1 GIANNI CUPERLO Sono stato, credo, un discreto militante con un

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1 GIANNI CUPERLO Sono stato, credo, un discreto militante con un
GIANNI CUPERLO
Sono stato, credo, un discreto militante con un’assidua presenza, però in cinque anni non ero mai
stato portato in questa sala. So benissimo che siete qui per Fabrizio Barca. Insomma io proverò ad
interloquire con alcune delle domande che avevo ricevuto stamani via e-mail; le avevo lette; sono
piuttosto complesse. Ho grande interesse ad ascoltare Fabrizio e credo sia importante che lo
ascoltiate tutti voi. Per ora parto da qui, parto dall’ospite, nel senso che voglio dire una cosa su
Fabrizio Barca - non solo perché mi sento di fare gli onori di casa, appunto come ho appena
ricordato sono stato iscritto a questo Circolo - ma perché sono convinto che lui stia facendo in
questi mesi una cosa importante, importante per noi, per il PD e per la politica. Baca ha deciso di
andare in direzione opposta al flusso della folla. E questo è un esercizio piuttosto impegnativo e
faticoso e chi lo fa solitamente ha una spinta molto solida ed una passione molto intesa che lo
spinge a questa scelta. Nelle note che lui ha scritto qualche mese fa, che sono alla base del suo
viaggio per l’Italia, troverete la conferma sia della motivazione che della passione. In questo caso è
una difficoltà maggiore di quella che uno può incontrare in un esercizio così contro-corrente, perché
il flusso di cui io parlo negli ultimi venti anni è stato quello che ci ha riguardato un po’ tutti, almeno
quelli che sono qui da questa parte della sala: è stato quello che dai partiti si è mosso verso le
istituzioni, un po’ a tutti i livelli. Allora l’idea che qualcuno - che non è capitato per caso nel
governo, ma nel governo c’è stato, dal governo viene e che, se soltanto avesse voluto, nel governo
poteva tranquillamente rimanere - torni a scommettere sul partito e sul concetto di partito e sulla sua
funzione nell’Italia di oggi, vada in giro per l’Italia, entri nei nostri circoli, discuta con gli amici e
compagni che frequentano i circoli (e che non trovano qualcuno con cui parlare per ricominciare a
tessere questo filo), io lo trovo qualcosa di più di un atto di testimonianza. A me pare la convinzione
che la dimensione del governo - governo di una città, di una regione, del Paese - è fondamentale per
tante ragioni. È fondamentale prima di tutto perché è da lì che puoi esercitare un potere virtuoso.
Però il messaggio delle note di questo viaggio per l’Italia (anche di questa serata e anche del
Congresso che noi stiamo per avviare) è che quella dimensione da sola non basta.
Io partirei da qui: quella dimensione da sola non basta. Non è sufficiente per tante ragioni, per due
in particolare: la prima è che non si governa e soprattutto non si riforma quasi nulla nell’economia,
nella convivenza, nel costume di un Paese, nel principio di legalità se non si costruisce intorno a
quelle riforme un consenso dal basso, se non le si fanno vivere come scelte consapevoli condivise
da parte delle comunità alle quali Barca si rivolge. Io penso da molti anni che qui ci sia una prima
grande differenza tra noi e la destra e la differenza è tra chi ragiona così: “dimmi quello che vuoi e
io te lo prometto”, in una logica dove i programmi diventano un’appendice dei sondaggi di opinione
e chi, invece, si ostina a pensare che la via della politica sia un’altra. La politica è certamente
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possedere i tuoi valori, difenderli, coltivare una tua idea del tempo, del mondo, della società. Ma poi
devi costruire le tue riforme attraverso un consenso; consenso che non si misura solo a valle delle
scelte che fai il giorno delle elezioni, ma che è legato all’elaborazione di quelle scelte. È con la
discussione e con la costruzione dei programmi insieme a coloro che ti candidi a rappresentare che
“coltivi” il consenso. E’ una differenza abbastanza fondamentale per chi ha, come credo tutti noi
che siamo qui questa sera, una grande passione oltre che un grande rispetto della politica. E tutto
questo, che ho appena accennato, senza un partito semplicemente tu non lo fai. E non lo fai
nemmeno con i partiti organizzati come nel passato; e qui c’è un primo grande limite di molti di noi
in questi anni ed è di non avere capito che una tendenza sempre più forte ( e pere certi versi anche
inarrestabile) verso una maggiore personalizzazione della politica non rendeva meno prezioso un
lavoro di ripensamento, di rifondazione del soggetto politico, del suo modo di essere, di discutere,
di decidere. Diciamo che noi abbiamo imboccato una scorciatoia. Quando dico noi, dico il nostro
partito, la sinistra italiana e abbiamo ceduto - mi permetto di dirlo sommessamente, ma lo dico in
modo autocritico, è una critica rivolta non ad altri ma a noi stessi - abbiamo ceduto anche
culturalmente all’idea che una buona capacità di direzione e di governo bastasse a colmare il vuoto
che andava crescendo, non solo tra le persone e la politica, ma tra interessi della società (più o meno
aggregati) e la democrazia. Col senno di poi questo è stato un errore molto serio che abbiamo
pagato e una parte dei problemi che il PD ha incontrato nel corso della sua vita relativamente breve,
recente - io mi permetto di dire - che una parte dei nostri problemi è venuta proprio da qui. Per un
verso sul terreno del consenso, come ha dimostrato il voto deludente del 24 e 25 febbraio, quando
noi lasciammo sul campo oltre tre milioni di voti rispetto alle elezioni politiche del 2008, e anche
con l’astensione altissima, della quale dovremo tornare a discutere nei prossimi mesi, alle ultime
elezioni amministrative dove pure il centrosinistra - e dobbiamo rivendicarlo come un grande
merito - ha ottenuto un risultato eccezionale.
