero
Grieco uno dei dirigenti del PCI che ha elaborato
le posizioni del PCI sul federalismo già assunte da
Antonio Gramsci fin dal settembre 1923.
Questi due aspetti della personalità di Trentin, il
filosofo del diritto e il dirigente politico, sono certamente collegati fra di loro ma vanno tenuti
distinti.
Si tratta di relazioni non semplici. Trentin giudica
aspramente i caratteri centralisti dello stato
dell’URSS ma ne ha esaltato il ruolo nella guerra
contro il nazismo confermato dalla vittoria di
Stalingrado. Critica i partiti comunisti europei per
la loro subordinazione alla politica estera
dell’URSS nei mesi successivi alla stipulazione del
patto di alleanza Molotov Ribbentrop (23 agosto
1939) fino alla aggressione nazista all’URSS (21 giugno 1941) ma sostiene la necessità dell’alleanza
con il PCI.
Agli inizi degli anni Trenta, nell’individuare le cause
dei due momenti della crisi novecentesca, la prima
guerra mondiale e la crisi economica del 1929,
Trentin fra propria la tesi sostenuta da Lenin ne
“L’imperialismo fase suprema del capitalismo” della
trasformazione del capitalismo della libera concorrenza in capitalismo monopolistico e finanziario e
della sua incompatibilità con la democrazia.
La tesi di Lenin era stata aggiornata e confermata
per la Germania dal marxista eterodosso Otto
Ruhle (Carl Steuermann), socialdemocratico di
124
sinistra, nella sua opera “La crisi mondiale o verso
il capitalismo di stato” ben nota a Trentin.
Trentin non è affatto un leninista. Accetta una
delle tesi economiche e politiche principali di
Lenin, quella che registra la fine dell’economia
liberista e il passaggio al capitalismo monopolistico e finanziario con le conseguenze devastanti per
i regimi democratici.
Contemporaneamente Trentin accusa Lenin di
aver edificato lo Stato più rigidamente monocentrico, il più autoritario che l’Europa abbia mai
conosciuto.
Trentin non sapeva nulla dello scontro frontale
avvenuto fra Lenin ormai morente e Stalin a proposito dei caratteri federali da attribuire all’URSS.
Trentin non è un dottrinario o un dogmatico. Il
suo pensiero politico ha subito una notevole evoluzione dagli scritti giovanili fino agli inizi degli
anni Trenta quando dal liberalismo è passato su
posizioni federaliste e quando ha aderito all’organizzazione antifascista “Giustizia e libertà”.
Agli inizi del 1940 Trentin iniziò a scrivere “Stato
nazione federalismo” la sua opera più organica sul
federalismo la cui conclusione è quella della necessità di una rivoluzione consistente nella demolizione degli stati monocentrici europei come quello
italiano. Nel giugno 1940 l’Italia fascista entrò in
guerra come alleata del nazismo. Nell’ottobre 1941
a Tolosa, dove Trentin risiedeva, i rappresentanti
del PCI, del PSI e di “Giustizia e libertà” firmarono
un documento con il quale si costituì un Comitato
d’azione per l’unione del popolo.
Nel settembre 1943 Trentin ritornò in Italia e aderì,
come tutti i membri di “Giustizia e libertà”, al
Partito d’azione.
Nel mesi che vanno dalla sua scarcerazione alla sua
morte Trentin, date le sue gravi condizioni di salute
è stato sempre ricoverato prima all’ospedale di
Treviso e poi a quello di Monastier (Treviso), ma ha
mantenuto i suoi rapporti con i dirigenti della Lotta
di liberazione nazionale ed ha continuato a scrivere.
In ospedale a Treviso ha ricevuto la visita di Leo
Valiani un dirigente del Partito d’azione che è stato
uno dei più importanti esponenti della Lotta di
liberazione nazionale. Delle sue lettere rivolte in
quei mesi all’antifascista sardo Emilio Lussu se ne
è salvata soltanto una ma molto significativa.
