India e Cina giganti del nuovo Millennio

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India e Cina giganti del nuovo Millennio
Nel 2015 le economie combinate dei due Paesi asiatici supereranno
del 50% quella americana e del 90% quella europea. Pechino corre di
più ed è in cima alle preferenze dei businessmen occidentali.
India e Cina giganti
del nuovo Millennio
MONDO
di Ugo Tramballi
Ma a dispetto delle statistiche la democrazia indiana sta creando le
basi per un successo economico a lungo termine più stabile, grazie al
modello di sviluppo “dal basso” che protegge l’impresa privata
lla fine della notte, poco prima che l'alba
incominciasse a rompere il buio assoluto
di Calcutta, un paio di volte la settimana
un uomo d'affari locale usciva di casa al volante della sua Ferrari. Percorrendo lentamente le
strade silenziose, passando accanto ai risciò sui
quali i conducenti dormivano, andava in direzione del Vidyasagar Setu, il nuovo ponte
sull'Hooghly costruito nel 1994. Pagato il
pedaggio per quattro o cinque andate e ritorno,
finalmente lanciava la sua Ferrari: avanti e
indietro alla massima velocità che i circa 2.000
metri di ponte potessero consentire. Poi, prima
che gli accattoni degli slum, i disoccupati, gli
sterratori, i commercianti, gli scrivani del
Writers' Building (uno dei più grandi monumenti della burocrazia indiana) iniziassero
un'altra caotica giornata, la Ferrari, borbottando, tornava al suo parcheggio.
Non c'era altro luogo dove far correre l'auto.
Non c'erano tangenziali a Calcutta; non c'era
chilometro della Grand Trunk Road, lunga
quanto la pianura gangetica dalla capitale del
Bengala a Est, al Pakistan a Ovest, che consentisse una velocità di crociera superiore ai
30/40 chilometri orari. Semplicemente, non
c'erano autostrade in India. Le infrastrutture
erano e sono ancora oggi il grande problema
del Subcontinente. Uno degli slogan elettorali
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del Bjp al governo fino a maggio, riguardava
proprio le autostrade: "In 50 anni 11 chilometri di autostrade all'anno. Negli ultimi cinque
anni 11 chilometri al giorno". Era vero, ma
questo non aveva impedito al Bjp di perdere
clamorosamente le elezioni. Per quante infrastrutture possa umanamente costruire un
governo indiano, non basteranno mai a soddisfare la clamorosa richiesta di un elettorato
democratico ed esigente. È dall'inizio degli
anni Settanta che un'amministrazione non
riesce a ottenere un secondo mandato dai cittadini.
Ma già alcuni anni fa quello sfrecciare della
Ferrari avanti e indietro come in una gabbia
sul nuovo ponte di Calcutta, per quanto la
scena sembrasse paradossale, era la rappresentazione di una realtà. Il gigante era sempre
affamato, povero, non sempre ben guidato,
ma cresceva, creava ricchezza e chiedeva.
Quattro anni fa, in un'analisi sui global
trends, la Cia rilevava che a partire dal 2015
l'economia cinese sarà delle dimensioni di
quella dell'Unione Europea; l'economia indiana sarà come quella giapponese; le economie
combinate di Cina, India e Giappone supereranno del 50% quella americana e del 90%
l'europea. Se non ci saranno guerre, epidemie
o altri cataclismi, dal 2015 in poi questa ten-
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MONDO
denza accelererà il passo fino al 2050, modificando fatalmente strutture e influenze nel
G7, nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu, nella
Banca Mondiale, nel Fondo Monetario e in
ogni organizzazione multilaterale. Il futuro è
dell'Asia ed è quasi banale constatarlo.
Eppure l'India resta, secondo la Banca
Mondiale, il più grande produttore di analfabeti. Il 20% dei bambini che in ogni continente non frequentano una scuola, sono indiani;
un quarto della popolazione di questo grande
Paese vive nella povertà assoluta e, precisa il
Programma di sviluppo delle Nazioni Unite,
l'Undp, 347 milioni su un miliardo d'indiani
fino al 2001 hanno vissuto con meno di un
dollaro al giorno.
Nel 1991, poche settimane dopo l'assassinio di
Rajiv Gandhi, il nuovo ministro delle Finanze
Manmohan Singh si presentava al parlamento, a Delhi. Quello che doveva essere solo la
lettura di un bilancio dello Stato, un atto
dovuto, fu invece un discorso memorabile.
Singh avviava le riforme economiche indiane.
Un pachiderma non poteva mettersi a correre
all'improvviso come la Ferrari sul ponte di
Calcutta. Ma quello che Amartya Sen aveva
definito "il tasso di crescita hindu" – una percentuale appena sufficiente per assorbire le
statistiche demografiche, non morire di fame e
continuare a sperare – incominciava a diventare una crescita reale e sostenibile.