Per un verso abbiamo pagato un prezzo sul terreno del consenso e per l’altro verso lo abbiamo
pagato, questa è una cosa che volevo aggiungere, nella difficoltà a leggere il paese, a capire il paese,
a leggere le trasformazioni che lo attraversavano sul piano sociale, ma anche sul piano della cultura,
del linguaggio, delle aspettative, delle persone sulla propria vita: è il tema delle domande che mi
sono state inviate via e-mail, è il problema che pone nella sua mail Nicola Pasquarelli. Io lo leggo
così: noi abbiamo ancora un consenso grande però (come tutte le analisi ci dicono da molti anni)
questo nostro consenso grande è molto concentrato, è sovradimensionato in particolare in tre aree
sociali di questo paese, che sono: il lavoro dipendente, prevalentemente pubblico, i pensionati e
coloro che hanno una formazione elevata. Ora quello è un pezzo fondamentale dell’Italia ed è il
pezzo che ha conquistato forse la frontiera più avanzata del welfare italiano tra la fine degli anni ’60
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e la fine degli anni ’70 e che oggi fa molta fatica a capire come una rete di diritti e conquiste sociali
e civili fondamentali (vedo dall’età media di voi, che molti hanno memoria diretta, forse sono stati
partecipi, protagonisti di quelle pagine), diritti e conquiste fondamentali che hanno cambiato la
costituzione materiale e la vita di questo Paese, possano essere reinterpretati e descritti da un’altra
parte del Paese, che è quella che sta peggio: non come una rete fondamentale di diritti e di conquiste
ma come una rete di tutele e a volte di privilegi anche corporativi. Il punto, per noi che siamo la
sinistra, è che questi valori non sono da contrapporre: non è per chi i diritti oggi non li ha, che tu li
devi togliere a chi si è battuto per tutta la vita per averli: non può essere questa la risposta! Tra le
cose peggiori, tra le regressioni culturali della sinistra italiana io ho trovato quello slogan ”meno ai
padri e più ai figli”. Ma perché? Noi siamo la sinistra e scegliamo i diritti, le libertà, le opportunità,
la responsabilità delle persone; non è in contrapposizione questa libertà, anche perché (e voi lo
sapete) una parte di questi, di coloro che i diritti li hanno conquistati, comincia a soffrire nonostante
quei diritti. C’è nella domanda questo riferimento: quelli che hanno un contratto regolare, quelli che
hanno le ferie pagate, quelli che hanno l’assistenza per la malattia, quelli che hanno il congedo
parentale; sì, tutto vero, vero che loro ce l’hanno e gli altri no, però esiste anche un fenomeno che
assume caratteristiche inedite e che una grande forza della sinistra non può ignorare: gli americani,
gli anglosassoni, lo chiamano working poor, sono i lavoratori poveri. In molte aziende metal
meccaniche di Torino tra il 30% e il 50% dei lavoratori sono indebitati, con, a volte, cessioni di un
quinto dello stipendio che diventano drammatiche nelle situazioni di cassa integrazione, perché poi
questa è la crisi, è la nuova povertà operaia. E prima la fisiologia del sistema, delle nostre società
escludeva, tutto sommato, la sovrapposizione di queste due voci: dove c’era il lavoro non c’era la
povertà (c’era in misura molto contenuta) e dove emergeva la povertà mancava il lavoro. Da almeno
15 anni e con una forte accelerazione dopo la crisi del 2008, la figura del povero al lavoro (il
lavoratore povero) ha fatto la sua comparsa fino a raggiungere nel 2007, prima della crisi, la
percentuale – indicata da alcuni economisti - dell’8,5% nell’Europa a 27. Cioè nella grande Europa
del nuovo secolo, vuol dire, che quasi 9 lavoratori su 100, sono poveri o rischiano di diventarlo. E
in Italia, più del 5% delle famiglie, dove il principale percettore di reddito è un operaio, oggi vive in
una condizione di grande povertà.
Ecco perché, scusatemi la digressione più legata all’economia (ma sono temi che riguardano la
riforma del partito), ecco perché tu non puoi (e anche su questo abbiamo conosciuto limiti culturali
in questi anni) raccontare la storia di una società pacificata dove non c’è più conflitto e dove non ci
sono più interessi che si contrappongono, perché non è così. E’ una società che non è pacificata,
dove ci sono ancora profonde sacche di conflitto non residuale ma legate alla natura di questa
società. Tu devi essere il soggetto che dice che cosa pensa di quei conflitti e di come si possono
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affrontare. Allora noi dobbiamo parlare anche a quelli che da tempo non si sentono rappresentati da
noi; e però questo non lo fai se annacqui le tue idee, ma lo fai parlando a tutte le parti della società
che vuoi promuovere, che vuoi rendere più responsabili nelle scelte dellla loro vita. Tutto questo
significa ridare ad una moltitudine di persone una ragione di riscatto.
Io continuo a credere che ci sia questa molla al fondo che ti restituisce la possibilità di sperare che
ci sia quella spinta, quello slancio che mobilita le persone, che scuote le coscienze, che rompe gli
equilibri, che sposta una quota parte del paese sulle tue posizioni. Tu offri una ragione di riscatto,
ma lo devi fare in questa società, per come è cambiata; ecco perché, dal mio punto di vista (spero di
non sbagliare) non si tratta di fare un PD un po’ più piccolo e un po’ più di sinistra. La prova, lo
dico a Matteo Mazzoni (che poneva la questione nei termini in cui li ha posti nella sua domanda) è
quella di fare un partito più grande, un partito che sappia ricollocare nella storia del paese una
sinistra ripensata, plurale nelle sue ispirazioni, nelle sue culture.
Io dico, non sarà facile, lo so benissimo, ma non è neppure un disegno folle, fosse solo perché fuori
da noi c’è un mondo pieno di passioni che a volte neppure vediamo, fuori c’è molto, molto di
buono.
C’è anche un popolo che sa mobilitarsi, che ha continuato in questi anni a mobilitarsi per il bene di
tutti ed è gente che la crisi, nonostante la durezza, non ha spezzato, non ha piegato e che riparte
dalle basi che fondano una società, a cominciare dalla dignità del lavoro. E queste forze ci dicono
che non basta mettere a punto un buon programma di governo. Un grande Partito, una grande
cultura politica non le tieni assieme perché tu hai un’ottima proposta di riforma degli
ammortizzatori sociali. Tu devi avere un’ottima proposta di riforma, ma non può esaurirsi in quello.
Il senso profondo di una radice, di una continuità e anche di una prospettiva capace di innovare.
Noi siamo nati per restituire anche un contenuto morale alla politica, che è un’ambizione molto alta;
dobbiamo scegliere: e questa volta non dobbiamo scegliere su un altro nome, su un altro leader, ma
dobbiamo scegliere le parole per dirci (cosa che poi forse la sfida più suggestiva, più intesa che
abbiamo davanti).
Sul percorso del Congresso, e penso alle domande di Doriano Pagliai e Carlo Chioatero: io sono per
le regole chiare che ci facciano discutere di quello che ho provato ad accennare e di molto altro.
