Editoriale - Anteo Edizioni
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Editoriale - Anteo Edizioni
EDITORIALE EDITORIALE Dove la Luna viene a giocare C omposto da Ary Barroso nel 1939, Aquarela do Brasil è forse il brano più conosciuto della musica brasiliana. Nel corso degli anni è stato reinterpretato da tutti i più grandi artisti del Paese: Toquinho, Gilberto Gil, Caetano Veloso, João Gilberto e molti altri. Si tratta di un canto trasognante, denso di solitudine ma anche di speranza, di umiltà ma anche di fierezza: una amalgama di sentimenti contrastanti, radicati nell’animo umano più profondo, che caratterizza da sempre le sonorità del Brasile. La drammatica povertà che ha segnato per lunghi periodi la storia, quasi bicentenaria, di questa gigantesca nazione del Sud America, ha intaccato e condizionato a tal punto il vissuto di decine di milioni dei suoi abitanti, che ancor oggi in Brasile sembra molto difficile poter parlare di un vero e proprio tessuto sociale, almeno nel significato che questo riveste nella nostra società occidentale. Le grandi diseguaglianze, il degrado, gli scontri sociali, la dura repressione, la criminalità e la violenza hanno contraddistinto gran parte della storia politica nazionale in un XX secolo durante il quale, pur tuttavia, il Paese ha raggiunto altissimi livelli di sviluppo economico, che lo hanno portato a scalare velocemente la classifica mondiale, sino a raggiungere l’ottavo posto in assoluto. Senza dubbio, rimane questa la contraddizione più grande di una nazione che per decenni non è mai riuscita ad assurgere davvero al ruolo di potenza mondiale, malgrado le grandi opportunità del suo territorio e la vantaggiosa posizione geografica di cui gode. Soltanto a partire dall’affermazione elettorale del presidente-obrero Lula nel 2002, infatti, il Brasile ha potuto cominciare a programmare la sua trasformazione, proiettandosi definitivamente nel XXI secolo. Dopo la conquista dell’indipendenza nazionale (1822), nei rapporti e nei modi di produzione restarono ben visibili le tracce del vecchio sistema coloniale portoghese. Il commercio degli schiavi cominciò a scomparire intorno alla metà del XIX secolo, ma lo schiavismo, come ignobile forma di proprietà dell’uomo sull’uomo, fu abolito soltanto con la Lei Áurea del 1888, appena un anno prima del crollo dell’Impero. Analogamente a quanto avvenuto negli Stati Uniti ventitré anni prima, l’abolizione della schiavitù univa nobili principi umanisti a “meno nobili” logiche di mercato che, sulla spinta economica della Seconda Rivoluzione Industriale, richiedevano il progressivo abbandono del vecchio sistema produttivo, chiuso e concentrato sulla manifattura, in favore dello sviluppo tecnico, infrastrutturale e finanziario. Il moderno capitalismo brasiliano ha tuttavia mantenuto caratteristiche di sfruttamento e disparità che furono soltanto parzialmente mitigate dalla nascita della Repubblica, proclamata in seguito al golpe del maresciallo Manuel Deodoro da Fonseca che depose l’Imperatore Pedro II. Dopo molti anni di instabilità ed incertezza sul futuro, fu Getúlio Vargas a prendere in mano il potere politico nel 1930, promuovendo, sebbene a fasi alterne, l’evoluzione del Paese sino al 1954, quando decise di togliersi la vita. Eppure, al suo “leaderismo” nazionalpopolare, comunque foriero di grandi innovazioni nel campo della legislazione sociale e dello sviluppo repubblicano, non fece mai seguito un ulteriore riformismo democratico, capace di coinvolgere e rappresentare pienamente la popolazione nel processo decisionale a tutti i livelli. A partire dalla metà degli anni Sessanta, la modernizzazione avviata dai laburisti nei tre decenni precedenti fu incanalata, con la complicità statunitense (operazione “Brother Sam”), verso la peggiore direzione possibile, cioè quella di una dittatura militare priva di scrupoli, similmente a quanto sarebbe presto avvenuto in altri Paesi del Sud America. Il processo di democratizzazione del Brasile cominciò soltanto nel 1985 con Josè Sarney, ma la linea liberale, confermata dall’esito elettorale del 1989, pur mantenendo alti i tassi di crescita, non avviò efficaci riforme in grado di ammortizzare l’urto di quella reaganomics mondiale meglio nota col nome, senz’altro improprio, di globalizzazione. 