L’affinità delle posizioni politiche di Trentin e di
Lussu è provata anche dall’opuscolo di Lussu “La
ricostruzione dello stato”, diffuso nel giugno 1943,
nel quale si esprime una posizione decisamente
federalista che comportava anche l’abolizione dei
prefetti.
Nelle “Determinanti dialettiche” Trentin riprende
la sua analisi dei caratteri della crisi dell’economia
mondiale del 1929 secondo la quale il capitalismo
monopolistico e finanziario adotta una politica di
piano, si trasforma in capitalismo di stato, che elimina il sistema dei diritti e delle garanzie dei cittadini vigente nelle democrazie parlamentari e
instaura un sistema totalitario, come si è già visto
nel regime fascista e in quello nazista.
Il capitalismo di stato è stato inaugurato durante la
Prima guerra mondiale da alcuni stati belligeranti.
Trentin ha una particolare attenzione verso le trasformazioni introdotte sul piano economico
durante la Prima guerra mondiale anche perché vi
ha partecipato come volontario. Ma successivamente criticò l’interventismo e quindi ne prese le
distanze diversamente da altri interventisti cosiddetti democratici.
Già negli anni Trenta egli aveva anche sostenuto
che, data la superiorità della politica di piano rispetto al sistema della libera concorrenza confermata
dalla crisi mondiale del 1929, bisognava creare un
nuovo ordinamento economico e politico, il federalismo integrale, che consentisse una politica economica di piano e nello stesso tempo garantisse le
libertà democratiche tipiche dei regimi liberali.
La critica di Trentin nelle “Determinati dialettiche”
nei confronti dei partiti socialisti riformisti è motivata dalla loro manifesta incapacità ad affrontare i
problemi creati dal capitalismo di stato e dai totalitarismi su un terreno diverso da quello della
democrazia parlamentare di cui sono rimasti prigionieri. Ben diversa è stata la strategia e la tattica
di Lenin e del partito bolscevico russo.
Le origini del fascismo devono essere individuate
nella paura della borghesia per i moti del 1919 e del
1920, per l’occupazione delle fabbriche e delle terre.
Secondo Trentin, il fascismo avrebbe reclutato i
suoi quadri nei bassifondi sociali e negli sbandati
della media borghesia. Si tratta di una analisi ben
diversa e molto inferiore a quella di Antonio
Gramsci il quale individuò subito nei fascisti la
parte più energica della piccola borghesia, quella
espressa dalla guerra e dagli agrari e vide la netta
divisione del fascismo urbano mussoliniano piccolo borghese rispetto al successivo e dominante
squadrismo agrario.
L’analisi del fascismo di Trentin risente di quella
elaborata dagli esponenti della borghesia liberale.
Secondo Trentin la vittoria del fascismo fu dovuta
più al disorientamento dei dirigenti socialisti di
destra che all’appoggio ricevuto dal fascismo da
parte della monarchia, della chiesa e dell’esercito.
Il fascismo prima e il nazismo hanno distrutto il regime liberale e democratico. Ma i regimi liberal-democratici francese e inglese invece hanno cercato a
lungo l’accordo con i due regimi totalitari. Gli USA
hanno concesso dei finanziamenti al regime fascista.
Successivamente Francia e Inghilterra abbandonarono la Repubblica di Spagna sottoposta all’aggressione fascista. Francia e Inghilterra invece di
affrontare le due dittature hanno tentato di rivolgere l’aggressività nazista contro l’URSS che prima
ha affermato la sua volontà di difendere la
Cecoslovacchia dall’aggressione nazista, poi ha
guadagnato tempo con il patto Molotov
Ribbentrop e infine ha sconfitto le armate tedesche a Stalingrado (febbraio 1943). Egli ritiene che
sia stata giustificata la politica estera dell’URSS che
sta portando, mentre egli scrive, alla sconfitta del
nazismo mentre ancora il secondo fronte non è
stato aperto in Francia dalle potenze occidentali.
Egli critica invece i partiti comunisti europei per la
loro passività nel periodo in cui era rimasto in vigore il patto Molotov Ribbentrop quando avrebbero
dovuto invece rivendicare la loro libertà di azione
rispetto alla politica estera dell’URSS. Trentin esalta il ruolo antinazista assunto dalla borghesia conservatrice inglese.