Le privatizzazioni procedevano e continuano a
procedere "a un ritmo glaciale". Il
"Programma Minimo Comune" che nei prossimi cinque anni dovrebbe essere la road map
del nuovo governo indiano – guidato dal
Congresso e con i comunisti nella coalizione –
stabilisce che le imprese statali in attivo non
verranno privatizzate. In sé non é un principio ideologico: lo fanno anche i francesi. È
tuttavia chiaro che rispetto al precedente, il
nuovo governo asseconderà soprattutto la
parte sociale dello sviluppo. La spesa per l'educazione, dice sempre il minimo denominatore sul quale si sono accordati i partiti dell'eterogeneo governo indiano, passerà dal 2 al
6% del Pil: è difficile immaginare dove verranno trovate le risorse necessarie, ma qualsiasi Paese con i tassi di analfabetismo
dell'India, investirebbe il proprio futuro sull'educazione.
Per quanto sia carente il capitolo privatizzazioni, dal 1991 l'insieme delle riforme indiane
ha comunque creato le condizioni perché le
imprese crescessero e il Paese si aprisse all'e53
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ancora impiegata nelle aree rurali; i servizi crescono dell'8,5%, l'industria del 7%. Nessuno
s'illude che ci sarà subito un altro anno così: i
raccolti hanno avuto una stagione fantastica
perché il monsone è stato buono, non perché le
infrastrutture dei 500mila villaggi del Paese
sono migliorate. Ma gli economisti credono
che l'India non debba cercare di seguire i
modelli di sviluppo cinesi, quelli a due cifre: il
nuovo tasso di crescita hindu sarà sano e sostenibile se si manterrà attorno al 7-8%.
Il nuovo governo indiano, apparentemente
più di sinistra-centro che di centro-sinistra,
aveva spaventato per qualche giorno gli investitori. Il Sensex, la Borsa di Mumbai, era
d'improvviso crollato dopo tre anni di solida
crescita. La paura è passata presto, anche se
qualche scivolata populista continua a mantenere sul chi vive gli investitori. Rajasekhara
Reddy, il nuovo chief minister dell'Andhra
Pradesh, ha promesso ai contadini elettricità
gratis e la cancellazione di ogni debito. Reddy
ha sconfitto Chandrababu Naidu, uno dei leader indiani più moderni e pragmatici che
_Dal ’91 l’insieme delle riforme indiane ha creato le condizioni perché le imprese crescessero e il Paese si aprisse all’economia mondiale, ma un quarto di questo grande Paese,
secondo la Banca Mondiale, vive in povertà assoluta
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conomia mondiale. L'anno successivo al discorso di Manmohan Singh un gruppo d'importanti imprenditori – non i sindacati né i
comunisti – aveva creato un gruppo di pressione, il "club di Bombay", per tenere l'India
fuori dalla globalizzazione: meglio un Paese
dalle alte barriere all'ombra delle quali far
sopravvivere la produzione della nostra industria – sostenevano gli imprenditori – che
un'India globale nella quale la concorrenza
esterna travolgerà la nostra povera autarchia
locale. Oggi, meno di una generazione più
tardi, i figli di quegli industriali, quasi tutti
con un master ad Harvard, al Mit, a Stanford,
comprano imprese all'estero: 120 negli ultimi
tre anni. Nel marzo del 2004 il Gruppo Tata
ha acquisito il settore dei veicoli commerciali
Daewoo, la prima impresa straniera che nella
metà degli anni Novanta era entrata nel mercato automobilistico indiano per sfidare il
monopolio della Maruti, il simbolo dell'inefficiente autarchia del Subcontinente.
L'ultimo bilancio statale indiano, del governo
uscente del Bjp, offre prospettive gloriose. La
crescita supera l'8%; nell'ultimo quarto del
2003/04 (come nei Paesi anglosassoni, in
India i conti si chiudono a marzo) è addirittura di dimensioni cinesi: il 10,4%.
L'agricoltura cresce del 10% ed è decisivo
perché il 70% della manodopera indiana è
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Nel ’91, poco dopo
l’assassinio di Rajiv Gandhi il
ministro delle finanze Singh
avviava le riforme economiche
indiane che, per quanto
carenti sul fronte
privatizzazioni, hanno
creato le condizioni
perché il Paese crescesse
e si aprisse all’economia
aveva investito risorse ed energie nella new
economy, riuscendo a trasformare Hyderabad,
la capitale dell'Andhra Pradesh, ma non le
campagne che alla fine lo hanno punito.
