“On the sunny side of the street”: la formazione in ottica appreciative*
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“On the sunny side of the street”: la formazione in ottica appreciative*
“On the sunny side of the street”: la formazione in ottica appreciative* Serafina Pastore** «Grab your coat and get your hat leave your worries on the doorstep life can be so sweet on the sunny side of the street» McHugh - Fields Una premessa… È questo vecchio swing che, alla proposta di scrivere un articolo sull’appreciative inquiry (d’ora in avanti AI) e la formazione, mi è, per prima cosa, venuto in mente. Strano… sì, certo, ma non troppo se pensiamo alla valenza che un cambio di prospettiva può avere a livello formativo. È qui, del resto, che si gioca il senso autentico delle pratiche di matrice riflessiva, ed è qui che si gioca, a dispetto della lettura superficiale e “too easy” che spesso si tende a dare dell’approccio appreciative, la sfida didattico-operativa per la definizione-implementazione di percorsi, individuali e organizzativi, tesi a promuovere un cambiamento effettivo. Un cambiamento affatto facile o scontato da perseguire, specie se si tratta di facilitare una riflessione profonda che metta in discussione l’immagine di se stessi e i propri punti di vista (Moon, 2012). ... e una precisazione Appreciate, nella lingua inglese, rimanda tanto alla comprensione quanto al riconoscimento di qualcosa di valido; nella lingua italiana, invece, a stimare, ponderare e, per estensione, a gradire. L’aggettivo appreciative indica l’espressione di gradimento, di riconoscenza rispetto a persone, fatti, eventi. Il corrispettivo italiano più pertinente dovrebbe essere apprezzativo (l’approccio muove, infatti, dalla considerazione degli elementi positivi e delle aree di forza come leva per il cambiamento) e non elogiativo, associabile all’esaltare con lodi, all’encomiare, all’approvare in modo incondizionato: aspetto che tradisce, a mio parere, il senso originario dell’AI. Per arginare il rischio di una distorta interpretazione e per evitare di cimentarmi in esercizi linguistici e stilistici che ci porterebbero lontano dal focus di queste pagine, non ritengo opportuno, allora, tradurre AI. Non si impara solo dagli errori: percorsi generativi «No problem can be solved from the same level of consciousness that created it. We must leave to see the world anew» Eistein In ogni organizzazione è possibile individuare qualcosa di buono (o che funziona bene) e il cambiamento può essere gestito attraverso tale identificazione e l’analisi di come fare per migliorare ancora: questo l’assunto di base dell’AI che, recuperando parte della sua impostazione dalla psicologia positiva (Seligman, 2006) e dalle teorie del costruttivismo sociale, suggerisce di focalizzarsi su ciò che accade, di prendere atto dell’esistenza di più realtà e di più valori, di conoscere e includere, di elaborare domande che riescano a influire sul nostro pensiero e sul nostro comportamento, di attestare entusiasmo nel cambiare. * Il presente articolo è stato pubblicato nello speciale “La formazione e gli ambienti professionali” della rivista dell’Aif “FOR”, n. 92, luglio-settembre 2012, pp. 32-35. ** Serafina Pastore è ricercatore in Didattica generale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bari. Tra i suoi lavori più recenti: Valutare la formazione in azienda (Carocci, Roma, 2011), Lavoro e apprendimento (Guerini, Milano 2012) traduzione e cura del volume di J. Moon, Esperienza, riflessione, apprendimento (Carocci, Roma, 2012). 1 Scorrendo la vasta letteratura prodottasi nel corso degli anni (piuttosto ridondante rispetto al nucleo invariato di assunti e principi) non è difficile scorgere l’ancoraggio alla filosofia della partecipazione e agli approcci collaborativi, e l’impostazione qualitativa che privilegia il ricorso a osservazioni, interviste, focus group. È lo stesso D. Cooperrider (2005) a definire l’AI come l’arte e la pratica di porre domande tali da rinforzare la capacità dei singoli e delle organizzazioni di individuare, prevedere e accrescere il potenziale positivo di cui si è portatori. L’AI si fonda sostanzialmente su: la conoscenza dell’organizzazione e del suo destino; l’indagine e il cambiamento che non sono distinti, ma simultanei; l’immaginazione, risorsa per un cambiamento organizzativo costruttivo; la considerazione delle organizzazioni come dei testi infiniti; l’idea che il cambiamento implichi “sentimenti” sociali positivi (speranza, ispirazione, gioia di creare qualcosa con gli altri). Prevede, in sostanza, quattro momenti - scoperta, sogno, design, destino - durante i quali i partecipanti cercano di individuare cosa fare per migliorare e rendere concreta una determinata idea. Si tratta di un approccio fortemente connesso con le pratiche lavorative: consente ai soggetti di esplorare e analizzare gli aspetti, gli