Trentin commette anche alcuni errori di valutazione di un certo rilievo sul caso del gerarca nazista
Rodolfo Hess paracadutatosi in Gran Bretagna e
sul massacro di degli ufficiali polacchi ad opera dei
sovietici a Katyn ma bisogna anche tener conto dei
limiti delle informazioni disponibili durante i primi
mesi del 1944.
Nella parte finale del suo saggio Trentin denuncia la
politica inglese e americana tendente soprattutto in
Italia a restituire il potere alle vecchie classi dirigenti
mediante la massoneria del Grande Oriente.
Quasi certamente si tratta del più duro attacco alla
125
n.23 / 2009
massoneria che sia mai stato diretto durante tutto
il periodo della Lotta di Liberazione nazionale.
Trentin aveva conosciuto direttamente sia il
Grande Oriente d’Italia che quello di Francia. Il
suo giudizio sulle responsabilità dirette della massoneria nell’avvento del fascismo è discutibile. Vi
sono stati anche degli episodi di lotta contro il
fascismo sostenuti da esponenti massonici. Il fascismo soprattutto con legge contro le associazioni
segrete approvata nel maggio 1925 assunse un
ruolo alternativo alla massoneria ben rilevato da
Antonio Gramsci nel suo discorso parlamentare.
Non vi è dubbio che gli esponenti del periodo prefascista (Pietro Badoglio, E. De Nicola, I. Bonomi,
M. Ruini, ecc.), rientrati nella vita politica dopo il
colpo di stato del 25 luglio, erano espressione
diretta o erano legati alla massoneria, si posero a
difesa della monarchia contro i partiti antifascisti.
Nello stesso Partito d’azione era presente, soprattutto al Sud, la destra clientelare liberalmassonica.
La monarchia era la garante della continuità dello
stato prefascista, centralista e monocemtrico che
Trentin voleva distruggere e sostituire con un regime federalista di cui scrisse anche un abbozzo di
costituzione.
Nelle “Determinanti dialettiche” manca qualsiasi
riferimento al congresso antifascista che si svolse a
Bari nel gennaio 1944 nel corso del quale fu chiesto la costituzione di un governo straordinario con
tutti i poteri dello stato.
Corrado Malandrino, autore di numerosi saggi su
Trentin scritti dal 1986 al 1998, ne ripubblica quattro in uno dei due volumetti raccolti nel cofanetto. Egli ha giustamente individuato in Trentin “la
massima testa pensante dell’antifascismo laico e
rivoluzionario di sinistra della Resistenza”.
Malandrino si riferisce all’interrogativo, emerso in
alcuni studiosi, sulla attualità dell’opera di Trentin.
Non vi è dubbio che dal 1992 ad oggi la Lega Nord
ha posto al centro della vita politica italiana, sia in
modo molto inadeguato e contraddittorio ( vedi la
richiesta di secessione), la lotta contro lo stato
monocentrico analizzato e denunciato da Trentin.
La denuncia e la lotta contro lo stato monocentrico è stata la conclusione dei suoi studi sulla storia
dello stato italiano che erano partiti da ben altro
giudizio sullo stato monarchico italiano.
La Lotta di Liberazione nazionale non ha avuto sol-
126
tanto i tre aspetti individuati da Claudio Pavone :
guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe.
Essa è stata anche lotta contro lo stato centralista.
Malandrino ricorda giustamente la Carta di
Chivasso di ispirazione autonomistica. Bisogna
aggiungere l’esperienza delle repubblica autonome
partigiane e sopratutto la lotta del Comitato di liberazione nazionale della Toscana, e in particolare del
Partito d’azione per la nomina da parte del CLN e
non del governo Bonomi dei prefetti, istituzione
centrale dello stato prefascista, la quale ebbe un
risultato positivo almeno parziale e temporaneo.
