Senza Titolo di Maria Letizia Trento Durante il corso

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Senza Titolo di Maria Letizia Trento Durante il corso
Senza Titolo
di Maria Letizia Trento
Durante il corso dei pasti avevo fatto amicizia con Alice, una
ragazza che faceva la cameriera al ristorante della piscina. Era
successo una mattina. Come ogni giorno io e miei genitori
c’eravamo seduti per colazione, e per l'ennesima volta qualcosa
ci aveva sorpresi. Avevo notato che quotidianamente un ragazzo
del personale dotato solo di maschera e retino trascorreva un’ora
abbondante dentro l’acqua, immergendosi di volta in volta in
apnea. Restavo incantata dalla sua capacità polmonare. Gli
avevo preso il tempo diverse volte: 1’e 35”. Notevole, pensavo.
Compresi in fretta che quello che per me poteva ingenuamente
essere l’allenamento per una performance sportiva, per
quell’uomo era lavoro. Non si preparava per una gara, faceva le
pulizie. A mano. E molto probabilmente lambiccava nei filtri e
nei bocchettoni dell’acqua. Pazzesco, pensai: tutte e sei le
piscine dell’albergo, ogni mattina venivano pulite così.
Mi diressi al buffet. Oltre a profumatissimi frutti della passione,
il cui aroma conoscevo solo vagamente dai posticci succhi gusto
tropical che mamma comprava al supermercato, qui c’erano
enormi, carnosi datteri e minuscole banane che divoravi in un
paio di bocconi. Ne presi due. Tornai al tavolo senza rendermi
conto che una scimmietta seduta tra le foglie di una palma mi
teneva d'occhio. Fu un lampo. Non so come, all'improvviso mi
trovavo in un’assurda situazione: l’animaletto appeso alle mie
banane che tirava per portarsele via, ed io che pur rischiando un
morso, le difendevo con ostinazione, più che altro per una
questione di principio: il mattino precedente mi aveva soffiato
un croissant con la marmellata proprio da sotto il naso.
Fu Alice a soccorrermi: le bastò tendere il tovagliolo che portava
sulla spalla simulando l’elastico di una fionda per far mollare
alla scimmia la presa e farla schizzare via.
Cominciammo a parlare così, e la conversazione si approfondiva
a ogni pasto, riprendendo da dove l’avevamo lasciata. Mi
raccontò del lago Nakuru, il luogo da dove veniva, dei
fenicotteri rosa che coloravano l’acqua quando arrivavano a
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migliaia. Mi raccontò anche del suo bambino, ammalato di
malaria. Un giorno le chiesi se le andava di portarmi a fare un
giro per Mombasa. Non come turista, però.
Era venuta a prenderci il pomeriggio seguente fuori dell’albergo.
Papà voleva anche lui vedere la città e poi, anche se faceva
fatica ad ammetterlo, non penso che se la sentisse a lasciarmi
andare in giro da sola. Mamma si era fatta prendere
dall’indecisione. Sul momento era venuta con noi, ma quando
aveva visto il mezzo di trasporto con cui ci saremmo spostati,
aveva desistito arrendendosi ai suoi limiti, e facendo
serenamente i conti con i propri pregiudizi.
Usciti dall’albergo avevamo camminato per due minuti fino alla
strada principale, quella che collegava Ntwapa a Mombasa.
Quasi subito un matatu si era fermato. “We take this.” aveva
detto Alice. “Questo?” Aveva chiesto mamma con un filo di
voce. Questo, per così dire, non era altro che un autobus locale,
un minivan con tre file di sedili uniti, in cui ci si stipava coscia a
coscia. Pagammo una moneta e ci inscatolammo dentro. Il tetto
era una spanna sopra la mia testa. Papà per non strisciare la
pelata, se ne stava tutto raggomitolato. Mamma ci salutò da giù.
“Divertitevi e fate molte foto.” Disse solo.
