Emilio Tadini

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Emilio Tadini
Emilio Tadini
La gente
Forse, lasciandoci un po’ andare — ma neanche tanto — la città di Novij Urengoi la
potremmo anche battezzare, qui, adesso, con il nome di “Fortezza dei Valori’ Un nome
altisonante, d’accordo. Ma non in appropriato.
Questa città sembra davvero una fortezza tirata su davanti al Niente — davanti a quella
clamorosa apparizione del Niente sontuoso e insensato che si dà nella dismisura del
paesaggio, nella dimensione sbalorditiva della tundra quale precipita improvvisamente, di
colpo, appena finite le ultime case. (Novij Urengoi è una delle pochissime città al mondo,
io credo, che non abbia periferie né “dintorni”).
Mi sembra che qui, senza clamore, del tutto semplicemente, normalmente, si opponga, al
Niente, un progetto. E dunque un senso concreto. Accade spesso, accade in tante altre
città, con altre cose costruite dall’uomo, certo. Ma qui tutto sembra più manifesto e chiaro,
più semplice, assolutamente indiscutibile.
Questa specie di fortezza è dotata di tutto un sistema di avamposti. Sono le stazioni di
pompaggio della Gazprom, perdute nel vuoto, verso il nord. Lì, senza volerlo, la Tecnica
tocca l’Estetico. Pareti scintillanti di alluminio, aeree strutture di tubi... A vederle sotto la
luce del sole, limpida, abbagliante, ti fanno sentire su un altro pianeta.
In quegli avamposti, chiusi per ore, per giorni, per settimane, dentro cabine di metallo,
vivono, a turno, anche nel cuore più oscuro e più gelido dell’inverno siberiano, i tecnici, gli
operai.
E grazie a questi tecnici e a questi operai che mezza Europa è in grado di scaldarsi, di
cucinare. Insomma, è anche grazie a questa gente e alloro lavoro — un lavoro davvero
durissimo — che dal buio e dal gelo ci vengono fuoco e calore.
Non è una immaginetta edificante, questa. È la pura e semplice verità. E questa verità
potrebbe indurci a pensare che la famosa globalizzazione di cui tanto si parla non prende
corpo e non va considerata soltanto nell”assoluto” di qualche struttura finanziaria estesa
su tutto il pianeta.
Sono venuti da tutte le parti della Russia, per lavorare a Novij Urengoi, fin da quando
hanno tirato su le prime baracche. Occhi azzurri e capelli biondi, occhi e capelli neri,
giganti, ometti... Ogni tipo di uomo e di donna. (Con una percentuale molto alta, bisogna
dire, di ragazze e ragazzi bellissimi).
Ci sarà di tutto, qui. Ogni tipo di carattere e di attitudine, credo. Ogni tipo di morale e di
cultura individuale. Nel bene e nel male. Dai santi ai tagliagola, probabilmente, passando
attraverso tutte le sfumature, e compresa una massa di gente del tutto “normale”. Proprio
come in ogni altra città di questo mondo. Non sarebbe giusto abbandonarsi a qualche
esaltazione di maniera, generica quanto patetica. Ma è anche vero che — forse, per dove
e per come vivono e per il lavoro che fanno — gli abitanti di questa città sono, in qualche
particolare, diversi dagli abitanti di tante altre città.
Prima di tutto, certo, la forza eccezionale, la vera e propria violenza di quella che noi
chiamiamo “la natura”.
L’orizzonte praticamente illimitato. E il grande freddo, il grande buio.
E poi l’isolamento. L’isolamento nella immensità della tundra — e anche l’isolamento cui
questa gente è costretta dalla necessità di vivere gran parte dell’anno in ambienti chiusi.
(Quando il freddo supera i quaranta, cinquanta gradi sotto lo zero, andarsene in giro
diventa davvero complicato).