Trentin nel suo “Stato-nazione-federalismo” comprese lucidamente quale sarebbe stato il nodo centrale della Lotta di liberazione nazionale scrivendo:
“Il prezzo autentico della libertà è pertanto la
demolizione dello stato monocentrico”. Questo è
un obbiettivo che soltanto una parte delle forze
che sono state protagoniste della Resistenza italiana ha fatto proprio con delle conseguenze molto
negative per la Ricostruzione ed anche per l’attuale situazione istituzionale e politica. La questione è
stata recentemente risollevata dal politologo
Giovanni Sartori (“I costi del federalismo”, “Il corriere della sera”, 5 novembre 2007). La mancata
riforma dello stato monocratico ha comportato, al
momento della istituzione delle Regioni a statuto
ordinario, un aumento dei costi dell’apparato
burocratico che continua a gravare con tutte le sue
inefficienze sui cittadini italiani.
La demolizione dello stato monocentrico è l’obbiettivo costituzionale che Trentin ha indicato e
lasciato in eredità. Questa è la sua attualità.
Elio Franzin
ANTHONY ASHLEY COOPER, conte di
Shaftesbury, Scritti morali e politici, a cura di
Angela Taraborrelli, UTET, Torino 2007, pp. 624.
Il pensiero del conte Anthony Ashley Cooper, di
Shaftesbury, nell’ultimo ventennio è stato al centro, in Italia come altrove, di una larga fioritura di
studi, di cui questa scelta di opere fornisce un’ottima e fresca testimonianza. Le opere di
Shaftesbury, nota la curatrice, sono state quasi
sempre oggetto di reazioni diverse, più spesso
contrastanti. Shatesbury nacque a Londra il 26 feb-
Ash Amin e Nigel Thrift
braio 1671 da famiglia nobile, e per la sua educazione venne affidato a John Locke, del cui pensiero riuscirà a emanciparsi con qualche difficoltà. Nel
1695 entra alla Camera dei comuni, difende l’autorità parlamentare e si schiera contro le misure che
avrebbero potuto favorire l’egemonia cattolica
nell’Europa continentale. Dopo un’altra importante esperienza parlamentare, nel 1700 si ritira dalla
politica per ragioni di salute e inizia ad applicarsi
con intensità alla filosofia. Nel 1711, dà alle stampe
i tre volumi Characteristicks of Men, che contengono alcuni saggi pubblicati in precedenza, e le
Miscellaneous Reflections, rivisitazione dei suoi
scritti, arricchiti con argomentazioni nuove e l’approfondimento dei temi etici, politici, estetici.
Secondo la curatrice la pubblicazione delle «riflessioni» rappresenta il “tentativo di dare coerenza e
unità all’opera nel suo complesso”. Nello stesso
anno, Shaftesbury decide di stabilirsi a Napoli per
il suo clima favorevole, e si occupa di pittura, arte
ed estetica. Muore nella città partenopea il 15 febbraio 1713, a soli 42 anni.
Una caratteristica del pensiero di Shaftesbury è
l’atteggiamento fortemente critico che egli ha nei
confronti della cultura accademica e della filosofia
contemporanea, da lui giudicata punto d’approdo
dell’epicureismo, ossia dell’egoismo edonistico e
dell’ateismo. La sua riflessione filosofica, è stato
detto, si manifesta soprattutto nella forma del
frammento, del saggio breve, dell’epistola, sorretto da una conoscenza profonda dei filosofi antichi
e moderni. La curatrice ha posto l’accento sul disegno unitario, di matrice politica e speculativa, che
rende coerente la riflessione di Shaftesbury; disegno unitario che si richiama fondamentalmente a
una concezione della morale centrata sui valori di
virtù e benevolenza.
Teorico di una morale mondanamente autonoma,
Shaftesbury è contrario ai due estremismi rappresentati dall’intransigentismo calvinista e dal pessimismo di Hobbes: a suo avviso, virtù e felicità non
possono non corrispondersi. Per questo, egli rifiuta l’assolutezza dei valori ma anche il relativismo,
in nome del principio, insito nella natura umana,
che ci fa distinguere il giusto dall’ingiusto: è il
“senso morale”, una specie di intuizione interiore
e in quanto tale incontrovertibile. L’affermazione
dell’esistenza di tale criterio, che si richiama all’aspetto “sentimentale” della natura umana, differenzia nettamente la posizione di Shaftesbury dal
Riflessioni sulla competitività della città
razionalismo etico in voga nel Seicento e dalla concezione della morale fondata sulla ragione,.