03 EDITORIALE L’intensificazione della liberalizzazione dei servizi, la separazione sempre più marcata tra l’economia reale e la finanza, e le privatizzazioni di alcuni tra i più importanti settori strategici, fino ad allora di competenza quasi esclusiva della sfera pubblica, rallentarono bruscamente i ritmi di crescita fatti registrare negli anni Settanta. La forte rigidità sociale, ereditata dal regime militare, e l’assenza di un solido ed efficace impianto di Welfare provocarono un arretramento importante sul piano produttivo e una preoccupante cristallizzazione della sperequazione sociale. Segnato da un corso politico neo-liberale, il Brasile democratico non solo non era preparato ad immergersi nel nuovo scenario mondiale sorto dopo la fine della Guerra Fredda, ma ne subiva immediatamente le più pesanti conseguenze. In meno di cinque anni il Plano Real, approvato nel 1994 all’insegna di una maggiore rigidità del tasso di cambio e di altissimi tassi di interesse per gli investitori stranieri, tenne a bada gli eccessi di rialzo di un’inflazione (scesa drasticamente all’1,65% nel 1998) da sempre incombente in un contesto storicamente segnato da pesanti squilibri nel rapporto tra produzione e consumi, ma attirò capitali stranieri per lo più speculativi, portando il debito estero vicino alla cifra record di 190 miliardi di dollari. La crisi economica mondiale esplosa nel 2008 ha dimostrato con evidenza che il modello di sviluppo occidentale, ritenuto infallibile dai suoi principali artefici e teorici, presenta gravi limiti strutturali. La compressione degli ammortizzatori sociali e la riduzione ai minimi termini del ruolo dello Stato nel processo decisionale macro-economico hanno provocato e stanno provocando seri dissesti in tutti i Paesi del mondo che hanno declinato il ruolo del mercato secondo il paradigma del liberismo puro. La 04 ricetta del Partido dos Trabalhadores (PT), invece, attraverso la carismatica figura di Lula, ha riportato al centro del dibattito la questione sociale, come perno di una riflessione politica più estesa che coinvolge il campo internazionale nella sua globalità e l’intero processo di definizione dei meccanismi che regolano il commercio e gli investimenti (WTO), senza mai scadere in una sterile retorica antagonista e radicale. Infatti, sebbene il Forum Sociale Mondiale abbia svolto, almeno sul piano mass-mediatico, un ruolo di rilievo in quell’epocale momento di critica e revisione storica, il carattere utopista e a volte contraddittorio delle istanze e delle rivendicazioni no-global sorte a Porto Alegre, ha dovuto cedere il passo alla realpolitik di un Lula molto più pragmatico e concreto di quanto potesse apparire negli anni in cui animava l’opposizione all’ex presidente Fernando Henrique Cardoso. La miscela tra politiche finalizzate a stimolare le imprese e misure di contrasto al disagio sociale hanno dato i loro frutti. Dal 2003 circa 35 milioni di brasiliani sono stati tirati fuori dalla povertà, i piani di sviluppo industriale e infrastrutturale per il Nord del Brasile hanno ristretto il divario tra le regioni meridionali (più ricche) e le regioni settentrionali (più arretrate), i massicci investimenti in decisivi programmi sociali quali Bolsa Familia, Minha Casa, Minha Vida e Luz para Todos sembrano non aver