elementi, i problemi che insorgono quotidianamente nell’esercizio della propria pratica professionale. Ma l’AI non si ferma qui. Attraverso il dialogo, il confronto e l’interrogarsi su aspetti differenti, i soggetti possono identificare valori, credenze, idee circa il processo in atto e, guardando a ciò che già funziona, individuare e costruire percorsi di risoluzione al problema insorto. A differenza delle tradizionali teorie del change management, l’AI non si limita a guardare al problema, elaborare una diagnosi e cercare una soluzione. Il focus non è più sul problema, o sull’errore in sé per sé: a volte siamo così ossessionati dall’imparare dai nostri errori da non renderci conto che, in tal modo, si finisce solo per enfatizzali e amplificarli. Bisognerebbe, invece, guardare ai successi ottenuti e non ai fallimenti per perseguire gli obiettivi futuri. L’AI diviene così un processo generativo, mobile, costantemente creato e ricreato da coloro che lo usano. Si pone pertanto come una variante dell’action research finalizzata a «valorizzare le risorse e le capacità di cui i soggetti già dispongono e ad inquadrare i problemi in una prospettiva di protagonismo e auto-promozione dei soggetti stessi» (Tommasini, 2007, p. 393). Le ricadute educative non sono di poco rilievo, così come non sono da sottovalutare, per i formatori, le implicazioni metodologiche (spesso ammantate da un’ambigua novità) (Lipari, 2012). Non è facile, infatti, predisporre un percorso di cambiamento in grado di mobilitare una trasformazione profonda che promuova, attraverso la lente della riflessività, una visione “deep focus”1, e induca così i soggetti a riconsiderare criticamente quanto fatto, a ponderare e valutare l’esito delle azioni intraprese, a prospettare soluzioni inedite. Modulazioni e variazioni sul tema Numerosi e diversificati i campi di applicazione dell’approccio appreciative. Sviluppato nei primi anni ’70 alla Case Western Research University per aiutare le società a “modellare” il proprio vantaggio competitivo, si è progressivamente esteso allo sviluppo di comunità e alla valutazione che diviene, per i soggetti coinvolti, occasione e momento di crescita personale e professionale. Secondo H. Preskill e T.T. Catsambas (2006), infatti, è possibile perseguire questo importante obiettivo formativo attraverso le azioni del saper porre domande, del costruire un dialogo, dell’identificare e cambiare - se necessario - i valori, le credenze, gli assunti che regolano, spesso in modo inconsapevole, l’agire dei soggetti. È negli approcci alla valutazione di tipo collaborativo e partecipativo che si ricorre all’AI per “catalizzare”, attraverso il dialogo, il cambiamento. Il dialogo in valutazione 1 Riprendo dal linguaggio cinematografico il concetto di spazio profondo per indicare come nella rappresentazione/revisione di un evento si possano mettere contemporaneamente a fuoco elementi diversi, anche assai distanti tra loro. 2 porta ad emersione le dimensioni relazionali, morali e politiche di un contesto o di una particolare attività. Alla base delle attività relazionali e comunicative, include tutti gli interessi dei partecipanti e determina interazioni e rapporti che siano rispettosi e fondati sull’equità (Green, 2001). Il valutatore può così: accrescere la ricchezza dei dati raccolti; disporre di informazioni significative e responsive rispetto al contesto e ai suoi attori; ottenere un maggior livello di partecipazione e fiducia; rispettare la diversità delle esperienze e delle opinioni dei singoli. D’altro canto, i partecipanti hanno l’opportunità di imparare dal processo in atto, sviluppando al contempo un pensiero valutativo (come elaborare domande di valutazione, identificare i metodi migliori, ecc.) e uno apprezzativo (comprendere l’importanza e la funzione della narrazione, dell’ascolto attivo, del linguaggio, ecc.). Il ricorso alla narrazione e l’enfasi sugli elementi positivi, non solo riducono ansie, ostilità e paure spesso rivolte alla valutazione, ma agevolano la riflessione e la mediazione personale dell’apprendimento. Proprio il richiamo alle dimensioni della riflessione, della pratica e della narrazione trova nell’approccio appreciative un’armonica declinazione operativa. Recentemente T. Ghaye (2011; 2008), nel recuperare i principi di base dell’AI e dell’intelligenza appreciative (Thatchenkery, Metzker, 2006) e nel definire la riflessione e l’azione come interconnesse in un continuo processo creativo e apprezzativo, propone un modello (PAAR- participative and appreciative action and reflection) scandito in più fasi che - ricalcando gli step originali del modello dell’AI - muovono dal livello individuale a quello dell’intera organizzazione per predisporre un cambiamento profondo e originale. Alle forme di riflessione nella e sulla azione, Ghaye aggiunge quelle per e con l’azione per promuovere, da un lato, la riflessione dei soggetti sul proprio habitus, sulle proprie routine e sul contesto in cui si opera e, dall’altro, la trasformazione dei soggetti stessi e l’innovazione dei setting organizzativi. Ogni forma di riflessione è associata a una diversa fase corrispondente, a sua volta, a una specifica positive question: appreciate. È il primo step. La domanda di riferimento è “What’s successful…right now?”