La curatrice si richiama all’interpretazione di
Lawrence E. Klein, il quale ritiene che Shaftesbury
sia in sostanza uno scrittore politico. L’idea guida
della sua opera sarebbe, in effetti, la nozione di
“politeness”, intesa come “buona educazione”,
“civilizzazione”, in cui ama riconoscersi quella classe sociale whigs che accoglie sì la modernità, ma
integrata dai tradizionali valori repubblicani. In
altri termini, il pensatore inglese avrebbe giudicato
che lo sviluppo e il progresso della società moderna non comportavano di per sé un alto tasso di
corruzione delle virtù civiche, ma che fossero compatibili, appunto, con la politeness, ossia con una
forma di libertà. (Una posizione, questa, opposta a
quella di Mandeville).
La curatrice assegna un significato speciale alla
Lettera sull’entusiasmo, che suscitò reazioni
numerose e risentite, provenienti da ambienti
diversi. In tale opera Shaftesbury critica e condanna ogni tipo di entusiasmo fanatico, mentre difende quello “divino” o socievole. Inoltre, difende la
libertà di critica, qualcosa che, sottolinea la curatrice, “può avvenire solo in una nazione libera come
l’Inghilterra, dove né la corte, né la nobiltà, né la
chiesa possono impedire con la loro influenza lo
smascheramento e il biasimo dell’impostura”.
In Sensus communis. Saggio sulla libertà di spirito
e l’umorismo, Shaftesbury stabilisce un nesso tra
queste due forme della comunicazione umana; in
quanto esiste uno stretto rapporto tra fare dello
spirito e la politeness, essendo entrambi espressione di libertà. Una libertà che si esercita nel dialogo,
assunto a paradigma dei rapporti umani; la verità
stessa è il risultato che si conquista in collaborazione con gli altri. La curatrice si sofferma giustamente su quel capolavoro filosofico che è il Soliloquio,
ovvero consigli a un autore. Shaftesbury si rivolge
agli intellettuali, il cui ruolo nella società moderna
è fondamentale (come sosterrà nell’Ottocento
Auguste Comte). Il soliloquio è un esercizio spirituale laico in cui l’uomo si sdoppia, avviando un
dialogo con se stesso: nel suo progredire e approfondirsi esso fa emergere i desideri taciuti, le passioni rimosse, i vizi nascosti, consentendoci di raggiungere quel “conosci te stesso” socratico che ci
apre alla conoscenza, oltre che di noi stessi, anche
dei nostri simili; e, contemporaneamente, alla pratica di un’autentica vita virtuosa.
127
n.23 / 2009
Va riconosciuto alla curatrice il merito di aver condotto un’analisi puntuale degli scritti del filosofo
inglese, e, al ripercorrerne la genesi, è venuta utilmente integrando e valutando le più importanti
letture che ne sono state fatte. Da questo punto di
vista, essa ha raccolto l’indicazione del “precursorismo” attribuito al filosofo inglese da Klein e da
Laurent Jaffro, “due interpreti molto convincenti”,
a giudizio di Angela Taraborrelli. Secondo Klein, il
filosofo inglese ha affidato alla conversazione civile
e alla politeness “la capacità di produrre una visione normativa del moderno spazio pubblico”;
secondo Jaffro, invece, nell’opera Characteristicks
of Men Shafestbury avrebbe anticipato la struttura
argomentativa del programma filosofico di KarlOtto Apel e di Jürgen Habermas. In realtà, è a partire dall’analisi del pensiero di questi due fondamentali filosofi del Novecento che risulta possibile, oggi, affermare che Shaftesbury ha contribuito a
individuare tematiche filosofiche emerse nella
prima fase di quella modernità, che, forse, è giunta attualmente al suo punto d’approdo conclusivo.