Tuttavia, umiliando il Bjp e innovatori come
Chabdrababu Naidu, gli indiani non hanno
voluto votare contro la globalizzazione: nella
storia del Subcontinente non era mai successo
che i tassi di povertà diminuissero come in
questo ultimo decennio. Gli indiani chiedono
solo che le riforme economiche siano più
democratiche, che non lascino indietro la
parte più cospicua del Paese, quella che vive e
faticosamente produce nelle campagne. La
scelta come primo ministro di Manmohan
Singh, il padre delle riforme, al momento il
politico più rispettato dopo Sonia Gandhi, è
una garanzia per il futuro. Ma che il governo
sia di centro-destra o di sinistra, il business
internazionale non ama l'India: preferisce di
gran lunga la Cina. Nel 2001 gli investimenti
diretti esteri avevano raggiunto la cifra di
44,2 miliardi di dollari in Cina e di 3,4 in
India. Le riforme della prima, avviate ormai
quasi 30 anni fa, sono la fenomenale realtà
dell'economia mondiale; gli effetti della
seconda, vecchia di un decennio, s'incominciano a vedere ora. I cinesi poveri sono il 10%
della popolazione, in India almeno il 25; nel-
Contrasto_Corbis
mondiale
_La scelta di Manmohan Singh come primo ministro (foto sopra), attualmente il politico più rispettato dopo Sonia Gandhi
(nella pagina a fianco acclamata dalla folla), è una garanzia per
il futuro dell’India. Questo anche se, per il momento, il business
internazionale punta sulla Cina guidata dal Primo Ministro Wen
Jiabao (nella foto sotto con Ciampi al Quirinale)
Grazia Neri_AFP
l'ultimo decennio la crescita media annuale
della Cina è stata del 9,6%, quella dell'India
del 5,5%; quasi 248 cinesi e quasi 44 indiani
ogni mille hanno una linea telefonica fissa.
Le cifre non sono opinabili. Ma il predominio
cinese sul vicino asiatico nasce soprattutto da
due fattori sostanziali. Per quanto l'Occidente
abbia mobilitato gli eserciti per esportare la
democrazia – così almeno sembra in Irak – i
suoi businessmen preferiscono fare affari con
i Paesi autoritari. L'India è una democrazia
vibrante, la più grande del mondo, almeno
per numero di elettori: ma cambia i governi
che difficilmente arrivano alla fine del loro
mandato quinquennale, deve adattarsi a spinte religiose, etniche e sociali. In Cina le cose
sono in generale più semplici: nella seconda
metà degli anni Settanta Deng Xiaoping ordinò che "arricchirsi è glorioso"; da allora i
suoi successori e i comitati centrali hanno
lavorato attorno a quell'ukaze per costruire il
"mercato socialista": non un'economia di
comando rovinosamente riformata come la
perestroika di Gorbaciov; ma un vibrante
capitalismo che nella forma resta di comando
e che tuttavia, in buona parte delle sue applicazioni, è capitalismo senza aggettivi.
Il secondo fattore che, fino ad ora, ha garantito il successo cinese sono gli immigrati. I 55
milioni della diaspora cinese, soprattutto
Grazia Neri_AFP
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Grazia Neri_AFP
quelli di Taiwan, Hong Kong e Macao, garantiscono più della metà degli investimenti esteri della Cina Popolare. I 20 milioni d'immigrati indiani hanno incominciato a investire
solo ora sulle riforme del loro Paese d'origine.
Non c'è nulla che definisca l'India quanto la
Cina: il paragone con i cinesi è per gli indiani
qualcosa a metà fra l'incubo, la sindrome e
l'orgoglio. Anche la "bomba atomica hindu"
non è stata creata per contenere il Pakistan a
Ovest, ma la Cina a Est. Eppure, a dispetto
delle statistiche, la democrazia indiana sta
creando le basi per un successo economico a
lungo termine più stabile. Se la Cina ha
costruito la sua forza "dall'alto": aprendo il
Paese agli investimenti stranieri lasciando
però quasi intatto il controllo statale dell'economia e limitando le libertà dell'impresa privata, la democrazia indiana ha scelto un cammino "dal basso". Il socialismo fabiano applicato da Nehru mezzo secolo fa, non intendeva distruggere il capitalismo ma addolcirne le
conseguenze sociali. Le barriere imposte dal
license raj, la monumentale burocrazia indiana, non hanno colpito, ma protetto l'impresa
privata che ora è una delle più vibranti della
globalizzazione. La diaspora non ha aperto i
suoi portafogli come quella cinese, ma ha
garantito un'osmosi continua fra la Silicon
Valley, Hyderabad e Bangalore, all'origine del
successo dell'Information Technology indiana. "La questione non è dove Cina e India
sono oggi, ma dove saranno domani", scrivono il cinese Yasheng Huang del
Massachusetts Institute of Technology e l'indiano Tarun Khanna dell'Harvard Business
School. "La risposta sarà in larga misura
determinata da quanto i due Paesi utilizzeranno le loro risorse e, in questo campo,
l'India sta compiendo un lavoro superiore.
Sta dunque percorrendo una strada per lo
sviluppo migliore della Cina?
La risposta non la sapremo per molti anni
ancora".