Non vorrei fare il Congresso che discuta delle regole per fare il Congresso. Vorrei che discutessimo
del merito; per me partire dai Circoli, come è stato proposto da Carlo, va bene; rendere autonoma la
scelta dei dirigenti dalle liste dei candidati, anche. Io penso che sia un modo, non l’unico, ma
comunque uno dei modi per arginare un correntismo ossessivo e a cascata. Sulle primarie sarei per
un sistema aperto, non perché non sia giusto, in linea di principio, rivedere la platea degli elettori,
soprattutto se si decide di separare la figura del Segretario da quella del candidato premier; peraltro
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io sono cresciuto in un partito - il PCI - in cui mi ricordo che quando il PSI di Craxi decise di
procedere all’elezione diretta del Segretario da parte del Congresso, cioè dei delegati al Congresso
Nazionale, un migliaio di persone circa, la reazione di autorevoli dirigenti del PCI di allora fu che
non si poteva eleggere nel Congresso perché questo dava troppo potere; bisognava eleggerlo nel
Comitato Centrale. Ecco in pochi anni siamo passati da troppo potere a 3,5 milioni di cittadini. Però
noi ora siamo in un passaggio delicato, noi abbiamo subito una sconfitta, severa, pesante, abbiamo
conosciuto il trauma delle giornate terribili sull’ elezione del Capo dello Stato, abbiamo conosciuto
il trauma delle dimissioni di un intero gruppo dirigente. Insomma non possiamo dare neppure alla
lontana l’idea di una volontà di chiusura, né possiamo permetterci una polemica tutta intestina e
piegata sulle procedure. Io credo che non saremmo capiti e sprecheremmo una occasione unica di
ricostruire un rapporto di fiducia con la nostra gente. Per cui discutiamo, discutiamo e ancora
discutiamo, mettiamo in campo idee e punti di vista anche con un pizzico di maggiore fiducia fra di
noi; poi ciascuno dirà come la pensa. Per esempio, rispondendo a Bruno Michelucci che pone il
nodo della separazione fra segretario e candidato premier (per la verità lui pone anche il nodo delle
riforme istituzionali, ma sarebbe lungo affrontare questa questione. Io me la cavo dicendogli che la
penso abbastanza come lui, che non è un estimatore della deriva presidenzialista): io penso sia
giusto oggi - ve lo dico così come atto di testimonianza un po’ più personale, anche se mi costa
qualche fatica - candidarsi a fare UNA cosa. Perché bisogna restituire valore, peso, significato alla
direzione politica a tutti i livelli. E non possiamo più considerare la guida del partito, la direzione
del partito a tutti i livelli come una sorta di corvée, come un servizio militare che si fa come
trampolino in attesa di fare qualcos’altro. Sarà perché sono cresciuto in quel partito, ma quando
entrai in quel mio primo partito, se fosse stato fatto un sondaggio tra cento dirigenti territoriali di
medio ed alto profilo e a ciascuno avessero chiesto: “Vuoi andare in Parlamento o vuoi entrare nella
segreteria nazionale del partito?”, vi assicuro che 95 rispondevano: “La segreteria del partito”. Noi
dobbiamo riscoprire non il modello di quel partito, ma dobbiamo fare la scelta di dedicarci per
alcuni anni a costruire questo progetto, farlo crescere, farlo discutere, perché in ciò c’è qualcosa di
profondamente vitale. Perché se un partito discute è una cosa viva, viceversa se si chiude a riccio o
processa il dissenso (di fronte alle immagini delle assemblee in streaming dei parlamentari del M5S
io ho provato un brivido quando a un certo punto nello studio una voce chiede alla senatrice
dissidente “di chieder perdono”; A parte che nel nostro partito sarebbe un certo caos, come si fa ad
usare delle categorie così antimoderne, così pre-politiche, così antistoriche, rivendicando al
contempo la forza di una innovazione delle quale si sarebbe gladiatori). Se un partito smette di
discutere, quel partito non c’è più. E anche per questo dobbiamo tornare a vedere la società e lo
dico, tra l’altro, a Manuela Benelli che chiede come si ricostruisce attorno al PD una cittadinanza
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civile. La risposta è che forse noi dobbiamo recuperare una buona dose di umiltà. Abbiamo
difficoltà a capire come il paese è cambiato. Io personalmente ho vissuto questo sentimento di
percezione di una scarsa umiltà: era domenica 11 giugno di due anni fa. Referendum: si vota
sull’acqua, sul nucleare e sulla giustizia. I sondaggisti fino al venerdì non scommettevano un
centesimo sul raggiungimento del quorum – erano 16 anni che i referendum in Italia andavano sotto
il quorum del 50%. Poi si aprono le urne e sull’acqua 27 milioni di italiani escono di casa e vanno a
votare. Noi andammo a votare sì per tutti e quattro, ma non è questo il tema, è che fino al lunedì
pomeriggio, una parte di noi non aveva percepito che sarebbe potuto accadere quello che era
accaduto. E allora io penso che un grande partito deve chiedersi: “perché?” “cosa è successo?”. E le
risposte sono molte. Io la risposta l’ho trovata in un piccolo episodio, però vi assicuro che è così
come ve lo racconto, trovato in un libro di Michael Sandel. L’episodio è questo: ad un certo punto
la Svizzera si è posta il problema di come eliminare una certa quantità di scorie nucleari e perciò
sono stati fatti degli studi di impatto ambientale per vedere quale era la locazione più adatta per
collocare lì un sito di stoccaggio delle scorie. Naturalmente le candidature non piovevano dal cielo,
anzi non ce n’era nessuna. Ma gli svizzeri sono un popolo ordinato come si dice nelle barzellette. E
tra i siti indicati come potenziali destinatari di questo simpatico cadeaux del governo è emerso un
piccolo villaggio di montagna, dal nome impronunciabile. Un gruppo di economisti è andato in
questo villaggio di poche migliaia di abitanti ed ha fatto un sondaggio. Ha chiesto agli abitanti del
villaggio se avessero accettato di accogliere quella destinazione, nel caso il governo avesse indicato
quello come sito di stoccaggio. Il sondaggio non fu un clamoroso successo a favore, però la
maggioranza, per quanto risicata, ci fu: il 51% rispose: “sì, se il governo indicasse il nostro
territorio come sede di questo sito, noi accetteremmo, perché il Paese si fonda su questo tipo di
energia e noi abbiamo un dovere civico nei confronti della collettività”. Gli economisti
aumentarono le domande e fecero un nuovo sondaggio chiedendo: “se il governo, oltre ad indicare
che il sito lo colloca qui, vi offrisse un indennizzo economico, una sorta di tassa sul disagio, per
compensare le difficoltà che voi doveste incontrare (naturalmente al netto delle verifiche di impatto
ambientale sulla salute della popolazione), voi come rispondereste?” La percentuale dei favorevoli
si dimezzava: dal 51% al 25%. E più gli economisti aumentavano la simulazione dell’indennizzo
economico, più diminuiva la percentuale di coloro che rispondevano di sì. Allora un economista più
brillante degli altri chiese agli abitanti: “Perché non sommate i due incentivi, l’uno civico, l’altro
finanziario?”. La risposta, semplice ma illuminante, è che i due incentivi non si possono sommare.
E se tu introduci il secondo incentivo, quello è tale da mettere in discussione anche il primo. Perché
l’argomento di quegli abitanti era: “Voi non ci potete corrompere, potete fare leva sul nostro senso
civico, sul senso di responsabilità della popolazione, ma non ci potete comprare”.