Cominciai a ridere quasi subito. Se a casa i mezzi pubblici
indicavano la destinazione tramite un display , sul matatu
accanto all’autista c’era il bigliettaio. Raccoglieva i soldi quando
salivi e per tutto il tragitto tra una stazione e l’altra stava appeso
fuori da una portiera fantasma gridando la destinazione in
prossimità delle fermate. Ma siccome le stazioni erano più o
meno ovunque e bastava fare un cenno per farsi raccogliere dal
furgoncino,
l’uomo
era
sempre
lì
a
dire:
“NtwpaNtwpaNtwapaNtwapa”.
Il nostro albergo distava dieci minuti da Mombasa. Erano le
quattro quando il matatu ci depositò davanti al Nakumat, un
enorme centro commerciale che faceva parte di una catena.
Entrammo per fare un giro. Era esattamente come gli
ipermercati che conoscevo, con la parte degli elettrodomestici, i
casalinghi, il reparto salumeria, l’ortofrutta e tutto come a casa.
Banchi colmi di vettovaglie di ogni tipo e diverse marche. Aria
condizionata alle stelle. Era folle scendere da un matatu e
trovarmi all’Ipercoop. Era folle soprattutto perché i prezzi erano
pressoché identici a quelli di casa. Eppure io sapevo quanto
guadagnava la gente. In spiaggia con i beach boys e le ragazze
che vendevano kanga parlavamo spesso di come si campava qui.
Potevi permetterti un affitto, forse, ma non potevi permetterti il
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Nakumat. E nell'entroterra poi, lontano dagli alberghi e dal
turismo, la vita era ancora più dura.
Prendemmo un po’ di cose, dei succhi di frutta, patatine, proposi
anche ad Alice di fare un po' di acquisti che volevo offrirle per
ringraziarla della gita.
Fuori dal market ci avvolse la realtà. Donne velate in ogni
modo, si mescolavano a ragazze vestite all’occidentale,
esattamente come chiese cattoliche da cui la domenica mattina
proveniva la melodia di emozionanti e caldi canti gospel, si
trovavano poco distanti dagli altoparlanti di minareti pieni di
arabeschi colorati. C’era tutto. Strade bollenti e caotiche, con
grappoli di galline che razzolavano sui marciapiedi. Chioschi di
dolci, negozi senza le porte. Altri centri commerciali. Per strada
incrociavi automobili di ogni tipo ed età, soprattutto vecchissime
utilitarie ormai quasi estinte, ma poteva passarti davanti anche
un suv moderno e accessoriato, accanto ai carretti trainati da
asini e cavalli o esseri umani. Indistintamente. Carretti enormi e
carichi. Tonnellate trasportate da corpi scolpiti dalla fatica.
Anche la povertà era visibilmente diversa, e stratificata in modo
riconoscibile. C’era chi aveva abbastanza. Un piccolo
appartamento. Chi un po’ meno. Una camera. Ma era comunque
ancora abbastanza. Poi di fetta in fetta si scendeva sempre più.
Quattro muri col tetto di lamiera. Quattro muri di fango e tetto di
paglia. Un tetto di paglia o lamiera e qualche assicella a
sostenere la capanna. In quel caso vedevi l’organizzazione della
“casa”: l’angolo cottura costituito da qualche pentola e padella,
poi lì accanto il materasso. Inevitabilmente ci trovammo a spiare
nell’intimità di un focolare domestico a cielo aperto. Lì,
passando per strada. Era strano. Vicino poi, a pochi passi, poteva
capitare di vedere la persona abbandonata. Quello che a casa era
il “barbone”. Pensai che da noi lo avrebbe avuto un piccolo
aiuto, in un modo o nell’altro. Un pasto caldo. Un rifugio per la
notte. Qui era il più povero tra i poveri. Spesso vecchio. Molto
magro. Spesso malato da non riuscire a reggersi in piedi.
Nessuno che si curasse di lui. E non ci si aspettava che ci si
occupasse di lui. Era solo un qualcuno a qualche metro da casa
propria, uno qualunque che non ce la faceva a stare aggrappato a
quel filo sottile appena sopra la sopravvivenza. Era tutta lì la
differenza. Minima. Chiunque, in qualunque momento poteva
scivolare giù al posto suo, lasciato morire come un piccione
ammalato.