Per reagire a tutto questo, per metabolizzarlo, gli uomini e le donne che vivono e lavorano
qui è come se cerassero — forse istintivamente — di intensificare le loro relazioni con la
natura e con i loro simili: è un po’ come se fossero portati a cercare di caricarle di valore,
quelle relazioni, a cercare di dar loro un senso un po’ più forte.
Ma si potrebbe anche dire: è quasi come se, qui, sullo spalancarsi di questa scena
immensa, ogni atto, anche minimo, non potesse evitare di essere rappresentato.
(Rappresentare qualcosa vuol dire, letteralmente, “installare qualcosa nel presente,
istituirla nel presente, custodirla nel presente”).
Forse era soltanto una mia impressione, forse stavo facendomi suggestionare dalla
strepitosa eccezionalità del luogo e della situazione. Ma mi vengono in mente cose da
poco, proprio minime — che pure allora mi sembravano piene di significato. Che ancora
adesso mi sembrano piene di significato.
Niente, per esempio mi vengono in mente certe piccole figure di uomini, di donne, viste da
lontano, verso sera, piccole sagome nere sullo sfondo vertiginoso della tundra. Quel
contrasto clamoroso tra la loro piccolezza e l’enormità del mondo... E, insieme, quella
specie di decisione, quella volontà ostinata che mi sembrava si manifestasse anche
nell’atto del tutto normale e apparentemente insignificante di portare a spasso il cane nei
prati intorno alla città — propio lì, lungo quella specie di frontiera, ai confini precipitosi e
soverchianti del Niente...
E mi viene in mente anche una festa di nozze. Certo, era evidente, tutti si comportavano
più o meno come ci si comporta dovunque, in una situazione del genere. Ma, per come
parlavano e si muovevano, mi sembrava di sentire anche il darsi di qualcosa che forse
potrei cercare di indicare con queste parole: “un piccolo, deliberato eccesso di rispetto,
manifestato, per le forme”. Qualcosa che portava quegli uomini e quelle donne molto
giovani non solo ad abbandonarsi liberamente alla gioia, all’allegria di quella circostanza,
come tutti i giovani del mondo, ma anche a celebrare — a mettere in scena — una specie
di minimo rito laico. Una forma in qualche modo istituzionalizzata. Una specie di
figurazione riconoscibile — tramandata e tramandabile — per riconoscere un momento del
tutto particolare del vivere sociale e, insieme, per rendergli omaggio. Forse anche per
trarre, da quella operazione, un po’ di sicurezza. (Noi, fateci caso, è come se si fosse
sempre più imbarazzati, con le cerimonie. Tante volte sembra quasi che si voglia
continuamente far capire che non ci si crede affatto).
E mi vengono in mente anche le ore passate in mezzo alla tundra, ospiti di una
piccolissima tribù di nomadi. Eravamo partiti, per cercarli, a bordo di un grosso elicottero.
AI circolo polare artico l’elicottero era atterrato di traverso sulla strada che si perdeva
all’infinito in entrambe le direzioni. Avevamo bevuto qualche bicchiere di vodka o di vino.