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E forse, quella domenica del referendum di due anni fa, 27 milioni di abitanti hanno ragionato come
gli abitanti di quel villaggio svizzero. Non è un tema bello da affrontare nel Congresso di un grande
partito della sinistra e la bellezza di questa riflessione non è forse nel rapporto - che noi abbiamo
indagato poco in questi anni - tra il mercato e la morale; non è neanche nel fatto che a cambiare le
nostre società ed il nostro modo di pensare sono stati i valori di un profitto che ha penetrato sfere
della vita dove non era giunto in precedenza e dove non sarebbe dovuto arrivare. Ecco noi, in
mezzo a tanti meriti, non abbiamo avuto il coraggio di affrontare un dibattito pubblico sul fatto che
esistono cose che il denaro non può e non deve acquistare. Ma se vogliamo convincere una parte di
questo Paese, una parte di quei giovani che non ci votano che una differenza tra destra e sinistra
esiste ancora, io penso che quel coraggio lo dobbiamo recuperare e dobbiamo comprendere che il
discorso pubblico su questi temi è la via per portare di nuovo al centro il nodo della diseguaglianza,
della libertà, riscoprendo anche la forza della democrazia e, credetemi è così, io mi sono davvero
convinto, più i beni preziosi per ciascuno di noi, a cominciare dalla vita, dalla salute, dalla cultura,
dal lavoro, sono catturati dalla sola dinamica del guadagno, più crescerà la distanza tra chi a quei
beni avrà accesso e chi ne rimarrà escluso. E questa terribile crisi che scuote l’Occidente da oltre
cinque anni lo ha certificato senza ogni dubbio, nel modo in cui il ceto medio è stato impoverito,
nella morsa del debito che strangola imprese e famiglie. Però dobbiamo sapere (dopo sei anni
dircelo una volta almeno) che non c’è stata una politica che si è occupata troppo del rapporto tra le
sue decisioni e l’etica pubblica. La causa è esattamente l’opposto: è una politica che ha pensato di
sostituire, con toni via via più gridati ed urlati, la fragilità del suo contenuto morale e la difficoltà a
fare delle condizioni profonde delle persone un punto di forza dello spazio pubblico. Però una
società senza una trama di convenzioni che la tenga unita non vive. E più la politica rinuncia a
questo, più le energie morali e civili ne soffrono. Aggiungo che, in parte, il conflitto tra la tecnica e
la politica è venuto da qui, da questo disarmo critico, che ha finito con il privare la politica delle
motivazioni che l’hanno sorretta a lungo. Insomma, se tutto si riduce alla tecnica, alla tecnica di
governo, se i problemi delle persone si riducono al calcolo dei loro interessi materiali, allora può
capitare che i tecnici abbiamo la meglio. Però a quel punto, la politica, per riscoprire il suo ruolo (o
almeno la sinistra) deve porsi di nuovo la domanda di fondo che è la stessa da prima di noi e che è
questa: ma quanto deve essere GIUSTA la società che ci candidiamo a rappresentare? Ed è diverso
se un partito si pone la domanda “quanto deve essere giusta la società” rispetto al chiedersi “quanto
deve essere efficiente la società che ci candidiamo a rappresentare”. Devi capire le cose a cui diamo
valore: il potere, le risorse, la ricchezza, i diritti, i doveri, le cariche, le occasioni, in cima a tutto, la
responsabilità. E devi farlo con il consenso della gente: qui torna il tema del partito, nel senso che
c’è un nodo di fondo che riguarda il valore che diamo all’iscrizione al partito. E che non può solo
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tradursi nel modo in cui organizziamo i gazebo o su come ci si schiera alle primarie. Il punto è che
noi affrontiamo questo tema solo se collochiamo il PD nella società italiana per come è adesso. Per
esempio, capendo che la grande rivoluzione di questi anni, che ha già cambiato il panorama delle
nostre società, delle nostre vite, di quelle dei nostri figli, del nostro modo di consumare, di vivere la
socialità, concepire il lavoro. Per esempio capendo che la grande rivoluzione digitale, che non sono
solo i blog, i Facebook o i 140 caratteri di Twitter, è in realtà una dimensione sconosciuta del
protagonismo individuale, che consente di nuovo al singolo di produrre delle idee e anche di
concretizzare quelle idee in beni. Tutto ciò non è solo una tecnica che si aggiunge alle altre
tecniche, ma è un’innovazione che modifica le relazione umane e sociali, che cambia la mediazione
e la partecipazione alla vita pubblica e politica; è un mondo che restituisce un potere maggiore a
ciascuno, è una rivoluzione che mette di nuovo al centro la persona con una potenza sconosciuta. E
la destra questa intuizione, questo cambio di linea forse lo ha capito prima di noi. Il lancio
commerciale (come fanno gli americani) del primo personal computer, il Macintosh, avvenne con
un video bellissimo, trasmesso durante il terzo tempo del superball, visto da 77 milioni di
americani. Il video, firmato da Ridley Scott, è una parabola che in pochi secondi racconta
l’alienazione della fabbrica con il modello di lavoro fordista e la rottura che si esercita nel rapporto
nuovo tra la persona e la macchina, il computer, che ridefinisce la dimensione della creatività, della
libertà e dell’autonomia del soggetto. Questo è successo molti anni fa. Noi abbiamo faticato di più a
capire che quella cosa poteva intervenire nella vita pubblica, cambiando anche le regole, le forme
ed i canali della democrazia, della partecipazione e della cittadinanza; la nascita di una rete di reti,
una società dove viviamo. E questo significa anche pensare ad un partito rete, dove il centro della
visione ideale sia alimentato dai legami con le infinite periferie, dove si moltiplicano le relazioni tra
le persone, attraverso interessi e progetti (anche temporanei), un diverso modo di collaborare, di
vivere la politica. Nasceranno nuove comunità che avranno la loro radice nel territorio, negli
interessi e nei bisogni. Insomma, noi siamo già dentro ad una rivoluzione che è destinata a creare un
altro modello di vita democratica e questo può cambiare molto del nostro modo di concepire il
partito.
Infine Gaspare ha fatto una domanda sulle radici, sulla cultura politica; sottolineo solo un aspetto. I
grandi partiti nascono sempre dentro fratture della società e della storia che li rendono, in qualche
modo, necessari. È stato così per il popolarismo cristiano di Sturzo, per il confronto che mosse
Dossetti e De Gasperi, sull’idea di un partito nuovo di Togliatti. Questa è la ragione per cui non
puoi mai ridurre un partito solo al suo programma elettorale, perché poi puoi anche perdere le
elezioni, ma il partito poi resta. Allora la ragione per cui la cultura e la formazione devono tornare
ad essere chiavi di comprensione del tempo è giustissima. Noi usciamo da una stagione in cui la
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destra ha fatto strame di senso; Berlusconi ha tante responsabilità in questi venti anni: l’offesa alle
istituzioni, l’assalto alla Costituzione, la rottura degli equilibri tra i poteri. Tra le tante colpe ce n’è
una che non è la più grave, ma è la più significativa sotto il profilo di ciò che la destra è stata ed è il
fatto di aver annunciato - nell’aprile 2010 in una grande villa in Brianza - l’inaugurazione della
nuova università del pensiero liberale. L’annuncio prevedeva che la lectio di apertura della nuova
università del pensiero liberale sarebbe stata tenuta da Vladimir Putin. L’idea che il capo della
destra italiana dopo venti anni di egemonia assoluta possa affidare le chiavi di senso della cultura
liberale – cultura molto più presente nel PD – a Putin, dà la misura di dove siamo arrivati. Anche
contrastare questa Babele di concetti e di valori deve essere un nostro obiettivo, cioè è necessario
ristabilire un ordine, a cominciare dalla storia e dalla memoria. Perché invece i partiti senza storia,
radici e memoria sono la dannazione di questa lunga transizione che viviamo, caratterizzata da
precarietà delle culture, delle categorie, delle parole e della complessità. Noi abbiamo smarrito il
gusto, il piacere di ascoltare e discutere, anche su temi difficili; non tutto lo si può concentrare in
trenta secondi, in tre minuti. La questione venne risolta brillantemente da Woody Allen dicendo:
“Ho fatto un corso di lettura veloce, ho letto Guerra e pace in venti minuti: parla della Russia”.