Mentre camminavamo in silenzio Alice disse: “Lì c’è il mercato,
volete vedere?” “Facciamo un giro.” disse papà.
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Era organizzato per prodotti. La parte gastronomica al coperto,
in due grandi edifici col tetto in lamiera. I banchi
dell’abbigliamento si trovavano su una strada, ed erano costituiti
da grezze assi di legno o lenzuoli stesi per terra imbanditi di
accessori, indumenti e scarpe.
Entrammo nell’edificio dell’ortofrutta. Ci assalì, oltre che i
commercianti, anche un profumo intenso di spezie. Ce n’erano
di tutti i tipi. “Zanzibar non è lontana, ci spiegò Alice.”
Già, Zanzibar. È dove avrebbe voluto andare mamma. Pensai.
Sabbia bianchissima e luogo incantato fuori dal mondo. Papà
mi prese la mano. Sapeva a cosa stavo pensando. “Ci saremmo
persi tutto questo...” Disse solo.
Feci di sì con la testa riempiendomi gli occhi dei colori della
frutta tropicale, delle polverine blu cobalto e di ogni tonalità di
giallo e ocra, che spuntavano da enormi sacchi. Non sapevo che
in capo a due minuti avrei desiderato essere con mamma. Alla
spiaggia. In riva al mare a seguire le orme dei paguri. Un po’
protetta.
“Là c’è l’edificio della carne…” disse Alice.
“Andiamo, siamo qui, finiamo il giro.” Decise papà.
Questa volta ci investì l’odore pungente, insopportabile del
sangue. Molto diverso da quello della macelleria di casa, fresco
e crudo. Qui ci assalì il vapore acre che può esalare dalla carne a
34 gradi. Questa era la temperatura dell’edificio. Niente
frigoriferi, niente aria condizionata. E il tetto in lamiera faceva
come una serra. Ricordai quello che mamma più o meno
consapevolmente aveva detto. “Fate molte foto.”
Compresi subito che questo era qualcosa che non sarei stata in
grado di affrontare, di vivere. A sedici anni non si è pronti per
tutto. Accesi la videocamera. Una volta superato l’impatto
olfattivo, tutto quello che avevo intorno lo avrei guardato solo
attraverso il microschermo.
“I’m in a nightmare,” dice la mia voce. Riguardando il filmato
queste sono le parole che pronuncio, non appena l’obbiettivo
inquadra la macelleria del mercato. È uno stanzone immenso.
C’è una piastrellatura bianca sui muri. E sangue dappertutto.
Tavoli di ferro e legno, secchi pieni di frattaglie. Banchi
monotematici di tagli più o meno pregiati: testicoli di manzo,
interiora, teste di capra. Uno dei commercianti vedendo la
videocamera, prende per le corna il capo di una bestia e
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comincia, aprendole il muso a fare “beeehee. beehee”. Gli altri
ridono. Fa caldo. Sono tutti in canottiera o vestiti leggeri. Un
uomo mangia bocconi crudi da un secchio. Tiene la mano stretta
a cucchiaio e ripulisce la bacinella avvicinando le frattaglie
sparse. Il sangue gli cola dalla bocca e tra le dita, giù, fino al
gomito. Un altro è appoggiato alla parete, seduto per terra,
sembra che gli abbiano sparato. Sta solo schiacciando un
pisolino, ma il capo gli penzola sul petto e sul muro tutto intorno
a lui il sangue cola giù come fosse il suo, esploso ovunque.
Una donna, in un banco verso l’uscita sta comprando tre
bistecche.
Fuori dall’edificio questa volta mi assale il colore chiassoso e
vivo dei kanga. Respiro. Non ho ancora riflettuto sul fatto che
tutto quello che ho appena visto è chakula. Cibo. Roba da
mangiare. Penso. Tenia. Penso. Infezioni intestinali che la nostra
mucca pazza, o la suina sono innocue a confronto. Penso.
“La carne dell’albergo non la comprano qui, vero?” Chiede
all’improvviso mio padre in tono semischerzoso.
Alice sorride e lo rassicura. “No. Don’t worry. This market is
only for poor people.”
È già, per gli altri c’è il Nakumat.
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