. Si parte dall’individuazione e dall’apprezzamento di quanto, all’interno di un dato contesto, va già bene e si persegue una comprensione profonda, tale da consentire di passare al secondo livello; imagine. Questa fase corrisponde alla riflessione sull’azione; in risposta alla domanda “What do we need change to make a better future?” è funzionale all’individuazione di quegli elementi che necessitano di essere cambiati per riuscire a prospettare un futuro migliore; design. La riflessione serve ora, in modo creativo e critico, a progettare, in concreto il cambiamento (“How do we use this?”). Non bastano, però, la volontà, l’intenzione di cambiare e l’individuazione delle mete da perseguire. A questo livello è necessario dotarsi di «emotional literacy, political acuity and ethical courage» (Ghaye, 2011, p. 18); act. L’ultimo passaggio corrisponde alla consapevolezza di quanto è possibile fare per il futuro e delle conseguenze che potrebbero palesarsi all’orizzonte (“Who takes action and with what consequences?”). Precisa, infatti, Ghaye come non sia necessario agire a tutti i costi e come, anche il non intraprendere alcuna azione, possa essere una soluzione valida. Two stars and a wish Affido, in ottica appreciative, la chiusura di queste pagine all’espressione di two stars and a wish: si tratta di una strategia di formative assessment usata principalmente per incoraggiare negli studenti la riflessione sul proprio apprendimento. Le due stelle forniscono un feedback su elementi positivi o su aree di forza; il desiderio, invece, serve a indicare i margini di miglioramento futuro. Rispetto alle pratiche di AI, credo si possano individuare due punti degni di nota: primo, il progressivo, seppur lento, affrancarsi della riflessione dalla mera dimensione di propedeuticità/strumentalità per promuovere apprendimento. La riflessione ha un ruolo chiave 3 nell’apprendimento ed è di fondamentale importanza nella comprensione dei rapporti tra ciò che facciamo e i modi in cui poter migliorare l’efficacia di una pratica (Pastore, 2012); secondo, il riconoscimento della valenza formativa che la prospettiva appreciative possiede. I modelli che si rifanno a tale impostazione ricorrono a una costruzione sociale della realtà, ribadiscono l’importanza di tutti gli stakeholders coinvolti, abbracciano i sistemi valoriali e stimolano la riflessione sull’uso dei risultati ottenuti. Partecipazione e collaborazione consentono alla formazione di allargare il suo respiro all’intera comunità; di fornire una base comune di conoscenza, di cultura, di storia; di considerare le diverse competenze professionali dei membri della comunità; di ricercare assieme la soluzione più pertinente ed efficace per un determinato problema; di proiettarsi verso il futuro, scorgendo, come affermano T. Thatchenkery e C. Metzker, la “quercia nella ghianda”. Il desiderio, infine: che sui temi, qui brevemente illustrati, continuino a svilupparsi esperienze e buone pratiche tali da ridurre l’alone di ideologia spesso associato a questo approccio. Riferimenti bibliografici Cooperrider D., Whitney D. (2005), Appreciative Inquiry: A Positive Revolution in Change. San Francisco: Berrett-Koehler Publishers. Ghaye T. (2011). Teaching and Learning through Critical Reflective Practice. London: Routledge. Ghaye T. (2008). An Introduction to Participatory and Appreciative Action Research (PAAR). Gloucester: New Vista Publications. Green J. (2001). “Dialogue in Evaluation. A Relational Perspective”. In Evaluation, 7(2), pp. 181203. Lipari D. (2012). Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale. Milano: FrancoAngeli. Moon J. (2012). Esperienza, riflessione, apprendimento. Manuale per una formazione innovativa. (tr. it. a cura di S. Pastore). Roma: Carocci. Pastore S. (2012). Lavoro e apprendimento. Intersezioni didattiche. Milano: Guerini. Preskill H., Catsambas T.T. (2006). Reframing Evaluation through Appreciative Inquiry. Thousand Oaks: Sage. Seligman M. (2006). Learned Optimism. How to Change Your Mind and Your Life. New York: Vintage Books. Thatchenkery T., Metzker C. (2006). Appreciative Intelligence: Seeing the Mighty Oak in the Acorn. San Francisco: Berrett-Koehler Publishers. Tomassini M. (2007). “La riflessività dei professionisti della formazione: verso lo sviluppo di pratiche riflessive in contesti di formazione professionale”. In Montedoro C., Pepe D., a cura di, La riflessività nella formazione: modelli e metodi. Roma: ISFOL, pp. 379-410. 4