Non so se la mia candidatura incontrerà del consenso oppure no, non so se sia la cosa giusta;
riconosco tutti i miei limiti. Però ci sono momenti e fasi della vita di ciascuno di noi in cui ti devi
assumere degli impegni e credo che nessuno appartenga a qualcuno se non alla propria
responsabilità e credo che questo debba valere per tutti.
Gli ultimi flash; uno a Francesco Piccione, di cui in questi anni ho conosciuto la coerenza e la
passione. Non so se noi sapremo mai i nomi dei 101 che non hanno votato per Romano Prodi, però
io continuo a tenere assieme i 101 che non hanno votato Prodi e i quasi 200 che non hanno votato
per Marini. Non vale dire: “Io l’avevo detto”, non è questo il tema. Il tema è dire cosa è un partito,
come decide, come interpreta le sue decisioni. Noi dobbiamo capire perché siamo arrivati lì e quali
errori abbiamo fatto, tutti noi insieme, e come fare in modo che non accada più. Il secondo flash è
una persona, una donna, che si chiamava Barbara de Anna e che ci ha lasciati oggi, dopo un mese di
sofferenze.
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FABRIZIO BARCA
Andare controcorrente non è una atto velleitario, perché è impossibile, facendo un atto velleitario,
andare controcorrente ed incontrare altri. L’incontro con altri è condizione fondamentale all’interno
di una società così segnata come la nostra, disamorata all’idea che si possa cambiare e piena di
individualismi. La cosa importante è che si formino squadre, grumi. Parto dal riferimento che
Cuperlo ha fatto alla Svizzera. La prima delle parole chiave che voglio dire è VISIONE. Per
arrivare ad una visione di come potremmo stare meglio tra qualche anno rispetto a come stiamo ora,
bisogna uscire dalla logica che alcune cose stiano insieme attraverso una “compensazione”. La
compensazione monetaria non è la strada per rimettere insieme una questione, ad esempio un
problema ambientale come quello dell’ILVA. Non si affronta il problema “compensando”, ma si
affronta “cambiando”, “innovando”, facendo cose diverse da quelle che condurrebbero da un lato a
non avere più la siderurgia a Taranto o dall’altro che porterebbero a produrre con i metodi usati fino
ad oggi. Penso ad alcuni esempi: Europa, lavoro e scuola.
EUROPA: come sta insieme l’idea di Europa in cui c’è la libera circolazione delle merci, dei
capitali e del lavoro, con quella di Europa che chiede agli Stati di rispettare delle regole molto
stringenti di finanza pubblica? Come questo sta insieme con l’idea di Europa nella quale tutto ciò
viene fatto per la pace e la giustizia? Questi due aspetti stanno insieme pensando ad una
compensazione economica oppure l’unico modo è pensare che ci sia un confronto, un conflitto
aperto ed acceso, una discussione fra visioni diverse? In Europa è necessario superare questa
visione parziale che vede la Germania imporre regole ai Paesi Mediterranei, che, a loro volta,
cercano di evitarle. L’obiettivo non è quello di strappare qualcosa (ad esempio un allentamento del
Patto di stabilità), ma esiste una soluzione diversa, come per es. l’aumento dell’integrazione di
bilancio e dell’integrazione politica. Cioè un passaggio indispensabile che da una Unione monetaria
vada verso una maggiore legittimazione democratica degli organi dell’Europa. Questa è una
condizione necessaria affinché l’Europa torni a gestire l’euro come i singoli Paesi gestivano le
proprie monete, attuando le manovre di politica monetaria (ad esempio svalutando l’euro, manovra
oggi non prevista dal sistema di regole europee). Le cose non stanno insieme né forzando, né
compensando, né trovando soluzioni di compromesso tra tecnici dei vari Paesi. La soluzione è un
confronto politico serrato in Europa: bisogna discutere su quale sia il modo di raggiungere quella
integrazione politica subito, già a partire dalle prossime elezioni del Parlamento.
LAVORO Come stanno insieme esigenze apparentemente molto lontane? Queste stanno insieme
non con un accomodamento, con “un passo indietro” da parte del governo Monti (che ha cercato di
eliminare la situazione di flessibilità senza sicurezza, con contratti precari creati senza sistemi
assicurativi generali, che si è stratificata in anni di follia). La strada non è trovare nuovi tecnicismi
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normativi, ma è quella di una discussione politica. E’ realistico che nei prossimi 5 – 6 anni torni ad
esserci una domanda di occupazione tale da consentire di invertire il trend? Oppure dobbiamo
andare verso una ripartizione del monte – ore di lavoro tra un numero superiore di soggetti (come
ha fatto il Giappone)? Ci si deve porre seriamente il problema dell’orario di lavoro, in modo tale
che lavorino molte più persone ma un numero di ore inferiore? Forse non è la soluzione, ma è uno
dei temi da discutere concretamente.
Si può trovare una soluzione solo con un confronto, anche un conflitto, che eviti spaccature che non
esistono (la contrapposizione fra vecchi e giovani citata da Cuperlo è fra le più demenziali di quelle
create); un confronto che eviti delle letture “non negoziabili” – che di fatto sono finte letture dei
problemi del Paese. Tutte queste tematiche possono stare insieme con una discussione che oggi non
c’è.
SCUOLA: come stanno insieme due esigenze altrettanto rilevanti? La prima è la tutela delle
condizioni di lavoro di 1 milione di dipendenti pubblici, che hanno retribuzioni inferiori rispetto a
quelli di qualunque altro Paese (parte dei quali precari). La seconda è la condizione di moltissimi
studenti: livelli di competenza bassissimi (soprattutto al Sud ma in aumento al Centro e al Nord),
condizioni inaccettabili in cui gli studenti si trovano (fino al 40% fra gli studenti di 15 anni al Sud);
condizioni che di fatto negano l’art. 3 della Costituzione. Sono condizioni di non parità rispetto a ai
coetanei italiani ed ancor più rispetto a quelli di altri Paesi. In più, cosa ancor più grave, non esiste
in Italia un mescolamento tra persone di origini sociali diverse, persone con condizioni di partenza
familiari differenti. Anche nel Centro-Nord è in crescita la dispersione scolastica. C’è, quindi, la
necessità di un presidio a livello di scuola, che chiederebbe dei cambiamenti (come per esempio un
uso dell’autonomia scolastica che potrebbe spingere ogni scuola a scegliere gli insegnamenti di cui
ha bisogno). Come stanno insieme queste due esigenze?
Nel PD sono due aspetti non discussi. La logica del “c’è posto per tutti” apparentemente ti consente
di “prendere”, in realtà non ti consente di “proporre” delle soluzioni innovative né agli uni né agli
altri. Ho fatto tre esempi di una visione necessaria, indispensabile anche per vincere le elezioni:
visione che è mancata nella campagna elettorale nazionale. Campagna che è stata la principale
responsabile dell’insuccesso elettorale; responsabilità non di singole persone, ma di un’intera
associazione volontaria , cioè il PD e l’intero centro-sinistra..