appesantito in modo eccessivo i conti pubblici, mentre il mercato dei capitali è diventato sempre più solido grazie ad un’equilibrata interazione tra aziende nazionali e aziende straniere. Tra queste, il ruolo delle imprese italiane è in fase espansiva, anche per effetto di meccanismi giuridici che uniscono facilitazione e trasparenza, con un accento logicamente posizionato sulla produzione in loco, evitando gli squilibri del passato. Fiat, Intesa San Paolo e Pirelli continuano a confermare la loro fiducia nel mercato brasiliano, un bacino di oltre 203 milioni di consumatori che oggi, grazie alle politiche sociali del governo, godono di un potere d’acquisto più alto e, soprattutto, più diffuso che in passato. Soltanto nel recente biennio 2013-2014, la contrazione del PIL ha lanciato un primo vero allarme, recepito con timore dai brasiliani. I picchi di crescita del 7,5% o del 9,3% raggiunti tra il 2007 e il 2010 restano lontani ricordi e, probabilmente, continueranno ancora ad esserlo per diversi anni. Ciò che più preoccupa in questa specifica fase è il trend negativo che ha caratterizzato il 2014, anno in cui i grandi investimenti del governo per i Mondiali di calcio non hanno evidentemente sortito gli effetti sperati, o almeno non lo hanno fatto nell’immediatezza dell’evento. Alla fine del 2014 è stato lo stesso Banco Central do Brasil a rivedere le stime di crescita al ribasso, calcolando un tasso dello 0,2%, contro lo 0,7% previsto in precedenza, ma allo stesso tempo ha divulgato dati più edificanti per l’anno in corso (+0,6%). L’inflazione, vero tarlo dell’economia nazionale nel primo mandato presidenziale di Dilma Rousseff (2011-2014), durante il quale non è mai scesa sotto quota 5,4%, ha chiuso il 2014 con un tasso medio annuo pari al 6,33%, ma anche in questo caso la banca centrale si attende una progressiva diminuzione al 6,1% nel 2015 e al 5% nel 2016, con l’obiettivo dichiarato di tornare a livelli vicini a quelli del 2006 (4,2%), entro i prossimi tre anni. Tuttavia, i toni che hanno caratterizzato la campagna elettorale del 2014 sembrano aver travalicato i limiti della critica e del dissenso legittimo, assumendo dimensioni esagerate e dando fiato alle trombe di un’opposizione che per mettere seriamente in discussione l’ampio consenso elettorale di Dilma Rousseff, al secondo turno ha dovuto unire l’impossibile in un innaturale matrimonio tra il conservatore Aecio Neves e l’eco-socialista Marina Silva. Dilma Rousseff, però, ce l’ha fatta ancora e, tra tante difficoltà, ha ottenuto la riconferma. Nella scelta dell’elettorato brasiliano che l’ha votata, potrebbe aver pesato ciò che la sua coalizione di governo è riuscita a fare complessivamente negli ultimi dodici anni piuttosto che i risultati effettivamente raggiunti durante la sua prima legislatura ma, a differenza di Lula, la Rousseff prese in mano le redini del Brasile nel momento più difficile per l’economia mondiale, nel pieno della crisi globale, e questo senz’altro la assolve dalle accuse più forti. L’equilibrio con cui ha saputo affrontare i momenti più difficili per la stabilità sociale del Paese, la risolutezza nella pianificazione di progetti infrastrutturali che stanno cambiando il volto delle aree del Nord e del Nord-Est, la determinazione mantenuta durante alcuni recenti confronti “a nervi tesi” con gli Stati Uniti ed Israele, e la sensibilità mostrata rispetto alla questione femminile e all’infanzia ne hanno aumentato l’autorevolezza internazionale. Ora dovrà dimostrare la sua forza e mettere in pratica tutte le sue capacità per affrontare al meglio questo nuovo mandato sino al 2018. Solo così, la Luna, parafrasando Ary Barroso, potrà tornare a giocare in Brasile. Andrea Fais Direttore Responsabile 05
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