Siccome avevano dimenticato il cavatappi, uno dei nostri accompagnatori, un geometra,
un uomo grande e grosso, aveva spinto il tappo dentro la bottiglia con un dito. Poi
eravamo ripartiti. Dopo un pò dai finestrini dell’elicottero, avevamo visto le tende, sulla riva
di un fiume. Sembravano quelle degli indiani nei film. L’elicottero era atterrato. Eravamo
rimasti lì tre ore, a parlare con i nomadi attraverso l’interprete russo. Al centro di un gruppo
di tende, appesa per una fune ai vertici legati insieme di tre pali piantati nel terreno in
modo da formare un triangolo, dondolava, al vento leggero, una culla. Ogni tanto, uno dei
ragazzini della tribù andava lì, sollevava il panno che copriva la culla e si assicurava che il
bambino, dentro, stesse bene. Non lo facevano soltanto suo fratello, o sua sorella. Lo
facevano tutti i ragazzini, a turno. Poco lontano, si vedeva qualche slitta di legno mezzo
sfasciata lasciata per sempre vicino alla tomba del suo proprietario. Questi sono i loro
cimiteri. Che segnano anche il luogo dove prima o poi, nei loro spostamenti attraverso la
tundra, un anno o l’altro finiranno per tornare. Uomini e donne avevano facce orientali,
pelle scura, rughe fitte, profonde. C’era il traduttore, certo, ma non era soltanto per la sua
bravura che sembrava così facile capirci, capire il senso di quello che ci si diceva, tra loro,
nomadi della tundra e noi, arrivati il giorno prima dall’Italia. Avevano appena pescato un
grosso pesce. Una donna gli aveva tolto squame e pelle, lo aveva fatto a piccoli pezzi. Lo
avevamo mangiato passando ogni pezzo su un mucchietto di sale grosso, su una tavola
posata per terra. Aveva un sapore molto forte, buonissimo. Loro avevano indosso giubboni
di cuoio piuttosto spesso, con i guanti che pendevano all’estremità della manica. “C’è un
capo?” avevo chiesto a una donna. Aveva una faccia rugosa ma giovane, un modo di
guardare molto intelligente. Mi aveva indicato un vecchio dai capelli bianchi, lunghi. “Il
capo è lui. Ma le cose importanti, come quando dobbiamo spostare l’accampamento o
mandare le renne al nord, le decidiamo quasi sempre insieme”. Io le avevo detto: “Credo
che anche lei qualche decisione la prenda, e abbastanza spesso — no?” Lei aveva fatto
un sorriso — un pò imbarazzato ma con eleganza, e un po’ di complicità. Ci si intendeva,
mi sembra, come se ci si conoscesse da molto tempo. Dopo qualche ora siamo risaliti
sull’elicottero e siamo partiti. Tra poco, lì, le giornate si sarebbero accorciate e avrebbe
incominciato a fare sempre più freddo, più buio. In fondo, se adesso penso a quegli
uomini, a quelle donne — e naturalmente anche a quei ragazzini che intanto che
giocavano sorvegliavano l’ultimo nato della tribù — mi sembra che non ci sia neanche
bisogno di dire “Che coraggio, a vivere così!’ Ho voglia di ricordare le loro facce e i loro
modi, le parole che abbiamo scambiato senza dover fare nessuna fatica, e quella loro
tranquillità, e basta.
Mi vengono in mente anche gli interni di certe case, a Novij Urengoi, piuttosto piccoli, e mi
vengono in mente le tovaglie colorate, le tende ricamate alle finestre, i cuscini disposti con
cura. (Sempre, evocato in tutti i modi, compresi quelli del decoro più comune si chiamava
in scena, anche lì, il fantasma dell’estetico. Come dovunque — quali che siano le forme
usate). Mi veniva da pensare alle luci, nei paralumi, accese, nella notte interminabile
dell’inverno, le finestre sigillate, e la televisione, con le sue immagini di un mondo
lontanissimo, e il ronzio dei computer...
Mi viene anche in mente che, forse, chi abita un giorno, un anno dopo l’altro in questo
luogo, non può mai rimuovere interamente il peso e anche la responsabilità della sua
particolarissima condizione. Può sentirsi del tutto normale, e fare cose normalissime, ma
dentro di lui, da qualche parte, deve agire il pensiero di quel confronto che bene o male lo
impegna di continuo, lì, di fronte allo strapotere del tempo e dello spazio — di fronte alla
violenza, così spesso terrificante, della “natura”.
Così, dopo tanta emozione e tanta confusione, un povero e grandioso “comunque” — un
quotidiano, trionfale “nonostante tutto” — finisce per comporre, nella mia testa, il motto
scritto sul biasone immaginario e orgoglioso di questa città.
Spero di poterci tornare, a Novij Urengoi. E naturalmente mi piacerebbe poterci tornare
con gli stessi amici.
Emilio Tadini