La prima cosa che volevo sottolineare è proprio che tutte queste cose stanno insieme attraverso un
partito. Seconda cosa: alcuni dei tratti, già indicati da Cuperlo, del partito che vorremmo sono
chiari. Partito con discussione, confronto, circolazione di idee fra i diversi livelli.
Ma questa aspirazione resta romantica e velleitaria e rischia di apparire un ritorno indietro (e perciò
attaccata e criticata) se non si radica in tutti noi (e se quindi non siamo in grado di convincere chi
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non è convinto) che solo un partito fatto così, è un partito che consente di governare il Paese. Se,
viceversa, non c’è un dibattito sul partito e, prima ancora, su come si governa, si resta nel
velleitarismo.
In ognuna delle tre questioni che ho posto prima (Europa, scuola e lavoro) per riconciliare e tenere
insieme più punti di vista, non basta che ci siano quindici persone, per quanto ben selezionate e di
valore, che si riuniscano, discutano, scrivano ed attuino una riforma. Perché nelle società
contemporanee la conoscenza è diffusa, frastagliata fra centinaia di migliaia di soggetti. Nessuno ha
il “sapere”, nessuno ha una soluzione su quei tre temi e neanche sulle questioni apparentemente più
“macroeconomiche”. Se questo dibattito non c’è, il partito è solo un organo che serve per scegliere i
candidati ai diversi livelli di governo. In quest’ottica sarebbe il caso di dare anche più poteri agli
eletti: al Presidente del Consiglio, al Presidente della Repubblica - magari eletto direttamente -, ai
sindaci, commissari ecc; norme che accelerino i processi decisionali. Queste cose si sentono tutti i
giorni, anche all’interno del PD. E’ un diritto esprimere queste idee, ma c’è il dovere di discuterle.
La risposta che suggerisce un accentramento dei poteri - che da venti anni insiste nell’errore di
pensare che il saper governare sia proprio di un numero limitato di soggetti – altro non è che una
visione che esiste in tutto il mondo, ma in Italia ha assunto tratti parossistici. In Italia, infatti, esiste
una tradizione amministrativa (derivante dall’era fascista) non estinta dopo la guerra; non è mai
stata fatta una riforma dell’amministrazione. L’Italia si è affidata agli enti pubblici (IRI, ENI) ed ad
alcune grandi figure (grandi ingegneri). Non abbiamo mai riformato l’amministrazione e siamo
fortemente convinti che l’essenza della riforma, il riformismo, consista nel “normare”. Siamo in un
Paese disattento ai “processi di attuazione”. Circa il 50% dei decreti attuativi (il decreto attuativo di
una norma non è l’attuazione, è la precondizione per iniziare il processo di attuazione) approvati dal
governo Monti riguardava norme del governo Prodi e del governo Berlusconi. Cosa significa
approvare una norma in Parlamento? Leggiamo sui giornali la varie fasi: norme che si ha in animo
di fare, norme modificate che si ha intenzione di fare, poi norme del pre - Consiglio, poi norme del
Consiglio, poi norme portate in Parlamento, poi, dopo 7/8 mesi, norme approvate in una nuova
versione. Dopodiché non se ne sa più nulla! Fino a scoprire, quattro anni dopo, che i decreti
attuativi non sono stati approvati e sette anni dopo che sta iniziando la loro attuazione sotto un altro
governo.
Come è possibile che i cittadini che devono applicare queste norme (insegnanti, medici, militari,
etc.) e tutti gli altri beneficiari (cittadini che devono capire che cosa sia cambiato) vedano ciò con
“consenso”? Come si può pensare che attorno a quelle norme vi sia un consenso?
Non sappiamo più neanche cosa viene approvato, né quale disegno normativo viene approvato: di
quali interventi stiamo beneficiando? Come giudichiamo e monitoriamo una riforma se non
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sappiamo se è stata applicata? Dove sono i numeri sui risultati ottenuti? Dove è il dibattito politico
sull’attuazione di quegli interventi?
Ad esempio: chi parla di aumentare la capacità della Napoli-Bari? Chi discute e chi sa se è vera
l’operazione fatta dal governo Monti su Pompei? Dove è il dibattito su tante decisioni prese?
In Italia la visione neoliberista secondo la quale le decisioni di governo possano e debbano essere
concentrate in pochissimi soggetti (perché questo vuol dire “decidere”) si coniuga con la profonda
ed assoluta trascuratezza dei processi di attuazione. Trascuratezza da parte dell’Amministrazione
(secondo punto di grande rilievo), dei media e dei partiti.
Se crediamo nel riformismo perfetto, allora non serve a molto un partito come quello di cui stiamo
parlando. Quel partito è più che altro il luogo della nostra anima, il luogo in cui ci piace essere, in
cui ci piace ritrovarci. Il partito non serve se, ad esempio, pensiamo che, per realizzare l’alta
velocità Torino – Lione o per strutturare il settore scolastico tenendo insieme le esigenze di
insegnanti e studenti, basti chiamare un Ministro o una Commissione parlamentare che “risolva il
problema” scrivendo una nuova norma.
Se invece, come in un qualsiasi governo di un Paese avanzato, all’interno dei processi di attuazione
avviene un coinvolgimento profondo e radicale dei cittadini, allora l’esistenza del partito è una
condizione indispensabile. Il singolo sarà informato dell’avanzamento del processo di attuazione e
potrà capire la natura degli interveti che vengono realizzati; in questa prospettiva il partito diventa
un’organizzazione flessibile che la società crea per interagire con lo Stato (oppure per pretendere
che lo Stato migliori).
CONOSCENZA Un partito come quello che sto immaginando è un partito funzionale ed essenziale
per governare; è un partito la cui organizzazione deve essere messa al servizio della circolazione
della conoscenza. Perché l’essenziale funzione del partito è di convogliare la conoscenza dalla
società verso il governo, in modo che questa “conoscenza” consenta
di comprendere come
governare e se il governo è appropriato. Questi flussi interni al partito possono assumere diverse
caratteristiche.
La prima quando il governo realizza un intervento di riforma, la funzione del partito deve essere
quella di discutere di quali siano gli indirizzi che sono stati presi: perché il gruppo dirigente ha
preso certe decisioni? Perché si è ritenuto di ricomporre in un certo modo gli interessi diversi che
esistevano? Questo non è un esercizio solo di consenso, ma è un esercizio indispensabile a far
capire perché la riforma si è fatta. Quando in Germania è stata realizzata la riforma del mercato del
lavoro, la riforma è stata compiuta in tre stadi; ad ognuno di questi stadi si è aperto un dibattito
pubblico nel Paese che ha coinvolto i massimi esperti, i centri di conoscenza, le fondazioni. Il
dibattito è stato durissimo: decisione, norme attuazione, monitoraggio del processo attuativo,
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preparazione della prima fase della riforma; lo stesso per la seconda fase: discussione, confronto
nel Paese per nove mesi, sperimentazioni, dibattito fra Sindacati e confederazioni delle imprese; poi
lo stesso per terza fase della riforma.
È un altro mondo, ma è il solo mondo con cui si possono cambiare i Paesi.