Segnaliamo gli atti di un convegno che ci dà la
misura dei risultati storici ed ermeneutici cui sono
pervenuti alcuni studiosi italiani e inglesi sul pensiero di Shaftesbury. Paolo Casini ha analizzato il
rapporto tra Shaftesbury e Locke, medico di casa,
ma anche consigliere e precettore, come appare in
una lettera-confessione che il diciottenne scrisse
nell’agosto 1689, in cui esprime apertamente le
sue critiche. Nell’età matura Shaftesbury radicalizzò la posizione lockiana della negazione del concetto di sostanza, concetto attorno cui si svolge
gran parte del pensiero filosofico seicentesco, avvicinandosi, in qualche modo alla posizione del suo
tutor. Paola Zanardi, che al pensiero di Shaftesbury
ha dedicato uno dei più validi studi di questo revival shaftesburyano, (Filosofi e repubblicani alle origini dell’illuminismo. Shaftesbury e il suo circolo,
Padova 2001), interviene su La fortuna di
Shaftesbury in Italia. La sua presenza è stata intermittente sì, ma, per così dire, “carsica”, pertanto la
studiosa ha dovuto accertare non solo la presenza
testuale degli scritti del filosofo inglese, ma anche
come sia stato utilizzato il suo pensiero dai filosofi
italiani, entro il loro programma di ricerca. Non
solo: Shaftesbury è stato apprezzato e utilizzato
anche al di fuori della cerchia dei filosofi. È il caso
di Carlo Goldoni, che ha accolto l’idea guida del-
128
l’etica shaftesburiana in una commedia del 1754, Il
filosofo inglese; o dell’avvocato di stato Angelo
Querini, o di Giacomo Nani che tradusse e commentò, per suo uso, la lettera sull’entusiasmo.
Shaftesbury è presente con una certa continuità in
due aree culturali, Napoli e Venezia, centri di comunicazione culturale con l’Europa; nella seconda metà
del Settecento Genovesi accolse le teorie sociali di
Shaftesbury, ma anche in Filangeri ci sono evidenti
tracce della sua lettura del filosofo gentleman.
Nell’area veneta, è ricordata l’attività di Antonio
Conti, gran mediatore fra la cultura inglese e italiana,
come pure Melchiorre Cesarotti, e l’opera del somasco Jacopo Stellini, docente di etica nell’Ateneo
patavino. Andrea Gatti ha cercato di individuare I
movimenti nascosti del deismo di Shaftesbury; un
deismo che si caratterizza per il radicale rifiuto di
una divinità o dio trascendente; Franco Crispini sottolinea che la morale di Shaftesbury non si è completamente emancipata dalla “ratio ordinis” dell’universo. Inoltre, una proposta fortemente innovativa è
quella di Giuseppe Cambiano su Shaftesbury e la
politica degli antichi, espressa in quattro quesiti su
cui ha fornito risposte che aprono nuove possibilità
di ricerca sul filosofo inglese.
Luisa Simonutti ha ripreso la sua ricerca su quel
circolo olandese, “La Lanterna”, organizzato dal
quacchero Benjamin Furly, e sull’influenza che
esercitò sulla formazione intellettuale di
Shaftesbury, quando quest’ultimo risiedette in
Olanda. La fortuna di Shaftesbury in Gran Bretagna
è stata affrontata da Isabel Rivers attraverso un’attenta lettura di un testo di Cherles Bulkey del
1752, in cui questo pastore anglicano difende il
“moral sense” di Shaftesbury. Lawrence E. Klein ha
compiuto una sottile analisi del vasto epistolario,
per vedere fino a che punto il filosofo inglese
rispetti le regole da lui stesso elaborate sul modo
di scrivere le lettere, allora un vero e proprio
“genere” di scrittura. Andrea Branchi ha delineato
un persuasivo confronto fra Shaftesbury e
Mendeville, ossia fra due modelli di etica senza
possibilità di mediazione, e Laurent Jaffro si è
intrattenuto sull’atteggiamento assunto dal filosofo inglese sul “cogito” cartesiano, la cui evidenza,
secondo Shaftesbury, non è sufficiente per rendere conto dell’identità personale.
Mario Quaranta