Negli USA Obama nella fase ascendente del disegno della sua riforma della sanità aveva
organizzato un metodo di dibattito come quello appena illustrato, perché era arrivato a quel disegno
attraverso un profilo partecipativo che aveva coinvolto il Paese. Mentre quando Obama e il suo
partito falliscono nella fase discendente, smettendo di coinvolgere e di mantenere allerta il Paese,
subito l’opposizione si anima, protesta riempie le piazze (un’opposizione che è mossa dalle grandi
industrie farmaceutiche e da una posizione profonda di un pezzo della coscienza americana, che si
rispecchia nell’idea: “ma perché io devo pagare per altri?”). Anche gli esempi negativi, come quello
del partito democratico americano, ci dicono che è il non-mantenimento di un sistema partecipativo
e di conoscenza a creare problemi sia a chi governa, sia ai partiti stessi.
Il secondo flusso è quello opposto: alcune riforme possono nascere da basso, perché attivate dai
livelli di unità territoriale ed intermedi del partito: a questi livelli nascono il confronto, la
discussione, il conflitto e tutto questo si deve poter tradurre in messaggi verso l’alto. Se il partito
non dimostra ai suoi stessi iscritti (ed ancor più i cittadini impegnati in quell’associazionismo che è
“indipendente”, “monotematico”, che è uno degli elementi vitali della nostra società - che ci ricorda
che il partito non è e non sarà più autosufficiente) che le idee, le riflessioni e le decisioni
faticosamente maturate nei dibattiti degli iscritti stessi saranno ascoltate, che queste viaggeranno
verso “l’alto”, allora vale quella battuta sentita a Prato: “Abbiamo lavorato e faticato per quattro
mesi, ma poi ciò che è uscito fuori è rimasto lì. La prossima volta non mi impegno più”. Ecco che
continua ad essere cruciale il flusso di conoscenza: nel primo caso era dall’alto verso il basso,
mentre qui è dal basso verso l’alto.
E poi c’è un terzo tipo di flusso: non dobbiamo mitizzare il livello basso, perché molto spesso è a
questo livello che si determinano degli incistamenti, delle posizioni di rendita, delle situazioni di
“cattura” da parte di interessi particolari. In quel caso il compito dell’alto cambia e diventa quello di
destabilizzazione degli equilibri che si sono venuti a creare dal basso. La destabilizzazione delle
posizioni di “cattura” può arrivare fino alle forme estreme del commissariamento, ma la soluzione
non dovrebbe essere il commissariamento del partito, bensì dovrebbe essere lo stimolo e l’ascolto
dei soggetti presso i quali si ha la sensazione che il dibattito si sia incrostato. Bisogna andare dove
si percepisce che il partito sia stato preso in mano da gruppi, per sbrogliare la situazione e dare la
chance di entrare ai giovani e a tutti quelli che hanno idee innovative. Bisogna far sì che valgano
all’interno del partito quei principi di concorrenza e di merito, che sono quel pezzo del pensiero
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liberale (non liberista!); questi principi li ho trovati e che voglio continuare a trovarli all’interno
dell’anima del PD, insieme ai valori social - comunisti e cristiano - sociali.
C’è quindi la necessità di processi di trasferimento di conoscenza che si muovano in tutte le
direzioni.
SELEZIONE DELLA CLASSE DIRIGENTE Se nel partito vi fosse la mobilitazione cognitiva
ed il trasferimento di conoscenza (in ognuno dei livelli e fra i diversi livelli) con le dinamiche
appena descritte, allora sarebbe un partito in cui il problema della selezione della classe dirigente
sarebbe “risolto”. È evidente che la classe dirigente, sia quella del partito stesso che quella che si va
a candidare per le elezioni, sarebbe formata da persone già vagliate all’interno di un processo e che
non compaiono a ridosso delle elezioni o sono auto-coptate o suggerite dall’esterno. Un partito con
quelle caratteristiche avrebbe risolto il problema della classe dirigente, che poi il problema che è
stato dietro ai 101. Io credo che quella sensazione di dovere morale verso l’organizzazione cui
appartieni nasce non dalla firma di un pezzo di carta, ma nasce se una persona, nel corso di una
discussione accesa, ha dimostrato di essere empatica, di essere in grado di ascoltare e di trovare
soluzioni di esercitare leadership; ecco in quell’occasione ha dimostrato che di lei ci si può fidare, si
è capito che quella persona vale. Non ci possono essere codici etici che ci tutelino da
comportamenti di un certo tipo, se non in un partito che torni a selezionare la classe dirigente,
attraverso il lavoro e la fatica.
Sulla questione della “platea” delle primarie, dico una cosa che facile dire per chi è già iscritto ad
una sezione del partito: non ho dubbi che la selezione dei candidati abbia senso non solo se c’è un
confronto cognitivo al’interno di un partito, ma se si opera anche un allargamento a tutti quelli che
dichiarino di condividere alcune idee fondamentali del PD al momento del voto.
Viceversa, per quanto riguarda la selezione del gruppo dirigente del partito, io non comprendo come
possa una qualunque associazione non affidare ai soggetti che a quell’associazione partecipano
(dedicandogli il proprio tempo) il diritto e il dovere di selezionare i gruppi dirigenti. La condizione
di iscritto non è né sufficiente né necessaria. Non è sufficiente perché avere delle persone che hanno
preso una tessera e hanno versato una cifra non vuol dire niente, anche perché può essere una
condizione soggetta a catture o a comportamenti impropri (che però non possono essere quelli che
ci guidano a fare le scelte, perché quelli vanno monitorati e non possono essere, come nel caso di
abolizione delle preferenze elettorali, la scusa per abolire le preferenze elettorali: è un rischio che si
corre e che va corso). Ma se si ha una partecipazione al partito, il tempo che viene dedicato a questa
attività, autorizza a pretendere un rapporto fiduciario fra te e i dirigenti; io ti voto e poi pretendo da
te che poi tu svolga i compiti per cui ti sei impegnato; questo diritto lo estenderei anche ai soggetti
che, pur non essendo iscritti al PD, gli dedicano tempo, interesse ed energie. Soggetti diversi da
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quelli che passano dal gazebo; questi ultimi, a mio parere, sono abilitati a votare alle primarie per la
scelta dei candidati - che è una cosa diversa, perché è un test “al di fuori” che ha un senso. Ma
perché io devo dare a una persona che passa un giorno da un gazebo la possibilità di dire chi
saranno i miei dirigenti? Facoltà, questa, che dovrebbe invece spettare agli “iscritti” ed ai
“partecipanti” intesi nel modo che ho descritto.
PARTITO NON AUTOSUFFICIENTE Mi è stato detto che l’immagine che sto raccontando è
quella di un partito che non sia più schiacciato sullo Stato, che non sia il partito degli eletti, né un
partito che dà ordine agli eletti. Gli eletti hanno un senso di responsabilità che, nel momento in cui
sono eletti in Parlamento, non ha più nulla a che fare col partito; loro hanno un dovere verso tutti i
cittadini, così come questo dovere lo hanno tutti coloro che governano, a qualsiasi livello. Il partito
ha il dovere di incalzare, di essere “altro” rispetto agli eletti. In questa prospettiva. soltanto la
percezione da parte dei cittadini di una distanza genuina tra il partito e lo Stato può consentire di
ricostruire la fiducia e di colmare quel divario pauroso che c’è fra il 40% di giovani che non
credono nella politica e il 4 % dei giovani che hanno fiducia nei partiti. Quel gap dà la sensazione
che quei partiti siano lo Stato, che stiano là per prendere soldi e - cosa più grave di tutte - che stiano
là per costruire percorsi privilegiati per occupare poltrone della Pubblica Amministrazione o degli
Enti pubblici.
Si può fare qualcosa di meglio, non solo rispetto a ciò che è scritto nello Statuto e nel Codice di
condotta, ma soprattutto evitando di derogare ad alcune norme dello statuto che vengono
continuamente derogate: questo sarebbe un segnale forte! Un segnale che dimostrasse che nessuna
persona iscritta al PD ha la possibilità entrare nella Pubblica Amministrazione o in un Ente pubblico
con una modalità diversa da quella che prevede la Costituzione, cioè tramite un concorso. Questo
sarebbe un segnale straordinario da dare e probabilmente avrebbe eliminato o eliminerebbe molti
dei problemi che il PD ha. E dico questo per ricordare una cosa: non pensiamo che alcuni problemi
siano limitati al Sud, perché se nel Centro-Nord del Paese l’Emilia-Romagna e la Toscana sono
ferme da dieci anni nella crescita della produttività, questo è anche responsabilità del PD.
Quindi è necessario un partito che marchi la separazione profonda fra il partito e lo Stato. Per farlo
deve avere personale remunerato (il volontariato non basta: non è un partito del bricolage) e deve
poter accedere ai finanziamenti. A quello fondamentale dei propri iscritti, a quello dei privati seppure con dei limiti – ed al finanziamento pubblico, gestito in modo trasparente, di cui si deve
dare conto. Magari agganciando il volume del finanziamento pubblico al volume di sottoscrizione
degli iscritti.
RETE Mi colpisce la discussione sulla rete di questi giorni. Rete come strumento di democrazia
elettiva, quando la rete ci può aiutare come strumento di democrazia deliberativa, cioè nell’esercizio
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della partecipazione. Si ha un gran parlare della rete come strumento per prendere le decisioni (per
decidere se approvare delle cose, per decidere se espellere delle persone, per nominarne o
candidarne altre), la sciando perdere il numero dei partecipanti (anche oggetto di ilarità). Ma ciò che
mi colpisce è che ci sono due funzioni fondamentali della rete, che sono strumenti decisivi di quel
rapporto nuovo e calzante del partito con lo Stato.
Il primo ruolo fondamentale della rete è quello che, tramite questa, il partito deve pretendere e
ottenere dallo Stato informazioni su obiettivi prefissi e risultati raggiunti a qualunque livello di
governo. Tramite la rete il partito deve potersi informare sullo stato di attuazione delle iniziative che
il governo ha intrapreso. Questo è il primo uso della rete che vediamo emergere in tutto il mondo. Il
partito deve lavorare su questo, perché la mia esperienza di governo ha riguardato dei casi nei quali
lo Stato ha prodotto informazioni. Mi dicono, però, che non abbiamo una naturale propensione a
spendere tempo per capire e confrontare delle situazioni diverse (se il Sindaco di un Comune ha
fatto meglio dell’altro Sindaco; quali sono le ragioni per cui la raccolta differenziata tra due Comuni
è diversa; il perché la qualità della cura dell’infanzia o dell’assistenza agli anziani non
autosufficienti sono diverse; come mai i tempi della realizzazione delle strade sono diversi).
Purtroppo questo non è il modo tradizionale di funzionamento del nostro partito: non abbiamo
questa voglia di introdurre cooperazione e competizione territoriale.
Faccio l’esempio dell’Aquila: il Sindaco Cialente mi ha detto che vado dicendo che a L’Aquila non
c’è il PD. E io: “A L’Aquila ci sei tu che sei il Sindaco”. Questa città è un caso interessante, in cui il
Sindaco viene a trovarsi solitario nell’esercizio della sua funzione e il partito non c’è come
infrastruttura della società. La gravità dell’assenza del partito come organizzazione della società assenza non degli eletti che ci sono sempre stati e sono stati anche di valore - la si è sentita,
soprattutto nella drammatica fase della ricostruzione a-democratica dell’Aquila. E poi questa
assenza l’ho avvertita io, quando da una ricostruzione a-democratica siamo passati ad una
ricostruzione democratica. Non c’era il partito quando la cittadinanza pretendeva da me (Ministro
preposto) i dati e le informazioni sull’avanzamento della ricostruzione. Dove stava il partito
avvertito dalla società come un suo organo flessibile? Non c’era. E c’era un piccolo partitino, una
minuscola organizzazione straordinaria che ha avuto più peso del PD: si chiama “Appello per
L’Aquila”. Ha un consigliere in Consiglio Comunale ed ha svolto un ruolo di infrastrutturazione
della società; ha fatto passare norme in Consiglio, ha scritto cose pesanti, ha attaccato quello che
facevamo. Certo, è uno di quelli che si impegna, che sta dietro alle cose e che ha il coraggio di dire
quando non può mantenere le promesse. Questo è il ruolo che un partito deve svolgere nei confronti
dello Stato.
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Ma la rete serve anche ad un’altra cosa fondamentale per il partito, cosa che io mi auguro e che il
Segretario Epifani ha annunciato. La cosa è che la rete diventi presto patrimonio di tutto il partito.
La rete è lo strumento attraverso il quale ogni unità territoriale del partito può scoprire cosa fanno le
altre unità territoriali del partito. Può scoprire se in un altro territorio si sta affrontando il probema
di un termovalorizzatore e capire come lo si sta affrontando, quali practices si sono adottate. La
condivisione di pratiche è una funzione fondamentale nella società moderna. E’uno strumento
potentissimo; mi viene in mente, ad esempio, ciò che mi ha detto una compagna milanese iscritta
anche ad Amnesty International: “Io sono iscritta ad Amnesty e al PD e la differenza tra le due è
una sola. Quando faccio qualcosa per Amnesty carico i dati del mio lavoro sul web e, grazie ad un
programma particolare, io sono in grado di vedere i risultati del mio lavoro e di tutti gli altri che
lavorano: posso vedere contemporaneamente i risultati di tutti perché ognuno carica i propri dati;
ma nel Partito Democratico no”. La rete che ci interessa è quella che non esaurisce il confronto:
perché quelle dieci pratiche che si sono annusate, si incontreranno, saranno discusse; perché la rete
non è un luogo di confronto, non è un luogo dove si compongono conflitti, non è un luogo dove
avviene innovazione. Ma è un luogo in cui apprendi quali sono gli altri luoghi dove avvengono cose
importanti.
Mi è stato chiesto se sono pronto. Sono pronto a discutere, sono pronto ad ammettere la mia
conoscenza parziale; è una conoscenza che viene dall’aver amministrato, dall’avere governato,
dall’avere visto i partiti o, meglio, l’assenza dei partiti dal lato dell’amministrazione del governo. E
sono disposto, se le condizioni si creeranno, a fare quello che ho già detto, cioè a fare squadra.
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